Infausti anniversari

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2019

Ragguaglio sull’agonia della lettura

“Questi risultati ci preoccupano perché è un problema che ci trasciniamo da troppo tempo. Se ora non interveniamo rischiamo di pregiudicare il futuro di una generazione. I dati non sono particolarmente diversi da quelli che abbiamo visto nella precedente rilevazione, ma sono molto peggiori di quelli di una ventina di anni fa. Se paragonati al Duemila si denota una significativa diminuzione della capacità di apprendimento dei giovani. Stiamo risentendo di un paio di decenni di poco interesse sull’istituzione scolastica. Serve un’inversione di tendenza importante: bisogna tornare a parlare di scuola, tornare a volergli bene, rafforzando anche il ruolo degli insegnanti”. (Lorenzo Fioramonti, ministro dell’Istruzione, commentando i risultati dell’indagine Ocse-Pisa 2018)

È un discorso che ho già sentito, più di una volta. Non ultima, in occasione del progetto di cui sopra. Non è certo questione di tornare a “parlare di scuola”: se ne è parlato sin troppo, senza mai arrivare al dunque. Per questo è ridotta così. Quanto al volerle (e non al volergli!) bene, passa appunto per il riconsiderare il ruolo degli insegnanti. E qui ci areniamo subito su un banco di sabbia. Questo è un paese nel quale il passaggio di cattedra dalla primaria alla secondaria superiore si ottiene con un corso-farsa di quaranta ore, magari per andare a insegnare matematica, filosofia o lingue, e dove ad auspicare una verifica periodica del livello di preparazione e di competenza dei docenti – e magari anche un accertamento psicologico, visto che il loro rischio di burnout ( che sarebbe il surriscaldamento cerebrale) è tre volte superiore a quello di qualsiasi altra categoria – ed una selezione che ne consegua, si viene tacciati d’infamia. Ma è anche il luogo dove la filosofia “aziendale” inaugurata dalla riforma Moratti e perseguita da tutte quelle successive, quella per la quale il cliente ha sempre ragione e i risultati si misurano sul suo gradimento, ha creato condizioni impossibili per l’insegnamento anche ai docenti più motivati.

Concentriamoci però per il momento sulla fattispecie che ha dato origine a questo pezzo, la disaffezione alla lettura. A distanza di due decenni i nodi del problema non sembrano granché cambiati, se non nel senso che lo sfascio è andato oltre le più fosche previsioni. Si scrive sempre di più, si pubblicano troppi libri, si legge sempre di meno. L’analfabetismo di ritorno dilaga. Sono cambiati invece, e parecchio, i fattori: a far concorrenza alla lettura non ci sono più solo il cinema o la televisione, sono subentrati altri media, assai più insidiosi. Che non hanno soltanto distratto dalla lettura, ma ne hanno modificato le modalità stesse, così come hanno modificato quelle della scrittura, facendone attività completamente altre rispetto a quelle tradizionali. La scrittura e la lettura si sono aperte a un numero infinitamente più grande di utenti, in teoria si sono “democratizzate”: nella realtà hanno perso quei caratteri (l’articolazione, la complessità) che ne facevano gli elementi chiave della formazione, della conservazione e della trasmissione delle conoscenze, e che agivano direttamente sul nostro cervello nella creazione dell’intelligenza.

Oggi si legge anche su supporti diversi dal libro, sul tablet, sul pc, sul lettore di ebook, sugli smartphone: ma già questo, di per sé, induce con lo strumento una consuetudine diversa, di ordine fisico oltreché mentale, che si riverbera poi anche sul testo: ciò che scorre su uno schermo, tattile o meno, rimanda a qualcosa di volatile, di superficiale. Appare destinato ad essere immediatamente spazzato via da altro, da ciò che lo circonda o da ciò che lo seguirà immediatamente. Ne riparleremo.

Prima fornisco qualche aggiornamento sulla situazione della lettura, nella scuola e fuori. Mi baso su dati concreti, e parto da quelli ufficiali relativi all’Italia, che tengono conto di tutte le diverse modalità di lettura. Non sono un appassionato delle indagini statistiche, ne conosco i limiti oggettivi e i rischi di manipolazione, ma penso comunque che rimangano al momento lo strumento più affidabile per misurare la temperatura culturale di un paese. E che quando segnalano stati permanenti di alterazione non ci si possa nascondere dietro i se e dietro i ma: un qualche allarme devono destarlo.

Dunque: il nostro paese è agli ultimi posti in Europa nella classifica dei lettori (inchiesta del Global English Editing). Nel 2018 solo il 40% degli italiani ha letto almeno un libro nel corso dell’anno. Nell’Italia meridionale il numero si riduce ancora, scendendo al 27,5%. Per avere dei termini di confronto, la percentuale è del 90% in Svezia, dell’82% in Danimarca, dell’80% nel Regno Unito, del 79% in Germania, del 73% in Francia e dell’86% nei Paesi Bassi. Non mi si obietti che i primi sono paesi freddi e noiosi, dove per nove mesi l’anno le alternative alla lettura sono ben poche, perché in India, dove tanto freddo non fa e la natura è più rigogliosa che da noi, il tempo settimanale mediamente dedicato alla lettura (oltre dieci ore) è esattamente il doppio che in Italia (cinque ore). Per non parlare della Cina, dove la media è di quattro o cinque libri letti ogni anno per abitante (e sono un miliardo e mezzo). Il caso India smentisce poi anche l’altra immancabile obiezione: che i libri siano troppo cari, e quindi sia una questione di spesa. Palle. Il reddito medio pro capite degli indiani è cinque volte inferiore a quello degli italiani, ma leggono due volte di più.

Non è finita qui. I dati degli ultimi venti anni relativi al nostro paese parlano di una crescita della percentuale di lettori nel primo decennio del nuovo secolo (dal 41% al 47 % tra il 2001 e il 2010), e di una discesa quasi in picchiata negli ultimi otto anni. Non credo proprio c’entrino per la prima fase i progetti di incentivazione alla lettura, e il loro naufragio per la seconda: anche se il calo concerne per l’appunto soprattutto le fasce più giovani. In soli tre anni, dal 2015 al 2016, la quota di lettori tra i quindici e i diciassette anni è diminuita dal 53,9% al 42,1%. E anche tra i venti e i ventiquattro anni si è scesi dal 48,9% al 44,7%. Nella loro aridità, e pur rendendo conto solo dell’aspetto quantitativo della lettura, questi numeri ci dicono parecchio.

Per dare un po’ di soddisfazione alle mie amiche sottolineo che per fortuna, ad evitarci di scendere dagli ultimi posti continentali a quelli mondiali, ci sono le donne. Sono loro le lettrici più forti, sia pure relativamente: il 47,1% legge almeno un libro nel corso dell’anno, contro il 33,5% dei maschi, e il 15% ne legge in media uno al mese, contro il 12,6% degli uomini. E non c’entra la disponibilità di tempo (altra possibile obiezione cretina): lo dimostra il fatto che il 58,7% delle ragazze tra gli undici e i diciannove anni, quindi in età scolare e con impegni esattamente simili a quelli maschili, ha letto almeno un libro, mentre i loro coetanei sono solo il 38%. Quelle di diciotto e diciannove anni si avvicinano addirittura alle medie europee, ben il 70,2% (contro un misero 36,5% dei maschi), mentre quelle tra i quindici e i diciassette arrivano al 68,8% (i loro pari età si fermano al 42%). Non esiste una sola fascia d’età in cui i lettori maschi siano superiori alle lettrici femmine. Non che questo sia di qualche conforto, ma è un dato da considerare.

Ciò che maggiormente sconforta, però, è che nel quadro di un trend mondiale tutto sommato stabile, il nostro, che era già messo male prima, è tra i paesi che accusano un calo maggiore. E le conseguenze si vedono. Una recente indagine sui livelli mondiali di alfabetizzazione (è quella cui si riferisce il ministro), realizzata dall’ OCSE e consistente in sei questionari relativi alla lettura, alla scrittura e al calcolo, ha dato risultati spaventosi. Sui ventisette Paesi presi in considerazione, l’Italia si piazza penosamente ultima.

Le risposte erano valutate sulla base di cinque livelli crescenti. Bene, intanto il 5% degli italiani non ha raggiunto neppure il primo livello, ciò che significa che è letteralmente analfabeta (e si parla di oltre due milioni!), mentre al primo livello, ovvero a rischio di analfabetismo, si è fermato complessivamente (cioè compresi gli analfabeti “certificati” di cui sopra) il 42%. Stiamo dicendo che quasi un italiano su due è un analfabeta funzionale di primo livello. Al secondo livello si ferma un altro 39%: sommiamo ai precedenti e constatiamo che quattro italiani su cinque sono sotto la soglia della mediocrità culturale. Al terzo livello si trova il 18,8%. A raggiungere il quarto e il quinto livello di competenza linguistica e matematica è una sparutissima pattuglia. Un quadro desolante, che spiega meglio di qualsiasi trattazione sociopolitica perché siamo messi così male.

Per contro, se andiamo invece a considerare l’editoria, troviamo che l’offerta libraria è in continuo aumento (dati AIE 2018). Nel 2017 sono stati pubblicati in Italia 70.159 titoli, per la gran parte prime edizioni. Se tuttavia prendiamo in considerazione il numero di copie stampate (attorno ai centosessanta milioni di copie nel 2017) ci accorgiamo che mentre rispetto a vent’anni fa i titoli pubblicati sono aumentati di una volta e mezza, le copie stampate sono diminuite della metà. Il che sarà una buona notizia per le foreste, ma ha significati meno positivi per la lettura. Significa che la corsa a proporre novità continue per attrarre i consumatori e rispondere a tutti i gusti, sulla falsariga delle politiche di vendita attuate negli altri settori, sacrificando l’attenzione alla qualità, nel mercato librario non paga. E significa anche per i lettori una sempre maggiore difficoltà ad orientarsi entro un’offerta spropositata e invadente.

Quanto al piano dal quale sono partito, quello dell’età scolastica, abbiamo anche qui dei dati significativi (dati Istat del 28 dicembre 2018). Tra i sei e i quattordici anni bambini e ragazzi sono discreti lettori: il 48,5 circa di loro legge almeno un libro l’anno (nulla di paragonabile con i loro coetanei scandinavi, ma insomma), mentre tra i quindici e i diciassette come abbiamo visto la percentuale scende, e si allinea quasi a quella nazionale. Ora, non c’è dubbio che l’adolescenza sia un’età ingrata, di norma piuttosto stupida, e che nella testa dei ragazzi di quell’età circolino un sacco di cose che con la lettura hanno poco a che vedere: ma è altrettanto vero che nei loro coetanei scandinavi la consuetudine con i libri non viene meno, e questo perché è sapientemente coltivata. Ci sono poi senz’altro ragioni storiche, che rendono poco raffrontabili paesi in cui saper leggere era d’obbligo sin dalla fine del medioevo, non fosse altro per motivi religiosi, e nei quali il primo esempio e lo stimolo maggiore arrivano proprio dalle famiglie, col nostro, che non aveva ancora sconfitto l’analfabetismo mezzo secolo fa e nel quale il 60% delle famiglie ha in casa meno di cinquanta libri (ma la metà di queste non arriva nemmeno a dieci), e solo il 6% ne possiede più di quattrocento. Qui però non si parla più della difficoltà di attirare nuovi giovani lettori, qui si parla di un calo: quindi le ragioni del ritardo storico non sono più sufficienti a fornire la spiegazione. Deve esserci dell’altro.

C’è per intanto una chiara responsabilità della scuola. Gran parte del disamore giovanile per la lettura nasce direttamente nelle aule scolastiche. Per tanti motivi. Anche se resto dell’idea che i “progetti di incentivazione” non siano sufficienti ad affrontare il problema (in Italia, quando va bene lasciano il tempo che trovano) mi rendo conto tuttavia che l’inerzia totale che ha caratterizzato le ultime politiche scolastiche non solo non aiuta a risolverlo, ma nemmeno consente di arginarlo o anche soltanto di inquadrarlo. I progetti in realtà, se impostati come si deve, qualche risultato lo danno. Dodici anni fa la Spagna, che navigava in acque politiche ed economiche ancor meno tranquille di quelle italiane, ha preso di petto la questione, ha costituito una rete che ingloba (ma soprattutto impegna a darsi da fare) tutti gli attori del mondo del libro, dagli editori alle biblioteche ai librai, e ha come terreno di gioco proprio la scuola, ha varato una legge ad hoc (il “Plan de fomento de la lectura”) e in un decennio è passata da percentuali simili alla nostra ad un 60%. Guarda caso, il successo di quel progetto ha coinciso con la scoperta e il lancio a livello internazionale di una schiera di autori di ottimo livello, che a partire da una particolare attenzione per la storia patria, tutta da ripensare dopo i quarant’anni di coma franchista, hanno sfornato opere in grado di sfidare in ogni campo il monopolio della narrativa di lingua anglofona (i cinque titoli più letti in Spagna nel 2018 erano tutti di autori spagnoli). Lo stesso sta avvenendo per le letterature scandinave, sia pure per motivazioni diverse. Tra l’altro, il numero di titoli pubblicati dalle case editrici spagnole è di pochissimo superiore a quello italiano, per un mercato quasi nove volte più ampio (i parlanti in lingua spagnola al mondo sono circa 520 milioni). Ciò significa aver operato una selezione intelligente e offrire al pubblico una produzione capace non solo di attrarre, ma di abituare e incentivare alla lettura.

Torniamo però alla nostra scuola. Da cosa nasce la disaffezione dei ragazzi? Certo, in primo luogo dall’effetto di distrazione operato dai nuovi media: ma anche da come il libro è usato nell’ottica famigerata del “programma”. Io non penso che non si debbano avviare e aiutare i ragazzi a leggere I promessi sposi, o la Divina Commedia: ma c’è modo e modo di presentare queste cose. Già il diluire in un’ora di “lettura guidata” settimanale le disavventure di Renzo e Lucia è insensato e controproducente: lascio immaginare quanto lo sia un triennio in compagnia di spezzoni danteschi. Personalmente ho dovuto attendere vent’anni prima di decidermi a riprendere in mano quei testi, e a proporli con una convinzione non prettamente professionale ai miei allievi. Ciò non mi ha impedito di diventare un lettore forte, anzi, probabilmente lo sono diventato perché ho cercato da subito qualcosa da contrapporre a quella che mi appariva come una pratica quasi punitiva. Insomma, quello che potrebbe riuscire stimolante, inizialmente magari solo a livello di esercizio enigmistico, nel confronto con la lingua, diventa con l’imposizione ripetitiva un vero deterrente. E appare comprensibilmente difficile che a rendere vivi questi autori possano essere docenti che a loro volta li hanno già odiati. C’è per contro anche il rischio che a vivacizzarli, ad attualizzarli troppo, si finisca per stravolgerne completamente il senso, la bellezza e la portata storica, e renderli ancor più indigesti.

Il fatto è che, al di là dei problemi spiccioli di competenza cui accennavo prima, noi paghiamo lo scotto di due atteggiamenti opposti che si sono storicamente succeduti, ottenendo gli stessi risultati negativi. Dapprima ha dominato un arroccamento intellettuale che potremmo definire di stampo crociano, ma che ha origine ben prima di Croce (e che comunque ha avuto una parte preponderante nelle politiche di organizzazione del nostro sistema educativo). Ne ho già parlato altrove: al fondo c’è la presunzione di appartenenza del letterato ad una dimensione quasi sacrale, alla quale si può accedere, come diceva di fare Machiavelli, solo dopo aver indossato i paramenti sacerdotali. Il che sarebbe persino in qualche misura giusto, se non si risolvesse in una celebrazione ritualistica da un lato e nello sprezzo per tutto ciò che resta fuori, che è profano, dall’altro. Per spiegarmi meglio: se ai tempi delle medie avessi confessato di adorare Salgari e Verne, e di trascorrere molte più ore settimanali di un indiano nella loro lettura, sarei stato redarguito e invitato a non sprecare il mio tempo. Per non parlare dei fumetti, che erano oggetto di totale scomunica. Ebbene, sono convinto che gli inglesi leggano molto perché hanno imparato ad amare la lettura su Lewis Carroll, su Stevenson e su Kipling, nessuno dei quali è stato mai bollato, a differenza di quanto accadeva qui da noi, come uno “scrittore per ragazzi”. Certo, tra Stevenson e Salgari c’è una bella differenza, ma il problema è che in Italia nessuno scrittore con le doti letterarie di Stevenson si sarebbe “abbassato” a scrivere di pirati. E comunque, entrambi ti facevano tenere gli occhi incollati ad un libro.

Il paradosso è che questo atteggiamento “elitario” è poi rimasto, di fatto, nei comportamenti dalle avanguardie contestatrici e decostruttrici della seconda metà del Novecento (il disprezzo crociano per la letteratura “borghese” è parente stretto di quello riservato alle “Liale” dalla cultura “impegnata”). Abbiamo assistito a cinquant’anni di dissacrazioni insensate, fini a se stesse, mai propositive di qualcosa che andasse bene o male a riempire i vuoti creati dall’opera di demolizione. E anche il venir meno della divisione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, che altrove è sempre stata risolta in una accezione molto più comprensiva ed elastica del significato del termine, da noi ha dovuto passare attraverso cerimonie di “riabilitazione” che conferissero a tutto l’imprimatur “culturale”. Si pensi ad esempio alla vicenda dei fumetti: ho smesso di leggerli, e con me lo hanno fatto in blocco le generazioni successive, quando hanno cominciato a spiegarmi quali ideologie o idealità stavano dietro i cazzotti di Tex. Lo stesso vale per le letture giovanili. Come possono appassionarti Il richiamo della foresta o Kim (cito questi perché nella letteratura italiana non c’è un equivalente, e neppure ci sono opere che possano essere adattate alla lettura giovanile, come I viaggi di Gulliver o il Don Chisciotte), quando nell’intento di “legittimarli” culturalmente te li propongono sezionati senza anestesia, così che possa distinguere se la voce narrante è intradiegetica o extradiegetica, e non confondere la fabula con l’intreccio. Che leggere possa essere anche qualcosa di normale, e che nel momento stesso in cui offre piacere trasmetta in automatico degli stimoli alla conoscenza e alla consapevolezza, questo nella scuola non passa.

Il caso inglese cui mi sono appellato ci porta però nel cuore del problema. Abbiamo visto come gli inglesi leggano il doppio rispetto agli italiani, e questi ultimi infatti hanno a guidarli Di Maio e Salvini e quella incredibile corte dei miracoli che siede al governo o in parlamento. Ma anche gli inglesi hanno Boris Johnson, e in alternativa Corbin, e non si può certo dire che quanto a rappresentanza politica stiano molto meglio. Bisogna chiedersi allora se il rapporto più o meno forte con la lettura ha ancora a che vedere con la consapevolezza civica. E se così non fosse, perché.

Forse occorre andare più in profondità. Oppure chiamare un’altra volta in causa Baricco, anche se a questo punto la mia potrebbe sembrare un’ossessione persecutoria, o un gioco astioso a impallinarlo. Non è così: al contrario. É che Baricco si presta perfettamente al discorso che sto facendo, rimane al momento uno degli interlocutori più qualificati: o quantomeno, è tra i pochissimi che si mettono in gioco e affrontano seriamente (dal loro punto di vista) l’argomento. Il fatto poi che mi trovi d’accordo con lui quasi su nulla non significa che non gli riconosca questo merito.

 

Sulle bariccate

Con il format televisivo Pickwick (significativo il sottotitolo: del leggere e dello scrivere), poi ripreso in Totem, portato a teatro e adattato in molte performance live, Baricco ha inventato una modalità di trasmissione della cultura in cui è possibile isolare dei frammenti di senso provenienti dal patrimonio della tradizione e declinarli in un linguaggio compatibile con la grammatica mentale dell’umanità presente […]”.

Baricco descrive il mondo in cui viviamo come il risultato di una rivoluzione, quella digitale, che non ha conquistato i luoghi tradizionali del potere e del sapere, li ha aggirati e oltrepassati scavandogli sotto dei tunnel, per andare a costruire al di là una nuova dimensione dell’esistenza, in cui molti di quei poteri e di quei saperi sono disattivati. Contrariamente a quanto vorrebbe il senso comune, questo mondo non è il prodotto di strumenti che ci si sono inspiegabilmente attaccati addosso. Un’umanità nuova, modellata da una rivoluzione mentale, da uno scatto cognitivo, ha creato gli strumenti che le servivano per modificare il mondo secondo le proprie esigenze. Un’esigenza soprattutto: smaterializzare la realtà, comprimerla e compattarla per renderla disponibile a una migrazione epocale nata come una fuga e figlia della paura. Fuga da dove, paura di cosa? Fuga dal Novecento, e paura della teoria di catastrofi che l’organizzazione mentale della civiltà novecentesca aveva prodotto” (Paolo Gervasi, A che gioco giochiamo? Perché Baricco ha ragione e noi dovremmo smetterla di fare quella faccia – dal blog Che fare)

Non so se Baricco abbia isolato dei frammenti di senso, può darsi, all’epoca non ci ho fatto caso. Pickwik mi piaceva, almeno inizialmente, e consigliavo ai miei allievi di seguirlo. Per me era il modo di raccontare libri che avrei voluto incontrare quando frequentavo il liceo, e al quale ho cercato di attenermi per tutta la mia carriera di insegnante. Poi ha cominciato a irritarmi, lo trovavo sempre più insopportabilmente lezioso, e avvertivo che la presentazione si stava sovrapponendo al libro, che questo stava diventando solo un pretesto, e che lo spettacolo si stava divorando anche la letteratura. L’ho considerata un’occasione sprecata, come si poteva già evincere dalla bozza di presentazione di vent’anni fa.

Ma non è di Pickwik che intendo parlare, quanto della successiva evoluzione del pensiero di Baricco. Perché, a dispetto della puzza al naso dei circoli alti della cultura italiana, credo che Baricco vada preso sul serio, in quanto si è fatto alfiere di un modo di pensare (forse per la maggioranza non proprio di pensare, ma senz’altro di sentire) molto diffuso e a mio parere assai insidioso.

Nel 2006 Baricco raccoglieva sotto il titolo “I nuovi barbari. Saggio sulla mutazione”, una serie di riflessioni pubblicate quotidianamente, per diversi mesi, su “La Stampa”, dando loro la struttura di un vero e proprio trattato e dichiarando apertamente l’ambizione di spiegare il cambiamento di cui tutti siamo testimoni, ma del quale nessuno riesce a comprendere i modi e il verso.

Per Baricco non stiamo assistendo alla trasformazione interna di una civiltà, al passaggio da una fase all’altra, ma ad una vera e propria rivoluzione, che sancisce il tramonto di un’epoca e prelude a quella successiva. A definire una civiltà sono i modi della percezione, dell’esperienza del mondo, soprattutto quelli relativi allo spazio e al tempo: e hanno naturalmente una fondamentale importanza i mezzi che rendono possibili e indirizzano questi modi. La civiltà che sta nascendo è caratterizzata da tecnologie totalmente innovative, le TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), che non si limiteranno a potenziare, magari in modo esponenziale, le nostre facoltà conoscitive, ma ne cambieranno, anzi, ne stanno già cambiando, l’utilizzo e i parametri. L’esperienza del mondo che i cosiddetti nativi digitali faranno, limitandosi alla sua superfice, sarà facilitata dall’eliminazione degli attriti dello scavo, dell’approfondimento, dello studio, e li porterà a dar vita ad un rinnovamento radicale della società, e quindi a tagliare i ponti con tutto quanto fino ad ora è stato considerato imprescindibile per qualsivoglia crescita, in qualsiasi ambito. Avviene alla fine di ogni epoca: i “barbari” che irrompono stravolgono le vecchie regole, le vecchie istituzioni, fondano nuovi modelli di convivenza.

Fin qui, quanto all’analisi, nulla da eccepire. In fondo Baricco non fa che mettere in chiaro ciò che tutti quanti, più o meno confusamente, già avvertiamo. E lo fa in maniera efficace: quando non si perde davanti allo specchio è un grande comunicatore. Il problema si pone invece allorché passa a trattare dell’atteggiamento da assumere nei confronti di questa trasformazione. Pur chiamandosene personalmente fuori, dichiarando di esserne inquietato quanto tutti noi, Baricco la considera ineluttabile: ritiene pertanto che, ci piaccia o meno, dobbiamo prepararci ad affrontarla e, per quanto possibile, a governarla. Parole sensate: solo che poi questo modo di governarla sembra ridursi un po’ troppo ad una rassegnata acquiescenza. Ma non si limita a questo. Se la prende con gli apocalittici, coi profeti di sventura che in effetti ad ogni trasformazione, sin dai tempi biblici, hanno vaticinato sciagure e disastri, mentre poi il mondo è andato avanti come e meglio di prima. E anche questo è vero, o lo è almeno dal punto di vista dei vincitori, ovvero dei barbari che periodicamente hanno affossato le diverse civiltà. Ma non lo è altrettanto per gli affossati: perché le sventure non sono state soltanto predette, per loro si sono concretamente verificate. Voglio dire che il passaggio dei barbari ha sempre lasciato cataste di cadaveri, e rovine fumanti e tesori dispersi, e un occhio di considerazione per tutto questo bisognerebbe averlo, anche augurandoci che nel nostro caso si tratti solo di immagini metaforiche.

È a questo punto che mi diventa impossibile seguirlo. Il ritenere che tutto debba essere sacrificato all’avvento del nuovo suona molto deterministico, molto hegeliano, per non dire staliniano (“per fare le frittate bisogna rompere le uova”). Quindi, non discuto il fatto che sia in atto una mutazione antropologica, e che i nostri nipoti sentiranno e vivranno in maniera molto diversa dalla nostra. Penso anch’io che le cose andranno così: ma rivendico almeno che la direzione che hanno presa possa non piacermi, e che io debba fare il possibile per ostacolarla, senza sentirmi un reazionario abbarbicato a idealità e valori “romantici e borghesi”, che nell’accezione di Baricco sta a significare obsoleti e ipocriti.

Perché poi è lì che Baricco vuole arrivare, pur fingendo tutte le cautele e persino qualche falsa nostalgia per il mondo che fu. Non voglio mettere sotto accusa le intenzioni, soprattutto non voglio fargli dire quel che non ha detto: ma devo evidenziare le contraddizioni. Verso la fine de “I barbari” scrive “Nella grande corrente, (occorre) mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo”. Verissimo: non fosse che ci ha raccontato sino ad ora il nuovo che avanza come una “fuga dagli orrori del Novecento”, e riesce difficile capire a questo punto cosa andrebbe recuperato dalle macerie.

Nel saggio che va a complemento del primo, “The Game”, pubblicato nel 2018, scrive: “L’insurrezione digitale è stata una mossa istintiva, una brusca torsione mentale. Reagiva a uno shock, quello del ‘900. L’intuizione fu quella di evadere da quella civiltà rovinosa infilando una via di fuga che alcuni avevano scoperto nei primi laboratori di computer science”. Quindi si evade da una “civiltà rovinosa” attraverso la breccia aperta dalla rivoluzione digitale: verrebbe da dire, dalla serpe che quella civiltà ha allevato in seno. Ma si evade per andare dove? Verso una filosofia della vita completamente nuova, che prevede “superficie al posto di profondità, viaggi al posto di immersioni, gioco al posto di sofferenza”. In altre parole: la cultura che sta emergendo dalla digitalizzazione del mondo non si fonda sulla discesa in profondità, alla ricerca del senso nascosto, ma sulla diffusione in orizzontale del nostro sguardo, delle nostre conoscenze, resa possibile proprio da un armamentario tecnologico che azzera i tempi e annulla le distanze. Il tema vero non è dunque in cosa consista la nuova cultura, ma come la si acquista e la si vive.

E qui Baricco esce allo scoperto. A suo parere la mutazione in corso si configura come un rifiuto della vecchia concezione “penitenziale” della cultura, alla quale viene contrapposta una concezione gioiosa e ludica. Da buoni “barbari”, i nuovi prediligono il movimento, “l’inseguimento del senso là dove è vivo in superfice”: ma un movimento soprattutto virtuale, visto che la “rivoluzione copernicana” di cui parla prevede “la dissoluzione della frontiera psicologica che separa come due momenti diversi dell’esperienza il mondo reale e quello digitale”. La superfice sulla quale si viaggia è quella dello schermo, del monitor, e non a caso la metafora della nuova realtà è il video-gioco: “Storicamente il videogame è uno dei miti fondativi dell’insurrezione digitale”.

In sostanza: “Il cuore della faccenda è lì: il resto è solo una collezione di conseguenze: la superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’approfondimento, la comunicazione al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione, il piacere al posto della fatica. Uno smantellamento sistematico di tutto l’armamentario mentale ereditato dalla cultura ottocentesca, romantica e borghese”.

Dunque, i nuovi barbari rifiutano l’eredità di un secolo scellerato, che ha conosciuto genocidi, massacri, stermini, intraspecifi e non: e il loro rifiuto passa innanzitutto per lo smascheramento di quell’anima (intesa in senso laico, borghese) che è per Baricco una creazione degli intellettuali romantici dell’ottocento, e in nome della quale, o quantomeno di una esasperazione e distorsione del suo senso, può essere giustificata ogni atrocità. Non che i soggetti della mutazione siano del tutto coscienti di questa motivazione (questo Baricco lo concede): piuttosto sono mossi da una paura istintiva di ripetere i disastri provocati dalle generazioni precedenti, e di esserne coinvolti. Ma la loro paura ha radici più ancestrali: “Hanno paura di pensare serio, di pensare profondo, di pensare il sacro: la memoria analfabeta di una sofferenza patita senza eroismi deve crepitare, da qualche parte, in loro”.

Ecco che viene fuori il mito dell’età dell’oro: “una sofferenza patita senza eroismi”, della quale è rimasta, in profondità, una “memoria analfabeta”. È bene che spieghi meglio. Nella vecchia concezione (quella romantico-borghese, la mia, per intenderci) il percorso di costante approssimazione al senso – che poi in realtà è già esso stesso il senso – offre un piacere che fa tutt’uno con la fatica, che nasce dall’applicazione, dalla volontà, dall’emozione continua della scoperta e della conquista sudata. In luogo del videogioco, la metafora qui potrebbe essere perfettamente rappresentata dalla montagna: non a caso l’alpinismo è nato proprio nell’8oo, e lo spirito che lo anima è lo stesso che informa la concezione del conoscere (e del vivere) messa sotto accusa dai “nuovi barbari”. La direttrice è comunque quella verticale, cambia solo il verso: salire in altezza, scendere in profondità. Chi ama la montagna capisce bene a cosa mi riferisco: scalare, o anche semplicemente ascendere, sono attività tra le più faticose, ma sono anche quelle che producono il piacere più genuino e più intenso. Che non ha a che fare con la “vittoria sull’Alpe”, perché l’Alpe rimane lì, tutt’altro che sottomessa, e se affrontata nella maniera giusta ti incute solo rispetto: e perché sai, per quante vette tu salga, che ne rimangono infinite altre, e non le salirai mai tutte. La vittoria è quella di un aspetto peculiare della nostra natura, “connaturato” (e non snaturante) al comportamento della nostra specie, che si chiama “cultura”.

Ed è tale da quando siamo diventati homo, non dall’Ottocento.

Mi sorprende che Baricco, che non nasconde la sua passione per le escursioni alpine, consideri penitenziale, o peggio ancora, un retaggio borghese, questo piacere. Che arrivi a pensare che la modalità di esistenza decisiva del nuovo mondo, il divertimento, sia il contrario della conoscenza. E che addirittura ascriva alla fatica e alla difficoltà di praticare individualmente questo percorso la spinta a intrupparsi in una sorta di spiritualità collettiva, a coltivare le idee di nazione o di razza. “Ciò che non era immediatamente rinvenibile nella pochezza dell’individuo, risultava evidente nel destino di un popolo, nelle sue radici mitiche, e nelle sue aspirazioni”.

Questo vale certamente per le forme degenerate di quello spirito, quelle che, per restare dentro la metafora dell’alpinismo, hanno preso la forma della “lotta con l’Alpe” di Giudo Rey o del “bagnar le labbra alla coppa della morte” di Guido Lammer. Ma le esasperazioni vanno messe in conto sempre, e sono appunto un distorcimento, un tradimento. Non sono intrinseche all’idea, ma alla fragilità di chi le professa. Con le idealità hanno nulla che vedere: ne costituiscono solo una declinazione paranoide, a volte caricaturale: quella che tra l’altro nella nostra epoca è indotta proprio dal trionfo della virtualità e dalla iperconnettività (ci sarebbe stata la corsa ai quattordici ottomila senza la visibilità televisiva, e quindi gli sponsor, ecc …?)

Insomma, Baricco ci prospetta un mondo nel quale la concatenazione delle vette alpine potrà essere fatta in orizzontale, facendosi posare su ciascuna di esse da un elicottero, o meglio ancora, realizzandola tranquillamente a casa, al caldo e al sicuro, davanti alla consolle di un videogioco. La fatica dilettevole di cui parla è in realtà rifiuto incondizionato e aprioristico della fatica. Non solo di quella di studiare, ma anche di quella di rapportarsi concretamente, fisicamente con gli altri, senza trincerarsi dietro lo scudo di uno strumento che deresponsabilizza e permette di entrare ed uscire all’istante in quelle che sono soltanto parodie di sentimenti e di affetti (chiedere l’amicizia a chi non si conosce, uscire da una relazione con un tweet, …), o di godere di una “interattività diffusa” che sta a significare soltanto una rete di legami effimeri e leggeri. Oggi ciascuno di noi può interagire con islandesi e filippini e aborigeni australiani: ma per condividere che?

Baricco però si rende conto che al momento di definire gli atteggiamenti da assumere la sua proposta di interpretazione rimane troppo vaga, che non basta auspicare una disposizione tutto sommato umanistica, con la quale “vivere e comprendere la tecnologia senza arroccarsi né tuttavia fare carta straccia della parola scritta, del pensiero complesso e non banale”. Forse nel frattempo si è guardato attorno e ha visto che i conti non tornano. Questo sembra potersi desumere da un piccolo saggio comparso recentemente su “La Repubblica” (10 gennaio 2019), dal titolo “E ora le élites si mettano in gioco”, che chiude così: “Smetterla di dare alla politica tutta l’importanza che le diamo: non passa da lì la nostra felicità. Tornare a fidarci di coloro che sanno, appena vedremo che non sono più gli stessi. Buttare via i numeri con cui misuriamo il mondo (primo fra tutti l’assurdo Pil) e coniare nuovi metri e misure che siano all’altezza delle nostre vite. Riacquistare immediatamente fiducia nella cultura, tutti, e investire sull’educazione, sempre. Non smettere di leggere libri, tutti, fino a quando l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto sarà un’immagine che ci fa vomitare”. Non è il massimo della concretezza, ma qualche indicazione la offre. Soprattutto, però, porta allo scoperto le contraddizioni di fondo.

Se ho davvero fiducia nella cultura, l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto non mi fa vomitare, mi fa riflettere. Vomitare significa liberarsi lo stomaco di qualcosa di indigesto lasciando che la reazione arrivi dal mio corpo, da una sua intolleranza naturale. Ma in verità questa intolleranza non è naturale. Non è presente in alcuna altra specie animale. In noi è dettata dalla cultura. Se vomito, dopo sono libero, ma vuoto. Se rifletto analizzo le cause del mio disagio, considero la vicenda sotto vari aspetti, compreso il modo in cui mi è raccontata e le strumentalizzazioni di varia provenienza di cui è oggetto, libero la mente da pregiudizi e cerco di definire un mio atteggiamento concretamente conseguente. Sono tutte cose in cui il mio stomaco non ha alcuna parte, e non per una freddezza o insensibilità particolare, ma perché, al contrario, considero un mio dovere etico fare lo sforzo di conoscere, per agire poi in ragione di questa conoscenza.

Questo processo, come dicevo sopra, non è nato ieri con l’idea romantica di anima. Va avanti da centinaia di migliaia di anni. Quindi l’idea di un ritorno a una attitudine “pre-borghese” nei confronti della natura, della vita, della conoscenza mi sembra frutto di un nichilismo molto “soft”, buonista, semplificatorio e mediatico, adatto ad un consumo superficiale e veloce. Molto in linea appunto con la nuova disposizione mentale “barbarica”.

Ora, se non posso che plaudire all’invito a “Non smettere di leggere libri, tutti”, trovo sia poi difficilmente compatibile con la “superfice al posto di profondità”, con i “viaggi al posto di immersioni”. Trovo soprattutto che mal si concili con la realtà che questa nuova attitudine di pensiero sta delineando. A meno che quel “tutti”, anziché ai potenziali lettori non si riferisca ai possibili libri, stando a significare che “va bene tutto, purché si legga”. Magari senza fare troppa fatica.

Il problema è che, segnatamente in Italia, si legge invece ben poco, come raccontano le indagini cui ho fatto riferimento sopra. E anche quel poco non lo si digerisce affatto. I dati sulla frequentazione dei libri vanno integrati infatti con quelli sulla comprensione della lettura. “Non sono dati incoraggianti quelli emersi dall’ultima indagine del rapporto Ocse-Pisa 2018 (l’indagine valuta le competenze in lettura, matematica e scienze di seicentomila quindicenni di tutto il mondo, divisi in settantanove paesi) sulle competenze dei quindicenni studenti italiani, sia in rapporto all’intero Paese sia in confronto con la classifica mondiale: gli alunni italiani vengono sonoramente bocciati in lettura (meglio le ragazze), vanno un po’ meglio in matematica mentre “crollano” in scienze, la materia “peggiore” secondo l’ultimo rapporto. Per l’Italia hanno partecipato alla prova d’indagine 11.785 studenti, divisi in cinquecentocinquanta scuole: ebbene, gli alunni italiani ottengono un pessimo punteggio in lettura – 476 – inferiore alla media Ocse fissata a 487, con un giudizio ancor più preoccupante: solo un quindicenne italiano su venti riesce a distinguere tra fatti e opinioni quando legge un testo di un argomento che non gli è familiare. La media Ocse è uno su dieci. Addirittura gli studenti italiani che hanno difficoltà di base nella lettura “semplice”, che non riescono cioè ad identificare l’idea principale di un testo di media lunghezza, sono uno su quattro”.

Qui occorre capirci. O gli studenti italiani sono già incamminati a percorrere le nuove sconfinate praterie di senso aperte dalla tecnologia digitale, avanguardie rivoluzionarie che si spingono ad esplorare le terre incognite armate di minuscoli smartphone, dopo essersi liberate del fardello di una cultura vetusta e inutile; oppure sono letteralmente allo sbando, e l’iperconnessione ha creato nei loro cervelli un enorme cortocircuito, del quale ci arriva l’odore di strine. E allora sono sì le avanguardie, ma di uno sfacelo imminente. Perché stazionano al disotto di una media OCSE che negli ultimi quindici anni è scesa a sua volta. Segno che qualcosa sta cambiando a livello globale, e non esattamente nella direzione profetizzata da Baricco.

In un saggio-pamphlet di qualche anno fa (Internet ci rende stupidi?, Raffaello Cortina 2011) l’economista e divulgatore scientifico Nicholas Carr sosteneva che l’utilizzo delle nuove tecnologie sta modificando profondamente l’attività e gli equilibri stessi del nostro cervello, dal momento che le aree coinvolte nella lettura di un libro cartaceo vengono sottoutilizzate, mentre quelle collegate alla lettura su schermo tendono all’ipertrofia. Il risultato inevitabile è che il pensiero logico-deduttivo, lo scavo interiore, l’esercizio della facoltà della memoria, e cioè le specifiche abilità e attività collegate alla cultura della pagina a stampa, che richiedono un notevole impegno di tempo, sono destinate a passare in secondo piano rispetto alle competenze fisiologiche necessarie per la fruizione dei nuovi media, i quali privilegiano invece lo svolgimento in contemporanea di più funzioni (il multitasking). Ci si attenderebbe che la conseguente liberazione di tempo sia andata a vantaggio quanto meno di una più intensa e aperta attività relazionale: che cioè i giovani emancipati dalla oppressiva cultura libresca sfruttino gli spazi temporali riconquistati per incontrare i loro coetanei, sia pure in un rapporto giocoso e superficiale. Invece pare non sia affatto così.

Torno alle cifre, perché se trattate con criterio sono più eloquenti di mille discorsi. Queste le traggo dall’inchiesta ISTAT Generazioni in Rete. Come abitiamo l’era digitale, aggiornata a tutto il 2017. I primi numeri riguardano lo stato della “rivoluzione digitale”. Per l’Italia, la media degli utenti giornalieri di Internet è del 65,3 % della popolazione. Nell’anno in cui usciva “I barbari”, tanto per intenderci, erano il 36%. In testa ci sono naturalmente i giovani: le generazioni nate tra il 1966 e il 1980 col 79,6%, quelle tra il 1981 e il 1995 con l’86,1%, e i nati tra il 1996 e il 2010 con il 73,6 % (tra i laureati le cifre si avvicinano al 100%). (Una rilevazione europea più recente indica però, per i giovani tra i sedici e i diciannove anni, una percentuale molto più alta, attorno al 91%: che è comunque la più bassa in Europa, dopo quella della Romania). L’accesso ad Internet avviene per il 78% via smartphone, per il 69% tramite computer, o notebook, per il 29% col tablet. E soprattutto gli adolescenti risultano utilizzare Internet in luoghi diversi (a casa propria, sul luogo di studio, a casa di altri, altrove) il che indica una fruizione giornaliera che non è più relegata alla propria abitazione e ad una postazione fissa (infatti, solo il 20% di loro si collega tramite computer).

Ancora una nota di genere: le ragazze tra gli undici e i diciassette anni risultano utilizzare più frequentemente dei coetanei maschi sia il telefono cellulare sia internet. C’era naturalmente da aspettarselo. Volendo, da questo dato si possono trarre una indicazione e un auspicio positivi, nel senso che di fronte ad un cambiamento radicale della mentalità e dei valori è l’elemento femminile a guadagnarci, oserei dire a trovarsi non solo in condizione di parità, ma addirittura di vantaggio – perché i valori e la mentalità in disarmo erano indiscutibilmente informati ad una dominanza maschile –, e che una “femminilizzazione” della civiltà ventura potrebbe eliminare o contenere proprio le derive criminali di quella precedente. Non lo ha fatto Baricco, lo faccio io. Anche se è una ipotesi tutta da verificare.

Si può dunque affermare che almeno per quanto concerne il primo momento, quello del passaggio a nuove tecnologie, la rivoluzione è già compiuta. Stiamo entrando nella fase “costituente”. E cominciamo a intravvederne gli effetti.

La stessa inchiesta mette infatti in evidenza un rapidissimo cambiamento nel modo di relazionarsi con i coetanei da parte degli adolescenti. La frequentazione quotidiana diretta, fisica, degli amici, fuori dall’ambito scolastico, riguarda una quota via via decrescente di giovani: si passa dal 60,1% del 2008, al 56% del 2011, arrivando nel 2014 al 53,2%. Negli ultimi cinque anni la percentuale è scesa ancora, al di sotto del 50%.

Fino a ieri l’esperienza della relazione con i pari età era considerata un passaggio fondamentale della crescita e della trasformazione in adulti. Non solo: era intesa come assolutamente naturale, indispensabile per una corretta maturazione. Dava l’occasione di confrontarsi in campo neutro, al di fuori dalle sicurezze famigliari e dei regolamenti scolastici, di smorzare eccessive presunzioni e sicurezze, di vincere paure e timidezze. Non mancavano naturalmente i possibili risvolti negativi, e in qualche caso poteva anche rivelarsi devastante. Ma di norma consentiva di instaurare il primo vero rapporto di tipo spontaneo, non mediato o controllato dagli adulti, e insegnava ad autoimporsi regole e limitazioni. Da cosa viene sostituita questa frequentazione al tempo della rivoluzione digitale?

A quanto risulta sopra, da una solitudine diffusa, che alimenta forzatamente il distacco dalla realtà ed una confusione crescente tra i due piani, quello reale e quello virtuale. Baricco come abbiamo visto ne parla, (“la dissoluzione della frontiera psicologica che separa come due momenti diversi dell’esperienza il mondo reale e quello digitale”), ma la cosa non sembra preoccuparlo più di tanto: è un aspetto della nuova attitudine psicologica, che in fondo rispecchia una dimensione economica e un futuro professionale già decisamente “virtualizzati” (si pensi alla “virtualità” della finanza, che ha in mano il mondo). La fine dei sodalizi fisici, profondi e duraturi è compensata a suo giudizio dal moltiplicarsi dell’apertura a relazioni multiple, occasionali, temporanee e superficiali, che corrono lungo i fili della rete per tutto il globo. E questo anzi, assieme alla facilità di informazione, aiuterà le nuove generazioni ad acquistare maggiore consapevolezza dei problemi sociali ed ambientali, e consentirà l’esercizio di una reale democrazia diretta, la creazione di movimenti spontanei, di grandi aggregazioni su tematiche specifiche, di forme di resistenza non manipolabili e non controllate dai vecchi sistemi di potere partitici e al tempo stesso dotate di una grande forza d’urto, di un grande peso (stava pensando ai i pentastellati, preconizzava Greta o le sardine?)

È questo modo di banalizzare il problema, di mettere cornici alle finestre per farle sembrare quadri, a riuscirmi particolarmente indigesto. Per il momento, l’unica cosa che sembra davvero crescere è una presunzione di irresponsabilità totale, alimentata sia dallo spostamento dei soggetti coi quali ci si relaziona in una dimensione virtuale, ciò che ne annulla la realtà fisica e psicologica, sia dal senso di leggerezza e transitorietà che ogni azione acquista in questo contesto. E ciò spiega le ultime drammatiche cifre che vado a proporre, pescandole dalla recente Indagine conoscitiva su bullismo e cyberbullismo prodotta dall’ISTAT (marzo 2019).

Nella presentazione si fornisce una descrizione essenziale del fenomeno: «Per bullismo si indicano generalmente le prepotenze perpetrate da bambini e ragazzi nei confronti dei loro coetanei. La definizione del fenomeno si basa su tre condizioni: intenzionalità, persistenza nel tempo, asimmetria nella relazione. Esso è pertanto contraddistinto da un’interazione tra coetanei caratterizzata da un comportamento aggressivo, da uno squilibrio di forza/potere nella relazione e da una durata temporale delle azioni “vessatorie”».

Nell’indagine, ai ragazzi da undici a diciassette anni è stato chiesto se nei dodici mesi precedenti l’intervista hanno subìto una o più prepotenze. Il fenomeno risulta in continua crescita ed evolve rapidamente: le nuove tecnologie sono divenute ulteriori potenziali strumenti attraverso cui compiere e subire soprusi. Da qui la necessità “di monitorare anche il cyberbullismo, che consiste nell’invio di messaggi offensivi, insulti o foto umilianti tramite sms, e-mail, diffuse in chat o sui social network, allo scopo di molestare una persona per un periodo più o meno lungo. Un aspetto che differenzia il cyberbullismo dal bullismo tradizionale consiste nella natura indiretta delle prepotenze attuate in rete: non c’è un contatto faccia a faccia tra vittima e aggressore nel momento in cui gli oltraggi vengono compiuti”.

Poi arrivano le cifre. “Più del 50% degli intervistati 11-17enni riferisce di essere rimasto vittima, nei 12 mesi precedenti l’intervista, di un qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento. Una percentuale significativa, quasi uno su cinque (19,8%), dichiara di aver subìto azioni tipiche di bullismo una o più volte al mese. In circa la metà di questi casi (9,1%), si tratta di una ripetizione degli atti decisamente asfissiante, una o più volte a settimana. Le ragazze presentano una percentuale di vittimizzazione superiore rispetto ai ragazzi. Oltre il 55% delle giovani 11-17enni è stata oggetto di prepotenze qualche volta nell’anno mentre per il 20,9% le vessazioni hanno avuto almeno una cadenza mensile (contro, rispettivamente, il 49,9% e il 18,8% dei loro coetanei maschi). Il 9,9% delle ragazze subisce atti di bullismo una o più volte a settimana, contro l’8,5% dei maschi”.

Per quanto concerne il nostro tema specifico, “il cyberbullismo ha colpito il 22,2% di tutte le vittime di bullismo. Nel 5,9% dei casi si è trattato di azioni ripetute (più volte al mese). La maggior propensione delle ragazze/adolescenti a utilizzare il telefono cellulare e a connettersi a Internet probabilmente le espone di più ai rischi della rete e dei nuovi strumenti di comunicazione. Tra le 11-17enni si registra, infatti, una quota più elevata di vittime: il 7,1% delle ragazze che si collegano ad Internet o dispongono di un telefono cellulare sono state oggetto di vessazioni continue tramite Internet o telefono cellulare, contro il 4,6% dei ragazzi. Vi è inoltre un rischio maggiore per i più giovani rispetto agli adolescenti. Circa il 7% dei bambini tra 11 e 13 anni è risultato vittima di prepotenze tramite cellulare o Internet una o più volte al mese, mentre la quota scende al 5,2% tra i ragazzi da 14 a 17 anni”.

Proviamo ora a convertire le cifre in persone e in fatti. Dire che oltre il cinquanta per cento dei giovani ha subito atti di bullismo significa dire in concreto che più di due milioni e mezzo di ragazzi o ragazze in questo paese sono stati (e sono attualmente) vittime di questo tipo di violenza: e che ci sono in circolazione almeno altrettanti persecutori (considerando che l’incidenza di quelli seriali è compensata dal fatto che un atto di vigliaccheria viene commesso di solito in gruppo).

Facciamo pure la tara al fenomeno. Il bullismo è sempre esistito, dentro come fuori delle scuole. Probabilmente era meno intenso, senz’altro era meno visibile, perché non veniva raccontato in rete, documentato coi telefonini e ripreso dalla grancassa dei media. Ufficialmente, all’interno della scuola, era meno tollerato: di fatto, era forse subito in maggior silenzio dalle vittime. La sua recrudescenza in questi ultimi anni non è però soltanto frutto di un’impressione creata dalla maggiore visibilità: dentro la scuola stanno esplodendo le stesse dinamiche relazionali negative che già caratterizzano la quotidianità esterna, e che evidenziano un generalizzato imbarbarimento dei costumi. I nuovi barbari evidentemente non sono solo cacciatori orizzontali di senso: sono prima di tutto bulli a scuola, prevaricatori e violenti in famiglia, e rivendicano orgogliosamente una maleducazione ottusa.

Quel che è certo è che il cyber-bullismo non esisteva: è un prodotto specifico della rivoluzione digitale. E il fatto che il fenomeno sia in costante aumento ci dice che non si tratta di una semplice spellatura causata dai traumi del passaggio. È una ferita che si sta allargando. Ha un bel dire Baricco che “Ciò che è percepito dai più, soprattutto da noi di sinistra, come un’apocalisse imminente è, in verità, il vero annuncio del futuro” (appunto!). E che durante una rivoluzione di questa portata non può andare tutto liscio e i conflitti, le violenze, le sofferenze e le perdite vanno messi in conto, ma che alla fine i conti tornano, perché la migrazione ha fatto uscire l’umanità dall’inferno del Novecento. Stento davvero a credere che i piccoli bulli di oggi possano diventare cittadini responsabili, digitalizzati o meno, di un futuro mondo migliore. Ho invece l’impressione che a dispetto di tutte le azioni di contrasto che inchieste come quella appena citata immediatamente evocano, e che purtroppo hanno le stesse probabilità di successo del progetto da cui sono partito per queste riflessioni, il domani non riserverà ai nostri nipoti “esperienze autentiche, creatività e conoscenza”. Esperienze senz’altro sì: ma di un genere del quale farebbero volentieri a meno.

Non si tratta di essere “apocalittici”, ma di guardare in faccia la realtà. Al momento la gioiosa rivoluzione cui Baricco ci invita a partecipare senza storcere troppo il naso ha prodotto solo danni. Anche a volerli considerare uno scotto da pagare rimane poi il problema di fondo: da pagare per cosa? un obolo per dove? Per il paradiso dei surfers della conoscenza? Per un mondo nel quale tutti abbiano la possibilità di far sentire la loro voce, anche quando non hanno proprio nulla da dire, e ciò che hanno sarebbe meglio non lo dicessero? Perché questa, piaccia o meno, è la realtà con la quale si confronta chi nel quotidiano c’è immerso, e magari ha scarsa lungimiranza, non riesce a scrutare nel futuro, ma il presente lo vede benissimo. E, forse proprio perché ha poco futuro davanti, si sente in dovere di attribuire il giusto valore al passato. E di rivendicare il diritto alla sua difesa.

 

Qualcuno da incolpare

A dispetto delle apparenze non sono uno che si crogiola nelle nostalgie. Soltanto, di fronte ad una prospettiva che mi pare disastrosa mi ostino a cercare di capire, e nel caso sono disposto a mutare opinione, sempre che qualcuno riesca a farmi intravvedere spiegazioni plausibili e rimedi possibili. È chiaro che Baricco non mi ha convinto. Non mi ha convinto prima, col saggio sui barbari e con quello sul Game, e non mi convince nemmeno ora, quando torna col breve intervento su Repubblica ad affondare l’attacco contro le élites. Non per difetto di lucidità nel trattarli, che anzi, ce n’è sin troppa, ma perché siamo alle solite: a spiegarmi qual è il problema e cosa devo fare o pensare è chi il problema in qualche misura ha contribuito a crearlo, o almeno fa pienamente parte della casta che lo ha creato. E che adesso quella casta la mette sotto accusa, togliendomi anche la piccola soddisfazione di farlo dal di fuori, e addirittura invertendo le parti.

Sentiamo. “Capiamoci su chi sono queste famose élites. Il medico, l’insegnante universitario, l’imprenditore, i dirigenti dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di successo, molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli d’amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri: potrei andare avanti per pagine, ma ci siamo capiti. I confini della categoria possono essere labili, ma insomma, le élites sono loro, son quegli umani lì”.

Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente […] Possono essere di sinistra come di destra. Una sorprendente cecità morale – mi sento di aggiungere – impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono”.

Andiamo con ordine. Intanto l’attacco era prevedibile. È un refrain da tempo nell’aria, lo fischiettavano molti già nel secolo scorso, nelle più disparate tonalità, da Charles Wright Mills a Christpher Lasch, Oggi viene ripreso con toni decisamente più beceri da un sacco di nuovi profeti della “rivolta delle masse”, giù giù a scendere, fino Trump e a Salvini e di Maio. Di nuovo c’è l’inclusione nel concetto di “élites del potere” di una nuova categoria, quella degli intellettuali. Ma è un’inclusione che, come vedremo, nasce da un grosso malinteso.

Baricco va dritto al bersaglio, per scoprire peraltro l’ovvio: le élites sono costituite da “coloro che contano”, una minoranza ricca e molto potente. Sono quelli, per dirla con una sua elegante espressione, che “tengono per i coglioni il mondo”. Il mondo sarebbe poi “la gente”: ovvero tutta la moltitudine esclusa dalla “zona protetta all’interno della quale quei privilegiati difendono la loro comunità, la tramandano ai figli e rendono estremamente improbabile l’intrusione, dal basso, di nuovi arrivi”. La gente (se preferite, il popolo) si è lasciata strizzare le palle sino a che le sono arrivate almeno le briciole del pasto: ma dopo che la crisi ultima ha inceppato la distribuzione, si è presentata a regolare i conti: “È andata, letteralmente, a riprendersi i propri soldi: il reddito di cittadinanza, o la cancellazione delle cartelle di Equitalia, non sono altro che quello. Sono riscossione crediti”.

Abbiamo già elementi sufficienti per capire a che profondità si spinga l’analisi di Baricco. La “gente” di cui parla non rappresenta affatto l’insieme multiforme del “popolo”. Perlomeno, non ancora. E comunque lo rappresenta male. La maggior parte di coloro che ricevono il reddito di cittadinanza o strappano le cartelle di Equitalia non riscuote crediti, perché non aveva mai maturati. Metterla giù in maniera diversa è appunto “populismo” della peggior specie.

Ma a me interessa qui il concetto baricchiano di élite. Il termine francese starebbe a indicare “coloro che sono stati scelti”. Scelti per cosa? Per rappresentare e guidare tutti gli altri. Che abbiano tradito questo mandato, è fuori di dubbio. Ma lo è altrettanto il fatto che tutta la storia è costellata di questi tradimenti, perché chi è stato scelto tende a rendere questa condizione stabile o addirittura ereditaria. E infatti, il cammino storico è anche costellato delle conseguenti rivoluzioni. Non mi sembra dunque così folgorante l’intuizione per cui la rivoluzione “digitale” “era una rivoluzione che si proponeva di azzerare proprio loro, le élites novecentesche, e di sostituirle con una nuova élite, una nuova intelligenza, una nuova moralità”. Mai sentito parlare della rivoluzione francese?

Veniamo però agli azzerandi. Intanto, nel lungo elenco che ho accluso le élites sono confuse con i VIP, con coloro cioè che “compaiono”, in un modo o nell’altro, nel mondo mediatizzato. Baricco sembra adottare una versione aggiornata e americanizzata del termine, nella quale l’idea di una scelta, di una responsabilità conferita, scompare, a favore del puro e semplice criterio della visibilità. E allora dovrebbe procedere di conseguenza. Non si capisce infatti cosa c’entrino i broker, gli artisti di successo e quelli che stanno nei consigli di amministrazione con coloro che hanno in casa più di cinquecento libri. Io ne ho almeno trenta volte tanti, ma non sono né un uomo di successo, né un influencer, né tantomeno un uomo di potere. E, al contrario di Baricco, non amo affatto comparire (nell’universo sconfinato dei social network e dei blog esiste una sola mia immagine, di spalle, ficcata lì quasi a tradimento da un amico. Di questo amico, e di tutti coloro che mi corrispondono, non ne compare nemmeno una).

Se le élites sono “quegli umani lì”, appartengo (apparteniamo) a un altro ramo della specie. Non uso i miei più di cinquecento libri come massa d’urto per sfondare, come carico per pesare o come suppellettili per stupire: non li ho ereditati da nessuno, li ho raccolti io, lungo una vita spesa da un lato a lavorare, nella scuola, in campagna e in altre attività che probabilmente Baricco nemmeno immagina esistano, dall’altro a cercare di capire anche attraverso loro il senso di quello che stavo facendo: mi hanno aiutato, e oggi li considero i miei migliori compagni di viaggio.

Ma il fatto davvero importante è che non sono l’unico. Esiste tutto un mondo di persone che possiedono centinaia di libri perché semplicemente trovano piacere e conforto nella loro compagnia. Costoro fanno il proprio lavoro senza esserne schifate, non hanno debiti con Equitalia, non sono complici dell’ingiustizia e della violenza del sistema, ma nemmeno credono nelle gioiose rivoluzioni che proprio i più autorevoli esponenti o rampolli delle élites vengono periodicamente a proporre loro.

Non sono “quegli umani lì”, moralmente ciechi. Sono umani che moralmente ci vedono benissimo: piuttosto, sono loro a risultare invisibili agli occhi dei “rivoluzionari”, barbari e no. Sono persone che all’ingiustizia e alla violenza oppongono quotidianamente, sui posti di lavoro, in famiglia, nelle relazioni sociali, un comportamento corretto, che non è dettato da un moralismo ottocentesco e ipocrita, ma dal buon senso, dalla razionalità, da un istinto positivo di sopravvivenza. Sono quelli che le macerie le rimuovono, che tacitamente ogni volta ricostruiscono, e lo hanno fatto da sempre nella storia.

Queste persone si sono guadagnate tutto ciò che possiedono, spesso persino una lingua che non hanno succhiato col latte materno, che è stata sudata sui banchi di scuola, ma che ha aperto loro un mondo infinito, proprio quello dei libri, e non le porte delle accademie, dei salotti buoni o della televisione. In quegli spazi non saprebbero nemmeno muoversi, e comunque non interessano loro, perché non hanno tempo da perdere. Non si riconoscono nella “gente”, non ambiscono ad accedere ai piani superiori, non sono etichettabili né come borghesi, né come ceto medio, né come proletari, anche perché queste categorie, nella loro accezione storica, non esistono più. Sono piuttosto degli aristocratici nel pensare, dei democratici (consapevoli) nell’agire.

Certo, queste persone vedono con raccapriccio la mutazione, e non perché temano di perdere il posto o la poltrona: in realtà sono loro i veri corpi d’élite, quelli che hanno portato da sempre avanti il mondo, che hanno davvero conferito un senso all’eccezionalità di essere homo. Non li ha mai scelti nessuno, si sono scelti sempre da soli. E la loro non è una scelta di sacrificio, al contrario, è una scelta di piacere, di divertimento, e di questo i libri sono una gran parte.

Io credo che “questi uomini qui” la rivoluzione l’abbiano già fatta, da sempre, al proprio interno, e l’abbiano esportata senza clamori, con umiltà, all’esterno. Hanno costruito con la carta muri di sostegno, o di contenimento delle slavine e della barbarie, e non i muri divisori di cui parla Baricco, che sono una specialità invece dell’élite di cui lui fa parte. E quindi si sottraggono senza alcuno sforzo al Game, non perché rifiutino ostinatamente le novità comunicative, ma perché hanno già imparato a farne un uso alternativo.

È naturale la loro resistenza di fronte ad “un mondo in cui la loro (nostra) mediazione non è più richiesta, e in cui non è più comprensibile il valore degli oggetti che crediamo di custodire, e che dovremmo tramandare”. Perché non sono oggetti quelli che si impegnano a tramandare, e nemmeno privilegi, capitali, poltrone, ma forme profonde di conoscenza e idee alte di moralità che il mondo non può permettersi il lusso di perdere.

Intendiamoci, questo almeno lo sa benissimo anche Baricco. “Il punto che a me, come a molti altri, risulta di un’evidenza solare è che una vittoria di questo genere avrebbe un prezzo devastante: non per le élites, chissenefrega, ma per tutti. Perché il mito di un accosto diretto, puro e vergine alle cose, opposto all’andatura decadente, complicata e anche un po’ narcisistica della riflessione colta, è una creatura fantastica che ci abbiamo messi secoli a smascherare: recuperarla sarebbe da dementi. Da un sacco di tempo abbiamo imparato che è meglio sapere molto delle cose prima di cambiarle, che è meglio conoscere molti uomini per capire se stessi, che è meglio condividere i sentimenti degli altri per gestire i nostri, che è meglio avere molte parole piuttosto che poche perché vince chi ne sa di più. Abbiamo un termine per definire questo modo di difenderci dalla durezza feroce della realtà grazie all’uso paziente e raffinato dell’intelligenza e della memoria: cultura. Sostituirla con l’apparente chiarezza di un pensiero elementare, quasi una sorta di furbizia popolare, equivale a disarmarsi volontariamente e andare al massacro. Voglio essere chiaro: ogni volta che ci facciamo bastare certe parole d’ordine di brutale semplicità, noi bruciamo anni di crescita collettiva spesi a non farci fottere dall’apparente semplicità delle cose: non noi élites, sto parlando di tutti quanti”.

Il problema nasce, come già dicevo, quando deve venire al dunque: cosa bisogna fare, allora? “Entrare nel Game, senza paura, affinché ogni nostra inclinazione, anche la più personale o fragile, vada a comporre la rotta che sarà del mondo intero. Usarlo, il Game, come una grande chance di cambiamento invece che come un alibi per ritirarci nelle nostre biblioteche o generare diseguaglianze economiche ancora più grandi. Ritirare su tutti i muri che abbiamo abbattuto troppo presto; abbatterli di nuovo non appena tutti saranno in grado di vivere senza di loro. Camminare. Smetterla di sventolare lo spettro del fascismo. Pensare in grande. Pensare. Niente che non si possa fare, in fondo, ammesso di trovare la determinazione, la pazienza, il coraggio”.

E Cioè? Non è che “loro”, lui, le élites consacrate dalla visibilità, “i più veloci che vanno avanti, creando il futuro”, potrebbero ad esempio rallentare un attimo, rimboccarsi le maniche e dare per una volta una mano a sgomberare le macerie, per poter poi ritirare su tutti i muri che hanno “gioiosamente” contribuito ad abbattere, magari diradando un po’ le marchette televisive e anche quelle teatrali e librarie? Ecco, per scendere nel concreto: non è che Baricco potrebbe seguire gli esempi, che già esistono, di un uso davvero “democratico” e innovativo del web, mettendo a disposizione gratuitamente le sue riflessioni, consentendo di scaricare i suoi libri, anziché limitarsi ad autografarli per un pubblico adorante e pagante? E stanando così anche quelli che si rifugiano nelle loro biblioteche? È un gesto piccolo, ma proprio in ragione della visibilità e dell’appartenenza di chi dovrebbe compierlo potrebbe riuscire, una volta tanto, davvero rivoluzionario.

Non può permetterselo? Ci fossero delle difficoltà, potrà sempre farsi ospitare sul sito dei Viandanti.

 

L’articolo-saggio di Baricco comparso su Repubblica ha prodotto naturalmente reazioni a catena, puntualmente registrate e pubblicate (almeno le più significative) sulla testata. A significare che almeno il merito di aver sollevato la questione Baricco ce l’ha. Tra le molte ho scelto di allegare a questo scritto quella di Mila Spicola, insegnante, pedagogista e scrittrice. Per due ragioni. Da un lato perché trovo più che condivisibili alcune osservazioni, quelle relative ad esempio ai criteri (inesistenti) di reclutamento degli insegnanti: dall’altro perché offre un esempio dei rischi introdotti proprio dalle nuove modalità di comunicazione, di scrittura. Rischi legati all’eccessiva velocità, che si traduce in superficialità, nello smantellamento gratuito di un sistema di regole che non sarà il verbo evangelico ma è stato costruito nei secoli, con molta fatica, proprio per arrivare a condividere una piattaforma linguistica comune chiara e precisa. Fare la democrazia non significa abbattere le porte per facilitare l’accesso, ma rendere tutti capaci di aprirle, magari con un minimo sforzo. Le porte abbattute prima o poi risultano d’intralcio, il libero accesso senza chiavi si risolve in una Babele. Quindi, cominciamo col dare l’esempio di un minimo di rigore, anche se il termine non va più di moda. Se si usa una voce latina, ad esempio, la si cita nella dizione corretta, per cui si scrive auctoritas, e non autoritas. Dopo “non ci riferiamo” si mette “ai ceti poveri”, e non “dei ceti poveri”. Imperfezioni di questo genere appaiono certamente veniali nel contesto di una scrittura per altri versi chiara, diretta e accattivante, almeno per chi ama lo stile sbarazzino. Ma, come diceva quel tale, parlando del pesto con le noci, occorre prestare attenzione anche ai particolari apparentemente insignificanti, perché si comincia così e si finisce poi a letto coi consanguinei.

Ciò su cui mi trovo meno d’accordo, però, è affermazione più volte ribadita che la cultura non ha offerto alle masse una possibilità di riscatto, ma è diventata al contrario strumento di ricatto. Perché non l’avrebbe offerta? Perché non ha consentito di azionare gli ascensori sociali, che hanno continuato ad essere gestiti da coloro che la cultura l’hanno sempre detenuta e indirizzata. Il che è vero, ma solo in parte, solo se si ritiene che il ruolo della cultura sia quello di far ascendere socialmente. Io ritengo debba essere piuttosto quello di fare crescere interiormente. E non mi si venga a dire che il messaggio delle élites era diverso. Sarà anche così, ma si poteva benissimo tradurlo diversamente: se l’ho fatto io, che non sono nemmeno troppo sveglio, possono farlo tutti.

Appendice

MILA SPICOLA – La ribellione delle masse, Baricco, Mazzucato e nemmeno io mi sento tanto (bene)

L’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia di affermare il diritto alla volgarità e lo impone ovunque”: Ortega y Gasset, La ribellione delle masse. 1930. Rileggetelo se lo avete letto, leggetelo se non lo avete fatto. E leggete anche qualche riflessione fatta intorno a quel libro, per avere chiaro cosa ha significato, in quel tempo e dopo.

Ho letto attentamente e più volte sia il libro, The Game, sia l’articolo di Alessandro Baricco comparso su Repubblica, e anche quello di Marina Mazzucato, uscito in replica a Baricco, sempre su Repubblica. Molte le cose che possiamo condividere, e come potrebbe essere altrimenti? Riflessioni necessarie. Decisive. Alcune no, ma molte da sviluppare.

Non oggi, né stamattina, né solo dal 2008 a oggi, le masse si ribellano alle élite, è il percorso della Storia. La mia tesi è che oggi le masse si ribellano sì, come ieri, a forti diseguaglianze sociali, ma che vi sia un ingrediente ulteriore e che l’analisi non è così semplice: si ribellano alla cultura come ricatto, brandita dalle élite, quando le élite stesse hanno distrutto l’idea della cultura come riscatto e dunque se la sono andata a cercare eccome la ribellione. Sono sotto gli occhi tu tutti le conferme a questa mia idea.

E non so nemmeno se infilarci quel periodico senso di rifiuto delle autoritas nella Storia quando le classi culturali egemoniche diventano solo strumenti di conservazione del potere e non cercatrici di verità e conoscenza per perseguire progetti di comunità ovvero di sincero bene comune capace di comprendere non solo le proprie ma soprattutto le altrui ragioni e sentimenti.

Ma siccome oggi ogni disegno d’avvenire, di crescita, di riorganizzazione della produzione e dunque della società e della cultura, è impensabile fuori da un discorso sui saperi, nuovi e vecchi, sulla conoscenza, nuova e vecchia, forse è lì che dobbiamo andare a scavare: sul sapere delle masse e sulle masse al sapere. Perché lo slogan la cultura alle masse è ancora uno slogan.

Ipse dixit ma lui chi è? Spostare la verità alla credibilità. Nell’era della diffidenza, conta più la persona credibile che il vero. No, non è la prima volta che accade. Cristo non è stato l’unico. E se la persona non è credibile, meglio il falso piuttosto che accettare il vero da persone di cui si diffida. Accade quando: ma che, me stai a fregà? Direbbero a Roma.

Le élite hanno fregato larghe fasce di società, non voglio chiamarlo popolo perché l’idea di popolo è un a priori o a posteriori alla bisogna, artificiale e abusata. Ma masse, sì. Possiamo chiamarle masse. C’è del buono nel populismo? C’è del giustificabile, però, sì. Le famose ragioni dell’avversario. E ne ha di ragioni l’avversario. A voglia. Bisognerebbe ammetterlo.

Il tradimento delle masse non è stato solo o soltanto sul terreno della ricchezza ma soprattutto sul tema culturale, per le masse, sul tema identitario, per quelle élite progressiste che facevano riferimento alle socialdemocrazie. Si sono tradite promesse non solo di benessere materiale, ma di riscatto, di meritocrazia, di onestà. E non ci riferiamo soltanto di ceti poveri, ma anche e soprattutto di ceto medio impoverito o privo di comfort zone relazionali. I nemici sono le lobby, gli amici degli amici che impediscono il regolare percorso del riscatto.

Le masse nel dopo guerra hanno avuto tutte l’accesso a scuola, ma la scuola non è riuscita a garantire il “successo scolastico”, chiamiamolo così, a tutta la massa. Non tanto per intenzione, sono enormi gli sforzi di scuole e docenti, al di là della vulgata, ma per disorganizzazione di sistema, per carenza di risorse, per mancata necessità di formare un ceto docente di professionisti da selezionare con cura e non di impiegati da campare e immettere a casaccio, delitto che parte dal vertice e da élite distratte. Altro tradimento.

Per mantenere una qualche parvenza di efficacia ed efficienza, si è conservata tale e quale la separatezza tutta reazionaria tra cultura manuale (definita non cultura, e dunque non degna di pari rigore, apprezzamento e qualità) e cultura teorica e, all’interno di quella teorica, identiche e ulteriori separazioni gerarchiche tra culture umanistiche, scientifiche, tecniche.

Come se il tecnico non dovesse pensare o l’umanista non dovesse sapere come si accende il mondo. Non solo: formazioni diverse, per vite diverse, per riconoscimenti economici diversi, per linguaggi diversi, anche di valore, hanno scavato abissi reazionari, spacciati per progressismo. Non lo è. Lungi ma molto dall’obiettivo dell’uomo completo che era la parte più illuminante del Marxismo. Dunque paratie tra élite e massa. “Scusa, chi vi vieta di studiare?” A chi lo chiediamo? A un bambino a cui abbiamo tolto prima di dare?

La prima ribellione contro le élite nasce dentro le scuole e contro le scuole quando non son capaci, non tanto per loro quanto per altrui responsabilità, di accogliere, supportare, motivare. Che il 50/60 % circa di studenti italiani abbia usufruito almeno una volta di lezioni private per recuperare insufficienze significa due cose: che la scuola è insufficiente e che chi non può permettersele rimane indietro senza che il sistema se ne occupi in modo sistematico e strutturato.

Quale riscatto? Quale ascensore? Quale mobilità? Ed ecco che la questione si complica e i piani si intersecano: la cultura diventa il ricatto di quelli che stanno più su, non il riscatto per quelli che stanno più giù. E una società di ascensori, bloccati o funzionanti, e non di orizzonti liberi, è la precondizione dei demagoghi. Luna, che fai in cielo, dimmi che fai, dice la massa errante.

“Hai dei dati per supportare ciò che dici?” dice l’élite. Dall’altro lato la rabbia. Che pare senza ragione ma ha mille ragioni. Masse enormi in preda l’analfabetismo funzionale. E sono proprio quelle masse a ribellarsi, non solo per questioni di fame, ma per farsi ascoltare.

Vero è, come ricorda Baricco, che l’accesso a tutte le informazioni oggi è consentito alle masse. Ma non è cultura e siamo in preda a babeli linguistiche. Leggono poche e superficiali notizie in rete e non comprendono perché la filosofia, la poesia, la letteratura, cioè il riflettere consapevolmente, l’approfondire, il legare i puntini, non è stato dato insieme al cacciavite nelle immense periferie della speranza, non si è coltivata fino in fondo l’utopia possibile dell’istruzione come riscatto. Siamo il paese che legge meno, fino ad oggi non è mica stato un problema.

C’era la fabbrica aperta e funzionante a dare comunque un posto nel mondo al pastore errante e a tenerlo buono e complice, oggi le crisi glielo hanno tolto quel posto e complice non può più esserlo. I libri potrebbero salvarlo. Promesse tradite insieme a lacerti di supposto bene comune puntualmente smentito da tutte le élite che si sono susseguite. E dunque la rabbia verso la cultura come ricatto a fronte di un sapere minimo che per molti non ha significato riscatto.

I demagoghi poi son bravi perché lo han tramutato nell’incolto al potere e nel potere degli incolti. Se lo meritano? Eppure son state per prime le nostre élite progressiste a tradire chi se lo meritava, se ormai milioni di diplomati e laureati eccellenti vanno a mostrare eccellenze altrove perché da noi il loro merito non viene né cercato, né individuato, né riconosciuto, né ripagato, in modo libero, economicamente o nel ruolo. Non è mica responsabilità delle masse, ma delle élite chiuse, se è la cooptazione a dettar le regole nella finta valutazione prevalente. Le masse si ribellano per come possono, col voto, scegliendo dunque gli incolti.

Lungi dal governarle quelle valanghe informative digitali che sono liane di una foresta amazzone buia e non districabile se si avanza raso terra, le masse rabbiose sono facili dall’esserne governate. Si muovono per sentito dire, per percezione, per branchi di fiducia necessaria a panzane insostenibili e le ignoranze sono il mezzo più efficace usato da abili manovratori di potere per goderne e nello stesso tempo apparire come salvifici.

Salvifici perché ne comprendono le paure, le emozioni, le ragioni, gli svaghi e gli stadi, cinematografici, musicali, digitali o sportivi. Vale per il pensionato del Galles che vota convinto per la Brexit, come vale per l’operaio dell’Arkansas, come per il disoccupato di Canicattì, come l’ultras dell’Olimpico, come per il pop singer un po’ spaesato, come il piccolo artigiano delle valli bergamasche. Accomunati spessissimo da un “quanti libri ha letto lei nell’ultimo anno?” “Nessuno”. O uno, al massimo due. E le élite progressiste che fanno? Langue sepolta in un campo di grano, non è la rosa, non è un tulipano, è un disegno di legge per la promozione della lettura.

Ci giro e ci rigiro: compito del popolo è istruirsi, diceva quello. Compito della sinistra, o delle élite progressiste e riformiste, o chiamiamole come vogliamo, era istruire il popolo, le masse. Non lo abbiamo fatto, abbiamo finto di farlo.

In realtà abbiamo messo un po’ di cipria a un sistema d’istruzione che è rimasto a invecchiare fascista, e cioè profondamente convinto, inconsapevolmente, per sciatteria, delle divisioni, mentre si ostinano a definirle unioni. E noi zitti. Divisioni ovunque, ovvero che la teoria dovesse essere totalmente separata dalle prassi, e che l’intelligenza è tutta teoria e la prassi è del poco intelligente e, da doppio binario a doppio binario, a chi offrire il primo e a chi il secondo e non entrambi? Vedi caso combinazione ai poveri. Porta dritto dritto a divisioni e poi a diseguaglianze sociali.

I poveri non han richieste in tal senso, mica vogliono gli asili e il tempo pieno, a ben riflettere non vorrebbero nemmeno l’obbligo scolastico eh; e dunque scordiamocene, a loro niente asili, niente tempo pieno, niente recupero delle insufficienze. Niente cultura perché non c’han testa e mica ci vuole Leopardi per avvitare bulloni. O montare pc. O lavare piatti.

Però serve a capire il bicameralismo perfetto e come si approva una legge di bilancio e come vengono sottratte libertà democratiche. Qualora noi volessimo sollecitare le masse su questi temi nessun stupore se ci ritroviamo senza gente intorno. Se non quelli del binario nostro. E i docenti? A volte élite, a volte massa, a volte esclusi, a volte ribelli, a volte, boh. A seconda da chi siano, da dove vengano e da come sono arrivati dietro una cattedra. Mille soli diversi, diceva un altro.

Dimenticando, o non sapendo, per primi proprio i docenti, oltre che le élite, che ci vuol scuola democratica e democrazia della cultura per mantenere la democrazia, oltre che pane. La cultura come riscatto e per il riscatto viene negata puntualmente dal sistema, non dai singoli, agli esclusi con ogni genere di ragioni o priorità altre.

Sic et simpliciter. L’uomo completo non lo abbiamo voluto. Marx, Gramsci, Trentin, Visalberghi, ma anche il Kennedy che avrebbe attuato una riforma della scuola pubblica democratica negli Stati Uniti come mezzo per recuperare alla democrazia radicale e piena le enormi masse povere hanno scritto e detto cose dimenticate da troppi e per troppo tempo. Di che parlo? Torniamo a studiare e a unire i puntini per capire, nemmeno le élite studiano più. Se non se stesse.

Un concetto fondamentalmente progressista che la sinistra ha tradito e non c’è stata élite progressista nei paesi dove oggi si ingrassa il populismo che fa eccezione: l’uguaglianza sociale ha come premessa l’uguaglianza culturale di ciascuno, va perseguita la seconda per conseguire la prima. Ma in realtà quell’uguaglianza sociale con premessa l’uguaglianza culturale le élite non l’hanno mai voluta né perseguita radicalmente, perché diciamocelo, mica il tacchino vota per il Natale.

Ed ecco a voi la ribellione delle masse alle élite. La più pericolosa, sull’ignoranza, dopo che le élite l’hanno nutrita.

Sono citati in queste pagine:
Indagine Ocse–Pisa sui livelli di competenza – 2018
Indagine conoscitiva su bullismo e cyberbullismo – ISTAT, 2019
Generazioni in Rete. Come abitiamo l’era digitale – ISTAT, 2018
Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia – AIE (Associazione Italiana Editori), 2018
Il mercato del libro in Italia 2016 – Giornale della libreria, 27/01/ 2017
The Ultimate Guide to Global Reading Habits – Global English Editing, 2018
Alessandro Baricco – I nuovi barbari. Saggio sulla mutazione – Fandango, 2006
Alessandro Baricco –The Game – Einaudi, 2018
Alessandro Baricco – E ora le élites si mettano in gioco su La Repubblica, 10/01/2019
Nicholas Carr – Internet ci rende stupidi? – Raffaello Cortina, 2011
Christopher Lasch – La ribellione delle élite – Il tradimento della democrazia – Feltrinelli, 2001
José Ortega y Gasset La ribellione delle masse – Il Mulino, 1962
Charles Wright Mills – L’élite del potere – Feltrinelli, 1986

 

Ringraziamenti dovuti

di Fabrizio Rinaldi, 1 novembre 2019

Ringrazio i miei figli per la pazienza, mia moglie per avermi sostenuto nelle avversità, l’editore per aver creduto in me, i professori Tizio e l’esimio Caio per l’inestimabile contributo offertomi durante le ricerche, il mio cane Bobby per l’amore incondizionato … e avanti così per mezza, una o addirittura due pagine.

Spesso, durante la lettura, alla prima distrazione o stanchezza, vado a sbirciare chi l’autore ha sentito l’urgenza di ringraziare per la sua opera: a volte quella dei ringraziamenti è la pagina più ben scritta e divertente del libro. Capita di rintracciare lì suggerimenti per ulteriori scoperte, o scovare chi maledire per aver sostenuto tale imbrattacarte.

La sequela dei ringraziamenti è diventata un atto dovuto in calce alle fatiche letterarie dei tanti – troppi – scrittori; i più ossequiosi addirittura li azzardano prima dell’introduzione, dopo l’altrettanto immancabile dedica.

È un costume nuovo, almeno per quanto riguarda la letteratura. Oggi c’è chi ringrazia pure la mamma per aver regalato al mondo cotanto genio, mentre un tempo la riconoscenza si esprimeva soprattutto nelle tesi di laurea, con intenti chiaramente ruffiani. Solo in casi particolari si rendeva omaggio a qualcuno.

Gustave Flaubert ad esempio apriva Madame Bovary  con questa dedica e questo ringraziamento:

A Marie-Antoine-Jules Sénard
dell’Ordine degli avvocati di Parigi,
ex presidente dell’Assemblea nazionale,
ex ministro dell’Interno

Caro ed illustre amico,
mi permetta di scrivere il suo nome in testa a questo libro, e sopra la stessa sua dedica; perché a lei soprattutto ne devo la pubblicazione. Passando attraverso la sua splendida arringa la mia opera ha acquisito ai miei stessi occhi come un’autorità inaspettata. Voglia quindi accettare un questa l’omaggio della mia gratitudine che, per grande che possa essere, non sarà mai all’altezza della sua eloquenza e dedizione.

Ne aveva ben donde. Con la sua appassionata difesa Sénard aveva fatto assolvere il romanzo dall’accusa di oscenità, vincendo un processo che aveva suscitato un enorme clamore e che decretò il successo e la fama di Flaubert anche fuori dal suo paese.

Per contro, noto che Herman Melville in Moby Dick non ringraziò proprio nessuno per l’immensità del suo libro, ma si limitò ad una dedica:

In segno della mia ammirazione per il suo genio
questo libro è dedicato a Nathaniel Hawthorne

In questo caso l’intento è di rimarcare una solidarietà e un’amicizia reali, che rimasero sino alla fine intense e sincere, come si può evincere dal carteggio tra i due. Il ringraziamento è sottinteso: non è neppure necessario esprimerlo.

Ho invece l’impressione che nel costume attuale l’intento non sia solo quello di evidenziare il personale debito dell’autore verso chi gli è stato accanto nella realizzazione del libro o, più in generale, nella sua formazione letteraria o umana. È spesso anche l’occasione per rivalersi nei confronti di chi non ha dimostrato una convinta fiducia nelle sue capacità: che siano gli insegnanti, gli editor o l’ex ragazza. Come è possibile che non abbiano compreso la genialità quando si palesava loro innanzi? Per questo sono puniti o ignorandoli nella stesura dei ringraziamenti o addirittura ringraziandoli per il mancato sostegno, perché questo ha reso più forte e convinto di sé lo scrittore.

È, infine, l’ultima opportunità, prima che il lettore chiuda definitivamente il libro, per mettere in evidenza le capacità dello scrittore di trattenerne l’attenzione, rendendo interessante un elenco di persone. È, in sintesi, un esercizio di stile: vedi come so rendere intrigante persino una lista, come sono bravo a scrivere ciò che voglio e ciò che vuoi.

È un po’ quel che accade coi titoli di coda dei film: quando scorrono come semplice elenco di nomi su uno sfondo nero, ci alziamo, usciamo dal cinema o cambiamo canale. Mentre quando i nomi di produttori, attori, sceneggiatori, costumisti e tecnici vari, si sovrappongono a sequenze di backstage o a scene magari tagliate, rimaniamo a leggerli fino alla fine.

Ma anche i selfie e i social hanno le stesse funzioni dei ringraziamenti nei libri: sono l’autorappresentazione narcisistica dei molti cui importa l’apparire piuttosto che l’essere nella quotidianità. La vanità è assecondata e incoraggiata da una sequela di “grazie d’aver creduto in me”.

Insomma, dalla paginetta dei ringraziamenti emergono molti aspetti, tutti intesi a soddisfare la sete sempre più morbosa di conoscere i dati privati degli altri, piuttosto che a illuminarci in qualche modo sul contenuto del volume: l’ambiente familiare, la rete delle relazioni e dei legami sociali dello scrivente sono, qualche volta, una involontaria spia delle sue reali capacità. Recentemente mi è capitato di leggere i ringraziamenti in un manuale per incidere il legno. Da quella pagina si desumeva in pratica che il libro l’aveva scritto l’editor.

Alla fine comunque ciò che conta in un libro è il testo stesso. Ma anche qui, è sempre più evidente il bisogno narcisistico di protagonismo. È vero che ogni scrittore in ultima analisi scrive sempre di se stesso, ma un tempo la cosa non era così spudorata: si parlava di marinai e della caccia alle balene per raccontare i propri tormenti interiori. Oggi si scrive per lo più in prima persona narrando le proprie avventure, vicissitudini, meschinità, per poi assolversi con i compiacenti ringraziamenti finali.

Anch’io non posso dunque che ringraziare tutti voi per la paziente lettura, e mi sprofondo nella confortevole poltrona dell’amor proprio a leggere i ringraziamenti degli altri. Buon pro mi faccia.

Collezione di licheni bottone

Fauna in estinzione

di Fabrizio Rinaldi, 17 settembre 2019

Per fortuna accade ancora di stupirsi nel leggere un incipt che potrebbe competere con “Chiamatemi Ismaele” o con “Se davvero avete voglia di sentire questa storia”. Oggi m’è successo con Fauna di Vittorio G. Rossi.

Mi sono spinto fin sulle colline di Mosùl a cercare il diavolo; ma lassù il diavolo era diventato buono, così non l’ho trovato.
Si trova sempre quello che non si cerca; però si continua a cercare lo stesso, se no la vita diventa stupida.

Vittorio G. Rossi (bellissima e intrigante quella G.) scrisse molti libri sui suoi innumerevoli viaggi per mare e nei deserti mediorientali, con un linguaggio sintetico, pieno di sarcasmo e ironia, mai banale, da cui emergevano riflessioni cariche di poesia e disarmante lucidità come queste tratte da Maestrale.

La quantità di animale che è nell’uomo, nessuno la può calcolare; essa è grandissima; e continuamente essa aumenta o diminuisce, anche da un’ora all’altra, da un minuto all’altro; è un vincere e perdere continuo, senza soste; e il combattimento l’uomo se lo sente dentro, serpeggiare come un liquido pesante e oscuro; e lui non può farci niente per interromperlo o fermarlo.
Solo pochi possono condurre al guinzaglio la loro bestia oscura; ma è sempre una bestia al guinzaglio. […]
Essere animale è facile; essere uomo è difficile.

Le sue riflessioni sulle pulsioni umane non lasciavano spazio a fraintendimenti o a scappatoie di convenienza. Erano levigate e compiute – almeno per lui e per i suoi moltissimi lettori dell’epoca – come sa fare il suo amato mare con i sassi.

Bisogna scrivere con la propria pelle, cioè prima vivere, poi scrivere”. E questo fece: gli spunti li saccheggiava dall’esperienza vissuta sulle navi come capitano di lungo corso, fino ad arrivare a fine carriera, nel 1945, a congedarsi come tenente colonnello. Nel dopoguerra divenne un giornalista di punta del Corriere della Sera e di Epoca, tanto che nel 1951 fu il primo giornalista occidentale non comunista a visitare e descrivere la Russia sovietica. Durante i suoi peregrinare nel mondo fu palombaro, minatore, timoniere e pescatore. Lo si vedeva anche tra i carruggi di Santa Margherita (sua città natale) col suo quadernetto e la matita mentre annotava l’assioma del pescivendolo o la freddura della bottegaia, da cui partiva per i suoi racconti di mare, paragonabili per freschezza e incisività a quelli dei ben più celebri Hemingway e Conrad.

Così recita l’epitaffio sulla sua tomba: “poca terra molto mondo”. Una sintesi di vita piena, fino a ottant’anni, quando morì nel 1978.

Durante quella vita pubblicò molto e vendette tantissimo, ma venne snobbato da premi e salotti, intellettuali e dignitari, pur frequentando abitualmente l’inquilino del Quirinale, che all’epoca era l’amico e solidale Giuseppe Saragat.

Oggi neppure i disperati cacciatori di libri perduti che, come ultima spiaggia – o per narcisismo –, partecipano alla rubrica radiofonica Caccia al libro di Fahrenheit hanno mai cercato un testo di quest’autore. Su Amazon si trovano solo edizioni fuori catalogo da decenni, non una ristampa recente. È sicuramente da ritenersi “estinto” per la logica editoriale attuale.

L’oblio intellettuale calato su Vittorio G. Rossi ha il sapore di una vendetta tardiva per l’errore infamante che commise in gioventù: firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti scritto da Giovanni Gentile nel 1925.

Non sarebbe politicamente corretto ripubblicare uno scrittore con questo marchio addosso, a cui s’aggiunge una religiosità marcata e il peccato d’aver evitato l’intellighenzia salottiera dei premi “Strega” o similari. Ad essa preferiva la gente comune con cui condividere esperienze “salate” dal mare.

Per chi se ne frega dei pregiudizi e rifugge il premiato scrittore in erba, non resta che affondare le mani nelle bancarelle di libri dimenticati, con ben chiaro l’orizzonte di Rossi che è rintracciabile nel libro Il cane abbaia alla luna: “Nei libri non c’è l’odore delle cose raccontate; quasi sempre raccontate da gente che non ha mai visto le cose che racconta. Il basilico non è nei libri di botanica; è nell’odore di basilico”.


Collezione di licheni bottone

3. Mi son perso nel labirinto

di Paolo Repetto, 30 settembre 2018,da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Francamente, cosa (e chi) sono non lo so. Me lo chiedo da settant’anni e ancora non sono riuscito a darmi una risposta soddisfacente: forse i miliardi di cellule che perdo ogni giorno, soprattutto quelle cerebrali, sono più di cento, e questo mi crea una grossa confusione. Ho deciso da un pezzo di adottare come motto la battuta (ma non era una battuta) di Sholem: “Io non ho una biografia, ho una bibliografia”. Ovvero, sono quello che ho esperito (fisicamente, psicologicamente, sentimentalmente), quello che ho letto, quel che ho pensato in questi settant’anni. Vuol dire tutto e niente, e questo si presta perfettamente alla bisogna. A dispetto della senile passione per le scienze il mio retroterra è profondamente umanistico, e tendo a considerare il corpo, con tutte le sue cellule che trafficano e si sbattono e si riproducono e muoiono, e le conseguenti trasformazioni morfologiche e pulsioni ed eccitazioni (ahimè, un ricordo!) e, molto prosaicamente, i mal di schiena e gli affaticamenti (questi, invece, molto attuali) come un veicolo per la mia dotazione “libraria”: uno di quei bibliobus che si vedono nei telefilm scandinavi o australiani.

Fuor di metafora: penso che noi siamo uno e centomila (il nessuno lo escludo), non nell’accezione pirandelliana di come ci vediamo noi e come ci percepiscono gli altri, ma in quella biopsicologica di entità in continua evoluzione (significato neutro, che allude solo al cambiamento, involuzioni incluse), che conservano tuttavia una identità di fondo. Un po’ come la Golf, per capirci. In questo senso, avrei qualche obiezione alla lettura “meccanicistica” che Marco sembra adottare (sia pure con la giusta elasticità). Sarà pur vero che ”l’Io bambino è diverso dall’Io adolescente, così come l’Io adulto è diverso dall’Io vecchio”, e tuttavia tanto morfologicamente che psicologicamente l’adolescente, l’adulto e il vecchio non sono determinati solo da un programma già caricato nei nostri geni ma anche, e in misura rilevante, dagli scarti dal programma e dagli accidenti esterni, cui conseguono scelte interiori, sulle quali incidono, al di là della naturale disposizione di ciascuno, il tipo di opzioni offerte. A me da ragazzino regalavano i libri di Salgari, e si sente, mentre Edoardo deve essersi trovato in casa l’intera collezione di Urania (e si sente anche questo). Il materiale era quello, la scelta riguardava l’uso da farne. Credo si chiami epigenetica, e se non è proprio quella, è una parente.

Voglio dire che c’è un programma iniziale, e poi ci sono le contingenze e le occorrenze esterne che ne condizionano lo svolgimento (come a scuola, insomma), ma c’è anche un fattore incognito che è sì frutto della combinazione dell’uno e delle altre, ma in realtà la trascende: così che il risultato è diverso (in positivo o in negativo) dalla somma degli addendi. Questo vale anche a livello fisico: il mio io bambino, rotondetto e pacifico, non piaceva molto al mio io adolescente, che si è imposto una svolta più tonica e battagliera. Sulla spinta dell’abbrivio l’io adulto ha finito per non avere più terraferma e quello vecchio rompe ora le scatole perché si ostina a voler reggere certe velocità. Nel frattempo chissà quante generazioni di cellule si sono avvicendate, ma credo che sui ritmi dell’avvicendamento e sulle scelte di rottamazione abbia avuto il suo peso quella svolta, cioè un certo tipo di autocoscienza e una certa determinazione ad assumere un parziale controllo del processo. Dovrebbe essere questa la “cosa che non ha nome” di cui parla Saramago: noi siamo il prodotto di un banalissimo (insomma) egoismo “di specie”, siamo poi soggetti all’arbitrio del caso, ma ci ritagliamo entro tutto questo uno spazio di scelta, ovvero di libertà, e quindi di responsabilità. Noi siamo essenzialmente quello spazio: sia come singoli individui che come specie umana, momentaneamente egemone, siamo dunque responsabili (nell’accezione positiva e in quella negativa). E già il Marco di 4 anni si preparava, magari a suo modo (molto a modo suo), magari sperimentando in un laboratorio “tutelato” gli effetti dell’irresponsabilità, ad essere il Marco “responsabile” di 25 anni. Evidentemente la muta delle sinapsi ha funzionato meglio del cambio-gomme alla Ferrari e le informazioni hanno preso la strada giusta. Le sostanze chimiche (il carburante), gli impulsi elettrici e la struttura meccanica ci stanno tutti, ma il fine comune delle cellule, il traguardo, a questo punto non è più solo l’adeguamento al naturalissimo e sacrosanto processo di nascita-riproduzione-morte comune a tutte le creature, bensì l’“individuazione”, attraverso l’autocoscienza e il suo allargamento a “coscienza”, di quella particolare creatura di nome Marco.

Bene, ecco lì che il pippone paventato proprio da Marco è gonfiato a dismisura. Conviene tornare da dove siamo partiti, al futuro prospettato da Edoardo. Confesso che alla prima lettura mi avevano colpito, più che l’assunto generale, alcuni aspetti che trovo di fosca attualità. Darei per scontata ormai l’esistenza (e la pervasività) degli androidi organici, quelli che in Blade Runner sono chiamati replicanti. L’ultimo successo della Lego, la produzione (in crescita esponenziale) di copie in 3D dell’omino Di Maio, con giacca blu d’ordinanza, camicia bianca, capelli scolpiti a bassorilievo e faccette dentali a luce alogena, ha sciolto ogni dubbio. Purtroppo si sono dimenticati di distruggere l’originale. La novità sta piuttosto nella possibilità di sostituire i tessuti cerebrali con omologhi sintetici (a dire il vero, il sospetto che siamo già oltre la fase della possibilità lo coltivo da tempo, e si rafforza ogni volta che accendo il televisore). Se anziché sostituirli, ciò che postula l’esistenza di materiale organico di base, si arrivasse anche a crearli ex novo, la multinazionale dei mattoncini realizzerebbe il Di Maio perfetto. Certo, l’idea di una loro maggiore durata mi turba parecchio.

Il quesito giurisprudenziale se depositario di tutti i diritti debba essere o meno l’originale mi vede pertanto schierato dalla parte di Berlusconi, sintetico solo fisicamente, che rientra in gioco a ottantadue anni (la mia è anche una solidarietà anagrafica), contro le sue varie copie, tra l’altro malriuscite, che tentano di farlo fuori. E sia chiaro: se mio figlio domani mi intentasse una battaglia legale, cosa già oggi tutt’altro che insolita, per dimostrare che ho perso una parte di me e quindi non sono più io, rischierei di avvalorare la sua tesi prendendolo per la prima volta a calci nel sedere. Perderei la causa, ma almeno sarei io a determinare e a difendere i confini di ciò che sono.

Infine: l’eventualità di una mia copia, perfettamente identica, che circola per il mondo, è addirittura raccapricciante. Già fatico a dare una giustificazione della mia presenza, figuriamoci di quella di un doppio. Sarebbe solo un inutile spreco, d’aria, d’acqua, di risorse, persino di tempo. Oltretutto, visto che un po’ mi conosco, non riuscirei assolutamente ad andarci d’accordo, così come mi succede con me stesso. La cosa comunque mi ha turbato. Un tempo il mio incubo ricorrente era quello di perdere tutti i denti. Da qualche mese è diventato quello di essere padre della super-blogger alessandrina “discriminata” dalla scuola perché non ha tempo per frequentare le lezioni, e quindi marito della signora che ha impazzato sui social per tutta l’estate. Ora rischio di sognare tutte le notti una tragedia stevensoniana di gemelli identici, anzi, togliamoci il “gemelli”, in mortale conflitto. Dovrò ricorrere agli psicofarmaci.

E chiudo qui. Mi rimane però aperta una domanda.

A proposito di fattori esterni (epigenetici?) che incidono sulla coscienza: di cosa si nutre Edoardo?

1. La Nave di Teseo

di Edoardo A. Pastore, 26 settembre 2018,da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Introduzione di Marco Moraschi

Come qualcuno mi fa notare, in questo periodo sono in vena di “pipponi mentali”, ma evidentemente sono in buona compagnia visto che il mio amico Edoardo si è premurato di farmi avere il suo. Naturalmente non poteva che innescare un meccanismo pericoloso, per il quale i pipponi mentali si richiamano a vicenda, ed è così che ho scritto un commento pipposo al suo pippone. Buona lettura.

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Il paradosso della nave di Teseo suppone che la nave appartenuta al famoso eroe venga tenuta ormeggiata al molo come un pezzo da museo. Col passare del tempo però, le parti di cui è composta che incominciano a deteriorarsi vengono sostituite con nuove parti, fino a quando, trascorsi gli anni, delle parti originali non rimane più traccia. La domanda insita in questo paradosso è: la nave le cui parti sono state interamente sostituite è ancora la nave originale oppure è una copia?

La prima volta in cui lessi questo paradosso, ritenni la risposta così scontata che non capii come qualcuno potesse essersi posto il problema: naturalmente la nave le cui parti sono state sostituite per intero non è più la nave originale, ma nient’altro che una riproduzione, in quanto vengono a mancare i presupposti stessi dell’originalità. Tecnicamente non sarebbe più stata del tutto originale anche se avessero sostituito una soltanto delle sue componenti, al massimo sarebbe stata una nave restaurata con metodo non conservativo. Qualora avessero voluto mantenerne l’originalità, infatti, avrebbero dovuto conservare le parti originali prendendo tutte le possibili precauzioni affinché non si deteriorassero (atmosfera protettiva, sostanze chimiche che ne ritardassero il deterioramento, ecc …).

Poco dopo, ripensando a questo paradosso, mi vennero però in mente implicazioni ben più profonde e di più difficile risoluzione, se lo si fosse trasposto sugli esseri umani e, nello specifico, al concetto di identità. Immaginiamo quindi un mondo futuro, un mondo in cui per mezzo della tecnologia sia possibile estendere la vita umana e la capacità di ricordare oltre limiti prima impensabili. Per ottenere ciò il mondo della fantascienza ci offre innumerevoli possibilità, ma prendiamone una in particolare: la sostituzione di tutti i tessuti umani, compresi quelli cerebrali, con una variante sintetica e molto più duratura. Questa tecnica prevede il potersi iniettare nel corpo delle nano macchine (ma anche virus o batteri modificati vanno bene lo stesso) le quali, una volta entrate in circolo, operano come segue: individuano una cellula e, dopo averne fatto una copia identica nell’aspetto e nelle funzioni, eliminano l’originale. Questo non avviene solo con i tessuti muscolari, scheletrici o connettivi, ma anche e soprattutto con quelli nervosi. Ne deriva che tutti gli ammassi cellulari nei quali sono custoditi i nostri ricordi, ma anche le complesse strutture che regolano la nostra reazione agli stimoli esterni, ovvero il carattere e gli atteggiamenti, vengano duplicati, e l’originale eliminato.

Questo processo, tuttavia, è estremamente lento e graduale e colui che lo sta vivendo non si rende minimamente conto che esso sia in atto. Ne deriva che nell’arco di qualche tempo ogni singola cellula del corpo, comprese quelle che determinano la coscienza ed i ricordi, siano sostituite da copie sintetiche. Questa persona si comporterà esattamente come si comportava prima del processo, amerà le stesse persone, avrà gli stessi ricordi delle stesse esperienze, percepirà il mondo e reagirà agli stimoli esterni esattamente nello stesso modo in cui avrebbe reagito se nulla fosse accaduto. Sarebbe quindi questa persona la stessa di prima? Sì? No?

Ora, cosa cambierebbe se il processo si svolgesse diversamente? Ovvero, se la persona venisse duplicata istantaneamente e l’originale ucciso, senza che possa rendersene conto, nel momento stesso in cui la copia viene creata? Di primo acchito si potrebbe dire che sono due cose completamente diverse, ma i dubbi inizierebbero a sorgere nel momento stesso in cui ci si rendesse conto che la sola differenza che sussiste tra un processo e l’altro è che uno si verifica in maniera graduale e l’altro istantaneamente. D’altronde, in entrambi i casi tutto ciò che costituiva l’originale, ogni singolo elemento, è stato eliminato. È quindi la gradualità ciò che rende una situazione paragonabile ad un “upgrade” e l’altra un omicidio? Ricordo che entrambe le copie sono diverse dall’originale nella biologia, ma identiche in tutto e per tutto all’originale nel modo di comportarsi e ricordare e, soprattutto, identiche tra di loro.

Questo paradosso ci porta a considerazioni in merito a cosa ci rende ciò che siamo: è la coscienza? Ma cos’è la coscienza se non un modo di reagire agli stimoli esterni determinato, in modo molto prosaico, da una combinazione di sostanze chimiche in varie proporzioni, e dalla presenza di una struttura che ha molto più in comune con la meccanica di quanto non abbia con la concezione cristiana dell’anima (una sorta di “software” di natura non ben definita)?

Con questi presupposti, entrambe le situazioni sopra presentate dovrebbero apparirvi uguali: ma allora perché accogliereste con gioia ed eccitazione la possibilità di un notevole miglioramento della vostra condizione fisica (specie se indolore) e solo l’idea di poter essere prima duplicati, e poi uccisi, vi fa accapponare la pelle? Non dovrebbe essere la stessa cosa? Oppure la differenza non sta solo nel metodo, ma c’è qualcos’altro? Vi è forse la possibilità che la definizione di coscienza utilizzata come presupposto delle precedenti affermazioni sia da considerarsi errata?

Ora, facciamo un’altra ipotesi. Siamo nel secondo caso, ovvero in quello in cui venite duplicati e poi uccisi: ipotizziamo che nel processo qualcosa vada storto e voi, o meglio, il voi originale, sopravviva. Ci si ritroverebbe ad avere due di voi esattamente uguali in tutto e per tutto. Legalmente come dovreste essere visti? Chi dei due avrebbe diritto su cosa dell’altro? Immediatamente uno penserebbe che sia l’originale il vero depositario di tutti i diritti, ma ciò significa quindi che alla copia dovrebbe essere negato ogni diritto sugli averi dell’originale? D’altronde la copia ha faticato tanto quanto l’originale per ottenere ciò che possiede ed ama i figli e la moglie esattamente allo stesso modo. Si vuol quindi negare la possibilità alla copia di tornare a casa ad abbracciare i figli, coi quali condivide tutti i ricordi e che ha contribuito a crescere? Senza dimenticare il fatto che creare una copia di sé stesso era esattamente nelle intenzioni dell’originale.

Tempo fa lessi un libro intitolato “L’età dell’Oro” di John C. Wright. In questa storia, ambientata in un futuro lontano, l’uomo è divenuto immortale, in quanto la sua coscienza è “salvata” in un cloud, e si muove sulla Terra attraverso il controllo da remoto di un “manichino”, una sorta di robot all’interno del quale si ha l’impressione di essere in un vero corpo. Tuttavia, ciò è possibile soltanto finché si rimane sulla Terra, ovvero alla “portata” del sistema che offre questo prodigioso servizio. Chi volesse viaggiare nello spazio avrà quindi come unica opzione quella di trasferire la propria coscienza per intero all’interno di un corpo reale ed effettuare il backup di sé stesso di tanto in tanto, per mezzo di una comunicazione via laser, verso la stazione di “vita eterna” più vicina. Il padre del protagonista aveva fatto proprio questo: aveva trasferito la propria coscienza in un corpo reale, per poter lavorare alla costruzione di un’astronave lontana dalla Terra, ma proprio mentre stava lavorando si era verificato un incidente: la nave in costruzione era esplosa e lui era morto mentre il trasferimento non era ancora completato. Il problema è che ciò che di lui era già stato trasferito era autocosciente e possedeva la stragrande maggioranza dei ricordi originali. Ne deriva che il figlio, desideroso di mettere le mani sull’astronave, indice una feroce battaglia legale nei confronti di ciò che rimane del padre, per dimostrare che il padre non è più lui, in quanto ha perso una parte di sé. Di conseguenza, il figlio sarebbe da considerarsi ereditiere ed il padre tecnicamente e giuridicamente morto.

Quando lessi questo romanzo non potei fare a meno di fare un parallelismo con il mondo reale: è come se qualcuno che ha perso dei ricordi a causa di un incidente non fosse più ritenuto la stessa persona di prima, e venisse quindi privato di ogni diritto sui suoi possedimenti in favore dell’eventuale prole. Questo suona orribile e completamente immorale, ma ciò non vieta che un giorno, in una società profondamente diversa dalla nostra, i confini di ciò che determina ciò che siamo non vengano tracciati in una maniera del tutto dissimile a quella a cui siamo abituati.

Elisa nella stanza delle meraviglie

di Paolo Repetto, 21 giugno 2017 (edito nell’autunno 2005, aggiornato nel 2017)

Carissima Elisa,

trovo finalmente il tempo per scrivere queste pagine e dedicartele. L’idea c’era da un pezzo, ma continuavo a rimandare. Ora mi rendo conto di doverlo fare subito, prima che sia troppo tardi.

Non ti allarmare: non devo fare penose confessioni e non sono preoccupato per la mia salute. Sto bene e sono trasparente come l’acqua. È invece di te che mi preoccupo; stai crescendo troppo in fretta, e tra un paio d’anni non potrò più illudermi che tu abbia voglia di ascoltarmi. Perché voglio parlarti di libri, dei miei libri, e soprattutto di quella parte della mia vita che ho vissuto con e attraverso i libri. E allora capisci perché devo farlo ora, mentre ancora coltivo qualche speranza.

Quindi, tranquilla. I libri sono un pretesto. Ma lo sono fino ad un certo punto. La verità è che vorrei continuare a parlarti, non solo “dopo”, anzi, possibilmente “prima”, e credo di poterlo fare anche tramite loro. Avrei magari preferito parlarti attraverso libri scritti da me, ma non ne sono capace, sono pigro e al tempo stesso troppo esigente (con me come con gli altri), e nemmeno credo che tutti debbano scrivere libri. Così mi accontento di parlarti attraverso quelli che ho letto, e che spero tu leggerai. Qualcosa di me lo troverai senz’altro. Qualche sottolineatura, qualche punto esclamativo, a volte persino qualche commento. So per esperienza quanto sono rivelatori certi segni rispetto a chi ti ha preceduto nella lettura, dei suoi gusti, delle sue idiosincrasie, delle sue manie.

Il lascito è pesante. Forse non è nemmeno giusto caricare qualcun altro delle nostre passioni, soprattutto di quelle librarie. Forse, o senz’altro, sarebbe meglio consentire a ciascuno di farsi (o non farsi) la propria biblioteca, così come è accaduto a me. Ma i libri ci sono, ed egoisticamente vorrei che rimanessero e continuassero ad avere un senso. Quale, sta a te darglielo. Io posso solo raccontarti quale e quanto ne hanno avuto per me.

INDICE

Elisa nella stanza delle meraviglie1) RAGGUAGLIO SULLA FISICITÀ DEI LIBRI
Sulla consistenza
Sulle infrastrutture (leggi: scaffali)
Sui criteri di collocazione
Sulla manutenzione
Una riflessione

2) LETTERATURE
La cameretta
Lo studio
Letterature: gli Italiani
Letterature: iberici, latinoamericani, ebrei ed altri
Letterature: russi, scandinavi e tedeschi
Letterature: i francesi
Letterature: gli americani
Letterature: gli inglesi

3) ALTRE LETTERATURE
Moderni e postmoderni
Altre letterature: i classici

4) VIAGGI, SCALATE, ESPLORAZIONI

SAGGISTICA 1) La storia
Le civiltà extraeuropee
La storia sociale
La sociologia
Utopisti ed eterodossi
Extravaganti, maschi e femmine
Emarginati ed esclusi
Eretici ed esoterici
Ebrei

SAGGISTICA 2) Storia delle idee
Semiotica e storia dei linguaggi
Psicologia e psicoanalisi
Filosofia

SAGGISTICA 3) Storia della Scienza

RITORNO ALLA STANZA DELLE MERAVIGLIE (Appendice 2017)

Stipare
Viaggiare (a piedi e non)
Salire
Raffigurare
Indagare
Pensare
Ricordare

 

 Prima giornata

1) RAGGUAGLIO SULLA FISICITÀ DEI LIBRI

Sulla consistenza

In questo momento la mia biblioteca dovrebbe ospitare circa settemila volumi. Non lo so con esattezza, ho smesso di contarli anni fa. Non li ho mai catalogati (anche se ho intrapreso più di un tentativo) e riesco ad avere un’idea della quantità solo calcolando una media per scaffale. Credo comunque che oltre una certa cifra i numeri non abbiano più importanza. Sono già significativi del passaggio dall’amore per i libri alla bibliomania. Amare i libri comporta possederne tanti quanti se ne sono letti o si ha realisticamente l’intenzione di leggere, mentre la bibliomania è uno stato patologico, che sfocia in un accaparramento fine a se stesso, in una accumulazione molto “capitalistica”. Io sono un bibliomane, e te ne darò le prove.

Seimila volumi accumulati negli ultimi trent’anni (tra i quindici e i venticinque ero arrivato a circa un migliaio) significano una media di duecento libri l’anno. Calcolando che sono un lettore velocissimo, ma tenendo conto che nel frattempo ho anche lavorato – nella scuola e più ancora in campagna –, ho praticamente costruito un paio di case, ho scritto sui temi più disparati, ho scalato montagne e fatto cene con gli amici, e non ultimo ho avuto tre figli e due famiglie, posso aver letto tra i sessanta e gli ottanta libri l’anno. Almeno due terzi dei libri che possiedo, quindi, non li ho letti.

In compenso li conosco. Non ho mai riposto un libro negli scaffali senza averne assaggiato qualche pagina, oltre ad aver letto i risvolti di copertina, l’indice e qualche volta l’introduzione. Posso affermare di sapere, almeno per sommi capi, di cosa parla ciascun libro della mia biblioteca. E quindi posso fare ad esso riferimento in qualsiasi momento, quando se ne presenti l’opportunità.

Un caso a parte è costituito dai libri di saggistica (che sono la maggioranza). Spesso ne ho letto solo alcune parti, o passi specifici che potevano tornarmi utili per qualche ricerca. Quindi in fondo non è vero che non li abbia letti: ho letto quello che mi serviva.

Quanto alla sindrome dell’accumulo, che comunque esiste, ha anch’essa una parziale giustificazione, anzi, ne ha diverse. Ci sono libri che prendi in un momento nel quale non hai assolutamente tempo o disposizione per leggerli, ma che ti riprometti di leggere al più presto – e magari il tempo e la voglia non arrivano mai più. Altri ancora, specie quelli particolarmente ponderosi, li metti da parte “per l’inverno”, in vista di non augurabili ma possibili lunghe degenze o convalescenze, o addirittura detenzioni (non sto scherzando. Non del tutto, via. Secondo le statistiche nessuno legge quanto i ricoverati o i carcerati – per ovvi motivi. E personalmente ho il ricordo di un isolamento di trentadue giorni per epatite, negli anni sessanta, senza il quale non avrei mai letto “Guerra e pace”).

Ci sono infine quelli che “devi” avere per completezza. I nomi che ti si sono stampati nella mente studiando le storie delle diverse letterature hanno un’aura particolare: sai benissimo che non leggerai mai “La desinenza in A”, che pure ti aveva intrigato da studente, ma ritieni che la tua sezione di letteratura italiana non sarebbe sufficientemente completa senza quel volume. Questo vale naturalmente per le opere letterarie. Per la saggistica è più facile che il libro che acquisti ti intrighi davvero, anche se a breve non avrai il tempo di affrontarlo, perché ritieni possa rivelarsi utile in vista di possibili o probabili ricerche. In qualche modo cerchi di riempire la dispensa di saperi che siano a portata di mano per ogni evenienza.

A non avere spiegazioni di alcun tipo, se non connesse alla sindrome maniacale, sono invece quei titoli che possiedi in due o più edizioni, perché li avevi acquistati ed utilizzati magari in economica e li hai poi trovati in una veste più lussuosa, rilegata o comunque accattivante. Quando il numero delle edizioni possedute supera il tre conviene cominciare a preoccuparsi e pensare a qualche terapia (che non esiste).

Settemila volumi sono davvero tanti. Anche se si trattasse di sole edizioni economiche, con un peso medio (verificato) attorno ai tre etti, si arriverebbe ad un paio di tonnellate di carta. Dal momento che oltre la metà sono edizioni rilegate, con peso medio attorno agli otto etti, posso stimare un ordine di quattro-cinque tonnellate. Un bel carico, pure se distribuito perimetralmente. Non sarebbe male fare ogni tanto delle verifiche strutturali sui muri maestri e sulle solette.

Nella cifra – e nel peso – ho incluso quasi tutto il mio patrimonio librario, compresi i libri per la gioventù, l’antiquariato, i vari dizionari (una quindicina, per undici lingue – di cui tre morte e sette che non conosco) e le enciclopedie; ho escluso invece le raccolte di riviste storiche, antropologiche e scientifiche, e tutto il settore scolastico, che stante la mia professione è piuttosto consistente.

Questa mole di roba occupa anche un notevole spazio. Qui posso essere più preciso. Le scaffalature per i libri occupano circa cinquanta metri quadri di pareti, distribuiti su quattro locali. Altri otto metri sono occupati in un rustico che ho riattato in aperta campagna.

C’è infine un altro aspetto da considerare, quello patrimoniale. Ho provato a calcolare quanto ho speso in più di quarant’anni per i libri, e quale potrebbe essere il loro attuale valore, facendo le debite rivalutazioni dei prezzi. Ho tenuto conto di tutta una serie di variabili (acquisti scontati, metà prezzo, regalie, ecc…) e credo di poter arrivare a una valutazione credibile, senz’altro approssimata per difetto, tra i sessanta e gli ottanta milioni di vecchie lire (il prezzo medio di un economico, oggi, è attorno ai dieci euro, ventimila vecchie lire). Se dovessi buttare il tutto sul mercato dell’usato riuscirei a spuntare (data la qualità e lo stato di conservazione) venti milioni. A conti fatti, anche come investimento prettamente economico si è mostrato senz’altro superiore a quelli nei Bond argentini o nei titoli tecnologici.

Una spesa di due milioni l’anno in libri (non una tantum, ma per quarant’anni) può sembrare un tantino esagerata. In realtà, se ci si riflette, è nulla rispetto ai sette e passa milioni annui che mi è venuto a costare nello stesso periodo l’uso dell’auto, tra svalutazione, benzina, assicurazioni e accidenti vari, ed è pari a quanto ho buttato letteralmente in fumo per la disperazione dei miei polmoni. Senza contare i vantaggi collaterali, seme di ordine puramente economico, che ha comportato, come ad esempio il non dover investire in quadri o in mobili per riempire le pareti. Quel problema è stato infatti risolto con semplici scaffalature.

Bada che è un aspetto tutt’altro che secondario. Chi entra in una casa zeppa di libri, fosse anche la più pettegola delle amiche, deve sospendere i normali criteri di giudizio relativi all’arredo di interni. L’arredo dominante sono i libri stessi, quindi o li ama, e allora si immerge e gode, e non gli frega nulla se i mobili sono antichi e se c’è l’idromassaggio, oppure non li ama ma li teme, e capisce di essere in una dimensione altra, nella quale non ha alcun senso esibire megaschermi o divani in pelle di lucertola, e si arrende. Ma vallo a spiegare alle mogli che si lamentano per l’invadenza dei libri dei mariti (non conosco mariti che si lamentino per l’invadenza dei libri delle mogli).

Sulle infrastrutture (leggi: scaffali)

La storia della mia biblioteca può essere raccontata anche partendo dagli scaffali. Ne possiedo di diverse tipologie. Quella passata nel rustico è la prima scaffalatura seria che ho potuto permettermi, pressappoco attorno ai venticinque anni. In precedenza mi arrangiavo con trespoli del Postal Market, che si ordinavano via catalogo, erano in truciolato sottile rivestito di formica e assumevano ben presto le curvature più incredibili. Ricordo che dovevo rivoltare sottosopra i ripiani almeno una volta al mese. Ma il mio primo scaffale in assoluto era stato un pensile, realizzato da un falegname del paese che aveva in mente come unico modello una piattaia, e nessuna cognizione del suo uso. Avevo dodici o tredici anni. Lo riempii subito con tutto ciò che di cartaceo avevo a disposizione, giornalini compresi. Dopo pochi mesi cominciò ad essere abitato da un tarlo, anzi, da generazioni successive di tarli, che la notte mi facevano impazzire (era appeso in camera). Mi alzavo e pestavo sul legno con scarpe, libri, con tutto ciò che avevo a portata di mano. Taceva per dieci secondi e poi riprendeva. Tutto questo è andato avanti per anni, nella più assoluta inconsapevolezza di mio fratello, che continuava beatamente a russare, a volte in sintonia col tarlo. Oggi quello scaffale lo trovi appeso in magazzino. I tarli sono stati uccisi dal freddo.

I primi scaffali seri erano comunque assolutamente poco funzionali e ingombranti, alti solo due metri, profondi quasi mezzo, adatti per disporre i libri su tre file, con pianali fissati rigidi: ciò che di peggio può essere immaginato per un bibliofilo. Ma erano anche i più economici.

Il salto di qualità l’ho realizzato quasi quindici anni dopo, quando ho fornito lo studio di una scaffalatura dignitosa, con ripiani mobili e robusti. Ho risolto il problema della profondità con una complicata operazione di taglio e riassemblaggio di montanti e ripiani, che mi ha consentito di aumentare di un terzo la metratura quadrata.

Negli ultimi anni, a seguito anche delle disavventure familiari, ho potuto realizzare un doppio sogno: quello di invadere con i libri anche il “tinello”, partendo dalla copertura della parete di fondo, e quella di costruirmi personalmente anche gli scaffali, in legno massiccio. Ne vado particolarmente fiero. Ad uno sguardo attento non possono sfuggire le imperfezioni, ma il colpo d’occhio immediato è notevole, i pianali sono robustissimi, la profondità è quella giusta per risultare pienamente funzionale e non ingombrante.

Esiste infine una quarta scaffalatura, ereditata, che assomma ai difetti di dimensione dell’arredo da ufficio una fastidiosa lamella metallica a vista, e che quindi è stata relegata in una camera decentrata. Ed altri pezzi sparsi, tra i quali due pregevoli (per me, almeno) vetrinette, perfette per i libri d’antiquariato.

Non prevedo, al momento ulteriori acquisizioni strutturali. Non saprei dove metterle. Il corridoio è stretto, il bagno è microscopico, in camera tua non c’è più spazio. Se vorrai continuare nell’opera dovremo inventarci qualcosa.

Sui criteri di collocazione

I miei libri sono disposti secondo un ordine ben preciso. Per discipline la saggistica, per aree linguistiche la letteratura. Sono poi ordinati secondo diversi criteri di suddivisione. Per la letteratura ho adottato il criterio cronologico: per ogni area parto dalle origini e procedo per autori, in successione biografica (quindi non in base alle date di pubblicazione dei testi, ma a quelle di nascita degli autori). Per la saggistica mantengo il criterio cronologico per alcune discipline, mentre procedo per aree, per assonanze o per temi in altre, oppure combino assieme i vari criteri. Ad esempio: i testi storici e le biografie sono disposti in base al periodo storico di riferimento, ma in alcuni casi questo criterio si associa alla suddivisione per aree geografiche (popoli extraeuropei) o tematiche (biografie di rivoluzionari, di scienziati, ecc…). Lo stesso accade per Filosofia e per la Storia delle idee.

I criteri di collocazione dei libri possono essere svariati. Non tutti sono sensati, anche se danno l’impressione di riuscire funzionali. Trovo ad esempio irritante la collocazione per ordine alfabetico. Può andare bene in una biblioteca pubblica, o in una libreria, dove l’utenza va in cerca di un’opera ben precisa e deve poterla facilmente reperire. Ma è assurda in una biblioteca privata. La biblioteca privata non è una raccolta di libri. È un archivio della memoria che riveste funzioni ben diverse da quella pura e semplice del contenitore. Deve offrire un quadro ragionato delle possibilità, suggerire percorsi, raccontare storie. Se ho in mente un tema, e voglio approfondirlo cercando di sapere come lo hanno trattato autori diversi in diverse aree linguistiche, devo poter fare scorrere lo sguardo su titoli che seguono un certo ordine temporale, magari partendo da un preciso periodo o limitandomi ad un’area specifica. Una volta rintracciato in un autore il tema in questione, saranno le parole stesse di quest’ultimo a evocarmi il ricordo di altre pagine, a rimandarmi ad altri autori. Più che mai questo criterio è importante per la saggistica, storica, letteraria o scientifica che sia.

Naturalmente, una collocazione di questo tipo presuppone che si abbia un’idea piuttosto precisa, ad esempio, della biografia o almeno dei dati anagrafici degli autori. Ma questo, per chi possiede settemila volumi, è implicito.

Al di là comunque dei criteri generali di collocazione ne esistono altri, più particolari e più soggettivi, nei quali non ha molta importanza la funzionalità, ma entra in scena la rappresentazione. I libri che possiedi non solo sono una parte di ciò che sei, ma lo dicono anche. Parlano a te, ma parlano anche di te a chi è capace di ascoltarli. E allora è naturale che scattino anche malizie di depistaggio, che si cerchi cioè di farli parlare non solo di ciò che si è, ma anche di come si vorrebbe apparire. Esistono quindi criteri di collocazione che sono motivati in parte da ragioni estetiche, in parte da intenzioni comunicative.

La motivazioni estetiche possono riguardare ad esempio le dimensioni o il colore. Tomi piuttosto voluminosi ed alti stonano se collocati al centro del ripiano, magari stretti da ambo i lati da volumetti di formato più ridotto. Anche quando non lo suggeriscono ragioni di opportunità e di equilibrio nella distribuzione dei pesi, come non caricare al centro per evitare la deformazione del legno, dovrebbe intervenire il buon gusto. Lo stesso vale, quando è possibile, per gli accostamenti di colore. Non disturbano tre o quattro volumi della stessa collana, ma è piatto e orribile un intero ripiano riempito con volumi dalla stessa veste editoriale.

Le intenzioni comunicative creano equilibri e determinano scelte molto più complesse. Già nel loro assieme i libri esibiscono un nostro vero o presunto sapere, dispiegano la varietà e la molteplicità delle nostre conoscenze, o concentrano invece sulla loro specificità e profondità. Duemila volumi di psicologia ci qualificano in maniera ben diversa da quattromila sparsi su venti discipline: i primi parlano di uno specialista, i secondi di un enciclopedico dilettante. Nel primo caso il problema delle sub-collocazioni preferenziali evidentemente non si pone. Nel secondo è invece fondamentale. Su scaffalature di quasi tre metri di altezza, mediamente divise in sette-otto spazi orizzontali, bisogna considerare pienamente utili in termini comunicativi tre o quattro spazi, escludendo i due più alti e i due più bassi. È difficile che qualcuno si inginocchi per andare a sbirciare i titoli posti rasoterra, o salga su una sedia per decifrare quelli al soffitto. Si concentrerà su quelli ad altezza d’occhi, nelle due posizioni in piedi o seduto. Occorre quindi fare una prima scelta delle discipline o delle sezioni che si ritiene ci rappresentino poco o non ci rappresentino più, ed esiliarle negli spazi più decentrati (d’altro canto, è lo stesso criterio col quale vengono valutati i prezzi per i loculi cimiteriali: quelli delle file centrali sono più cari). In genere questo criterio ha anche delle motivazioni funzionali: se si ritiene che un determinato settore ci rappresenti poco è perché in quel momento lo frequentiamo poco, quindi abbiamo minore necessità di ricorrere alle “schermate” o di cercarvi titoli particolari.

Esempio pratico: nella mia libreria il settore dottrine politiche, dottrine economiche, marxismo ha goduto per lungo tempo di una collocazione centrale. Poi ha cominciato gradualmente a perdere posizioni, sospinto verso l’alto dall’ingresso di nuovi interessi e priorità. Ben prima della caduta del muro di Berlino o dell’abiura al comunismo della sinistra italiana era arrivato ad occupare l’ultimo ripiano in alto, nella posizione d’angolo. Credo di non avere più pescato un libro di lassù negli ultimi quindici anni. Li sposto solo per togliere la polvere (ma so di biblioteche dove è andata ancor peggio, e certe sezioni sono proprio scomparse). La stessa sorte è toccata alle sezioni di storia delle religioni, scivolata nei ripiani a terra, e di antropologia, esiliata in alto. In compenso hanno conquistato posizioni centrali le biografie (quelle degli “irregolari”, da Saint-Just a Camus), l’ebraismo, la letteratura di viaggio, la storia delle idee. Si potrebbe ricostruire la vicenda culturale di una generazione, seguendo questi spostamenti.

Esistono poi ulteriori e sottili malizie. Si possono riservare un paio di ripiani, quelli assolutamente centrali, più accessibili, maggiormente in luce, all’attualità (degli interessi). Agli ultimi libri che hanno suscitato entusiasmi o riflessioni, che si vogliono partecipare agli altri e condividere. Una sorta di vetrinetta delle novità, con i volumi non troppo pressati per essere facilmente estraibili dal visitatore curioso, che ti domanda di che si tratta e com’è. In questi spazi c’è posto naturalmente anche per le stravaganze, quelle chicche che è difficile trovare in circolazione e che tanto suggeriscono del tuo fiuto speciale e della tua appartenenza al gruppo iniziatico dei “veri conoscitori”. Questa vetrina deve essere un autentico fiore all’occhiello, va rinnovata con discrezione, con piccoli spostamenti, sporadiche rimozioni e oculati innesti. È fondamentale.

Sulla manutenzione

La vita fisica media dei libri editi dopo la seconda guerra mondiale non supererà, secondo gli esperti, il mezzo secolo. Responsabili di questo rapido degrado sono la pessima qualità della carta, che per lo più è riciclata o ricavata dagli stracci, gli inquinanti atmosferici, che agiscono sui libri come su tutto il resto, ma soprattutto l’idea stessa di merce di consumo che ha investito anche la cultura, e che porta a risparmiare al massimo sul materiale e sulla cura nella confezione. Si prospettano quindi visioni apocalittiche, intere biblioteche che andranno in polvere e patrimoni di sapienza che saranno dispersi al vento. Non so se le cose stiano veramente così, ho l’impressione che le previsioni siano un tantino allarmistiche e influenzate anche dalla voglia di informatizzare tutto, ma è certo che la durata di un libro non può essere indefinita, e che a differenza di quelli antichi, fatti con carta particolarmente resistente e curati nell’edizione, quelli attuali, compresi i miei, dureranno decisamente poco. Sono già costretto a constatare che gli economici tendono a scollarsi, a disfarsi e a perdere pagine, e temo che la malattia non tarderà ad aggravarsi.

Questo sta nel naturale destino delle cose, e noi non possiamo farci nulla, o quasi. Possiamo però evitare di accelerare lo sfascio con un’attenzione ed una manutenzione che non richiedono un grosso sforzo, adottando pochi ma essenziali accorgimenti. Cerca dunque di aprire bene le orecchie, se intendi continuare a frequentare il mio studio.

Il primo accorgimento riguarda le modalità fisiche della fruizione, per intenderci il modo in cui vanno maneggiati i libri. Un libro non lo si spalanca, le pagine non sono persiane: lo si apre. Ogni volta che sento un crack da apertura di libro provo un lancinante dolore fisico, come se mi schiacciassero una vertebra. Lo stesso vale per il lancio dei libri, sul tavolo, per terra o sul divano. I libri non si lanciano, si posano, e non spalancati, ma chiusi. Un libro va poi tenuto possibilmente con entrambe le mani, anche perché così si è impossibilitati a fare qualsiasi altra cosa, come mangiare o bere, col rischio di sporcarlo, e questa è la condizione unica e ideale per leggere.

Un altro accorgimento è quello di evitare assolutamente orecchie o piegoni vari per segnare le pagine. Esistono segnalibri di tutte le misure e per tutti i gusti, sulla scrivania ne trovi un’intera collezione, con pezzi anche pregiati; ogni volta che preleverai un libro da questi scaffali premurati di procurarti anche un segnalibro, e di riporlo poi a lettura ultimata. Un libro unto e spiegazzato ferisce la mia sensibilità come una bella ragazza trasandata, e contrasta con la mia idea di ordine cosmico.

Un malvezzo altrettanto abominevole, da scoraggiare e da stroncare sul nascere, è quella della sottolineatura, soprattutto quella di sottolineare i libri altrui. Mi obietterai che a me capita di sottolineare qualche parte, soprattutto nei libri di saggistica: ma accade raramente, per testi che uso per lavoro o che prevedo torneranno utili, e soprattutto lo faccio con i libri miei. La sottolineatura è come un tatuaggio, se la pelle è tua puoi decorarla come vuoi, quella degli altri no, e comunque sai che oltre un certo limite finisci per deturparla.

Più scellerata ancora è l’abitudine recentemente invalsa, soprattutto tra gli studenti, di evidenziare con colori fluorescenti. Purtroppo hai già perso l’innocenza e hai cominciato a farlo anche tu. Ora, a parte il controsenso di una pratica che porta in genere ad evidenziare tutto, il che equivale a non mettere nulla in evidenza e soprattutto a non aver capito affatto cosa meritava davvero di essere colto, quelle pagine sconciate da strisce o da interi quadrilateri gialli e verdi risultano illeggibili e ti respingono.

L’ultimo accorgimento è infine quello di dare in prestito i propri libri solo a persone fidate, o meglio ancora non darli in prestito affatto. In più di un’occasione per recuperarli ho dovuto sudare sette camicie, ricorrere alle minacce e rompere delle amicizie, e ciò nonostante molti non mi sono tornati, o troppe volte sono tornati disfatti, macchiati e sottolineati. In questo caso non si tratta di insana gelosia, ma di sacrosanto e conseguente senso del rispetto. Sono dell’idea che i libri esistano per essere letti, e quindi vadano fatti circolare: ma proprio per poter circolare debbono essere conservati integri.

Ancora una cosa. I libri tendono a raccogliere polvere, che date le modalità e gli spazi ristretti dello stoccaggio non è facile rimuovere. Si possono ripassare con una certa frequenza con il braccio snodato dell’aspirapolvere, o con gli appositi piumini, e già questo quando ne hai settemila è un lavoro, ma è necessario anche ogni tanto smuoverli uno per uno, magari con la scusa di un avvicendamento o di una revisione dei criteri di collocazione. È una prassi utilissima, intanto perché ravviva la confidenza fisica con i volumi e ti aiuta a ricordare cos’hai, o a scoprire magari che un libro tanto desiderato lo possedevi già, poi perché ti aggiorna sullo stato dei tuoi interessi e delle tue preferenze. Potresti magari iniziare ad allenarti sin da ora, sotto la mia supervisione, anche solo per acquisire la corretta manualità nel trattarli: hanno giusto bisogno di prendere un po’ d’aria.

Una riflessione

Cara Elisa, nel caso abbia avuto la costanza di leggere quello che precede ti starai chiedendo se vale la pena continuare e, soprattutto, se tuo padre è davvero quella persona seria che vorrebbe apparire. Diciamo che almeno in parte il dubbio è motivato. C’è in effetti una componente di gioco, o se vuoi una motivazione narcisistica, nel disporre una biblioteca.

E meno male, aggiungo. Sai che noia se tutti quei libri fossero lì solo per fasciarti in un involucro ovattato, per insonorizzare le stanze e permetterti di scegliere le aree e le ere nelle quali vivere. I libri sono lì anche per gli altri. Sono un tramite di comunicazione non solo tra chi scrive e chi legge, ma anche nella comunità di questi ultimi. I titoli, la loro disposizione, l’evidenziazione, gli accostamenti, sono altrettanti messaggi in cifra. Se qualcuno li raccoglie sai di avere trovato un interlocutore, forse un amico.

Tu questi libri li hai già visti, li hai visti talmente tante volte che forse ormai non li vedi nemmeno più. Forse per te fanno già parte delle pareti, tendono a diventare tappezzeria. È proprio questo che voglio evitare. Voglio richiamarli in vita ai tuoi occhi, presentarteli, almeno qualcuno, perché tu sappia che non sono ormai carta imbalsamata, ma sono vivi e sanno e possono parlare. E allora dammi la mano e accompagnami in questo viaggio attorno alla mia libreria. Forse sarà meno noioso di quanto tu tema.

2) LETTERATURE

La cameretta

Prima di penetrare nel sacrario, di immergerci nel mare di carta stampata dello studio, potremmo procedere a una graduale acclimatazione, magari partendo da un luogo che ben conosci: la tua cameretta. Non so quale ricordo potrai avere da adulta di questa camera, ma probabilmente sarà molto buono, perché legato all’estate o comunque a periodi di vacanza.

A me evoca invece l’idea del mistero, del proibito. Era la camera della zia Lina, sorella di mia madre, un personaggio piuttosto strano già di suo e reso ancora più misterioso dalla perpetua assenza (era “dama di compagnia” di una bisbetica baronessa tedesca, che viveva tra Nervi e Gressoney, e le aveva trasmesso molto del suo carattere sospettoso e misantropo – o forse s’erano semplicemente trovate). La camera era sempre chiusa, e anche le rare volte che mia zia si tratteneva per qualche giorno ci era severamente proibito accedervi. Sarebbe bastato molto meno per accendere la mia curiosità e la mia inventiva, e per farmi trovare una chiave che con un po’ di manovre riusciva a violare la porta. Anche se ufficialmente non ero molto sveglio (questa era almeno la versione che circolava per casa; intelligente ma imbranato), se qualcosa mi intrigava davvero non c’erano serrature capaci di fermarmi. Sono tornato quindi più volte in quella camera, affascinato dai bauli chiusi da marchingegni o da lucchetti che riuscivo miracolosamente ad addomesticare. C’era davvero di tutto, dagli orologi da taschino ai binocoli da teatro, e poi banconote da cinque marchi del periodo della grande crisi, con la stampigliatura “un miliardo”, e vecchie riviste e calendari tedeschi. Non ho mai sottratto niente, e me ne pento ancora oggi, perché dopo la morte della zia è sparito tutto. Mi è rimasto solo il ricordo della magia, (saranno stati gli abiti anni venti e le cappelliere, o le foto dei paesaggi innevati nei calendari) e dell’odore penetrante della naftalina.

Quella è rimasta comunque sempre, anche dopo, la camera delle ragazze, di mia sorella Francesca prima, poi di Chiara e Sara, ora la tua. Oggi in essa c’è un solo scaffale (lo avevo dimenticato! altro acquisto remoto) ormai zeppo, che contiene i libri di tre generazioni (anzi, di quattro). Ci sono i miei, quelli dei tuoi fratelli e i tuoi. Più quelli che io stesso ho ereditato da altri, con le più disparate provenienze. E forse è proprio la loro la storia più bella.

I tuoi nonni paterni, cara Elisa, non erano affatto benestanti. Anzi. Si erano sposati nell’immediato dopoguerra e prima dell’arrivo del boom avevano messo al mondo tre figli. Tiravano avanti in una dignitosa ristrettezza, e solo il fatto che all’epoca questa condizione fosse comune a tutti quelli che si conoscevano li manteneva un gradino al di sopra della povertà. Non ci è mai mancato nulla di indispensabile, ma nel bilancio non erano previste, né erano possibili, spese per i libri (anche se la nonna era stata una forte lettrice, nel periodo in cui era a servizio presso famiglie della borghesia genovese, e ancora leggeva tutto ciò che le capitava sottomano). Non ho ereditato quindi alcuna biblioteca, mentre in compenso mi è stata geneticamente tramandata una precocissima passione per i libri, e probabilmente anche lo struggimento per il fatto di non potermeli permettere. A pensarci bene l’amore per i libri ha preceduto in me persino quello per la lettura (e questo spiega forse molte cose).

Ho imparato a leggere all’età canonica, in prima elementare, ma avevo cominciato molto prima ad andare in trance di fronte a qualsiasi pezzo di carta che contenesse illustrazioni o parole stampate (i calendari tedeschi di trent’anni prima della zia Lina, le vecchie Domeniche del Corriere che ci passava un’altra zia, o la Famiglia Cristiana, unico investimento culturale della famiglia). Per questo quando mi sono trovato in mano i libri scolastici li ho subito amati. Li attendevo con ansia dal momento in cui li ordinavamo, e in genere prima che iniziasse l’anno scolastico avevo già ripassato al completo i testi di storia e di geografia e le antologie letterarie. La cosa si è ripetuta sino alla fine delle superiori.

Per fortuna il tam tam parentale, imbeccato da mia madre, aveva diffuso questa mia fama di lettore vorace ed onnivoro, e ho cominciato presto a ricevere libri di fiabe per Natale e per i compleanni. Andersen, i Grimm e Perrault sono stati i mentori della mia prima infanzia, con una preferenza spiccata per i secondi, probabilmente perché erano più suggestive le illustrazioni, ma anche perché le storie erano ambientate in foreste o manieri misteriosi. Le esigenze però non hanno tardato a farsi più serie. Alla fine della seconda elementare avevo divorato ormai fiabe di ogni tipo ed ero pronto al salto nei racconti lunghi. Sono passato in un anno da “L’acciarino magico” a “La capanna dello zio Tom”, attraverso “Pinocchio”, “Ciondolino”, “Fridolino tasso birichino” e “Cuore”.

Cara bambina mia, alla faccia di Umberto Eco e di tutta la dissacrazione di questi ultimi decenni, sono ancora convinto che questo fosse il migliore dei percorsi possibili. Non è assolutamente vero che si tratti di letture ipocrite, reazionarie e strappalacrime. Potranno apparire tali a chi non le ha fatte al momento giusto, o con lo spirito giusto, o a chi era già troppo smaliziato per lasciarsi prendere e trascinare. Non lo erano senz’altro per me, che smaliziato non lo sono nemmeno oggi, che non parteggiavo per Franti ma per i bravi ragazzi, che ho letto lo zio Tom col cuore che palpitava contro l’ingiustizia, la prepotenza e il razzismo, e che mi sono costruito lì sopra i primi rudimenti, quelli pure confusi ma solidi e destinati a segnare tutto il mio futuro, di coscienza civile. Non sono diventato un nazionalista per aver letto la piccola vedetta lombarda, né un moralista per colpa di Pinocchio. Mi hanno trasmesso un minimo di coscienza, un senso dell’onore e della dignità che sarà magari fuori moda, ma al quale tengo moltissimo. E sono rimasto innamorato dei tassi, anche senza averne mai visto uno vivo.

Poi è arrivato “Lo zio di Svezia”, di Nadal. Non lo troverai citato in nessuna storia della letteratura per ragazzi. Forse sono il solo a ricordarlo. Era edito in una collana della Salani, quella che oggi pubblica “Pippi Calzelunghe”, ne “La biblioteca dei miei ragazzi”. Arrivò per Natale. Ora, tu immagina un bambino sognatore com’ero io, che legge un libro nel quale si parla di tre orfanelli che lasciano l’Italia per raggiungere in Scandinavia uno zio mai visto né conosciuto. Si trovano immersi nella neve, tra foreste incantate, sono persino inseguiti dai lupi la notte di Natale, mentre con slitta e lanterne si recano alla chiesa del villaggio vicino per la messa di mezzanotte. Io leggevo e fuori nevicava, quell’anno cadde a metri, e immaginavo quella notte freddissima e bellissima, in un paese di sogno, con tutta la gente che arrivava con slitte e fiaccole e lanterne dalle lontane fattorie, e tutto attorno il silenzio della neve, rotto solo dall’ululato dei lupi. Ce n’era a sufficienza per restarne marchiati a vita, e così è stato: credo che di lì discendano il mio esotismo, la predilezione per gli ambienti freddi e nordici, per la neve e le foreste di pini, per i dipinti di Friedrich, e anche il fatto di non aver mai voluto visitare i paesi scandinavi. Voglio conservarne quella immagine, è uno dei ricordi più belli che ho (tra parentesi, temo che questo della costruzione di immagini, ambientali ma anche umane, desunte da fantasie librarie sia uno dei motivi del mio disagio costante a vivere la realtà – o viceversa).

Lo zio di Svezia mi ha introdotto ad un tipo nuovo di fruizione del libro: certo, anche Cuore e lo zio Tom mi avevano preso, mi ero sentito coinvolto, ma in fondo lì non potevo fare altro che seguire le vicende dei personaggi da spettatore (anche perché prevaleva l’ambientazione storica, e le descrizioni paesaggistiche vi avevano pochissimo spazio). Nella foresta scandinava ero invece diventato protagonista, fremevo per non poter essere accanto ai ragazzi (alla ragazzina, la maggiore dei fratelli, soprattutto) per difenderli. Avevo scoperto la lettura-immersione.

Ormai la diga era aperta, e la lettura era diventata una fiumana. Sarebbe stato difficile soddisfare la domanda, anzi, la fame, con i soli regali natalizi. Per fortuna mi è venuto in soccorso un cugino di città, di una decina d’anni più anziano, che in quanto figlio di una portinaia riusciva a raccattare dagli inquilini del palazzo un sacco di roba. E sono state rivelazioni, una dietro l’altra. Il Salgari di “Alla conquista di un Impero” ma soprattutto di “Alle frontiere del Far-West”, il Verne de “Al polo australe in velocipede” e di “Michele Strogoff”, e poi Stevenson, London, Kipling, “Saturnino Farandola” di Robida, la prima fantascienza con “Olimpiadi tra le stelle” e i primi resoconti di viaggi ed esplorazioni in ”Con Magellano attorno al mondo” .

Oggi confondo evidentemente la successione delle letture, ma tra gli otto e i quindici anni ho senz’altro dato una buona ripassata a tutta la letteratura giovanile in circolazione, comprese un sacco di riduzioni per ragazzi di classici come il “Robinson Crusoe” o “David Copperfield” (ciò che poi mi ha impedito di rileggerli nelle versioni integrali). Mi è comunque abbastanza facile ricostruire i percorsi e le trasformazioni nelle preferenze. È sufficiente andare a scorrere gli elenchi che sempre si trovavano in ultima o in penultima di copertina (“Sono già apparsi in questa collana:…”), pieni di segni e di rimandi, con le indicazioni dei libri che già possedevo e di quelli desiderati, con tanto di ordine di priorità (uno, due, tre puntini). Ci sono libri come “I misteri della Jungla nera” che ho potuto leggere solo dopo l’adolescenza, o addirittura dopo la laurea, e che ho continuato a sognare e ad “appuntare” per anni.

Spero che questo cumulo di ricordi non ti abbia già annoiato, Elisa. In fondo sto rispondendo a una tua probabile domanda. Già ora mi chiedi spesso com’ero da bambino, com’era la mia vita. Bene, te ne sto raccontando una metà, quella passata sui libri e con i libri. L’altra, quella trascorsa sui fumetti, la lasciamo per un’altra occasione. Ero così, un giorno Yanez e un giorno Josè il peruviano (in genere non mi identificavo con il protagonista, ma con il miglior amico del protagonista – e anche questo, a ben guardare, era già significativo –, e preferivo giocare in solitudine perché gli altri ragazzini non conoscevano niente dei miei eroi, e se anche li avessero conosciuti non avrebbero corrisposto all’idea, avrebbero rotto l’incantesimo dei mondi che mi costruivo. Era una dimensione sacra, e sacri erano i testi sui quali si fondava: non a caso li trovi lì, ancora oggi, sottratti all’incuria e allo scempio dei miei e dei tuoi fratelli.

Troverai anche, ma da un’altra parte, nella sezione viaggi ed esplorazioni, dei vecchissimi volumetti rossi, ancora eleganti nella loro semplice rilegatura, a dispetto della consunzione. Sono i libri della Romantica Mondiale Sonzogno, editi negli anni Venti e Trenta (e qualcuno forse anche dopo la guerra). Di alcuni non ricordo la provenienza, ma quattro o cinque erano scampati allo svuotamento di una casa gentilizia del paese, acquistata dal macellaio dopo la morte dell’ultimo discendente. Ho ancora davanti agli occhi il carro dello straccivendolo stracolmo di libri, finiti poi probabilmente al macero o in qualche discarica, io che corro a casa piangente e mia madre che si mette all’inseguimento e torna con una bracciata di volumi, tutti quelli che era riuscita a ramazzare. C’erano saggi storici dei primi dell’ottocento, un paio di classici e, soprattutto, gioielli come “Martin Eden” di London o “La foresta in fiamme” e “Il paese di là” di James Oliver Curwood.

London già lo conoscevo per “Il richiamo della foresta”, e di lì a poco mi avrebbe aperto ad un rudimentale socialismo con “Il tallone di ferro”: ma Curwood era una novità, e che novità. Il suo Canada ha costituito l’anello di congiunzione perfetto tra la Svezia di Nadal e le Langhe innevate di Fenoglio, le sue intrepide giubbe rosse erano già l’incarnazione di quell’ideale eroe solitario e nomade che avrei riamato di volta in volta nel partigiano Johnny, in Holden, in Kerouac e poi negli esploratori e negli alpinisti dell’ottocento. Prova a leggerli, ti prego: ci troverai un’immagine di forza e di dolcezza assieme che niente ha a che vedere con la vita che ci circonda e tanto invece con quella che vorremmo, e proprio per questo crea struggimento, insofferenza e ribellione per ciò che è stupido e volgare. Non ti sogno laureata o famosa o felicemente sposata: ti sogno schietta, curiosa e insofferente.

Ma adesso usciamo, lasciamo in questa camera i primi ricordi, facciamo un po’ di pausa e poi ripartiamo dal cuore pulsante della mia biblioteca.

Lo studio

Questo che oggi è lo studio è stato per venticinque anni la camera mia e di mio fratello. Nel corso del tempo l’avevamo tappezzata di manifesti cinematografici (da “Là dove scende il fiume” sino ad “Arancia meccanica”), di foto dei Beatles, di tavole fluorescenti tratte da “L’astronave corsara”, che di notte ci facevano navigare in mezzo a mondi e galassie lontani. Nel buio, quando taceva il tarlo, arrivavano le voci lontane dei cani dalle cascine della Colma, ad evocare distanze minori ma mondi non meno misteriosi: mentre durante il giorno il silenzio era rotto solo dai cori dei merli o dai colpi lenti dei contadini che martellavano i ferri. Le litigate che ti divertono tanto, il raglio dell’asino che ci fa sobbalzare il mattino, il cantiere edilizio perennemente aperto sono arrivati più tardi, con i nuovi vicini. Ogni epoca ha i suoi suoni, a te toccano questi.

Entrando nello studio abbiamo di fronte, nella parete opposta, perfettamente centrata, la finestra che dà sul giardino, sulle colline e poi sui monti. Guardando verso il Tobbio e la Colma non c’è traccia di case: solo boschi e prati, e poi altri boschi sulle colline, e infine l’Appennino. Da quella finestra rivolta a mezzogiorno entra per trecento giorni l’anno una luce intensa, gioia per gli occhi ma sottile pericolo per i libri che coprono tutte e quattro le pareti.

Gli scaffali si dipartono a destra della porta d’ingresso (la chiameremo da ora per comodità parete A), fanno angolo, corrono lungo l’intero muro laterale (parete B), girano ancora sino ad incontrare la finestra e ripartono poi oltre quest’ultima (parete C). Altro angolo, e infine la parete D, occupata per metà, al centro, da un caminetto, e ai lati di questo da altri scaffali. All’interno di questo spazio ci sono una scrivania grande, che dà le spalle alla parete B, e disposto ad angolo rispetto a questa un tavolinetto per il computer. Il tutto, scaffali compresi, in legno chiaro, solido e spesso, leggermente arrotondato agli angoli. Di fronte alla scrivania c’è una vecchia sedia a dondolo, molto apprezzata dagli amici in visita e per l’uso della quale io e te abbiamo ingaggiato sin da quando eri piccolissima epiche battaglie. La parete sopra il caminetto è coperta di foto e di quadri, e da una grande carta geografica dell’Europa vecchia di centocinquanta anni, che rappresenta forse il mondo in cui avrei voluto nascere.

E finalmente, i libri. Perché gli scaffali, la scrivania, persino il legno sopra il caminetto sono naturalmente zeppi di libri. Godiamoci un primo colpo d’occhio, poi passeremo ad un esame più sistematico. Tutto sommato non mi pare che l’assieme sia opprimente. Malgrado le pareti siano quasi interamente coperte, i libri non sembrano grondare, incombere sul malcapitato visitatore. Credo che la distribuzione sia abbastanza leggera, un po’ per l’uso degli spazi liberi, un po’ per la collocazione ordinata e riservata. Per come li vedo io, stanno tutti al proprio posto.

Letterature: gli Italiani

Consiglierei di partire dalla letteratura. È la naturale prosecuzione dell’itinerario intrapreso nella tua cameretta, cioè delle tappe di svolgimento del mio rapporto con i libri. Dobbiamo quindi guardare a sinistra. Lo scaffale che vedi, seminascosto dalla porta quando è aperta, è occupato per più della metà dalla letteratura italiana. Si parte dagli stilnovisti e si procede in ordine cronologico. Coi primi due ripiani dall’alto si arriva all’Alfieri, altri due sono riservati all’ottocento, due al ‘900. Gli ultimi tre verso il basso ospitano rispettivamente la letteratura ispanica, quella ebraica e orientale in genere e infine testi di critica letteraria. La gran parte della letteratura italiana del secolo scorso, e tutta quella più recente, si trova in un’altra sala.

L’ambizione che sta sotto a questa come a tutte le altre sezioni letterarie è quella della completezza: si traduce poi, più semplicemente, nell’avere rappresentati almeno tutti gli autori che hanno meritato di entrare in una storia della letteratura per licei (si parla naturalmente di autori non contemporanei). Un’altra ambizione, non necessariamente in subordine, è quella di aver rappresentati anche quelli che non ci sono entrati. Il peso specifico dei singoli autori, in termini di rappresentatività e quindi di presenza, lo decido io.

I maggiori qui ci sono tutti, almeno con le opere più importanti, e il primato per lo spazio occupato spetta naturalmente a Leopardi. Del conte non manca proprio nulla. Ma sono i minori il mio orgoglio. Ti assicuro che puoi trovare qui cose che difficilmente troveresti in una media biblioteca pubblica. Arcadi semisconosciuti, romanzi storici e libri di memorie dell’ottocento che nessuno legge più da un secolo, per la gran parte in edizioni ottocentesche.

Nella sezione novecentesca le preferenze saltano subito agli occhi. Ci sono autori presenti sin con i conti della spesa ed altri citati al più con un’opera, tanto per ricordare che esistono. Tra i primi senz’altro Fenoglio, Meneghello, Calvino, Levi, Rigoni Stern, Bianciardi. Poche le donne: ma checché se ne dica in giro, non è questione di misoginia. Il contributo femminile alla letteratura italiana è modesto.

Sono molti i libri di questa sezione che hanno una storia particolare, e che hanno segnato la mia storia. “Il partigiano Johnny”, ad esempio. L’ho acquistato subito dopo aver superato l’esame di latino, al primo anno di università. Avevo studiato per mesi, giorno e notte, rompendomi le palle sui “Remedia amoris” e volgendo in noia quel piacere che otto anni di studio del latino erano finalmente riusciti a risvegliare in me. Sentivo la necessità di togliermi di dosso il sentore di vecchiume e di inutilità che lo studio “filologico” in voga alla facoltà di Lettere mi aveva fatto percepire. Fenoglio fu una autentica rivelazione: mi sembrava finalmente di rientrare nel mondo, nella vita vera, nel tipo di esperienze che la letteratura deve trasmettere. Non avevo affatto capito che si trattava di una moderna versione dell’epica. O forse, l’avevo intuito senza capirlo, ed era proprio questo che mi piaceva tanto. Fu una di quelle letture appassionate, dodici, quindici ore filate, che ho riservato a pochi altri libri, in genere quando sentivo il bisogno di mostrarmi che avevo ripreso possesso del mio tempo – e il superamento di un esame è la situazione tipica.

Singolare è anche la storia del mio rapporto con Primo Levi e con ”Se questo è un uomo”. Possedevo il libro da tempo, sapevo tutto sulle sue origini e le sue traversie, e su quelle dell’autore, ma in realtà non lo avevo mai letto, anche se ero convinto di averlo fatto. Era finito ormai tra i libri che bisogna avere e conoscere, e che si danno per scontati. Poi, un anno, nei giorni precedenti le vacanze natalizie mi venne restituita da un allievo la copia in dotazione alla biblioteca scolastica. La misi in borsa e la dimenticai lì. Venne fuori la sera della vigilia, mentre mettevo un po’ d’ordine. Iniziai a leggerlo in tarda serata, mentre il resto della famiglia era alla messa notturna. Non riuscivo più a staccarmene. Quando gli altri rientrarono andai a dormire, ma non ci fu verso a prendere sonno. Dovetti tornare in cucina, riattizzare il fuoco e continuare a leggere sino alla fine. La rivelazione fu letteraria, più ancora che umana. Sapevo cosa raccontava, ma non immaginavo lo si potesse raccontare così. “Se questo è un uomo” è rimasto nella mia hit, e si è trascinato appresso tutte le altre opere di Levi. La scoperta mi ha anche spronato a leggere “Il sergente nella neve”, altro libro che avevo classificato nel reducismo senza degnarmi di scorrerlo, e che ho voluto invece andare a verificare. Un effetto valanga. Rigoni  si è portato dietro Revelli e tutti gli altri, io ho imparato ad essere più umile e rispettoso, almeno nei confronti dei libri.

La svolta revisionista nei criteri di lettura mi ha consentito di superare tutta una serie di pregiudizi che mi avevano accompagnato per anni. Ad essere sincero non ricordo cosa mi aspettassi dalla letteratura, ma senz’altro facevo una netta distinzione tra memorialistica e letteratura vera e propria, e la prima sembrava non interessarmi affatto. Forse per questo leggevo soprattutto autori stranieri e romanzi ottocenteschi: tutto ciò che riconoscevo come troppo vicino alla quotidianità, e all’esperienza negativa che ne avevo, non mi sembrava degno dell’Olimpo letterario. Chiedevo cose che mi portassero lontano nel tempo e nello spazio. Devo dire che l’incontro con Levi è stato davvero sconvolgente. Oggi non sono più in grado di leggere con piacere qualsiasi cosa che non abbia un fondo di realtà vissuta, e spesso il fondo non mi è nemmeno sufficiente. Mi si sono invece spalancati nuovi sentieri, ho scoperto dall’oggi al domani Meneghello, un outsider che mai avevo sentito nominare e che con “Libera nos a Malo” è balzato immediatamente in testa alle classifiche, ripetendosi subito dopo con “I piccoli maestri”. E più tardi la cosa si è ripetuta con Bianciardi. Conoscevo vagamente “La vita agra”, per via del film con Tognazzi che ne era stato tratto, e l’avevo derubricato tra i romanzi della generazione post-neorealista, quella che aveva dimenticato l’epica per fare assurgere il quotidiano più squallido agli onori letterari. Era una letteratura che non mi interessava, avevo bisogno di eroi. E poi c’era appunto il fatto del cinema. Storie interpretate da Tognazzi o da Sordi diventavano immediatamente commedie all’italiana, e io ne avevo fin sopra i capelli degli italiani, li pativo già tutti i giorni. E così niente Bianciardi, niente Mastronardi. Salvo poi leggerli, magari solo per effetto di trascinamento, e scoprire impensabili sintonie.

Lo scaffale degli italiani racchiude però anche altre storie. Sono quelle legate ai libri scovati in un preistorico Remainder’s, nel vicolo che scendeva da De Ferrari alla Kasbah di San Matteo, a Genova. Era un buco polveroso che riservava scoperte da favola, una sorta di caverna di Alì Babà guardata da un genio sdegnoso e tutt’altro che simpatico, stipata all’inverosimile, il che ti costringeva a contorsioni da circo equestre per leggere i titoli. Le novità, da una volta all’altra, erano poche, anche perché in certi periodi ci tornavo praticamente tutti i giorni: ma ad ogni passaggio usciva fuori la cosina strana, per due o trecento lire, quella che non leggerai mai, ma che hai voglia di possedere. Soprattutto certe edizioni semirilegate dei minori ottocenteschi, Rovani, Guerrazzi, ecc…

Quel Remainder’s è stato il primo di infiniti altri, scovati e battuti in tutte le città d’Italia (ma anche in Austria, in Francia, in Germania, persino a Praga) Appartiene ad una fase in cui la bibliomania era ancora funzionale alla lettura, anche se era già scattata la sindrome del possesso. Dalla frequentazione dei Remainder’s ho imparato molte cose. Il colpo d’occhio immediato, ad esempio. Riconoscere i dorsi delle varie case editrici, sapere al volo quali non presenteranno mai nulla che possa interessarti e quelle che invece riservano sorprese. Attivare il sensore che ti fa leggere un titolo che interessa in mezzo ad altri mille, sui quali lo sguardo scorre senza trasmetterti nulla. E poi la necessità di prendere subito quello che ti colpisce, perché se rimandi e non lo ritrovi ti rimane un vuoto che continua a tormentarti, e ritrovare quel titolo diventa quasi un’ossessione.

Tra le scoperte tardive divenute amori totali rimane ancora Augusto Monti. Attorno ai suoi “Sanssòssi” ho girato per qualche anno. Esisteva soltanto in un’edizione molto costosa e difficilmente reperibile – e ancora oggi è così – e la mancanza assoluta di citazioni in qualsiasi storia letteraria faceva nascere qualche dubbio sull’opportunità della spesa, malgrado l’autore fosse intrigante. L’ho poi reperito fortunosamente a metà prezzo, ed è partita immediatamente una caccia al tutto-Monti (Monti era l’insegnate di Lettere di Pavese e di un sacco di altri ragazzotti che sarebbero diventati di lì a poco il nerbo dell’antifascismo torinese). Da allora ne ho comprate e regalate almeno un altro paio di copie, e continuo a sognare studenti in grado di leggerlo e di apprezzarlo (anche se so che non sarà mai più possibile).

Un intero ripiano è occupato da raccolte di poesia del novecento. Forse non è giusto dire “un intero”: quaranta volumi di poesia, rispetto alla produzione italiana di questo secolo, non sono molti. Anzi, sono decisamente pochi. La verità è che io non sono un patito della poesia. O meglio, lo sono quando si tratta di Saba, di Gozzano, di Trilussa, di molto Montale, di Caproni o magari di Ernesto Ragazzoni: ma la sopporto bene solo quando sento l’ironia, il gioco. Non riesco a prendere sul serio i poeti che si prendono troppo sul serio (con qualche eccezione, naturalmente): almeno per quanto concerne l’ultimo secolo, e segnatamente per gli italiani. Provo una elementare reazione di fastidio di fronte a cose che vengono inutilmente complicate, quando potrebbero essere dette più semplicemente in prosa: una sindrome da ermetismo, direi. Ho il sentore di qualcosa di trombonesco, di falso: un po’ come di fronte al cinema italiano odierno, o agli sceneggiati televisivi: senti sempre lo sforzo della recitazione, la drammaturgia invece della drammaticità. È difficile a spiegarsi così, ma è sufficiente confrontare una poesia di Auden o di Robert Frost (che troverai in questa biblioteca) con una di Quasimodo (che non troverai, alla faccia del Nobel) per capire.

Nella speranza che un giorno tu legga Gozzano, Saba, Montale e Caproni (Trilussa lo amavi già quando avevi tre anni: ricordi “C’è un’ape che se posa/ su un bottone de rosa:/ lo succhia e se ne va…/ Tutto sommato, la felicità/ è una piccola cosa” – è sua), devo però dirti qualcosa di Ernesto Ragazzoni, che non troverai in nessuna antologia. Non è un “grande” poeta, anzi. Ma è quello che scrive cose come “Ben tappati dentro i poveri/ ma fidati lor ricoveri/ mentre, lento, sui tizzoni/ cuoce il lor desinaruzzo/ i pacifici Lapponi/ bevon l’olio di merluzzo”. Anche questa, la ricordi? È eccezionale. Non sto scherzando. È l’uso elementare del verso, anzi, della poesia, quello che facevamo anche noi nel costruire le nostre strampalate filastrocche, che ci ha stampato nella memoria “il rinoceronte/ passa sopra il ponte/ salta e balla/e gioca alla palla”, primo componimento in rima in assoluto cui riesco a riandare, e che ti ho immancabilmente trasmesso.

La letteratura è anche questo, Elisa. C’è un bel dire che ha il compito di testimoniare, di anticipare, di chiudere, di dire l’indicibile, ecc… Certo, sono tutte cose buone e giuste, ma la letteratura è favola. Leggi “Lo zio di Svezia” e vorresti essere lì con gli orfanelli, ti prende uno struggimento terribile. Leggi degli orsi bianchi che fuori “sono pallidi/ per il gran freddo”, e ti vien voglia di stare tra i Lapponi a mangiare e bere (olio di merluzzo) e dormire “in catasta attorno al fuoco”. Leggi “Il sabato del villaggio” e senz’altro c’è la metafora della vita umana, e della felicità che non esiste ma è solo speranza: ma c’è anche la piazzetta dove i ragazzini fanno un lieto rumore, c’è tuo padre che torna dalla vigna, c’è la tua infanzia lì dentro.

Questo vale più che mai per la poesia. Un tempo essa aveva anche una funzione comunicativa: costituiva lo strumento ideale, il più adatto alla memorizzazione, quando la cultura era trasmessa soprattutto oralmente, cioè in pratica fino all’introduzione della stampa. Ha poi mantenuto una valenza estesa, nel senso che si rivolgeva ad un uditorio ampio e aveva un vasto repertorio di utilizzo, almeno fino ai tempi di Leopardi e di Foscolo, quando esisteva ancora un pubblico educato a quel linguaggio per forza di cose allusivo, evocativo e zeppo di riferimenti. La poesia poteva raccontare, denunciare attraverso lo sdegno o l’ironia, infiammare di idealità, suscitare emozioni. Lo faceva evocando con immediatezza delle immagini, metaforiche o meno, da sostituire al lento processo del ragionamento. Oggi quel racconto, quella denuncia possono essere fatti direttamente attraverso le immagini, miste ai suoni, manipolate in tutti i modi: la cultura odierna ce le serve già pronte.

Che ruolo rimane allora alla poesia? Non sono in grado di darti una risposta precisa. Ma credo di poterti dire almeno ciò che per me non è (“…ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”: questo è poesia) con un esempio. Edoardo Sanguineti assembla in una sua composizione in versi tutte le scritte pubblicitarie e le insegne che si possono leggere percorrendo una particolare (ma potrebbe essere una qualsiasi) via cittadina. Una dietro l’altra, senza commento: farmacia, la bottega del pane, il sapone delle dive, ecc… Sono due strofe lunghe: la via è percorsa coscienziosamente avanti e indietro, su entrambi i marciapiedi. Ecco cosa intendo: con una telecamera si può fare la stessa cosa, e meglio. Si, certo, c’è l’effetto straniante del riportare queste scritte all’uniformità dei caratteri, fuori dal loro naturale contesto. C’è la possibilità mentale di paragonare questo elenco arido a quello vivace e animato che si otterrebbe da una passeggiata in campagna. Ma anche così, non sarebbero più efficaci e significative le immagini? E poi, soprattutto, questo ha davvero a che vedere con la poesia?

Io ritengo che oggi abbia senso ricorrere alla forma poetica solo per ciò che non può essere espresso del tutto, o meglio, in altra forma. La gioia spontanea e spensierata di una filastrocca, ad esempio. Il dolore e lo schianto di una perdita irreparabile (“…sei nella terra fredda, sei nella terra negra/ né il sol più ti rallegra/ né ti risveglia amor”). Il resto, lo straniamento, l’uso del verso a significare la frantumazione e la dissoluzione delle possibilità comunicative, mi sembrano pure operazioni cerebrali, l’equivalente delle sculture realizzate assemblando rottami. Esprimeranno anche con immediatezza il concetto, ma poi muoiono lì, non ti danno qualcosa da portarti dietro, o dentro, per sempre.

Nel dire queste cose, naturalmente, so di essere semplicistico, e ho anche paura di fare qualche danno. Non certo nei confronti della letteratura, queste sono opinioni mie e valgono come il due di briscola, ma nei tuoi confronti. Oggi la poesia e la letteratura tutta hanno già vita stentata, vista la concorrenza, e se a scuola le affronterai partendo da questi presupposti siamo fritti. E tuttavia sono convinto, anche se ti parrà paradossale col mestiere che faccio, che con il nostro discorso la scuola abbia poco a che vedere. Noi stiamo parlando di amore per la lettura e per i suoi supporti materiali, i libri. Ora, io non credo che la scuola possa fare più di tanto nel promuovere questo amore: può educarlo, fornirgli degli strumenti più raffinati, allargarne gli orizzonti (raramente). Ma l’amore, la passione, la disposizione sono fattori genetici, o ci nasci o puoi al più diventare un lettore diligente.

È sintomatico che in questo pellegrinaggio alle sorgenti delle mie passioni letterarie il ruolo della scuola non sia ancora venuto fuori. Eppure ho frequentato un Liceo classico di quelli ante-riforma, quando ti portavi alla maturità il programma di tre anni per tutte le materie, e l’Italiano prevedeva anche tutta la Divina Commedia, con i canti da riconoscere e commentare ad apertura di testo. Forse il motivo è proprio questo. La letteratura italiana, a scuola, rimaneva una materia di studio, non diventava un’occasione di piacere, di innamoramento. Non attribuisco colpe all’insegnante, una donna intelligente e di eccezionale umanità, che mi ha indubbiamente aiutato, non fosse altro per la rara capacità di farmi a volte sentire un imbecille senza offendermi e senza demoralizzarmi. Credo anche che quella disciplina nello studio, quell’addestramento a interminabili manovre di commento dantesco e di analisi semantica, fossero indispensabili per non buttarsi poi allo sbaraglio sui testi: lo erano soprattutto per me, che avevo bisogno di essere costantemente tenuto coi piedi per terra e guidato alla cavezza. Lei sapeva farlo con garbo, e le sono grato ancora oggi, ovunque sia, per certe benevole lezioni di ironia e chiarezza.

Penso però di doverle ben poco per quanto concerne le scoperte e gli amori letterari. Le ragioni sono in parte oggettive, perché all’epoca il programma di studi non arrivava nemmeno a Pirandello, quindi dei contemporanei non c’era occasione di parlare, e in parte soggettive, perché per i classici avevo già scovata un’altra fonte cui abbeverarmi, e giocavo sempre d’anticipo sulle presentazioni scolastiche.

Dal momento che soffro della sindrome di Woody Allen, secondo il quale se a qualcuno bisogna ispirarsi conviene scegliere direttamente Dio, io traevo ispirazione per le mie scelte e le mie interpretazioni niente che meno che dalla “Storia della Letteratura Italiana” di Francesco De Sanctis. Qualcosa di paragonabile al Vangelo, nel campo della critica letteraria, fino a cinquant’anni fa. Era stato il mio primo acquisto librario “adulto” dopo l’uscita dalle medie, giustificato dal conseguimento di una borsa di studio e soprattutto dal fatto che era edita in due volumi nell’Universale Feltrinelli per sole milleseicento lire. Come un vangelo l’ho letta, e credo di portarne ancora le conseguenze. Era quanto di più “romantico” si potesse desiderare, nell’ispirazione e nei criteri di lettura, e io desideravo proprio quello, e naturalmente cercavo poi di riversare nei temi e nelle interrogazioni tutto quel fervore. In seguito ho impiegato anni a liberarmi di certi stereotipi, soprattutto di quelli negativi, ma nella sostanza credo di aver sempre insegnato secondo il modello desanctisiano, con tutto ciò che nel bene e nel male la cosa comporta. I due volumi sono ancora lì, stranamente non li ho sostituiti con un’edizione rilegata: forse ci sono particolarmente affezionato, o forse non lo ristampano nemmeno più.

Devo dare atto comunque che il primo e il miglior antidoto alla mia intossicazione da De Sanctis me lo ha fornito proprio uno degli strumenti di supporto scolastici: non la storia letteraria del Sapegno, piuttosto barbosa, ma l’antologia di Gianni e Ballestrieri, che premetteva alle diverse epoche dei quadri introduttivi di incredibile lucidità, e ti faceva finalmente capire che la letteratura aveva anche a che vedere con la storia, con la politica, con l’economia. Non possiedo più l’originale, deturpato e ridotto in brandelli dall’uso sciagurato che ne ha fatto mio fratello, ma sono riuscito a procurarmene un’altra copia. Sono sei magnifici volumi rilegati: se starai buona, ogni tanto te li lascerò sfogliare.

Letterature: iberici, latinoamericani, ebrei ed altri

La sto tirando un po’ per le lunghe, quindi spostiamoci verso il basso, dove troviamo la letteratura in lingua spagnola. Ci sono cose interessanti, soprattutto tra gli ispano-americani. Dalle opere complete di Borges – un doppio Meridiano Mondadori: edizioni lussuosissime, care come il sangue, che si finisce per non utilizzare, un po’ per la paura di sciuparle, un po’ perché è proprio difficile leggere quelle pagine finissime e fittissime, in carta di riso, semi-trasparenti – a quelle di Garcia Marquez, uno dei molti casi in cui l’entusiasmo per la prima opera mi ha poi impedito di leggere le altre, per il timore e la quasi certezza di andare incontro a delusioni. Ma trovi soprattutto Osvaldo Soriano, altro grande amore, di quelli cui tengo particolarmente perché scoperto ben prima che diventasse un autore di culto. Avevo trovato “Triste, solitario y final” in una scassatissima edizione della Vallecchi, e mi aveva letteralmente conquistato. C’erano dentro Ollio e Stanlio e Philiph Marlowe, l’investigatore di Chandler di cui torneremo a parlare. C’era ironia, distacco, citazione, c’era quella meta-realtà che costituisce l’essenza stessa e la giustificazione ad esistere della letteratura. A Soriano è accaduto poi quello che accade invariabilmente ai miei grandi amori (letterari). Prima o poi li scoprono tutti, ci si buttano i media, ne fanno pappetta. Stanno riscoprendo persino il mio buon Humboldt (ma per fortuna c’è la fama del fratello linguista che crea un po’ di confusione e depista gli intrusi). Non ne sono così geloso da volerli tenere solo per me, anche se la tentazione è forte, ma vorrei poter scegliere io, trasmetterli solo a quelli fidati, quelli che ne faranno buon uso.

Nel ripiano della letteratura in lingua ebraica stranamente non troverai alcun libro che “debba” essere assolutamente letto. Stranamente, dico, stante la mia passione per tutto ciò che concerne l’ebraismo. Ma in realtà, almeno per quanto riguarda la letteratura, gli ebrei in quanto tali non riescono a trasmettermi molto. Sono eccezionali quando raccontano l’essere ebreo di fronte a qualcos’altro: allora vengono fuori Kafka, Roth, Heine, Levi ecc… La lucidità unica del loro sguardo si esercita soprattutto rispetto alle culture che hanno abbracciato, ma sempre conservando un certo distacco, e che li respingono: quando si raccontano come popolo, somigliano a tutti gli altri popoli.

 

Lo stesso vale per le letterature orientali o africane. Ho difficoltà a sentirmi partecipe di un certo modo di pensare, anche se magari mi interessa capire. Sono appunto interessanti, non entusiasmanti. Spero che ti renda conto che non c’entra per nulla il pregiudizio o, peggio, il razzismo. Il mio razzismo concerne solo gli italiani – dato che sono i più vicini. Quelle che entrano in ballo sono invece un’idea di letteratura e un’onesta accettazione della diversità. Nella letteratura cerco dei modelli, degli esempi di resistenza e di partecipazione a questa nostra società: e non voglio esempi che mi prospettino possibilità di fuga in una cultura che non è la mia, che come tutto ciò che è esotico ti affascina perché non ne conosci i retroscena.

L’unica “perla” esotica di questo ripiano è un’edizione rilegata de “Le mille e una notte”, in due volumi. Nulla di speciale, per carità, è un’edizione del Club degli Editori, il cui valore per il vero bibliomane è pari a zero, ma ha almeno due pregi: le splendide illustrazioni di Dulac, che sono l’equivalente di quelle di Doré per la Divina Commedia, e il fatto di essere uno dei tantissimi libri-regalo che sono riuscito a far sganciare al Club. Le modalità di iscrizione al Club degli editori, come quelle di tutti gli altri club consimili, del libro, dei lettori, ecc…, sono da sempre le stesse: al momento in cui ti iscrivi ricevi in regalo tre volumi a scelta in una rosa del catalogo, e ti impegni ad acquistarne almeno tre o quattro tra quelli proposti entro il primo anno. Ci sono tutta una serie di trucchi, ad esempio ti inviano automaticamente i libri in uscita ogni mese se non rifiuti entro un certo periodo, ma in realtà non c’è nulla di tassativo: penso che contino soprattutto sull’inerzia degli iscritti, sul fastidio di dover riportare in posta i pacchi ricevuti e cose del genere.

Una volta che hai capito l’antifona, può diventare un Eldorado. Io sono arrivato a iscrivere una ventina di persone, tutta la mia famiglia e poi, quando l’indirizzo cominciava a scottare, parenti vari fino al terzo grado, saccheggiando il catalogo delle opere più costose e prestigiose e riuscendo a non acquistare mai un solo libro. C’era gente come mia zia Rosetta che non aveva mai letto un libro in vita sua e che ha continuato per anni a ricevere inviti a presentazioni librarie, convegni, mostre e fiere del libro, e ne era lusingata. Credo che ad un certo punto abbiano ricostruito il mio albero genealogico con tutti i rami collaterali, perché agli ultimi tentativi di adesione non hanno nemmeno risposto. Tutti quei libri che vorrebbero sembrare elegantemente rilegati ma risultano un po’ pacchiani, e non portano l’indicazione dell’editore sul dorso, come quel doppio Pirandello che sta un paio di ripiani sopra, vengono di lì.

Nello scaffale di fondo invece, quello che ospita la saggistica letteraria, potrai pescare un sacco di cose interessanti, sempre che il tuo interesse per la letteratura scenda un pochino più in profondità. Ti confesso che a dispetto della mia professione e della devozione al De Sanctis io non amo molto la critica letteraria: non troverai alcun testo di esegesi testuale e filologica. Mi piacciono invece i grandi affreschi in cui la letteratura (ma anche la pittura, la musica) viene utilizzata per tratteggiare un’epoca, per ricostruire le modalità del sentire. Oppure per sottolineare le curiosità, le stranezze. Ti consiglio ad esempio un bellissimo libretto di Calvino, “Collezioni di sabbia”, una serie di brevi reportage sulle mostre più strane e meno conclamate, ma rivelatrici della incredibile capacità umana di costruirsi i sogni con qualsiasi materiale. Quando ti sarai fatta una bella scorpacciata di letteratura americana potrai poi leggere i saggi di Leslie Fielder, “Il ritorno del pellerossa” o “Amore e morte nel romanzo americano”, a volte più godibili delle opere stesse di cui trattano. Oppure, per capire qualcosa di come siamo noi occidentali, e perché, potrai farti aiutare da “L’amore e l’occidente” di Denis de Rougemont; e se maturerai la mia stessa insofferenza non per l’America ma per le americanate sarai confortata da “Nessuna passione spenta”, di George Steiner. Quello della critica letteraria è un mondo indubbiamente pieno di cialtroni, ma ci trovi anche delle menti sublimi, e qualcuna è ospitata in questo scaffale.

Letterature: russi, scandinavi e tedeschi

Conviene però tornare alla materia prima, alla letteratura, e per farlo dobbiamo scavalcare il caminetto e passare agli scaffali ad angolo tra le pareti C e D, a sinistra della finestra. Qui trovi da un lato tutta l’anglistica e dall’altro le letterature russa, tedesca, scandinava e francese. Questo settore potrei considerarlo “storicamente” (nel senso cioè della mia storia libraria) il più antico, e in esso puoi ancora trovare dei veri reperti archeologici. Sono quei libretti di piccolo formato, disposti orizzontalmente in antefila qua e là sui ripiani, collocati dove rimane una profondità sufficiente per non farli debordare. Qualcuno è ancora nudo nella sua copertina anonima e grigiastra, altri sono rivestiti di una sovracoperta cartonata che io stesso ho creato, per cercare di difenderli ma più ancora per dare loro maggiore dignità. Sono i libri della vecchia BUR, progenitrice dell’editoria economica del secondo dopoguerra, che ha consentito ad un sacco di gente come me di aprirsi alla lettura e al possesso dei classici. Li vedi, sono quanto di più spartano si possa immaginare, non concedono davvero nulla al piacere qualitativo del possesso: ma avevano prezzi favolosi, sessanta lire il volume unico, centoventi il doppio, e via così. Il costo di un gelato, all’epoca, o poco più. C’erano dentro le sette meraviglie, il meglio di ogni letteratura, e si avvalevano anche di introduzioni ben fatte, essenziali ed esaurienti. Sono arrivato a possederne qualche centinaio, poi spariti mano a mano che ero in grado di permettermi edizioni un po’ più ricche: ma ne ho un ricordo bellissimo. La soddisfazione materiale, ripeto, era poca, ma supplivi con la quantità. Uscire dalla libreria con dieci o quindici volumetti significava riempire un sacco di spazi vuoti nel tuo mosaico letterario.

E qui, giacché l’ho aperta, approfitto per allargare un po’ la parentesi sulle edizioni economiche, che sono poi uno degli argomenti che conosco meglio. La BUR esisteva dalla fine degli anni ’40, ma offriva un prodotto in qualche misura ancora di nicchia, nel senso che era reperibile solo in libreria e soprattutto si fermava alla letteratura di fine ‘800. Lo stesso valeva anche per gli economici di Feltrinelli, che pure spaziavano dalla letteratura alle scienze umane e a quelle naturali. Entrare in libreria semplicemente per “dare un’occhiata”, senza cercare qualcosa di preciso, non era consuetudine (almeno nelle librerie di provincia che conoscevo io).

La rivoluzione è arrivata col ’65, con la prima serie economica concepita per la vendita anche in edicola, gli Oscar Mondadori. Il formato, la veste erano più dignitosi, e l’ambito era più recente: in genere si trattava di “classici” del Novecento. Ma la novità più importante stava nel fatto che erano visibili, sapevi che erano usciti, potevi covarli con gli occhi, valutare, fare i tuoi calcoli. Tuttavia non furono gli Oscar a dare una svolta al mio percorso: quasi contemporaneamente cominciarono ad essere pubblicate altre collane, e il mio riferimento divenne quella dei “Grandi Capolavori” della Sansoni, che riproponeva in fondo quello che già si trovava nella Bur, ma in una veste decisamente più accattivante. Stendhal, Dostoevskij, Poe, Hoffman, li ho conosciuti tutti in quella collana, e come puoi vedere ancora li possiedo. La cadenza bisettimanale mi consentiva di mettere da parte quelle trecentocinquanta o quattrocento lire con le quali conquistare un nuovo territorio, e dal momento che nel frattempo uscivano altre cose, Hemingway negli Oscar, Conrad nella Mursia, ecc…, arrivavo anche a permettermi degli acquisti settimanali, qualche volta addirittura doppi.

La cosa funzionava così. A quei tempi frequentavo il liceo ad Acqui. Dovevo fermarmi due volte la settimana per i rientri pomeridiani di educazione fisica, con la necessità di pranzare fuori. La scuola aveva una sorta di convenzione con una trattoria, dove per trecentocinquanta lire ti servivano un primo ed un secondo. La sera precedente io aspettavo che tutti fossero a dormire, mi preparavo un bel panino con burro e zucchero e lo nascondevo nella sacca da ginnastica. Nell’intervallo di pranzo me ne andavo poi ai giardini oppure, se pioveva o nevicava o c’era un freddo boia, nella sala d’aspetto della stazione, dove sgranocchiavo il mio panino e mi coccolavo il libro acquistato all’edicola con i soldi destinati al pasto. Ho tirato avanti così per quasi un anno, poi mia madre ha scoperto i libri, che tenevo nascosti, mi ha fatto raccontare tutto e ha deciso, per l’anno successivo, di finanziare almeno un investimento librario settimanale. Il risultato fu che continuai a mangiarmi il panino e acquistai un libro in più per settimana.

Spero che questo ti aiuti a capire perché sono tanto attaccato ai miei libri, perché non sopporto che vengano maltrattati o che addirittura, dati in prestito, non tornino più. Non si tratta di fissazioni maniacali: i libri sono veri pezzi della mia pelle, e scriverci sopra, spiegazzarli, distruggerne i dorsi è come incidere nella mia carne.

Torniamo agli scaffali. Devi guardare in su, o salire sullo sgabello, perché i russi partono dall’alto. In questo caso non è un declassamento: da qualcuno bisognava cominciare (anche se è vero che li ho letti prima dei tedeschi e degli scandinavi, i quali occupano ora giustamente lo spazio centrale degli interessi più recenti). I titoli importanti ci sono tutti, con un monumentale “Guerra e pace” che troneggia in cofanetto (anche questo avrebbe una storia interessante, legata ad una brevissima e grottesca esperienza come venditore di enciclopedie della Mondadori: ma te la risparmio). Se trovi il tempo, e in questo caso te ne occorre tanto, dai loro un’occhiata. Ma un paio te li voglio segnalare, per ragioni diverse. Il primo, “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov, semplicemente perché è bellissimo, è totalmente russo nelle atmosfere e magicamente surreale nell’impianto. Il secondo, “L’abisso” di Leonid Andreev, perché è incredibilmente inquietante e rivelatore, o almeno lo è stato per me (ma credo anche per altri. Io l’ho letto in una edizione della BUR che prendeva il titolo, “I sette impiccati e altri racconti”, dal racconto più lungo. L’edizione che vedi adesso, che è della nuova BUR e riporta gli stessi racconti e la stessa traduzione, titola invece “L’abisso e altri racconti”, segno che qualcosa nella valutazione dell’importanza o dell’impatto dei testi è cambiato). Rivelatore di cosa? Del lato oscuro che c’è dentro ognuno di noi, del quale non vorremmo ammettere l’esistenza ma che ci attrae morbosamente. Io confesso di esserne stato turbato, e di essere tornato più di una volta a rileggere quelle pagine, ufficialmente per verificare se la mia reazione cambiava, in realtà per riviverla: e si ripeteva infatti sempre identica.

Mentre ne parliamo e faccio scorrere lo sguardo sui dorsi, casomai mi fosse sfuggito qualche titolo tosto, mi rendo conto che i russi non stanno lì in alto per caso: li sento proprio lontani. O forse è solo lontano il tempo in cui ne ho fatto scorpacciate, riuscendo a digerire veramente di tutto, compreso “Oblomov”, e il ricordo si è un po’ annebbiato. Eppure sono certo di aver letto con passione “Delitto e castigo” e i romanzi di Tolstoj, con gusto le novelle di Cechov e le “Memorie di un cacciatore”, e poi più avanti con partecipazione i racconti di Gorkij, “Il dottor Zivago” e “Una giornata di Ivan Denisovic”. Mi incuriosiva quell’universo di personaggi strampalati e fuori misura, nel bene e nel male, pope, monaci ortodossi, pellegrini, ambulanti ebrei, ribelli e briganti che popolava le storie di Leskov e di Lermontov: e tuttavia se dovessi darti oggi delle ragioni speciali per leggerli, sarei in difficoltà. Evidentemente c’è una stagione per tutti gli amori, anche per quelli letterari.

Di un sentimento molto più fresco andiamo a parlare adesso. Scendendo di un paio di ripiani (e dallo sgabello) troviamo infatti gli scandinavi. Sono tutte acquisizioni piuttosto recenti, a dispetto dello zio di Svezia, anche perché recente è il risveglio di interesse per quella letteratura, pilotato egregiamente dall’editrice Iperborea, e quindi la possibilità di accedervi. Qui i pezzi pregiati sono Stig Dagermann e Lars Gustafsson. C’è ben poco nei loro libri della favolosa Scandinavia dei miei sogni. Si va in una direzione totalmente opposta. C’è tutto il peso di un luterano senso di colpa, l’angoscia di una vita inautentica (che Dagermann non ha retto, finendo per suicidarsi a trentun anni), ma nel contempo c’è quel sussulto privato di dignità oscura, antieroica e antispettacolare che già costituisce un riscatto (l’unico possibile?). Il mio recente entusiasmo per questi due autori è un’ulteriore riprova che nella letteratura, come in tutte le altre cose, trovi solo quello ci porti. Venti e passa anni prima avevo letto Strindberg e Ibsen e Hamsun, e avevo anche visto i film di Dreyer e di Bergman (all’epoca, quasi un obbligo), che dicevano né più né meno le stesse cose, rappresentavano le stesse atmosfere: e non avevo colto altro che i drammi sociali o familiari o di coppia, che c’erano anche, per carità, ma nascevano proprio da questa lacerazione interiore. A Dagerman e Gustafsson sono arrivato dopo una rilettura seria di Camus, e tutto mi è parso evidente e condiviso. Non vorrei che questa presentazione si rivelasse dissuasiva: guarda che i racconti de “Il viaggiatore” e le storie de “Il pomeriggio di un piastrellista” e “Morte di un apicultore” sono tra le cose più godibili che tu possa trovare qui dentro, nell’accezione di godimento che ho io della letteratura. Ti lasciano proprio secco, come direbbe Holden.

I tedeschi (ma c’è un po’ di tutto, austriaci, svizzeri, cechi, ungheresi, croati: tutta la mitteleuropa e dintorni, non sufficientemente rappresentata da poter ambire ad uno spazio proprio). Molto Ottocento, molta poesia, più contenuto il Novecento. Le preferenze anche qui sono visibili e marcate: tutto Boll, tutto o quasi Heine, tutto e doppio Enzensberger, molto Roth. Poi le chicche. Una te la consiglio da subito, anzi, per essere sicuro te la leggerò direttamente quanto prima, magari a puntate: è “Cristalli di rocca” di Adalbert Stifter, storia di due bambini sperduti tra i ghiacci di una montagna in una tempesta di neve, la vigilia di Natale (ma guarda un po’!). L’ho letto quando avevo quasi cinquant’anni e mi ha preso come se ne avessi cinque. Poi ci sono i “Racconti umoristici e satirici” di Boll e “La promessa” di Durrenmatt, entrambi piuttosto famosi, anche se non risaputi, e il meno conosciuto “L’italiano”, di Thomas Bernhard, tutti da leggere con un’avvertenza: piuttosto in là negli anni, quando sarai (o dovresti essere) abbastanza smagata.

Infine la chicca delle chicche, “La parete” di Marlen Haushofer, un’austriaca. Una donna rimane tagliata fuori dal mondo ed è costretta a confrontarsi con la natura. Sopravvive a una batosta dietro l’altra, ogni volta più svuotata ma ogni volta più dura, facendosi natura e applicandone le leggi essa stessa. Mi sembra una delle figure femminili più vere e forti della letteratura di ogni tempo, di quelle donne che non potrei mai amare perché potrebbero benissimo fare a meno di me, ma alla cui amicizia terrei immensamente. Anche questo, aspetta a leggerlo un po’ più tardi.

Quel libricino elegante dalla copertina verde ci porta invece in tutt’altra atmosfera. Racconta di “Mozart in viaggio verso Praga”, è stato scritto da Eduard Morike ed è una cosina graziosa ed elegante, non molto di più. Te lo segnalo perché possiedo anche l’edizione tedesca, e la possiedo perché è l’ennesimo libro sul quale mi sono proposto di imparare il tedesco. Quella del tedesco sembra la storia dell’ultima sigaretta di Zeno. Ogni tanto, a intervalli ormai regolari, mi assale la convinzione che per i miei interessi (tutti, in generale) la conoscenza del tedesco sia praticamente indispensabile, e decido di dedicarmici sul serio. Ho stabilito che il miglior modo per impararlo – visto che non ci sono problemi di pronuncia – è quello di passare direttamente alla lettura, con l’ausilio di un buon dizionario e un minimo di infarinatura grammaticale. E ogni volta scelgo un libro nuovo da cui partire. Una volta erano i “Reisebild” di Heine, quella successiva il “Cosmos” di Von Humboldt, un’altra ancora il “Viaggio in Italia” di Goethe. A questo punto ho già una discreta bibliotechina in lingua, e il giorno in cui mi deciderò sul serio potrò almeno svariare da un testo all’altro.

Quasi dimenticavo: Nadolny. Il libro è “La scoperta della lentezza”, una biografia romanzata dell’esploratore John Franklin. Non so quanto ti possa fregare di esplorazioni, ma qui si parla in realtà di qualcos’altro, di un modo particolare di prendere e di interpretare la vita, e questo, oltre ad una splendida scrittura, potrebbe intrigarti.

Letterature: i francesi

Ti intrigherà senz’altro la letteratura francese (senti che fiducia!). Oltre a “Madame Bovary”, che ti farò leggere, dovessi tenerti una pistola puntata alla tempia, i francesi si sono dati un gran daffare, soprattutto nell’ottocento, per garantire i piaceri della letteratura. Hai solo da scegliere, Stendhal, Balzac, Merimée, Rimbaud, Maupassant e mi fermo qui perché non finirei più. Più che da scegliere hai da metterti di buzzo buono e farli passare un po’ tutti, compreso quel simpatico libricino che reca il titolo “Viaggio attorno alla mia camera”. Se guardi poco oltre lo troverai nell’edizione francese, e questo illeggibile è invece il titolo dell’edizione svedese (Xavier De Maistre – Nattling rasa i min kammare). Cosa me ne faccio? Il “Viaggio” mi aveva conquistato, quando l’avevo scoperto nella BUR. È un pezzo di bravura delicato e straordinariamente schietto, per essere opera un romantico, e tra l’altro parla del godimento di libri e biblioteche. Avevo poi dato la caccia a lungo all’edizione francese, anche a Parigi, ma sembrava che i suoi compatrioti avessero dimenticato il più giovane dei De Maistre (e anche il più vecchio, a dire il vero). L’ho trovata finalmente pochi anni fa, e quasi contemporaneamente è arrivata l’edizione svedese, sottratta da uno scaffale all’IKEA, dove era ignominiosamente finita a fare la comparsa. Mi ero quasi convinto a imparare lì sopra lo svedese, e ho anche comprato il dizionario.

Un paio di edizioni le possiedo anche de “Il grande amico Meaulnes”, di Alain-Fournier, e almeno tre o quattro copie le ho regalate. Alain-Fournier è morto a soli ventotto anni, all’inizio della prima guerra mondiale: “Il grande amico” era il suo primo e rimane il suo unico romanzo. Come quasi tutti i primi romanzi è un racconto di iniziazione, del passaggio fanciullezza-adolescenza, e di rimpianto per una stagione perduta e irripetibile. Se si esclude Manzoni (e la cosa non è casuale), ogni autore dal pre-romanticismo in avanti ha prima o poi rievocato gli anni splendidi o terribili della propria giovinezza. Ma alcuni ci sono riusciti in modo particolarmente efficace, quelli soprattutto che dalla giovinezza non hanno voluto o potuto uscire, o che ne conservavano più fresca la nostalgia. Se dovessi compilare una classifica personale metterei al primo posto “Il giovane Holden”, ma Meaulnes sarebbe sul podio, a pari merito con i libri su Malo di Meneghello e subito prima di “Altre voci, altre stanze” di Truman Capote, del “Ritratto dell’autore da cucciolo” di Dylan Thomas e de “L’isola di Arturo” della Morante (a pensarci bene, però, il podio potrebbe essere anche più affollato).

Non mi vengono in mente libri di passaggio “al femminile”: o meglio, senz’altro ne ho in mente un sacco, da Jane Eyre in poi, fino allo splendido “Il cuore è un cacciatore solitario” della Carson Mc Cullers e a “I beati anni del castigo” di Fleur Jaeggy, ma mi sembrano tutti virati al triste. Voglio dire che per quanto malinconici i libri che trattano di infanzie e adolescenze maschili finiscono per mitizzarle in positivo: un’amicizia, un’esperienza, qualcosa insomma di cui avere nostalgia rimane (persino in Pavese, l’Anguilla rimpiange e cerca di rivivere gli anni di miseria più nera – solo il Fenoglio de “La malora” non pare d’accordo). In quelli al femminile mi sembra invece di avvertire quando va bene un sospiro di sollievo per essere uscite da quell’inferno, familiare o scolastico o che altro, quando va male l’astio per un periodo al quale si fa risalire la responsabilità per l’attuale infelice condizione. Probabilmente le donne sono più realiste nella memoria, o vivono davvero peggio la loro infanzia e adolescenza, oppure scrivono più facilmente sull’onda di una frustrazione. O forse è solo un’impressione mia, generata dai miei soliti pregiudizi o da esperienze con donne che sembrava avessero sempre e solo riserve da fare sul nostro rapporto. Spero che tu non sia tra queste, e se hai qualcosa da recriminare fallo subito, invece di scrivere poi libri pieni di amarezza.

Comunque ho qui pronto un esempio clamoroso di questa differenza di atteggiamento. Casca a fagiolo. Vedi che ci sono almeno una dozzina di volumi dei romanzi di Camus (i saggi sono in un’altra sezione). In realtà di romanzi Camus ne ha scritti solo tre: questo significa che qui trovi gli stessi in italiano e in francese, rilegati e in economica, accoppiati e spaiati. Una vera monomania. Bene, Camus non ha una visione particolarmente ottimistica della vita. È il più grande filosofo francese del Novecento, così come Leopardi è stato il più grande filosofo italiano degli ultimi due secoli (o forse l’unico). Ma a lui come a Leopardi l’essere anche un grandissimo scrittore ha precluso l’accesso alla storia della filosofia. Comunque, sta di fatto che, sempre come Leopardi, guarda dritto in faccia all’assurdità dell’esistenza, e la descrive. Il risultato sono “La peste”, “Lo straniero” e “La caduta”.

Nel primo si racconta una epidemia di peste vissuta attraverso le reazioni di coloro che la combattono, atei o laici, divisi dall’interpretazione dell’evento ma uniti in una solidale resistenza contro la condizione umana. Il secondo presenta un uomo talmente “autentico”, talmente consapevole dell’assurdo da apparire del tutto insensibile agli occhi degli altri, degli “ignari” (ma invece è capace di disobbedire a quelle ipocrite “regole del gioco” alle quali soggiace l’etica dei più). Ne “La caduta” è rappresentato l’uomo “inautentico”, cinico e nichilista, che volge al proprio fine persino la coscienza della propria inautenticità. Non c’è da stare allegri, mi diresti, se fossi già in grado di capire di cosa sto parlando. Per niente, ti risponderei: e tuttavia, bada che Camus non è banalmente “un pessimista”. I personaggi dei suoi libri ti affascinano, l’eroico medico Rieux come l’apparentemente stordito Meursault o il logorroico Clamence ti fanno complice perché non accettano supinamente la loro, e la generale, condizione. Reagiscono, in un modo o nell’altro. Altro che nichilismo. Questo lo si può dire dei personaggi di un Moravia, e più ancora di Moravia stesso. Ma Camus è ben altra cosa. Di lui e della sua immagine dell’uomo si potrebbe ripetere quel che diceva De Sanctis a proposito di Leopardi e della natura: “chiama la natura matrigna, e te la fa amare…” Capisci cosa intendo dire? Prova a cercare altrettanta passione, altrettanta voglia di ribellione, malgrado tutto, nella scrittura della Yourcenar e della Woolf (entrambe presenti qui in blocco).

Apparentabile a Camus, per qualità letteraria e per tematiche, è l’altro grande “resistente” della letteratura francese di questo secolo: Andrè Malraux. A differenza di quelli di Camus i suoi personaggi son sin troppo agitati, si muovono sempre nel cuore dell’avventura e della battaglia, e tuttavia vivono la stessa irriducibile umiliazione dell’uomo braccato dal suo destino. Forse ti sarà più difficile identificarti con loro, perché Malraux è scrittore piuttosto “macho”, alla Hemingway: ma come per Hemingway, se superi questa corazza trovi dietro esseri perennemente in lotta con le proprie debolezze, esseri umani, piuttosto che maschi.

Come ogni regola, tuttavia, anche quella del coraggio, dell’eroismo e della dignità ha le sue eccezioni. Esiste un nichilista assoluto nella letteratura francese, ed è Louis Ferdinand Céline. Assolutamente e disperatamente nichilista e assolutamente grande scrittore. Non so se sia giusto consigliarti il “Viaggio al termine della notte”, ho sempre avuto qualche dubbio con gli amici e più ancora con i miei studenti. Se lo leggi rendendoti conto che è tutto un urlo di disperazione, che quella di Céline è la cattiveria di chi non trova il coraggio di rialzarsi, e lo sa, e la rivolge quindi prima di tutto contro se stesso, allora è trascinante: ma se lo prendi troppo sul serio, e credi a quel che dice, allora è nauseante. Te lo lascio lì, non scappa.

Chiudiamo lo scaffale francese con qualcosa di più leggero, proprio quello da cui potresti partire. È un libretto forse nemmeno tanto estraneo alla nascita di questo scritto. Si intitola “Come un romanzo”, è dello scrittore Daniel Pennac. Pennac è diventato famoso per la saga interetnica di Belleville e della tribù Malaussène, portata avanti in una serie di romanzi divertentissimi, da “Il paradiso degli orchi” a “La fata carabina” (tutti presenti nella sezione umoristica), che potrai leggere con diletto già tra cinque o sei anni. In “Come un romanzo” spiega nella maniera più semplice e divertente perché leggere, come convincere gli altri a leggere e perché e come esercitare i propri diritti di lettore. Ha scritto il libro che avrei voluto scrivere da sempre, e gliene sono grato, perché non l’avrei mai scritto. Almeno lo leggo. E almeno puoi leggerlo anche tu.

Letterature: gli americani

Riprendi lo sgabello, perché lasciamo i francesi e passiamo agli americani, e occorre risalire. Più sopra ho parlato di insofferenza per l’”americanismo” o per le americanate. Adesso mi spiego. Io sono impastato di cultura di provenienza americana. Libri americani, cinema americano, musica americana, carte geografiche degli States, storia della colonie, della guerra civile, della frontiera. Non mi sogno nemmeno di rinnegare i John Ford e i John Wayne di “Sentieri selvaggi” e de “I cavalieri del Nord-Ovest”, o Paul Newman o Clint Eastwood, e meno che mai Walter Matthau o i fratelli Marx. La mia canzone di sempre, quella che vorrei accompagnasse il mio funerale è “Wanderi’n star” cantata da Lee Marvin, la musica che ascolto più volentieri viaggiando è quella di Jim Croce o di Johnny Cash, i film che ho rivisto più volte sono probabilmente Jeremy Johnson di Pollack e tutti quelli di Al Ashby. Voglio dire, è dura sospettare che abbia delle pregiudiziali anti-americane, come si dice dei no-global e di tutti quelli che non amano il presidente Bush. Anzi, non amo il presidente Bush proprio perché amo l’America, o una mia idea dell’America, e lui, insieme a circa duecentottanta milioni di suoi connazionali, me la rovina (come diceva Nicholson in “Easy Ryder”: “questo è un grande paese. Peccato che ci siano gli americani”). No, sul serio: amo l’America perché la mia America è quella che viene fuori da questo scaffale, da questi libri, da centinaia di film e da migliaia di canzoni, e quindi esiste e non me la sono inventata io, e anche se mi stupisce ogni giorno il miracolo di un popolo tanto idiota che produce cose tanto belle (anche quello italiano è idiota, ma si comporta più coerentemente), devo ammettere che è così.

Prendiamo i libri, appunto. Si parte da Washington Irving e da Cooper (ci sono le versioni integrali dei ridotti che abbiamo visto nella tua cameretta, “L’ultimo dei Mohicani” e “La prateria”, altre letture di sogno) per passare poi a Hawthorne e a Poe. Come dire, prendi a caso che va comunque bene, di qui sino in fondo. Mi limito quindi a qualche segnalazione speciale. Ti risparmio quei tomi enormi con su scritto Melville, ma in compenso richiamo la tua attenzione su questo piccolino, dello stesso autore, che ha per titolo “Bartleby lo scrivano”. È una storia assurda e spiazzante, quella di un uomo che ad un certo punto comincia a dire: no. A tutto. Non è un prepotente né una vittima, non è un ribelle né un eroe, ma è incredibilmente saldo nei suoi propositi: è anche molto educato, non urla, non piange, si barrica semplicemente dietro un cortese “preferirei di no”, fino alla morte. Ti sembra un po’ suonato? Tanto suonato? E allora cosa dobbiamo pensare di quelli che avrebbero preferito di no un sacco di volte, ma non l’hanno mai detto, per viltà, per malinteso senso del dovere, per cercare dei compromessi incruenti o per attendere la decorrenza dei termini? Prova a leggerlo, e poi mi saprai dire se continuerà a sembrarti così suonato.

Melville scrive questa storia a metà dell’ottocento. Per trovare un personaggio della letteratura italiana che faccia una cosa simile occorre arrivare sino al Bellodi di Pirandello, ne “Il treno ha fischiato”, che finisce in manicomio e torna praticamente lobotomizzato. Come faccio a non amare quel paese? Tanto più che in quel paese è nato Jack London, che a dire il vero se ne andava appena poteva, e che non ha scritto solo “Zanna bianca” ma anche quei quattro volumi di racconti del grande Nord e di mare, nonché tutti gli altri che vedi lì. E poi c’erano gli umoristi, da quelli caciaroni come Mark Twain a quelli “neri” come Amboise Bierce, che andavano in giro per il mondo e magari denunciavano anche lo sfruttamento bestiale degli abitanti del Congo, oppure sparivano nel nulla durante la rivoluzione messicana. Ti ho citato un solo umorista nella letteratura italiana dell’ottocento? Neanche l’ombra, e di andare un po’ in giro, poi, non se ne parlava. Cerca di capire. I ragazzi americani di cento e passa anni fa leggevano “Huckleberry Finn” e “Tom Sayer”, quelli inglesi “L’isola del tesoro” o “Un capitano di quindici anni”, mentre da noi il massimo della trasgressione era Pinocchio, debitamente castigato dalla vita ogni volta che si allontanava di casa. È andata avanti così da sempre, e questo spiega perché gli altri facevano il Gran Tour prima dei vent’anni e i nostri non vogliono andarsene di casa fino ai quaranta.

Ma torniamo agli umoristi, anzi, ad un particolare umorista che è legato nel mio ricordo ad uno straordinario film natalizio, “Racconti da O’Henry”. Nel film c’era la trascrizione cinematografica di tre o quattro racconti, lo avevo visto proprio una sera di vigilia da mia zia, tra le prime a possedere un televisore in paese. Avrò avuto dodici anni. Vent’anni dopo, quando uscì “Le memorie di un cane giallo”, corsi a cercare quei racconti, e non ne rimasi deluso. Uno di questi, “Il rapimento di Capo Rosso”, ho cercato anche di leggerlo in classe ai miei allievi, rimediando delle figuracce, perché ogni volta nei momenti clou scoppiavo a ridere e dovevo interrompermi. Anche questo te lo prometto per le serate di lettura invernali.

La “generazione perduta” te lascio scoprire da sola. Piuttosto mi piace raccomandarti Ring Lardner, che avevo incontrato casualmente da ragazzino sulle pagine di “Annabella” e ho ritrovato qualche anno fa con una antologia di racconti (“Il meglio di…”). Non è un autore da urlo, è leggero come la Vitasnella ma senz’altro più fresco, e in alcune pagine riesce delizioso. Ma soprattutto è uno degli scrittori di culto di Holden Caufield, e questo basterebbe a giustificarne la lettura.

Holden Caufield è il protagonista de “Il giovane Holden”, di J.D. Salinger. Qui ne trovi una copia, prima edizione italiana, di Einaudi, scovata nell’usato, ma di là ce ne sono altre due, e tre o quattro sono in giro (e probabilmente ci rimarranno). È il libro del quale ho posseduto più copie in assoluto, a parte le “Divine Commedie” rifilatemi dai rappresentanti, e probabilmente anche quello che ho letto più volte. Non so se sia un capolavoro, e francamente non mi importa: so che è stato e continua ad essere una rivelazione per milioni di ragazzi, sia per quelli che già amavano la lettura che per quelli che credevano di non amarla. L’ho usato come specchietto per le allodole con un sacco di studenti, e la percentuale di successi è stata altissima. Senz’altro lo userò anche con te, quindi non sto a raccontarti di più.

Invece voglio parlarti di quegli altri libri di Salinger che vedi in sua compagnia. Il mito di Salinger lo vuole autore di un solo libro, uscito esattamente a metà del secolo scorso con immediato ed enorme successo, e rimasto sino ad oggi figlio unico. Dico sino ad oggi perché Salinger è ancora vivo, anche se è letteralmente sparito dalla circolazione da più di cinquant’anni, e pare che per tutto questo tempo abbia continuato a scrivere senza pubblicare mai nulla. Il paradosso è dunque che oggi ci sono milioni di suoi fanatici ammiratori, me compreso, che non vedono l’ora che tiri le cuoia nella speranza di poter leggere qualcosa di suo. In verità, però, Salinger non ha scritto solo l’Holden: aveva pubblicato ancor prima i “Nove racconti”, che sono, questi si, un capolavoro. Vanno letti a mio giudizio dopo Holden, dopo aver fatto un po’ il palato alla scrittura del nostro, ma garantiscono un tasso di piacere spropositato. Ricordo una studentessa che mi è capitata in casa un paio d’anni dopo la maturità, in crisi di astinenza, scongiurandomi di trovarle qualcosa che le ripetesse una simile emozione. Gli altri due libri che vedi lì, “Franny e Zooey” e “Alzate l’architrave, carpentieri”, sono solo per salingeriani malati, stanno all’Holden come lo Zibaldone sta ai Canti.

Per arrivare a Salinger abbiamo però saltato un intero ripiano, quello che ospita la letteratura della prima metà del secolo. Qualche nome, da Fitzgerald a Hemingway, lo conosci o lo conoscerai senz’altro: ma la maggior parte ti rimarranno probabilmente ignoti. Vorrei che questo non capitasse per John Steinbeck, per più di un motivo. Uno dei motivi è di carattere oggettivo: Steinbeck scrive bene, è facile ed accattivante, ti aiuta a leggere. L’altro è decisamente soggettivo: è probabilmente il primo vero scrittore “adulto” che ho incontrato, o meglio il primo che ho letto con attitudine da “adulto”. London e Curwood, e persino Alain-Fournier, li ho letti in fondo come fossero i naturali proseguimenti di Verne e di De Amicis; ma Steinbeck, anche a quattordici o quindici anni, non lo puoi leggere così. Ti mette di fronte al mondo della realtà, anche se te lo racconta con magia. E magicamente ti fa passare dal divertimento picaresco di “Pian della Tortilla” alla denuncia sociale di “Furore” e de “La battaglia”, senza apparente soluzione di continuità.

Subito dopo Salinger, invece, trovi la sezione Kerouac, biografie comprese. Il rapporto che mi lega a Kerouac è complesso, ambiguo. L’ho scoperto l’ultimo anno di liceo, prestato da un compagno e arrivato sottobanco, come fosse un giornalino pornografico. Ho letto “Sulla strada” e ho realizzato che la mia vita era uno schifo, che uno non poteva trascorrere sui libri di scuola il novanta per cento del suo tempo, che ci si doveva muovere, viaggiare. L’estate successiva ero già in giro a fare l’autostop, e intanto mi ero letto “I sotterranei” e “Big Sur”, avevo conosciuto anche Allen Ginsberg e Ferlinghetti e avevo diffuso il verbo di Kerouac in famiglia (guadagnando l’adesione sin troppo entusiasta di tuo zio).

Ho creduto per un sacco di tempo che “Sulla strada” mi avesse cambiata la vita, ma in verità non è stato così. Non sono tipo da on the road, e non lo ero nemmeno quarant’anni fa. Non che non mi piaccia viaggiare, e non che non abbia viaggiato – e persino navigato – alla Kerouac: ma ho sempre avuto un posto dove tornare, non mi sentivo cittadino del mondo ma abitante di un luogo ben preciso, e se poi quello di cui si andava in cerca era la libertà di ubriacarsi o di farsi come cammelli, beh, a me quel tipo di libertà non interessava affatto. Al massimo poteva intrigarmi una certa disinvoltura sessuale (rigorosamente etero, per carità!), ma sotto sotto nemmeno quella, perché il vero sogno è sempre rimasto quello del Grande Amore. Quindi non mi ha cambiato la vita (mentre credo che altri libri lo abbiano fatto), anche se mi ha certamente aiutato a cercare un mio modo più autentico di vivere.

Ho provato anche a rileggerlo, e ti confesso che non ce l’ho fatta. Paradossalmente mi ritrovo di più in “Big Sur” o in altri libri collaterali, che un tempo avevano senso solo in funzione del primo. Mi ha dato l’impressione di qualcosa di datato, come tutto il movimento beatnik, di quelle feste dove tutti sono apparentemente felici e vitali perché pieni d’alcool, ma che il giorno dopo lasciano solo cocci e mal di testa. Finito l’effetto della benzedrina, Jack e Dean e i loro amici continuano a girare a vuoto e finiscono per annegare (letteralmente) in un bicchiere. Con questo, credo che senz’altro lo leggerai, e ti piacerà anche, se lo farai prima dei vent’anni.

Se però vuoi il meglio dello spirito degli anni sessanta non è ai beatniks che devi rivolgerti, ma a Ken Kesey. Il suo è uno strano destino. Dalla sua opera migliore hanno tratto un film talmente bello che ha fatto passare in second’ordine il libro stesso. Ma il libro è veramente strepitoso, si tratta di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, membro del ristretto club di quelli presi in mano e posati solo dodici ore dopo, a lettura terminata (sono quasi quattrocento pagine). Anche questo è da leggere presto, non per rischio di scadenza, ma per cibarsene il prima possibile.

Non darti scadenze nemmeno per gli ultimi libri di questo ripiano, quelli che chiudono la sezione di americanistica (in realtà parleremo ancora di altri romanzi americani, ma più in là, in sezioni speciali). Potrai goderli in qualsiasi momento. Questo piuttosto esile è “Canto della neve silenziosa”, di Hubert Selby jr, e raccoglie quindici racconti. Varrebbe la pena comunque, anche se i livelli sono piuttosto diseguali. Ma almeno tre, e soprattutto quello che dà il titolo al libro, sono degni del miglior Boll o del miglior Salinger. Subito accanto trovi “L’invenzione della solitudine”, di Paul Auster. Due racconti lunghi, il primo, “Ritratto di un uomo invisibile”, di perfezione assoluta, quasi imbarazzante (per me almeno, che non ho saputo scrivere nulla su mio padre). Infine c’è “In mezzo scorre il fiume”, di Norman MacLean. L’ho messo accanto a quello di Auster perché mi aiuta a mitigare un po’ l’imbarazzo, dal momento che l’autore l’ha pubblicato a settantaquattro anni, come opera d’esordio (e rimasta anche unica, perché è scomparso poco dopo). Mi aiuta a credere che in fondo ci sia sempre tempo, se uno ha voglia di raccontare qualcosa – il problema è: ce l’ho questa voglia?

Riflessione: mentre ti stavo presentando questi libri mi rendevo conto sempre più nitidamente che le americanate che non sopporto sono solo una degenerazione dell’americanismo che amo, non una cosa diversa. È che gli americani hanno bisogno di fare sempre le cose in grande, il loro è il regno della quantità, e quindi se fanno un viaggio coast to coast viaggiano per tremila chilometri, mentre se lo facciamo noi, Tirreno-Adriatico, nel punto più largo, non sono neanche trecento. Kerouac qui da noi sarebbe finito a Rimini, altro che Kansas city o San Francisco. Ora, fino a che tutto questo rimane nei confini già ampi delle dimensioni reali, è americanismo, prevalenza del senso dello spazio (e quindi della superficie e della quantità) su quello del tempo (che non hanno alle spalle, e che è profondità e qualità): quando viene invece ancora dilatato dagli effetti speciali, di tutti i tipi, compresa la mano sul cuore al canto dell’inno, allora è americanata. Non hai capito? Hai tempo, tu sei italiana; capirai, spero.

Letterature: gli inglesi

Lasciati gli americani rimangono, last, but not least, i loro cugini inglesi. Mi accorgo solo adesso che la letteratura inglese è quella che occupa il maggior numero di ripiani. Così su due piedi non saprei dartene una spiegazione. È evidente che gli inglesi hanno scritto molto di più rispetto ai rumeni o agli estoni, proporzionalmente e in assoluto: ma qui sono rappresentati in misura doppia anche rispetto ai francesi, ai russi, ai tedeschi e agli americani. E questo non è più un rapporto proporzionalmente oggettivo, dice di preferenze e di interessi soggettivi.

La mia consuetudine con la letteratura inglese è indubbiamente remotissima, dura ormai da cinquant’anni. Come già ti dicevo i classici per la gioventù me li sono fatti tutti (tranne Peter Pan, ora che ci penso: chissà perché nessuno ha mai pensato a regalarmelo. O forse ci hanno pensato, e poi han ripensato bene?) e probabilmente la spiegazione sta proprio lì. Nessun’altra letteratura offre tanti spunti e occasioni diverse per fantasticare (e per innamorarsi quindi dei libri) ai fanciulli e agli adolescenti. Ma c’è dell’altro. Con gli inglesi sei da subito in bilico tra la letteratura giovanile e quella adulta, anzi, entri immediatamente in quest’ultima perché leggi cose scritte per adulti ma facilmente riconducibili alla misura di un ragazzo. Uno dei primi libri che ho letto si intitolava “Racconti da Shakespeare”, erano riduzioni a novella delle sue tragedie. I contemporanei italiani di Shakespeare si chiamano Tasso e Marino: al di là del fatto che sfido chiunque a ridurre l’”Adone” per i ragazzi, se mai lo si fosse fatto per la “Gerusalemme liberata” (e comunque sarebbe risultato altrettanto difficile) si sarebbe gridato allo scandalo. Non parliamo poi de “I promessi sposi”!

Gli inglesi invece scrivono Kim e Alice nel paese delle meraviglie, che puoi leggere con eguale soddisfazione a dieci o a sessant’anni, o le storie dei cavalieri della Tavola Rotonda, o le avventure di Robinson Crusoe e di Oliver Twist. Sono libri che non ti senti in dovere di nascondere, appena accedi alla letteratura adulta, come accade invece con Salgari, perché non sono bollati come appartenenti a generi “minori” o marginali. Fanno parte integrante della letteratura di quel paese, ti accompagnano nella tua maturazione lungo un percorso ininterrotto sui sentieri della fantasia. Nelle scuole inglesi degli anni cinquanta e sessanta i miei coetanei leggevano Kipling, Conan Doyle, Stevenson: a me, se mi trovavano sotto il banco un romanzo di Scerbanenco, mi cacciavano dalla scuola.

Vedi Elisa, torna in ballo la questione che abbiamo già affrontato a proposito della poesia: ci sono popoli che hanno saputo coltivare il piacere della cultura, del farla come del consumarla, ed altri che ne hanno invece sempre riverito e sofferto il “peso”. C’entrerà la religione, o il clima e gli inverni lunghi, non lo so: sta di fatto che l’ultimo libro di poesie di Tom Hugues ha venduto in sei mesi seicentomila copie, mentre “Ossi di seppia” non le ha vendute in ottant’anni.

Nei confronti della letteratura inglese non c’è stata quindi una vera e propria “scoperta”, ma un passaggio graduale e conseguente. Forse potrei far coincidere l’ingresso nella fase totalmente “adulta” del rapporto con la lettura de “Il ritratto di Dorian Grey”, che mi ha preso a dispetto dell’inconsistenza della storia, per puro innamoramento dello stile e dell’arte del paradosso. Non so quanto abbia retto il romanzo a questi ultimi quarant’anni: ogni tanto c’è qualche studente che me lo chiede, forse perché intrigato dalla fama di libro un po’ “scandaloso”, ma quando lo riportano non vedo brillare nei loro occhi nessuna scintilla di entusiasmo. Io ormai non lo ricordo nemmeno più, ma ricordo che lo snobismo di Wilde, il suo culto dello stile, una qualche impressione deve avermela fatta, se mi ha spinto a leggere poi con gusto anche tutto il suo teatro, nonché i saggi (tra i quali è godibilissimo, e quanto mai attuale, “La decadenza della menzogna”).

Questa dello stile, di vita intendo, oltre che letterario, è una fissazione comune un po’ a tutti gli autori inglesi, non solo a Wilde. E forse questa è l’altra spiegazione del primato della presenza inglese nei miei scaffali. Vedi, io ho vissuta nella fanciullezza un’intensa militanza da chierichetto, precettata da tua nonna ma anche in parte sentita. Per cinque o sei anni ho sbaragliato la concorrenza nelle classifiche a punti del servizio, per poi, quando la superiorità era ormai manifesta e schiacciante, perdere inesorabilmente la fede. Non è stato facile, non tanto resistere alle pressioni materne, quanto imparare a convivere con principi che ormai si erano radicati, ma che non avevano più nessuna giustificazione in un quadro morale ben definito. Dovevo costruirmi un’etica, non mi bastava più De Amicis e non potevo certo chiedere soccorso a Pellico o Manzoni. Quelli giusti erano Conrad e Kipling, insieme magari a London. L’etica del dovere e della solidarietà, e l’orgoglio della solitudine. Guarda che non so scherzando: probabilmente sono state più che altro delle conferme, trovavo lì la perfetta corrispondenza con ciò che sentivo, ma è indubbio che hanno contribuito a rafforzare le mie inclinazioni (e diciamo anche le mie manie: dopo aver letto Lawrence d’Arabia spegnevo i cerini e le candele con i polpastrelli delle dita, per temprarmi a resistere alla tortura).

Sono molti, in effetti, gli autori inglesi che vale la pena conoscere: praticamente tutti quelli che trovi qui, più gli altri distribuiti nelle sezioni “speciali”. Messi assieme occuperebbero un intero scaffale, da cima a fondo (ma è anche da dire che quattro o cinque come Dickens o Conrad, o come Kipling e Stevenson, per non parlare di Shakespeare, portano via da soli tre quarti dello spazio, soprattutto se si ha la pretesa di raccogliere praticamente tutto quel che è stato tradotto). Non è certo il caso che te li presenti uno ad uno: quando arriverà il momento incontrerai quelli giusti, si faranno avanti da soli. Al più posso segnalarti qualche lettura particolare, di quelle meno scontate. Ad esempio questo libretto di Kipling, “Qualcosa di me”, dove viene rievocata un’infanzia prima favolosa (è nato in India) e poi tristissima (è stato spedito a sei anni a studiare in Inghilterra), ma dove si capisce soprattutto perché un poeta inglese che canta l’imperialismo rimane un poeta, mentre un italiano che fa altrettanto (pensa a D’Annunzio) diventa un trombone. Anche Stevenson ha scritto cose “minori” simpaticissime: il suo “Viaggio nelle Cevennes in compagnia di un asino” mi aveva quasi convinto a recuperare un mulo dell’esercito per farne un compagno di escursioni. E poi c’è Jerome, “Tre uomini in barca”. Una volta era considerato un classico dell’umorismo, oggi, per palati educati alla comicità demenziale, potrebbe avere un sapore di stantio. Ma non è così: prova a godertelo nelle condizioni giuste, sotto un albero in aperta campagna, lontano da televisione e walkmen, e riassaporerai il gusto perduto della finezza (anche qui, è questione di stile).

Naturalmente, le donne. Ci stavo arrivando. Nella letteratura inglese non si può prescindere dalla scrittura al femminile, nemmeno io ho il coraggio di farlo. Sono passato per la Mary Shelley, per le Bronte, per Jane Austen, per la Barrett, su su fino ad arrivare alla Mansfield e a Virginia Woolf (e poi basta, però. Le voci femminili importanti sembrano fermarsi agli anni venti. Deve essere accaduto qualcosa alle donne inglesi). Beh, queste devi leggertele tutte, non si scappa. Magari scegliendo, “Senso e sensibilità” ad esempio, o “Jane Eire”, se vuoi farti un’idea. E per entrare in argomento puoi iniziare con “Flush”, della Woolf, e proseguire subito dopo con “Una stanza tutta per me”, che della scrittura al femminile è un po’ il manifesto.

Io non credo di essere il lettore più adatto a cogliere tutte le sfumature di una sensibilità femminile (te n’eri già accorta? Meglio così), per cui se mi chiedi cosa mi attiri veramente in queste autrici temo di darti delle spiegazioni deludenti. Ho l’impressione che tutte queste storie, anche quelle apparentemente più pacifiche della Austen, siano in realtà tese come corde di violino, giocate su un minimalismo dei fatti e un massimalismo della loro interpretazione che nella scrittura maschile sono assenti. Le storie al maschile sono più piane, più distese, anche quando sono infarcite di massacri e violenze e peregrinazioni: in quelle femminili il massacro è continuo, sottile, apparentemente incruento, la tensione non cade mai. E questo mi piace, lo capisco fino ad un certo punto, cioè capisco fino ad un certo punto come si possa vivere e pensare così, ma letterariamente mi piace.

Per questo mi piace molto anche un autore come E.M. Forster, perché ha una sensibilità molto prossima a quella femminile, ed è uno dei pochi (assieme a Flaubert e ad Henry James) in grado di rappresentare uno sguardo femminile sul mondo (se poi ci riesca davvero, ripeto, non lo so. A me pare di si). Prova a leggere “Camera con vista”, tra qualche anno, e magari ne discuteremo. Ma mi rendo conto che sono le chicche quelle che aspetti. Allora, salta quei venti volumi di Conrad (nel senso non di scartali, ma di acquistali in blocco), mettendo magari da parte per un primo assaggio “I duellanti” (di là c’è anche la videocassetta del film che ne hanno tratto, può essere interessante, dopo) ed estrai quel libricino azzurro. Si, sono poesie, il titolo è “Grazie nebbia”, il poeta è W.H. Auden. Scegline una a caso, e prendi a metà: “Ma il Tempo, il dominio dei Fatti / richiede una Grammatica complessa / con molti Modi e Tempi / e in primo luogo l’Imperativo. / Noi siamo liberi di sceglierci la strada / ma scegliere dobbiamo, non ha importanza / dove conduca, e le storie che raccontiamo / del passato hanno da essere vere.” Hai capito? Via, non pretendiamo troppo, intendevo dire se hai capito perché mi piace: perché dice le cose più vere con le parole più semplici. Lì accanto ci sono gli altri volumi delle sue poesie “La verità, vi prego, sull’amore” e una raccolta antologica. Quando dovessi chiederti se esiste e cos’è la poesia, aprine uno.

Auden ha combattuto in Spagna, al tempo della guerra civile, nelle Brigate Internazionali. C’era anche Orwell in quelle brigate, come militante anarchico, mentre Auden era comunista. Orwell è famoso per “La fattoria degli animali”, che puoi leggere anche subito, e per “1984”, che ti consiglio di affrontare più in là. Ma qui ci sono anche i suoi saggi, “Sul leggere”, “Sullo scrivere”, “Sul chiedere e sul non chiedere”, “Sul vivere e sul morire”, raccolti sotto il titolo “Nel ventre della balena”. In realtà non sono veri e propri saggi, sono raccontini autobiografici di fattura squisita e di eccezionale sostanza etica, come l’autore, del resto.

Io in genere non riesco a fare distinzione tra l’autore e l’opera. Dicono che non è giusto, che occorre leggere senza condizionamenti biografici, che se la mettiamo così anche Leopardi era un golosone e Foscolo uno sciagurato e Salgari si perdeva se usciva da Verona: ma non è a queste stupidaggini che mi riferisco, anzi, le trovo gustose. Voglio coerenza nelle cose importanti. Se uno scrive l’”Emilio” e manda cinque figli a morire al brefotrofio, ho delle difficoltà a dargli credito. Se uno (come Sartre) che non ha mosso un dito per gli ebrei durante l’occupazione nazista si riscatta, dopo la guerra, con un saggio sull’antisemitismo, e dopo aver attaccato nella maniera più feroce Koestler e Camus perché antistalinisti si scopre libertario nel ’68, quale obiettività è possibile? Si salta a piè pari. Bene, Orwell è tra quelli che dimostrano che la coerenza è possibile, e che è quindi giusto pretenderla.

Un’eccezione però riesco a farla. Per Chatwin. Come uomo Chatwin doveva essere di un’antipatia unica, l’ultima persona che vorresti avere come compagno di viaggio. Ho dovuto interrompere la lettura di una sua biografia (tra l’altro, scritta da un certo Nicholas Shakespeare) per eccesso di avvilimento. Ma come scrittore, di viaggio e non, è superbo. “Utz” e “Sulle colline nere” sono due gioiellini, il secondo non sfigura accanto ai libri di Thomas Hardy. È possibile che io non sia granché obiettivo nel giudizio, ma in senso favorevole all’autore, perché c’è di mezzo anche un mio diritto di prelazione: credo di essere stato uno tra i primissimi a leggere in Italia il libro che lo ha reso famoso, “In Patagonia”, subito dopo l’editore e i correttori di bozze, e per qualche mese ne ho tenuto l’esclusiva. E sai quanto godo di queste cose!

Sono arrivato piuttosto tardi invece a “Il signore degli anelli”. Tardi, ma sempre con largo anticipo sulla cultura di sinistra, che per anni lo ha ostracizzato o ignorato e poi ne ha conteso il culto alla destra. Tardi, ma d’un fiato. Neppure tu, con le tue innate doti di pervicace rompiballe, saresti riuscita a distrarmi quando ho cominciato il viaggio con Gandalf e Frodo Baggin. Spero che l’aver visto il film non ti dissuada, come mi sembra stia accadendo ad un sacco di ragazzi. Sono millecinquecento pagine, ma quando arrivi in fondo avresti solo voglia che fossero il doppio.

Tra l’altro, sempre a proposito di coerenza, nello scaffale opposto, dove arriveremo più tardi, c’è un librone di Humprey Carpenter, “Gli Inklings”. È una sorta di biografia collettiva di un gruppo di amici, tra i quali lo stesso Tolkien, C. S. Lewis, Charles Williams, tutti docenti ad Oxford negli anni Venti e Trenta, raccolti in circolo informale sotto il nome appunto di Inklings, che invece di cacciarsi le dita negli occhi a vicenda come in genere avviene nell’ambiente universitario si trovavano tutti i giovedì sera per discutere, leggere ciò che avevano scritto in settimana, farsi qualche bicchiere di Porto o di scotch. Quando uno di loro doveva tenere qualche conferenza nelle città vicine era una festa collettiva: partivano a piedi nel week-end, arrivavano a farsi anche cento chilometri, con frequentissime soste nelle osterie sul cammino, tornavano alla stessa maniera e riprendevano il loro lavoro accademico. Dove sta la coerenza? Nell’amicizia Elisa, nella capacità di non sacrificare l’amicizia alla loro professione o alla loro vocazione di scrittori. Non sapevo nulla di tutto questo quando ho letto “Il signore degli anelli”, ma non potevo fare a meno di accorgermi che chi scriveva conosceva davvero il valore dell’amicizia.

Gli Inklings sono diventati anche il modello per un’esperienza personale di questo tipo. Per qualche anno, poco prima che tu nascessi, è esistito un gruppo di amici che si ritrovava a cenare ritualmente, quasi ogni settimana, al nostro capanno, e tirava tardi discutendo di cinema e di politica, facendo pettegolezzi e progettando escursioni, mettendo in cantiere mostre e redigendo riviste. L’unica cosa in comune con gli Inklings era probabilmente il tasso alcolico, ma i “Viandanti delle Nebbie” hanno corrisposto ad uno dei periodi più autentici della mia vita. Il gruppo, come motore di iniziative, non esiste più, ma gli amici sono rimasti: e a tenerli legati è, ancora e sempre, il comune amore per la letteratura.

E adesso chiudiamo, perché bisogna pur arrivarne ad una e perché ho bisogno di una pausa per il caffè. Non prima però di averti fatto notare questo libretto di racconti di Alan Sillitoe, “La solitudine del maratoneta”. Negli ultimi vent’anni credo lo abbiano letto solo i miei studenti, non lo trovo citato in alcuna antologia o bibliografia sulla condizione adolescenziale. Ma è perfetto, nella sua secchezza, nella capacità di evocare il peso di una condizione carceraria senza ricorrere a trucchi granguignoleschi, nel gesto finale autolesionistico di dignità e di coerenza. Malgrado il traino di un film altrettanto bello che ne è stato tratto, qui da noi non ha avuto una grossa fortuna nemmeno negli anni della contestazione. Troppo inglese, troppo elegante, troppo aristocratica come etica, evidentemente.

3) ALTRE LETTERATURE

Moderni e postmoderni

Per proseguire la ricognizione sulle letterature dobbiamo ora spostarci nel tinello. È il territorio più recentemente aperto all’inarrestabile invasione dei libri, fresco di conquista e di scaffali assemblati su misura. L’occupazione del tinello ha risolto un enorme problema logistico, perché nello studio era ormai diventato impossibile muoversi e raccapezzarsi, ma ne ha creato in compenso uno psicologico. Se è infatti piacevole ritrovarsi comunque in compagnia dei libri, passando da un locale all’altro, mi crea tuttavia un po’ di angoscia, quando sono qui, l’idea che la gran parte dei miei libri è di là, non averla sott’occhio e sotto diretto controllo. Non fare commenti, mi rendo conto benissimo che è una sindrome maniacale avanzata, e intravedo il rischio di trascorrere la mia vecchiaia deambulando da una stanza all’altra: ma sappi che c’è di peggio, perché coltivo da anni il progetto di abbattere un paio di muri e di unificare il tutto.

Per il momento mi limito ad applicare anche in questo ambiente le norme d’arredo spartane del bibliomane. Un paio di riproduzioni da Friedrich, un divano che arriva direttamente dall’arca di Noè, il grande tavolo centrale che usi per disegnare e quello più piccolo, contro il muro, che ingombri con le tue carabattole. Il resto dello spazio è occupato da due scaffalature a soffitto, una distesa lungo l’intera parete di fondo, l’altra sacrificata tra la porta d’ingresso e quella che immette nella cucina. Nella rimanente metà della parete, verso la finestra, ci sono due vetrinette contenenti libri antichi. L’unica concessione al superfluo è costituita da sei soldatini di gesso, come quelli che possedevo un tempo, indiani Abenaki o Penobscot, con l’acconciatura all’irochese, per intenderci, distribuiti qua e là a guardia degli scaffali. Li ho desiderati da quando avevo sei anni, pensavo in realtà che nemmeno esistessero, li ho trovati quasi a sessanta in un incredibile bazar del tipo “tutto a un euro”. Come dire, anche i sogni più assurdi a volte si avverano. O forse, solo quelli.

Il tutto risulta accogliente e funzionale, almeno per me; ma vedo che anche gli amici, quando vengono a cena, si trovano perfettamente a proprio agio e nell’attesa, invece di intralciare il mio lavoro ai fornelli, si dilettano a curiosare tra i titoli (e giocherellano con i soldatini).

I primi scaffali nei quali ci imbattiamo, vicino alla porta d’ingresso, ospitano gli autori italiani che non hanno trovato posto nello studio. È tutta letteratura del ‘900, in parte canonica (c’è persino Moravia), ma per lo più corrispondente a scelte e gusti molto personali. Non è una sezione particolarmente ricca, e non è certo una di quelle che caratterizzano la mia biblioteca. Negli ultimi tempi mi sono alquanto disamorato della letteratura in genere e di quella italiana in particolare, probabilmente per una saturazione indotta da trent’anni di insegnamento, ma anche perché trovo che offra poco di nuovo. Solo il tam tam degli amici mi consente di leggere ogni tanto le cose giuste: in mezzo alla straripante produzione letteraria attuale non è facile districarsi, e a differenza di quanto accade per la saggistica qui i percorsi non si impongono da soli.

Ciò non toglie che anche questo scaffale possa riservarti delle sorprese piacevoli: ci sono ad esempio dei piccoli classici “sempreverdi” come “Lessico familiare” di Natalia Ginzburg, “Le redini bianche” di Quarantotti Gambini, “L’isola di Arturo” della Morante, insieme ad altre cose che potrai leggere ed apprezzare già tra qualche anno. Oppure ci sono opere di Cassola, di Bigiaretti e di Bilenchi, anch’esse adatte ad una lettura precoce ma che vanno gustate al tempo giusto, possibilmente durante le vacanze estive, perché non meritano la reazione di rigetto che di solito la scuola induce. Sarei tentato di segnalarti anche i libri di Tondelli (non tutti, ma senz’altro “Un Week end postmoderno”) e poi narrazioni legate all’ambiente scolastico, come “Registro di classe” di Sandro Onofri e “Il supplente” di Fabrizio Piccinelli, o altre ancora accomunate dal ricordo nostalgico di luoghi, epoche e atmosfere di un passato più o meno prossimo, come le “Memorie lontane” di Guido Nobili, le “Cronache epafaniche” di Francesco Guccini o “La vita in campagna” di Bino Samminiatelli: ma nel mio gradimento gioca molto in questo caso la consonanza con esperienze personali, e ritengo quindi improbabile che queste letture possano trasmettere a te le stesse emozioni.

Lascia dunque che sia io a crogiolarmi nella nostalgia e goditi invece il divertimento allo stato puro garantito da Stefano Benni. Ci sono i suoi primi racconti, quelli di “Bar sport” e de “Il bar il mare”, che lo hanno consacrato tra gli autori di culto della generazione di mezzo tra la mia e la tua, assieme al romanzo “Terra” e alle poesie di “Prima o poi l’amore arriva” (cose tipo: “La giraffa ha il cuore/ lontano dai pensieri/ si è innamorata ieri/ e ancora non lo sa”). Ho cercato di diffonderlo tra gli studenti leggendo in classe i brani più spassosi, nella vana speranza che per qualcuno fosse fonte di ispirazione nonché di stile, perché ero stufo di correggere compiti banali e scorretti. Oggi non ci provo nemmeno più, un po’ per scoraggiamento, un po’ perché credo che anche lui abbia fatto il suo tempo. La verità è che non ho neppure letto i suoi ultimi libri, e forse sono io a non aver più testa a prendere il mondo troppo in ridere.

Questo dell’umorismo è un tema che merita un minimo di riflessione. Tu sei nata in un’epoca in cui non si sa più nemmeno ridere, giustamente, da un lato, perché con questi chiari di luna c’è poco da stare allegri, ma anche, all’opposto, perché c’è troppa voglia di divertirsi e di divertire a tutti i costi. Bada che non ho nulla contro l’umorismo, e che anzi considero la capacità di prendere le cose con ironia e distacco il primo e fondamentale segno di intelligenza. Ma è proprio per questo, perché associo la risata e il sorriso all’intelligenza, che non sopporto di vederli usurpati dall’imbecillità. L’umorismo nasce dallo stare al di sopra delle cose, il resto, lo sganasciamento compulsivo e forzato, scaturisce dall’esserne irrimediabilmente schiacciati. Vorrei che imparassi a distinguerli, e ho buone speranze, perché già dai l’impressione di preferire la comicità sottile delle parole, delle battute pungenti, magari più sarcastiche che ironiche, a quella sguaiata dei gesti o del linguaggio demenziale.

I titoli che possono soddisfare una voglia di umorismo intelligente li trovi sparsi qua e là, non li ho raccolti in una specifica sezione. Oltre i già citati Jerome, O’Henry e Pennac ci sono ad esempio Mark Twain e Amboise Bierce per l’ottocento, Wodehouse, Richard Powell e “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene” per il novecento, tutte cose che puoi cominciare a leggere in pratica da domani. In una delle storie di Wodehouse c’è persino un gangster che si chiama Joe Repetto, incredibilmente imbranato e pasticcione. In “Vacanze matte” di Powell ci sono invece due terribili gemelli che sconfiggono sia il governo degli Stati Uniti che una banda di malviventi, sullo stile di “Mamma, ho perso l’aereo”. Più avanti, ma non molto, potresti dilettarti con “La zia Julia e lo scribacchino” di Vargas-Llosa, con l’esilarante “Comma 22” di Heller e con le storie strampalate di Woody Allen. Ci sono anche altri italiani, ad esempio Domenico Starnone, che in “Fuori registro” e “Ex cathedra” parla di scuola, ma in termini che senz’altro non ti annoieranno. Per dimostrarti che non sono prevenuto cito persino un’autrice, Carmen Covito, con “La bruttina stagionata”: magari da leggere un po’ più in là, quando sarai abbastanza matura da gustare anche i “Racconti umoristici e satirici” di Boll o “Il lavoro culturale” di Bianciardi, dei quali ti ho già parlato.

Infine, se imparerai il latino potrai assaporare la quinta satira di Orazio, quella del seccatore. Solo in latino, perché nella traduzione si perde il novanta per cento del gusto comico. L’estate dopo la maturità portavo Orazio anche al fiume, lo rileggevo e scoppiavo a ridere, alla faccia della lingua morta. Gli amici davano un’occhiata al libro, bagnavano un asciugamano e me lo avvolgevano attorno alla testa. Non sapevano cosa si stavano perdendo. Ma temo che non lo saprai nemmeno tu: quindici anni di riforme scolastiche hanno fatto più danni di venti secoli di storia.

Se invece non sei dell’umore e preferisci una via di mezzo tra il disimpegno e la serietà ci sono alcuni autori il cui successo è molto televisivo, non soltanto nel senso che compaiono più o meno frequentemente in televisione ma perché si sono conquistati un fascia di pubblico che ha un’educazione multimediale, l’abitudine ad un particolare linguaggio, magari anche colto, ma tagliato sui ritmi e sui modi della recitazione in telecamera. Ci metto dentro personaggi come Aldo Busi, o come Alessandro Baricco, la cui scrittura ricorda un po’ la cucina cinese, molto scoppiettante e accattivante, ma che quando esci ti lascia insaziato, e ti ritrovi a desiderare un panino. È un po’ la sensazione che patisco in tutta la letteratura contemporanea.

Baricco costituisce un caso a parte, perché comunque lo stimo una persona più intelligente dei libri che scrive. Dopo un’effimera fiammata nei primi anni ’90, con “Oceano mare” e “Castelli di rabbia”, è poi scaduto a parodia di se stesso, tanto da riverberare all’indietro, sulle sue prime opere, l’inconsistenza delle ultime. Ma di suo devi leggere almeno “Barnum”, una raccolta di scritti per una rubrica che compariva il mercoledì su “La stampa”, nei quali ha dato forse il meglio.

Visto che difficilmente ti porterai le “Satire” di Orazio al fiume, puoi portare questi. Sono letture balneari, consentono di leggere ogni tanto qualche battuta anche alle amiche e di essere sicura che la capiscano. In caso di depressione non grave, infine, da lettura un po’ più solitaria, c’è Andrea De Carlo. Non può fare danni, è omeopatico.

Spostandoci di un solo ripiano verso il basso cambiamo del tutto atmosfera e livello di consistenza, perché finiamo nella la memorialistica di guerra e concentrazionaria. L’accostamento non è granché appropriato, ma non penso ti disturbi più di tanto. Per questa sezione il problema potrebbe essere piuttosto quello dell’appartenenza o meno alla letteratura, se si tratti cioè di opere letterarie o di documenti storici, o di qualcosa che sta a metà. Io credo ci siano dei casi nei quali la pregnanza stessa delle cose raccontate liquidi ogni dubbio, sempre che abbia un senso porsi la questione. Se un libro mi trasmette delle emozioni, oltre che fornirmi delle conoscenze, sta di diritto nella letteratura. Si da poi il caso che quelli che trovi qui, anche se non arrivano tutti ai livelli letterari di Primo Levi, di Solzenicyn o di Jean Amery, sono scritti in maniera particolarmente efficace, perché quando hai da dire cose davvero importanti la forma è dettata direttamente dalla verità, perlomeno da quella delle tue emozioni. Tra i tanti mi limito a segnalarti Livio Bianco e Nuto Revelli. Bianco l’ho scoperto per via del rifugio a lui dedicato in val di Gesso, nelle Alpi Marittime, un luogo di sogno dove prima o poi ti porterò. Era un partigiano e un alpinista: ha salvato la pelle durante la Resistenza, l’ha poi lasciata in un incidente sulle sue montagne. Il suo “Guerra partigiana” è la riprova di quanto ti dicevo prima. Non c’è bisogno di molte parole per raccontare la guerra: bastano quelle giuste. Leggi un paio di poesie di Ungaretti, “Veglia” ad esempio, e ti ci trovi immersa dentro.

Il che non significa che, letto uno di questi libri, si possano dare gli altri per scontati. Al contrario, la guerra la combattono gli uomini e ognuno ci porta la sua umanità, la sua storia, i suoi affetti, le sue paure. Se riesce anche a riportarli a casa assieme alla pelle, dopo, la sua guerra l’ha vinta. È importante leggere e rileggere queste cose, viste e raccontate da angolazioni e da esperienze diverse, proprio per ricordare che sono uomini quelli che combattono e che soffrono, e non abituarsi all’arida contabilità delle cifre.

Durante uno degli ennesimi pellegrinaggi al rifugio intitolato a Livio Bianco ho avuto modo di incontrare personalmente Revelli, che già conoscevo come autore, e da allora credo di poter dire di essere stato onorato della sua amicizia. Era davvero un uomo formidabile, sdegnoso e intollerante nella misura giusta, ostinato nella verità e sincero negli affetti. È sufficiente che tu legga “La guerra dei poveri” per sincerartene, ma ho anche un paio di videocassette che ne trasmettono egregiamente il carattere e la determinazione.

So bene, Elisa, che non lo farai; so che non avrai mai il tempo, quand’anche ci fosse la voglia, per andare a ripescare tutti questi personaggi e le loro opere. Ed è proprio per questo che te ne parlo, che insisto a soffermarmi su di loro. Voglio che tu sappia, almeno, che ci sono stati, ci sono e si spera ci saranno ancora degli uomini capaci di giocarsi la pelle in nome della dignità, capaci di affermare senza grandi strombazzamenti, solo con la coerenza e la fermezza del loro comportamento, il valore prioritario della libertà. Tu sai che non mi piace la retorica e che tendo a ironizzare su tutto, sin troppo; ma su questi uomini, così come su Gobetti, sui Rosselli, su Leone Ginzburg, su tutti gli antifascisti e i resistenti di ogni tempo e paese le cui opere e biografie incontreremo tra poco nello studio, non tollero alcun tono leggero, alcun dubbio o, peggio ancora, la cortina di silenzio dietro la quale si tenta di farli sparire. Sono figure scomode, perché sono la dimostrazione concreta che ad ogni forma di oppressione, di violenza e di ingiustizia ci si può ribellare, e che non nessun alibi vale a giustificare la resa. La loro scelta si chiama eroismo, senza mezzi termini, e se pure non è necessario né pensabile che tutti debbano essere eroi, è almeno giusto che quelli che lo sono vengano riconosciuti come tali. E bada che il loro eroismo non è legato alla prigionia, alle torture, in molti casi al martirio, queste cose attengono ad una contingenza storica, ma alle motivazioni della scelta e alla determinazione nel portarla avanti. Di tutto questo tra un po’ riparleremo più diffusamente, ma voglio sperare ti sia accorta che in realtà ne stiamo parlando sin dall’inizio.

Adesso cambiamo invece addirittura scaffale e passiamo a quest’altro accanto, più largo e colmo di libri dai dorsi vivaci. Qui si trova quella che un tempo era classificata come letteratura d’appendice, che più recentemente è stata ribattezzata “di genere” e che infine è stata accolta ufficialmente nel giro che conta: ovvero la giallistica, l’horror e la fantascienza. Paradossalmente, a dimostrazione che non sono le patenti a fare la qualità, le cose migliori in tutti e tre i generi sono state scritte quando questi non avevano cittadinanza negli scaffali delle biblioteche serie, e chi leggeva i Gialli Mondadori o quelli Garzanti con la copertina rigida nera li teneva negli scatoloni o nel ripostiglio. I miei li trovi in un’altra camera, ma per motivi di spazio, sono centinaia, e perché le cose migliori sono state ristampate in altre collane.

Non ho mai nutrito una passione specifica per il gotico o per la fantascienza, né in letteratura né al cinema. Mi considero un minimalista della fantasia, non nel senso che ne ho poca, anzi, ma perché preferisco esercitarla sul concreto, sul piccolo. Questo non mi ha impedito naturalmente di raccogliere un buon numero di “classici” dei due settori e di apprezzare quelle opere che per le tematiche o per la qualità della scrittura uscivano dalla nicchia specialistica. Credo ad esempio che antologie come “Il breviario del brivido” e “Universo a sette incognite” raccolgano alcuni tra i più bei racconti mai scritti, da “Il giorno dei trifidi” a “Il terrore della sesta luna”.

La fantascienza mi ha intrigato comunque molto più per la sua parentela con la letteratura utopistica e per la capacità di leggere in profondo ciò che fermenta nel presente che per gli stilemi suoi propri. È la ragione per cui agli scrittori alla Asimov, che narrano cicli di fondazione e imperi galattici, preferisco quelli più inquietanti, come Ballard e Philiph Dick, che possono essere classificati tra i distopisti, i profeti di sventura. (Ballard ha anche scritto un romanzo bellissimo e amaro sulla sua detenzione in un campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale, “L’impero del sole”). Prova a leggere tra qualche anno, ad esempio, “Il vento dal nulla” o “Condominium” di Ballard, o ancora, un po’ più in là, “La svastica sul sole” di Dick e “I reietti dell’altro pianeta” di Ursula Le Guinn. Ti renderai conto che la fantascienza non ha a che vedere solo con i marziani, ma anche con i lunatici, i quali sono già qui e hanno invaso la terra, e non hanno la pelle verde ma bianca o rossa o nera o gialla, proprio come quella dei terrestri. Che gli alieni, in sostanza, e i peggiori nemici di noi stessi, siamo noi.

Per quanto riguarda invece l’horror o “romanzo nero”, potresti iniziare classicamente l’apprendistato con i racconti di Poe, oppure risalire ancora a ritroso, fino a “Il monaco” di Mattew Lewis e ai grandi romanzi gotici, e passare poi per “Frankenstein” di Mary Shelley. Qui sono raccolti anche tutta una serie di notevoli autori dell’ottocento, come Bram Stocker, quello di “Dracula”, o Artur Machen: ma c’è soprattutto Lovecraft.

Il mondo di Lovecraft non è certamente consigliabile per una fanciulla dal palato delicato, pieno com’è di creature viscide e puzzolenti, verdastre e impiastrate di mucillagini varie: ma conoscendoti una certa propensione per le schifezze e una notevole solidità di stomaco penso potresti esserne conquistata. Se devo confessarti la verità non ho mai trovato una lettura di questo tipo che mi procurasse qualche brivido, neppure quando giovanissimo leggevo i racconti dell’orrore di Poe: ripeto, mi fa molto più inorridire la quotidianità della cattiveria e dell’ignoranza, l’idea del male visibile e tollerato che circola alla luce del giorno.

Credo di essere stato vaccinato contro le paure del buio, dell’invisibile e del misterioso da un’efficace terapia d’urto infantile. Dall’età di sette anni ogni sera, dopo cena, mi sono trasferito dal retro-cucina della bottega di ciabattino del nonno Menego, al centro del paese, in questa casa vecchia, enorme, isolata e, tranne che da noi, totalmente disabitata. Salutavo i miei che si fermavano a lavorare sino a tardi, davo la mano a mio fratello, che aveva tre anni, percorrevo i cento metri che separavano le due abitazioni, passavo per il cortile deserto e salivo le quattro rampe di scale al buio, perché l’impianto elettrico risaliva all’ottocento e non ha mai funzionato, trattenendo letteralmente il fiato e aspettandomi ad ogni svolta qualche terribile apparizione. Una volta in camera ci infilavamo veloci sotto le coperte ed attendevamo che arrivasse mia madre, al buio, con gli occhi spalancati e le orecchie tese agli incredibili rumori che provenivano da quei muri secolari e dagli infissi fatiscenti, scivolando poi pian piano nel sonno a dispetto della paura. Ti assicuro che dopo un paio d’anni di questa cura ero in grado di dormire tranquillo anche in un cimitero. Questo spiega la mia scarsa sensibilità al sottile piacere del brivido: e tuttavia qualche inquietudine Lovecraft me l’ha creata, se non altro al pensiero che per immaginare esseri simili doveva vivere in una sorta di incubo costante, di effetto da delirium tremens.

Se dovessi assegnare nell’ambito del noir un premio per la qualità della scrittura, intesa come capacità di evocare perfidia e di far percepire sulla pelle la tensione, lo assegnerei comunque a Patricia Higsmith. Penso che solo una donna possa conoscere così perfettamente i meccanismi di questo gioco al veleno, e tu mi sembri in grado di apprezzarla. Se vuoi provarci ti consiglio soprattutto “Sconosciuti in treno” e “Il grido della civetta”.

Tra gli autori più recenti l’unico che conosco e qui rappresentato è Stephen King. Quello di King è un caso controverso. Viene accusato di fare della letteratura di puro consumo, prodotta con miscele in dosi industriali di pochi ingredienti di base e finalizzata a procurare artificiali scariche di adrenalina. Il che in parte è vero, perché è improbabile che un narratore riesca a sfornare un libro tra le seicento e le milleduecento pagine ogni anno se non dispone di una catena di montaggio, e quindi si tratta di una scrittura industrializzata: ma questo non toglie che la qualità rimanga quasi sempre piuttosto alta, e che almeno un paio di libri di King non possano essere ignorati. Uno è senza dubbio “Stagioni diverse”, una raccolta di racconti lunghi tutti ugualmente belli, che comprende tra gli altri il favoloso “Ricordo di un’estate”, quello da cui è stato tratto il film, altrettanto indimenticabile, “Stand by me” . Personalmente ho trovato coinvolgente anche un polpettone come “IT”, un caso clamoroso, l’unico libro di oltre mille pagine, insieme al “Signore degli anelli“, che ho visto leggere da un sacco di allievi, e anche da tuo fratello.

Resta comunque il fatto che il mio rapporto con la letteratura dell’orrore è piuttosto tiepido, e le motivazioni per le quali apprezzo alcuni degli autori di questo genere non hanno mai a che fare con il brivido, ma con aspetti collaterali, come l’ambientazione o la rievocazione di una particolare età della vita.

Di vera passione posso invece parlare per la letteratura poliziesca. Non è sempre stato così. Ho iniziato infatti con la giallistica classica, Edgard Wallace, Agatha Christie e Rex Stout, trovati in edizioni vecchissime, di prima della guerra (e sono ancora lì), e successivamente sono passato a Maigret e a Early Stanley Gardner, quello di Perry Mason, per via degli sceneggiati e delle serie televisive: ma era un interesse solo di testa, volevo misurarmi con l’autore e mettere alla prova le mie capacità di intuizione e di logica.

Poi è arrivato Chandler. Non riesco a ricordare come mi sia capitato di leggere il primo libro suo, forse per suggerimento di un amico. Era “Il lungo addio”. Un colpo di fulmine. L’investigatore di Chandler, Philiph Marlowe, sembrava pensato su misura dei miei sogni – ma evidentemente era della stessa taglia e dello stesso modello dei sogni di altra gente, perché è conosciutissimo e amatissimo. Marlowe è disincantato, scettico, sarcastico e solitario, gioca persino a scacchi da solo, ma ha dei valori e dei principi nei quali si ostina a credere e ai quali non vuol venire meno, primi tra tutti l’amicizia e la lealtà, e subito dopo la giustizia. Viene deluso negli uni e negli altri, sa di combattere una battaglia disperata, di essere un anacronistico donchisciotte, ma la sua etica non gli consente di mollare. È tutt’altro che un moralista, bada bene, perché la morale è quella dettata dalla società, o dal branco, e Marlowe è un lupo solitario, che agisce eticamente, cioè in base a ciò che gli detta il suo animo. Non è diverso dagli eroi di Camus, come loro si batte contro le pesti dell’ingiustizia e dell’ipocrisia, senza la presunzione di vincerle ma per affermare con la sua lotta che ingiustizia e ipocrisia non sono ancora i parametri unici dei rapporti umani.

È un eroe al tempo stesso pre e post-moderno; è anacronistico nel senso che sarebbe fuori sintonia in qualsiasi epoca, e questo gli consente di non rimpiangere un mondo che non c’è mai stato e di non sognarne uno che non ci sarà mai. Anch’io sono sempre un po’ fuori tempo, in tanti sensi. Lo dimostra il fatto stesso di scrivere queste cose, o la pretesa di far entrare Vico nelle zucche dei miei studenti. Ma vedi, sto appunto cercando di dirti che una camera come questa è magica, ti permette di sintonizzarti con tutti coloro che in ogni epoca si sono sentiti stranieri in terra straniera, e di sfondare la misera bolla temporale nella quale sei confinato. Se così non fosse, se davvero dovessi pensare che ha senso solo quello che vedo e sento quotidianamente, sarei già finito nei titoli del telegiornale per strage.

Chandler mi ha suggerito un primo punto d’arrivo per il mio concetto, letterario e non, di eroismo. Ero già passato per tutta una serie di eroi, storici, cinematografici, letterari e sportivi, da Sandokan a “Hurricane” Carter, immancabilmente accomunati dal segno della sconfitta, ma anche dalla speranza del riscatto. Con il malinconico Marlowe ho realizzato invece che il riscatto è già insito nella lotta, e che non è quindi necessaria, e nemmeno possibile, la vittoria: ho capito quello che prima avevo solo intuito, che essere sconfitti non significa essere dei perdenti, e l’ho applicato alla mia interpretazione della storia e dei comportamenti umani.

Proprio in fondo a questo scaffale ci sono due ripiani consacrati ai fumetti, che tra l’altro hai già iniziato a saccheggiare, dove trovi la testimonianza di quanto questo personaggio abbia influito sull’immaginario di almeno due generazioni, o lo abbia comunque impersonato. La gran parte dei protagonisti sono delle trasposizioni dell’investigatore di Chandler, a partire da Corto Maltese. L’eroe di Pratt è un Marlowe con tanto esotismo in più, gettato nella storia invece che nella quotidianità, sbalzato dai Caraibi alla Siberia, dal Sahara all’Irlanda, che attraversa guerre mondiali, rivoluzioni russe, belle époque e si infila negli interstizi tra i grandi eventi, incrociando tutti i relitti che il naufragio dei sogni lascia alla deriva. Assomma veramente tutte le caratteristiche che ho sempre attribuito all’alter-ego dei miei sogni, prima tra tutte la possibilità di vivere in un’epoca nella quale sono ancora possibili l’avventura e lo stupore della scoperta.

I discendenti di Marlowe nella narrativa a fumetti sono moltissimi, così come nel cinema. Cercherò di farti leggere appena possibile le storie di Ken Parker, sperando di incontrare lo stesso entusiasmo mostrato a suo tempo da tuo fratello. E, a seguire, un sacco di altri. Ma ho qualche dubbio. Credo che la grande stagione del fumetto sia ormai finita da un pezzo, uccisa dalla televisione e dai cartoni animati, e che sia onesto prenderne atto, senza pretendere che le generazioni odierne debbano e possano riviverla. Ma è una storia che conto di raccontare un’altra volta.

Torniamo invece alla letteratura poliziesca. Vale quello che ti ho detto poco fa, e cioè che le cose migliori sono state scritte da un pezzo. Tutto documentato: questi ripiani ti offrono un vero florilegio, dalle storie di Dashiel Hammett a “La fine è nota” di Holiday Hall, fino agli intrighi spionistici di John Le Carré. Negli scrittori polizieschi di qualità, e ti assicuro che sono moltissimi, a dispetto delle puzze sotto il naso con le quali sono stati a lungo liquidati, si ritrovano atmosfere che dicono di un’epoca molto più degli studi sociologici. Non è solo il caso di Simenon, o più ancora del Durrenmatt de “La promessa”: persino in Italia abbiamo avuto negli anni sessanta e settanta autori come Scerbanenco o piccoli gioielli come “La mazzetta” di Veraldi e “La donna della domenica” di Fruttero e Lucentini, che insaporivano il dramma e l’indagine con degli ironici e puntuali scorci d’ambiente. E prima ancora, negli anni quaranta, ci sono stati casi come quello del misconosciuto Augusto de Angelis. Sono tutti a tua disposizione.

Negli ultimi decenni l’uscita del triller dal ghetto ha invece un po’ complicato la faccenda. L’indagine è ormai diventata un luogo comune letterario, una sorta di scorciatoia per arrivare a parlare di qualsiasi cosa: e se a qualcuno, come ad esempio ad Umberto Eco ne “Il nome della rosa”, l’operazione è perfettamente riuscita, in molti casi si è invece rivelata solo pretestuosa. L’esplosione quantitativa del genere non ha comunque prodotto solo degli incroci sterili: su questi ripiani trovi tutta la saga di Pepe Carvalho, un Marlowe catalano, quindi più politicizzato e più buongustaio, che mi ha riacceso vecchi entusiasmi, e autori italiani come Camilleri e Lucarelli, che al di là del successo di pubblico si sono già ritagliati un posto nelle storie letterarie.

C’è rimasto, di questo scaffale, solo un ultimo ripiano: quello di centro. Secondo le regole di collocazione enunciate in apertura dovrebbe ospitare le scoperte e gli entusiasmi più recenti, e anche qualcuno di lunga durata. Infatti è così. Si tratta di autori molto dissimili, e non solo per le diverse provenienze, ma per temi e atmosfere. Il primo da sinistra è Hornby, inglese, ormai famosissimo dopo un poker di romanzi sempre in crescendo, da “Febbre a 90°” a “Come diventare buoni”, il meno conosciuto ma probabilmente il più bello. Solito discorso. In Italia la generazione dei trenta-quarantenni viene descritta nei film di Muccino o in romanzi che gli somigliano: viene fuori un gregge di psicopatici più o meno pericolosi, caciaroni e patetici, occupati in professioni e in storie sentimentali del tutto improbabili. Hornby li racconta invece con leggerezza ed ironia, e alla fine risultano più credibili, oltre che più divertenti, dei nostri yuppies sgangherati.

Altrettanto divertente, e molto più caustico, è Alan Bennett, l’autore di questi libricini dell’Adelphi, “La cerimonia del massaggio” e “Nudi e crudi”. Sono esempi magistrali di umorismo distillato, controllato e sotterraneo, e sono irresistibili. È sufficiente metterne a confronto la mole con quella dei romanzi di Paco Ignacio Taibo, che stanno poco più in là, per capire che arrivano da mondi diversi. Taibo racconta alla maniera sudamericana, straripante e grottesca, e le sue storie di rivoluzioni e complotti non riescono (perché non vogliono) ad essere tragiche nemmeno quando si concludono in un massacro. I protagonisti sembrano volersi prendere, almeno sulla pagina, la rivincita su una realtà che li ha sempre visti sconfitti.

Saltiamo questi altri, Mutis, Franzen, Tibor Fischer, Martin Amis, e andiamo agli ultimi in fondo, gli americani. Sono tutti e tre in qualche modo epigoni della letteratura western – ma in fondo lo è tutta la letteratura americana, compresi Hemingway e la beat generation. Il discendente più diretto e dichiarato è Cormac Mc Carty, l’autore di “Oltre il confine” e di “Cavalli selvaggi”. Siamo in piena storia del West, cavalli, fucili, lupi, Messico oltre il Rio Grande, solo ritardata agli anni trenta di questo secolo. Ogni libro è un incessante vagabondaggio, motivato da niente e che si risolve in niente: ma in mezzo ci sono pagine bellissime. Nelle prime centosessanta di “Oltre il confine” compaiono solo due personaggi, un ragazzo e una lupa, e succede poco o nulla, eppure si leggono al volo.

La stessa cosa capita con le storie di Jim Harrison, almeno con quelle che a me piacciono di più, altrettanto solitarie e lente ma ambientate sul confine opposto degli States, verso il Canada: “Un buon giorno per morire”, “Luci del nord” e “Lupo”. Harrison vive in una fattoria nel Michigan e se ho capito il personaggio immagino si stia rodendo il fegato ad essere rappresentato nel mondo da George Bush, padre e figlio. È stato più fortunato (ma mica tanto: è morto alla fine degli anni ottanta e si è beccato tutto Reagan) Edward Abbey, l’autore de “I sabotatori” e di un altro libro del quale parleremo. Mi piace chiudere questa scorribanda nelle letterature con Abbey. Nel corso del romanzo i suoi eroi fanno saltare in successione macchinari, strade, ponti, tutto quello che incide il marchio deturpante del profitto sulla natura. Sono arrabbiati e determinati, come Revelli, come il partigiano Johnny, come Sandokan. Penso che piaceranno anche a te.

Altre letterature: i classici

I contemporanei ci hanno fatto correre parecchio. Dobbiamo prendere un po’ di respiro. No, non pensavo ai cartoni animati: intendevo passare a cose più tranquille, o almeno, più classiche. In effetti, sinora non abbiamo quasi fatto cenno alle letterature che stanno all’origine di tutte le altre, quelle del mondo classico: ma è evidente che l’assenza di una sezione apposita sarebbe impensabile, soprattutto nella biblioteca di uno che ha studiato il latino per dieci anni e il greco per cinque, e alla maniera di una volta. Infatti la sezione c’è, e se ti volti la trovi proprio di fronte, nel primo scaffale a sinistra. Riempie tre ripiani, uno con edizioni moderne, gli altri con vecchi volumi che fanno parte del tesoro librario rinvenuto tra queste mura.

Già, perché è accaduto anche questo.

Vivo in questa casa da sempre. I miei avevano in affitto questo piano; il pianterreno e quello nobile erano riservati ai padroni, l’Ingegnere, l’Avvocato e la Signorina, tre fratelli torinesi usciti direttamente dagli anni e dai versi di Gozzano, che rispuntavano all’inizio di ogni estate su una microscopica Bianchina, caricata all’inverosimile. Impiegavano quasi una giornata per il trasferimento, perché evitavano l’autostrada per via del pedaggio e non superavano mai i cinquanta all’ora, e ripartivano poi ai primi di settembre, dopo giorni di discussioni per risistemare il carico.

In realtà non eravamo i soli affittuari: un paio di camere di questo piano sono state abitate durante la mia infanzia da una vecchietta quasi centenaria, che cucinava degli indimenticabili gnocchi, e da un personaggio un po’ losco, che trafficava nel porto di Genova e ci regalava ogni tanto intere balle di stoccafisso, e successivamente dai miei nonni paterni con la zia Rosetta, quella dei club letterari. Alcuni contadini avevano poi in uso la cantina, mentre altri utilizzavano la stalla e la cascina, ora scomparse. Questo andirivieni mi lasciava sconcertato, e non ho mai capito bene quali fossero i rapporti e i confini esistenti nell’edificio. Una cosa soltanto era certa e tassativa: durante l’estate sui due piani inferiori gravava un’aura quasi sacrale, al punto che davanti ai portoncini d’ingresso istintivamente ci zittivamo e rallentavamo la corsa per le scale. Anche il giardino e il cortile, che nelle altre stagioni erano il terreno di scontro di tutta la marmaglia del paese, diventavano tabù.

Col tempo, e col crescere della famiglia, abbiamo finito per occupare tutto il piano, una camera alla volta, e poi anche la cantina e le dipendenze. I miei erano diventati i fiduciari dei Filippa, che ormai prolungavano il più possibile il loro soggiorno, conquistati dalla devozione e dalle cure di mia madre, e che a metà degli anni settanta ci hanno venduto l’intero caseggiato per una cifra quasi simbolica (in rapporto al valore reale, non certo alle nostre possibilità finanziarie), conservandone l’usufrutto. I tabù a quel punto erano almeno in parte caduti: ma ho dovuto tenermi ancora per un pezzo, sino alla scomparsa dell’ultima superstite, una curiosità che si rinnovava ad ogni primavera, quando si ripeteva il rito della riapertura e del riassetto del piano nobile, e che riguardava un misterioso armadio a muro, perennemente ed ermeticamente chiuso. La lealtà di mia madre verso la sua Signorina non ammetteva deroghe, per accostarmi all’armadio avrei dovuto passare sul suo cadavere. L’attesa è stata comunque ripagata, e più di quanto avessi mai osato sperare. Dentro, assieme ad un paio di sciabole, c’erano centinaia di volumi, quasi tutti in ottimo stato di conservazione, i più recenti risalenti alla fine dell’Ottocento, i più antichi addirittura al Cinquecento. L’armadio non era stato più aperto da almeno un secolo. I pezzi migliori sono ora al sicuro, dietro vetri oscurati, in quella parte dello scaffale dello studio che tu chiami “la cabina telefonica”. Gli altri sono sparsi qui, nei ripiani più alti e nelle due vetrinette che occupano metà della parete opposta, sul lato della finestra.

Perché questa digressione? Perché la gran parte di quei volumi erano naturalmente edizioni o traduzioni di classici latini e greci, e oggi arricchiscono e impreziosiscono questo settore. Non ho intenzione di farti qui l’elogio dei classici. Per queste cose lascio la parola a gente molto più brava di me, e ti rimando direttamente a “Perché leggere i classici?” di Calvino o agli scritti di George Steiner e di Harold Bloom (ma se vorrai delle motivazioni potrai trovarne ovunque, partendo da Dante, in Petrarca, in Machiavelli, in Leopardi, ecc…). Per quanto mi concerne, non tengo autori greci e latini sul comodino. Ho perso quasi totalmente la consuetudine con entrambe le lingue, dopo essere arrivato a tradurle a vista, e soprattutto a capire perché quegli autori, a differenza dei contemporanei, abbiano un senso solo se letti nell’idioma originale. Tuttavia sono egualmente convinto di aver digerito e assimilato appieno quello studio. Il greco e il latino mi sono entrati sottopelle, hanno strutturato la mia ossatura linguistica e definito la mia muscolatura argomentativa. Sono strumenti che una volta acquisiti diventano d’uso, anche quando non li coltivi e non li lubrifichi costantemente.

Se ti raccontassi però che in gioventù ho letto i classici con quel piacere di cui parlano Machiavelli e Montaigne, e che mi aspetto sempre dalla lettura, sarei un ipocrita. Forse malgrado l’impegno il livello di padronanza linguistica non era ancora sufficiente, o forse più semplicemente non mi è mai stato consentito, neppure all’Università, di dissociarli da un uso scolastico e punitivo (traduzione letterale, analisi logica, declinazioni, coniugazioni, periodo ipotetico e così via). È un discorso già fatto.

Qualcuno da amare, però, oltre che da tradurre e da analizzare linguisticamente, l’ho trovato lo stesso. Ti ho già raccontato di Orazio. Se non fosse un latino Orazio sarebbe un inglese, lo zio di Swift e di un sacco di altri scrittori che guardano con disincanto ed ironia al proprio tempo e alla condizione dell’uomo in generale. C’è un filo che corre lungo la letteratura, attraverso le epoche e le lingue, anche quella italiana, e che unisce ad esempio idealmente Orazio con Ariosto, con Leopardi, con Porta, con Calvino. È il filo del buon senso e di una razionalità un po’ scettica ma non fredda, umana e in fondo benevola, e Orazio ne tiene senz’altro un capo. Potrei dire che riassume il mio rapporto maturo con la classicità.

Senofonte ha rappresentato invece a suo tempo il tramite per un appassionato rapporto adolescenziale. Più di Omero, che mescolava uomini e divinità e mi rendeva piuttosto problematica l’identificazione, e meglio di Cesare, che raccontava l’eterno trionfo dell’organizzazione e della forza, l’“Anabasi” era sinonimo di avventura. Dopo i primi timidi assaggi scolastici in lingua originale sono corso a cercare la traduzione della BUR, e l’ho letta d’un fiato. Non aveva nulla da invidiare a “La pattuglia sperduta” e a “L’assedio delle sette frecce”, e addirittura forniva quello schema narrativo ben preciso – avanzata, scontro, ripiegamento tra agguati e diserzioni, arrivo in salvo dei superstiti – che trovavo ripetuto puntualmente nei miei film di culto, da “Passaggio a Nord-Ovest” a “Tamburi lontani”, a “Obiettivo Burma”. Del fatto che Senofonte avesse creato l’archetipo più diffuso nella narrazione letteraria o cinematografica d’avventura mi sono reso conto in verità solo più tardi, dopo la visione de ”I guerrieri della notte”: ma evidentemente a livello inconscio l’avevo già percepito al momento della scoperta ginnasiale.

Quella di Plutarco è stata al contrario una scoperta tardiva, nel senso che le poche letture scolastiche non mi avevano lasciato un gran segno. L’ho riaccostato di recente arrivandoci di sponda, alla ricerca di un modello narrativo per delle mini-biografie comparate, e sia pure con grande fatica, usando a fronte due vecchie traduzioni, ho finalmente assaporato l’essenzialità e la forza dello stile. Mi intriga, al di là delle singole vicende, il concetto di esemplarità, l’idea di fondo che una vita, almeno nella interpretazione che ne dà il biografo greco, si giustifichi di per sé, non abbia bisogno di riscatti storici o religiosi. Credo che finirò per tenere Plutarco, debitamente tradotto, sul comodino.

Ultimo, e poi chiudo, viene Apuleio. Ho scoperto “L’Asino d’oro” attorno ai sedici anni, anche questo in una vecchia traduzione della BUR. Nelle antologie scolastiche era a malapena citato, ma quel poco, la fama di mago del suo autore, la definizione di “romanzo picaresco”, non potevano non incuriosirmi. Abituato alle tirate retoriche o moralistiche di Quintiliano o di Seneca, quando ho letto l’esordio non credevo ai miei occhi: “Me ne andavo dunque in Tessaglia in sella ad un cavallo dal mantello candido…”. Era piena atmosfera peplum, quella dei film storici italiani degli anni cinquanta, con Steve Reeves che faceva di volta in volta il gladiatore, il console romano o lo schiavo fuggiasco. Anzi, era meglio, perché evitava anche quel linguaggio paludato che nei peplum si metteva in bocca persino ai plebei. Era divertimento allo stato puro, con avventurieri, bricconi, maghi, vagabondi, un’autentica storia on the road catapultata duemila anni addietro, con intermezzi di sesso esplicito impensabili nel cinema e nelle letture di quegli anni. Che Apuleio fosse, o si piccasse di essere, anche un filosofo l’ho scoperto solo diverso tempo dopo, così come il fatto che le trasformazioni del giovane Lucio erano la metafora di un percorso mistico neo-platonico. A me interessavano i percorsi reali, le strade della Tessaglia, i vicoli malfamati delle città e la loro fauna, nonché naturalmente le grazie della calda Fotide. Scoprivo che il mondo classico raccontatomi dalla scuola, tanto remoto da sembrarmi appartenere ad un altro pianeta, era solo la versione patinata: come se si volesse capire la realtà quotidiana di una classe dalla foto ufficiale di fine anno.

Non ho letto una sola riga di Apuleio in latino e credo che non lo farò mai. Ci sono cose che hanno un linguaggio universale, che mentre leggi traduci comunque in immagini mentali tue, quali che siano i termini usati e l’ordine in cui vengono disposti. Se vuoi capire “un” mondo particolare devi conoscerne e usarne la lingua: ma se vuoi reinterpretare a tuo modo “il” mondo, qualsiasi idioma va bene.

4) VIAGGI, SCALATE, ESPLORAZIONI

Con storie di vagabondaggi abbiamo salutato (come sarebbe a dire, finalmente!?) sia la narrativa moderna che quella classica: con la letteratura di viaggio approdiamo all’unico settore della mia biblioteca che nutre ambizioni specialistiche. Per seguirmi non devi nemmeno cambiare posizione, puoi rimanere spaparanzata sul divano, perché guardiamo sempre alla parete di fondo. Questo settore ne riempie tutta la metà di destra, e occupa al momento sedici ripiani; ma se aggiungiamo il comparto alpinistico si arriva a venti. Qualcosa tra gli otto e i novecento volumi. Non svenire, prometto di essere breve. Consentimi solo qualche considerazione.

Una raccolta di tali dimensioni parrebbe suggerire l’immagine di un appassionato viaggiatore, carico di chilometri, di esperienze agli antipodi e magari di diapositive. Invece, come ti ho già detto, non sono nulla di tutto questo. Naturalmente anch’io mi sono mosso un po’, almeno in gioventù, sperimentando diversi modi di spostamento (soprattutto i più economici): ho vissuto letteralmente il mio “Senza un soldo a Parigi e a Londra”, ho navigato come mozzo, ho percorso a piedi la Corsica, mezza Italia e la Foresta Nera, ma tutto questo in maniera sempre episodica, con il tempo alla gola. Se volessi cercare degli alibi potrei accampare proprio la mancanza di tempo, la perenne urgenza dei lavori in campagna, nei periodi liberi dalla scuola, e la precocità dei miei impegni familiari. Potrei trovare un sacco di scuse.

Ma non mi sembra il caso: probabilmente ho viaggiato poco perché non ne avevo poi un così gran desiderio, o almeno non avevo voglia di muovermi alla maniera che mi sarebbe stata consentita, che era quella di un turismo veloce. Inoltre mi sono reso conto molto presto che nei viaggi cercavo piuttosto la conferma delle cose lette che non la scoperta di ciò che non conoscevo (e raramente la trovavo). Non ero del tutto libero, perché facevo in fondo dei viaggi di verifica, e allora tanto valeva inseguire libertà e soddisfazione sulla carta.

Con l’età sono diventato sempre più sedentario. A differenza dell’Ariosto non penso di aver già visto mondo a sufficienza; al contrario, ritengo di averne visto pochissimo. Ma credo che riuscirei a vederne poco anche se mi dedicassi d’ora in poi ad una vita errabonda, oppure che incontrerei ormai più o meno le stesse cose dovunque. Magari è solo la sindrome della volpe e dell’uva, ma arrivo persino a pensare che chi sente tutto questo bisogno di muoversi in lungo e in largo molto spesso stia solo cercando rassicurazioni – o giustificazioni – dell’essere vivo, abbia bisogno del vento in faccia per tenersi sveglio. Una cosa tipo “mi sposto, dunque esisto”. Ora, io non credo che lo spostamento sia indispensabile né al “vivere” né al “vedere”, se non in relazione alla quantità: chi ha girato tutti e cinque i continenti è probabile non abbia mai esplorato le colline dietro casa, non ne avrebbe avuto materialmente il tempo, e chi ha visto moltissime foreste difficilmente ha veduto crescere un albero. È questione di gusti. Il risultato è comunque che, in sintonia stavolta con l’Ariosto, anch’io preferisco viaggiare sulle carte, perché questo mi consente di scegliere e di muovermi nel tempo, oltre che nello spazio.

Se mi sono mosso poco ho in compenso riflettuto parecchio sul perché e sul come gli uomini viaggiano, e soprattutto su cosa li induce a raccontare i loro viaggi. Ho anche scritto un po’ di cose in proposito; per saperne di più potrai eventualmente leggerle. Qui ci occuperemo solo dei libri che hai di fronte, e per quanto ci sarà consentito dal numero e dalla varietà vedremo anche di non dilungarci troppo.

Questi scaffali raccolgono grosso modo ciò che di significativo è stato pubblicato negli ultimi trent’anni, oltre a quello che ho recuperato con una caccia serrata sulle bancarelle e nelle librerie antiquarie. Ti confesso che ultimamente l’impegno è diventato oneroso, anche finanziariamente, perché la letteratura di viaggio sta conoscendo un vero e proprio boom. Non era così fino a una ventina d’anni fa; i libri di viaggio non tiravano, e anche le opere più classiche erano rintracciabili solo in edizioni piuttosto vecchie. Poi è arrivato il successo di Chatwin, e la situazione è decisamente cambiata. Oggi rischiamo addirittura l’inflazione, con una conseguente caduta di valore di quello che circola.

Il tema del viaggio naturalmente non è affatto nuovo, anzi, è antico come la letteratura stessa. Lo ritrovi in tutte le epopee. È naturale che sia così: da un lato testimonia la memoria dei popoli per una primordiale condizione nomade, dall’altro si presta a diventare metafora dell’iniziazione alla vita o della vita stessa. Inoltre è un argomento che offre gli spunti narrativi ideali, perché determina le condizioni migliori per l’avventura e per il confronto con luoghi, usanze e persone diversi.

Ciò che ho raccolto in questo settore non concerne tuttavia il viaggio come tematica letteraria, ma la letteratura di viaggio, ovvero tutta quella produzione in cui il viaggio non è un pretesto narrativo, ma l’oggetto vero e proprio della narrazione. Per la collocazione ho adottato un criterio arbitrario, che garantisce tuttavia un certo ordine. In linea di massima ho distinto quattro sottosezioni: storia materiale e psicologica del viaggio (studi su modalità, motivazioni e simbolismo del viaggiare); storia generale delle esplorazioni; resoconti o diari di viaggio di esploratori o scienziati: resoconti o diari di viaggi a fini culturali, esotici, turistici.

Da cosa è giustificato questo cumulo di libri? Al solito: da una passione degenerata in mania. Per farla breve, la curiosità per i racconti di viaggio l’ho sempre avuta; è nata da un libro su Magellano e da un film favoloso, “I due capitani”, sulla spedizione di Lewis e Clark lungo il Missouri, si è consolidata nella prima giovinezza in compagnia del “Kon-Tiki” di Heyerdhal e di “I fiumi scendevano a oriente”, e da lì si è poi riversata su ogni tipo di esplorazione. La bibliomania specifica è esplosa però più tardi, quando per scrivere un breve saggio sulle scoperte geografiche tra Quattro e Cinquecento ho letto un sacco di studi in proposito, e ho cominciato ad essere attratto dalle fonti di prima mano, dai diari e dalle relazioni di viaggio – compresi quelli verso paesi immaginari, verso i luoghi geografici dell’Utopia. Solo dopo l’incontro con Alexander von Humboldt, comunque, il tutto ha cominciato ad assumere connotati maniacali.

Posso risparmiarti il resto, ma non Humboldt. D’altro canto, tu stessa hai già cominciato a farmi domande, quando tentavi di leggere quegli strani titoli in caratteri gotici che occupano un intero ripiano. Quelli sono i libri di e su Alexander von Humboldt, lo scienziato universale. Figurati che io l’ho scoperto come alpinista. Leggo di un tizio che alla fine del ‘700, nel corso di una traversata verso l’America fa tappa per tre o quattro giorni alle Canarie, vede il Pic de Tenerife, che non è esattamente una collina, sono tremilasettecento e passa metri, e decide di andare a dare un’occhiata di lassù. Così com’è, prende su e sale e scende in un giorno e mezzo: e quando poi lo racconta nel suo diario dice che ha misurato il cratere sommitale e analizzato i gas, e che si, in effetti tirava un po’ di vento e faceva freddino. L’ho capito subito che era il mio uomo. Quel viaggio in America doveva rivelarsi un’avventura scientifico-esplorativa entusiasmante, durata cinque anni, nel corso dei quali Humboldt ha girato a piedi, a dorso di mulo o in barca mezzo continente sudamericano, ha fatto rilevamenti mineralogici, botanici, meteorologici, topografici, tutto quel che era possibile fare con le strumentazioni dell’epoca, ha salito il Chimborazo, arrivando a 5900 metri, la massima altitudine raggiunta da un uomo ai suoi tempi e per quasi tutto il secolo successivo, ha studiato e criticato i sistemi economici, politici e sociali delle colonie spagnole. Dopo il suo ritorno ha vissuto ancora sessant’anni, facendo altri viaggi, riorganizzando la cultura tedesca, teorizzando un rapporto con la natura, di conoscenza e conseguentemente di rispetto, che ne fa il primo genuino ecologista in assoluto. Oggi non lo ricorda quasi nessuno, persino in Germania le sue opere sono praticamente introvabili, e quando le ho richieste ad un libraio di quelli autentici, ad Amburgo, si è commosso: ero il primo da anni che chiedeva quei titoli, e per giunta un italiano che non parlava il tedesco (ma si riprometteva di impararlo al più presto).

L’opera di Humboldt è immensa, ciò che vedi lì è quanto ho raccolto in trent’anni – compresa una prima edizione tedesca (1847) di un volume del “Cosmos”, portata via per dieci marchi in una libreria dell’usato a Costanza –, ma il solo epistolario riempirebbe venticinque o trenta tomi. Sono edizioni francesi e tedesche, persino una americana, oltre a quel poco che è uscito in italiano, e uno dei compiti che mi sono prefisso per la tarda maturità è proprio la prima traduzione italiana del “Cosmos” (per allora avrò imparato il tedesco, ma in realtà Humboldt stesso curò la stesura e la traduzione della versione francese, quindi potrò far base su quella).

Del valore dello scienziato, e del perché, dopo essere stato considerato (da Goethe!) lo studioso più colto e intelligente della sua epoca, sia stato così incredibilmente rimosso, non è qui luogo di parlare. Voglio aggiungere invece qualcosa dell’uomo, per aiutarti a capire questa monomania. Humboldt ha viaggiato per quattro anni in zone paludose, infestate di zanzare, di insetti e parassiti di ogni tipo, di sanguisughe e serpenti, ha traversato tutta la fascia equatoriale sudamericana, è salito sulle Ande, ha mangiato e bevuto quello che il convento passava, e non è mai stato male, non si è messo in mutua un solo giorno. Non ha lamentato un raffreddore, un mal di schiena, un’infezione, niente: una salute di ferro, a qualsiasi latitudine e altitudine. Il suo compagno, il pittore Bompland, che era un essere umano, e ogni tanto si ammalava, deve averlo anche odiato: quando si ritrovava talmente spossato da aver bisogno di qualche giorno o settimana di pausa l’altro ne approfittava per battere un po’ la zona e andare a cacciare il naso su qualche monte o nelle foreste o lagune circostanti. Indistruttibile, un caterpillar. Ma tutto questo non era solo frutto di una condizione fisica strepitosa, era anche il risultato di una determinazione e di un entusiasmo incredibili: Humboldt aveva sempre troppo da fare per ammalarsi, lo aspettavano ogni giorno nuove misurazioni, scoperte, problemi geografici, incontri ecc… E quell’entusiasmo della conoscenza lo ritrovi nelle sue relazioni: fa le cose più incredibili, come quando sale sul Chimborazo, sta compiendo un’impresa sportiva eccezionale, e desiste a un centinaio di metri dalla vetta solo perché gli altri, le guide locali per prime, sono distrutti e congelati, e rifiutano di proseguire di fronte all’ennesimo crepaccio, e racconta il tutto in otto righe commentando: “Peccato, ci tenevo a misurare lassù la pressione dell’aria!”

Humboldt era omosessuale, dicono. Sottolineo “dicono” perché a quell’epoca non si andavano a esibire le proprie preferenze sessuali in televisione, non se ne faceva spettacolo, soprattutto se erano un po’ fuori della norma, e nella fattispecie il nostro eroe era persona riservatissima, che non ha mai dato adito a pettegolezzi. E comunque, di per sé sarebbero stati un po’ fatti suoi. Lo rilevo invece come un dato statistico, come potrebbe essere il colore degli occhi o la statura, che diventa significativo quando ti accorgi che tale condizione era condivisa da almeno l’ottanta per cento dei grandi esploratori, soprattutto quelli tedeschi e inglesi dell’800. Allora ti viene da fare un ragionamento, ti chiedi se non ci sia qualche rapporto tra un disagio esistenziale, perché all’epoca dichiararsi omosessuali o comportarsi come tali significava essere messi al bando dalla società, e la spinta a lasciare il proprio paese, a volgere le spalle ad una cultura rigida e sessuofoba, per cercare nuovi lidi dove respirare più liberamente ed essere se stessi senza vergogna. È evidente che il legame tra le due cose c’è, e vale anche per le numerose figure di donne esploratrici, omo o eterosessuali che fossero, anch’esse alla ricerca di luoghi e situazioni nei quali lasciare finalmente briglia sciolta alla propria natura. È altrettanto significativo che questi personaggi arrivassero nella stragrande maggioranza da paesi luterani o puritani, nei quali vigeva una pressione morale fortissima, mentre erano pochissimi quelli provenienti dai paesi cattolici, dove i costumi erano decisamente più rilassati.

Ho fatto questa digressione, toccando un tema delicato, perché ho notato che ultimamente tiri spesso il discorso sui gay, e temo che l’impatto televisivo finisca per confonderti non poco le idee. Allora, Humboldt era probabilmente un gay, ma era prima di tutto un grande scienziato, che aveva come unico scopo quello di condividere il più possibile le sue conoscenze e le sue intuizioni, senza gelosie e senza rivalità, era un nobile prussiano che detestava l’assolutismo ed esaltava i sistemi democratici, era un bianco che si indignava di fronte al sistema schiavistico e considerava assurda ogni teoria razziale, era un uomo temprato fisicamente, psicologicamente ed eticamente da una inossidabile volontà di sapere. Queste sono le caratteristiche sulle quali si misura un “ essere umano” vero, uomo o donna che sia, e non le sue preferenze per la carne o le verdure o per il mare o la montagna. Chiaro? E lascia perdere per favore i buffoni televisivi, di ogni sesso e categoria.

Sotto il ripiano dedicato ad Humboldt c’è il settore della storia delle esplorazioni, nel quale campeggiano i cinque enormi tomi bianchi, elegantissimi, delle “Esplorazioni e Viaggi” di Giovabattista Ramusio. Devi sapere che quell’opera, compilata verso la fine del ‘500 raccogliendo tutti i resoconti delle spedizioni esplorative da Colombo in avanti, è per gli studiosi e gli appassionati dell’argomento una sorta di Bibbia, ed è rimasta a lungo per me un sogno proibito, dato il costo, soprattutto quando ne avevo realmente bisogno per i miei lavori di storia. Ne sono invece entrato in possesso solo recentemente, grazie ad un colpo fortunato (si fa per dire: anche ad un quarto del prezzo è già un bel investimento). Ho impiegato due giorni a decidere come collocare i volumi, per dare loro la giusta visibilità, e una volta soddisfatto della collocazione non li ho più aperti.

Ho notato con piacere che sei curiosa e ardimentosa, ed esplorare ti piace: tuttavia non mi spingo fino a sperare che avrai interesse anche per le esplorazioni altrui. Se invece così fosse, su questi scaffali trovi praticamente tutto, dai viaggi dei Fenici alla conquista dei poli, passando, per le Americhe, l’Asia, l’Africa e l’Oceania. Ti do un unico suggerimento, per evitare inutili elenchi di titoli: leggiti comunque, esploratrice o no, “Derzu Uzala” e dopo, ma solo dopo, vediti anche il film che ne è stato tratto. Me ne sarai grata.

Qualche dubbio ce l’ho anche su una possibile tua frequentazione dei ripiani più bassi, quelli dedicati alla letteratura alpinistica. Come si affrettano a puntualizzare gli esperti del settore, non esiste una letteratura dell’alpinismo: esistono resoconti di ascensioni, di successi e di fallimenti, sovente di tragedie. Ma io, come avrai ben capito, non ho molto rispetto per i “generi” letterari, classifico un libro in base al fatto che sia scritto bene o meno, che mi abbia spinto ad arrivare sino in fondo o no. Bene, esistono degli alpinisti che sanno scrivere e dei libri di alpinismo che ti affascinano letteralmente. È evidente che occorre essere almeno un po’ in sintonia con quello spirito particolare, e questo può accadere anche a chi, come me, ha avuto con la pratica alpinistica un rapporto sempre irrisolto e saltuario.

L’unico libro che ti segnalo in questo settore è fondamentale proprio per capire qualcosa di “quello spirito”. Si tratta di “Come le montagne conquistarono gli uomini”, di Robert McFarlane, recentissimo. Spiega come abbia potuto accadere che luoghi considerati sino a tre secoli fa inaccessibili, maledetti e assolutamente privi di interesse siano diventati poco alla volta l’oggetto del desiderio di un sacco di fanatici, disposti a rischiare la pelle e a patire i disagi più impensabili pur di cavalcare una vetta per pochi minuti. È uno dei famosi tre o quattro libri che avrei voluto scrivere io, e che sono contento abbia scritto un altro, perché l’ha fatto senz’altro meglio. Con il pregio ulteriore della giovanissima età dell’autore, una di quelle cose che impediscono ogni tanto di pensare che sia già in atto l’involuzione della specie umana. Se questo libro dovesse piacerti, credo che finiresti per divorare anche tutti gli altri.

Mi concedo ancora una segnalazione, ma questa non è per te: o meglio, spero magari che possa esserlo, ma la considero anzitutto doverosa per me, perché riguarda un uomo che mi ha colpito non tanto per i meriti alpinistici quanto per la statura etica. Si tratta di Ettore Castiglioni, uno dei più forti arrampicatori italiani tra le due guerre e un antifascista convinto – cosa abbastanza insolita nell’ambiente, in quel periodo. Qui trovi il suo diario, “I giorni delle Mesules”, ma la sua vicenda è magistralmente raccontata da Marco Ferrari ne “Il vuoto dietro le spalle”. Castiglioni è morto in montagna, come gran parte degli autori e dei protagonisti dei libri che vedi qui, ma non nel corso di un’ascensione, bensì durante un tentativo di fuga. Durante l’ultima guerra usava la propria esperienza di alpinista per far espatriare in Svizzera attraverso le montagne resistenti, perseguitati ed ebrei. Arrestato per l’ennesima volta dagli svizzeri e destinato ad un campo di concentramento, fuggì di notte, durante una tempesta di neve, senza abiti e senza scarpe, infagottato in una coperta e coi piedi fasciati da stracci. Lo hanno ritrovato tre mesi dopo, a primavera, rannicchiato sotto una roccia a tremila metri.

Approdiamo infine alla sezione del viaggio puro e semplice (culturale, turistico, di migrazione, ecc..), che occupa entrambi gli scaffali alla sinistra di Humboldt. Visto che si è parlato in precedenza del rapporto tra viaggio e “diversità” ti cito almeno altri due casi, inglesi questa volta. Il primo è quello di Chatwin. Lo abbiamo già incontrato tra i narratori, ma Chatwin è famoso soprattutto per i suoi libri di viaggio, “In Patagonia”, “Le vie dei canti”, “Che ci faccio qui?” e “Anatomia dell’irrequietezza”. Anzi, è lo scrittore di viaggio per eccellenza del secondo e forse di tutto il Novecento, quello che ha dato il via alla moda di cui ti ho già parlato ed è divenuto oggetto di un vero e proprio culto, favorito anche dalla morte precoce. Come tutti i culti, anche quello di Chatwin ha avuto una forte ricaduta consumistica. La Patagonia è diventata una meta turistica quasi di massa, almeno a livello di viaggiatori “culturalmente motivati”; e l’azienda che produce le “Moleskine”, gli imprescindibili taccuini dalla copertina nera sui quali il nostro annotava le impressioni di viaggio, sta diventando un colosso, dopo che a metà degli anni sessanta aveva addirittura chiuso i battenti. Paradossalmente come viaggiatore Chatwin non doveva essere granché, a giudicare almeno dalle testimonianze dei suoi occasionali compagni: ma sa vendere bene la sua merce, costruisce il suo racconto con ingredienti raffinati ma adatti anche al palato di un pubblico più vasto. Insomma, un po’ di new age, un pizzico di snobismo, un understatement da inglese alla Kipling: oltre, naturalmente, ad una classe indubbia. Leggilo, appena potrai, e ti piacerà: ma non pensare di capire qualcosa dei luoghi di cui parla. In effetti parla solo di sé.

Se invece cerchi uno sguardo da vero viaggiatore, anzi, in questo caso da viaggiatrice, devi rivolgerti a “Il più personale dei piaceri” di Vita Sackville-West. La Sackville-West è uno stravagante personaggio della cultura inglese del primo Novecento, romanziera in proprio ma soprattutto amica di Virginia Woolf e di tutti quelli che contavano nella cerchia artistico-letteraria. Ha viaggiato in Iran e in Afganistan a più riprese, senza la pretesa di scoprire e di rivelare alcunché di nuovo. Racconta semplicemente quello che vede, tenendosi fuori il più possibile dal quadro, e questo è già un grande merito, perché la maggior parte degli scrittori di viaggio, Chatwin in testa, tendono a muoversi in primo piano.

Mi azzardo a pensare che esista un particolare sguardo al femminile, perché la stessa attitudine l’ho trovata nelle altre viaggiatrici, da Margaret Fountaine a Freya Stark, dalla Swarzenbach ad Ella Maillart. A contatto con culture che appaiono ancor più “maschiliste” di quella occidentale la viaggiatrice sente più forte la sua estraneità, sa di essere un’intrusa, quindi si tiene in disparte e guarda: il viaggiatore tende invece a voler partecipare ed interagire. Il che, mi accorgo, fa un po’ a pugni con le considerazioni sulla “diversità” dei viaggiatori: ma non vorremo star qui a complicarci troppo la vita.

Per quanto concerne il nostro scopo, ovvero darti un’idea di ciò che trovi qui, possiamo anzi semplificarla. Diciamo che Chatwin getta una specie di ponte tra due epoche, tra due tipologie di scrittori di viaggio. Da un lato è l’epigono di una tradizione di grandi esploratori, tipo Thesiger (“Sabbie arabe”), Dougty (“Arabia deserta”), Monod (“Il viaggiatore delle dune”) e Sven Hedin (“Il lago errante”), o di “viaggiatori raffinati”, come Robert Byron (“La via per l’Oxiana”); dall’altro interpreta quel cambiamento che la scrittura di viaggio ha subito nell’ultimo quarto del secolo scorso, per adeguarsi al nuovo modello di mondo globalizzato. A partire dagli anni settanta l’attitudine del viaggiatore è radicalmente mutata. Non è rimasto angolo della terra o recesso marino che non sia stato frugato, scandagliato e riversato in mille documentari. Il viaggio è diventato professione, funzionale allo scriverci su libri o reportage o a girare video, per accontentare un mercato sempre più affamato e sempre più onnivoro. Ed è diverso proprio ciò a cui si guarda. Prima veniva privilegiata la sopravvivenza dell’antico, del tradizionale, oggi è messa a fuoco soprattutto l’irruzione del nuovo. È sufficiente confrontare Chatwin con quello che è unanimemente considerato il suo successore, William Dalrymple, o con Colin Thubron, per accorgersene. Nei diari di questi ultimi dall’India, dal Medio Oriente, dalla Cina o dalla Siberia viene fuori soprattutto l’immagine minacciosa di ciò che incombe, e non quella rassicurante di ciò che sopravvive.

Non vorrei tuttavia farti pensare che i resoconti di viaggio siano una lettura barbosa e pesante. Non è assolutamente così. C’è un po’ di tutto, ci sono quelli che si prendono sin troppo sul serio, ma ci sono anche dei viaggiatori simpatici e scanzonati. Bill Bryson, ad esempio, ha raccontato un esilarante trekking lungo la via degli Appalachi, percorsa in compagnia di un tizio ancor più sprovveduto di lui, in “Una passeggiata nei boschi”. Ed ha poi proseguito girando per gli Stati Uniti (“America perduta”), per L’Europa (“Una città o l’altra”), per l’Australia (“In un paese bruciato dal sole”), e ancora per l’Inghilterra e per l’Africa, sempre con lo stesso spirito, quello che sa unire conoscenza a divertimento.

Mi fermo qui, perché sono centinaia i nomi e i titoli che vorrei raccomandarti, e sento che se non ci do un taglio ti terrò qui sino a sera. Mi congedo con lo stesso autore col quale abbiamo chiuso la rassegna di letteratura: Edward Abbey. Abbey non è un viaggiatore, non almeno nel senso di tutti quelli dei quali ti ho parlato sino ad ora. Nel suo “Deserto solitario” non si raccontano viaggi, ma esperienze: mesi trascorsi come ranger in un deserto talmente bello da essere stato vincolato a parco, discese in canoa lungo affluenti del Colorado, nel Gran Canyon, in luoghi destinati a sparire sotto gli sbarramenti idrici, storie di cavalli, di indiani e di cercatori d’uranio. Al di là del suo fascino, e del valore letterario, il libro è un po’ la dimostrazione di quanto ti dicevo poco fa, a proposito dei diversi modi di viaggiare. Abbey viaggia “dentro” quel piccolo pezzo di mondo del quale è innamorato. Senti che per lui ogni pietra è importante, ogni ruscello che sfocia nel Canyon merita di essere risalito, perché a dispetto delle apparenze offre qualcosa di nuovo, di diverso. O semplicemente perché c’è.

E adesso chiudiamo davvero, almeno per oggi. Come dici? Che a te non piace viaggiare, che stai benissimo qui, che non vuoi andartene più?

È quello che temevo.

Seconda giornata

 SAGGISTICA 1) La storia

Coraggio, Elisa. Hai dormito come un ghiro e stamattina ti sei scatenata in giardino. Sei pronta per la seconda tappa. Ora torniamo nello studio, volgendo però le spalle alla letteratura e al caminetto. In questo modo inquadreremo tutto il settore della saggistica, che occupa per intero con quattro scaffali la parete B e si allarga con altri tre sulle due ali. Volendo puoi metterti comoda sulla dondolo, preferibilmente senza dimenarti troppo, ma soprattutto senza quella faccia da funerale. Non staremo qui una settimana.

Vediamo intanto come muoverci. I libri che hai di fronte sono collocati secondo un ordine, che tuttavia esiste più nella mia testa che sugli scaffali: per evidenziarlo non posso seguire la semplice continuità spaziale, come ho fatto con la letteratura. Proverò invece a rievocare i passaggi che hanno dato corpo nel tempo ai diversi settori, e in questo modo alla fine dovrebbe saltare fuori un percorso logico, o quanto meno una direzione. Ci tufferemo pertanto ancora una volta all’indietro, ripescando nella memoria.

La memoria ci ha raccontato ieri di un ragazzino che nei libri cercava una via di fuga, la possibilità di vivere un’esistenza parallela. Questo l’hai capito anche tu. Ma non chiedermene il motivo, perché non lo so. Penso di aver trascorso un’infanzia normale: abitavo in un paesino tranquillo, la famiglia era unita e numerosa, non ero vessato da fratelli maggiori e ho goduto per un po’ di qualche privilegio. I problemi sono semmai venuti dopo, nell’adolescenza, quando già ero un lettore accanito. Quindi l’ambiente c’entrava poco, la spiegazione è riconducibile più probabilmente a una patologia caratteriale. Diciamo che sono un sognatore nato ma, tanto per complicare un po’ le cose, anche un sognatore atipico.

Non ho mai proiettato infatti i miei sogni in mondi totalmente fantastici: viaggiavo con la testa nelle nuvole, ma i piedi li tenevo poggiati su “questo” mondo. Devo essere stato sin da bambino un bel rompipalle (a qualcuno dovevi pur somigliare), perché a dispetto della natura visionaria inclinavo decisamente allo scetticismo e allo spirito critico. Ero più affascinato dai ricordi di guerra o di caccia degli zii che non dalle favole della nonna, e facevo il palato a quei racconti, con la conseguenza che pretendevo poi “realismo” e una certa plausibilità anche dalle prime letture: amavo le storie con cavalieri, segrete di castelli, foreste notturne e battaglie, mentre tutto ciò che implicava fate e incantesimi e animali parlanti disturbava la mia immagine del mondo, perché introduceva delle presenze e delle pratiche improbabili. Qualche anno dopo, ad esempio, ero l’unico tra i miei coetanei a non entusiasmarsi per le prodezze televisive di Lassie, Campione e Rintintin, così come non mi piacevano i fumetti dei supereroi americani. Volevo situazioni verosimili ed eroi umani, capaci di risolvere tutto con armi e abilità accessibili anche a me.

Da allora non sono cambiato granché (confermi?), salvo il progressivo e naturale slittamento indotto dall’età, che mi ha reso sempre meno sognatore e sempre più critico. Il fatto poi che oggi mi diverta più di te con i cartoons del Vilcoyote e che mi sia appassionato dopo i trent’anni alla saga degli hobbit non mi sembra in contraddizione. In questi casi si tratta infatti di mondi fondati su una struttura logica diversa ma perfettamente conseguente, come le geometrie non euclidee. Voglio dire che mentre gli incantesimi delle tue fiabe preferite stravolgono la realtà naturale, e poi è sempre necessario scioglierli per ripristinarla, Bip Bip da questa realtà prescinde totalmente, non viola nessuna legge della natura, semplicemente se ne fa un baffo. Quanto a “Il signore degli anelli”, suppone un universo così perfettamente congegnato e definito in ogni particolare, con spazi, storie e tempi perfettamente autonomi, che non puoi fare altro che svestirti dei tuoi abiti, dei tuoi ruoli, della tua storia personale, per calarti completamente in quell’altra dimensione: ma senza per questo rinunciare ad un ordine e a una logica. Soltanto, si tratta di un ordine e di una logica diversi. Si, è un po’ complicato, ma non è di questo che adesso dobbiamo occuparci.

Ciò che mi preme invece farti capire è che non sempre l’atteggiamento di cui ti parlavo è positivo. Lo spirito critico unito alla disposizione a sognare può dar luogo ad una miscela micidiale: non rinunci a sognare, ma non consenti mai ai tuoi sogni di decollare. E c’è di peggio: infatti chi si immerge totalmente nel fantastico, se non è un idiota (ed è pur vero che ce ne sono tanti), rimane in genere cosciente di viaggiare in un’altra dimensione, e dà per scontato che il mondo reale sia diverso e destinato a rimanere tale; mentre chi sogna sforzandosi di tenere gli occhi aperti rischia di confondere un po’ le cose, e talvolta ha la pretesa di far coincidere la realtà con la sua fantasia. Esatto, come faccio io: ma anche tu, credimi, stai venendo su bene.

In un primo momento comunque la mia pretesa era un’altra: volevo conoscere il più possibile delle epoche e dei mondi nei quali i racconti e le letture mi trasportavano. Negli ultimi anni delle elementari ho cominciato a ricevere qualche risposta dai “sussidiari” scolastici, e poi alle medie dai manuali di storia: ma non mi bastavano. Trascuravano particolari che per me erano invece determinanti (com’era morto Giovanni delle Bande Nere? che fucili avevano i garibaldini?) e per i quali dovevo rivolgermi ad altre fonti, alle raccolte di figurine, ai fumetti de “Il Vittorioso” o alle rievocazioni della “Domenica del Corriere”. Ho continuato così, sempre giocando d’anticipo sulla scuola e sempre facendo viaggiare i miei interessi storici a rimorchio delle suggestioni letterarie. Per storia intendevo in pratica ciò che intendi tu quando mi chiedi di raccontartene una: la pura e semplice narrazione degli avvenimenti, il racconto di quel che era successo, piuttosto che la spiegazione del perché. Volevo fatti, date e nomi, e nulla mi sembrava ad esempio più concreto di una battaglia o di una guerra. Credo sia una curiosità naturale per un quasi-adolescente: traduceva in una forma più “adulta” lo spirito dei giochi collettivi che inscenavamo nei boschi attorno al paese, e più ancora di quelli individuali, nei quali mi divertivo a ricostruire le manovre e gli scontri con stati maggiori di soldatini (ne avevo pochi) e truppe di grette a buon mercato. Privilegiavo quindi la storia militare, che si tirava poi appresso quella politica: in definitiva il tipo di impostazione che ha caratterizzato il racconto storico da Erodoto sino alla metà del ‘900.

Il risultato lo vedi nei due scaffali di centro. Storie generali, storie di particolari periodi, storie di nazioni, di popoli, di dinastie, di ordini monastici e cavallereschi, di repubbliche e dittature, di rivoluzioni e restaurazioni, e poi storie di conflitti, dalle guerre del Peloponneso a quella del Vietnam; e anche un sacco di atlanti storici. Occupano quindici ripiani, ed hanno appendici negli scaffali laterali con le biografie dei maggiori protagonisti, da Pericle a Hitler. Se il gusto per la storia è un carattere ereditario avrai di che sbizzarrirti. Sono acquisti distribuiti nell’arco di quarant’anni; alcune storie nazionali specifiche le ho aggiunte solo pochi mesi fa. Il nucleo, il grosso, è stato però assemblato nel primissimo periodo, e il criterio è rimasto sempre lo stesso: riempire tutti i vuoti possibili.

Se dovessi suggerirti un percorso qui in mezzo mi troverei in difficoltà. Trattandosi di storia l’ordine delle letture parrebbe imporsi automaticamente, ma so che non è quasi mai così. Si procede per simpatie, per interessi del momento, che possono essere dettati da un romanzo, da un film, qualche volta persino dalla scuola. Agli inizi, poi, si attinge molto più semplicemente da ciò che si ha a disposizione.

Il mio rito di passaggio, ad esempio, il salto di qualità che mi ha trasformato da simpatizzante in adepto delle discipline storiche, è avvenuto tramite la “Storia Universale” di Cesare Cantù. È una delle perle di questa biblioteca, dodici volumi rilegati con dorso in pelle e titoli in oro, editi a Napoli nel 1859, che si trovano nella vetrinetta laterale, quella dei libri d’antiquariato. L’ho avuta in regalo attorno ai tredici anni da uno dei tanti viceparroci che hanno attraversato la mia fanciullezza e la mia adolescenza, come compenso per l’attività di proiezionista che svolgevo nel cinema parrocchiale. Non ho idea da dove arrivasse, forse dalla biblioteca della canonica, o da quella del santuario della Rocchetta, e penso comunque che nel suo spirito di redistribuzione evangelica don Nanni sapesse bene quel che stava facendo, perché mai dono è stato più gradito ed azzeccato.

Nel mio percorso Cantù ha rappresentato per la storia l’equivalente di De Sanctis per la letteratura. Ho lasciato gli occhi su quelle migliaia di pagine: passavano in rassegna tutte le civiltà del presente e del passato, quelle almeno conosciute all’epoca, e anche se infarcite di lacune e forzature davano l’idea di un’erudizione mostruosa. Il linguaggio, poi, era talmente arcaico da evocare tutta la profondità dei tempi. In quell’oceano di fatti avevo finalmente la sensazione di poter pescare nel profondo, di aggirare le reticenze dei miei manuali scolastici.

Da questa lettura ho sicuramente contratto il gusto per i recessi, per quelle vicende e quei personaggi che la storiografia più rigorosa nemmeno cita. Cantù in queste cose ci sguazzava. Trattava con eguale disinvoltura dinastie egizie e ribelli caucasici, procedendo inarrestabile dall’antichità biblica ai giorni suoi, anche se oggi sospetto che in qualche caso inventasse di sana pianta. Immagino avesse letteralmente conquistato i suoi lettori tardoromantici: dava loro quello che volevano, esotismo, storie bizzarre, oscuri protagonisti, che era poi esattamente ciò che cercavo anch’io.

Quel gusto mi è rimasto, e mi ha probabilmente impedito di diventare uno storico “serio”. Ancora oggi mi elettrizzano vicende semisconosciute come quella di padre Boetti, un frate domenicano che arrivò verso la fine del ‘700, nelle vesti del profeta Al Mansur, a costituire un effimero impero nel Caucaso, fondando una nuova religione e trascinandosi dietro folle entusiaste: o quella dei Kazari, la tredicesima tribù di Israele, che nemmeno si sa bene se sia esistita o meno. Allo stesso modo ho sempre preferito i comprimari ai grandi protagonisti: parteggiavo per Aiace Telamonio invece che per Achille ai tempi della lettura scolastica dell’Iliade, molto prima di conoscere i Sepolcri, e non ho mai letto una biografia di Napoleone, mentre so tutto su Gordon Pascià.

Non devi dunque pensare che la curiosità per i fatti d’arme fosse dettata da una natura prepotente e rissosa, o da un latente spirito di rivalsa: non sarò un pacifista ad oltranza, non offro volentieri l’altra guancia, ma non sono nemmeno mai stato un fanatico delle uniformi e delle carneficine. Certi conflitti, come ad esempio la guerra dei Trent’anni, avevano cominciato a intrigarmi soltanto perché era difficile saperne qualcosa; su quella vicenda ho raccolto un numero di studi che sarebbe sufficiente per una ricerca professionale, semplicemente perché nel mio testo di storia del liceo era liquidata in quattro righe. A me trent’anni di guerra sembravano un’eternità, era il doppio del tempo che avevo vissuto prima di sentirne parlare, e mi chiedevo quali eventi terribili ed esaltanti potessero starci dentro.

L’interesse per la guerra dei Sette anni data invece dalla lettura de “L’ultimo dei Mohicani” e dalla visione di “Passaggio a Nord-Ovest”, il film con Spencer Tracy. Era naturale che ne rimanessi affascinato. In questi scaffali la trovi raccontata per dritto e per traverso, soprattutto la fase americana, ma se davvero volessi un giorno saperne di più ti consiglio di partire dagli inquadramenti storici che Hugo Pratt premette ai suoi fumetti e, naturalmente, dalle sue storie e dai suoi disegni. Per me è entrata nell’epos, come l’Iliade o la guerra dei Sette contro Tebe.

C’erano infine le guerre “servili”, dalla rivolta di Spartaco alla guerra tedesca dei contadini, tutte accomunate da un esito disastroso per i rivoltosi. Non era tanto la componente di rivendicazione sociale a motivarmi, anche se indubbiamente l’idea degli oppressi che si sollevano mi entusiasmava, quanto l’ammirazione per una sfida disperata, portata contro avversari che avevano tutti i vantaggi e le probabilità di vittoria. L’interpretazione politica è arrivata dopo, come avremo modo di vedere, ma non ha mai scalzato la priorità dei fattori umani, del coraggio, dell’altruismo e della lealtà verso i compagni.

A dispetto della tua natura bellicosa dubito che le guerre o le vicende diplomatiche ti interesseranno molto. Il gradimento degli studenti per la storia è decisamente in calo. Volendo avresti tuttavia l’opportunità di scoprire come si possono raccontare la guerra dei Cento anni, il primo conflitto mondiale o la diplomazia della Restaurazione rendendoli più appassionanti di un romanzo, senza per questo sacrificare nulla dell’esattezza. Quando avrai terminato di leggere tutto il ciclo di Harry Potter, e a questi ritmi ci vorranno anni, quindi sarai nell’età giusta, tenterò di farti immergere in “Uno specchio lontano” o ne “I cannoni d’agosto”, di Barbara Tuchman. Esatto, una donna, che sa raccontare l’orrore della guerra proprio perché la detesta.

Le civiltà extraeuropee

L’interesse per le civiltà extraeuropee è nato allo stesso modo, da una insoddisfazione scolastica. Fino a qualche anno fa l’attenzione dei manuali per questo argomento era praticamente pari a zero. Raccontavano qualcosa sull’India, sulla Cina o sull’Africa solo in funzione del loro rapporto con l’Occidente. Che queste aree avessero visto prosperare civiltà sotto molti aspetti più avanzate della nostra sembrava un dato di scarsa importanza.

Ogni nuova scoperta in questo senso, proveniente dalla letteratura, dal cinema o dai fumetti (ma anche dalla televisione, dai telefilm mai più rivisti di “Jim della Jungla” o dei “Lancieri del Bengala”) apriva quindi spazi sconosciuti, che esigevano immediate esplorazioni. Per intanto mi costruivo delle mappe mentali accurate e minuziose, che spesso diventavano mappe cartacee vere e proprie, come quelle che ancora oggi disegno con te, con tanto di rosa dei venti e di bordi sfrangiati: poi, appena possibile, andavo a verificarle nel confronto con altre letture e con i testi storici, fino a che col tempo, passando attraverso motivazioni diverse, questo interesse è diventato dominante. Sono stato un cacciatore di suggestioni esotiche, poi un terzomondista piuttosto tiepido, e oggi coltivo il rimpianto coscientemente reazionario per un mondo nel quale le culture erano ancora tante e ben distinte. Una buona metà dei testi che trovi nel settore Storia riguarda infatti i popoli extraeuropei e le vicende del colonialismo, e possiamo aggiungere tutti quelli del settore Antropologia ed Etnologia, e la maggioranza di quelli del settore Viaggi ed Esplorazioni.

Scegliere tra questi titoli è anche più difficile che per la storia generale; a me sembrano tutti egualmente importanti, dipende da quel che si sta cercando. Se un giorno ad esempio vorrai godere di una prospettiva inedita sulla storia dell’Africa devi cercarla in opere come “Regni africani” di Lucy Mair o “L’antico regno del Congo” di W.G. Randles. Scoprirai che fino a quando non sono arrivati gli occidentali a mandare tutto all’aria in quel continente prosperavano forme originali di organizzazione economica, istituzioni, consuetudini sociali, che non sempre erano il massimo, ma almeno funzionavano. I documentari che passano in tivù ti hanno invece abituata a considerare l’Africa come una specie di paradiso degli animali e di inferno degli umani, con zebre ed elefanti e bambini scheletrici mangiati dalle mosche, e l’unica idea che puoi esserti fatta è quella di popoli che hanno perso il treno della storia e si trascinano mendicando gli aiuti umanitari. Non c’è dubbio che oggi la situazione sia questa, ma lo è per ragioni ben precise, la più importante delle quali è che quelle popolazioni sono state tirate a forza dentro un modello di sviluppo che non apparteneva loro e non era compatibile né con il loro ambiente né con il loro modo di concepire la vita e il mondo.

So di entrare in argomenti troppo complessi per la tua età, ma non importa; avrai tempo a tornarci su e a capire un’altra volta. Io li butto lì, e spero che un giorno ne germoglierà qualcosa. Anzi, ti segnalo anche un paradosso che ci consentirà di fare qualche riflessione su come si racconta la storia. Il paradosso sta nel fatto che, pur essendo opera di studiosi europei, i testi che ti ho segnalato colgono l’aspetto di fondo del problema molto meglio di quelli degli storici africani (ad esempio Hosea Jaffe per l’Africa meridionale ed Endre Sik per quella centrale). Vedo che la cosa non ti turba particolarmente: se le cose stanno in questo modo, ti stai dicendo, basta leggere i primi anziché i secondi. Invece non è così semplice. Secondo la logica, per sapere come è andata veramente in quel continente non dovrebbe esserci nulla di meglio che ricorrere ad uno sguardo “africano”, assumere cioè il punto di vista di chi è stato vittima degli eventi. Sono rimasto a lungo convinto della necessità di questo tipo di approccio, e la presenza di tanti prodotti della giovane storiografia africana sta a dimostrarlo. Col tempo ho dovuto però cambiare idea: ho realizzato che spesso questo punto di vista finisce per essere ancor più distorcente di quello occidentale.

Mi spiego: gli storici africani tendono a dimostrare che uno sviluppo “moderno” dell’Africa era già in atto ed è stato bloccato dal colonialismo, vale a dire che l’Africa era in corsa verso il modello sociale ed economico che poi è risultato vincente, ed è stata proditoriamente fermata. Questo atteggiamento nasce, a mio giudizio, non da un sentimento di fierezza, ma una sorta di complesso di inferiorità che gli intellettuali africani formatisi nelle scuole europee non potevano non maturare, ed è viziato alla base dalla volontà di cercare il riscatto nel confronto potenziale con l’Occidente, piuttosto che nel recupero di valori e percorsi autonomi.

Riflessione: non sempre il giusto risentimento degli oppressi e degli sconfitti è garanzia di una valutazione obiettiva, sul piano storico. Anzi, a dire il vero non lo è quasi mai. Quindi, un conto è comprendere le ragioni di una particolare interpretazione, altra cosa è assumere quest’ultima a verità legittimandola emotivamente.

Questi libri ti aiuteranno a capirlo, se vorrai: stanno nello scaffale centrale, in alto, assieme a testi classici come “Madre nera” di Davidson, sul commercio degli schiavi, o alla “Storia delle civiltà africane” di Frobenius, e alle opere della giovane storiografia africana.

Sotto c’è invece un intero ripiano consacrato all’Asia. Se ti avvicini e scorri i titoli ti renderai conto che la parte del leone la fanno l’India e la Cina, soprattutto la seconda. La cosa è giustificata dal peso demografico, oltre che culturale, di questi due paesi, ma torna anche il discorso di quanto valgano le simpatie, magari assolutamente irrazionali, nel determinare gli interessi. La storia giapponese è ad esempio scarsamente rappresentata, perché quella cultura non mi ha mai attratto in modo particolare, se non per la pittura di Hiroshige e Hokusai e per il culto religioso delle montagne. Quando ho provato a leggere Mishima l’ho sentito lontanissimo, non reggo il teatro Kabuki e quello No e arrivo all’intolleranza violenta nei confronti dei cartoni animati e dei manga. Provo in generale la sensazione di un formalismo vuoto, ma talmente radicato da essere divenuto sostanza. Per capirci, ho l’impressione che per un giapponese non sia importante il perché fare una cosa, quanto piuttosto farla bene. Questo non c’entra nulla con la storia, ma vale probabilmente a spiegare la mia scarsa disponibilità di testi sulla storia giapponese.

Ho problemi di sintonia anche nei confronti della mentalità cinese, ma il rapporto è diverso; l’ interesse è stimolato in questo caso dall’incredibile sequela di movimenti di rivolta che caratterizzano la storia della Cina, o dal contrasto tra il livello delle conoscenze e delle abilità scientifiche e tecnologiche raggiunto e la scarsa propensione alle innovazioni. Probabilmente però quello che soprattutto mi intriga è l’immensità e varietà territoriale, l’idea di un paese nel quale puoi trovare la cima più alta e la depressione più profonda della terra, e il fatto che pur essendo abitata da un miliardo e mezzo di persone, un quarto dell’umanità, risulta ancora in qualche modo una terra sconosciuta, una macchia bianca nel nostro atlante.

Non è dunque un caso se trovi qui tutta una serie di libri sulle società segrete e sulle rivolte (“Le società segrete in Cina”, “La rivolta dei Tai-Ping”, “La rivolta dei Boxer”, “La tragedia della rivoluzione cinese 1925-27”, ecc), e accanto ad essi quelli di Needham sulla scienza e sulla medicina cinese. Anche su queste curiosità hanno indubbiamente influito la letteratura e i film: la lettura adolescenziale dello straordinario “Tribolazioni di un cinese in Cina”, di Verne, e più tardi quella de “La condizione umana” e de “I conquistatori” di Malraux, nonché la visione, sempre nella prima adolescenza, di “Cinquantacinque giorni a Pechino”.

Non troverai invece studi specifici sulle misteriose sette dell’India, sui Tughs, per intenderci: preferisco conservarli nella memoria come me li ha raccontati Salgari, con i templi sotterranei ai quali si accede dagli alberi cavi. In compenso ci sono diversi testi sulle tappe della conquista e sull’organizzazione del dominio inglese, e naturalmente sulla lunga e tormentata marcia verso l’indipendenza. Mi fa però uno strano effetto leggere resoconti attuali sulla situazione indiana. Non riconosco più quel mondo. L’ho conosciuto attraverso Salgari, che non l’aveva mai visto, e soprattutto attraverso Kipling, che lo vedeva con gli occhi del sahib, e non c’è verso: la mia India è rimasta quella.

A differenza che per l’Africa, non possiedo studi di autori asiatici sulla storia del loro continente (tranne un classico, forse un po’ datato, di Kavalam Panikkar sulla “Storia della dominazione europea in Asia”). È senz’altro una lacuna mia, ma ho l’impressione che sia anche la situazione a presentarsi diversa. Nel caso dell’Africa infatti abbiamo un paio di generazioni di studiosi che si sono formati nelle università europee, inglesi e francesi soprattutto, ed hanno adottato un modello occidentale di interpretazione storica. La stessa cosa non è avvenuta per gli asiatici, che disponendo di scuole proprie e di una originale tradizione di scrittura della storia hanno conservato almeno in parte i loro modelli e criteri particolari. Quindi è probabile ci siano un sacco di storici asiatici, ma difficilmente vengono tradotti e diffusi in occidente, perché la loro impostazione, i loro metodi, il concetto stesso che hanno di storia non sempre sono compatibili con i nostri schemi. In altre parole, la storia che io ho studiato, e che tu studierai, è molto diversa da quella che conoscono o conosceranno i nostri rispettivi coetanei cinesi o giapponesi.

Il che ci conduce ad una ulteriore riflessione: quando si parla di storia occorre tenere presente che si tratta in realtà di una categoria eminentemente occidentale. E ancora: il concetto di storia, nell’accezione che comunemente oggi ne diamo, è entrato solo di recente anche nella cultura dell’occidente. Parlare di storia significa quindi parlare di una particolare concezione del tempo e degli eventi che lo abitano, che non è affatto uguale per tutti i popoli e per tutte le civiltà, e varia nelle diverse epoche.

Sono riflessioni, beninteso, che nascono da una consuetudine con l’argomento poco più che dilettantesca, e quindi valgono come un discorso da bar. Ma te le ho comunicate, anche se so che ti è ancora impossibile seguirmi, per farti capire che la lettura storica non va affrontata solo con buona volontà e curiosità, non è così asettica come potrebbe sembrare: necessita di strumenti appropriati e non facili da acquisire, di capacità di discernimento, di interpretazione e di collocazione. Quando si legge un testo storico occorre aver sempre la consapevolezza che quello che leggiamo non è la storia, ma il racconto della storia, fatto da uomini che sono motivati dalle ragioni e dalle finalità più diverse: e ancora, che quel racconto non è mai definitivo, ma costantemente aperto a nuove interpretazioni, e che nuove significa qualche volta più veritiere, ma altre volte no. Insomma, ciò che leggiamo va filtrato con una giusta dose di buon senso, di umiltà e di conoscenza. E bada che è meno ovvio di quanto sembri: io ho impiegato un sacco di tempo a capirlo davvero, a difendermi dalla riverenza e dalla suggestione di autorità che un testo storico induce, e ti garantisco che le sorprese ancora oggi non mi mancano.

Il problema di una incompatibilità delle letture non esiste in compenso per la storia americana. In questo caso abbiamo infatti solo le versioni dei vincitori, che magari negli ultimi tempi hanno recuperato anche le voci degli sconfitti, ma integrandole in un modello interpretativo collaudato. Lo spazio riservato in questi scaffali al continente americano è decisamente ampio. Ci sono soprattutto testi sulle civiltà precolombiane, sulle vicende della conquista spagnola e portoghese e sulla colonizzazione del Nord, perché la storia coloniale americana è un argomento attorno al quale ho lavorato parecchio. Rispetto a quanto è accaduto in Africa qui le vicende sono più conosciute, ma si tratta in genere di una conoscenza superficiale. È diffusa ad esempio l’idea di uno sterminio totale, di un continente desertificato dai conquistadores, il che, una volta espressa la dovuta esecrazione per costoro e tanta pietà per i vinti, in qualche modo autorizza considerare chiuso il capitolo delle popolazioni amerindiane. La realtà è ben diversa, e se vorrai capire perché l’America latina sia così instabile dovrai tenere presente che ha continuato ad esistere uno strato di popolazione, quello più consistente, assoggettata, sfruttata e tenuta fuori dalla storia da quell’altro, quello che la storia la faceva e la scriveva.

La storia sociale

Siamo passati dunque dalla storia delle guerre a quella delle conquiste, e poi a quella dei popoli conquistati. A questo punto abbiamo in mano il bandolo dal quale prendere le mosse: è chiaro che la storia è all’origine ed è rimasta al centro di tutti i miei interessi, ma anche che nel corso degli anni questi interessi hanno assunto direzioni e significati decisamente diversi.

Per forza, mi dirai: per quanto uno ami giocare coi soldatini e inscenare battaglie e parate, se proprio non è un idiota prima o poi dovrebbe cominciare a rendersi conto di quale sia la realtà della guerra. Dovrebbe capire che i buoni non schivano le pallottole e non vengono colpiti solo di striscio, e che dietro ad ogni eroe che torna vittorioso ci sono un sacco di poveri cristi che non tornano affatto, e che avrebbero anche fatto a meno di partire. In effetti è stato così. Ad un certo punto, essendo portato per natura e per educazione letteraria alla simpatia per gli sconfitti, e aiutato magari dalla visione di “Orizzonti di gloria” o dalla lettura di “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, l’ho capito anch’io. Mentre andavo accumulando testi su testi di racconto dei “fatti” ho cominciato a percepire il quadro storico come una tabella dei massacri, a passarlo ai raggi X e a scoprire le infinite metastasi dell’ingiustizia e della sopraffazione.

Stai sorridendo. Vedo che il mio accaloramento nel parlare di queste cose ti diverte. È vero, non è molto “scientifico”. Ma è difficile mantenere un atteggiamento neutrale sapendo quali e quanti orrori sono descritti in quei libri. Il distacco interpretativo è un conto, ma la non partecipazione mi sembrerebbe addirittura inumana. Forse è davvero ora di staccarci per un momento da questi scaffali, e di abbozzare un primissimo bilancio.

È piuttosto difficile da spiegare. Hai presente quel gioco che facevamo qualche anno fa, quando costruivamo un’immagine riempiendo uno spazio regolare, un quadrato, un rettangolo o un cerchio, con tante lineette verticali, tutte uguali e tutte perfettamente allineate in righe successive? Se l’allineamento era totale si otteneva un’immagine statica, mentre era sufficiente spostare una lineetta, al centro o di lato, mettendola in obliquo, perché l’insieme paresse muoversi, ruotare su se stesso, e risultasse comunque completamente squilibrato.

L’impressione è quella. La storia dell’umanità appare come un repertorio di massacri, carneficine, ingiustizie, che vengono ricordati perché si notano, costituiscono l’anomalia, e sono perpetrati da una parte infinitesimale degli uomini, ma ricadono su tutti, creando una squilibrio generale. La stragrande maggioranza degli umani vivrebbe in pace, ma è trascinata dagli egoismi, dalle ambizioni, dalla cattiveria vera e propria o dalla semplice stupidità di una minoranza in un inferno di sopraffazione e di orrori. Come in un castello di carte, è sufficiente che se ne muova una per fare crollare tutto.

Questo a mio giudizio non ha nulla a che vedere con le leggi della sopravvivenza, con le leggi naturali. E nemmeno può essere letto, come fa qualcuno, come il motore primario dello sviluppo della civiltà (quello per capirci che mette in moto tutto il quadro, che altrimenti rimarrebbe statico). L’umanità avrebbe già di per sé un sacco di problemi da affrontare e da risolvere nel suo rapporto con la natura, non avrebbe bisogno dei conflitti per essere stimolata a “migliorarsi”. Il conflitto, nella misura in cui va oltre quella che può essere considerata lotta per la sopravvivenza (che esiste in tutto il regno animale e vegetale), è un “disvalore aggiunto”, uno specifico umano che fa pensare talvolta che l’uomo sia davvero solo un tragico errore della selezione naturale. Su queste cose torneremo. Per ora mettiamo fine della parentesi e torniamo alla lettura ai raggi X.

La “radiografia” della storia è quel procedimento d’indagine che ce ne mostra gli aspetti meno superficiali e appariscenti. Quando è prevalentemente descrittivo, e si occupa ad esempio degli aspetti della produzione, dell’alimentazione e della cultura materiale, si chiama “storia della quotidianità”, mentre quando interpreta le persistenze e le trasformazioni prende il nome di “storia sociale”. Tutti i testi di autori francesi che trovi nei ripiani della storia medioevale e moderna, Bloch, Duby, Le Goff e compagnia, applicano questa modalità di lettura. L’hanno inventata loro. Gli inglesi e gli americani sono invece più portati ai grandi affreschi e agli eventi epocali, crociate e invasioni, i tedeschi alle biografie e agli studi sulle classi dominanti.

Poco alla volta, leggendo questi testi e adottando questo “sguardo”, ho spostato il mio interesse dai cavalieri ai contadini e agli artigiani, e poi agli operai; a quelle insomma che vengono definite classi subalterne, che lavorano per gli altri dietro le quinte della storia, che subiscono sempre, siano dalla parte dei perdenti o dei vincitori, e non hanno nemmeno il riscatto della memoria. Ho letto libri sulla schiavitù nel mondo antico, sui servi della gleba nel medioevo e sui proletari nell’età industriale, trovando conferma che tutti, in un modo o nell’altro, avevano cercato di scrivere una propria storia, di ribellarsi alle diseguaglianze e all’ingiustizia sociale. Era chiaramente questa parte, quella che rompeva la quotidianità dello sfruttamento, ad interessarmi.

Queste letture sono arrivate con l’inizio della frequentazione universitaria, quindi ad un certo livello di maturazione, ma si depositavano su un sostrato confuso, nel quale gli eroi di Plutarco convivevano con gli avventurieri di Salgari, gli orfanelli di Dickens con i giustizieri del West. Per molti aspetti non ero che un adolescente un po’ in ritardo, che si indignava perché nella storia reale i torti quasi mai vengono raddrizzati: e ognuno di questi torti lo vivevo come fosse stato fatto a me. Non credo le cose stiano ancora così – non mi riferisco all’ingiustizia, quella è sempre tale – che cioè gli adolescenti di oggi la mettano giù allo stesso modo: mi sembrano invece piuttosto rassegnati a convivere con le brutture del mondo, e soprattutto molto annoiati. Io almeno non mi annoiavo: avevo il mio daffare ad aggiornare l’elenco dei ribelli e andavo scoprendo gli utopisti. Era una storia iniziata con lo zio Tom, se ricordi, ed era poi passata attraverso Sandokan e London, per approdare infine a Spartaco e a Thomas Münzer. Ora però la passione per i ribelli stava diventando adulta: era arrivato il tempo dei rivoluzionari.

Come gli altri della mia generazione (loro però sembrava avessero già letto tutti il Capitale) a vent’anni avevo idee molto approssimative sulla dinamica dello scontro di classe e dello sfruttamento. In realtà non mi ponevo nemmeno seriamente la domanda (come ovviare all’ingiustizia?), convinto com’ero di conoscere già la risposta. Non c’erano santi: il nemico era il sistema capitalistico, il mezzo la rivoluzione, il fine una società egualitaria, o quantomeno più equa.

Per trarre queste conclusioni non avevo avuto bisogno di leggere né il Capitale né altro, mi bastava vedere in che stato tornava mio padre da una giornata di lavoro e sapere quanto gli costava permettermi di studiare; ma anche confrontare la mia situazione con quella dei miei compagni del Liceo, che invidiavo e disprezzavo ad un tempo. La coscienza di classe nasce in questo modo, si alimenta dell’esclusione più che del senso di appartenenza. Il resto, i testi che ti spiegano che è stato così sempre, ma da domani non lo sarà più, possono solo offrirti conforto e darti delle conferme. Quando scopri che non sei il solo a sentirti così pensi di poter unire la tua rabbia a quella degli altri e tradurla in azione. Almeno fino a quando non ti accorgi che tutti quelli che hanno teorizzato queste cose non provenivano dalla tua classe sociale, ma da quella dei tuoi compagni di liceo.

Comunque, questo spiega l’allargamento di interesse verso la storia sociale, e ci porta un altro po’ avanti col nostro filo. Ci sono, a lato degli scaffali riservati alla storia, almeno quattro ripiani interamente dedicati alla letteratura politica “rivoluzionaria”, da Marx a Kropotkin, da Gramsci ai Situazionisti: una parte di questa letteratura la trovi là in alto, confinata in una posizione di margine, mentre un’altra è invece qui in basso, ben visibile. Il perché di questa consistente presenza già lo sai, quello delle differenti collocazioni vedo ora di spiegartelo.

Per farlo devo aprire un’ennesima parentesi: ma ormai ti è chiaro che la biblioteca rappresenta solo un pretesto per raccontare altro. La mia maturazione politica ha coinciso con l’esplodere di un periodo piuttosto caotico, quegli anni della contestazione che sono poi passati direttamente nella leggenda, volutamente coltivata dai protagonisti. In sostanza la mia generazione, quella nata nell’immediato dopoguerra, ha avuto la percezione che tutto ciò per cui sembravano lottare i suoi padri, una sicurezza economica e un po’ di benessere, casa, macchina, lavatrice, non fosse sufficiente a giustificare l’esistenza, e soprattutto non fosse compatibile con il persistere di differenze sociali ed economiche che anziché ridursi andavano aumentando.

La contestazione dei valori della generazione precedente non era in sé una novità; ad ogni ricambio generazionale i figli ripudiano i padri, ed io e te stiamo già adesso costantemente a litigare su come ti comporti e come ti dovresti comportare. La novità era invece nel carattere “globale”, nel fatto cioè che fossero coinvolte nello stesso tipo di rifiuto tutte le classi sociali, i figli dei proletari accanto a quelli dei borghesi o dei padroni – e già questo avrebbe dovuto suscitare qualche diffidenza, sia sulla reale coesione dello schieramento contestatore che sulla reale consistenza degli obiettivi. Questa apparente unità di intenti era resa possibile dal fatto che per la prima volta in teoria tutti quanti potevano accedere agli stessi livelli di istruzione, e sembravano avere garantita almeno un’accettabile sopravvivenza.

Ora non sto qui a farti la storia di quegli anni, ne esistono già troppe, e se ti interessa puoi leggertela nei due libri di Ginsborg (“Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi” e “L’Italia del tempo presente”) o in altri testi sull’Italia contemporanea e sul Sessantotto che trovi lì in basso: ti basti sapere come li ho vissuti io, in bilico continuo tra la voglia di partecipare a manifestazioni, occupazioni, assemblee e tutto il folklore dell’epoca, e una sensazione di marcata estraneità nei confronti degli slogan, delle parole d’ordine, delle citazioni di Lenin e dei libretti rossi che vedevo sventolare. Ce la mettevo tutta per credere che con la rivoluzione mondiale e l’avvento del socialismo le cose sarebbero andate meglio, ma quando mi guardavo attorno e consideravo che il socialismo avrei dovuto farlo con “quelli”, beh, ti confesso che mi cadevano le braccia. Può sembrare presunzione, ma io preferisco considerarlo buon senso pratico: a dispetto della mia natura di sognatore credo di aver ereditato da tuo nonno almeno la capacità di valutare la credibilità e l’affidabilità della gente, con una certa tendenza al negativo.

Ecco allora come si spiegano le diverse collocazioni. Da un lato, anzi, lassù, ci sono i testi sacri, i libri canonici della dottrina rivoluzionaria: si va da Marx – tutto, da solo o in coppia con Engels, compreso naturalmente “Il Capitale”, nell’edizione più economica che mai sia apparsa, stampata in anastatica con doppia facciata: in pratica ad apertura di pagina ti trovi davanti quattro facciate, il che scoraggerebbe alla lettura anche il miglior intenzionato (e infatti…) – dall’opera omnia di Marx, dicevo, alle opere scelte di Lenin nell’edizione moscovita, quelle che vendevano sottocosto nei festival dell’Unità, ben rilegate ma tradotte in un italiano pittoresco, fino agli scritti di Trotzki e addirittura di Labriola, di Kautsky e di Lu Hsun. E poi i “Quaderni del Carcere” di Gramsci. Non ci sono invece, e soprattutto non ci sono mai stati, gli scritti di Stalin o quelli di Mao. Questi libri stanno a testimoniare che la volontà di credere c’era, così come una certa serietà nell’andare direttamente alle fonti, e lo dico senza vergognarmene e senza liquidare il tutto come ingenuità giovanile.

La sociologia

Che lo sforzo fosse serio lo confermano i volumi di Storia delle dottrine e dei movimenti politici che riempiono un intero spazio a fianco dei precedenti, ma più ancora quelli di Sociologia che stanno immediatamente sotto. Ci sono tutti i maestri di questa disciplina, appartenenti alle più diverse scuole di pensiero, da Durkheim a Weber, da Tonnies a Wright Mills e a Parson, nonché alcuni veri e propri capisaldi del mio personalissimo itinerario di coscienza socio-politica. Primo tra tutti, e direi anche insuperato, rimane “La teoria della classe agiata” di Thorstein Veblen, una lettura che ha profondamente inciso sulla mia formazione, offrendomi una spiegazione del perché si porti la cravatta e del come la cultura possa essere un consumo vistoso. Credo davvero che Veblen sia tra gli autori che mi hanno cambiato la vita: ha fatto nascere in me la passione per la sociologia, che in quanto disciplina di studio è rimasta poi confinata agli anni universitari, ma ha modellato il mio modo di percepire e di inquadrare ogni tipo di evento e di fenomeno, fornendomi degli schemi che applico automaticamente ancora oggi. E inoltre, non ho mai più portato la cravatta.

Devo dire che all’epoca chiedevo alla sociologia qualcosa di più degli schemi: chiedevo delle risposte, nella convinzione che i problemi dell’umanità fossero frutto semplicemente di una cattiva organizzazione sociale, e che sarebbe stato possibile risolverli individuando i modelli e i comportamenti sociali più giusti. Non ero il solo: gli anni sessanta-settanta hanno fatto registrare un boom degli studi sociologici e una polluzione delle facoltà universitarie di sociologia, dalle quali tra l’altro era partita la contestazione del Maggio francese e doveva uscire la maggior parte degli ideologi delle Brigate Rosse. L’equivoco mio, di confondere degli strumenti di studio per i fondamenti di una dottrina, era dunque comune un po’ a tutti.

Vedi quella serie di volumi, quasi tutti dell’Einaudi, che occupa un intero ripiano alle spalle della scrivania? Sono tutti autori collegati in qualche modo alla Scuola di Francoforte, o studi sulla scuola stessa. Si va da Adorno a Horkeimer, a Benjamin, a Marcuse, a Lowenthal, tutti nomi in auge fino ad una ventina di anni fa, che hanno prodotto analisi fondamentali della società contemporanea e della modernità in genere, ma hanno goduto di grande fama solo fino a quando sono stati travisati. Adorno, ad esempio, nella “Dialettica dell’illuminismo” critica a fondo i presupposti della società borghese, ma non certo in nome di un suo superamento rivoluzionario. Nel sessantotto prendeva ad ombrellate i contestatori che andavano a chiedergli lumi. Ciò che i francofortesi evidenziavano era il progressivo slittamento verso l’uniformazione delle idee, dei gusti, delle aspettative, dei comportamenti (“L’uomo a una dimensione”, di Marcuse), ciò che denunciavano erano i rischi di una democrazia nella quale l’omologazione si andava sostituendo al consenso, capitalistica o socialista che fosse. Forse dovrei rileggerli tutti con calma, invece di darli per scontati.

Utopisti ed eterodossi

Il fatto che le testimonianze di questo impegno ci guardino impolverate di lassù è comunque sintomatico: dalle aspettative di redenzione allargate a tutta l’umanità ho ben presto ripiegato su speranze di riscatto più modeste e più compatibili con la mia natura, quelle ristrette ai singoli individui.

Mi riferisco a questi ripiani più bassi, dove trovi la storia e la letteratura dell’anarchismo, inteso in senso molto lato, a comprendere tutti coloro che hanno pensato “contro” tenendosi al di fuori dell’ortodossia social-comunista. Qui ci sono quelli “storici”, da Goodwin a Bakunin, a Kropotkin soprattutto, su su fino a Malatesta, a Camillo Berneri e a Bookchin. Qui sotto invece stanno tutti gli altri irregolari del pensiero di sinistra, da Pisacane fino a Castoriadis e a Krippendorf. La simpatia per gli anarchici non implica che condividessi in pieno la loro analisi politica e il loro progetto (sempre che di un progetto si possa parlare). C’entra piuttosto, ancora e sempre, la simpatia per i perdenti, non fosse altro perché non avendo mai vinto non hanno mai potuto tradurre in “anarchismo reale” il loro sogno, e quindi farne un incubo: e c’entra soprattutto quel margine ampio concesso all’individualità al quale non ho mai saputo rinunciare. Solidale si, ma solitario, come dice Camus.

Della vicenda dell’anarchismo mi hanno in sostanza intrigato sempre più la personalità e le disavventure dei singoli che non gli esiti del pensiero (tranne nel caso di Kropotkin). Forse non ho sufficiente fiducia negli uomini per pensare che possano convivere senza una qualche autorità a tenerli buoni, anche se ritengo che debba comunque essere questo l’obiettivo di una educazione e di una crescita politica. Ma, ripeto, ad affascinarmi sono personalità come quella di Amilcare Cipriani, che esce dal carcere dopo otto anni di segregazione, inscena una manifestazione politica e torna in galera nella giornata stessa. Oppure episodi come quello del congresso di Vallombrosa, con i delegati che scappano da Firenze, dove sono braccati, provano a riunirsi a Scandicci, dove vengono immediatamente rintracciati, si spostano a Vallombrosa, dove la polizia fa irruzione nella locanda che li ospita, e tengono infine la loro assemblea, i pochi rimasti, nei boschi, a Novembre, per due giorni sotto un diluvio continuo. Lo capisci anche tu che non posso non sentirmi anarchico.

Nei quattro ripiani centrali, dal lato opposto, trovi infine le propaggini laterali di questo percorso, quelle che si sono sviluppate a destra e a sinistra. Uno è occupato per intero dai classici della letteratura utopistica, da Moro (Tommaso!) a Cyrano, a Etienne Cabet, a Butler (e ci sono anche le distopie, come “1984”, “Farheneit 451” e “Il mondo nuovo” di Huxley), e un altro da decine di saggi che trattano l’argomento per dritto e per traverso (almeno quattro “Storia dell’Utopia”, tre “L’Utopia”, e poi “I luoghi dell’utopia”, “Spirito dell’Utopia”, “Utopia e socialismo”, “Utopia e illuminismo”, “Utopia e Civilizzazione” e via di questo passo). Raccontano di un interesse quasi maniacale, protrattosi per tutta una vita.

Quella con i creatori di visioni utopiche era evidentemente un’affinità elettiva, per un ragazzo dalle caratteristiche di sensibilità (o suscettibilità?) sociale e, diciamolo, di immaturità qual ero io. Ho cominciato ad appassionarmi ai mondi utopici, alle società “possibili” sin da bambino. Credo ci fosse anche lo zampino di “Orizzonti perduti”, che avevo visto al cinema parrocchiale prima ancora dell’età scolare. Col tempo mi si è sviluppata un’antenna speciale, un sensore che si attivava immediatamente nei confronti di tutto ciò che avesse un vago sembiante di utopia, compresi i mondi arcadici di Virgilio o le repubbliche dei filosofi greci. Ho continuato a raccogliere materiale per quasi quarant’anni, coltivando il sogno di scrivere un giorno pagine definitive sull’argomento. Adesso vado avanti per inerzia, come penso accada prima o poi ad ogni collezionista. Ho partorito un paio di striminziti articoletti sul tema, e mi sembra di non aver altro da dire.

L’interesse nei confronti della letteratura utopistica ha assunto infatti poco alla volta un significato diverso: ho cominciato intanto a realizzare che di utopie, appunto, si trattava, quindi di ipotesi campate letteralmente per aria, e poi che forse quei mondi possibili non erano così auspicabili come inizialmente avevo creduto. Ho finito per leggere la letteratura utopistica come la spia di un certo sviluppo della modernità, quello che si risolve in massificazione e annullamento dell’individualità. Il che non significa che oggi non ci sia, e forse più che mai, bisogno di utopie. Soltanto, occorre riconsiderarne il significato: la meta degli utopisti “classici” era una società perfetta capace di rendere migliori gli uomini, la nostra dovrebbe essere quella di uomini migliori capaci di rendere più vivibile la società. E per ottenere questo risultato non si devono rincorrere modelli di società ideali, ma riscoprire e riproporre le figure e il pensiero di uomini esemplari.

Per esempio, quelle che vedi nel ripiano a fianco sono le opere e le biografie degli esponenti del pensiero liberal-democratico o liberal-sociale, da Benjamin Constant ai fratelli Rosselli e agli altri esponenti dell’antifascismo democratico, principalmente quelli di “Giustizia e Libertà”. Quanto ad esemplarità, non hanno nulla da invidiare alle figure più limpide dell’anarchismo, rispetto alle quali possono vantare senz’altro un maggiore realismo nell’analisi e nella progettualità politica. Non godono di una grossa popolarità nel dibattito (si fa per dire) politico odierno, né a destra né a sinistra. Vengono tirati in ballo raramente, e quelle poche volte a sproposito, oppure per prendere le distanze dal loro “integralismo” etico. In altre parole la loro onestà, intellettuale e personale, viene considerata obsoleta, pallosa, improponibile in un’età disinvolta e volgare come quella attuale.

Quanto a numero di testi ed evidenza dell’impatto in questo settore la fanno da padroni Alexis de Tocqueville e Piero Gobetti: accostamento singolare, ma che ha le sue ragioni. Tocqueville, al di là del suo pensiero, che mi ha affascinato per lucidità e concretezza, mi ha letteralmente conquistato attraverso una raccolta delle sue lettere, che già nel titolo aveva tutti i requisiti per diventare un breviario: ”L’amicizia e la democrazia”. Io non so se credo molto nella democrazia, devo crederci per forza perché è la migliore delle forme politiche possibili, ma non sono affatto entusiasta – come non lo era Tocqueville – di molte delle sue implicazioni, e ne temo le derive populiste e demagogiche.

Credo invece assolutamente nell’amicizia, forse perché ho avuto la fortuna di conoscerla, quella vera, e probabilmente anche la capacità di non caricarla di aspettative eccessive. Ho trovato in questo libro una sintonia totale, la meraviglia di scoprire un uomo che in mezzo ad incarichi altissimi di governo, a rivolgimenti politici fondamentali, allo sforzo di un’analisi lucidissima e insuperata delle trasformazioni in atto alla sua epoca nel vecchio e nel nuovo continente, ha saputo coltivare come valore fondamentale e irrinunciabile della sua esistenza quello dell’amicizia.

Nei confronti di Gobetti vale invece l’ammirazione per la genialità e la vitalità. Uno che a diciott’anni ha già fondato una rivista militante alla quale collaborano le teste più fini della cultura italiana, che a venticinque oltre a dirigere e in pratica a redigere da solo le uniche due riviste libere del tempo ha anche messo in piedi una casa editrice, e che nemmeno la brutalità riesce a far tacere, fino a quando non arriva all’assassinio, non può che meritarsi una nicchia speciale nel mio cuore e nella mia biblioteca.

Extravaganti, maschi e femmine

In quest’altro ripiano infine ci sono gli scritti di personaggi della cultura e della politica che definirei “extravaganti”, da Herzen a Orwell, a Camus, a Boll, a Isaiah Berlin, a George Steiner, ad Enzensberger (si, proprio quell’Enzensberger che già conosci, quello de “Il Mago dei numeri” e di “Ma dove sono finito?”): tutta gente accomunata dal coraggio delle proprie opinioni e dal rifiuto di conformarsi alle idee e alle ideologie dominanti. Dei saggi di Orwell, e della sua figura, ti ho già parlato, così come di Camus. Tutti gli altri qui ospitati meritano di essere conosciuti, sia per la statura etica che per il valore culturale, ma due in particolare te li raccomando.

Uno è Eric Muhsam, un anarchico ebreo tedesco morto tra i primissimi nei campi di concentramento nazisti, dopo essere stato sottoposto per mesi alle sevizie più atroci, e morto due volte perché bellamente dimenticato, in patria e fuori, dopo la caduta del nazismo. Muhsam era un non violento, ma di quelli che fanno paura davvero al potere, per la fermezza con cui praticano i loro principi e per l’implacabilità nella denuncia di ogni sopraffazione. Non a caso è stato preso a bersaglio immediatamente, e ha fatto incattivire in maniera bestiale i suoi aguzzini. Non ho mai sentito pronunciare né letto il suo nome nel revival pacifista e non violento di questi ultimi anni. Almeno tu, che tanto pacifista non sei, ora lo conosci.

L’altro è Furio Jesi. Una storia completamente diversa, una precocità intellettuale straordinaria, tanto che non ha nemmeno frequentato le scuole regolari e l’università, per non perdere tempo. C’è stato un periodo nel quale non potevo accostarmi ad un libro o ad un argomento che mi interessasse senza scoprire che l’aveva scritto o tradotto o curato lui. Mi rimane il rammarico di averlo mancato per un pelo. Era finito ad insegnare nell’università di Genova, all’inizio degli anni ottanta, ed morto per un banalissimo incidente nel momento in cui mi ero deciso a contattarlo. Mi sarei nuovamente iscritto e avrei frequentato i suoi corsi, imparando forse finalmente il tedesco.

Rimane Enzensberger. È un po’ una fissa della mia vita, assieme a quella di Humboldt. È la perfetta incarnazione di ciò che dovrebbe essere un intellettuale, secondo l’accezione che do io del termine. Ha un equivalente in Italia solo in Calvino. Non ha scritto romanzi, ma saggi e poesie, e alcune di queste ultime, come quelle di “Mausoleum” o de “La fine del Titanic”, sono dei saggi in poesia. Infatti li trovi qui, e non nella sezione letteraria. È di una puntualità impressionante nell’anticipare gli sviluppi ancora non visibili delle situazioni, nel vedere la faccia nascosta di tutte le mode culturali imperanti e nel metterle allo scoperto, sempre voce fuori dal coro, ma senza lo snobismo della controtendenza, per pura onestà intellettuale. A differenza di Salinger, spero viva almeno altri vent’anni, per continuare a leggere i suoi interventi.

Accidenti, stavo quasi per dimenticare Galois. Questo Elisa non te lo devi perdere, assolutamente. Stavo dimenticandomene perché non è classificabile sotto alcuna etichetta: non era anarchico, non era comunista, era un ribelle e basta. Evariste Galois è morto a vent’anni, in un finto duello da lui voluto e combinato con un amico per far esplodere una insurrezione. L’insurrezione non c’è stata e lui è morto inutilmente dopo due giorni di agonia. Era una mente matematica fuori dell’ordinario, un vero genio, e non è mai riuscito a far pubblicare i risultati delle sue ricerche: o glieli rifiutavano, perché non li capivano, o li perdevano per distrazione o per disgrazia. È comprensibile che a vent’anni fosse talmente esasperato contro tutto e tutti da cercare almeno un riscatto nella morte. Sta di fatto che gli unici scritti suoi rimasti sono stati buttati giù in tutta fretta la notte precedente il duello, e daranno lavoro ai matematici per altri duecento anni. Ci sono un paio di sue biografie nello scaffale specifico, ma c’è anche un romanzo, “Il matematico francese”, che è attendibile nei fatti quanto avvincente nella ricostruzione. È evidente che Galois non c’entra per nulla con la mia formazione, avevo quattro di matematica e comunque l’ho scoperto piuttosto tardi. No, te l’ho ricordato solo perché potrebbe darti un’idea dello stato mentale in cui mi trovavo a vent’anni, matematica esclusa.

Come dici? Se è un caso che non abbia citato nemmeno una donna? No, non è un caso, è una dimenticanza, e grave. Hai ragione. Sarei quasi tentato di risponderti che in fondo non ci sono state figure femminili di particolare rilievo nella mia formazione politica e culturale, ma non è affatto vero. Ne ho invece incontrate diverse, a varie riprese, e alcune di esse mi hanno letteralmente folgorato.

La prima è stata senza dubbio Simone Weil. Non poteva, del resto, essere che lei. Aveva tutti i requisiti giusti. Ebrea, ma vicina alla lettera del vangelo al punto da considerarsi cristiana, e al tempo stesso da non farsi battezzare per solidarietà con i propri correligionari perseguitati. Borghese colta e raffinata, ma capace di lasciare il lavoro di insegnante e di rompere con la sua famiglia e la sua classe sociale per immergersi nella condizione proletaria, andando a lavorare nelle officine della Renault. Volontaria in Spagna durante la guerra civile e militante sempre nella sinistra, senza mai legarsi ad alcun partito o movimento particolare. Emigrata in America, subito dopo la sconfitta francese, per sfuggire alle persecuzioni, ma capace di tornare quasi immediatamente in Europa per essere vicina ai connazionali e rendersi utile in qualche modo. Morta infine di stenti e di fatica a trentaquattro anni, per essersi prodigata fino allo sfinimento malgrado i gravi problemi di salute.

Come puoi immaginare, è stato amore a prima vista, tanto che ho scelto la sua figura e il suo pensiero per la mia prima ed unica esperienza di “docente” universitario, moltissimi anni or sono. I testi che commentavo per i miei quattro uditori erano “La prima radice” e “La condizione operaia”. Ma sai anche che non sono molto stabile con i miei amori. Proprio quel commento, quell’analisi approfondita mi hanno fatto percepire una distanza, l’impossibilità mia di credere tanto visceralmente in una causa, e quella sua di essere sufficientemente realista da non trasformarla in una fede. Credo sia nata proprio in quell’occasione la mia “sindrome di san Francesco”, quella che mi fa sempre irrigidire un po’ quando mi trovo di fronte a figure che hanno scelto volontariamente la povertà, e che riescono così esemplari, così eccezionali, perché hanno potuto scegliere, e perché scegliere in una certa direzione fa notizia. So di essere ingiusto, so che scegliere gli stenti quando si ha possibilità di vivere negli agi è semmai un doppio merito: ma mi rimane sempre l’impressione di una reversibilità che è negata agli altri, a quelli che non hanno la possibilità di scegliere e non avrebbero dove tornare. Mi spiego: in fondo la Weil, non avendo retto la sua salute all’esperienza operaia, è tornata a fare l’insegnante, ed è rientrata in Europa dopo aver sfruttato la possibilità di fuggire in America. Milioni di altri ebrei questa possibilità non l’hanno avuta. Non mi da fastidio che sia tornata, anzi: ma mi da fastidio il fatto che la radicalità di certe esperienze finisca poi per costituire un parametro esemplare ed inarrivabile, rispetto al quale non puoi non sentirti un po’ in colpa e in difetto. Con tutto questo, è evidente che ti spingerò appena possibile a leggere la Weil, e continuerò a leggerla io stesso.

Non ho provato le stesse emozioni contrastanti quando ho approfondito il pensiero e la personalità di Rosa Luxemburg. Non mi sono innamorato della Luxemburg come mi era accaduto con la Weil, ma proprio per questo, probabilmente, la mia devozione è rimasta immutata nel tempo. Sono convinto che l’analisi della società moderna che sviluppa ne ”L’accumulazione del capitale” sia in assoluto la più lucida tra quelle prodotte all’interno dell’ortodossia marxista (“all’interno” si fa per dire, anche se è poi vero che la sua posizione era molto più genuinamente marxista di quelle di Lenin e di tutti gli altri teorici della rivoluzione).

Ma non mi pare il caso di discutere con te di teorie del comunismo. Sappi soltanto che Rosa Luxemburg era un’intellettuale ebrea polacca, decisa sostenitrice di un coinvolgimento totale e continuo delle masse nel movimento rivoluzionario, anche a livello decisionale, e contraria a delegare a delle élites politicizzate la guida della rivoluzione e ad una burocrazia di partito la sua gestione. Era una insomma che voleva “fare” la rivoluzione, non “guidarla”. Quando la rivoluzione la lanciarono gli altri, il partito comunista tedesco filobolscevico, la Luxemburg oppose tutta una serie di argomentazioni di buon senso e di opportunità, ma quando il movimento fu sconfitto rimase al suo fianco, a differenza di coloro che lo avevano scatenato, e venne massacrata e giustiziata.

Vedo che la faccenda ti interessa. In effetti, con quella faccia e con quel carattere, mi sembri più in linea con la Luxemburg che con la Weil. E poi, a te la povertà decisamente non piace. Devo invece farti presente che la figura della Luxemburg non ha suscitato molti entusiasmi nel movimento femminile degli ultimi decenni (nemmeno quella della Weil, a dire il vero). Ho quasi l’impressione che sotto sotto le si rimproveri la stessa cosa che le rimproveravano molti maschi, quella di fare una parte da uomo. La Luxemburg non era un uomo con sembianze femminili: era una donna in tutto e per tutto (per quel che può voler dire) che affrontava i problemi e le scelte non con atteggiamento maschile o femminile, ma con intelligenza. E aveva anche ben chiaro il ruolo dell’intellettuale nella rivoluzione, senza fare troppe confusioni. Ognuno porta nella rivoluzione quello che sa fare, non è necessario travestirsi da proletari per avere l’abito di scena adatto. Il tempo ha dimostrato che le sue speranze rivoluzionarie erano infondate, ma questo non toglie nulla né alla sua statura etica, che non è mai stata in discussione, né ai suoi contributi teorici.

E arriviamo ad Hannah Arendt. Guarda la combinazione, è un’intellettuale ebrea tedesca, profuga prima in Francia e poi in America. Ha scritto opere fondamentali, come quei tre volumi in bella vista su “Le origini del totalitarismo” e quello verde, vicino, ”Vita Activa”. Altre sue cose sono sparse qua e là nelle diverse sezioni. Un’intelligenza superiore, di quelle di fronte alle quali uno non può nemmeno provare sentimenti, tanto le sente inarrivabili. Fin troppo, forse. È strano il mio rapporto con la Arendt. In questo periodo è senza dubbio tra i tre o quattro autori ai quali faccio maggior riferimento, ma sotto il calore intellettuale continuo a sentire del gelo. Ho provato a scaldarmi leggendo la storia del rapporto con Heidegger, che è stato suo insegnante universitario e poi amante, prima di schierarsi apertamente col nazismo e tenerla lontana in quanto ebrea. Peggio che andar di notte. La Arendt non lo ha mai ripudiato, lo ha difeso dopo la guerra, ha mantenuto i rapporti con lui e con la di lui arianissima moglie: cosa che sembrerebbe parlare di una passione al di là di ogni logica, e che la renderebbe umanissima, e amabile. Ma non l’ho sentita così. Mi è parsa una passione di testa, quasi una sfida intellettuale.

È inutile che mi guardi di sbieco. So già dove vuoi arrivare. Quando parlo di intelligenze o di esperienze di vita al femminile inserisco sempre qualche “ma”. È vero, e sarei un’ipocrita se non lo facessi. Non credo di essere un grande conoscitore della psicologia femminile, dubito che possa esserlo qualsiasi maschio e sono anche fermamente convinto che vada bene così, almeno in linea generale. Certo, non mi spiacerebbe ogni tanto capire cosa ti frulla nella testa, ma credo che potremo andare avanti abbastanza bene se impareremo almeno, tra un conflitto e l’altro, a rispettare le nostre diversità.

Quanto alle tre nostre amiche, vale un po’ per tutte il discorso fatto per la Weil: per un verso o per l’altro dal loro modo di pensare traspare una “volontà di credere” che ha caratteristiche quasi religiose. Forse dipende dal fatto che sono di origine ebraica, o ancora di più, che con questa origine tutte sono in conflitto, una per ragioni religiose, l’altra per motivi politici e la terza per una sorta di superamento intellettuale, ma alla fine nessuna la ripudia. O forse, più semplicemente, dal fatto che sono donne. Hanno una gran fiducia nell’umanità, beate loro, nelle potenzialità inespresse dell’uomo, nella sua capacità di essere sociale mantenendo la sua dignità individuale. Hanno quello che ai maschi in genere manca, o che viene comunque bilanciato da una componente di egoismo individualistico, anche quando si esprime negli ideali più altruistici. In sostanza, si danno ad una causa sino in fondo, il che sarebbe l’ottimo, ma credono (e pretendono) che anche gli altri, i loro corrispettivi maschili, siano pronti a fare altrettanto, il che invece non è del tutto vero. Tu sei già fatta così, lo si capisce benissimo, e non dire di no perché non sai nemmeno di cosa stiamo parlando.

Emarginati ed esclusi

In effetti sembri un po’ disorientata, oltre che stanca. È più che comprensibile, ci stiamo muovendo in mezzo ad argomenti tutt’altro che leggeri, e non deve essere facile tenermi dietro in questo andirivieni nella memoria. Sono confuso anch’io. Comunque, abbiamo già fatto un bel pezzo di strada; un altro piccolo sforzo e ci prenderemo nuovamente una pausa.

Per aiutarti a rientrare in sintonia ricapitolo brevemente le tappe che ci hanno portati sin qui. Siamo partiti dal mio interesse generalizzato per la storia e abbiamo constatato come ne siano discese delle ramificazioni specifiche, vuoi per inclinazione, vuoi per passaggi naturali e conseguenti. Da queste a sua volta ha preso l’avvio un percorso piuttosto accidentato, ma sostanzialmente lineare, attraverso le idealità politiche e sociali. Potremmo chiudere questo capitolo intitolandolo un po’ pomposamente “Come la conoscenza storica si traduce in consapevolezza politica”. Per tua sfortuna solo di un capitolo si tratta, e appena voltata pagina ne troviamo un altro: “Come l’autentica consapevolezza politica ti faccia disperare della politica”.

Ci sono infatti aspetti della storia che inducono una attitudine più sentimentale che politica, nel senso che spingono ad una partecipazione emotiva, ma non possono essere ricondotti ad un progetto politico di riscatto. Potremmo definirli le “cause perse”, e farvi rientrare tutte quelle opzioni che la storia ha scartato. L’Ariosto, quando spedisce Astolfo sulla luna a recuperare il senno di Orlando, dice che lassù si trova tutto quello che sulla terra è andato perduto: sogni, illusioni, speranze, oltre naturalmente alla Fama, alle mode e ad altri valori effimeri. A me è sempre piaciuto camminare un po’ sulla luna, e andare a rovistare tra le scorie depositate lì dalla storia. Ci trovi appunto tutte quelle suppellettili dimenticate come il regno dei Kazari o l’impero di Al Mansur, oppure la vita disperata di Galois, insomma, le mie bizzarrie personali, ma ci trovi anche cose che in qualche modo possono essere riciclate, se non politicamente, almeno eticamente.

Una buona fetta del suolo lunare è stata ad esempio esplorata da uno storico inglese tra i miei preferiti, Eric J. Hobsbawm. È uno studioso “di sinistra”, ma tutt’altro che allineato, ed è quello che ha coniato il concetto di “secolo breve” relativamente al ‘900 (è il titolo della sua opera forse più famosa, che vedi in bella vista nello scaffale di centro). Bene, H. ha esordito come storico con una serie di studi dedicati a “I ribelli”, “I banditi” e “I rivoluzionari”, che stanno lì vicino. Li ho letti tutti, partendo dall’ultimo, e naturalmente le mie preferenze sono andate invece al primo, che raccontava personaggi e movimenti dimenticati o addirittura mai studiati (tra questi anche David Lazzaretti, il profeta dell’Amiata, un Al Mansur in sedicesimo che non ha fondato un impero ma una chiesa, e che è stato freddato dai carabinieri durante una processione). Ultimamente Hobsbawm ha raccolto sotto il titolo significativo e provocatorio di “Gente non comune” una serie di brevi saggi, che si occupano appunto di uomini ai margini della storia, pescando dovunque, dal mondo contadino al jazz.

Ecco, penso che questo tipo di storiografia si presti benissimo a esemplificare ciò che intendevo parlando di interesse per le “cause perse”. In uno dei saggi, “Calzolai radicali”, Hobsbawm indaga il ruolo che questa categoria ha svolto nella storia delle sinistre, e constata come i calzolai abbiano avuto nel mondo preindustriale una parte di primo piano nell’elaborazione e nella diffusione di idealità radicali. Spiega il fenomeno chiamando in causa diversi fattori: dalle caratteristiche della professione, che era itinerante e consentiva quindi di stabilire contatti e di acquisire conoscenza di situazioni diverse, oltre che di conversare e discutere durante il lavoro, a quelle fisiche dei calzolai stessi, che spesso erano zoppi o comunque menomati agli arti inferiori, e quindi impossibilitati a svolgere un’attività salariata, a quelle psicologiche, perché i calzolai, a differenza dei contadini e dei lavoranti artigianali erano assolutamente liberi, non dipendevano da nessuno. Di fatto sino alla metà dell’ottocento questa categoria risulta incredibilmente rappresentata, e in posizioni di guida, in ogni movimento insurrezionale o gruppo dissidente.

Di questo loro ruolo non è rimasto nulla, sono praticamente scomparsi dalla scena quando hanno cominciato a nascere le prime organizzazioni operaie, i partiti e i movimenti della sinistra, e l’avvento dell’industria li ha spazzati via. Sono il tipico esempio dei dimenticati dalla storia, ma sono proprio quelli che a me interessano maggiormente. In questo caso c’entra senz’altro il fatto che mio padre facesse il calzolaio, e assommasse proprio tutte quelle caratteristiche fisiche e psicologiche che Hobsbawm individua: ma in fondo attraverso il riscatto della sua memoria penso di voler riscattare tutti gli altri dimenticati.

È chiaro che la dimensione di questo riscatto può essere al più etica, e che il suo valore si definisce inversamente al venire meno delle speranze politiche. In altre parole: fino a quando continui a pensare che sia possibile cambiare il mondo presti attenzione a vicende, a personaggi e a forme di pensiero che supportino questa fiducia, quando invece hai abbandonato ogni speranza di un cambiamento rivoluzionario guardi con interesse ad esperienze di vita e di azione che non hanno sortito risultati politici, ma rimangono esemplari a livello di scelta etica. È il caso dei miei calzolai come di molti anarchici o degli eterodossi in genere, che se non altro, proprio in quanto non devono piegare l’interpretazione dell’uomo e dei meccanismi sociali ai loro progetti di riorganizzazione, risultano più lucidi e tolleranti, e mostrano una grande caratura etica perché si comportano in un certo modo indipendentemente dalla prospettiva o dalla possibilità di conseguire dei risultati.

“Cause perse” sono però per me anche quelle che vedono altri protagonisti, questi del tutto involontari, ai quali in genere non è concesso alcun riscatto. Vengono dopo gli ultimi, quando la parata sociale è ormai ufficialmente chiusa: sono gli esclusi, gli irregolari, quelli che la storia non solo ha lasciato in ombra, ma ha addirittura cacciato dal teatro. Sono i mendicanti, i vagabondi, gli eretici, gli ebrei, ma anche i malati, i pazzi, i devianti, tutti quelli cioè che non rientrano in alcun ordine sociale costituito, ma nemmeno sono contemplati in quello prefigurato dalla rivoluzione o dall’utopia.

Questi sono gli sconfitti per eccellenza, e naturalmente, vedo che l’hai già capito, non potevo lasciarmeli scappare. Anche in questo caso l’input è venuto dalla storia sociale francese, e ha trovato subito terreno fertile in una mia precoce predilezione per i pittori tedeschi e fiamminghi del primo cinquecento (complici ancora una volta i calendari della zia Lina, ma soprattutto i soggetti stravaganti e non molto lontani dalle movimentate illustrazioni delle mie letture giovanili). Gli affreschi della società medioevale di Le Goff e di Geremek sembravano le trascrizioni della pittura di Brueghel e di Bosch, e raccontavano la storia dei poveri, dei vagabondi, dei malati e dei criminali: questa a sua volta apriva altri campi di indagine (la storia del cibo e dell’alimentazione, quella delle malattie e della medicina, quella della violenza e delle istituzioni repressive, quelle della follia, dei costumi sessuali, ecc…) e si intrecciava infine con quella dei devianti per eccellenza, gli eretici.

Era una catena infinita, che ha disperso il mio interesse in una miriade di rivoli, ma che ad un certo punto ha cominciato a configurarsi come una rete, con agganci che tenevano e che permettevano di intravedere una trama complessiva. Le forme dell’esclusione, mano a mano che si definivano, tracciavano anche il profilo di una società che si trasformava in maniera sempre più evidente, e si addentrava a ritmi accelerati nella modernità.

Abbi pazienza, mi sono fatto prendere la mano. Ciò che intendevo dire è che cinquecento anni fa non esistevano ospizi, manicomi, ospedali e prigioni, almeno come li intendiamo noi. No, nemmeno le scuole e neanche le mense. Tutto quello che oggi chiamiamo servizio pubblico non c’era. Come facevano? Si aggiustavano. In qualche modo facevano: ad esempio, i vecchi non li mandavano al ricovero ma li tenevano in casa. E così i malati, a meno che fossero lebbrosi, e anche i matti. I delinquenti li mettevano alla gogna, oppure li giustiziavano. I poveretti? Beh, loro mendicavano e morivano di fame, come oggi. Solo che allora erano di più, qui in occidente, e forse un po’ meno dalle altre parti. Insomma, era una vita dura, non posso stare qui adesso a spiegartela, e comunque per noi è difficile da concepire.

Una cosa però la devi sapere: in quel tipo di società si accettava e si giustificava, almeno in teoria e fatta salva qualche eccezione, ogni diversità. I pazzi erano considerati la voce di Dio, i poveri l’immagine di Gesù, i vecchi i depositari della saggezza, persino i lebbrosi, i malati, gli storpi erano anime che purgavano già sulla terra i loro peccati, e quindi destinate immediatamente al paradiso. In teoria, ripeto, perché poi nella realtà non funzionava proprio così: ma almeno tutti costoro erano considerati parte della società.

Poi le cose hanno cominciato a cambiare, e tutti quelli che non erano in grado di lavorare, o creavano disordini, oppure necessitavano di cure, in definitiva quelli che intralciavano il lavoro degli altri o avevano comportamenti diversi sono stati poco alla volta isolati e concentrati in luoghi di degenza o di detenzione, dove potevano essere tenuti sotto controllo. Sono nate le istituzioni sanitarie, quelle repressive e i ghetti. All’uscita dal medioevo (che in pratica è sancita solo dalla rivoluzione francese) il nuovo ordine che si andava costituendo aveva già prese le misure a tutte le categorie di diversi e di irregolari, ed era pronto a contenerle o a riassorbirle.

C’è un settore specifico della mia biblioteca che racconta la storia di questo cambiamento, e raccoglie studi che svariano dalla repressione sessuale a quella della follia e del vagabondaggio, dagli sviluppi paralleli di tolleranza e intolleranza alle diverse forme di discriminazione e di razzismo rivolte all’interno, ad esempio verso le donne o gli omosessuali, alla criminalizzazione della povertà, ecc… È l’altra faccia di uno scavo storico che è diventato negli ultimi anni ossessivo, quello inteso a rintracciare le origini della modernità, e del quale troverai tracce sparse un po’ dovunque.

Eretici ed esoterici

Questo scavo era iniziato diversi anni fa, ma in direzione di un’altra devianza, che persino nel Medioevo era considerata inaccettabile: quella ereticale. Per uno che andava in caccia di sconfitti gli eretici erano l’equivalente di un safari. In questo senso devo davvero molto al Cantù, che sparava malignamente a zero su quei poveracci ma intanto ne parlava, e mi dava modo di conoscere Fra Dolcino e i Catari e tutti gli altri minori della fauna ereticale. Al contrario era piuttosto difficile, almeno sino alla fine degli anni settanta, reperire qualcosa di soddisfacente nella storiografia moderna; non perché non esistessero degli studi, ma perché in genere circolavano solo tra gli specialisti del settore, che tendevano a formare essi stessi una conventicola. Il boom dell’interesse per i movimenti ereticali è venuto dopo, sull’onda del successo de “Il nome della rosa” ma anche di una più generale tendenza all’attenzione per fenomeni di questo tipo, non sempre motivata soltanto da finalità storiche.

La storia degli eretici medioevali è raccontata oggi in tutte le salse e con tagli radicalmente diversi, a seconda della posizione e delle intenzioni degli autori. La trovi in almeno una ventina di quei volumi che vedi in basso a destra. Si va da studi classici come “I fanatici dell’Apocalisse” di Norman Cohn alla “Storia notturna” di Carlo Gisburg, passando per la “Nascita dell’eresia” di Manteuffel e per “Medioevo ereticale” di Capitani. Ci sono interpretazioni apologetiche ed altre sociologiche, e c’è anche il tentativo di ricondurre all’eresia e al millenarismo l’origine del pensiero radicale moderno, e addirittura di quello totalitario. Una trattazione riassuntiva, ma penso nel complesso accettabilmente onesta, è sviluppata in uno dei pochi lavori miei di cui sono soddisfatto. Spero che troverai la voglia un giorno di dargli un’occhiata, e magari di usarlo, almeno per la scuola.

Quella degli altri, degli eretici di ogni tempo e rispetto ad ogni forma di pensiero, dottrina o ideologia codificata, come hai già visto è contenuta un po’ in tutti gli scaffali, in questi come in quelli dedicati alla letteratura e negli altri che vedremo: è il filo conduttore di tutta la mia biblioteca, la sua ragion d’essere.

Non vorrei comunque che equivocassi. Fare una scelta “ereticale” non significa votarsi ad essere un bastian contrario, ad essere “contro” per partito preso – per intenderci, ad assumere quella irritante posizione disfattista che troppo spesso tendi a prendere tu e che mi fa simpatizzare per il padre di Pollicino. L’eretico è contro in nome di qualcosa che ha da proporre in positivo, in nome di una alternativa, non in nome del nichilismo. Per questo considero ad esempio Camus un vero, grande eretico, perché guarda in faccia senza tante storie l’angoscia dell’esistenza, ma poi dice diamoci da fare, mentre non ho stima del pensiero di coloro (ne cito uno per tutti, quel Cioran del quale trovi là in basso diverse opere, accumulate in un periodo in cui avevo le idee piuttosto confuse), che godono di grande considerazione perché magari hanno scoperto che gli uomini sono cattivi e che la vita è una grande fregatura, e per dimostrarlo continuano a scrivere volumi su volumi.

Gli eretici medioevali si raccoglievano solitamente in sette iniziatiche, molto chiuse e il più possibile clandestine. Questa forma di organizzazione era imposta dalla necessità di sfuggire alla caccia spietata dell’Inquisizione, ma si rifaceva anche ad una tradizione ermetica molto antica: ogni minoranza dissidente si mantiene infatti più facilmente compatta se i suoi adepti sono convinti di essere gli unici depositari della verità, di appartenere ad un gruppo ristretto di illuminati, destinati alla salvezza. Guarda ad esempio il caso degli ebrei.

Il settarismo è senza dubbio uno dei fattori che hanno indirizzato la mia curiosità verso i fenomeni ereticali, perché l’interesse per le società segrete era già radicato in me molto tempo prima di incontrare questi ultimi. Datava dalla lettura dei fumetti di Gim Toro, eternamente in lotta contro la Hong del Drago, e de “La storia dei Tredici” di Balzac, oltre che dal tifo patriottico per i Carbonari: ma era stato poi riaggiornato dall’amicizia con un ragazzo straordinario, pluriripetente alle superiori ma incredibilmente più colto di me e di tutti i miei compagni, conosciuto e perso poi per sempre in una sola estate. Era effettivamente un po’ fuori della norma, nel senso ad esempio che stava riscrivendo la Bibbia, anche se era fermo da diverso tempo al primo capitolo della Genesi: ma tutt’altro che un pazzo esaltato. L’estate era quella della maturità, uscivo da un incubo durato cinque anni, ero infarcito di nozioni insipide digerite alla meno peggio: lui mi apriva gli occhi su una dimensione completamente diversa della cultura, della storia, del senso da dare alla propria esistenza. Mi ha fatto conoscere cose strampalate come “Il mattino dei maghi”, che potevo comunque leggere senza pericoli e persino con diletto, perché ero immunizzato dal mio scetticismo, ma anche la storia dei Rosacroce (naturalmente, nella sua versione) o quella della filosofia occulta, e soprattutto “Il ramo d’oro” di James Frazer. Sono quei tre volumetti in cofanetto, lassù in alto. Rappresentava per l’epoca il mio record di spesa, ma li valeva tutti.

Frazer mi ha fatto guardare alla storia delle religioni con un taglio antropologico, riconciliandomi con una materia che avevo cancellato dai miei interessi. Ho scoperto così di lì a poco Mircea Eliade, forse il più grande studioso novecentesco dei fenomeni religiosi, le cui opere non erano all’epoca rintracciabili in Italia perché nel clima degli anni sessanta era considerato praticamente un fascista. È stato e rimane ancora oggi uno dei miei numi tutelari. Raccoglievo in Eliade, e poi in Guenon, in Dumezil e in tutti gli altri studiosi del sacro che si è tirato dietro, gli indizi di una controstoria, di qualcosa che si era svolto al di sopra e al di sotto della storia ufficiale. Un libro come “Il regno della quantità e il segno dei tempi” di René Guenon, ad esempio, totalmente ispirato al recupero della Tradizione, quindi in poche parole decisamente reazionario, coglie molto più in profondità lo spirito del moderno di tante analisi sociologiche “progressiste”.

La storia delle religioni ha avuto una parte tutt’altro che secondaria nella mia formazione, naturalmente nell’ottica laica che avevo abbracciato. C’è ad esempio lì in basso un’intera sezione dedicata alle diverse concezioni della morte e dell’al di là, alla demonologia e alle credenze apocalittiche. Alcuni sostengono che quando si instaura una certa consuetudine con un argomento, fosse anche la figura di Hitler o di Jack lo Squartatore, si finisce in qualche modo per cambiare prospettiva, per simpatizzare. A me, nei confronti della religione, non è capitato nulla di simile.

La curiosità per le sette si è invece estesa poco alla volta a tutti i movimenti sotterranei della storia moderna, passando dai Rosacroce agli Illuminati di Baviera, fino alla massoneria e ad infaticabili tessitori di trame nascoste e di organizzazioni segrete come Filippo Buonarroti. I libri che ne parlano stanno infatti sullo stesso ripiano di quelli sull’eresia, e confinano con quelli sulla filosofia occulta e sul pensiero di destra. Non so quanto sia corretto questo accostamento, – senz’altro non lo è per Buonarroti – ma gli agganci tra un argomento e l’altro sono forti, anche se quelli con l’eresia sono di norma solo pretestuosi. Credo in effetti che il confine tra un interesse puramente storico per il mondo delle sette e una sua deriva ideologica, in direzione di un pensiero reazionario, sia molto incerto; e penso anche che la tentazione dell’appartenenza ad una cerchia ristretta di iniziati sia stata scongiurata, da parte mia, più che dal rigore dello studioso, dal fatto che la cerchia per me non è mai abbastanza ristretta.

Marx (Groucho) diceva che non si sarebbe mai iscritto ad un club che lo avesse accettato come socio: io non mi sono mai iscritto ad alcun club, tranne quello alpino, perché leggo subito anche l’altra faccia dell’appartenenza. Ho cercato di trincerarmi dietro un motto che credo sia di Bobbio (o almeno, l’ho trovato in un suo scritto), “aristocratico nel pensare, democratico nell’agire”, ma ogni tanto ti confesso che mi assale il dubbio: sono di Destra? O meglio, visto che quelli che si fregiano di questa etichetta sono in genere solo una mandria di imbecilli, che non pensano del tutto o si aggrappano ad una Tradizione che non esiste, o più semplicemente ci marciano, e considerato che non sopporto Bertinotti, sono io la vera Destra?

Guarda che sto scherzando, Elisa; mi piace questa tua indignazione, perché credo che nella tua innocenza abbia ancora chiaro il vero concetto distintivo. Stai a sinistra quando sei dalla parte degli oppressi, stai a destra quando stai dalla parte degli oppressori. Solo che le cose oggi non sono più così semplici, e forse non lo sono mai state. Gli oppressi sono tali solo quando si rendono conto di esserlo, e quindi vogliono non esserlo più: ma spesso questa coscienza non c’è, e l’egoismo degli ultimi non è diverso, se non quantitativamente, da quello dei primi. Camus diceva di non voler essere né vittima né carnefice, ma non volere essere vittima significa ribellarsi a questa condizione, e non accontentarsi del fatto che ci sono altri prima di noi destinati al sacrificio. Io credo che gli ultimi, nella società di oggi, siano quei mentecatti che affollano gli ingressi delle emittenti televisive per partecipare ai grandi fratelli o fare lo spettatore alle buone domeniche, e che il loro riscatto lo cercano lì. Gli altri, gli esclusi, sono quei tre o quattro miliardi di esseri umani che stentano a sopravvivere da un giorno all’altro, e dei quali agli ultimi non potrebbe fregare di meno.

Gli oppressi, infine, sono coloro che hanno coscienza di questa situazione, e la rifiutano, anche quando rientrano in qualche modo, se pur precariamente, come noi, tra i garantiti. Costoro hanno scelte diverse di resistenza: possono andare a fare i missionari nel terzo mondo, possono fare i rivoluzionari o i contestatori nel primo, possono cercare di fare il loro dovere, difendere la loro libertà e la loro dignità nel loro piccolo e nel loro privato, magari trasmettendo con l’esempio qualcosa anche ad altri. Ognuna delle opzioni è valida, ognuna ha le sue controindicazioni: la terza, la mia, è piuttosto elitaria, anche se pare la più facile, perché parte dal principio di salvaguardare la propria dignità senza arrecare danno agli altri, di non rompere le scatole a nessuno, per intenderci, e di non permettere a nessuno di rompertele. Il che mal si accorda con l’idea di appartenenza ad un gruppo, ad un club, mentre è più compatibile con una condivisione molto allargata e poco vincolante di idealità.

Cosa c’entra questo con gli eretici, con le sette e con tutto il resto? C’entra, soprattutto con il resto. Tutta questa parte della mia biblioteca, ma anche l’altra, quella letteraria, e quella che ancora dobbiamo esplorare, raccontano, pur nella dispersione e nella confusione dei temi, un percorso. So di ripetermi, ma sto cercando di tirare un po’ di fila, di riprendere fiato prima di affrontare le ultime tappe. Grosso modo possiamo dire che sono partito dal concetto para-marxista per cui il progresso materiale si sarebbe tradotto col tempo in progresso sociale, in una società più giusta, ed all’interno di questa in progresso culturale, e sono approdato alla constatazione che il progresso materiale lascia un sacco di vittime sul suo cammino, e non si traduce in una società migliore, e meno che mai porta necessariamente con sé un progresso culturale. Sono passato dalla fiducia in un movimento di massa, in un riscatto comune, alla difesa della possibilità di un riscatto singolo, della individualità. Dalla gestione rivoluzionaria del progresso all’opposizione all’idea della crescita.

In questo cammino sono stato spinto dapprima in avanti dalla fiducia rivoluzionaria e dai sogni degli utopisti, ma ho cominciato a scorgere ogni tanto, e poi sempre più frequentemente, dei segnali triangolari, che avvertivano della pericolosità della direzione intrapresa: e questi segnali venivano tanto da Tocqueville, dalla scuola di Francoforte, da Berlin e dai situazionisti quanto, molto spesso, dalla cosiddetta cultura di destra. Bada che è normale: chi non ha sogni da realizzare, ma solo privilegi da difendere, è molto lucido nello scorgere e nel denunciare i rischi del cambiamento. Per questo vedi lì “Il tramonto dell’Occidente” o “Le serate di Pietroburgo” o addirittura il “Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane”, oltre alle opere di Guenon e di Eliade. Perché i libri, come gli esseri umani, non possono essere classificati di destra o di sinistra: o sono intelligenti, o sono stupidi.

Ebrei

Ho volutamente lasciata per ultima, nel parco degli esclusi, una speciale categoria che abbiamo già incontrato più volte lungo questo percorso: gli ebrei. Gli ebrei sono stati infilati a forza molto presto nel mio immaginario dalla frequentazione del catechismo, in quella forma ambigua e confusa che è sempre stata propria dell’insegnamento della Chiesa. Erano i protagonisti del Vecchio Testamento, i profeti e i connazionali di Gesù, e al tempo stesso erano i suoi carnefici e gli emblemi della incomprensione e del tradimento. Devi ammettere che per un bambino diventava piuttosto difficile orizzontarsi in queste contraddizioni. A quel punto bastava davvero poco per spingerti sul versante dell’ammirazione o su quello del disprezzo: io sono stato gettato letteralmente nel primo.

Un tempo si svolgeva a Lerma, il giovedì santo, una processione notturna molto suggestiva, che richiamava gente anche dai dintorni. Si usciva dalla chiesa e si percorrevano salmodiando le vie del paese, illuminate soltanto da ceri esposti a tutte le finestre, comprese quelle dei comunisti e dei mangiapreti. I ceri ardevano dentro lanterne di carta colorata semitrasparente dalle fogge più strane, e creavano straordinari giochi di luce nelle strade semibuie. Ogni tanto le lanterne andavano a fuoco, suscitando ilarità tra i fedeli e scompiglio nelle case: ma al di là di questi diversivi, ti lascio immaginare l’effetto delle luminarie e delle voci. La processione era aperta dai bambini, più o meno inquadrati, anch’essi pericolosamente muniti di ceri portatili. Seguivano poi su due file parallele le donne, che cantavano le laudi rispondendo al sacerdote. Infine venivano gli uomini, che non mantenevano alcun ordine di schieramento, e urlavano ogni tanto “Crucifige! Crucifige!”, magari traducendo lo scherno in dialetto e amplificandolo con espressioni colorite. Era una sorta di Via Crucis, reminiscenza di qualche antica sacra rappresentazione, e gli uomini interpretavano la parte dei cattivi giudei.

Bene, la massima aspirazione di ogni bambino era quella di retrocedere il più presto possibile nelle fila dei giudei, un po’ per vedere sancito il proprio passaggio all’età adulta, un po’ perché era più facile al termine della processione sgaiattolare nella piazzetta ed evitarsi le due ore buone di funzione religiosa che seguivano. Lo è stata a lungo soprattutto per me, che a differenza dei miei compagni non ho potuto anticipare il passaggio per via dell’implacabile controllo materno, e ho quindi dovuto attendere fino a dodici anni per diventare un vero giudeo e gridare “Crucifige!”. Giusto in tempo, perché di lì a poco, non ricordo se per il nuovo rituale o per il nuovo parroco, che inorridiva di fronte a una manifestazione così blasfema, la processione è stata soppressa.

Mi era stata data comunque l’opportunità di aspirare ardentemente ad una giudaizzazione, molto prima di essere in grado di identificare i giudei con gli ebrei. Una cosa analoga, quella di tifare per gli ebrei senza saperlo, era avvenuta forse prima ancora, ai tempi della guerra di Suez, quando i giornali e i notiziari radiofonici parlavano di Israele come del nuovo Davide che sconfiggeva Golia: ma l’interesse vero per la storia e la cultura ebraica è nato dopo, quando sono stato in grado di percepire l’orrore e le dimensioni della shoah, ed è poi divenuto centrale quando ho cominciato ad approfondire gli studi sull’esclusione medioevale. Su tre ripiani dell’ultimo scaffale, quello più vicino alla porta nella parete D, trovi la conferma di una continuità di ricerca che si è protratta per decenni (ho anche redatto una bibliografia sull’argomento che conta diverse centinaia di titoli). Ci sono storie generali del popolo ebraico, storie dei diversi approdi della diaspora, in Italia, in Europa, in America, in Russia, nei paesi dell’est, in Germania, storie degli ebrei sotto il fascismo, il nazismo, il comunismo, storie delle persecuzioni, delle cacciate e del ritorno alla terra promessa.

Dapprima si trattava della solita simpatia per le vittime, moltiplicata per la durata della persecuzione e per i numeri dello sterminio; non potevo non simpatizzare con un popolo che aveva subito nel corso di duemila anni uno stillicidio continuo di discriminazioni, espulsioni, accuse inverosimili, pogrom, ghettizzazioni, da parte dei potenti come delle masse, dalle istituzioni religiose come da quelle politiche, dai reazionari e dai rivoluzionari. Che aveva funzionato da capro espiatorio in ogni occasione, sino ad arrivare ad un passo dallo sterminio totale. Ero indignato per ogni manifestazione di antisemitismo, passata e presente, e non mi capacitavo che argomenti così rozzi e palesemente falsi potessero trovare un uditorio. Al di là dell’offesa agli ebrei, era l’offesa all’intelligenza quella che mi irritava, la constatazione che nell’antisemitismo si coniugavano i più squallidi strumenti per la gestione del potere e i più bassi istinti di cattiveria e di stupidità degli umani.

Ben presto però questo sentimento si è trasformato in una stupefatta ammirazione, quando ho cominciato a capire che gli ebrei non erano degli sconfitti, ma dei vincitori. Sarebbe bastato a dimostrarlo il fatto che dopo duemila e passa anni di persecuzioni, alcune delle quali particolarmente accanite – e non mi riferisco soltanto allo sterminio nazista – fossero ancora lì, ben presenti sulla scena e soprattutto protagonisti, nel bene e nel male. Ma c’era in più la constatazione che almeno negli ultimi due secoli li si trovava costantemente in prima fila in tutti i campi della cultura, dalle arti alla fisica, alla politica. La metà degli autori che ti ho citato sin qui sono ebrei, e non abbiamo parlato di cinema, di pittura, di musica.

Questa eccellenza poteva essere spiegata con la necessità per una minoranza soggetta a una simile pressione di dotarsi di strumenti culturali superiori, per sopravvivere e per poter essere competitiva, e col vantaggio che ciò aveva comportato al momento dell’emancipazione. Non è mai stato facile vivere da ebreo, meno che mai come ebreo della diaspora: la selezione doveva essere fortissima, e se non eri più che sveglio e disposto a faticare il triplo degli altri le possibilità si riducevano a zero. Questa era la prima spiegazione che mi davo. Ma alla fine sono approdato ad un’altra convinzione. Gli ebrei sono stati i protagonisti della cultura moderna perché la cultura moderna è essenzialmente di matrice ebraica.

È un argomento troppo complesso da trattare qui, ho in mente da tempo di scrivere qualcosa in proposito, e quindi ti rimando a quello. Non c’è nulla di originale in questa scoperta: nei tre ripiani dedicati alla storia e alla cultura ebraica ci sono libri come “Ebraismo e modernità” della Arendt o “Le radici ebraiche del moderno” di Sergio Quinzio che forniscono tutte le indicazioni del caso. Ma c’è soprattutto un saggio vivacissimo e sorprendente di Thomas Cahill, “Come gli Ebrei cambiarono il mondo”, che se fosse stato scritto quarant’anni fa mi avrebbe risparmiato un sacco di fatica (ma mi avrebbe anche privato dei tanti piccoli piaceri di una progressione verso la luce: perché alla conclusione che le radici del moderno fossero ebraiche c’ero arrivato per conto mio molto prima di incontrare questi libri). Il saggio di Cahill offre l’ennesima conferma del fatto che nulla è mai troppo difficile da spiegare, se davvero lo si vuole: è il lavoro di un erudito che ha digerito benissimo la sua erudizione, e ne ha tratto la capacità di essere chiaro, semplice e sostanziale. Lo si dovrebbe adottare come lettura obbligatoria nelle scuole, già a partire dalla prima superiore.

Adesso però ti ho incuriosita, e capisco che non posso cavarmela così. Qualcosa su queste benedette radici ebraiche devo provare a spiegartela. Spero di non fare danni. Dunque, io credo che i fattori fondamentali della diversità ebraica, intesa nel significato positivo, vincente, siano il senso del tempo, l’idea di creazione e l’attesa della redenzione. Quello ebraico è sempre stato un popolo nomade, dapprima magari per scelta (anche se avevano poco da scegliere: vivendo nei deserti della Palestina, potevano giusto pascolare capre e cammelli), poi per costrizione: se dai un’occhiata alla Bibbia li vedi andare avanti e indietro come palline da flipper, sempre deportati da qualche parte, sempre reduci da qualche deportazione, e sempre in guerra coi loro vicini. Già il fatto che si reputassero gli eletti da Dio ti dice che non doveva essere facile conviverci: erano un popolo incredibilmente orgoglioso e solitario, tant’è che anche quando li deportavano li rispedivano a casa prima possibile.

Se a questo stato perenne di precarietà aggiungiamo il fatto che distinguevano tra un dio creatore e un mondo creato, non consideravano cioè divina la natura, come facevano invece i popoli sedentari, e vivevano il mondo come un luogo di espiazione, una specie di penitenziario, arriviamo a capire perché invece di diventare un popolo dello spazio, legato cioè ad una terra particolare e alle sue divinità naturalistiche, gli Ebrei siano diventati il popolo del tempo. Il loro sguardo non era ad alzo terra, fisso sul presente e sul passato, ma sempre rivolto in alto, verso il futuro, nell’attesa che Dio mantenesse la sua promessa di redenzione. In “Profeti senza onore” Frederic Grunfeld racconta di un suo nonno che ogni mattina, all’alba, saliva sulla collina dietro casa per vedere se per caso non fosse in vista il Messia. Capisci, a loro in fondo non importava dove attendere la redenzione (il nonno di Grunfeld viveva in Polonia) ma quando questa sarebbe arrivata. Inoltre erano anche il popolo della parola (e della musica). Gli altri dipingevano, tiravano su piramidi, scolpivano statue, loro invece, per paura dell’idolatria ma anche perché, sempre in viaggio com’erano, non potevano portarsi dietro niente di ingombrante, scrivevano. Si portavano dietro solo il libro, la Bibbia, e i rotoli della Torah. Sono il popolo del libro. Ecco che cominci a capire dove sta l’inghippo.

No, questo serve solo a spiegare il mio interesse. Ciò che invece veramente importa è per esempio che gli Ebrei non erano legati alla terra, sia intesa come patria, perché non ne avevano una, sia intesa come agricoltura, perché nei paesi della diaspora non era loro consentito possederne: e quindi erano più pronti degli altri a buttarsi nelle attività del settore secondario, finanza, commercio e industria, e meno legati degli altri ad una appartenenza territoriale e statale, cioè più cosmopoliti. L’idea di un mondo creato, staccato da Dio, li portava inoltre ad una visione molto laica della natura, cioè a non venerarla come divina e intangibile, ma a considerarla come materia imperfetta e manipolabile, e il mondo tutto come perfettibile: il che significa avere la mente aperta al concetto di progresso. E questi sono requisiti fondamentali di un’attitudine “moderna”.

Ma ci sono altri requisiti meno scontati, di carattere psicologico, che discendono dal modo di concepire il tempo. A differenza dei cristiani gli Ebrei non pensano che la redenzione sia già avvenuta, e che ora sia un problema dei singoli guadagnarsi il paradiso: attendono più o meno dai tempi di Adamo un cambiamento che deve avvenire su questa terra, un riscatto di tutto il loro popolo, in altre parole una rivoluzione. Inoltre hanno un rapporto diverso con l’autorità, a cominciare da quella divina. Dal momento che sono il popolo eletto, mantengono una speciale confidenza con Dio, che in effetti parla solo a loro, e anche una notevole coscienza dei propri diritti: ciò che li porta a vivere il loro rapporto con il creatore in maniera sempre piuttosto conflittuale e recriminatoria. Nessun altro popolo si azzarderebbe a rivolgersi a Dio dicendogli, in mezzo alle disgrazie: e allora, quando la finiamo? Figurati quindi che rispetto possono avere delle autorità terrene. E visto che si sono comprensibilmente stancati di aspettare che Dio si decida, e che non si sentono vincolati alle tradizioni e alle istituzioni di paesi e popoli che li hanno comunque sempre trattati da stranieri, hanno cominciato a pensare di smuovere un po’ le acque, aderendo con entusiasmo ad ogni cambiamento, o promuovendolo essi stessi. Sono diventati i rivoluzionari per eccellenza. Basta scorrere un qualsiasi elenco di nomi dei critici più radicali della società tradizionale, dei teorici e dei capi delle rivoluzioni più importanti dalla metà dell’ottocento in poi, da Heine a Marx, a Trotzkj, a Liebknek e alla Luxemburg, giù giù fino ad Adorno e Benjamin e a tutta la scuola di Francoforte, o degli innovatori nei campi dell’arte, della musica e della letteratura, per rendersene conto.

Questo dovrebbe essere sufficiente a spiegare i tre ripiani di letteratura sull’ebraismo: ma non basta ancora a dare ragione di una vita intera a invidiare quella speciale appartenenza. Tieni presente che questa invidia si è per lo più tradotta, lungo tre millenni, in antisemitismo, mentre in me è diventata ammirazione e partecipazione incondizionata. Eppure gli Ebrei sono dei rivoluzionari, potresti obiettarmi, e io invece sono riapprodato, dopo un giro molto largo, ai ribelli. La verità, cara Elisa, è che gli ebrei sono molto di più che dei rivoluzionari o dei ribelli. Sono davvero “l’altro”, il pastore errante dell’Asia, che non ha casa in nessun luogo di questo mondo ma nemmeno in nessuna idealità, che è all’avanguardia di ogni causa e di ogni movimento ma ne viene poi immediatamente escluso, o si esclude lui stesso perché anche la migliore delle cause, quando trionfa e comincia ad istituzionalizzarsi, diventa uno strumento di oppressione. Guarda a quel che è accaduto nelle più importanti rivoluzioni della storia, quella cristiana e quella bolscevica: si sono, e li hanno, chiamati fuori non appena hanno cominciato a dire “ma, veramente, non pensavamo dovesse finire così”. L’ebreo si ribella perché è stufo di essere vittima, ma poi si ribella anche al suo nuovo status di carnefice, perché è stufo che ci siano delle vittime. Ogni volta si ritrova a guardare da spettatore disingannato, e ogni volta riprende il suo esodo verso nuovi ideali. L’ebreo incarna l’unica utopia possibile, quella di un uomo vero, di un uomo libero, di un “profeta senza onore”, come lo definisce Grunfeld, perché non ha radici nei luoghi e nelle tradizioni che lo legittimino agli occhi degli altri, ma vuole legittimare da sé la sua esistenza. Non è moderno, non almeno nel significato che si dà oggi al termine, legato ad un’epoca particolare. Lo è in senso molto più lato, quello di una posizione sempre sbilanciata in avanti, rispetto a qualsiasi epoca. Non è quindi moderno, ma eterno: e infatti, mentre gli antisemiti devono rinnovare di volta in volta le sembianze, prima faraoni o imperatori babilonesi o filosofi latini, poi crociati, sovrani spagnoli o gesuiti, e poi ancora plebi russe, reazionari francesi, proletari sovietici, sterminatori tedeschi, razzisti americani, europei, islamici e idioti di ogni genìa, l’ebreo rimane fedele a se stesso, al suo essere “contro”.

Capisci, adesso? Quella ebraica non è una razza, è una metafora. Almeno lo spero, perché nella razza non potrei rientrarci, nella metafora magari si.

SAGGISTICA 2) Storia delle idee

E adesso lasciamo gli ebrei, ma solo per modo di dire, perché passiamo alla terza ed ultima sezione di questa camera, quella che raccoglie la storia della scienza, la storia della filosofia e la storia delle idee, e ce li ritroveremo costantemente tra i piedi. Il fatto che tu abbia cominciato ad alzarti e a stiracchiarti mi dice che devo darci un taglio e procedere più speditamente. Vedrò di provarci, ma non ti prometto nulla.

Nella storia della scienza faccio rientrare discipline o ambiti che potrebbero essere considerati a buona ragione “umanistici”, come l’antropologia e l’etnologia, e nella “storia delle idee” tutto quello che non appartiene alla storia della filosofia in senso stretto, ma che non saprei come definire diversamente. La verità è che riesce difficile stabilire ad esempio se il darwinismo sia piuttosto una teoria scientifica che una concezione filosofica, o appartenga invece più in generale alla storia delle idee; e comunque ha poco senso. È evidente che tutto si tiene, e che per quanto mi riguarda uso questi schemi in maniera molto elastica, solo per sapere dove diavolo devo cacciare “La civilizzazione dei costumi” di Norbert Elias o la “Storia delle buone maniere a tavola”, e soprattutto dove cercarli quando ne ho bisogno. Per facilitarci un po’ le cose (a me, soprattutto) faremo una sorta di rapida videata delle sottosezioni.

Semiotica e storia dei linguaggi

Dunque, quella che ho chiamato “storia delle idee” occupa tutto lo scaffale a fianco della finestra (parete C). Sotto la sezione dedicata alle dottrine politiche, della quale abbiamo già parlato, c’è un ripiano occupato dalla semiotica e dalla storia dei linguaggi in generale, con cose tipo “I linguaggi dell’umanità” di Michel Malherbe, quello dal quale abbiamo tratto gli alfabeti per il nostro codice segreto, compresi lo khmer, il gujrati e l’etiopico, oppure la “Storia e potere della scrittura” di Henry-Jean Martin, o “La ricerca della lingua perfetta” di Eco. In questo settore ci sono alcuni testi davvero fondamentali, come “Gli strumenti del comunicare” o “La galassia Gutemberg” di Marshall McLuhan, e il “Trattato di semiotica Generale”, sempre di Eco, ma anche “Le rivoluzioni del libro”, di Elizabeth Eisentein, sui mutamenti indotti nella cultura occidentale dall’introduzione della stampa, o “La terza fase” di Raffaele Simone, sugli ulteriori sviluppi provocati dall’informatizzazione. Altre opere, come “Una storia della lettura” di Alberto Manguel o “L’arte della memoria” di Frances Yates, o anche la “Decadenza dell’analfabetismo” di Josè Bergamin, affrontano da angolazioni originali, a volte decisamente controcorrente, il cambiamento nei modi di trasmissione della cultura.

Non ti vedo particolarmente entusiasta, e in effetti queste possono sembrarti tematiche specialistiche, per addetti ai lavori: ti garantisco invece che si intrecciano con la realtà quotidiana molto più di quanto tu immagini. Per esempio, ciò che sto facendo in questo momento, lo scrivere un’interminabile lettera sulla mia biblioteca, non lo avrei probabilmente fatto quando non possedevo un computer. O meglio, magari lo avrei fatto, riempiendo della mia scrittura fitta fitta un quadernone dalla copertina nera, e forse lo avresti anche apprezzato di più, lo avresti conservato come una reliquia, come faccio io con le vecchie lettere degli amici. Ma sarebbe stata un’altra cosa: senz’altro più spontanea e intima, per cominciare. Ed era partita così, in effetti: ho davvero iniziato a scrivere sul quadernone nero, e sono andato avanti per una ventina di pagine. Poi ho pensato che questa sorta di testamento avrebbe potuto interessare non solo te, ma anche i tuoi fratelli, o qualche amico, e che per consentirgli un minimo di circolazione dovevo trasferirlo sul computer. Dal momento in cui ho cominciato a battere sulla tastiera la cosa mi si è trasformata tra le mani, perché è scattata la possibilità di darle un respiro e una diffusione più ampi, e di conseguenza la necessità di curarne sia pur minimamente la forma e la struttura.

Trent’anni fa non mi sarebbe neppure passato per la mente di battere a macchina tutti questi fogli in triplice copia, usando la carta carbone, per raccontarti cose simili. Un lavoro del genere lo avrei fatto, e l’ho fatto effettivamente, solo per argomenti decisamente più “seri” ed importanti. Conservo ancora decine di bloc notes con le successive versioni di ogni singolo capitolo, zeppe di correzioni e cancellature e asterischi di rimando: una fatica di Sisifo. Oggi invece sono stimolato ad andare avanti dalla possibilità di dare immediatamente a ciò che scrivo una forma diciamo editoriale, di tornare più volte sul testo, modificarlo a mio piacimento, tagliare, incollare e leggerlo in tempo reale in una possibile stesura definitiva: posso in pratica produrre un libretto che ha la dignità, almeno per quanto concerne la confezione, di una qualsiasi opera a stampa, e controllarne completamente ogni fase, dall’ideazione alla diffusione. Questo mi rende più libero e mi induce a scrivere, indipendentemente dalla destinazione. Se poi aiuti o meno a scrivere cose sensate, è un altro problema. Ho ancora l’impressione che il computer, proprio perché conferisce immediatamente alla scrittura l’autorevolezza della stampa, non consentirà mai di distillare capolavori come “Il rosso e il nero” o “Guerra e pace”, e sia piuttosto adatto a produrre piatti da fast food, per un consumo superficiale e frettoloso; ma forse è solo un mio pregiudizio, o forse la scrittura non può davvero che riflettere lo spirito del tempo.

Il fatto è che l’introduzione del computer ha cambiato il rapporto con ciò che si scrive. Era già accaduto nel medioevo con quella della carta, che facendo crollare i costi del materiale di supporto aveva consentito un enorme sviluppo della scrittura lirica e intimistica, e nel Rinascimento con il passaggio alla stampa, che aveva creato il mercato editoriale, rivolgendosi ad un nuovo pubblico e rivoluzionando l’attitudine sia degli autori che dei lettori. Anche l’argomento di cui ti parlo, una biblioteca, rientra in questo settore, quello della conservazione, della memoria del sapere. Vedi quindi che ci siamo dentro fino agli occhi.

Ma c’è di più, e riguarda strettamente te. Ti ho seguito con curiosità nei tuoi primi approcci alla scrittura e alla lettura, e nella evoluzione rapida che ti ha portato in questi due anni ad essere cittadina di un altro mondo, quello degli alfabetizzati. A dispetto della tua testardaggine e di una certa pigrizia, che ti porta a preferire che sia io a leggerti qualcosa, ho notato quanto sia avida di parole, tanto che credo conosca già buona parte dei titoli di questo studio, perlomeno quelli che ti suonano un po’ strani: ma soprattutto mi accorgo che è cambiato anche il tuo rapporto con le cose, dopo che le parole che le indicano hanno preso una consistenza scritta. Sei passata da una cultura uditiva ad una visiva.

Più in basso, nello stesso scaffale, un’intera fila di volumi è dedicata ad uno dei temi chiave per lo studio della modernità, quello della percezione del tempo. Cose come la “Storia del tempo” di Landes, “L’ordine del tempo” di Pomian, “Tempo privato” della Nowotny, “La freccia del tempo” di Coveney, “Computus” di Borst, “Le macchine del tempo” di Cipolla, e almeno un’altra ventina. Ho coltivato per anni una vera ossessione per la storia delle concezioni del tempo, ossessione che correva parallela a quella per l’ebraismo e che oggi finalmente si è risolta nella constatazione che si trattava in sostanza dello stesso tema. Ma qui entriamo davvero in un argomento tutt’altro che abbordabile. Facciamo come sopra, lasciamo perdere gli ebrei e la modernità e vediamo come influisce la percezione del tempo sulla nostra vita quotidiana.

Dopo aver letto decine di volumi al riguardo, oggi, rispetto a cosa sia il tempo, ne so meno di prima: ma so almeno come è stato interpretato il concetto nelle varie epoche e nelle varie civiltà, e che per un Tupi-Guarani o un nordafricano non ha senso la puntualità come noi la concepiamo, perché non ha senso l’idea dell’ora e del minuto. Può sembrar banale, ma è uno dei fattori principali di incomprensione tra le diverse culture, e quando non se ne ha consapevolezza non esistono nemmeno i presupposti per accettare gli altri. Questo vale soprattutto per persone come me e te, maniache della puntualità e sempre un po’ in anticipo, a scalpitare perché gli altri la prendono comoda.

Voglio dire che fin che rimaniamo all’interno della nostra cultura e del nostro schema di vita l’impegno alla puntualità e la pretesa che siano puntuali anche gli altri sono doverosi, perché se si conviene di giocare ad un certo gioco, nel quale valgono determinate regole, chi non le rispetta viola un tuo diritto, non rispetta nemmeno te. E su questo ritengo si debba essere intransigenti. Ma è importante ricordare che non si tratta dell’unico gioco possibile, e che in presenza di altre culture e altre tradizioni occorre essere elastici, e magari accettare di cambiare o di allentare un po’ le regole. I libri che vedi non parlano esattamente di questo, ma lo fanno capire nel momento in cui ti raccontano come sono state create le regole del gioco al quale stiamo giocando. E ora, per rispetto delle regole e del tuo tempo, procediamo.

Subito sotto il ripiano degli studi sul tempo viene il settore che raggruppa campi di indagine vari e peregrini, quelli cui ho già accennato parlando di emarginati e devianti, cose tipo la “Storia dei costumi sessuali” o la “Storia del cibo” di Tannahill, con tutti gli altri titoli che ruotano lì attorno. Non hai che da scegliere: sotto il nome di Piero Camporesi trovi ad esempio “Il pane selvaggio”, “Il paese della fame”, “Il sugo della vita”, “La carne impassibile” e “Le officine dei sensi”, ma poi ti puoi sbizzarrire con “La fame e l’abbondanza” di Montanari o “Le pentole del Diavolo” di Meldini, o addirittura con la storia della patata, del caffè, del tabacco, dei generi voluttuari, delle droghe e così via. Lo stesso per la sessualità, magari tra qualche anno: puoi partire da “Il sesso e l’Occidente” o da “Sesso e società alle origini dell’età cristiana” e andare avanti, attraverso la “Storia della sessualità”, “Secondo natura” e tutto il resto, fino all’immancabile “La volontà di sapere” di Michel Foucault. E poi, per tirarti su il morale, ci sono storie delle malattie, delle epidemie, dell’anoressia, dell’igiene, “La peste nella storia” e “Sport e civilizzazione” di Elias (ecco dov’era finito!).

Se invece vuoi davvero saperne di più rispetto a quello che ti ho detto io sulla “Storia del fantasticare” puoi cominciare proprio da quel titolo di Elémire Zolla, o meglio ancora, da “Il regno segreto” di Robert Kirk, un bizzarro ecclesiastico del seicento che sa tutto su fate, elfi, gnomi e compagnia, e poi spostarti a “L’immaginario medioevale” di Le Goff e a tutto un ripiano su “Demoni, mostri e meraviglie”, che spazia dalla demonologia alla stregoneria, al ritorno dell’anticristo e agli apocalittici, alle concezioni della morte nelle varie epoche e presso i diversi popoli, fino alle svariate rappresentazioni dell’aldilà. Insomma, avrai capito che c’è di tutto un po’ e che raccontarlo nel dettaglio significa solo saltare cose tutte altrettanto importanti e godibili. Non voglio guastarti il piacere di scoprirle, a suo tempo, poco alla volta.

Psicologia e psicoanalisi

Proprio in fondo, seminascosto dalla scrivania allo sguardo del visitatore, trovi infine il settore dedicato a Psicologia e Psicoanalisi, che comprende oltre ai testi di carattere generale le opere di Freud, di Jung e di Adler, nonché quelle di Lacan, di Ferenczi, di Laing e anche due o tre “Psicologie del sesso”. Sarà perché da queste ultime, malgrado tutte le migliori intenzioni, non ho ricavato niente, nel senso che ho rinunciato a darmi una spiegazione dei meccanismi psicologici e delle differenti impostazioni nel rapporto tra i sessi, o forse semplicemente perché conosco diversi psicologi e psicanalisti: sta di fatto che non ho in gran simpatia queste discipline. Lo so che questi non sono argomenti corretti per giustificare un rifiuto, e che gli psicanalisti televisivi stanno a Freud come Badget-Bozzo sta a Cristo: ma, proprio come per il cristianesimo o il comunismo, credo che tutto ciò che può essere così banalizzato, e stravolto da promessa di liberazione a strumento di potere, nasconda un vizio d’origine.

Non voglio complicarti la vita, e se da grande oltre che la ballerina vorrai fare anche la psicologa o la psicoanalista non metterò becco. Sappi però che mentre ritengo illuminante la lettura di Freud, soprattutto di quello maturo de “Il disagio della civiltà” e di “Mosé e il monoteismo”, sono decisamente scettico sulle applicazioni terapeutiche delle sue teorie, e anche molto infastidito dalla tendenza, per fortuna in calando, a interpretare in termini edipici qualsiasi sospiro. Per capirci, mi irritano quelle persone che leggono in ogni tuo gesto o parola, fosse anche il piacere di lavorare in campagna, significati reconditi e pulsioni sessuali represse, e più ancora quegli studiosi che applicano lo stesso decoder alla letteratura o alla storia.

Ma questi sono fattori che discendono da una scorretta applicazione della teoria, o dalla trasformazione di quest’ultima in una dottrina. Il difetto d’origine che imputo invece più in generale alle discipline dell’ambito psicologico consiste nella tipizzazione, cioè nella necessità di ricondurre i comportamenti individuali entro schemi di lettura generalizzanti, che per quanto elastici sono comunque delle gabbie. Non che questi strumenti e questi schemi interpretativi siano privi di fondamento, ma è bene aver sempre chiaro che dal momento che ingabbiano la realtà sono applicabili giusto ad uno zoo, e non alla libera savana. Voglio dire che quando accampano la pretesa di spiegare tutto sono attendibili come la fisiognomica o l’astrologia, e che questa pretesa l’hanno accampata troppo spesso. Non mi riferisco agli psicologi da baraccone che vengono interpellati dai telegiornali ogni volta che cambia il tempo, ma alla presunzione di certe interpretazioni storiche, ad esempio, o letterarie, che spiegano le campagne di Napoleone o le favole di Andersen con l’omosessualità latente o manifesta.

Ho anche l’impressione che le quotazioni di queste discipline nella borsa della cultura siano in rapida discesa, e questo naturalmente comporta il solito rischio di buttare via l’acqua col bambino dentro. Ma è un problema che tocca un po’ tutti gli ambiti culturali, anche quelli in apparente salita, e nasce dalla stessa confusione tra il divulgare e il banalizzare di cui ti parlavo a proposito della storia.

In definitiva, confesso che non sarei in grado di darti indicazioni per un percorso di avvicinamento. Posso al più sconsigliarti Lacan, o Deleuze e Guattari, ma solo perché non ci ho capito letteralmente nulla, e magari consigliarti Freud, perché scrive decentemente, e Morin o Piaget, perché dicono cose chiare e più che sensate. Ti prego soltanto di una cosa, prendimi come sono, non ti sforzare di analizzarmi troppo, magari a partire da queste pagine.

Filosofia

Di una posizione di ben altro rispetto, almeno per quanto concerne materialmente la collocazione, gode la Filosofia, che occupa la gran parte del primo scaffale da sinistra della parete B. Ho parlato poco di Filosofia sino ad ora, per la più semplice delle ragioni: non ho molto da dire. Non ho avuto la fortuna di incontrare al Liceo uno di quegli insegnanti che ti appassionano, che ti fanno scalare lezione dopo lezione le vette dell’ingegno e godere le meraviglie della speculazione umana: uno alla Augusto Monti, per intenderci. Il mio era senz’altro preparato, per carità, dava l’idea di conoscere tutto di prima mano, da Talete a Croce, ma non aveva alcun senso dell’ironia, nei confronti nostri e soprattutto nei propri. Pretendeva uno studio mnemonico, la ripetizione pedissequa di appunti presi praticamente sotto dettatura, e non tollerava il minimo accenno di riflessione personale. Magari aveva anche ragione, sarebbe stata solo presunzione discutere di cose delle quali si aveva una conoscenza del tutto superficiale, e così facendo ci insegnava un po’ di utilissima umiltà: ma gli fosse una volta capitato di farsi sfuggire che dietro quelle idee c’erano delle teste, e dei corpi, e delle storie, che Schopenhauer aveva buttato dalle scale la padrona di casa e Spinoza era morto praticamente di fame. Niente. Mai un pettegolezzo, mai un dubbio.

Era anche il mio insegnante di Storia, ma per Storia avevo l’antidoto del Cantù (e infatti, non c’era nulla che lo facesse andare fuori dei gangheri come i miei tentativi di insaporire un po’ le cose), mentre il manuale che avevo in uso per filosofia somigliava a chi lo aveva adottato, grigio, pesante, con biografie in nota di quattro righe, da leggersi con la lente. Ho dovuto attendere l’uscita in economica della “Storia della filosofia occidentale” di Bertrand Russell, per riconciliarmi con il pensiero filosofico. Ma è stato un riavvicinamento freddo: forse non ho acquisito gli strumenti adatti, o forse, più probabilmente, ho dei limiti congeniti di disposizione, sta di fatto che dopo aver provato a leggere Hegel ho sofferto di cefalee per quattro anni, e Kant e Heidegger li ho mollati al primo sintomo, cioè grosso modo dopo dieci pagine. C’entra senza dubbio anche in questo caso la mia soggezione alle simpatie personali, che prescindono dal valore intrinseco del pensiero e sono motivate dalle ragioni più stravaganti: tant’è vero che sono invece riuscito a leggere Spinoza, Bruno e Vico, che quanto a chiarezza e semplicità te li raccomando. Per altri autori, come Platone, Montaigne e Nietzche, è stato decisamente più facile, ma in quei casi se non altro la scrittura era nitida e affascinante.

Insomma, pur partendo da una preparazione di base squadrata da ogni lato e da quaderni di appunti in bella copia che parevano lo Zibaldone, devo confessare che non sono stato in grado, dopo, di compiere un percorso sistematico o minimamente logico nel pensiero filosofico. Sono tornato ad interrogare la Filosofia solo occasionalmente, di sponda, sulla scorta di rimandi provenienti da altre discipline, e allora mi è magari capitato di scoprire con rammarico che in quei testi c’erano già tutte le risposte che stavo cercando da un pezzo. Così ad esempio è stato per la filosofia dell’umanesimo, quando ho dovuto scendere un po’ più in profondità in funzione di un lavoro storico, o per il pensiero illuministico, al quale mi hanno ricondotto gli interessi per il razzismo e l’utopismo.

Ho notato comunque che le risposte significative venivano piuttosto dagli autori marginali, spesso da pensatori in prestito alla filosofia, piuttosto che dai grandi edifici concettuali. La perfezione delle linee del pensiero di persone degnissime come Kant ed Hegel mi ricorda un po’ i dipinti sulle città ideali del Rinascimento: bellissime, perfette, ma disabitate. Si sente che quello che disturberebbe il quadro sono gli esseri umani con la loro vita, le loro attività, il loro vociare.

Non voglio però farla troppo lunga, soprattutto dopo aver affermato all’inizio che non ho niente da dire. I testi ci sono, di pilastri come Platone o Kant trovi senz’altro le opere più significative, solo Nietzche è rappresentato pressoché al completo, e in più ci sono alcune ottime storie del pensiero filosofico, che mano a mano hanno integrato quella di Russell: Cassirer, Chatelet, De Ruggiero, Reale, ecc. Per quanto concerne me torno a dire che le risposte di fondo le ho trovate in autori non citati in queste storie, come Leopardi o Camus, e ultimamente in un pensatore che rifiuta esplicitamente la qualifica di filosofo, Isaiah Berlin. Rispetto al pensiero di Leopardi sono stato anche un precursore, perché la sua rivalutazione come filosofo è di quest’ultimo decennio, mentre io lo leggevo come tale quaranta anni fa. Cercherò di impedire che la scuola ti guasti il piacere della sua frequentazione, come in genere purtroppo accade, quindi avremo modo presto di riparlarne. Per adesso sappi che ciò che allora, a sedici o diciassette anni, me lo faceva sentire vicino, non solo come poeta ma come pensatore, era la constatazione di una identità di sentimenti in situazioni di vita tanto diverse. A vent’anni scoppiavo di salute, la campagna mi aveva irrobustito ed ero tutt’altro che timido e impacciato con l’altro sesso, eppure sapevo, o meglio sentivo, che quella era la mia visione del mondo, che non c’entrava per nulla il pessimismo, che Leopardi non era uno sfigato ma un uomo coraggioso, capace come nessun altro di guardare in faccia la verità e di non distogliere lo sguardo. E la conferma che questa affinità non ha nulla a che vedere con una condizione di vita ma discende da una consapevolezza esistenziale l’ho trovata successivamente in Camus.

Quanto a Berlin, si tratta invece di un acquisto tardivo. Ho scoperto Berlin attraverso le sue letture del pensiero di Vico e di quello di De Maistre. Al contrario di quanto accaduto con Leopardi, a Berlin potevo arrivare solo alla fine di un lungo percorso, perché non propone una visione della vita, ma una interpretazione dei fenomeni culturali, del pensiero, e quindi parla a chi con questi temi abbia un minimo di dimestichezza. Ne “Il legno storto dell’umanità” e “Il riccio e la volpe”, che ti consiglio di leggere tra circa trent’anni, a meno che non abbiamo la ventura di farlo prima assieme, trovi delle verità semplicissime, evidenti, ma forse proprio per questo non considerate degne della speculazione filosofica. Il che mi porta a pensare che poi tutto sia molto più semplice di come appare, e che ogni tentativo fatto dall’uomo di complicarlo sia un modo di sfuggire, tramite la cultura, proprio alla consapevolezza.

SAGGISTICA 3) Storia della Scienza

 Se fai un ultimo sforzo (giuro!) e sposti lo sguardo verso la parete D trovi finalmente la storia della scienza. Come puoi constatare è suddivisa in due sezioni. La prima, sulla sinistra, comprende la storia della scienza vera e propria: ci sono trattazioni generali sulle origini e sugli sviluppi del pensiero scientifico, storie delle diverse discipline (affascinante quella della matematica: se me l’avessero raccontata al liceo non sarei diventato un Galois, ma probabilmente mi sarei evitato il quattro) o monografie su protagonisti e momenti particolari delle stesse. Tra qualche anno potresti essere intrigata soprattutto da queste ultime. Ad esempio da uno studio di Giorgio di Santillana, “Il mulino di Amleto”, che cerca di dimostrare come già in tempi remotissimi nel vicino Oriente fosse conosciuta la precessione degli equinozi. Non so quanto possa fregartene, e nemmeno quanto siano attendibili le conclusioni, ma senza dubbio è trascinante la cavalcata attraverso i miti cosmologici arcaici e la loro interpretazione. Molto bello è anche “I sonnambuli” di Koestler, sui protagonisti della rivoluzione astronomica del ‘500: un conto è conoscere le leggi di Keplero, un altro è immergersi nella vita disperata e avventurosa del loro scopritore, e constatare come le intuizioni più geniali possano discendere da stravaganti fantasie. O ancora, per farti un’idea di quale verminaio sia talvolta l’ambiente scientifico, di quali giochi di invidie e di potere si celino dietro il confronto tra le diverse teorie, e ne determinino spesso il rifiuto o l’accettazione, potrai leggere “Costantinopoli 1786”; è il resoconto di una controversia settecentesca, ricostruita con divertita malizia da uno studioso che tu stessa già conosci, Paolo Mazzarello. Il fatto è che quando vengono raccontate con passione e intelligenza (vale a dire rispettando le motivazioni e le curiosità elementari del profano) diventano coinvolgenti persino la storia dello “Zero” di Robert Kaplan o la “Breve storia dell’infinito” di Zellini: per non parlare poi di cose come “L’ultimo teorema di Fermat” e di “Codici e segreti” di Simon Singh, o dei libri di Guejdi, “Il teorema del pappagallo” e “Il meridiano”, scritti con l’occhio al grosso pubblico. C’è una grande fioritura in questi ultimi anni, un vero e proprio boom della divulgazione scientifica, soprattutto relativa alla matematica. L’unico problema è che in genere questi libri vengono letti da chi di divulgazione non avrebbe bisogno. Si ha addirittura l’impressione di un spreco, perché coloro cui sarebbero davvero utili non sanno che farsene.

A destra c’è invece la sezione più ricca, sulla quale ci soffermeremo un po’ più a lungo. È dedicata alla storia naturale, ma in senso molto lato, perché come ti ho anticipato comprende testi di antropologia e di etnologia, che di norma sono collocati tra le scienze umane. Si tratta anche del settore più giovane: mi sono adattato tardi all’idea che per capire qualcosa dell’uomo lo si deve accettare innanzitutto come animale. Probabilmente sono un po’ lento di mio, ma credo che abbiano avuto il loro peso anche l’ambiente e l’educazione.

In gioventù non ero attratto dalle scienze naturali. La natura la davo per scontata, mi piaceva e ci vivevo immerso tutti i giorni, ma non mi incuriosiva più di tanto. Non ero di quelli che raccolgono e classificano le pietre o le farfalle. Le pietre preferivo lanciarle, ero anche piuttosto bravo, e le farfalle le lasciavo volare. Ancora oggi riconosco un film da un paio di fotogrammi e molti libri da un solo paragrafo, ma non ho imparato a distinguere le varietà di pesci che popolano il Piota o quelle delle erbacce che infestano la vigna.

Nemmeno dai tuoi nonni arrivavano incoraggiamenti in questo senso. Vivevamo di agricoltura, ma solo col tempo mi sono reso conto di quanto mio padre amasse e conoscesse la sua terra. All’epoca mi sembrava che considerasse la natura piuttosto una forza da combattere, domare e talvolta subire: grandinate, malattie delle viti, raccolti sempre in pericolo. Mia madre poi pativa particolarmente questa situazione: aveva per me altre ambizioni, mi voleva colto e affermato, e anche molto salesiano, alla san Domenico Savio, tutto spirito e niente carne.

Meno che mai, naturalmente, ero stimolato dalla scuola. Ho mandato a memoria elenchi interminabili di ordini, generi, specie e sottospecie, dicotiledone e monocotiledone, vertebrati e invertebrati, giusto per il tempo di superare una interrogazione, e senza trovare una sola volta un motivo valido per non dimenticarli. Avrei avuto bisogno di un approccio un po’ più “storico”, ma i testi di scienze delle medie e del liceo non menzionavano affatto Darwin o l’evoluzionismo, e i miei insegnanti si sono guardati bene dal farlo. Anche se non esisteva alcun divieto specifico persisteva l’impostazione data quarant’anni prima da Gentile, e veniva applicata la più efficace delle censure, quella del silenzio. O forse era pura e semplice ignoranza. Allo stesso modo i manuali di storia non prevedevano, con perfetta coerenza, un minimo di riferimento alla preistoria: non rientrava nell’ambito disciplinare. Ho creduto per anni che i dinosauri fossero un parto della fantasia di Giulio Verne. Sul serio.

Quale ne fosse la causa, resta comunque il fatto che questo disinteresse naturalistico ha profondamente segnato la mia formazione. Anche dopo la grande apostasia dei dodici anni, quando ho cominciato a professarmi non credente, non avevo rinunciato alla speranza che il genere umano fosse qualcosa di speciale, che esistesse se non un’anima almeno una dimensione spirituale discesa da chissà dove, e che il mondo e la nostra esistenza fossero comunque iscritti in un disegno. Per me la vicenda dell’uomo era una crescita lineare più o meno continua dalla barbarie alla razionalità, una versione laica dell’ascesa dalla materia allo spirito, dal peccato alla salvezza. C’entravano senz’altro l’educazione cattolica e l’istruzione di stampo ottocentesco, ma c’era anche molta attitudine congenita.

Capirai che, messa la questione in questi termini, tutto ciò che riguardava il non-umano, il pre-umano o il pre-storico non mi interessava. Le conferme di un cammino necessario dell’umanità verso la perfezione le trovavo nella storia, nelle arti, nella letteratura. Ogni nuova lettura mi portava sulla tracce di questo disegno, anzi, costituiva essa stessa una traccia: e anche i primi dubbi non sono nati da una improvvisa conversione scientifica, ma dalle suggestioni letterarie e poetiche leopardiane. Il percorso successivo, quello che mi ha portato a riconsiderare l’uomo sotto la sua specie animale, è stato compiuto tutto a ritroso (ma forse è proprio così che si compiono tutti i percorsi veri: si parte dalle certezze per approdare infine ai dubbi).

Quel sospiro mi dice che boccheggi, rassegnata a sorbirti un altro spiegone. Non hai più nemmeno la forza per protestare, e ne approfitto. Capisco che ne abbia le scatole piene, ma se mi interrompo adesso non ti becco più. Per cui mettiti buona e seguimi ancora per poco. Tra l’altro andiamo su argomenti con i quali hai già una certa confidenza: abbiamo chiacchierato più volte dell’evoluzione e nella bibliotechina della tua cameretta ci sono almeno sei o sette libri che ne parlano. So di comportarmi un po’ come mia madre, ma in compenso non ti nego anche un’educazione religiosa. Spero non abbia difficoltà, tra qualche anno, a scegliere.

Non quante ne ho avute io, perlomeno. Ho cominciato a dubitare della strada a corsia unica che avevo imboccato, quella dell’interesse storico-politico, appena si è trattato di fare concretamente politica e di approfondire seriamente la storia. Altro che perfezionamento: una vera schifezza. Ma non è stata un’illuminazione folgorante: ero piuttosto ostinato (si, è l’equivalente di zuccone: anche questo l’hai preso da me), per cui il ripensamento è stato lento, ha fatto un giro largo e ha disegnato i contorni di quello che a scuola voi chiamate un insieme, includendovi conoscenze e discipline (la genetica, la biologia evolutiva, la paleontologia e la paleo-antropologia, l’etologia, la neurofisiologia, ecc…) che al momento della partenza mi erano assolutamente estranee.

Va bene, la pianto con le metafore. Stavo solo cercando il modo per renderti comprensibile un percorso tutt’altro che lineare, e ora mi accorgo che quello più semplice è seguire la collocazione dei volumi: non ci avevo mai fatto caso, ma raccontano anche visivamente l’evolversi di un interesse. Come vedi vanno da “Tristi Tropici”, primo a sinistra del ripiano in alto, ad “Armi, metalli e malattie”, ultimo a destra, tre ripiani sotto. Da un classico dell’antropologia alla genetica delle popolazioni. Quindi seguiamo quest’ordine.

Avevo inserito Antropologia ed Etnologia nel piano di studi universitario essenzialmente perché gli esami erano abbordabili (l’unico tipo di antropologia che mi aveva attratto fino a quel momento era quella della “Comédie humaine”), ma forse anche per bilanciare un po’ le astrattezze delle varie Filosofie Teoretiche e Filologie Romanze. Gli antropologi studiano infatti l’uomo nella sua dimensione culturale “totale”, gli etnologi mettono a confronto le diverse culture; ciò che li differenzia da altri studiosi dell’uomo, ad esempio gli storici o i sociologi, è il fatto che il loro lavoro non si svolge a tavolino, ma sul campo, cioè in mezzo alle popolazioni studiate. Quindi si tratta di una concretezza di metodo, prima ancora che di contenuti. Quanto a questi ultimi, in genere l’antropologia e l’etnologia si occupano di culture primitive o elementari (non sempre, ma prevalentemente), e studiano l’uomo nel suo stato primordiale.

Ho trovato queste discipline sorprendentemente interessanti, anche se i corsi erano noiosi e i docenti si facevano vedere di rado: gli studi di Malinowski, di Levi-Strauss, di Evans Pritchard o di Marcel Mauss davano risposte nuove alla mia curiosità per il diverso e riempivano molti degli spazi lasciati vuoti dal lavoro storico, perché parlavano in fondo proprio dei “perdenti”, di quei popoli che il treno lo avevano perso. Il fatto è che leggevo ancora ogni diversità semplicemente come un ritardo. Simpatizzavo per i primitivi e per i “selvaggi” con il cuore, non con la testa: non mi sfiorava il dubbio che avessero il sacrosanto diritto di rimanere tali e di essere fieri della loro cultura. Ero persuaso che se aiutati e trattati in un certo modo avrebbero potuto civilizzarsi e apprezzare i vantaggi del modello occidentale (il che in qualche modo giustificava la missione dell’occidente). In fondo arrivavo dalle letture di Verne e di Kipling. Mi credevo un romantico, ma senza saperlo ero un illuminista e un positivista: confidavo nella forza della ragione e in quella dell’elettricità.

In questo non ero poi così lontano dagli altri della mia generazione; per un verso o per l’altro il fenomeno del terzomondismo, che ha caratterizzato il periodo tra la metà degli anni sessanta e la fine dei settanta, era un modo per trasferire altrove speranze e utopie che in occidente non avevano più storia. Si guardava ai popoli del terzo mondo non per quello che erano, ma per ciò che sembravano ancora in grado di fare e di diventare, naturalmente a patto di sposare ideologie e comportamenti politici appresi dall’occidente.

In sostanza le diverse culture, il loro sviluppo, le ricorrenze e le similitudini mi interessavano non in sé, ma perché ero alla ricerca di un comune denominatore tra le forme di organizzazione sociale: quello che avrebbe dovuto costituire la base di una struttura organizzativa buona per tutti gli uomini e tutti i popoli. Paradossalmente invece questa ricerca, che mi metteva di fronte a modelli alternativi di civiltà proprio mentre andavo scoprendo le nefandezze dei “civilizzatori” occidentali, mi ha portato a guardare alla diversità in maniera nuova, a capacitarmi del fatto che non è possibile ricondurre a un’unica soluzione tutte le situazioni, e a considerare determinante non tanto la permanenza delle strutture, quanto quella dei comportamenti.

Mi spiego: le strutture, le forme di organizzazione dei rapporti sociali, politici, familiari, possono dipendere dai tempi e dai luoghi, dalle situazioni di isolamento o di prossimità con altre culture, dal livello tecnologico, ecc…, insomma da fattori variabili, mentre i comportamenti di base dipendono da qualcosa di più costante e radicato, da una natura umana che è plasmabile dall’ambiente fino ad un certo punto, ma mantiene inalterati sul lungo periodo determinati caratteri fondamentali: il che comporta la possibilità nelle scienze dell’uomo, a differenza di quanto accade nelle scienze esatte, di trovare prodotti, risultati, livelli e direzioni di sviluppo diversi quando gli stessi fattori sono disposti in un ordine differente, ma anche di individuare all’interno delle differenze una continuità.

L’aver capito questo ha determinato lo spostamento dei miei interessi dalla storia prettamente “culturale” a quella naturale. Di lì sarebbe poi venuta la comprensione che i due cammini non sono affatto così distinti come si vorrebbe, anche se i binari sui quali viaggiano ad un certo punto si sono separati e soprattutto è cambiata la velocità di marcia sull’uno e sull’altro.

È stato un percorso lungo, tutt’altro che lineare, “puntinato” direbbero i neo-darwinisti, caratterizzato cioè da lunghe stasi e da improvvise mutazioni, corrispondenti ad incontri illuminanti. Niente di sistematico. Un po’ come quando si compone un puzzle: ci sono anche quelli che hanno metodo, partono dai bordi o che so io, ma di norma almeno all’inizio si va alla rinfusa, si combinano tessere in settori diversi, fino a quando non si intuisce grosso modo l’immagine e si può procedere sapendo quel che serve. Così viaggiavo io: una tessera tirava l’altra, e questa mi rimandava ad altre immagini e direzioni. Da Marvin Harris (“Cannibali e re”, “La nostra specie”, “Buono da mangiare”) ho appreso ad esempio che la sacralità delle vacche indiane non è il retaggio di una religiosità delirante, ma uno strumento per garantire la sopravvivenza. Molto interessante, mi dirai: ma poi? Poi c’è che ho dovuto riconsiderare il ruolo della religione, convincermi che non è solo oppio dei popoli, alla maniera di Marx, ma ha un suo preciso ruolo economico e sociale, attraverso la sacralizzazione di certi comportamenti, la creazione di tabù, ecc. Era un esempio di come la cultura pieghi e addomestichi la natura. Le indicazioni in questo senso che avevo trovato nei libri di Eliade e René Guénon non mi avevano convinto, perché la loro interpretazione del fenomeno era totalmente spiritualistica. Ora mi davo spiegazioni accettabili.

Ma Harris, che è un antropologo con una preparazione ed uno sguardo a trecentosessanta gradi, mi ha anche insegnato che il sistema di raffreddamento del corpo umano è diverso da quello degli altri mammiferi, che perché il sudore evaporando dissipi tutto il calore prodotto in eccesso è importante che la nostra pelle sia per la gran parte glabra, o che i peli siano cortissimi, e che tutto questo è legato alla stazione eretta e al fatto che l’homo erectus per sopravvivere doveva correre sulle lunghe distanze, per cacciare o per fuggire. Di qui tutta una serie di altre conseguenze, sulle scelte sessuali, sulla nascita di canoni estetici, ecc…, che ci dicono quanto la natura condizioni la cultura. Insomma, mi ha fatto capire che ogni presunzione di interpretare la storia dell’uomo doveva almeno fondarsi sulla conoscenza delle sue origini e della sua preistoria.

Allo stesso modo, “I draghi dell’Eden” di Carl Sagan mi ha fatto intravedere per la prima volta il funzionamento del cervello, la determinazione naturalistica dei nostri comportamenti. Ho cominciato così a pormi anche in termini biologici il problema di come interagiscano e si combinino nell’uomo cultura e natura. Tutte le letture successive sono state mirate a sciogliere questo nodo, cercando indizi sia nella direzione biologica che in quella evoluzionistica (biologia e paleontologia), alla ricerca del quid che ad un certo punto ha staccato la specie umana da tutte le altre e ne ha fatto un caso eccezionale, nel senso di eccezione, non in quello di superiorità.

Le risposte più immediate non potevano venire che dalla paleontologia. La lettura de “L’evoluzione dell’uomo e della società” di C. S. Darlington mi ha convinto della necessità di risalire ancora un po’, per cercare una spiegazione al mistero: ma l’incontro che ha definitivamente orientato il mio “nuovo corso” è stato senza dubbio quello con “Il gesto e la parola”, di André Leroi-Gourhan. Lì ho trovato per la prima volta una descrizione esauriente del processo di “ominazione”, dalla liberazione della mano a quella della memoria. È un testo che risale a oltre quarant’anni fa, scritto da un etno-linguista, ed oggi la ricostruzione che offre dell’evoluzione culturale è almeno in parte superata: ma conserva intatto il fascino di un tentativo di sintesi insieme scientificamente corretto e coraggioso. Leroi-Gourahn ha inaugurato una sorta di “periodo francese” dei miei interessi, quello che mi spinto ancora più all’indietro, verso le teorie generali degli esseri viventi. Ho letto in successione una serie di studi comparsi in Francia nei primi anni settanta e riguardanti l’ereditarietà, le trasformazioni e le mutazioni a livello genetico, a partire dal fondamentale “Il caso e la necessità” di Jacques Monod e passando poi per Pierre-P. Grassé (“L’evoluzione del vivente”) e Francois Jacob (“La logica del vivente”). All’epoca queste nuove interpretazioni del darwinismo basate sui più recenti apporti della genetica avevano dato uno scossone al mondo scientifico, riaccendendo un dibattito che si era un po’ assopito. Lo stesso effetto lo hanno avuto su di me una decina d’anni dopo. Non so dirti quanto abbia veramente capito di tutti quei passaggi, digiuno com’ero di qualsiasi conoscenza di base in biologia: ma l’effetto generale senz’altro è rimasto, un’idea di come funzionava la faccenda me la sono fatta.

Queste letture hanno provocato poi due effetti indotti. Il primo è stato la spinta a risalire alle fonti, a leggere finalmente Darwin (e devo dire che le cose che ho trovato più interessanti sono l’autobiografia e la relazione del viaggio con la Beagle, com’era prevedibile). Il secondo è stato l’interesse per il dibattito sul darvinismo, sulle sue interpretazioni nel corso di un secolo e mezzo. Quest’ultimo mi ha portato, oltre che ad avere più chiari gli sviluppi della teoria, a incontrare personaggi stravaganti ed affascinanti, ma soprattutto capaci di rendere comprensibili persino a me i punti fondamentali delle loro tesi.

La palma in questo campo spetta senz’altro a J. B. S. Haldane. Haldane è un genetista inglese della prima metà del ‘900, che incarna in pieno la capacità della cultura anglosassone di tenere i piedi per terra e di combinare il rigore scientifico col piacere umanistico. Esattamente come accade per il suo contemporaneo Auden nella poesia, o per Hobsbawm negli studi storici. Tra qualche anno, quando dovrai affrontare gli scogli delle scienze naturali alle medie o nelle superiori ti farò leggere “Della misura giusta”. In mezzo ad una serie di interventi che toccano tutti i temi più svariati e apparentemente peregrini, dalla religione alla produzione del lievito, dalla non violenza alle fiabe e alla sterilizzazione, accomunati però da una visione disincantata del ruolo dell’uomo e della scienza, e soprattutto da uno stile paradossale e sarcastico, ti spiega ad esempio la funzione dell’emoglobina nel sangue in venti righe, concludendo così: ”Se infilate la testa in un forno a gas, dopo che siete morti le vostre labbra assumeranno un bel colore rosato. Ma il sangue che rimane rosso non serve a nulla, e voi sarete morti proprio perché il vostro sangue è rimasto rosso”. Leggendolo capisci cosa significa essere cresciuto nel paese di Swift e di Hornby, invece che in quello di Manzoni e di Moravia.

Non si tratta di snobismo o di esterofilia ipercritica: è solo la sconsolata constatazione della realtà della nostra cultura e della nostra scuola. Probabilmente c’è anche un po’ la rabbia per non aver goduto al momento opportuno di maestri di questo genere. Dove lo trovi uno scienziato e un docente universitario italiano che scriva così? Da noi il divorzio tra le due culture, probabilmente per influsso della controriforma, perché fino alla fine del cinquecento anche i nostri artisti erano al tempo stesso scienziati e umanisti, ha pesato moltissimo. La scienza si è ritirata nel suo gabinetto privato, ha elaborato un suo linguaggio iniziatico, è rimasta asservita al potere o ai poteri, quali che fossero. Negli anni in cui Haldane scrive queste cose in Italia gli scienziati firmano il manifesto sulla razza.

Faccio una digressione per esemplificarti la specificità negativa italiana. Quasi contemporaneamente ai saggi di Haldane avevo letto “Il tabù dell’incesto” di Fabio Ceccarelli, uno dei pochissimi studiosi nel nostro paese ad aver tentato una lettura originale del processo di ominazione, e lo avevo trovato ricchissimo di spunti, di intuizioni, di interpretazioni forse discutibili, ma senz’altro stimolanti. Per quanto ne so il libro non ha avuto nessun riscontro nella cultura ufficiale e nel dibattito scientifico nostrano, il che ti dà un’idea del muro di indifferenza nel quale cozzano da sempre in Italia coloro che hanno davvero qualcosa da dire. È altrettanto vero però che lo stile argomentativo di Ceccarelli è tutt’altro che piano e scorrevole, richiede una concentrazione continua e totale e un’aspirina alla fine di ogni capitolo, proprio per la radicata consuetudine italiana in base alla quale certi argomenti possono essere affrontati solo col taglio “alto”. Dubito che riuscirai a leggere “Il tabù dell’incesto”, e mi spiace, perché il libro vale e l’autore, che ho poi conosciuto, era una di quelle persone schive e genuine che si incontrano sempre più raramente.

Ma torniamo al nostro percorso. L’ultima parte è legata soprattutto alla scuola anglo-americana, rappresentata da paleontologi come Gould ed Eldridge e da biologi come Wilson e Dawkins. Prima ancora di Haldane potresti leggere “Il pollice del panda”, di Stephen Jay Gould, altro straordinario esempio di come si possa raccontare la scienza con stile, chiarezza ed humor. Anche qui si spazia tra gli argomenti più disparati, e viene raccontata ad esempio l’evoluzione dell’uomo servendosi di quella della figura di Topolino. Ti sfido a non capire e a non divertirti. Ma sotto il divertimento c’è una precisa visione dei meccanismi che portano all’emergere di nuove specie, di come operi la selezione e di come le bizzarrie della natura siano tali solo per i limiti della nostra capacità di comprendere.

Gould rimane indubbiamente lo studioso dell’evoluzione più famoso e letto degli ultimi decenni, ed oltre ad essere un ottimo divulgatore è anche esponente di una corrente della biologia evoluzionistica, quella “naturalistica”, che ha formulato la teoria più innovativa rispetto al darwinismo tradizionale, quella degli “equilibri punteggiati”. La sua posizione nell’ambito degli studi evoluzionistici è considerata “di sinistra”, perché concede largo spazio alla determinazione ambientale, oltre che a quella genetica, e perché non manca di denunciare l’uso della scienza a scopi discriminatori o razzisti. Al contrario viene considerata “di destra” la posizione dei “sociobiologi” o ultradarwinisti, un’altra corrente che riconduce ogni comportamento animale (e quindi anche umano) ad una competizione riproduttiva, all’egoismo genetico.

Proprio il dibattito seguito alla pubblicazione del saggio “Sociobiologia. La nuova sintesi”, di E.O. Wilson, all’inizio degli anni ottanta, mi ha fatto capire quanto pesino anche in campo scientifico i preconcetti. Avevo seguito la querelle sulle pagine de “Il Manifesto”, l’unico giornale libero al quale ci si potesse aggrappare negli anni del riflusso. La cultura di sinistra, scientifica e non, accusava Wilson, che è un entomologo, studioso delle società degli insetti, di voler applicare alle società umane gli stessi criteri interpretativi adottati per quelle delle formiche, considerando le une e le altre esclusivamente come cooperative per la riproduzione, finalizzate al gioco del “gene egoista”. È un po’ complicato da spiegare, ma la sostanza del contendere alla fine era questa: se si spinge alle estreme conseguenze il riduzionismo biologico, cioè la determinazione genetica dei nostri comportamenti, e si ritiene che questi siano esclusivamente controllati dalla competizione riproduttiva, ogni ipotesi di progresso sociale, di educazione all’altruismo, alla convivenza pacifica tra individui o gruppi o etnie va a farsi benedire, diventa una bella favola. Si giustifica la lotta, l’ineguaglianza, l’esistenza di gerarchie. E questo, evidentemente, è duro da accettare.

Qualcosa però non quadrava. Si capiva sin troppo bene che il rifiuto della sinistra era pregiudiziale, e nasceva il sospetto che troppi parlassero della questione senza conoscere di prima mano le argomentazioni e le teorie. Non sono arrivato a leggere il libro di Wilson che aveva scatenato il putiferio, per la ragione molto semplice che era introvabile e carissimo, ma ho apprezzato altre sue opere, quelle che trovi qui, come “L’armonia meravigliosa”, “Biodiversità” e “Il fuoco di Prometeo”: e ho scoperto che Wilson non diceva affatto quello che gli era attribuito, anche se diceva cose che potevano essere interpretate in quel senso. Ma non si può fare la guerra alle possibili interpretazioni sbagliate o forzate screditando un lavoro di per sé innovativo e rigoroso: si deve semmai cercare di darne una che ci sembri corretta. Non sto parlando di neutralità della scienza, non ci credo e non esiste: la scelta di una ipotesi, e prima ancora di un argomento o addirittura di un campo di indagine è una dichiarazione di parte. Semplicemente, penso che l’onestà intellettuale imponga di ascoltare almeno, e se possibile anche capire, le argomentazioni degli interlocutori.

Le ultimissime acquisizioni, quelle in fondo al ripiano più basso, vanno in una direzione che sembrerebbe mettere d’accordo naturalisti e sociobiologi. “Il pavone e la formica”, di Helena Cronin e “Uomini, donne e code di pavone” di Geoffrey Miller prendono le mosse da un aspetto a lungo trascurato della teoria darwiniana, quello relativo alla selezione sessuale, e ne documentano l’importanza ai fini della sopravvivenza della specie. Lo studio di Miller spinge un po’ oltre la cosa, in maniera volutamente provocatoria, fino a leggere ogni manifestazione culturale come una forma di “corteggiamento”, uno strumento per garantirsi il successo riproduttivo. Per quanto concerne le finalità sembrerebbe quindi sposare appieno le tesi degli ultradarwinisti, ma essendo l’autore uno psicologo e non un biologo finisce per riconoscere le modalità di azione della cultura proposte dai naturalisti.

Come vedi, alla fine tutto torna. La cultura umana nasce in risposta ad imperativi biologici, ma la componente biologica viene a sua volta modificata dall’evoluzione genetica, e questa evoluzione avviene anche in risposta alle innovazioni culturali. Due ottime sintesi dell’intero dibattito, che arrivano per l’appunto a questa conclusione, le puoi trovare ne “La lepre e la tartaruga”, di David Barash, un altro psicologo, e ne “Il cammino dell’uomo” di Jan Tattersall, un paleoantropologo. Il primo segue i percorsi paralleli e insieme incrociati dell’evoluzione biologica e di quella culturale, cogliendone implicazioni che toccano la demografia, l’ecologia, la tecnologia, ecc.: il secondo ricostruisce tutto l’albero evolutivo della specie umana. Sono testi talmente chiari e scorrevoli da entrare di diritto tra le mie ideali letture per scuole: forse otterrebbero un gradimento maggiore rispetto a “I promessi sposi”.

Andiamo a chiudere: ma ho il dovere di segnalarti ancora due studiosi, questa volta italiani, e non soltanto per salvare un po’ la faccia. Luca Cavalli-Sforza è un genetista di fama mondiale, e naturalmente lavora e insegna in America. Il suo “Storia e geografia dei geni umani”, quel volumone verde che sta a metà del ripiano, è ormai un classico della genetica delle popolazioni. A meno che non scelga di diventare una specialista del settore non lo leggerai mai, ma potrai trovarne un’ottima sintesi in “Geni, popoli e lingue”. Gli studi di Cavalli Sforza hanno fatto piazza pulita di tutti i falsi presupposti genetici sui quali si fondava il razzismo moderno. Oggi chi si appella ancora al presunto rapporto tra diversità naturali e inferiorità nei comportamenti o è in assoluta malafede o è un perfetto imbecille. Comunque, se vuoi saperne di più, a sinistra del volume verde trovi tutta una sezione di studi sul razzismo e sulla biodiversità.

Edoardo Boncinelli è invece un biologo, e rappresenta l’eccezione che conferma la regola italiana di cui sopra: è infatti un formidabile divulgatore e riesce a rendere chiare le cose più astruse, come il funzionamento del cervello e i meccanismi biologici. Leggendo il suo “Le forme della vita” ho avuto l’impressione che a dispetto di un cammino ancora lungo e probabilmente pieno di sorprese la scienza sia già molto avanti nella spiegazione del mistero umano, e che le conoscenze di cui dispone siano già sufficienti a delineare almeno il quadro generale.

Per intanto, quello che ho capito io di tutta la faccenda è che senza arrivare a considerarci delle macchine da riproduzione dovremo d’ora innanzi mettere in conto, in tutti i nostri progetti sociali per il futuro e nelle analisi storiche del passato, il peso enorme del fattore “natura”: questo naturalmente non per giustificare l’esistente, e quindi la rinuncia a ogni tentativo di miglioramento, ma per tenere i piedi per terra e affrontare realisticamente i problemi. Ormai sappiamo che l’evoluzione non è finalizzata ad uno scopo e che il suo strumento, la selezione naturale, non segue semplicisticamente la legge del più adatto: se così fosse, come diceva Haldane, i più adatti risulterebbero essere i poveri, che si moltiplicano decisamente più dei ricchi. Esistono anche delle retroazioni ambientali, dei fattori indotti che orientano in maniera diversa il cammino evolutivo. Nel caso dell’uomo il principale di questi fattori è la cultura, che modifica e imbriglia in molti modi quelle che sarebbero le spinte naturali. La forte determinazione genetica dei comportamenti umani è ormai comprovata dalla decifrazione della mappa del genoma: ma questo non cambia di una virgola il fatto che la cultura ci consente e ci impone un’assunzione di responsabilità. A noi i casi dell’evoluzione hanno dato la possibilità di scegliere, di sottrarci alla tirannia dell’istinto. Non so se sia un privilegio o una condanna: la Bibbia propende per la seconda ipotesi, ma io credo che visto che l’abbiamo dovremmo tenercela ben stretta, e usarla per il meglio.

Ora anche tu vorrai poter fare la tua scelta, e immagino già che sarà in direzione del giardino. Seguirai la tua spinta naturale, l’istinto geneticamente trasmesso a far capriole, ad arrampicarti sugli alberi e a dare la caccia ai gatti. Se però domani, o tra dieci anni, ti verrà voglia di entrare in questo studio non solo per giocare col computer, ma per sottrarre un libro agli scaffali e leggerlo, questa sarà una scelta culturale: vorrà dire che l’ambiente, pareti tappezzate di volumi, nomi e titoli che occhieggiano dai dorsi, un padre che non si muove senza avere con sé almeno due libri, per pararsi contro ogni emergenza, può addomesticare anche la natura più riottosa e selvaggia. Darai ragione a sia a Wilson che a Gould, e a me tanta felicità e un po’ di speranza.

E adesso, fila.

Appendice 2017

RITORNO ALLA STANZA DELLE MERAVIGLIE

Carissima Elisa,

sono trascorsi quindici anni da quando ti ho coinvolta nella prima scorribanda attorno alla mia biblioteca. All’epoca ne eravamo usciti entrambi abbastanza bene: io senz’altro, perché ero stato costretto a ripensare tutto il percorso che c’era dietro e sopra gli scaffali, ed era stato un po’ come ripercorrere la vita intera: tu abbastanza provata, ma con l’embrionale coscienza che quei volumi non erano un complemento d’arredo, avevano una storia e un senso propri, tutti da scoprire.

Da allora, dopo che ti avevo rispedita a giocare in giardino, nello studio sei tornata sempre più spesso, prima per necessità scolastiche o per semplice curiosità, poi, poco alla volta, per pescare autori e titoli che ti avevano intrigato (tra i primi Calvino e Pavese: ma primo fra tutti, ricordo, L’amante dell’Orsa maggiore). Naturalmente hai disatteso le mie raccomandazioni, non dando notizia delle sottrazioni e non lasciando alcuna indicazione del trasferimento di quei volumi ad altro luogo (la tua cameretta, i tuoi scaffali), creandomi in questo modo ansie e costringendomi ad affannose ricerche: ma alla fine va bene anche così. A un certo punto hai poi iniziato a manifestare la sindrome del possesso, a quanto pare ereditaria, per cui ricompri i libri che ti piacciono o che ti sono piaciuti e stai creando una biblioteca parallela: in questo modo i doppioni si sono moltiplicati, e tuttavia non posso dire che la cosa mi spiaccia.

La biblioteca-madre è ancora lì, ma sia lei che tu siete nel frattempo molto cresciute (per parte mia, temo di aver smesso di crescere da un pezzo). Ti invito allora ad una nuova ricognizione, sia pure meno minuziosa: diciamo un semplice aggiornamento. Questa rimpatriata ha un senso perché i tuoi interessi, alla maniera tua, molto riservata e a volte persino indecifrabile, sembra stiano prendendo quella piega che nell’intimo avrei auspicato, ma che sinceramente non speravo; e perché in questi interessi i libri hanno una parte fondamentale. È bene dunque rinverdire la conoscenza di alcuni settori della biblioteca che avevo trattato più superficialmente, anche in considerazione della tua età, di approfondire quella di altri e di rendere giustizia, per completezza, a quelli che dal nostro primo viaggio erano rimasti proprio esclusi.

 

Prima però ti devo qualche chiarimento sulla direzione che hanno preso da allora gli interessi miei, per spiegare la filosofia che sta dietro i nuovi apporti alla biblioteca. Nel viaggio precedente avevamo parlato soprattutto di letteratura, per la ragione che ho già citato: il primo approccio ai libri passa invariabilmente di lì. In quegli anni poi la letteratura rientrava ancora nelle mie discipline di insegnamento. Da allora però il suo peso nei miei equilibri culturali è andato gradatamente scemando, e oggi arriverei a dire che non ne ha quasi più alcuno. O meglio, mi spiego: non mi interessa granché ciò che di nuovo sta uscendo, perché al di là del diletto ho sempre cercato nella narrativa anche indizi per penetrare lo spirito, il clima di una società o di un’epoca: e la letteratura ne era necessariamente, assieme alle arti figurative, la spia più autorevole (della musica, sinceramente, so troppo poco per azzardarmi a parlarne). Oggi però la produzione letteraria si è totalmente adeguata alle logiche di mercato, al consumo rapido e alla ripetizione seriale, nel tentativo persino un po’ patetico di non essere spazzata via dai nuovi media: e non rispecchia quindi, se non in maniera molto distorta e preconfezionata, le tendenze di una società, ma solo le scelte furbesche di una industria. Ma c’è dell’altro: forse nemmeno più mi interessa capire dove stiamo andando, perché quel che capisco non mi piace. A dirla tutta, insomma, non sono più di quattro o cinque i libri di narrativa che ho letto sino in fondo, con gusto e con interesse, in questi quindici anni: e quasi tutti sono stati scritti più di mezzo secolo fa. Comunque, al di là delle mie preferenze e delle mie idiosincrasie, credo che ultimamente ben poco di nuovo e di significativo sia stato prodotto. In questo settore non potrò segnalarti molte novità.

 

Vedo peraltro che anche tu sei molto più orientata alla lettura dei classici, anche se ancora non ho capito se lo fai per genuino piacere o mossa da una sorta di senso del dovere. Quelli naturalmente ci sono tutti, già c’erano all’epoca della nostra prima visita, ma ora sono presenti in edizioni più accurate, più riccamente annotate e senz’altro più eleganti. Del Don Chisciotte, ad esempio, trovi ben tre diverse edizioni che hanno sostituito quella economica precedente, scassata e quasi illeggibile per la piccolezza dei caratteri. Ora, quando lo vorrai (so che ancora non lo hai fatto), potrai goderlo senza rovinarti gli occhi. Non hai più alibi.

Le entrate davvero nuove riguardano solo quei testi che un tempo consideravo marginali, e che oggi invece mi intrigano più delle opere di narrativa, cose come Il diario di uno scrittore di Dostoevskij, gli scritti polemici di Turgenev e di Chesterton, i Diari di Kafka e di Musil. Allo stesso modo i classici antichi sono presenti ormai tutti nell’edizione con testo a fronte, e questo, alla luce di quel poco che il liceo classico ti ha fornito, lo potrai apprezzare.

 

Hanno conosciuto invece un grande sviluppo i settori dedicati alla storia e alla filosofia, e nell’ambito del primo un sottogenere che in precedenza mi lasciava piuttosto freddo, le biografie. A esplodere letteralmente sono state però la storia della scienza e quella delle idee. Qui dovremo soffermarci un po’ più a lungo.

 

Mi rendo conto che in queste pagine non troverai le sorprese e le meraviglie che speravo di suscitarti nel corso del primo viaggio: ma sai benissimo che le sto scrivendo per me, prima ancora per che per te. Dovrebbero servire a fissare sommariamente le tappe più recenti del mio percorso di lettore, augurandomi che non siano le ultime, e a contrastare gli incipienti sintomi di Alzheimer che percepisco. C’è anche un’altra motivazione: spero che conoscendo la storia di questi libri avrai qualche difficoltà in più, nella remota ed esecrabile ipotesi che pensassi di farlo, a liberartene. So che sembra paradossale e anche un po’ paranoide, ma mentre non mi pongo il problema di cosa sarà di me “dopo”, mi assilla invece l’incertezza per la loro sorte. È il rovello del bibliomane. Non c’è cura, se non trasmettere a qualcuno il ruolo di vestale del tempio. Questo nuovo viaggio potrebbe rappresentare la cerimonia ufficiale di investitura.

Possiamo quindi cominciare.

Stipare

Vorrei procedere con ordine, riprendendo il criterio topografico seguito nel viaggio precedente. Questa volta però partiamo dal soggiorno. La definizione più appropriata per questo locale sarebbe “tinello”, perché comunica con la cucina e viene usato anche come sala da pranzo: ma è un termine ormai desueto, credo di impiegarlo solo io. Con la sistemazione attuale dell’arredo – ci sono solo libri e quadri – ed essendo l’unico nel quale è presente un apparecchio televisivo, potremmo cavarcela all’inglese, con living room.

Le scaffalature che lo caratterizzano (in senso stretto: danno un carattere diverso da quello originario) le ho costruite con le mie mani, come sai benissimo perché lo ripeto a tutti i visitatori. Ne vado particolarmente orgoglioso. Credo che uno scaffale ti rappresenti quasi quanto i libri che ci stanno sopra. Mi creano ansia i ripiani che si incurvano sotto il peso, cosa tipica ad esempio delle scaffalature Billy dell’Ikea: la trovo una mancanza di rispetto per i libri, per la loro importanza e per il loro diritto ad essere degnamente alloggiati. Allo stesso modo non posso soffrire gli scaffali metallici, o di qualsiasi altro materiale che non sia il legno (peggio che mai i ripiani di vetro). Sono materiali freddi, incompatibili con la carta. E ancora, assolutamente da escludere sono le scaffalature colorate o troppo lavorate, o quelle il cui valore antiquario soffoca quello culturale dei volumi ospitati. I libri, come gli umani, per vivere a loro agio hanno bisogno di dimore solide, calde, eleganti e funzionali nella loro semplicità, ma non ingombranti. Dimore come queste, appunto.

Ti sarai accorta (davvero te ne eri accorta?) che rispetto alla volta scorsa le collocazioni sono un po’ cambiate: ho sistemato un nuovo scaffale contro la parete che divide il locale dalla cucina, sfruttando al millimetro uno spazio che sarebbe rimasto inutilizzato per l’ingombro d’apertura della porta d’accesso. Questo mi ha consentito di trasferire qui in blocco tutta la letteratura italiana, e di riservare finalmente un intero ripiano (quello centrale, ovviamente) a Leopardi. Le edizioni dello Zibaldone, dell’Epistolario e delle Operette morali si sono nel frattempo moltiplicate. Non è stata una decisione semplice, ero abituato da decine d’anni ad avere quei volumi a portata immediata di sguardo: mi soccorrevano nei momenti di incertezza, senza nemmeno il bisogno di sfogliarli. Ora di Leopardi nello studio sono rimasti solo il piccolo busto in gesso che sta sulla mensola del caminetto e un ritratto giovanile appeso lì di fianco. Non è la stessa cosa: ma il trasferimento si imponeva, per conservare una parvenza di logica al percorso. Di positivo c’è che in questo modo Giacomo è entrato definitivamente in famiglia: partecipa alle nostre cene con gli amici, assiste alle nostre discussioni (immagino si diverta anche, e qualche volta si arrabbi) e soprattutto compensa come polo positivo quello negativo rappresentato dal microscopico teleschermo.

Ciò che ci interessa ora sta però nella parete di fronte, che in parte ti avevo già descritta all’epoca. Qui, come pure nello studio, sono intervenuto con operazioni di “ottimizzazione” (una bruttissima parola, ma in questo caso efficace) degli spazi, recuperando in pratica un ripiano per ogni colonna. Non si direbbe, perché rimane comunque la congestione dei libri in doppia fila, anche se quelli davanti sono disposti orizzontalmente e consentono di leggere i titoli di quelli dietro, o almeno di indovinarli. Ma figurati quale sarebbe la situazione se non avessi creato spazi nuovi. Gli sbarchi in questo settore sono stati davvero tanti.

Dal nostro precedente viaggio non ho più tentato di contare i libri (e meno che mai di catalogarli, cosa che invece allora mi ripromettevo). Mi limito a marchiare con il mio ex-libris col Viandante tutto ciò che entra, rimandando la creazione di un catalogo a tempi di carestia o eventualmente alla tua buona volontà. Stimo comunque che la dotazione complessiva sia aumentata di almeno un terzo, il che ci porterebbe tra i dodici e i tredicimila volumi. Mi avvicino alle cifre della biblioteca di Monaldo.

Ciò non significa però che in questo periodo abbia letto a ritmi industriali. Ho semplicemente accumulato testi, per lo più, come ti dicevo, di saggistica, che o erano funzionali a ciò di cui ho scritto nel frattempo (e gli argomenti affrontati sono parecchi, dalla storia del viaggio e delle esplorazioni a quelle dell’alpinismo, del cinema western, della democrazia greca, ecc…) o potevano diventare tali in vista dei progetti in cantiere. In molti casi hanno fornito essi stessi lo spunto per nuove investigazioni.

C’è poi da aggiungere che la frequentazione ormai assidua dei mercatini ha moltiplicato le occasioni di acquisto. Su un bancone di libri a un euro trovi sempre qualcosa che vale la pena di essere portato a casa. Ultimamente le scoperte più interessanti sono arrivate proprio di lì, da opere fuori commercio da decenni, che magari nemmeno conoscevo e che ho scovate per caso, attratto a volte solo dalla suggestione del titolo. Quei libri hanno fornito risposte a domande che stavo formulando da tanti anni. O meglio, penso che il segreto sia questo: mi hanno dato le risposte che avrei voluto trovare tanti anni fa, e mi hanno confermato che già allora avrei potuto trovarle. Il che crea un po’ di rimpianto, ma anche se in molti casi le risposte sono superate, l’averle finalmente ricevute ha colmato retroattivamente dei vuoti che mi portavo dietro da troppo tempo.

Viaggiare (a piedi e non)

Per una fertile combinazione di motivi (le cose che ho trovato per caso, quelle che ho ostinatamente cercato e quelle che ho scritto) la letteratura di viaggio ospitata nella parte destra della scaffalatura a tutta parete ha continuato in questi anni a debordare verso sinistra, a conquistare prima nuovi ripiani e poi interi scaffali e a costringermi a periodiche risistemazioni.

Dovessi scriverlo oggi, quindi, il capitoletto sul viaggio occuperebbe almeno il doppio di pagine. Le nuove scoperte, sia per quanto concerne le opere che per i personaggi, riguardano soprattutto la storia delle esplorazioni e dei viaggi scientifici. Provo a dartene sommariamente conto.

Scienziati-viaggiatori – Innanzitutto, i protagonisti. Ad Alexander von Humboldt ho dedicato un piccolo saggio biografico (glielo dovevo) e nel frattempo ho acquisito tutto ciò che di suo era reperibile, comprese le edizioni in italiano, in tedesco e in francese del Cosmos (e anche una parziale in inglese). Le lacune ora riguardano solo la corrispondenza: non esiste una raccolta completa in francese, e quella tedesca, in fase di edizione e tutt’altro che prossima al completamento, occupa già dieci volumi: in compenso ho trovato in Francia una scelta abbastanza ampia delle lettere scambiate con Bonpland, (A. von Humboldt, A. Bonpland – Correspondance 1805-1858, a cura di Nicolas Hossard), nonché una biografia di Bonpland (Aimè Bonpland, mèdecin, naturaliste, explorateur en Amerique du Sud, dello stesso Hossard), l’unica che conosco e che possiedo. A differenza di quarant’anni fa, quando è partita la mia Humboldt-mania, e quando era praticamente sconosciuto in Italia e dimenticato in patria, oggi lo scienziato-viaggiatore tedesco conosce un piccolo ritorno di popolarità grazie anche a due recenti biografie: Federico Focher ha scritto A. von Humboldt. Abbozzo di una biografia, mentre Andrea Wulf, già autrice de La confraternita dei giardinieri, gli ha dedicato quel volumone dal titolo L’invenzione della natura, sul quale, ti confesso, ho molte riserve. Insomma, anche il mio personalissimo eroe comincia ad essere macinato dall’industria culturale.

Sull’onda delle ricerche dedicate a Humboldt è cresciuta la curiosità per le biografie di altri scienziati-esploratori. Darwin, naturalmente (del Viaggio di un naturalista attorno al mondo possiedo quattro diverse edizioni, e due dell’Autobiografia, oltre alla biografia classica di Desmond e Moore, a quella leggermente più romanzata di Irwing Shaw, L’origine, e ai Taccuini); ma anche, e soprattutto, il suo corrispondente-amico-antagonista Alfred Douglas Wallace, un po’ meno ignoto anche agli italiani da quando il buon Federico Focher ne ha scritto una avvincente storia (L’uomo che gettò nel panico Darwin). Wallace è un personaggio che riserva un sacco di sorprese: oltre che esploratore, cercatore di specie, scienziato autodidatta, era un socialista umanitario, pronto a battersi per ogni causa, soprattutto per quelle perse, e un convinto spiritista, tanto solare e disposto a mettersi in gioco quanto Darwin era riservato e pieno di dubbi. Dei suoi scritti è stato finalmente tradotto L’arcipelago malese, divertente e commovente resoconto di quattro anni di avventure (e soprattutto disavventure) a caccia di nuove specie vegetali nel sud-est asiatico. Lo trovi accanto ai libri di e su Darwin (e a quello sullo spiritismo, che ho scaricato dalla rete).

La passione per la montagna mi ha aiutato a scoprirne il miglior interprete e precursore in Déodat de Dolomieu, l’“inventore” delle Dolomiti. Dolomieu ebbe un’esistenza che definire avventurosa è riduttivo. Fece le esperienze più disparate, da un duello mortale (per l’avversario) a sedici anni fino a venti mesi di assoluto isolamento in una fetida e piccolissima cella di un carcere borbonico, poco prima di morire: ma compì soprattutto una ricognizione minuziosa e completa di ogni vallata alpina. Era un camminatore formidabile, capace di sfiancare non solo i compagni di percorso ma anche i muli e i cavalli da soma, e uno spericolato arrampicatore, che tuttavia nei Viaggi sulle Alpi non rivendica alcuna delle innumerevoli vette da lui per primo conquistate. Per conoscerlo mi sono avvalso di una monumentale (ma piuttosto confusa) biografia scritta da Luigi Zanzi (Dolomieu, un avventuriero nella storia della natura) e ho poi ricostruito il resto attraverso la lettura diretta dei suoi resoconti di viaggio (Viaggi nelle Alpi).

Del tutto fortuita è stata invece la conoscenza dell’opera e della vita di Guido Boggiani. Attraverso un volume dedicato principalmente alla sua pittura (Guido Boggiani. Pittore, esploratore, etnografo, di Maurizio Leigheb) ne ho scoperto una seconda esistenza, quella di etnologo e viaggiatore (raccontata da Boggiani stesso nei Viaggi di un artista nell’America meridionale), che lo ha portato a vivere per anni ai margini del Gran Chaco paraguagio e a morirvi, ucciso da un indigeno, prima dei quarant’anni.

Altre storie come la sua, o come quelle di Wallace e di Dolomieu, ho trovato in un paio volumi piuttosto stagionati, I cacciatori di piante di Thaylor Whittle e Scienziati ed esploratori alla scoperta del Sudamerica di Victor von Hagen, e in uno recentissimo, Cercatori di specie, di Richard Conniff. Quella del viaggio a scopo scientifico è una vera e propria epopea, naturalmente poco conosciuta e per niente celebrata nelle nostre scuole, che ha cambiato non solo lo sguardo ma anche la quotidianità della vita dell’Occidente. I libri che ho appena citati offrirebbero ai nostri demotivati studenti, e non solo a loro, ben altri stimoli rispetto alle ricostruzioni politiche e militari, o a quelle della “cultura materiale”, cui si riduce in genere l’insegnamento della storia, e li aiuterebbero a coltivare un minimo di passione per le scienze e ad acquisire qualche fondamento etico.

Lo dico contro ogni apparente evidenza. Sai benissimo, ne sei anzi un esempio concreto, che anche nella tua generazione ci sarebbero potenziali lettori “veri”, da non confondere con i consumatori di thriller o di romanzetti da spiaggia, se solo qualcuno avesse il coraggio di proporre loro dei percorsi più impegnativi, ma proprio per questo più gratificanti. In realtà non è solo questione di coraggio: ci vorrebbero anche una conoscenza e una professionalità che alla stragrande maggioranza degli insegnanti non appartiene affatto: col che il discorso appare chiuso in partenza. Ma a monte di tutto questo c’è di peggio: c’è lo stupido convincimento, prodotto dalle cantonate sull’egualitarismo prese dalla mia generazione, che la cultura debba essere “facilitata”, distribuita a pioggia, anziché resa possibile e promossa come conquista individuale e come premio a se stessa.

Avventurieri ed esploratori – Torniamo però ai nostri viaggiatori. Attraverso un gioco di rimandi sono arrivato ad alcuni personaggi davvero singolari, avventurieri nel senso più letterale del termine. L’ultimo in ordine di comparsa, ma primo per collocazione storica, è Lodovico de Varthema. Ne ho trovato traccia nei testi di Herrmann e di Brilli di cui parlerò tra breve, ho poi acquisito una sua biografia (Lodovico di Varthema alle Isole della Sonda) e ho scovato infine le recentissime edizioni del suo Itinerario e del Viaggio alla Mecca. De Varthema si trovava già a Calicut quando, nei primissimi anni del ‘500, ci arrivarono i Portoghesi. Dalle mie parti si usa dire che quando Colombo approdò in America ci trovò i mandrogni che già gestivano un ben avviato giro d’affari. Bene, i lusitani trovarono senz’altro un bolognese che già aveva girato tutto il Medio Oriente e visitato le Isole della Sonda, pronto a far fruttare le informazioni accumulate e ad acquisirsi meriti (al ritorno in Europa fu insignito dal re del Portogallo della dignità nobiliare, oltre che di una pensione). Anche se probabilmente molte delle sue avventure sono enfatizzate, soprattutto per il gusto di inserire situazioni boccaccesche delle quali è immancabile protagonista, resta il fatto che quelle terre le aveva realmente visitate e che per esserne tornato vivo e vegeto doveva avere senz’altro la scorza dura.

Non quanto Enrico Tonti, o Henry de Tonti, però. Tonti è stato una vera folgorazione. Non lo avevo mai sentito nominare sino a dieci anni fa, e vengo poi a scoprire che è stato uno dei protagonisti dell’esplorazione nordamericana, al fianco di Chevalier De La Salle. Non esiste una sua biografia in italiano (che mi risulti, nemmeno in francese), ma le notizie essenziali sulle sue incredibili avventure si possono ricavare da L’Europa alla conquista dell’America, un bellissimo libro di Raymond Cartier che racconta nel dettaglio le guerre indiane sui Grandi Laghi tra Sei e Settecento – quelle de L’Ultimo dei Mohicani, per intenderci, o di Ticonderoga -, o da Mississippi di Mario Maffi. “Mano di ferro”, come lo chiamavano gli indiani, fu uno dei pochi che mise in soggezione persino gli Irochesi, che quanto a ferocia e coraggio non la cedevano a nessuno, e fu determinante per l’esplorazione del bacino del Mississippi, consegnato poi nelle mani della corona francese. Su questo tema e sulla storia di De La Salle è appassionante La Louisiana per il mio re, di Hans Otto Meissner, così come interessanti sono altri libri di memorie legati alla fase americana della guerra dei Sette Anni: ad esempio il diario anonimo di un soldato francese che ha partecipato a tutte le fasi della campagna e alla caduta di Montreal (Oltre le cascate del Niagara).

Altrettanto singolare, e secondo nemmeno agli Irochesi per determinazione, è il personaggio di Augusto Franzoj. Militare, disertore, giornalista radicale sempre in cerca di rogne e capace di sopravvivere ad oltre cinquanta duelli, Franzoj attraversò nella seconda metà dell’Ottocento mezza Africa centro-orientale per andare a recuperare le spoglie di un esploratore italiano morto nel paese dei Galla. L’Africa fu per lui inizialmente un rifugio, ma divenne poi una vocazione. Sebbene non avesse alcuna necessità di spostarsi per vivere pericolosamente, l’Etiopia gli offrì il teatro ideale per una avventura che più pazza e disperata è difficile immaginare. Ne uscì, e la raccontò, naturalmente con tutti gli aggiustamenti del caso, in Continente nero, che nella sua ostentata “obiettività” è davvero un resoconto spassosissimo: ma per conoscere anche gli altri particolari della sua vita sempre sopra le righe occorre leggere Un viaggiatore in brache di tela, di Felice Pozzo.

Queste ed altre figure altrettanto avvincenti sono balzate fuori dalle pagine di diverse opere sulla storia generale delle esplorazioni da tempo fuori commercio, alle quali solo recentemente ho potuto arrivare attraverso il mercato on line. Pur restando fermo sulla mia linea di principio, secondo la quale l’eccessiva facilità nel reperire testi ritenuti a lungo introvabili sottrae una buona fetta di piacere al gioco, quella dell’attesa, della ricerca febbrile sulle bancarelle e magari dell’incredula sorpresa di un ritrovamento, devo ammettere che la diffusione di siti dedicati alla compravendita dei libri ha reso accessibili cose che mai mi sarei sognato di poter un giorno possedere. È il caso della fondamentale trilogia di Paul Herrmann (Sulle vie dell’ignoto, Sette sono passate e l’ottava sta passando e Santa vergine di Guadalupa, aiutaci tu) o di La conquista della terra di Giotto Dainelli, opere edite più di mezzo secolo fa. Mentre il libro di Dainelli lo conoscevo (e lo desideravo) da tempo, quelli di Herrmann sono stati un’autentica rivelazione. Soprattutto mi ha stupito il non averne mai sentito parlare in precedenza, il non avere mai colto alcun rimando. Forniscono una messe incredibile di informazioni, ma sono anche di lettura piacevolissima: avrei voluto averli tra le mani a quindici anni, e forse mi avrebbero cambiata la vita.

Ma sarebbe stato probabilmente sufficiente poter disporre per tempo di opere divulgative illustratissime come Il grande libro delle esplorazioni o Le grandi esplorazioni che cambiarono il mondo, che a dispetto dell’apparente destinazione a fare tappezzeria nei salotti forniscono un racconto dettagliato ed esauriente delle grandi imprese di esplorazione. Ne ho fatto incetta, e adesso mi ritrovo a confrontare le diverse narrazioni, a scovare le imprecisioni e a sommare i piccoli tasselli forniti da ciascuna per costruirmi un quadro il più vasto e completo possibile.

In che senso la precoce conoscenza di opere del genere può dare una svolta diversa ai tuoi percorsi? Beh, intanto perché consente di affinare lo sguardo sulle vicende storiche, di sottrarlo ai condizionamenti che le letture ideologiche legate al clima di un particolare momento immancabilmente ne danno.

Faccio un esempio. Come ben sai, ho cominciato molto presto, attraverso i fumetti del grande Blek e di Hugo Pratt e i libri di Fenimore Cooper, ad appassionarmi alle vicende settecentesche delle tribù indiane della zona dei grandi laghi. Ho quindi approfondito appena possibile la storia e la civiltà del popolo irochese, o meglio, della Società delle Cinque Nazioni, e l’ho fatto anche attraverso la lettura di “Dovuto agli irochesi”, di Edmund Wilson, un classico di quello che Pascal Bruckner chiama “il singhiozzo dell’uomo bianco”. Wilson racconta di una cultura avanzatissima sotto il profilo politico e sociale, che non ha nulla da invidiare alle coeve istituzioni occidentali, ed esprime un accorato rimpianto per la sua distruzione da parte degli invasori bianchi.

Bene, leggendo i diari di Tonti, di De La Salle e di padre Hennepin, che con gli Irochesi ebbero a trattare direttamente, nonché le testimonianze di quei pochi gesuiti e francescani che riuscirono a sopravvivere ad una caccia spietata, e pur facendo la debita tara alla consueta demonizzazione del nemico (ma quanto riferito dagli inglesi, che con gli Irochesi erano alleati, non differisce molto), viene fuori un quadro ben diverso: quello di una popolazione dai costumi ferocissimi, che provava un sadico gusto nella lenta tortura dei prigionieri, delle cui carni spesso e volentieri si cibava, e che per un secolo e mezzo costituì un vero e proprio incubo per tutte le altre nazioni indiane dell’area dei grandi laghi. L’accusa di cannibalismo non è affatto pretestuosa, come si è affannata invece a dimostrare nella seconda metà del Novecento l’antropologia terzomondista, e lo dimostra il fatto che i nostri testimoni non hanno esitazione a raccontare come questa pratica fosse fatta propria comunemente, nelle situazioni di necessità, anche dagli occidentali. Quanto al diritto sul suolo, gli Irochesi erano degli invasori al pari degli occidentali: arrivavano da un’altra area, non combattevano per difendere le proprie terre, ma per conquistare nuovi territori sterminandone sistematicamente gli abitanti.

Lo stesso vale per la complessa vicenda dello schiavismo. I diari degli esploratori africani ci mettono di fronte alla realtà di una pratica istituzionalizzata da millenni, tanto comune all’interno delle singole popolazioni quanto normale nei confronti di quelle esterne, e a quella di una tratta araba che ebbe sulla demografia del continente un impatto ben più devastante di quella europea, e che per motivi ideologici viene sempre sottaciuta o minimizzata. Certo, i portoghesi prima e poi via via tutti gli altri hanno intensificato questa pratica, hanno incanalato il flusso addirittura verso un altro continente: ma non hanno inventato nulla. Al più hanno fornito armi e incentivi per intensificare una tragedia presente da sempre, in ogni epoca e presso ogni civiltà: e a partire da un certo periodo, almeno dalla prima metà dell’Ottocento, hanno almeno teoricamente combattuto la tratta. Questo non assolve certamente l’occidente dalle sue colpe: spagnoli, inglesi, francesi, olandesi, belgi, tedeschi, e non ultimi gli italiani, si sono resi responsabili di veri e propri genocidi: ma quando Franzoj ci testimonia dal vivo (è arruolato più o meno a forza come osservatore) che nel corso di una delle periodiche campagne di guerra Menelik fa almeno cinquantamila morti e conduce via quasi il doppio di prigionieri, ovvero di schiavi, la storia lascia spazio a sfumature interpretative un po’ diverse.

Queste sfumature sono state volutamente ignorate nell’ultimo settantennio, a causa di un preconcetto ideologico, purtroppo radicato in quella che continua ad autodefinirsi “cultura di sinistra”, che ha condizionato costantemente la narrazione storica. Ti faccio un altro esempio. Nel 2008 è uscito in Francia il saggio Le génocide voilé (Il genocidio nascosto), di uno studioso di origine senegalese, Tidiane N’Diaye. In esso, con un calcolo certamente approssimato per difetto, N’Diaye dimostra che nel corso di tredici secoli, arrivando praticamente sino ad oggi, sono stati ridotti in schiavitù e deportati verso il Medio Oriente o verso la fascia mediterranea del continente almeno diciassette milioni di abitanti dell’Africa sub-sahariana. Di costoro, ed è questa la cosa che dovrebbe far maggiormente riflettere, non è rimasta praticamente traccia, mentre ad esempio negli Stati Uniti o nell’America del Sud i discendenti dei nove milioni di schiavi deportati tra il cinquecento e l’ottocento sono oggi più di settanta milioni. Ciò si spiega col fatto che gli schiavi deportati dagli arabi venivano castrati o uccisi, e non potevano lasciare alcuna discendenza. Ora, tutto questo non significa affatto che gli schiavi in America fossero trattati umanamente, non diminuisce lo scandalo della tratta: ma mi pare lecito chiedersi come mai si parli solo di quest’ultimo, e non dello schiavismo arabo, e come mai mentre questo scandalo la cultura occidentale lo ha bene o male denunciato ed esecrato, nessuno storico arabo lo abbia mai ammesso a carico del suo popolo. E anche perché questo dato venga costantemente ignorato in qualsiasi dibattito sulle colpe dell’Occidente.

L’altro aspetto, più personale, riguarda un qualche esito professionale che avrebbe potuto scaturire dai miei interessi. C’è stato un momento, al termine degli studi universitari, in cui ho dovuto scegliere tra strade diverse per il mio futuro. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla, ma forse una conoscenza di questi argomenti non legata più soltanto alle letture di Salgari e Verne o del vecchissimo Cantù mi avrebbe reso più determinato ad inseguire quella che era già allora una passione profonda (col rischio magari, come accade per ogni passione che diviene professione, di vedere poi spento ogni entusiasmo).

Ma torniamo all’oggi. I percorsi di questi ultimi anni mi hanno indotto a rivedere, almeno parzialmente, il giudizio negativo sull’attenzione riservata in Italia alla letteratura di viaggio che avevo espresso a suo tempo in “Perché non esiste una letteratura di viaggio in Italia”. L’assenza di interesse riguarda a quanto pare soprattutto il periodo del secondo dopoguerra (guarda caso, proprio quello della mia formazione). Gli italiani avevano un sacco di altre cose da sistemare e di cui occuparsi, e il clima culturale era tutt’altro che propizio alla rievocazione delle scoperte e delle conseguenti avventure coloniali. Ma nella prima metà del novecento, per le ragioni opposte, questo interesse c’era, e lo testimonia ad esempio una iniziativa editoriale della Paravia dedicata a “I grandi viaggi di esplorazione, che contava decine e decine di titoli. Si trattava di operette divulgative, caratterizzate da un marcato taglio agiografico e intrise, soprattutto quelle degli anni trenta, dello sciovinismo di regime: ma avevano comunque il merito di portare all’attenzione degli adolescenti, e anche degli adulti, la storia delle esplorazioni e dei viaggi. E anche quello di proporre, accanto alle storie di Colombo, Magellano e Cook, quelle di Humboldt, Boggiani e Carlo Piaggia, e persino di Lodovico de Varthema. Le sto raccogliendo con cura, e una buona parte le trovi qui.

Sempre nella prima metà del secolo (ma anche nell’immediato dopoguerra) hanno goduto di una certa popolarità i libri di Vittorio G. Rossi (quella G puntata mi ha sempre fatto impazzire: essendo il mio secondo nome Giuseppe, ho continuato per anni a firmarmi Paolo G. Repetto, fino a quando esigenze di “razionalizzazione” dell’anagrafe non mi hanno costretto a tenermi un solo nome). Alcuni titoli sono curiosi, altri suggestivi (Pelle d’uomo, L’orso sogna le pere, Il cane abbaia alla luna). Rossi era uno scrittore atipico, almeno per l’epoca: di mestiere faceva altro, era un navigante, e in questa veste ha visitato praticamente tutto il mondo. Poi riversava nei libri (tra il il 1930 e il 1980 ne ha scritti più di due dozzine) quello che aveva visto e quello che aveva provato, dando spesso spazio, soprattutto nell’ultimo periodo, a considerazioni a ruota libera di filosofia spicciola. Per un sacco di tempo è stato lo scrittore di viaggio più venduto e più conosciuto in Italia, poi, complici da un lato una certa ripetitività e dall’altro l’ostracismo decretatogli dopo gli anni sessanta per i suoi trascorsi politici, è stato totalmente rimosso. Anche nel suo caso sto recuperando tutto il possibile. Prova a leggerlo. Non credo ti appassionerà, non è un grande scrittore, ed è chiaro che per me vale l’aura particolare della quale lo rivestivo da ragazzino, una sorta di precursore di Corto Maltese: ma è un ottimo testimone di come l’occidente guardasse al resto del mondo fino almeno alla seconda guerra mondiale, e del fatto che tutto sommato questo sguardo era meno velato dall’ipocrisia di quello dei futuri crociati dell’antioccidentalismo.

La riscoperta del piacere e del valore culturale del viaggio, alla quale già accennavo nell’articolo citato poco sopra ma che attribuivo soprattutto ad una moda di importazione, ha invece dato in questi ultimi anni dei frutti notevoli, non inferiori a quelli anglosassoni. Il merito va soprattutto ad autori come Paolo Rumiz, che con La leggenda dei monti naviganti ha toccato le vette della migliore letteratura di viaggio raccontando un fantastico itinerario dalle Alpi marittime alla Sicilia compiuto a bordo di una vecchia Topolino, seguendo a zig zag la dorsale appenninica, quindi la parte più sconosciuta e relativamente intatta della nostra penisola. Rumiz aveva già pubblicato il resoconto di un viaggio attraverso i Balcani in direzione di Costantinopoli (É oriente) ed ha poi proseguito nella riscoperta dell’Italia con Annibale. Un viaggio, una rivisitazione-confronto tra il passato e l’oggi sulle orme del grande condottiero cartaginese, per spostarsi infine nuovamente fuori dell’Italia con Trans-Europa Express, un itinerario che segue il vecchio confine della cortina di ferro dal circolo polare sino all’Adriatico. (In questo è stato preceduto però da Wilhelm Buescher, che in Germania, un viaggio percorre uno stralunato itinerario invernale seguendo l’ormai scomparsa linea di demarcazione tra est ed ovest).

Una traversata latitudinale completa della penisola è raccontata anche da Enrico Brizzi, sia pure con qualche eccessiva concessione al romanzesco, ne Gli Psicoatleti. Brizzi viaggia rigorosamente a piedi, e percorre preferibilmente i vecchi itinerari del pellegrinaggio, quelli per intenderci della via Francigena o del Camino di Santiago di Compostela. Non so se ne abbia tratto ispirazione, ma ha dei precedenti illustri: nel 1802 lo scrittore tedesco J. G. Seume (altro bel personaggio: arruolato a forza nelle truppe vendute dal sovrano dell’Hannover agli inglesi per combattere in America, poi disertore, quindi ufficiale nelle truppe russe impegnate in Polonia, curatore di edizioni di classici, libero pensatore), si è fatto a piedi tutta la penisola, diretto a Siracusa, e lo ha poi raccontato in un gustosissimo L’Italia a piedi, ormai quasi introvabile ma che ho fortunosamente rimediato in un’asta mediatica.

Rimanendo nel campo dei camminatori, una scoperta sensazionale è stata quella di Patrick Leight Fermor, scomparso recentemente in tardissima età e protagonista di vicende degne di un Tonti. Nel corso del secondo conflitto mondiale Fermor venne impiegato dagli inglesi, per le sue conoscenze linguistiche e culturali della Grecia, come agente di collegamento con i partigiani ellenici che operavano a Creta. Bene, in quella veste organizzò e condusse a termine personalmente il rapimento del comandante delle truppe tedesche che occupavano l’isola, portandoselo a spasso per settimane in barba a tutti i rastrellamenti. Ma di possedere la stoffa Fermor lo aveva dimostrato già diverso tempo prima, a diciotto anni, quando intraprese da solo un lunghissimo viaggio a piedi che lo portò dall’Inghilterra a Costantinopoli, lungo la linea del Reno prima e del Danubio poi, attraverso un’ Europa che stava appena entrando negli anni oscuri del nazismo. Di questo passaggio e del clima nel quale si stava svolgendo Fermor è un testimone anomalo e interessantissimo in Tempo di regali, dove raccoglie le ultime vestigia di un mondo, soprattutto quello asburgico, che stava ormai rapidamente scomparendo, e avverte tutte le inquietudini e le ombre di ciò che stava arrivando.

Altro formidabile camminatore, questo, come Rumiz, più o meno mio coetaneo, è Bernard Ollivier, un giornalista francese che al momento di andare in pensione si imbarca in un’impresa titanica, la traversata dal Mediterraneo alle porte della Cina attraverso l’Anatolia e il Medio Oriente, in pratica una variante dell’antica via della seta, resa ancor più ardua di quanto non fosse secoli fa dalla situazione politica interna ai diversi paesi. Il percorso è raccontato in una trilogia che comprende La lunga marcia, Il vento delle steppe e Verso Samarcanda.

Stavo però parlando della diffusione della letteratura di viaggio anche in Italia. È indubbia, i viaggiatori-narratori pullulano e le collane nelle quali possono trovare spazio si moltiplicano. Sin troppo, per i miei gusti. Allo stesso tempo è in atto anche una riscoperta e ripubblicazione delle opere del passato che consente di avvicinare cose ormai scomparse addirittura dalla memoria (un caso emblematico è proprio quello di Lodovico di Varthema). A questa rinascita di interesse, a livello storico oltre che di pura evasione, ha dato un fortissimo contributo l’insieme dell’opera di Attilio Brilli, che per certi aspetti può essere considerato l’equivalente italiano di J. Leed, e per altri lo ha sicuramente sopravanzato. Brilli sta sfornando uno dietro l’altro studi avvincenti e documentatissimi sulla storia del viaggio, partendo da quello in Italia, dal Gran Tour sette-ottocentesco (Il viaggio in Italia, Quando viaggiare era un’arte, Un paese di romantici briganti, Il viaggiatore raffinato), per spaziare poi su tutto il globo con Il viaggio in Oriente, Mercanti e avventurieri, Dove finiscono le mappe.

È il segno di un passaggio di interesse, di una raggiunta maturità anche nei confronti di una pratica, quella del viaggio, che dagli italiani è stata sempre considerata piuttosto una costrizione che una scelta. Ma è anche, come tutte le forme di bilancio che si possono fare sulle varie attività umane, il segno di un suggello finale, la manifestazione della coscienza che un’epoca, e un modo di interpretarla, è ormai finita. E che può essere rivissuta, e rimpianta, solo attraverso le tracce lasciate sulla carta.

Salire

 Sembra andare in questa direzione anche la letteratura alpinistica. Proprio nel momento in cui le è riconosciuto uno status diverso da quello di “genere” (con Otto montagne Paolo Cognetti ha vinto lo Strega in Italia e il Médicis in Francia) non pare più in grado di produrre quel coinvolgimento genuino che caratterizzava le relazioni scarne degli inglesi dell’800, quelle semplici di Kugy all’inizio del secolo successivo o quelle di Pete Boardman che mi avevano entusiasmato alla fine degli anni settanta. La “qualità” della scrittura si è senz’altro innalzata, ma a non convincere è la corrispondente crescita delle ambizioni. Ora, una certa tendenza a filosofeggiare è implicita da sempre nella letteratura alpinistica. In fondo uno che rischiava la pelle o quantomeno si sottoponeva a prove fisiche estenuanti, spesso in totale solitudine, senza neppure lo scopo di dare spettacolo per una platea plaudente, nel momento in cui queste cose le raccontava doveva in qualche modo cercare di spiegare, e prima di tutto a se stesso, perché lo facesse. Quindi la retorica era un ingrediente fisso delle narrazioni di ascensione: andava messa in conto, e quando non era esasperata (come nel caso di alcuni alpinisti tedeschi, tipo Guido Lammer, o anche italiani, come Guido Rey) e non alterava troppo il gusto la assumevi come una spruzzata di spezie. Ma oggi, quando ogni passaggio, ogni appiglio, persino ogni volo sono documentabili con una videocamera grande come un pacchetto di sigarette, e ogni gesto è compiuto proprio in funzione di quella telecamera, quindi di potenziali spettatori, ricorrere a spiegazioni filosofiche mi sembra decisamente pretestuoso, oltre che superfluo.

Avrai insomma capito che sono piuttosto riluttante a parlare di filosofia dell’alpinismo. Per più motivi.

Il primo, forse banale, ma neanche troppo, è il costume tutto contemporaneo di voler distillare filosofia da ogni attività umana, nella fattispecie da pratiche sportive come il camminare, il nuotare, l’andare in bicicletta, ecc … L’alpinismo già di per sé, per ragioni che puoi facilmente intuire, l’ambiente suggestivo ed ostile, la disposizione ascetica dei praticanti, lo spirito di cordata, è l’attività che meglio si è sempre prestata ad essere letta come metafora dell’indagine sul senso del mondo e della vita: e in effetti fin da subito, fin dagli esordi con Petrarca, ha vantato un approccio “filosofico”. Per carità, certamente dietro ogni pratica che comporta uno sforzo in teoria totalmente gratuito e fine a se stesso una qualche motivazione psicologica deve esserci: ma questo con la filosofia ha poco a che vedere. Mentre quest’ultima è letteralmente l’arte di porre domande, l’alpinismo sembra più interessato a dare risposte (so che sembra uguale, ma non lo è). Io credo che in montagna uno trovi solo quello che ci porta (così come dalle altre parti), ma abbia poi l’impressione di averlo trovato, o di poterlo trovare, solo lì. Si rischia cioè di confondere il mezzo (la scalata) con lo scopo.

In compenso, dovessi consigliarti qualcosa per invogliarti ad una pratica che hai troppo presto abbandonato, ti indirizzerei senz’altro ad opere che danno una lettura storica dell’alpinismo, senza addentrarsi in troppi tentativi di interpretazione: come ad esempio Cime misteriose, di Fergus Fleming. Anche il giovane autore che già ti avevo segnalato per Come le montagne conquistarono gli uomini, Robert Mac Farlane, ha scritto due nuovi libri molto belli (Luoghi selvaggi e Le antiche vie) dedicati però più in generale al viaggio a piedi.

Tra gli italiani un buon lavoro “divulgativo” lo stanno facendo Enrico Camanni (Alpi ribelli, Il desiderio di infinito) e Marco Albino Ferrari (Alpi segrete, Le prime albe del mondo), che riescono a raccontare mantenendo un profilo basso, poca retorica e molti fatti concreti. Penso che il loro tipo di approccio potrebbe piacerti. Ma penso soprattutto che dovresti riprendere a dialogare direttamente con le montagne.

Raffigurare

Se la letteratura di viaggio e i libri di montagna occupano ormai più di metà della scaffalatura a tutta parete, i ripiani restanti sono dedicati interamente alla sezione artistica, che comprende i libri d’arte e quelli sul cinema e sui fumetti. Nella prima edizione di Elisa nella stanza delle meraviglie questo settore l’avevo saltato a piè pari, perché già c’era troppa carne al fuoco, ma anche perché l’avevi scoperto ormai per conto tuo, andando a sfogliare, sotto il mio nervoso controllo, quei volumoni carichi di immagini affascinanti. Visto che il tuo interesse non solo è rimasto vivo, ma è diventato in qualche modo prevalente negli ultimi anni, penso sia arrivato il momento di raccontarti come è nata questa raccolta e di chiarire i criteri che ne determinano la composizione.

Il fascino delle immagini l’ho subito da sempre, fin dalla primissima infanzia. E ho cominciato molto presto a produrle io stesso. Da qualche parte (probabilmente nel baule di ferro, in magazzino) debbono esserci album e quaderni di sessanta e passa anni fa pieni di disegni. Mia madre conservava tutto: aveva in mente per me un grande avvenire, e in quella prospettiva ogni testimonianza della mia precoce genialità diventava preziosa. Si tratta per lo più di raffigurazioni di battaglie, con un segno che ricorda decisamente quelli delle grotte di Altamira e di Lascais. Con l’esercizio mi sono affinato, e prima dei quindici anni producevo già degli album a fumetti, nel formato striscia: ma credo di non averne portato a temine nemmeno uno. Non ero un talento, ma un discreto imitatore. Una banconota da diecimila lire riprodotta a biro (e intercettata) durante la lezione di greco mi costò al ginnasio una furibonda lavata di capo da parte del preside, che alla fine mi fece però i complimenti e se la tenne. Più tardi sono passato alla paesaggistica, adottando un tratto veloce, quasi alla action painting, un po’ per carattere, perché non riesco a dedicarmi ad alcuna cosa con calma, un po’ perché oggettivamente di tempo ne ho sempre avuto poco. Così questa mia arte si è espressa essenzialmente nei tempi morti di collegi dei docenti, consigli di classe, convegni o conferenze, in bozzetti stilografici di panorami montani o di marine al tramonto. Insomma, una passione inconcludente ma antica, e vera.

Che non sarebbe però bastata a farmi intraprendere questa collezione, perché i libri d’arte costano in genere piuttosto cari, ed esulavano dalle mie potenzialità di spesa. Ho dovuto attendere una spinta, che è arrivata dalla signorina Emiliana, l’anziana che abita qui di fronte e che tu ben conosci. Come in una favola. Un giorno, saranno ormai quarant’anni, mi ha chiesto timidamente se potevano interessarmi alcuni libri doppi che si trovava per casa e che non poteva portarsi appresso in un trasloco. Avrei voluto poter fotografare la mia faccia quando li ho visti: l’intera collezione dei classici dell’arte Rizzoli, una sessantina di volumi rilegati, i capolavori di tutti i tempi. Ci misi un attimo a procurarmi uno scatolone e a riempirlo, temendo che ci ripensasse. Pesavano più di mezzo quintale, ma credo di averli sollevati e trasportati con braccio solo, con l’Emiliana che seguiva tutta l’operazione a bocca aperta.

Quando parti così è naturale che scatti la frenesia di riempire i vuoti, di coprire tutti i buchi. In me è diventata una vera e propria sindrome: i miei progetti di conoscenza ambiscono sempre alla completezza, voglio avere un quadro il più possibile esauriente, per non dire completo, di ogni forma di sapere e di ogni espressione di cultura. La cosa ha tanto più senso (se ne ha uno) in un ambito come quello dell’iconografia, per muoversi nel quale è fondamentale poter accedere direttamente e velocemente a una molteplicità di immagini. Tieni presente che all’epoca Internet era ancora fantascienza, e comunque a me non basta la possibilità di accesso virtuale, concepisco solo il possesso cartaceo, concreto. Questo non spiega la presenza di altre collane che raccolgono in fondo le stesse immagini (quella della Sansoni, ad esempio, che consta anch’essa di sessanta volumi, di formato più ridotto): ma qui scivoliamo in un altro terreno, quello della compulsione maniacale. Oltre alle monografie trovi naturalmente diverse storie dell’arte (di quella più prestigiosa, dell’Einaudi, sono a quota sette tomi), che raccontano non solo il percorso artistico occidentale ma anche quelli dell’estremo oriente, dell’Asia minore e delle civiltà andine. Queste opere si prestano senza dubbio anche al puro godimento estetico, ma almeno inizialmente in me ha prevalso l’interesse storico-antropologico. Voglio dire che la motivazione principale per la quale le ho raccolte è senz’altro documentaria.

Nulla meglio dell’iconografia può raccontare e rappresentarti con immediatezza empatica le paure, i sogni, le speranze di un’epoca o di un popolo, le continuità e le rotture che caratterizzano spazi e tempi diversi. Basta darsi gli strumenti per leggere queste cose tanto nella singola opera come nel confronto trasversale. Io, ad esempio, mi sono sbizzarrito, anche per motivi professionali, a seguire l’evoluzione e le trasformazioni dell’immagine del drago e di quella del demonio, così come della percezione del paesaggio: e poco alla volta sono entrato in una relazione “emozionale”, quasi sensibile, con argomenti che rischiavano di essere impoveriti in una fredda trattazione razionale.

L’uso documentario non impedisce quindi che entrino in gioco poi anche i criteri “estetici”, intesi molto semplicemente come assecondamento del gusto personale. Ci sono opere, talvolta l’intera produzione di un particolare artista, rispetto alle quali scatta qualcosa di diverso dal semplice interesse: ci trovi un valore aggiunto che si chiama consonanza, una affinità elettiva. Quanto questo valore abbia a che fare con l’educazione, ovvero con come si è stati educati a vedere e a cogliere il bello, e quanto invece dipenda da una disposizione personale, questo non lo so. C’entrano senz’altro entrambe le cose: e comunque credo sia importante che ciascuno coltivi un suo personalissimo criterio estetico, per evitare di farsi imporre quelli dettati dalle mode o dai mercati. Mi raccomando: nel campo dell’arte impera una voluta confusione, una nebbia nella quale tutti i gatti sono grigi, per dirla alla Hegel, ed è diventato facilissimo spacciare per prodotti artistici dei vuoti giochetti concettuali. Spero che di questo ti sia già resa conto. Quando si comincia a parlare della funzione provocatoria dell’arte, del ruolo di rottura dell’artista, spesso e volentieri si stanno gabellando delle gran ciofeche. La rottura l’artista la produce contrapponendo il bello alla bruttura del mondo, e il bello non necessita di didascalie che lo spieghino.

Come avrai già capito, nella mia biblioteca d’arte troverai pochissima “avanguardia”, o sedicente tale: l’arte vera non sta mai davanti o dietro, sta fuori del tempo. È proprio questo che la distingue dalla normale documentazione iconografica.

E fuori del tempo stanno molte delle cose che vorrei segnalarti: alcune forse abbastanza ovvie, altre decisamente meno. Come puoi capire dalle tante e piuttosto corpose monografie ad essa dedicate, le mie “passioni” estetiche riguardano prevalentemente la pittura nordica, a partire da quella del periodo umanistico-rinascimentale (Dürer, Bosch e Bruegel, per fare qualche nome). Sarà perché questi artisti non trattano sempre santi e madonne, e valorizzano il fattore ambientale piuttosto che quello individuale, o perché rappresentano un universo onirico, sta di fatto che le loro opere mi affascinano: non mi stancherei mai di studiarle, e ogni volta scopro qualche dettaglio, qualche particolare che mi stupisce. Gran parte di questi dipinti ho potuto vederli dal vivo, li ho inseguiti per i musei di mezza Europa, e ho sempre ritrovato attorno ad essi un’aura magica particolare. A Vienna sono rimasto tre ore nella sala dedicata a Bruegel, davanti a cose come la Lotta tra Carnevale e la Quaresima, i Giochi di bambini, la Torre di Babele e i Cacciatori nella neve, creando un certo allarme tra il personale (a un certo punto sono venuti a chiedermi se stavo bene e se avevo bisogno di qualcosa).

In questo caso non è certamente il valore documentario (che pure è pure altissimo) a intrigarmi: mi piacciono proprio i colori, il calligrafismo delle immagini, gli equilibri sottilissimi interni alle composizioni. Ciò che più mi affascina è proprio la capacità di tenere assieme mondi formicolanti di vita e di colori in una orchestrazione compositiva perfetta, che consente il totale controllo su un apparente disordine.

Con un salto di tre secoli arrivo ad altri nordici, agli esponenti del romanticismo più puro e originario. Su tutti, naturalmente, Caspar David Friedrich, l’autore di quel Viandante su un mare di nebbia che campeggia nella parete di fianco (e dal quale ha preso spunto, nella reinterpretazione datane da Renzo Calegari, il simbolo del mio sodalizio). Per Friedrich mi è capitata la stessa cosa che per Bruegel, questa volta ad Amburgo. Sono entrato nel museo quasi per caso, senza alcuna meta fissa, e mi sono ritrovato in una sala ottagonale dove ogni parete offriva cose dalle quali non potevi staccare gli occhi. Ho capito lì cosa si intende quando si parla di sindrome di Stendhal. Come puoi constatare le monografie su Friedrich si sprecano, ce ne sono di tutte le taglie. E penso che ormai le conosca quasi a memoria.

Una fantastica sintesi tra Friedrich e Humboldt la trovi invece in quel volume gigante che in omaggio al secondo reca il titolo Cosmos. L’arte alla scoperta dell’infinito. L’ho corteggiato per un anno, perché il prezzo era proibitivo, e l’ho ottenuto poi pagandolo la metà per sfinimento del libraio. Era l’edizione inglese. Com’era da attendersi, pochi mesi dopo ho trovato quella italiana, già scontata, in un mercatino, e ora le possiedo entrambe.

Ma non c’è solo Friedrich. In una mostra che mi ha indotto finalmente a visitare Ferrara ho scoperto tutto un mondo di artisti norvegesi che, al contrario degli scrittori, continuano ad essere da noi dei perfetti sconosciuti. Pittori come Christian Dahl, Thomas Fearnley e Peder Balke ti immergono nel paesaggio e più ancora nell’animo del mondo scandinavo, un mondo che per me ha sempre ha conservato, come ti ho raccontato a proposito de Lo zio di Svezia, una connotazione fantastica e misteriosa. Quegli artisti puoi incontrarli nel volume Da Dahl a Munch, Romanticismo, realismo e simbolismo nella pittura di paesaggio norvegese. Ma è più che probabile che già ti siano familiari.

C’è poi il romanticismo “nero”, quello raccontato in un altro catalogo, L’ange du bizarre. È una pittura che ha il suo pendant letterario nei romanzi gotici di Matthew Lewis (Il monaco), di Ann Radcliffe (L’italiano) o di Horace Walpole (Il castello di Otranto), ambientati guarda caso in Italia o in Spagna, paesi cattolici che gli autori non avevano mai visitato, ma che i protestanti consideravano dominati dalla più nera superstizione e dall’implacabile controllo della chiesa. Pittura animata da mostri, incubi e figure paurose, che trovano poi una traduzione nei vampiri di John Polidori e di Bram Stocker, nel Frankenstein di Mary Shelley, nelle angosce e nelle ambiguità raccontate da Poe e da Stevenson (Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hide). Anche queste cose le conosci, perché la mostra l’abbiamo visita assieme al Louvre e i racconti di Poe e H.P. Lovecraft li hai letti praticamente tutti.

Non poteva mancare, naturalmente, Turner. Anche di lui sai già molto, per via di un film che ne ricostruiva abbastanza fedelmente la vita. Se vorrai approfondire la conoscenza della sua opera hai solo l’imbarazzo della scelta tra tre volumi tutti altrettanto esaurienti. Per quanto riguarda me, mi ha conquistato con gli acquerelli realizzati a mo’ di diario di viaggio durante un paio di traversate delle Alpi. Ho gusti molto infantili, che definirei pre-critici.

Un settore meno conosciuto e valorizzato, almeno dalle nostre parti, è quello della pittura paesaggistica americana dell’800. In genere questa viene snobbata come un’appendice del tardo romanticismo europeo, o peggio ancora come anticipazione di quel gusto spettacolare e “colossal” che si esprimerà nel secolo successivo soprattutto nel cinema. In realtà, pur essendo innegabili i rapporti, e probabilmente anche le dipendenze, nei confronti della pittura europea, la tendenza che si esprime a partire dalla Hudson River School, nella prima metà dell’800, presenta dei caratteri originali. Decisamente originale rispetto a quello europeo è d’altra parte il panorama che si offre agli occhi di coloni, artisti e viaggiatori che percorrono il continente americano, i quali non mancano mai di rimarcare questo aspetto. Come scrive in una sua lettera uno dei rappresentanti della scuola dell’Hudson, Asher Brown Durand, “I laghi solitari e tranquilli cinti da antiche foreste, i monti inviolati che li circondano con le loro coperture dalla ricca trama, le praterie oceaniche dell’ovest e altre forme della natura ancora risparmiate dalle manipolazioni della civilizzazione, sono una garanzia per una reputazione di originalità che potreste cercare a lungo altrove senza trovarla”. C’è un po’ di voluta confusione tra l’originalità del paesaggio e quella della pittura che lo rappresenta, ma il concetto sotteso sostanzialmente è questo: una natura inedita esige per essere rappresentata anche una diversa angolazione dello sguardo e soluzioni tecniche innovative.

Ho scoperto questa pittura molti anni fa in un piccolo volume di una collana della Fabbri, e da allora è stata una caccia ininterrotta. Ho cominciato raccogliendo i due cataloghi che vedi là in basso a sinistra, The American West. L’arte della frontiera americana (1830-1920) e Maestri americani della Collezione Thyssen-Bornemisza, ma la risposta esaustiva è arrivata solo con America! Storie di pittura dal Nuovo Mondo, una mostra eccezionalmente ricca, che ho visitato due volte, nel 2007, a Brescia. Il catalogo è quel tomo di quasi 600 pagine che campeggia tra Bruegel e Hokusai.

Al momento non possiedo le monografie di tutti gli autori più significativi, perché gli editori europei tendono a ignorarli, ma grazie al commercio on line ne ho reperito già un buon numero, e soprattutto quelle dei due artisti che mi avevano maggiormente colpito, Thomas Cole e Albert Bierstadt.

Bierstadt lo conosci da un pezzo: uno dei paesaggi più suggestivi da lui dipinti fa da sempre da sfondo sul monitor del mio computer. In effetti è un pittore che concede molto alla spettacolarità, ritrae albe e tramonti nei luoghi più belli di quelli che diverranno, anche grazie alle suggestioni trasmesse dai suoi quadri, i parchi naturali più famosi del mondo. Organizzava lui stesso mostre itineranti, strutturate come diorami e animate dalla presenza di animali imbalsamati, che riscuotevano un enorme successo di pubblico. Assieme ad Albert Smith, che faceva la stessa cosa per le Alpi, è in fondo l’inventore delle mostre multimediali. Ma il fascino di quei luoghi esiste davvero, ed è stato colto attraverso i suoi occhi da molti registi, primo tra tutti John Ford.

Cole è più legato alla scuola paesaggistica europea, è più internazionale quindi (ha dipinto anche in Italia) e per questo apparentemente meno originale. Appartiene alla generazione precedente, ed è lui a dare una prima visibilità alla pittura americana. Non è meno bravo di Bierstadt, ma non crea gli stessi effetti speciali.

I prossimi acquisti riguarderanno Frederic Edwin Church, Thomas Moran, e George Catlin. Li conosco attraverso le moltissime riproduzioni delle loro opere sparse qui e là, ma non possiedo le monografie specifiche. Di Catlin ho invece l’autobiografia. Ha dipinto dal vero la maggior parte dei ritratti di pellerossa che trovi sulle copertine dei volumi sulla cultura dei nativi americani, durante un lunghissimo vagabondaggio nelle terre dell’Ovest che lo portò a contatto con le tribù più importanti. In molti casi quei ritratti sono le uniche testimonianze rimaste dell’esistenza di interi popoli.

Altri però avevano già fatto un percorso analogo a quello di Catlin. Nei primi anni trenta dell’800, contemporaneamente ai viaggi di Tocqueville e di Beltrami, un principe della casa d’Asburgo aveva girovagato per alcuni mesi nel West con una vera e propria spedizione scientifico-culturale. Il resoconto iconografico di quella esperienza è affidato ad un magnifico volume che ha titolo “Travels in the interiors of north america”, ed è opera del pittore tedesco Karl Bodmer. Sono centinaia di tavole bellissime, che documentano gli usi e l’abbigliamento di numerose tribù, ma sono soprattutto vere opere d’arte, un trionfo del disegno e del colore. Un amico in visita, appassionato d’arte e collezionista in proprio, ci fece una mezza malattia, soprattutto quando conobbe il prezzo al quale l’avevo acquistato. Me lo invidia ancora oggi.

Altri pezzi pregiati sono i due volumi dedicati a Remington e quello sulla pittura di Charles Russell. Li ho trovati in Francia: al solito, da noi queste cose non vanno, o meglio, non si pubblicano, tanto che mi chiedo che gente lavori nelle case editrici. Con Remington e Russell si esce dal paesaggismo e si entra in pieno mito del West: cow boys, indiani, cavalleria, rodei, bivacchi notturni. I due ne hanno creata l’immagine ufficiale, quella che ha ispirato nel secolo successivo tutti gli illustratori, i fumettisti (anche il tuo amato Pratt ha pescato abbondantemente dalle loro opere) e i registi cinematografici, e che purtroppo è spesso scaduta a stereotipo.

Sull’altra sponda dell’oceano, ma stavolta di quello Pacifico, l’Ottocento ha espresso autori e prodotto capolavori che non la cedono agli americani, pur esprimendosi in maniera del tutto differente. Il più famoso pittore giapponese è Hokusai, che conosci benissimo per aver visitato almeno due delle mostre che gli sono state dedicate negli ultimi anni, delle quali trovi qui i cataloghi. Nei suoi confronti vanto un diritto di prelazione, perché il titolo di una sua serie di serigrafie Le trentun vedute del monte Fuji, mi aveva colpito già moltissimi anni fa, al punto che l’ho ripreso poi a metà anni ’90 per una mostra fotografica storico-naturalistica dedicata al Tobbio. In effetti il Fuji è per Hokusai un po’ quello che il monte saint Victoire è per Cezanne (e il Tobbio per me), una sorta di ossessione visiva, di sfondo obbligato per la sua pittura. Ma nel caso di Hokusai non si tratta di un’ossessione privata: il Fuji è il simbolo dell’intero Giappone. Per quanto poi mi riguarda possiede un ulteriore valore aggiunto, perché è la montagna sacra degli Yamabushi, che lungo le sue pendici celebravano i loro stravaganti rituali. E agli yamabushi si sono idealmente ispirati sin da subito i Viandanti.

Meno conosciuto ma non meno interessante di Hokusai è Hiroshige, che ha redatto come Turner un bellissimo “taccuino di viaggio”, realizzando una sorta di mappa per immagini del percorso da Tokio ad Edo, la vecchia capitale imperiale, e suddividendola in trenta stazioni. Ho sempre sognato di fare un viaggio a piedi, in compagnia di un mulo, lungo la cresta appenninica portandomi appresso un album e le matite, e di fare una cosa simile. Ma il mulo non l’ho poi comprato, il viaggio non l’ho fatto (in realtà ne ho fatto un tratto, dalla Liguria all’Umbria, ma al posto del mulo c’era lo zio Gianni) e le matite ho smesso del tutto di usarle.

Un altro straordinario artista, Utagawa Kuniyoshi, ha creato un mondo fantastico e visionario, pieno di samurai, di briganti e di eroi mitici, ma anche di pesci giganteschi e di mostri e di gatti, oltre che di bellissime cortigiane. Si è guadagnato così il titolo di “maestro del mondo fluttuante”.

Certamente per noi occidentali il confronto con l’arte pittorica giapponese è spiazzante: sono completamente diversi le tecniche, i supporti e i soggetti. Si è costretti a rivedere molte convinzioni che si davano per scontate. A capire, per esempio, che in un paese dove le abitazioni, persino i palazzi imperiali, sono per lo più di legno, e in genere sono minuscole rispetto ai nostri standard, non può fiorire una tradizione di pittura murale come quella del nostro affresco medioevale, e neppure una pittura ad olio di grandi dimensioni, con cornici pesanti e di grande ingombro. L’arte pittorica si esprime piuttosto in forma quasi miniaturistica, un po’ come accade, nella letteratura, con gli haiku.

Questo è uno degli elementi formali (quelli spirituali li indagherai per conto tuo) che spiegano come mai la tentazione realistica sottesa a tutta la storia dell’arte occidentale, attraverso la conquista di volta in volta della prospettiva, dei volumi, delle trasparenze, del gioco della luce, fino alla cattura dell’impressione precedente la messa a fuoco, nell’estremo oriente non abbia mai avuto corso: gli orientali hanno mantenuta volutamente netta la distinzione tra realtà e immagine, sottolineando il calligrafismo dei contorni e usando colori piatti e omogenei, e lo hanno fatto anche perché le dimensioni delle loro opere non consentivano giochi di volumi o di chiaroscuri.

Per quanto mi concerne, dopo aver conosciuto queste opere ho completamente rimosso l’idea di un Giappone chiuso ed arretrato, rimasto medioevale fino alla “restaurazione” operata nella seconda metà dell’Ottocento dalla dinastia Meij. Si tratta per lo più di xilografie pensate per alte tirature, fruibili da un pubblico molto allargato: prodotti artistici replicabili, privi di quel requisito dell’unicità che per noi è rimasto a lungo una caratteristica irrinunciabile dell’opera d’arte. Ma questa produzione seriale testimonia dell’esistenza in Giappone (e in Cina) di una industria culturale estremamente avanzata, per certi versi più moderna di quella occidentale. E forse aiuta a comprendere anche altri aspetti del successo giapponese in un mondo totalmente industrializzato.

Anche la pittura cinese ha un suo fascino particolare. Se sfogli quel grande volume dal titolo Mille anni di pittura cinese capirai il perché. Sono immagini essenzialmente naturalistiche, e allo stesso tempo quei paesaggi, quelle piante, quei fiori sembrano uscire dalla naturalità e trasferirsi in una dimensione quasi aerea. Va sottolineata anche un’altra caratteristica: la presenza umana nei paesaggi è assolutamente marginale, spesso manca proprio. Mentre in Europa il paesaggio ha fatto almeno sino all’800 solo da cornice alle vicende umane (e a quelle soprannaturali), nella mentalità orientale il rapporto si inverte: l’uomo diventa insignificante di fronte alla grandezza della natura (certo, se si pensa all’odierno atteggiamento cinese nei confronti dell’ambiente c’è da mettersi le mani dei capelli).

Non è tuttavia lo stesso spirito che anima i paesaggisti americani, che pure riservano anch’essi alla presenza umana spazi microscopici e decentrati. Ad essere diversa è proprio l’attitudine: Bierstadt e Cole propongono lo spettacolo della natura, mentre i pittori cinesi sembrano volerne cogliere l’anima.

Un certo accostamento potrebbe essere fatto piuttosto con i divisionisti italiani, con pittori come Segantini e Maggi. Nei dipinti di questi ultimi però la figura umana rimane centrale, sia pure in condizione totalmente sottomessa, e la natura è solo metafora di una forza che sta oltre.

Quella che più si accosta allo spirito “cinese” del dominio della natura è naturalmente la pittura di montagna. E qui c’è veramente di che sbizzarrirsi. La montagna è materia pittorica per eccellenza, e in questo campo ho i miei criteri di valutazione. Il primo è legato alla capacità dell’opera di evocare lo “spirito” della montagna. Non ha niente a che vedere con la resa realistica, per quella c’è la fotografia. Sto parlando della capacità di restituire l’effetto che la montagna ha su chi la guarda, o meglio ancora su chi la sta salendo. In questo senso i dettagli realistici non hanno alcuna importanza, anzi, in genere, se non sono governati da un quid che li supera generano solo freddezza. Voglio dire che l’immagine finale deve essere ben più della somma dei dettagli. I diversi volumi che trovi nel ripiano più basso dello scaffale di mezzo consentono di verificare questo esito. In Cattedrali di pietra, ne La seduzione delle montagne ecc trovi approcci completamente diversi, che sono frutto di diverse epoche e di differenti esperienze, ma in genere il risultato è quello. Segno che esiste un “canone” indipendente da ogni appartenenza di età, di cultura e di stile, che è condiviso da tutti coloro che con la montagna hanno un rapporto non superficiale.

Dicevo che la montagna è materia pittorica per eccellenza, e infatti è stata usata già a partire dal Rinascimento per animare gli sfondi di qualsiasi paesaggio, persino di quelli fiamminghi, che nella realtà sono piatti come biliardi. Fornisce una cortina naturale per chiudere gli spazi dell’opera e mettere al centro di questi spazi il soggetto. Ma quando si va al di là dell’uso puramente scenografico, l’apparente facilità d’effetto creata da rocce e cime e boschi diventa quasi sempre un boomerang. Tutto si ferma lì. E tuttavia, proprio perché è un soggetto tanto praticato, è anche facile trovare a livello dilettantistico chi riesce di tanto in tanto a catturare lo spirito di cui parlavo prima. Uno dei miei sogni legati all’ipotetica vincita di cento milioni al superenalotto è la costituzione di una galleria dei dipinti di montagna che ho visto girovagando per i mercatini, alcuni davvero bellissimi.

L’ultimo scaffale a sinistra ci fa compiere un altro salto temporale e spaziale. Siamo al Novecento, e qui riesce più difficile trovare una coerenza nelle suggestioni che mi fanno preferire alcuni artisti ad altri. I due volumi su Picasso, ad esempio, credo di non averli mai sfogliati, o di averlo fatto solo per ragioni “di servizio”. Quelli su Schiele, su Max Ernst e su Kandinski sono invece consumati dalle visualizzazioni, così che ne ho dovuti prendere di nuovi.

Nei confronti dell’arte contemporanea non riesco a bilanciare la mancanza di entusiasmo “estetico” con l’interesse storico. Questo perché ritengo che la storia dell’arte, come percorso dotato di un suo senso e di una sua direzione, si sia conclusa con l’ impressionismo (che infatti qui è rappresentato solo nei termini essenziali, ci sono tutti quelli che “devono” esserci e nulla più). Faccio un’eccezione per la pittura italiana, che con i macchiaioli e i divisionisti sposta un po’ più avanti il tramonto e lascia ai Futuristi scrivere la parola fine. Dopo, il percorso è esploso in una galassia di contaminazioni che non consentono più di usare il termine arte, la categoria dell’artistico, come in precedenza. Il perché di questa mia convinzione l’ho spiegato già altrove e non è il caso che lo ripeta adesso. Sta di fatto che mi pongo di fronte all’arte del Novecento in una condizione di spiazzamento totale, privo di qualsiasi strumento o criterio critico: il che torna alla fine anche comodo, perché mi evita di sospendere il giudizio nei confronti di ciò che non mi piace e che non capisco, di dover contestualizzare, di raccontarmi troppe storie. Ritengo che l’arte contemporanea abbia come referente principale, quando non unico, il mercato. Ne accetta quindi tutte le leggi, e questo accade anche quando sembra mettersi di traverso (le famigerate “avanguardie).

Comunque, puoi vedere tu stessa quali sono gli artisti che “a pelle” mi intrigano. Kandinski e Schiele appunto, e poi Max Ernst e Gustav Klimt, ma anche Magritte e Yves Tanguy. Magritte mi piace un po’ meno da quando ho visitato il museo a lui dedicato a Bruxelles: il ripetersi dei soggetti e la necessità di stupire a tutti i costi alla lunga scoprono il gioco. Per gli altri, al contrario, le mostre hanno confermato i motivi di interesse e hanno naturalmente stimolato l’acquisizione di nuove monografie. Tra i miei preferiti non c’è nemmeno un italiano? No, uno c’è, ed è naturalmente Savinio, un autore che mi incuriosisce tanto quanto suo fratello, Giorgio De Chirico, mi annoia.

C’è qualcosa in comune tra tutti costoro? Immagino di si, al di là del fatto di essere più o meno tutti dello stesso periodo, e per la gran parte di area nordica. Credo tuttavia che quello che li accomuna ai miei occhi sia il carattere “illustrativo” della loro pittura. Questo è magari immediato per Max Ernst, per Schiele e per Tanguy, mentre è un po’ più difficile da capire per Kandinski. Eppure, dovessi scegliere delle “illustrazioni” a corredo di un articolo o di un saggio, sceglierei proprio lui. Questo la dice lunga sul valore “di denuncia” o di “anticipazione” che attribuisco all’arte contemporanea.

La funzione “illustrativa”, che non va confusa con quella decorativa, mi pare invece fondamentale. E questo spiega la presenza di tante monografie dedicate ai migliori illustratori, soprattutto a quelli ottocenteschi, a partire da Doré per arrivare a Dulac, a Rackam, ad Aubrey Beardsley e a Karel Thole. Sono i libri che sfogliavi avidamente già quindici anni fa, e temo che una certa attitudine eccessivamente sognatrice sia stata alimentata proprio da quelle immagini. Conosco bene quella sindrome, ne ero affetto anch’io (e a dispetto dell’età lo sono ancora). Non è curabile, ma va tenuta sotto controllo: se i valori superano un certo livello può creare sconquassi. Come dice Corto Maltese, chi sogna ad occhi aperti rischia troppo spesso di confondere il sogno con la realtà In sostanza, un uomo (o una donna) è libero di sognare, deve anzi farlo, ma è poi responsabile dei propri sogni. Al di sotto però del livello di guardia il disturbo origina soltanto una leggera e costante asincronia nei confronti dei ritmi del mondo, che si manifesta di volta in volta in atteggiamenti ironici o malinconici. Bada che ci si convive, è una patologia alla quale ci si affeziona e che viene ogni volta rinnovata, come succede per i raffreddori, dagli spifferi creati nell’aprire un libro o nel voltarne le pagine.

Ricordo anche che a cinque anni eri affascinata da un tipo particolare di illustrazione, quella naturalistica, che trovavi ad esempio nel grande libro sugli uccelli di Audobon o, in una singolare versione quasi fantascientifica, in Animali dopo l’uomo di Dixon.

Oggi questa fascinazione può essere rinnovata da alcune chicche che ho rinvenuto nei mercatini. Ad esempio da un manuale tedesco di etologia degli anni trenta, dal titolo impossibile (Schmeil Grundisz der Tierkunde, 1930), che contiene delle splendide tavole a colori fuori testo e delle altrettanto stupende raffigurazioni di animali disegnati in bianco e nero. È inutile: per quanto bella possa essere una fotografia, nulla può alimentare l’immaginazione come un disegno. E il compito vero di queste pubblicazioni, a dispetto della destinazione didattico-scientifica, era evidentemente quello di smuovere la fantasia, di incuriosire. Dopo aver visto una foto hai l’impressione di conoscere ormai il soggetto: davanti a disegni come questi ti viene la voglia di conoscerli. Probabilmente Konrad Lorenz ha sfogliato durante la sua adolescenza opere di questo genere.

Oppure come Sketches in Stable and Kennel, di Lionel Edward. Questo splendido album, datato 1933, è concepito con un intento ben diverso: immagino che stante la passione degli inglesi per i cavalli abbia conosciuto un grande successo di mercato. È un’opera che racchiude tutta una serie di caratteristiche anglosassoni, che sono poi proprie anche del tipo di illustrazioni: una eleganza molto semplice, ma proprio per questo tanto più efficace, una dichiarata concessione alla assoluta inutilità, e quindi al puro piacere estetico, una iconizzazione del soggetto attraverso i suoi tratti più semplici. Così come un racconto efficace non ha bisogno di troppe parole (e infatti quelle del testo sono misuratissime), allo stesso modo la raffigurazione non ha necessità di troppi dettagli.

Quanto a me, ho potuto invece ritrovare immagini della mia infanzia in quegli splendidi due volumi sugli “Eroi del romanzo popolare prima del fumetto”. Raccolgono copertine e tavole degli albi periodici di “dime novel” usciti negli anni venti e trenta. Alcuni non mi erano nuovi: ogni tanto arrivavano misteriosamente nella bottega di mio padre storie di Buffalo Bill o di Joe Petrosino stampate venti anni prima, con fantastiche copertine disegnate da Tancredi Scarpelli e da altri illustratori che avevo già imparato a riconoscere nelle tavole fuori testo dei libri d’avventura. Davvero non ho mai capito da dove sbucassero: e questo ne ha probabilmente enfatizzato l’alone di mistero.

Quanto dicevo sopra a proposito delle immagini di animali non significa che disdegni la fotografia. A fare pendant con i libri sulla pittura alpestre, ad esempio, ci sono un sacco di volumi sulla fotografia di montagna. Siamo nell’ordine di diverse decine. Non vale naturalmente lo stesso discorso che per i primi: qui il pregio maggiore è la conoscibilità, o la riconoscibilità, della montagna, e la funzione è prima di tutto documentaria. Ma anche in questo caso accade ci siano scatti, e non casuali, che riescono a trascendere quello che nell’immagine è raffigurato. Tutti quei volumi del Museo-montagna di Torino, ad esempio, che raccolgono per la maggior parte documentazione d’epoca, danno modo di cogliere l’aura sprigionata dalle foto di maestri come Vittorio Sella o Filippo de Filippi. Non so se sia questione di tempi di esposizione o di lastre all’argento, se si tratti cioè di un effetto meramente tecnico, oppure del fatto che le montagne, i ghiacciai, le cime stesse ritratte non sono più le stesse, e che quindi noi vediamo quello che non c’è e ne siamo consapevoli, ma insomma, quelle foto esprimono una bellezza che le fa essere ben altro che semplici documenti.

La parte alta dell’ultimo scaffale di sinistra è dedicata alla storia del cinema e a quella del fumetto. In realtà parlare di storia del cinema non è del tutto esatto: quasi tutti i libri che la occupano riguardano la storia del cinema western. È una fissazione, ne ho diffusamente parlato ne “La più grande avventura” e quindi troverai là le motivazioni e la storia. Qui ti segnalo soltanto, per un primo approccio, nel caso avessi ereditato anche qualche spicciolo di questo interesse, Il mito del West, di Tullio Kezich.

Giacché siamo in tema di western, però, devo fare una digressione sulla narrativa. Tra le pochissime sorprese di lettura degli ultimi anni c’è senz’altro Il grande sentiero, di A. B. Guthrie. È un romanzo scritto nel 1930, uscito in Italia alla fine degli anni quaranta e immediatamente dimenticato, malgrado fosse stato trasposto in un film di un certo successo, interpretato tra gli altri da Kirk Douglas. Ha subito la stessa sorte dei paesaggisti americani: classificato western, quindi serie B. Si tratta invece di uno dei più bei romanzi che io abbia mai letto. C’è dentro tutto quello che ho sempre cercato nella letteratura. Mentre lo leggevo avevo l’impressione di riconoscere ciò che mi aveva affascinato in Salinger, in Kerouac, in Kasey, in Abbey, fino a Cormac Mc Carty, e stavolta nella versione originale. La parte migliore della letteratura americana del secondo novecento sembra discendere di lì. E aumentava il rammarico di non averlo scoperto prima, tanto più che gli indizi per la ricerca li avevo avuti in mano tutti, a partire dal film. Ma si consolidava anche l’idea che la mia educazione letteraria (e non solo la mia), a dispetto della disposizione a uscire dagli schemi e dai canoni, sia stata pesantemente condizionata dall’impasto tra idealismo crociano e realismo gramsciano che ha pesato e continua a pesare sulla nostra cultura. Per noi ragazzi italiani Mark Twain era rappresentato da Tom Sawyer, e Huckleberry Finn dovevi andartelo a cercare quasi clandestinamente.

Per i giovani americani invece il filone western ha rappresentato sin dall’epoca di Fenimore Cooper una lettura di prima importanza. Oggi, dopo un periodo di leggero calo, dovuto alla identificazione da parte della cultura “progressista” di tutto ciò che attiene al West e alla sua vicenda come fascista, c’è una netta rinascita, trainata soprattutto dal successo dei libri di Cormac Mc Carty e dalla riscoperta di autori rimasti in ombra nel periodo dell’ostracismo.

L’impressione è però che prevalga ormai la maniera, come accade anche nei film. Le ultime cose che ho tentato di leggere odoravano sin dalla prima pagina di scrittura cinematografica, erano sceneggiature già pronte, non era necessaria alcuna fantasia per proiettarli idealmente su uno schermo. C’è un tempo per tutto, e forse è venuto anche quello di mettere la sordina al mito del west, se non lo si vuole degradare a videogioco.

Prima di lasciare questa sezione voglio comunque ricordarti un altro scrittore, un classico, che avevo trascurato e che in effetti ho riscoperto solo recentemente. Si tratta di Washington Irving. Trovi qui accanto, nella sezione della letteratura di viaggio, un libricino fantastico, Viaggio nelle praterie del West, resoconto di una spedizione nei territori di frontiera cui l’autore ha partecipato nel 1830. Nella sua semplicità è un piccolo capolavoro. Ma Irving è grande soprattutto ne Il libro degli schizzi, del quale forse qualcuno in Italia ha sentito parlare, ma che pochissimi in realtà hanno letto. Cerca di essere tra questi ultimi.

Sul fumetto credo di avere poco da aggiungere a quanto già sai. Nella tua cameretta e nell’altra, di Chiara, che da qualche anno stai occupando abusivamente, è distribuita tutta la mia dotazione, o almeno quel che ne rimane dopo i prelievi effettuati da tuo fratello. Hai quindi già presa molta confidenza con queste cose e hai maturato le tue preferenze. Ciò che trovi su questi ripiani sono invece enciclopedie e studi sul fumetto, sulla sua storia e sui suoi protagonisti. Almeno un paio di questi ultimi voglio segnalarteli: si tratta di Guardare le figure e soprattutto de La storia dei miei fumetti, di Antonio Faeti. Se si vuole capire cosa ha significato il fumetto nella creazione dell’immaginario adolescenziale (ma non solo) prima della televisione, e rendersi magari anche conto di quanto si è perso in creatività onirica dopo il suo declassamento e la sua trasformazione in sottoprodotto letterario o cinematografico, questi testi sono indispensabili. E probabilmente lo saranno anche se un giorno vorrai capire qualcosa di più di me.

Direi che a questo punto le matrici del mio gusto estetico sono più che evidenti. Mi sono educato sul fumetto e sull’illustrazione, oltre che sugli schermi cinematografici, e questo spiega la preferenza per immagini calligrafiche e per colori nitidi, mentre mi lasciano piuttosto indifferente gli impressionisti, tranne Monet, e la pittura astratta.

A testimoniarlo è ciò che coabita con i libri nei due principali santuari della mia biblioteca. Proprio un paio di giorni fa, seduto oziosamente sulla dondolo, consideravo le immagini che riempiono ogni porzione di parete sgombra dai libri (soffro dell’horror vacui). Nello studio gli spazi liberi da scaffalature sono davvero pochi, in pratica solo quelli sopra il caminetto e sopra la porta. Questi spazi sono coperti in prevalenza da immagini fotografiche, che a loro modo documentano sia il percorso culturale che quello esistenziale. A lato e sopra la porta si allineano le fotografie di voi ragazzi. Tu a un anno, Chiara forse a due, e poi io con Emiliano di cinque-sei anni, e ancora con Leonardo molto piccolo sulle spalle. Tra queste ultime due foto sono trascorsi quasi trent’anni. Completa la parete un disegno a carboncino riportato moltissimi anni fa da un viaggio, non ricordo dove. Raffigura un Don Chisciotte piuttosto stilizzato che si lancia contro i mulini a vento. Il disegno a dire il vero non è granché, ma col tempo mi ci sono affezionato: e comunque, come simbolo e riassunto di una vita, mi sembra azzeccato.

Sopra il caminetto si concentra invece la sezione iconografica “culturalmente” più significativa. A scendere da sinistra, in senso antiorario, la copia di un ritratto di Diderot eseguita da un’allieva del liceo artistico di Valenza, una foto di Emi ragazzino seduto accanto a mio padre su una pila di pali scortecciati e un’opera di Pietro Jannon. A destra, a risalire, un dipinto di Sergio Fava, un disegno ottocentesco di una vecchia dimora, trovato insieme a molti altri in quella che un tempo era la soffitta delle meraviglie, un Tobbio di Anselmo Carrea e una foto di mio padre che scende verso il vecchio capanno in mezzo alla neve, con le stampelle e reggendo il secchio del pastone per i maiali. Questa foto l’ho scattata proprio dalla finestra dello studio, e nel suo piccolo è diventata celebre: è conosciuta ed è stata apprezzata anche da professionisti.

In mezzo a queste due file verticali troneggia una grande carta geografica dell’Europa risalente al 1851 (è un cento per settanta, ma rappresenta solo la metà della dimensione originale – la carta era divisa in quattro parti, ne possiedo tre). In basso sono riportate una scala delle distanze tra le principali città europee e la prima parte di un riquadro contenente tutte le bandiere di quel periodo. Devo confessare che è un’Europa che mi affascina, con la Germania ancora divisa in più di trenta principati, l’Italia preunitaria con i suoi stati regionali, l’impero asburgico appena uscito da una grave crisi ma ancora estremamente solido, forse al massimo della sua estensione. È un’Europa, fatta eccezione per l’Inghilterra, ancora preindustriale. Quella di cui ho intravvista da bambino l’ultima sfocata immagine.

Dalla mensola del caminetto ci guardano infine una foto di Camus, una di Camillo Berneri ed una di Darwin. In mezzo il piccolo busto di Leopardi. Appesi al montante dello scaffale di sinistra ancora un ritratto di Leopardi e quello di Gobetti disegnato da Casorati. Direi che la galleria dei miei affetti è al completo.

Nel soggiorno le pareti completamente libere, almeno nella parte alta, sono due. E qui si concentra ciò che non ha a che vedere con gli affetti o le passioni intellettuali, ma col gusto. Da una parte tutta serie di dipinti di montagna, olii, acquarelli, tempere, tenuti assieme dai soggetti (ma c’è anche un bel pastello che ritrae il mio capanno). Dall’altra quadri di piccole dimensioni di Sergio Fava e di Pietro Jannon, oltre a due paesaggi di formato maggiore, un notturno marino e un interno di bosco in stile “illustrazione”, entrambi recuperati nei mercatini.

La storia del primo val la pena di essere raccontata. L’ho adocchiato al mercatino di Nizza, in una mattinata che prometteva pioggia. Mi ha preso subito, perché ricordava certe tele di Friedrich. La richiesta di riscatto era alta per i miei parametri, per cui ho sono tornato a trattare più volte, facendola scendere sin quasi alla metà: ma ancora non c’eravamo. Ad un certo punto è scoppiato un acquazzone violentissimo che ha provocato un fuggi fuggi generale, con gli espositori che si affrettavano a cercare di mettere in salvo la loro merce. Sono rimasto praticamente solo in mezzo alla piazza, e bagnato fradicio mi sono ripresentato al venditore per vedere se c’erano stati ripensamenti. Me lo ha quasi tirato dietro, l’ho portato via sborsando un quarto rispetto alla richiesta iniziale, avvolto nel kway per salvarlo dall’acqua. Quando sono salito in macchina l’ho allagata, ma ero felice come una pasqua. Ne avevo qualche ragione. A casa ho scoperto che si tratta di un’opera dipinta a metà ottocento da un artista inglese. Non è famoso, non ne ho trovato notizia su internet, ma non mi importa. Il quadro è bello, ed è il gioiello della mia collezione.

Indagare

Torniamo adesso allo studio, dove le cose sono molto cambiate dalla nostra prima visita guidata. Anche qui ho ricavato degli spazi nuovi, inserendo altri ripiani e alzando la scaffalatura sino al soffitto. Gli interventi sembrano discretamente riusciti, il nuovo si è integrato bene col vecchio. Il cambiamento strutturale ha imposto l’adozione di una scaletta per arrivare ai ripiani più alti, anche questa opera di bricolage, dopo che per mesi avevo cercato invano qualcosa che rispondesse sia alle esigenze pratiche che a quelle estetiche. Il risultato mi soddisfa: la scala è leggera, solida, sicura e poco ingombrante, dello stesso legno degli scaffali. Dovrei brevettare il modello, perché ho l’impressione che i designers non abbiano in casa una biblioteca e sappiano nulla dei problemi di un bibliomane.

È stato necessario naturalmente anche ricollocare tutti i volumi secondo i criteri di visibilità, di frequenza d’accesso e di significatività che ti avevo già esposto a suo tempo. Tutto sommato anche i libri che sono stati sospinti lassù, oltre i due metri e settanta, rimangono discretamente visibili. Riesco ancora a leggerne i titoli senza gli occhiali, e quelli che non leggo li riconosco comunque dal dorso e dalla veste editoriale.

La migrazione ha riguardato soprattutto il comparto letterario: come abbiamo visto la letteratura italiana è transitata in blocco nel soggiorno, quelle straniere sono stipate in due scaffali d’angolo, sia pure forti di dieci ripiani ciascuno. La gran parte della narrativa però, segnatamente quella contemporanea, è ormai confinata nella camera di disimpegno o in quella di Chiara, e in più ci sono i libri direttamente trasferiti in camera tua, dove hanno gradualmente sostituito la letteratura per l’infanzia e per l’adolescenza.

I ripiani liberati da queste migrazioni sono stati spartiti come la Polonia tra i settori in forte espansione: la storia della scienza, la storia delle idee e la storia tout court, con una ricca appendice di biografie. Anche la Filosofia si è però ritagliata spazi nuovi o ha trovato qualche enclave in quelli altrui. Rispetto a quindici anni fa ne ho di molto rivalutato il peso, anche per motivi professionali, e di conseguenza ho provveduto ad assicurarmi la disponibilità delle opere fondamentali. Puoi constatarlo tu stessa: chiedi e ti sarà dato (in prestito). Ho comunque l’impressione che per la filosofia accada un po’ quello che è avviene ormai da un pezzo per la musica operistica. Si rigirano sempre gli stessi autori, tutti antecedenti la metà del Novecento, perché tra i contemporanei le idee e le riflessioni più significative arrivano o direttamente da altre “discipline” o dalle contaminazioni tra queste ultime. La Filosofia, quella con l’iniziale maiuscola, come “merce” culturale è in auge (le edicole sono invase da collane che raccontano i maggiori filosofi o ne ripropongono le opere), e rimane un alimento di base fondamentale, ma un po’ alla maniera della dieta mediterranea: irrinunciabile, ma non particolarmente fertile nel fornire stimoli nuovi al gusto e alla ricerca.

Quegli stimoli provengono piuttosto, come ti dicevo, dal versante scientifico. Sulla storia della scienza avevamo viaggiato nella puntata precedente un po’ di corsa. Eri stanca, e oggettivamente non me la sentivo di proporti percorsi che richiedevano un notevole impegno e una buona preparazione di base. Speravo li avresti scoperti strada facendo. Adesso però le basi bene o male le hai, e si aggiunge il fatto che nel frattempo i percorsi sono stati di molto facilitati, con la diffusione anche da noi di una letteratura scientifica divulgativa degna di questo nome.

Partiamo da un paio di indicazioni per un approccio “storico” alle discipline scientifiche. Negli ultimi anni ho regalato decine di copie della Storia di (quasi) tutto scritta da Bill Bryson (si, proprio lui, quello dei più divertenti libri di viaggio attualmente in circolazione). Alla Guanda si chiedono ancora oggi da dove arrivassero quegli ordinativi massicci: erano il premio speciale della direzione per gli studenti del mio liceo che avessero ben meritato, in qualsiasi campo o occasione. Ne sono rimasti tutti entusiasti. È una storia della scienza moderna scritta alla Bryson, quindi facile a capirsi, esilarante a leggersi, zeppa di aneddoti e di personaggi bizzarri, ma anche del tutto affidabile nei contenuti. E visto che siamo tornati a parlare di lui, ti segnalo che Bryson ha scritto una Storia della vita privata altrettanto divertente e altrettanto ricca nei contenuti e precisa nell’ informazione.

Molto scorrevole è anche L’avventura della scienza moderna di John Gribbin, più canonica nell’impostazione ma accattivante comunque alla lettura. Un classico da affrontare il prima possibile, ma già con un piccolo bagaglio di conoscenze specifiche alle spalle, è invece La nascita della scienza moderna in Europa, di Paolo Rossi. Tienilo presente: le generalità stesse dell’autore offrono un paradigma perfetto dello stato delle conoscenze e dei criteri di visibilità in questo disgraziato paese. L’abbinata Paolo e Rossi è quella che ricorre più frequentemente nell’anagrafe italiana –tanto da essere diventata quasi un esempio di mediocre normalità: ma per la stragrande maggioranza dei nostri connazionali, compresi quelli con una laurea alle spalle, identifica un calciatore o un comico, mentre uno tra i maggiori storici novecenteschi della scienza non lo conosce nessuno. Eppure Rossi era, prima ancora che un “sapiente”, una persona di buon senso spicciolo, che ha combattuto per tutta la sua carriera contro la prevalenza postmoderna delle interpretazioni sui fatti e ha scritto cose che oggi più che mai trovano una completa conferma.

Per fortuna non è stato l’unico. Nella prima puntata avevo accennato a J. S. Gouldcome al padre della divulgazione scientifica contemporanea. Bene, a lui e alla sua lezione si ispirano tutta una serie di discepoli, nostrani ed esteri, che stanno rendendo entusiasmante l’approccio ad argomenti un tempo riservati solo agli specialisti. Ne cito qualcuno, ma bada che tutti i ripiani ad altezza di sguardo alla tua destra sono pieni di libri che potresti leggere con profitto e con diletto senza alcuna necessità di conoscere la formula dell’ozono o la mappa del DNA.

Alcuni la prendono larga e partono dalla formazione dell’universo. Lo fanno ad esempio il celeberrimo Stephen Hawking in Dal Big Bang ai buchi neri e John Barrows con Le origini dell’universo. Addirittura Igor e Grichka Bogdanov azzardano ipotesi su cosa c’era Prima del Big bang. Anche se in una certa misura risultano superati dalle ultimissime ricerche sulle onde gravitazionali, sono ormai testi classici, e nelle grandi linee sono ancora le fonti migliori per capire cosa è accaduto quasi quindici miliardi di anni fa.

Altri raccontano invece le diverse concezioni cosmologiche, ovvero le idee che nel tempo l’uomo si è fatto della nascita dell’universo: è il caso de Le maschere dell’universo, di Edward Harrison, che ti consiglio caldamente per fart un’idea del rapporto che intercorre tra mitologia e scienza. Queste concezioni nascono dalla precocissima attenzione che gli uomini hanno rivolta al cosmo, quella raccontata ne I primi osservatori, di James Cornell. La trasformazione di questa attenzione in una scienza, col passaggio dall’astrologia all’astronomia, la trovi poi raccontata ne I re del sole, di Stuart Clark, ma anche ne I sonnambuli, di Arthur Koestler. In questo ambito c’è molto spazio per le tentazioni esoteriche, o quantomeno per interpretazioni piuttosto azzardate. Quando va bene ne escono libri come Il mulino di Amleto, di Giorgio di Santillana, che suggerisce ipotesi sulle conoscenze dei popoli mesopotamici di cinquemila anni fa difficilmente credibili, ma rimane comunque un’opera affascinante e suggestiva. Quando va male trovi invece messe in discussione tutte le conoscenze scientifiche attuali, “smascherate” come funzionali ad una sorta di complotto che va avanti da millenni. L’esempio più eclatante di quest’ultimo caso è Archeologia proibita, di Cremo e Thompson.

Puoi immaginare come io abbia in orrore i roghi dei libri, ma per questo farei un’eccezione, perché gli autori sparano panzane pseudoscientifiche in maniera così spudorata da non meritare nemmeno l’ironia. Credo si debba rispettare un limite, se non altro dettato dal buon gusto, anche nel dire o nello scrivere scemenze. Ho letto anch’io nell’adolescenza testi che ventilavano origini extraterrestri della nostra civiltà, o addirittura della nostra specie, e mi sono pure divertito: se non altro mi stimolavano ad approfondire in maniera corretta sempre nuove conoscenze, e non millantavano un credito scientifico farlocco con continui rimandi in nota ad una bibliografia sterminata. Erano i libri di Peter Kolosimo, autore piuttosto in voga negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, cose tipo Terra senza tempo o Non è terrestre; oppure Il mattino dei maghi, di Pawels e Bergier. Qui ancora li trovi, anche se in una biblioteca seria dovrebbero essere accolti solo previa indicazione ben stampata in copertina del tasso di nocività o di inattendibilità: credo però che anche le panzane debbano essere conosciute, se le si vuole efficacemente combattere. E credo che in certi casi possano essere addirittura utili ad avvicinare alle letture scientifiche le giovani menti assetate di mistero, di una conoscenza e di una appartenenza iniziatica che le apra a segreti millenari: sempre che, naturalmente, imparino poi subito a riconoscere le sorgenti non inquinate.

Lo spazio più consistente in assoluto di questa sezione è comunque quello dedicato alla paleontologia (e in questa faccio rientrare un po’ tutto ciò che ha a che fare con lo studio degli sviluppi più recenti della storia della vita, quelli relativi ai primati e alle vicende dell’ominazione).

Lo specifico della condizione animale, e segnatamente il punto di rottura per il passaggio a quella umana, lo trovi trattato da Robert Foley in Gli umani prima dell’umanità. Frans De Waal ne La scimmia che siamo e Robin Dunbar ne La scimmia pensante sottolineano in modo diverso la nostra appartenenza a pieno titolo alla specie dei primati. È ciò che fa anche Jared Diamond con Il terzo scimpanzé, in una impostazione di più ampio respiro, che attinge un po’ a tutto, dalla biologia alla sociologia e alla linguistica, per arrivare ad una conclusione tutt’altro che ottimistica. Per Diamond siamo scimmie in fondo “sbagliate”, che si portano dietro, come scoria ineliminabile dell’intelligenza e dei progressi materiali, il seme di una distruzione suicida. Difficile dargli torto.

Il nodo della “ominazione”, del salto di qualità che si verifica ad un certo punto (non all’improvviso, naturalmente: stiamo parlando di un processo lungo milioni di anni) e che con una differenziazione di poco più dell’un per cento nel corredo genetico ci rende così diversi dai nostri cugini scimpanzé, rimane l’enigma più affascinante della storia umana: e credo rimarrà tale. Probabilmente si è trattato di una successione di piccoli mutamenti, l’uno conseguente l’altro, indotti dalla necessità di adeguarsi a condizioni ambientali sempre mutevoli (glaciazioni, desertificazioni, ecc …): non di un processo lineare, quindi, ma di una serie di tentativi – anche se la parola non è esatta, perché sembrerebbe sottintendere una volontarietà, mentre qui si parla sempre di casualità o di risposte adattive.

Si può leggere questa storia come un romanzo giallo, nel quale gli indizi sono moltissimi, ma indirizzano in direzioni diverse, le prove certe sono ben poche e gli investigatori sembrano orientati a seguire le piste più svariate a seconda della loro appartenenza a corpi di polizia ben distinti. A differenza dei romanzi gialli classici, questo pare non avere una soluzione: e paradossalmente sta proprio qui il suo fascino.

Tra gli autori che ti ho segnalato (come tra tutti gli altri che non sto ad elencare, hai a disposizione sette ripiani zeppi per sbizzarrirti) c’è chi sottolinea soprattutto i passaggi biologici, e chi invece, come appunto Diamond, attribuisce grande peso alle acquisizioni culturali. Non è una differenza da poco. Significa nel primo caso ritenere che continui a prevalere anche negli umani una sorta di determinismo, che può essere inteso come prettamente biologico (il famoso Gene egoista di Dawkins) o più genericamente come ambientale. Oppure, nel secondo caso, considerare lo sviluppo culturale come un capitolo a parte della storia naturale, addirittura un’appendice che ne riscrive totalmente i modi e ne inverte la direzione.

Alcune cose sono comunque chiare. È un passaggio biologico l’adozione della postura eretta, e lo è anche la nascita della funzione fonetica che sembra conseguirne: ma ciò che viene dopo, il linguaggio e il pensiero simbolico, vanno già annoverati tra i portati culturali. In linea di massima funziona tutto così. Naturalmente in mezzo ci stanno poi tutti gli accidenti e le occasioni prodotti dall’ambiente: oltre alle glaciazioni e alle desertificazioni, le malattie, i terremoti e altre manifestazioni dell’attività della natura che possono avere inciso sull’evoluzione: nonché la concorrenza con gli animali o con le altre forme, quelle ormai estinte, della nostra specie (parlo di specie homo in generale perché ormai sembrano comprovate le ibridazioni: e questo aggiunge pepe alla vicenda). Insomma, è una gran bella storia, incredibilmente avventurosa.

Bella almeno per noi, perché nella sua ultimissima fase ha preso una piega poco piacevole per tutte le altre specie e per l’ambiente in generale. Ma se si vuole contribuire a indirizzarla verso un lieto fine è necessario conoscerla. Cominciando dai dati che abbiamo a disposizione: nel recentissimo Ultime notizie sull’evoluzione, di Giorgio Manzi, trovi ad esempio un riassunto estremamente semplice e aggiornato di quanto di nuovo è stato scoperto negli ultimi vent’anni: e si tratta di novità che ci hanno costretti a modificare tutte le precedenti chiavi di lettura, e a ripensare anche le derive e le possibili conseguenze dei nostri attuali comportamenti.

Un tentativo di riassunto storico-naturalistico globale lo ha azzardato Yuval Noah Harari in Da animali a dei (seguito poi da Homo deus, molto meno convincente). Non è il primo, perché già Jan Tatterstal (con Il cammino dell’uomo e Il mondo prima della storia) e altri lo avevano fatto: ma è quello forse più coraggioso (e come tale, magari, non sempre attendibile), sufficiente comunque a mettere in riga quanto già accertato e a farne un racconto coerente. Se vuoi invece scendere nel dettaglio, soffermandoti sugli “inizi”, devi vederti sia La specie imprevista di Henry Gee, un paleontologo che fa le pulci alla sua stessa disciplina, e La vita inaspettata di Telmo Pievani, attualmente il più battagliero evoluzionista italiano, una sorta di “mastino di Darwin”. Sapere che la nostra specie non era affatto “necessaria”, che non costituiamo la fase più alta di un disegno intelligente, ma il frutto di una casualità, di una pura contingenza (o quasi), è una bella lezione di umiltà. È la premessa necessaria a tutto quanto puoi poi leggere su cosa è successo dopo che quella condizione affatto improbabile si è verificata.

E qui hai da sbizzarrirti. Ann Gibson racconta ad esempio, ne Il primo uomo, come si sono affermati in brevissimo tempo alcuni tratti peculiari dell’uomo attuale, come la corporatura, la dieta alimentare, il colore della pelle. La stessa cosa fa, in maniera ancor più approfondita, Daniel Lieberman ne La storia del corpo umano. Altri si concentrano invece sulle caratteristiche psicologiche: di come funziona il nostro cervello parlano Ken Richardson in Che cos’è l’intelligenza e Gary Marcus ne La nascita della mente, mentre Boncinelli con Il cervello, la mente e l’anima mette i puntini sulle i sulle diverse funzioni emozionali e cognitive. Particolarmente intrigante, e dibattuta, è l’origine dei comportamenti morali: trovi tre diverse spiegazioni, ad esempio, fornite da Emanuele Coco in Egoisti, malvagi e generosi, da Frans De Waal in Naturalmente buoni e da Marc Hauser in Menti morali. O ancora, interessantissima è la ricerca sulle origini e soprattutto sul peso del linguaggio nella svolta evoluzionistica verso il primato della “cultura”: vedi ad esempio Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue, di Robin Dunbar o Origini del linguaggio.

Possono poi risultare intriganti alcuni studi sulla specificità di genere: L’animale donna, di Desmond Morris è “politicamente” molto corretto, ma fa un ritratto esauriente delle caratteristiche “zoologiche” femminili, mentre L’origine della donna, di Elaine Morgan, risente di una smaccata impostazione femminista (è stato scritto agli inizi degli anni settanta dello scorso secolo), ma offre anche intuizioni illuminanti e una scrittura molto divertente.

Se poi vuoi andare oltre, o meglio, risalire più indietro ancora, leggiti per iniziare La mente animale, di Enrico Alleva.

Quanto ai testi classici dell’evoluzionismo, quelli ci sono proprio tutti. Al solo Darwin è consacrato un intero ripiano, tra le cose sue (cinque diverse edizioni de L’origine della specie)e l’infinita serie di titoli che lo chiamano in ballo, che va da Darwin e le Galapagos fino a Colpa di Darwin, passando per La sacra causa di Darwin, Gli errori di Darwin e Ripensare Darwin).

La storia dell’evoluzionismo è invece raccontata in Una lunga pazienza cieca di Giulio Barsanti, e ne La sacra causa di Darwin, di Desmond e Morris, i due maggiori biografi dello scienziato inglese. Una narrazione riassuntiva puoi trovarla anche in uno dei tanti libri di Giorgio Odifreddi, In principio era Darwin.

È una storia tutt’altro che noiosa. Intanto l’evoluzionismo è stato combattuto da ogni sponda, da destra e da sinistra, dalle religioni e dalle ideologie. In alcuni stati degli USA ancora oggi non viene insegnato nelle scuole. Ma soprattutto ha dato origine a molte interpretazioni forzate, lontanissime da quella originaria di Darwin, alcune delle quali avvallano il razzismo. Come questo abbia potuto accadere lo spiega il solito Gouldin Intelligenza e pregiudizio, ma trovi poi qui molti altri testi sull’argomento, da L’invenzione della razza di Guido Barbujani a Il razzismo di Pierre-André Taguieff e Lo spazio del razzismo di Michel Wierviorka. E con essi cambiamo scaffale e ci addentriamo nella storia delle idee.

Pensare

Alla storia delle idee avevo riservato quindici anni fa uno spazio ancora più ristretto. Non che considerassi questo settore meno importante di altri, ma mi sembrava un po’ prematuro per un tuo possibile interesse. E anche, lo confesso, perché tutto sommato riesce difficile circoscriverne l’ambito. Ci provo ora, sperando di non fare troppa confusione.

La storia delle idee si situa ad una specie di crocevia dove confluiscono diverse discipline: indaga praticamente tutti i campi del sapere, dalla storia della filosofia a quelle della letteratura e della scienza, dalla storia delle religioni o delle arti a quella politica e sociale, cercando di mettere in luce gli schemi, i codici, i paradigmi che le orientano e analizzando le dottrine e le ideologie che ne conseguono. Coglie di quegli schemi e di quei codici le evoluzioni, le persistenze, le discontinuità, e mostra come le rotture “concettuali” trovino poi riscontro sul piano materiale, nell’economia, nelle istituzioni politiche, nei rapporti sociali. Insomma, per dirla in parole povere, si occupa di identificare i fili che tengono assieme un po’ tutto l’agire umano, e che gli trasmettono un senso. Non è una quindi una disciplina, ma una sovra-disciplina, che si nutre di tutte le altre.

Di conseguenza qui puoi trovare autori che assommano competenze disparate e rappresentano il meglio del pensiero della seconda metà del secolo scorso. La gran parte di essi sono, naturalmente, ebrei.

Di Isaiah Berlin ti ho già ampiamente parlato, ma vale la pena tornarci. Ha svolto la sua riflessione a cavallo tra politica e filosofia, ponendo essenzialmente il problema della convivenza di valori fondamentali come libertà e giustizia, che sono compatibili, ma solo quando si trova la giusta ricetta e il giusto dosaggio degli ingredienti. Essendo un realista e un “moderato”, che prendeva le distanze da ogni ideologia e cercava di far lavorare il buon senso, non gode in Italia di una grande popolarità. Il che di per sé non sarebbe un male, perché un pensatore non deve essere popolare (essere popolare significa di solito o pensare in maniera poco originale o cercare volutamente il consenso attraverso la stravaganza). Ma Berlin non è popolare nel senso che non lo leggono nemmeno coloro che trattano gli stessi suoi temi e dovrebbero comunque confrontarsi con lui, avendo senz’altro molto da imparare. Se proverai a seguire il dibattito politico, cosa che mi pare improbabile (e ti capisco), dubito che lo sentirai nominare. Eppure i suoi scritti, quelli che trovi raccolti in Quattro saggi sulla libertà, ne Il legno storto dell’umanità e ne Il riccio e la volpe rimarranno fondamentali. Bada però di non attenderti analisi entusiasmanti: anzi, a dirla tutta l’entusiasmo, quello che facilmente scivola nel fanatismo, nella pretesa di perfezione, è proprio ciò contro cui ci mettono in guardia. Berlin è un fautore del compromesso, non di quello basso e meschino, bensì di quello intelligente, che nasce dall’uso della razionalità e dal senso di responsabilità. Per questo dalle nostre parti non incontra.

Un’altra mente coi fiocchi è quella di George Steiner. Tecnicamente Steiner sarebbe un critico letterario: in realtà nei suoi saggi, sotto le specie di radiografie dei più importanti temi letterari, passano diagnosi impietose sullo stato generale della nostra società. Come puoi constatare, a breve avrà diritto anche lui come Leopardi e Darwin ad un ripiano tutto suo, perché gran parte delle sue opere le avevo già reperite in francese prima che fossero pubblicate anche in Italia, e naturalmente le ho poi prese anche nella nostra lingua. Non sto ad elencarti tutti i titoli, sono lì: posso però dirti che potresti trovare già oggi interessanti almeno alcuni dei saggi contenuti in Dopo Babele, dove parla del linguaggio, in Nostalgia dell’assoluto, conversazioni sull’utopia, e in Nessuna passione spenta, che a dispetto del titolo analizza la tristezza del pensiero contemporaneo.

Steiner ha anche scritto uno dei libri che avevo in mente di scrivere io e che non ho mai scritto. Si intitola, guarda un po’, “I libri che non ho scritto”. Tuttavia l’impostazione non è esattamente quella che io avrei dato, per cui l’alibi cui mi aggrappo sempre (lo hanno già fatto altri, e meglio) non regge. In sostanza sviluppa la traccia di quelli che avrebbero potuto essere saggi fondamentali, ma lo fa in maniera tale che le tracce diventano esse stesse fondamentali. Prendi ad esempio uno degli argomenti che più mi hanno da sempre intrigato, la natura dell’ebraismo e le cause remote dell’antisemitismo. Per Steiner queste ultime sono da ricondurre all’introduzione del monoteismo, che responsabilizza in maniera pesante gli uomini nei confronti di Dio, mentre il politeismo concede maggiori margini di libertà, lascia delle scappatoie. Ovvio che sotto sotto gli umani rimpiangano quest’ultimo. E così quando, come alla fine del Settecento e poi nuovamente dell’Ottocento, le trasformazioni economiche e sociali si fanno pesanti e le illusioni illuministiche e positivistiche relative al progresso crollano, si crea lo sconcerto, la paura di una perdita di senso (quello che Leopardi chiama “il tedio”), e scatta la caccia al capro espiatorio. “Meglio le tenebre della noia” è il grido di battaglia che informa tutto il Romanticismo e le sue appendici novecentesche, innescando un impulso suicida che sfocerà nelle due guerre mondiali: e in questo quadro di autodistruzione si inserisce anche il genocidio ebraico.

Mi sono attardato a riassumere questa interpretazione perché credo possa essere tranquillamente (insomma!) applicata ai tempi nostri: per dimostrarti cioè come queste letture possano fornirti gli strumenti per una interpretazione del presente che nessuna analisi politica o sociologica sarà mai in grado di fornirti. Pensatori come Steiner o Berlin non partono mai dalla declinazione attuale di idee, idealità o ideologie. Vanno direttamente alla matrice, alla sostanza: identificano degli archetipi.

Lo stesso vale per le opere di Sebastiano Timpanaro. Quelle che trovi qui sono frutto di una ricerca appassionante e frenetica. La figura di questo filologo è infatti diventata per me addirittura un’ossessione, quasi come per Humboldt. Un’ossessione perché i suoi libri erano, e sono tuttora in gran parte, praticamente introvabili, e perché avendolo scoperto con colpevole ritardo – Timpanaro lo conoscevo, ma solo superficialmente, come uno dei tanti nomi della critica leopardiana, e non lo avevo mai letto con attenzione – ero impaziente di rifarmi, e di rendergli giustizia. Anche lui è molto più considerato all’estero che in Italia, probabilmente perché pur essendo “di sinistra”, addirittura un militante, risulta scomodo per una cultura di sinistra che si nutre ormai solo di slogan e di ignoranza.

Perché questa infatuazione per Timpanaro? Per vari motivi. Uno è di carattere etico. Era una persona incredibilmente schiva, onesta e coerente, tratti assolutamente non comuni negli intellettuali italiani (ma anche più genericamente negli intellettuali tout court). Poi c’è il suo rapporto con Leopardi. È il critico che lo ha capito meglio, e che ha saputo sottrarlo anche alle interpretazioni “progressiste” di una sinistra che lo ha scoperto solo dopo centocinquant’anni, e restituirlo alla sua assoluta laicità. C’è anche il rapporto col marxismo. Magari in questo sono un po’ meno consonante, ma devo ammettere che ne dà una interpretazione innovativa e onesta. C’è ancora l’importanza attribuita alle scienze naturali per la comprensione della storia. E infine c’è lo smascheramento di quel grande bluff che è stata nel secolo scorso la psicanalisi. Avrai capito adesso perché è diventato un mio imprescindibile referente.

Questi sono i fondamentali: ma gli autori che possono dare un contributo particolare alla tua comprensione del mondo non riempiono solo i due ripiani d’angolo, sono poi sparsi un po’ dovunque, in tutte le altre sezioni. Non è il caso di citarli tutti. Spero che a breve tu scopra Christopher Lasch (Il paradiso in terra, La rivolta delle élites) o Elias Canetti, del quale in realtà ti avevo già parlato (cominciando dall’autobiografia, La lingua salvata, Il frutto del fuoco), o Harold Bloom (Il canone occidentale). E a quelli che mi sembrano i tuoi interessi preminenti può dare risposte immediate Norbert Elias (La civiltà delle buone maniere, Humana conditio). Insomma, non ti basterà una vita per goderti tutti questi tesori, come non è bastata a me. Ma tu almeno potrai scegliere per tempo.

La storia delle idee percorre strade diverse. A volte l’analisi parte dalla storia del costume ma va poi oltre, perché non si limita a testimoniare le trasformazioni ma cerca di interpretarle e di coglierne le ricadute a livello dei modi di pensare, oppure di indagare le continuità che caratterizzano determinati popoli e culture. Direi che rimane attualissimo ed esemplare in questo senso il Discorso sullo stato presente degli italiani del Leopardi, e che in Italia la fustigazione dei costumi è stata sempre uno sport molto diffuso. Ma per capire il mutamento antropologico e quello paesaggistico ambientale negli anni ottanta dello scorso secolo ti conviene leggere La prevalenza del cretino, di Fruttero e Lucentini e magari il Viaggio in Italia di Ceronetti. Garantisco che ti divertirai.

Ricordare

 E arriviamo finalmente all’ultima sezione, la più consistente di tutta la biblioteca, quella che le che le dà l’impronta e che dovrebbe interessarti in maniera particolare, visto che hai deciso recentemente di passare alla facoltà di Storia. Confesso di non aver ben capito quali considerazioni ti abbiano indotto a questa scelta, ma certamente non erano di carattere opportunistico. Sotto il profilo degli sbocchi lavorativi è un autentico salto nel buio. È vero anche che il non puntare a uno sbocco preciso consente di tenersene aperti molti: ma in questo caso occorrerà, al momento giusto, che tu abbia idee su ciò che intendi fare della tua vita molto più chiare di quanto non sembrino oggi. Detto ciò, e sperando che la maturazione arrivi il prima possibile, ti confesso che la cosa in fondo mi ha molto gratificato. Se non altro il patrimonio librario specifico che ho accumulato in sessant’anni continuerà ad avere un senso. Se poi lo vorrai, potrai approfittare anche di quel po’ di conoscenze che ne ho tratto.

Per il momento, non volendola tirare troppo in lungo, mi limito a segnalarti alcune cose che mi sembrano interessanti, oltre che per il valore intrinseco, per le lezioni di metodo che potrebbero fornirti.

Le ultime acquisizioni nella sezione di Storia spaziano dalle origini al mondo contemporaneo, ma sono state significativamente condizionate da una lunga ricerca sulle origini della pòlis (La vera storia della guerra di Troia). Ho raccolto quindi soprattutto opere relative alla storia greca, ma anche a quella delle donne, oltre che alla filosofia e al teatro greco comico e tragico. E ho vista confermata per l’ennesima volta una verità che viene ripetuta almeno a partire dal Rinascimento: ad ogni rilettura i classici ti offrono l’occasione per scoprire qualcosa di nuovo. Questa verità la diamo talmente per scontata che poi non la traduciamo in una prassi: in spiccioli, non li rileggiamo quanto dovremmo, a volte non li rileggiamo affatto e ci fermiamo ad una conoscenza puramente scolastica (che significa svogliata e imbalsamata). Ora, di per sé i classici, se ti rivolgi a loro come a busti di marmo, ovviamente non parlano: sta a noi cercare di rianimarli con una frequentazione calda e non reverenziale, e guadagnarci quella confidenza che consente di porre le domande in una maniera nuova: le risposte in questo caso arriveranno sempre, spesso molto diverse da quelle che ci si attendeva.

Su questi argomenti hai adesso a disposizione, oltre a edizioni filologicamente accurate di tutti i testi fondamentali, una piccola biblioteca tematica, nella quale spiccano una volta tanto gli studiosi italiani: ci sono i saggi di Luciano Canfora (ad esempio La crisi dell’utopia, Aristofane contro Platone, o ancora Il mondo di Atene e Il viaggio di Artemidoro), che non mi trova sempre in sintonia per quanto concerne le interpretazioni ma è senz’altro uno dei migliori studiosi in assoluto del periodo; nonché quelli di Eva Cantarella, a partire da L’ambiguo malanno a Secondo natura, e poi Itaca e Ippopotami e sirene. Sono autori che possiedono il dono di una scrittura semplice e di una trattazione coinvolgente, soprattutto la Cantarella, che è la meno ideologicamente orientata. Altri in realtà mi convincono solo in parte: Piero Boitani, ad esempio, e tutta la serie di opere sue molto “patinate” su Ulisse o sulla mitologia greca, che comunque rimangono un’utile miniera di spunti.

Le vere illuminazioni arrivano però da E. Dodds. Ne I greci e l’irrazionale ti porta a rileggere in una chiave completamente nuova cose che già credevi di conoscere. Ne vengono fuori interpretazioni di atteggiamenti, credenze e paure del mondo ellenico antico che appaiono immediatamente come le più logiche, addirittura ovvie, ma alle quali non avevi affatto pensato. E soprattutto lo fa senza eccessivi squilli di tromba: non vuole spiazzare e stupire il lettore, ma semplicemente aiutarlo a capire. È un ottimo esempio di quanto ti dicevo poco sopra.

Più controverso è invece Atena nera, dove Martin Bernal sostiene la tesi di una figliazione diretta della cultura occidentale, attraverso quella greca, dalla tradizione sapienziale afroasiatica (quella degli Egizi e dei Fenici in particolare). Il legame è stato negato o minimizzato nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento da quello che Bernal chiama “modello storiografico ariano”, che come puoi ben immaginare rimanda invece la paternità alle migrazioni indoeuropee e sposa l’idea di una civiltà europea originaria. Ora, in effetti i Greci stessi attribuivano a tutti i loro sapienti, da Solone a Pitagora, esperienze di tipo quasi iniziatico in Oriente, ciò che confermerebbe in linea di massima la bontà della tesi di Bernal: ma quest’ultimo si affida a una serie di azzardi filologici ed etimologici talmente forzati da perdere ogni credibilità scientifica. Ciò che sembra importargli non è tanto ricostruire la realtà di quegli influssi quanto affermare una sorta di primogenitura africana della civiltà. Lo fa in qualche modo gridando la sua verità, come se il tono di voce potesse da solo compensare la carenza di rigore e di conoscenze, un po’ come accade ormai in tutti i confronti, specialmente in quelli televisivi: e così anche quel che c’è di vero e di stimolante nella sua ricostruzione viene banalizzato dalla forzatura ideologica.

Il dibattito suscitato da questa opera è emblematico. Da un lato stanno gli specialisti accademici europei, che esigono che ogni tesi, per poter essere presa in considerazione, debba essere sorretta da argomentazioni filologicamente corrette, dall’altro gli intellettuali di colore, soprattutto quelli statunitensi, che accusano la scienza storica “tradizionale” di fondarsi su criteri che esaltano di per sé l’eccezionalità “bianca” e i suoi esiti, materiali e morali. Per colmo di paradosso qualcuno è arrivato anche a tacciare Bernal di sudditanza nei confronti della cultura occidentale, perché avrebbe posto la cultura africana su una linea di continuità con la prima, come a cercare di nobilitarla, invece di concederle una dignità autonoma.

Capisco che la diatriba ti parrà noiosa e per qualche aspetto anche patetica, ma se ti occuperai di storia certe cose devi fissartele subito in testa: la storia non è una scienza esatta, non può esserlo per la natura stessa dell’oggetto di cui tratta, ma nemmeno può essere ridotta a pura opinione. C’è una via di mezzo, che va garantita non solo dall’onestà intellettuale ma anche dalla professionalità dello storico. In questo caso specifico, ad esempio, la figliazione non la si può ignorare, ma è anche innegabile che la cultura dell’occidente ha preso ad un certo punto una strada tutta sua, buona o cattiva che la si voglia considerare. In senso più generale, occorre diffidare di ogni interpretazione che piega i fatti al servizio di una causa: quando anche quella interpretazione potesse apparirti intuitivamente vera, non sarebbe comunque corretta. I fatti non devono essere “piegati”, ma “spiegati”. L’unica causa giusta per lo storico è quella dell’approssimazione alla verità, e l’unica verità per lo storico è quella della ricostruzione il più possibile accurata e fondata di quanto è accaduto. Spero che tu abbia sempre delle opinioni, che le coltivi autonomamente anziché lasciartele imporre e che abbia la forza di esprimerle e di difenderle: ma spero anche che se abbraccerai questo lavoro saprai tenerle al loro posto.

Non vorrei con questo aver guastato il tuo entusiasmo per la storia. Intendevo solo ribadire che fare le cose con passione è bello, ma il vero piacere sta nel farle bene. Per tornare a noi, io ho cercato ad esempio in quest’ultimo periodo di coprire con un po’ più di metodo tutte le aree bianche, le terre che erano rimaste inesplorate nel mio atlante storico. E così la sottosezione di Storia romana, che era già piuttosto ampia e coperta, si è arricchita soprattutto di biografie, da quelle di Cesare e di Augusto a quelle dei grandi nemici di Roma, Annibale e Spartaco in testa, fino a Cicerone, a Plinio e a Lucrezio.

Le biografie, quando non sono raffazzonate o puramente pettegole, ti consentono di guardare ai fatti da un’altra angolatura. La nostra immaginazione storica ci porta a visualizzare ciò che è accaduto duemila e passa anni fa come un grande scenario animato sullo sfondo da conflitti, congiure, trattati, o da attività che percepiamo solo come cifre e dati economici. Ma quando questo scenario è attraversato in lungo e in largo da un personaggio vengono in primo piano i particolari, ci si avvicinano, si definiscono. Dopo aver letto l’Augusto di Luciano Canfora mi sembrava di aver vissuto per cinquant’anni nella Roma del massimo splendore.

Lo stesso vale per ogni periodo, e quindi anche per la storia medioevale. In questa sezione però, anche se le biografie hanno dato un apporto consistente, le novità più interessanti riguardano le storie delle varie popolazioni e delle diverse culture che con quella europea sono venute a contatto nel corso di un millennio: Unni, Goti, Avari, Arabi, Normanni, Saraceni, Mongoli, Turchi, ecc … Bernal non potrebbe dire che mi manchi l’interesse per le culture non europee. In verità c’è di mezzo senz’altro anche un esotismo ancora eurocentrico, la curiosità per mondi, personaggi, vicende e tradizioni che ho conosciuto quasi sempre solo di sponda, quando facevano irruzione nella storia del nostro continente. Leggendo Gli arabi e l’Europa, di Norman Daniel, o I mussulmani alla scoperta dell’ Europa, di Bernard Lewis, o ancora Girotondo cinese, di Jonathan Spence, e ultimamente Il divano di Istanbul di Alessandro Barbero, ho sentito diminuire notevolmente la distanza, sia temporale che spaziale, e ho anche capito la consonanza che entrambi abbiamo avvertito nel corso del recente viaggio in Turchia (temo però che oggi l’avvertiremmo molto meno).

Al momento comunque mi sembra che al centro dei tuoi interessi ci sia la nascita della modernità. Bene, l’argomento ha trovato trattazioni eccellenti soprattutto nella storiografia inglese e in quella francese. In un volume che ho preso, lo confesso, solo per il richiamo del titolo (Tour de France), Richard Cobb studia il periodo immediatamente precedente o immediatamente successivo la rivoluzione in un’ottica che si discosta molto da quella dei suoi colleghi di qua della Manica. Ma in generale è interessante vedere come le stesse vicende assumano una diversa coloritura a seconda delle scuole storiografiche. I punti di vista adottati la dicono lunga sul carattere e sulle tradizioni di studio delle varie culture nazionali.

Prendi L’ancien régime, di Pierre Goubert, e Il mondo che abbiamo perduto, di Peter Laslett. Parlano dello stesso periodo, la società preindustriale tra XVII e XVIII secolo: ma mentre il francese analizza il clima istituzionale, i poteri, la demografia, i regimi di proprietà, ovvero gli aspetti più marcatamente quantitativi, il secondo racconta la quotidianità della vita, la fame, la condizione dei figli illegittimi, i livelli di istruzione, ecc … E soprattutto, pone l’accento sulla trasformazione. Questo è senz’altro spiegabile col fatto che in quei due secoli l’Inghilterra, sotto la spinta della rivoluzione industriale, ha letteralmente cambiato pelle, al contrario della Francia dove la situazione è rimasta cristallizzata e a scuoterla è dovuta arrivare, in ritardo di duecento anni, una rivoluzione politica: ma c’è dietro anche una attenzione tutta anglosassone per i fattori di mutamento, laddove i francesi guardano più alla continuità. Il tema magari non ti appassionerà molto, ma se guardi ad esempio alla storiografia militare trovi opere come La rivoluzione militare di Geoffrey Parker o Caccia al potere di William Mc Neill che ti fanno perfettamente comprendere quali ricadute sociali, economiche e culturali possano avere le innovazioni negli armamenti e la conseguente adozione di tattiche e di strategie completamente diverse. In genere non ci riflettiamo molto, ma c’è una sinistra correlazione tra la crescita dell’aspettativa di vita, che sottintende miglioramenti economici, politici e culturali, e lo sviluppo quantitativo e qualitativo della capacità di dare la morte.

Gli inglesi sono inoltre, a dispetto del loro sciovinismo, molto curiosi di ciò che accade a casa d’altri, per cui troverai grandi affreschi sulla storia italiana, francese, tedesca o russa, cose come L’impero degli Asburgo di C. A. Macartney o la Storia della Germania di Alan Taylor. E prendono anche posizione, nel senso che una vicenda, un personaggio, un pezzo di storia li squadrano da ogni lato e poi danno un giudizio, tirano una conclusione, spesso molto anticonformista (qualcuno direbbe che esprimono in questo modo la loro radicata presunzione di superiorità). Taylor, ad esempio, ha suscitato un sacco di polemiche arrivando alla conclusione poco “politicamente corretta” che i tedeschi, stante la loro storia, erano praticamente destinati a scivolare nel nazismo.

I continentali invece, e i francesi in particolare, sulla scorta della tradizione delle Annales guardano maggiormente alla “cultura materiale” e tendono a scorgere nei mutamenti economici, di grande o di piccolo impatto, gli indicatori più significativi: ma lasciano poi che le conclusioni uno se le tragga da solo. A loro volta i tedeschi prestano attenzione soprattutto ai cambiamenti istituzionali e religiosi: se vuoi degli studi accurati sulle trasformazioni della nobiltà, o sulla nascita delle istituzioni statali, puoi rivolgerti a Otto Brunner, Vita nobiliare e cultura europea, mentre per il luteranesimo dovrai leggere almeno la Storia della riforma di Joseph Lortz e Erwin Iserloh. E visto che ho accennato all’importanza delle biografie, tieni presente senz’altro Franz Herre, che ha raccontato con precisione davvero tedesca le vite di Francesco Giuseppe, di Bismarck e di Metternich.

Ora, è chiaro che sto schematizzando molto all’ingrosso, e che poi ciascuno ha i suoi interessi particolari, un suo metodo per svilupparli e un suo modo per raccontarli: ma credo che un po’ di verità in queste categorie ci sia, e che in fondo sia anche utile andarle di volta in volta a verificare. Credo però soprattutto che il carattere nazionale, frutto di una tradizione culturale che per gli inglesi è ormai millenaria, si manifesti nel loro caso in una naturale ironia, intesa come capacità di distacco (loro lo chiamano understatement), che non è superficialità, al contrario, è rigore applicato al lavoro senza che il lavoro stesso diventi una “causa”.

Il risultato è una scrittura storica leggibile e coinvolgente, ma che non sacrifica nulla alla completezza. Non potrai fare il confronto con i goffi tentativi di imitazione nostrana rappresentati ad esempio dalla Storia d’Italia di Montanelli e Gervaso, volutamente esclusa da questi scaffali, perché sto parlando di studi e di studiosi seri, che non vanno a rovistare nei comodini da notte. La differenza però la avverti anche rispetto a storici la cui competenza è garantita. Prendiamo ad esempio quell’Alessandro Barbero che già conosci per aver letto libri suoi ed averlo ascoltato, anche dal vivo. Barbero cerca di raccontare la storia senza appesantirla di apparati di note o di un linguaggio troppo tecnico o paludato: è un tentativo lodevole, lui è bravo, conosce bene le cose di cui parla (anche se si occupa in effetti di un arco di tremila anni), tende giustamente a “sdrammatizzare”. Il risultato sono buoni libri, che possono indurre a leggere storia anche persone che non coltivino un interesse specifico per la disciplina: un’ottima divulgazione, insomma. Eppure, in questo tipo di scrittura “all’inglese” io colgo qualcosa di forzato. Si sente che Barbero “vuole” essere divertente. Non è un difetto suo, è un tratto del carattere italiano. Don Abbondio direbbe che chiaramente se uno l’understatement non ce l’ha non se lo può dare. Noi non lo abbiamo, loro per il momento ancora si. Per questo la grande storia è quella inglese, e se vorrai entrare nel suo tempio prima o poi dovrai migrare a Cambridge.

Devo poi tornare su un tasto che avevo già toccato quindici anni fa e sfiorato un paio di pagine sopra, ma solo per segnalarti che non è cambiato nulla; troverai qui pochissime opere di autori asiatici, arabi o africani. Non sono io a discriminare: il ritardo in questo campo rimane enorme, studi di autori extraeuropei proprio non se ne pubblicano, e quelli pubblicati spesso non reggono affatto ad un esame critico, sono solo lavori propagandistici o atti di accusa.

Questo ripropone il problema: perché i non europei, con la parziale esclusione degli americani, sembrano non amare la storia? Davvero la storia come è stata scritta sino ad oggi in occidente è un falso clamoroso, oppure proprio non è compatibile col loro modo di pensare e di valutare i fatti? Cercare la risposta in una sorta di millenaria “esclusione” è davvero un atteggiamento molto eurocentrico: prima che l’occidente tra pause e scatti in avanti arrivasse a dominare (per meno di un secolo) tutto il globo la storia ha continuato a svolgersi anche in ogni altra parte del mondo. Solo, non è stata registrata e raccontata, o lo si è fatto in maniera molto parziale.

Non è un problema da poco: soggettivamente, perché mette in discussione l’oggetto di una passione che ha informato per tutti questi anni la direzione dei miei interessi, che ha dato senso oserei dire a tutta la mia vita culturale, e che a quanto pare potrebbe darla anche alla tua; e oggettivamente perché rimette in discussione il senso di tutta una civiltà. Io credo che non vedrò ormai grandi cambiamenti nell’approccio alla narrazione storica, ma colgo nitidamente quello già in atto, che considero decisamente negativo, di una abdicazione alla storia in favore della memoria: e temo che se questa deriva non verrà arginata l’oggetto dei tuoi studi, domani, sarà molto diverso da quello che ti ha spinto ad essi oggi.

Mi spiego. Sopra ho parlato di “esclusione dalla storia”. Bene, se c’è qualcuno che è stato escluso, non dalla storia ma senz’altro dal suo racconto, sono le donne. Oggi mi risulta che tra gli iscritti alla tua facoltà le femmine siano in maggioranza, ma certamente le cose non stavano così almeno fino a una quarantina d’anni fa. Il motivo era banale: le ragazze erano molto più interessate alla letteratura, che era anzi diventata un tramite attivo o passivo di emancipazione, che non ad una storia nella quale le donne sembravano non aver avuto alcuna parte. L’emergere negli ultimi tempi di storiche di livello come Eva Cantarella o Chiara Frugoni è legato alla apertura nell’alveo storico di nuovi ambiti, primo tra tutti appunto la storia delle donne. Ora, la Cantarella ad esempio, dopo aver esordito con studi sulla condizione femminile nel mondo greco o romano, da Un ambiguo malanno a I bassifondi dell’antichità, è poi passata a trattare temi di ordine molto più generale, nei quali la connotazione “di genere” ha un rilevo molto minore.

Ho però l’impressione che per il momento siano ancora poche le studiose in grado di fare come lei il salto di prospettiva. Forse è ancora troppo urgente l’esigenza di portare alla ribalta un ruolo femminile sino ad oggi misconosciuto, ma forse si tratta proprio di una diversa disposizione, apparentabile in un certo qual modo a quella delle culture non europee.

Rischio a questo punto davvero di annoiarti. Procedo quindi, non senza averti però fatto notare che il settore è stato ultimamente arricchito anche da acquisizioni “di pregio”: volumi di fattura elegante, editi da Franco Angeli, che non avrei mai potuto permettermi se non mi si fosse presentata un’autentica occasione. Una serie raccoglie le testimonianze di esploratori, mercanti, diplomatici o semplici viaggiatori in paesi esotici, o che tali apparivano comunque tre o quattro secoli fa, corredate da raffinatissime illustrazioni fuori testo. Sono opere che nella sostanza appagano molto più l’occhio che la sete di conoscenza, ma aprono comunque degli spiragli su aspetti curiosi o meno conosciuti della storia. Un’altra serie racconta invece gli antichi stati italiani, dalla repubblica di Venezia ai granducati vari, e anche in questo caso il valore dell’iconografia è molto superiore a quello storiografico. Il vero “pregio” a mio giudizio sta nel fatto che stimolano a sfogliarli anche per pura curiosità, o alla ricerca di un godimento estetico, senza che debba esserci dietro una precisa motivazione di ricerca: e fatalmente inducono poi a una lettura che non era nelle intenzioni originarie, quella dalla quale arrivano in genere le sorprese e le scoperte più gradite.

Andiamo comunque finalmente a concludere. Rimane solo la storia contemporanea. Qui la grande scoperta, purtroppo anche questa molto tardiva, è costituita da Tony Judt. Judt è (era: purtroppo è già scomparso) un mio coetaneo, del quale dovrai leggere prima o poi, possibilmente prima, Postwar, quel volumone di mille pagine che in questo momento è ancora accampato sulla mia scrivania. È uno splendido esempio di come si dovrebbe scrivere la storia. Ma leggiti anche Il tempo dell’oblio, che ti farà conoscere molti di quei protagonisti “poco ortodossi” delle vicende e del pensiero più recenti che nei manuali non compaiono mai, così come Novecento ti condurrà per mano alla conoscenza della storia culturale di un intero secolo.

Judt scrive: “Non solo non siamo riusciti a imparare granché dal passato … ma ci siamo convinti che il passato non ha nulla di interessante da insegnarci”. È la fotografia dell’atteggiamento diffuso oggi nei confronti della storia. Ma non si limita alla triste constatazione: si impegna poi in prima persona a dimostrare che è ancora possibile fare storia senza cedere alle tentazioni della polemica di parte e alle scappatoie della narrazione per compartimenti.

Il passato, che comprende anche quello prossimo, avrebbe moltissimo da insegnarci, se solo provassimo a distogliere lo sguardo dai nostri piedi per vedere come le tracce che lasciamo incrocino quelle di tanti cammini diversi. Se lo sguardo lo alzerai su questi scaffali, se lo farai scorrere su questi volumi, potrai riconoscere molti di quei cammini: dorsi di ogni colore, titoli in caratteri diversi, edizioni rilegate o cartonate, tutti contenuti però in uno spazio in fondo angusto, e orientati nella stessa direzione. E capirai allora che questi scaffali sono la visibile, concreta metafora del faticoso e travagliato cammino dell’umanità.

 

Con questo approdo si conclude il nostro secondo viaggio. Mi ero ripromesso di portarlo a termine in una ventina pagine, e infatti ne ho scritte il triplo. Come sempre. Ti prometto comunque che non ce ne saranno altri. I prossimi aggiornamenti li farai da sola.

In assenza di beni materiali e immobili significativi, questa è l’eredità che ti lascio. Senza altri vincoli se non quello che ho posto all’inizio, di non disperderla. Ne farai un po’ l’uso che vorrai: non deve esserti d’ingombro. Io te la affido perché qualcosa di simile avrei voluto fosse stato fatto con me. Intendiamoci: dai miei ho avuto moltissimo, non mi hanno lasciato libri ma mi hanno trasmesso dei valori, e nei libri ho in fondo cercato solo un riscontro a quei valori. Ma più di una volta, in tutti questi anni, leggendo le biografie degli autori e dei pensatori che più mi hanno interessato, ho provato a pensare come sarebbe stata la mia vita se avessi avuto a disposizione questo patrimonio nell’età della formazione. Non sarebbe cambiato molto, sul piano pratico: chi aveva i numeri, gente come Gorkij, Hamsun o Camus, li ha tirati fuori a dispetto di una infanzia povera e di famiglie tutt’altro che acculturate. Io quei numeri non li ho mai posseduti, e quindi non ho nulla da recriminare: ma la curiosità, quella l’ho avuta da sempre, e il poter precocemente rispondere ad alcune domande mi avrebbe senz’altro aiutato.

A fare che? Ma a “sapere”. È questo tutto ciò che conta, che non viene inficiato dalla nostra insignificanza nel tempo. Per quanto limitata, per quanto risibile possa sembrare la mia ricerca, un senso l’ho comunque trovato: e sta proprio nella ricerca stessa, che mi ha portato a capire quante cose non so. Sono un uomo socratico. Almeno so di non sapere. E questa è una conoscenza certa, incontestabile.

Alla fine, ho vinto io.

Camus e Leopardi

Camus e Leopardi copertinaa cura di Paolo Repetto, 16 agosto 2016

Irene Baccarini – Leopardi e Camus: il tempo ultimo dell’amicizia. 3

Luigi Capitano – L’assurdo e la rivolta. Camus alla luce di Leopardi 12

Irene Baccarini

Leopardi e Camus:
il tempo ultimo dell’amicizia

Di Leopardi non si trova traccia nei taccuini di Albert Camus, eppure in un’intervista radiofonica a cura di Giovanni Battista Angioletti, per il settimanale RAI «L’Approdo», alla domanda «Quali sono gli autori italiani di ogni tempo con i quali lei ha avuto rapporti particolarmente profittevoli?», Camus rispose: «Quello che io citerò al di sopra di tutti gli altri, perché è quello che ho anzitutto letto di più e meglio, colui col quale mi sento più fraterno, è Leopardi». Il rapporto di fraternità confessato dallo scrittore francese colma il vuoto che il critico nota nei taccuini e conferma la vicinanza di pensiero tra i due scrittori. Una vicinanza, quella con Leopardi, che il lettore di Camus sospetta più volte, ipotizza, anche attraverso ascendenze filosofiche comuni.

Più di uno studioso, seguendo le tracce leopardiane presenti — pur in maniera più nascosta — nell’opera di Camus, si è soffermato sul confronto tra i due autori. Il contributo più recente è sicuramente quello di Luigi Capitano, apparso nel 2010 su questa stessa rivista.1 Molto prima, nel 1972, era apparso lo studio di Norbert Jonard Leopardi et Camus,2 in cui veniva effettuata un’analisi puntuale delle tesi leopardiane, così come emergono nei componimenti poetici e nelle prose filosofiche, e il riscontro che esse trovano in diversi passaggi dell’opera di Camus. Ciò che si nota dal confronto complessivo delle opere dei due autori è la somiglianza delle loro posizioni di fronte all’impossibilità di dare un senso al male, alla sofferenza e alla morte; in altre parole la reazione dei due scrittori all’assurdità dell’esistenza. Reazione di rivolta, in entrambi i casi, che porta tanto Leopardi quanto Camus ad un faccia a faccia con la terribile verità con cui l’uomo spesso rifiuta di confrontarsi, l’«arido vero» appunto.

Come sottolinea giustamente Capitano, la posizione leopardiana può essere ricondotta a quella che Camus definisce «rivolta metafisica». Leopardi, scrive Capitano,

ha avvertito per primo l’urto e la dissonanza fra la «domanda fondamentale» e il silenzio del mondo. […] la lucida coscienza dell’assurdo conduce invece ad un’inevitabile «rivolta metafisica» nel senso di Camus, ossia ad una «sfida» aperta contro il nonsenso del mondo. La rivolta metafisica di Leopardi rimanda a quella dimensione dell’assurdo che sola consente di misurare la distanza fra il nichilismo contemporaneo e le sue più o meno remote condizioni storico-genealogiche. Primo fra tutti i pensatori dell’Occidente, Leopardi ha illuminato la soglia dell’assurdo e al tempo stesso ha trovato il coraggio invincibile di venire, per dirla con Michelstaedter, ai «ferri corti» con la propria vita e con l’arcano dell’esistenza universale, al punto di sognare di poter stringere attorno alla «nobil natura» del genio poetico l’intero genere umano che «a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato…» (Giacomo Leopardi, La ginestra, vv. 111-113). Leopardi ha già compiuto il passo fatale dall’esperienza solitaria dell’assurdo a quella rivolta comune contro il male metafisico che finisce col dare un barlume di senso alla nostra vita.3

La rivolta diviene dunque comune: la protesta leopardiana presuppone la costruzione della «social catena», in nome della quale gli uomini possono ritrovarsi uniti contro il nemico della Natura. A questa stessa prospettiva di solidarietà umana arriva anche Camus, come si vede sia da L’uomo in rivolta sia dal romanzo La peste. «“Noi siamo” davanti alla storia, e la storia deve fare i conti con questo “Noi siamo” che, a sua volta, deve mantenersi nella storia. Io ho bisogno degli altri, che hanno bisogno di me e di ciascuno», afferma Camus con convinzione in nome di una «lotta», che è anche, soprattutto, «fiera compassione».4 Nel romanzo la peste diviene metafora di un male non solo storico, un male più grande, che è in ognuno di noi e che può tornare a colpire in qualunque momento. Come afferma Sergio Givone nel suo libro Metafisica della peste, in Camus l’epidemia diventa

l’occasione di un esperimento cruciale: dove si tratta di misurare la tenuta di una parola di verità, parola ferma, non controvertibile, nell’orizzonte in cui della verità sembra non essere rimasto più nulla. Tale sarebbe, ad esempio, una parola che osasse porre l’alternativa fra un dovere assoluto (il dovere dell’aiuto e della condivisione) e un assoluto oscuramento di ogni senso (l’assurdo).5

Questo «esperimento cruciale» consente a Camus, secondo Givone, di fare un passo in avanti: dall’etica dell’assurdo (Il mito di Sisifo) e dall’etica della rivolta (L’uomo in rivolta), si passa qui all’etica della resistenza al male. È su questa base che l’ateo dottor Rieux può trovarsi vicino al Padre Paneloux: «Noi lavoriamo insieme per qualcosa che riunisce oltre le bestemmie e le preghiere. Questo solo è importante»,6 risponde Rieux al prete, che riconosce nel medico la mancanza di una prospettiva di grazia. La lotta comune che i due devono affrontare, dunque, non è una rivolta, ma una prova di resistenza per sconfiggere il male, una prova che impone di salvare prima di tutto l’altro, come se la misura della vittoria sul male possa darsi da ciò che si riesce a fare non contro il male stesso ma per gli altri. Non si lotta più contro qualcosa, si resiste piuttosto, e si lotta per qualcuno. È questa la dimensione della solidarietà, che si rivela nella concretezza dell’urgenza.

Non è forse un caso che Givone, nella sua ricognizione delle forme e dei significati della peste, presenti anche Leopardi. Il critico riporta una lettera del 30 ottobre 1836, nella quale il poeta scrive a suo padre di non aver saputo in tempo della diffusione della peste fino ad Ancona e conclude: «Se lo avessi saputo nessuna forza avrebbe potuto impedirmi di non venire, anche a piedi, a dividere il loro pericolo».7 Questa affermazione, rileva Givone, «farebbe sorridere di tenerezza, se il pensiero non corrispondesse al pensiero più autenticamente leopardiano».8 In effetti, il desiderio di condivisione esplicitato del poeta, anche in questo caso originato da una situazione di pericolo, commuove il lettore e, al tempo stesso, gli permette di comprendere le ragioni che stanno alla base della posizione che Leopardi raggiunge ne La ginestra. In qualche modo, l’uomo che scrive la lettera è anche il poeta «progressivo» del grande componimento: questa relazione mostra tutti gli aspetti e la complessità di un sentimento poetico. Sentimento che non si riduce alla sola prospettiva della solidarietà, ma che possiamo riportare nella sfera dell’amicizia, in base ai diversi significati che questa assume in Leopardi.

In un bel saggio Alberto Folin ha messo in luce i diversi momenti della riflessione leopardiana sull’amicizia. Un primo momento da considerare è quello che «riguarda l’opposizione homònoia / philìa […] e cioè quella che separa l’amicizia intesa come concordia tra i cittadini della polis — virtù, per così dire politica — dall’amicizia intesa propriamente come philìa e concepita come rapporto interpersonale tra individui, e quindi tra singolarità finite».9 In tale direzione vi è una differenza tra gli antichi e i moderni. «Dopo che l’eroismo è sparito dal mondo — annota Leopardi nello Zibaldone –, e in vece v’è entrato l’universale egoismo, amicizia vera e capace di far sacrificare l’un amico all’altro, in persone che ancora abbiano interessi e desideri, è ben difficilissima».10 L’egoismo dei moderni è il risultato di una degenerazione dell’amor proprio, che ha portato gli uomini ad un eccessivo individualismo. Proprio ne La ginestra, invece, Leopardi torna a ipotizzare un legame che unisca il genere umano oltre l’egoismo, oltre la chiusa e sterile prospettiva individualistica. Folin sottolinea come ciò che il poeta esprime in questo componimento non possa essere ricondotto soltanto alla «guerra comune», ma abbia in realtà sfumature molto più sottili:

La comunità sembrerebbe fondarsi su un lavoro di «guerra comune» (v. 35) contro un nemico. Ma il legame, questa volta, non si costituisce nell’odio contro uno straniero «storico» e politicamente definito come diverso nel tempo e nello spazio, ma contro l’estraneità stessa avvertita nella sua essenza metafisica e in temporale. […] Questo legame comunitario, che prospetta un’amicizia sul confine tra essere e nulla, nella precarietà e fragilità degli enti, è tuttavia solo apparentemente simile a quell’homonònoia antica che Leopardi aveva nostalgicamente rimpianto negli anni giovanili. Qui il legame che viene auspicato unisce entità creaturali che hanno in comune un’identica «madre», e dunque sono associati da un rapporto in qualche modo «fraterno». Fratelli nel dolore, figli di un dio senza volto e senza nome, gli uomini potranno trovare una nuova solidarietà e una nuova philìa nell’accettazione della morte e della perdita, cioè nel fatto di essere tutti figli del nulla.11

Attraverso itinerari concettuali diversi, quindi, Leopardi e Camus suggeriscono una prospettiva che va oltre, che non si ferma a quella della rivolta, ma che piuttosto si fonda su un riscoperto legame tra gli uomini, capace di opporsi anche alla forza ignota del nulla, capace di resistere.

Ne La peste di Camus troviamo personaggi che incarnano questo sentimento, mostrando la difficoltà e la complessità di una determinata prospettiva esistenziale. Si è parlato prima del dottor Rieux e di Padre Paneloux, che divisi da «fedi» diverse, si trovano a combattere insieme la sofferenza inutile e ingiusta degli innocenti colpiti dal morbo. Tuttavia, il senso di quel sentimento fraterno di cui si parlava a proposito di Leopardi, l’importanza dell’amicizia come presupposto per qualsiasi lotta, per qualsiasi resistenza, si trova espresso ancora meglio nel dialogo tra Tarrou e il dottor Rieux. Si tratta di uno dei passi più significativi all’interno de La peste, che in qualche modo suggerisce la chiave di lettura dell’intero romanzo. È proprio il personaggio di Tarrou, infatti, che, raccontando la sua storia e la sua lotta personale contro la peste, arriva a denunciare il male che si insidia in ogni individuo:

Ho capito questo, che tutti eravamo nella peste; e ho perduto la pace. […] So soltanto che bisogna fare quello che occorre per non esser più un appestato, e che questo soltanto ci può far sperare nella pace, o, al suo posto, in una buona morte. Questo può dare sollievo agli uomini e, se non salvarli, almeno fargli il minor male possibile e persino, talvolta, in po’ di bene.

[…] Per questo ho deciso di mettermi dalla parte delle vittime, in ogni occasione, per limitare il male. In mezzo a loro, posso almeno cercare come si giunga alla terza categoria, ossia alla pace.12

A questo punto Rieux chiede a Tarrou se abbia qualche idea sulla strada da prendere per raggiungere la pace: «Sì», risponde l’amico, «la simpatia».13 Qui il termine è naturalmente usato nel suo senso più profondo; e che cos’è la simpatia se non il fondamento dell’amicizia? Tarrou, infatti, poco dopo dice al dottore:

«Sa cosa dovremmo fare per l’amicizia?» disse. «Quello che lei vuole», disse Rieux. «Un bagno in mare […]». «Sì» disse Rieux, «andiamo». […] Poco prima di giungervi, l’odore dello jodio e delle alghe annunciò il mare; poi lo sentirono. […] Rivolto verso Tarrou, egli indovinò sul viso calmo e grave dell’amico la stessa gioia che non dimenticava nulla, neanche l’assassinio. […] Rivestiti, andarono via senza aver pronunciato una parola; ma avevano lo stesso cuore, e il ricordo di quella notte gli era dolce. Quando scorsero da lontano la sentinella della peste, Rieux sapeva che Tarrou si era detto, come lui, che la malattia li aveva dimenticati per un po’, che questo era un bene, ma che adesso bisognava ricominciare.14

Il bagno in mare, che sembra benedire la loro amicizia, concede ai due una tregua: è la peste a dimenticarsi di loro, non il contrario, come se nell’attimo stesso in cui si riconoscono amici, Rieux e Tarrou vivessero uno stato di grazia. Si sa quanto Camus stesso amasse il mare,15 questo passaggio è quindi esemplificativo: l’amicizia non rappresenta una sospensione dalla tragicità della situazione, ma è piuttosto un momento necessario per tornare ancora più uniti a combattere la malattia.

Queste sono pagine veramente poetiche, in cui Camus è riuscito a rendere tutta la dolorosa bellezza della verità; tutta la sua vita è stata una battaglia per l’amore, contro il male, e qui emerge la difficile ambiguità di tale prospettiva: bisogna credere più nell’amore per il quale si combatte o nel male al quale si è chiamati a resistere?

Vorrei ora soffermarmi su alcune pagine leopardiane, in cui il sentimento dell’amicizia mi sembra sia espresso con tono altrettanto poetico: mi riferisco al Dialogo di Plotino e Porfirio. In questa operetta viene «messo in scena» il dialogo che tra Porfirio, il quale vorrebbe suicidarsi, e Plotino, che con varie motivazioni cerca di distogliere l’amico da tale proposito.

L’inizio rivela subito il tono generale del dialogo: «Porfirio», dice in apertura Plotino, «tu sai ch’io ti sono amico […] e non ti dei meravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa curiosità; perché nasce da questo, che tu mi stai sul cuore».16 Porfirio confida allora all’amico il suo «fastidio della vita», la noia, e dunque il desiderio di morire. Plotino cerca prima di replicare all’amico seguendo il filo «ragionevole» delle sue considerazioni, ma poi va oltre: il suicidio potrebbe essere anche comprensibile, analizzando razionalmente lo stato di infelicità a cui sono condannati gli uomini, ma c’è qualcosa che spinge ad andare al di là di questa ragionevolezza. Ecco le parole di Plotino, alla cui voce Leopardi, emblematicamente, dà il compito di concludere il dialogo:

Sia ragionevole l’uccidersi […] E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto, di esser secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anco non vorremo noi aver considerazione degli amici; […] delle persone famigliari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere gran tempo; che, morendo, bisogna lasciar per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione […]? […] Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non voler esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. […] Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. […] E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.17

La grandezza e la profondità del discorso di Plotino stanno nel fatto che il filosofo concorda con l’amico, da un punto di vista razionale, sull’infelicità dell’esistenza umana, ma nel tempo ultimo, estremo, della separazione dalla vita, un pensiero mette in discussione ogni convinzione razionale: il pensiero delle persone che ci sono accanto, con le quali dobbiamo «portare quella parte che il destino ci ha stabilita». Anche in questo caso, lungi dal trovare una risposta al male, si può decidere di accettarlo, di resistergli; e dunque, anche qui, non più la rivolta, ma l’umile battaglia dei compagni, degli amici.

Ciò che mi sembra significativo nel confronto tra il dialogo leopardiano e il passo di Camus è proprio la misura intima e piena di calore. Nel passo dell’operetta appena citato troviamo una dimensione che non è quella “sociale”, nel senso etimologico, de La ginestra: si tratta veramente di due amici che parlano, che arrivano a conoscere l’uno le ragioni del cuore dell’altro, così come accade nel passo de La peste. «Tu mi stai sul cuore», dice Plotino a Porfirio, e di Tarrou e Rieux ci viene detto che «avevano lo stesso cuore»; leggere affermazioni del genere da due autori che hanno guardato in faccia il male, fa capire quanto la loro considerazione dell’uomo fosse incommensurabile. L’estrema ragione porta ad essere un mostro, afferma Plotino, verità che Camus sperimentò sulla propria pelle, quando, nel corso della sua vita, ribellandosi alla rigida ragione delle ideologie, fu accusato da tutti i fronti. Meglio allora cercare di essere uomini, umile ambizione confessata anche da Rieux; o forse provare ad essere santi senza Dio, come Tarrou. L’unica cosa che conta è non perdere mai la misura dell’uomo, lo sguardo dell’altro che viene a darci misura di noi stessi. Lo stesso Camus nel pensiero meridiano parla di rivolta e misura: «Se il limite scoperto della rivolta trasfigura tutto; se ogni pensiero, ogni atto che oltrepassi un certo punto nega se stesso, c’è infatti una misura delle cose e dell’uomo».18

Come esempio contrastivo di ciò che si è mostrato nel confronto tra l’operetta morale di Leopardi e il dialogo tra Rieux e Tarrou ne La peste, si può analizzare un passo di un altro romanzo di Camus, La caduta, opera controversa, in cui, a differenza de La peste, sembra proprio che la razionalità arrivi ad essere talmente estrema da diventare delirio. Nessuno è innocente, questa la conclusione a cui sembra giungere Camus nel romanzo, e allora meglio continuare a stare dalla parte dei giudici. Il protagonista, che ha usato gli altri per nutrire il proprio io — un degenerato amor proprio, direbbe Leopardi — quando scopre la realtà di ciò che è stato, non può che prenderne atto, accettando con lucidità feroce la sete di giudizio e potere che è insita in ognuno. Ne La caduta, quindi, la prospettiva è opposta; se ne La peste l’obiettivo era quello di fare il meno male possibile all’altro, cercando semmai di fargli un po’ di bene, qui, dal momento che nessuno è innocente, non c’è possibilità né di salvarsi né di salvare gli altri. Ecco la tragica confessione del protagonista:

Non ho più amici, ho solo complici. In compenso ne è cresciuto il numero, sono diventati il genere umano. […] Come so che non ho amici? È semplicissimo. L’ho scoperto il giorno in cui ho pensato di uccidermi per giocar loro un bello scherzo, per punirli, in certo modo. Ma punire chi? Qualcuno si sarebbe meravigliato, nessuno si sarebbe sentito punito. Ho capito che non avevo amici.19

La situazione del dialogo leopardiano è rovesciata: l’amicizia non svela il suo senso nel tempo ultimo di chi si trova a tu per tu con la morte, piuttosto viene negata all’estremo, perché la vita non è che un processo generale, in cui ognuno giudica l’altro.20 Il fine non è più il bene dell’altro, neppure nella tiepida speranza di sentire per un attimo la sua vicinanza in un bagno in mare; il fine è la sua condanna.

Ma ecco che proprio il verdetto pronunciato dal protagonista, terribile e «mostruoso» nella sua lucidità, suggerisce nuovi interrogativi:

Creda a me, le religioni sbagliano a partire dall’istante in cui fanno la morale e scagliano comandamenti. Dio non è necessario per creare la colpevolezza degli uomini, né per punire. Bastano i nostri simili, aiutati da noi. Lei accennava al giudizio universale. Mi permetta di ridere rispettosamente. Io l’aspetto a piè fermo: ho conosciuto il peggio, il giudizio degli uomini. […] E allora? Allora, la sola utilità di Dio consisterebbe nel garantire l’innocenza, e io la religione la vedrei piuttosto come una grande impresa di lavatura cosa che del resto è stata, ma per breve tempo, esattamente tre anni, e non si chiamava religione.21

Tre anni, il tempo in cui tutti poterono credere di essere innocenti, liberati da un giudizio di condanna definitiva. Tre anni, il tempo in cui un uomo, perché questo fu Gesù, poté pronunciare parole di perdono verso altri uomini. Quel tempo è durato solo tre anni, dopodiché la religione non ha fatto altro che codificare altri comandamenti, formalizzando giudizi e condanne. L’interpretazione di queste considerazioni di Camus è molto complessa, ma occorre continuare a leggere:

Ciò non toglie che lui, il censurato, non abbia avuto la forza di continuare. […] in certi casi continuare, nient’altro che continuare, è uno sforzo sovrumano, può credermi. E lui non era sovrumano, può credermi. Ha gridato la propria agonia, e perciò l’amo, quest’amico morto senza sapere. […] Oh l’ingiustizia che gli han fatta e che mi stringe il cuore.22

Era un uomo anche lui, un uomo condannato ingiustamente: dopo di lui non si può neanche più tentare di essere innocenti; dopo di lui non si può che portare avanti l’esercizio legittimo di condanna gli uni verso gli altri.

Il verdetto è terribile, l’abisso diventa più fondo, un interrogativo sempre più grande sale alla coscienza: che cos’è l’altro per me? Quello che resta è l’ultimo atto della fede, umanissima, di Camus, la fede in questo «amico», che non fu sovrumano, ma che poté portare una speranza di innocenza. La stessa fede umana che traspare dal testamento leopardiano de La ginestra.

«L’inferno è qui, da vivere. Gli sfuggono solo quelli che si estraniano dalla vita», scrive Camus in un appunto del 1952, e subito dopo si legge quest’altro appunto: «Chi testimonierà per noi? Le nostre opere. Ahimé! Chi allora? Nessuno, nessuno tranne quei nostri amici che ci hanno visto in quell’attimo del dono in cui il cuore si consacrava interamente a un altro. Insomma quelli che ci amano. Ma l’amore è silenzio: Ogni uomo muore sconosciuto».23

Nello stesso silenzio rimane Porfirio, eppure anche a lui Plotino aveva garantito il ricordo degli amici, la testimonianza di un legame che resta. Vengono in mente le parole di Gesù ai discepoli prima dell’addio, riportate dal Vangelo di Giovanni: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i proprio amici. […] Non vi chiamo più servi […] ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv. 15,12-15). Anche in questo caso l’amicizia ha un tempo ultimo, si rivela nel momento estremo prima della separazione: una speranza viene lasciata in eredità ai discepoli, la speranza di rivedere quell’«amico».

Per Leopardi e Camus tale speranza è negata; resta la fede silenziosa in un amore tra gli uomini, in un’amicizia che nasce sul finire, che, proprio nel momento in cui unisce, si oppone alla separazione, alla forza disgregatrice della morte. Restano le pagine, che continuano a testimoniare la necessità della vicinanza umana. Tanto Camus quanto Leopardi, nella loro visione dell’esistenza, ci insegnano che la vera amicizia si rivela sempre in un tempo ultimo, estremo, sul confine tra l’essere e il non essere: i veri amici testimonieranno per noi quando non ci saremo più; ma i veri amici, soprattutto, sanno restare e sanno farci restare, dandoci la forza per resistere un attimo di più. In ogni caso è una vittoria, benché umile, della vita sulla morte.

 

Note

  1. Luigi Capitano, «L’assurdo e la rivolta. Camus alla luce di Leopardi», http://mondodomani.org/dialegesthai/lca01.htm.
  2. Norbert Jonard, «Leopardi et Camus», Revue de littérature comparée, 1972, pp. 233-247.
  3. Luigi Capitano, «L’assurdo e la rivolta. Camus alla luce di Leopardi», cit.
  4. Albert Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, a cura e con introduzione di Roger Grenier, Apparati di Maria Teresa Giavieri e Roger Grenier, Bompiani, Milano 2000, p. 942.
  5. Sergio Givone, Metafisica della peste. Colpa e destino, Einaudi, Torino 2012, p. 20.
  6. Albert Camus, La peste, Bompiani, Milano 2002, p. 169.
  7. Giacomo Leopardi, Lettere, in Tutte le opere, con introduzione e a cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Sansoni, Firenze 1969, vol. I, p. 1414.
  8. Sergio Givone, Metafisica della peste. Colpa e destino, cit., p. 115.
  9. Alberto Folin, Leopardi: l’amicizia che resta, in Il volto dello straniero da Leopardi a Jabès, a cura di A. Marsilio, Marsilio, Venezia 2003, p. 136.
  10. Giacomo Leopardi, Zibaldone, 104.
  11. Alberto Folin, Leopardi: l’amicizia che resta, cit.pp. 135-146: 145-146.
  12. Albert Camus, La peste, cit. pp. 196-197.
  13. Ivi, pp. 197-199.
  14. Tra le molte considerazioni di Camus sul suo rapporto col mare cfr. la seguente, che sembra riflettersi nell’azione e nelle parole dei due protagonisti de La peste: «In mare. Il mare sotto la luna, le sue distese silenziose. Sì, è qui che mi sento in diritto di morire tranquillo, è qui che posso dire: “Ero debole, e tuttavia ho fatto ciò che ho potuto”». Albert Camus, Taccuini 1951-1959, Bompiani, Milano 2004, p. 67.
  15. Giacomo Leopardi, Operette morali, a cura di Giorgio Ficara, Mondadori, Milano 1988, p. 236.
  16. Ivi, pp. 250-251.
  17. Albert Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 939.
  18. Albert Camus, La caduta, in Opere, cit., p. 1063.
  19. Sul tema della giustizia in questo e in altre opere di Camus rimando alle interessanti pagini di Fabio Pierangeli, Indagini e sospetti. Pirandello Camus Dürrenmatt Sciascia Betti, L’Epos, Palermo 2004. In particolare su La caduta si legge: «Schegge di pazzia, profonde verità, in questo personaggio eccentrico, seduto a cavalcioni tra il desiderio della gratificazione mondana e la dimissione definitiva dalle ambizioni personali. Il romanzo ha tuttavia offerto riflessioni sul tema dell’amministrazione della giustizia. Oscillanti e contradditorie, profonde» (p. 122).
  20. Albert Camus, La caduta, in Opere, cit., pp. 1083-1084.
  21. Ivi, pp. 1085-1086.
  22. Albert Camus, Taccuini 1951-1959, cit., p. 60.

 

Luigi Capitano

L’assurdo e la rivolta.
Camus alla luce di Leopardi

L’uomo in rivolta non chiede la vita, ma le ragioni della vita.

Camus

1. Il titanismo leopardiano e i suoi precursori

Rivisitare le categorie squisitamente camusiane di «assurdo» e di «rivolta metafisica» alla luce di un precedente rimosso quale Leopardi1 può risultare alquanto istruttivo, specie se si riesce a scorgere nel pensatore italiano non già un semplice anticipatore di Camus, bensì l’inauguratore di quell’orizzonte nichilista e assurdista con il quale Camus cercherà di confrontarsi nelle sue opere di maggior impegno filosofico.

Per quanto l’atteggiamento di Leopardi oscilli spesso fra rassegnazione e protesta, la sua rivolta contro l’assurdo non rinuncia mai reclamare il senso ultimo dell’esistenza. Come ha notato anche Walter Benjamin, «la presa di posizione spirituale verso il corso naturale del mondo in Leopardi assume sempre più la forma di una ribellione».2 Non per nulla si è potuto parlare di uno spirito ribelle che è stato definito, di volta in volta, «titanico», «eroico», «combattivo».3 Né è privo di significato il fatto che Leopardi si riconosca nella figura di Bruto, confessando di abbracciare per intero la sua «filosofia disperata» e i suoi sentimenti avversi al destino.4 Si tratta di una posizione di disprezzo per ogni facile consolazione che sarà rilanciata nella figura di Tristano posta da Leopardi a suggello delle Operette morali. Un simile atteggiamento è quello che Camus avrebbe definito «rivolta metafisica», ovvero «il movimento per il quale un uomo si erge contro la propria condizione contro l’intera creazione».5 La «rivolta metafisica»6 di Leopardi sembrerebbe aver conosciuto i suoi più lontani precedenti in Epicuro, Lucrezio, Giobbe; il più recente in Voltaire.7

Secondo Lucrezio, Epicuro fu «il primo uomo di Grecia» che «osò alzare» eroicamente «gli occhi mortali» contro la Religione opprimente, il «primo ad ergersi contro» il cielo con vittoriosa e «vivida forza dell’animo».8 Dopo aver cercato invano di addolcire «col miele delle Muse» la verità del divino maestro Epicuro, Lucrezio lasciò interrotta la sua opera sulla scena impressionante della peste che infuriava ad Atene e sulla vanità degli umani affanni di fronte alla malattia e alla morte. Camus osserverà che «non è un caso se il poema di Lucrezio si chiude su di una prodigiosa immagine di santuari divini gonfi di cadaveri accusatori delle peste».9 E mentre per lui «Epicuro, nell’epopea di Lucrezio, fu il magnifico ribelle che non era».10 con Lucrezio comincerebbe a serpeggiare l’idea di un «dio personale» «sordo»11 e «assassino» contro cui si renderebbe finalmente possibile una «rivolta metafisica». La tesi di Camus è nota: «la storia della rivolta nel mondo occidentale è inseparabile da quella del cristianesimo. Bisogna attendere infatti gli ultimi momenti del pensiero antico perché la rivolta cominci a trovare un suo linguaggio, in alcuni personaggi di transizione, e in nessuno più profondamente che in Epicuro e Lucrezio».12

Dai versi di Lucrezio traspare la polemica contro l’ottimismo e il provvidenzialismo degli stoici piuttosto che contro la natura noverca e matrigna,13 anche se non mancano in lui accenti che possono apparire sorprendentemente leopardiani, specie se riletti in una luce retrospettiva. Per Lucrezio, come già per Stratone di Lampsaco14 (l’autore immaginario del Frammento apocrifo), esiste nella natura una forza arcana che sorregge tutte le cose, giocando col mondo proprio come il «fanciullo invitto» di Leopardi. È tale forza che sembra beffarsi degli uomini quando fa tremare la terra e quando, a causa dei suoi scuotimenti, «cadono le città». La natura si mostra «nemica al genere umano»: con fatica è il nascimento ai viventi, e solo con lo sforzo del lavoro la terra concede i suoi frutti. Lucrezio dipinge lo sgomento di fronte alla furia degli elementi, alla crudeltà della natura, ai morbi e alla morte acerba che si aggirano per il mondo. Tali motivi,15 insieme all’apparente rivolta contro la natura avversa, anticipano con forza il tema leopardiano della natura matrigna.

2. Al di qua della «rivolta metafisica»

Secondo Camus la «rivolta metafisica»16 è un parto relativamente recente nella storia delle idee che non può, a rigore, essere fatta risalire a «prima della fine del Settecento».17 Egli pensa al marchese De Sade quale capostipite di quella galleria di ribelli metafisici che prosegue con i nichilisti dostojesvskijani, Stirner, Nietzsche, Lautréamont, Rimbaud, Breton, ecc. Al contrario, i Greci e gli antichi in generale non poterono accedere a una vera e propria «rivolta metafisica», dal momento che quest’ultima presuppone «una visione semplificata della creazione».18 E tuttavia, con Epicuro e Lucrezio anche a Camus pare che qualcosa cominci a muoversi in questa direzione; qualcosa di ignoto agli eroi tragici (si pensi a un Prometeo). Neanche il più ribelle fra i Greci avrebbe mai osato insorgere contro la natura o il cosmo, contro quello che ancora non poteva chiamarsi «creato». Ma rimane da chiedersi: ciò che ricade al di qua del creazionismo moderno-cristiano19 è fatalmente condannato a sfuggire al pensiero moderno della rivolta, oppure quelle condizioni di possibilità rimaste inavvertite nel passato possono emergere solo a posteriori?

Pensiamo a Giobbe. Fra i precursori più o meno problematici della «rivolta metafisica» è d’obbligo soffermarsi un attimo a riflettere anche su questa figura del tardo giudaismo che mise in questione la stessa teodicea, in un tempo in cui non esisteva la necessità (e nemmeno la possibilità) di alcuna teodicea. La sua denuncia dell’incomprensibilità del male e della vanità del tutto, ossessivamente presenti nel Libro di Giobbe e nell’Ecclesiaste, rimangono i motivi che hanno fatto vibrare in Leopardi le due più irriducibili corde dello scandalo biblico. Se Qohélet rimane l’emblema della vanità universale, ad uno sguardo ex post Giobbe assurge quasi a simbolo della lotta metafisica contro l’assurdo. Nel Canto del pastore errante, ad esempio, la domanda eterna e senza risposta di Giobbe («perché la luce è data a chi pena?») 20 si ripropone insieme a quella sul senso del dolore e della stessa esistenza:

Ma perchè dare al sole

Perchè reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura

Perchè da noi si dura?21

Leopardi osserva come «Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita, ec.»,22 mentre «gli amici e la moglie di Giobbe lo stimarono uno scellerato, com’ei lo videro percosso da tante disgrazie».23 Lo spirito della lamentazione e dell’interrogazione jobica si trova diffuso in tutto Leopardi, e il pensiero corre subito alle figure dell’Islandese o a quella del pastore errante. V’è in Giobbe un’inesauribile e inappagata sete di senso che si infrange contro il misterioso silenzio di un Dio nascosto24 e lontano.25 Giobbe non si stanca di cercare le ragioni delle afflizioni che lo provano con furia tanto incomprensibile quanto ingiustificata. L’accusa di Giobbe e la sua rivolta contro l’assurdo26 sembrano precorrere da lontano la protesta di Leopardi,27 per non dire quella di Camus.

Si è ritenuto di poter ravvisare una vena d’assurdismo anche nell’Ecclesiaste28 laddove si legge che ogni occupazione dell’uomo è come un «pascersi di vento», un «inseguire il vento», testualmente: re’ut ruah, come dire un agire insensato e un vano agitarsi.29 Sennonché, il mondo dell’insensato e dell’invano non può ancora propriamente dirsi il mondo dell’assurdo, almeno finché vi sia un Dio che rimanga il garante del senso ultimo del Tutto e finché non si sia levato alcun lamento sulle rovine del senso. Pur non raggiungendo il grado di una coscienza pienamente nichilistica, la sapienza qohéletica contribuisce a porre una delle più remote premesse del nichilismo europeo. La persuasione della vanità/nullità del tutto rimane, infatti, il teorema fondante del nichilismo. A questo teorema la sapienza negativa di Giobbe avrebbe impresso, almeno secondo alcune interpretazioni, un’intonazione di segno assurdista. Ma la dimensione dell’assurdo evocata da Giobbe viene alla fine riassorbita dal mistero divino,30 né riesce a dissipare la struttura della provvidenza e della teodicea, pur mettendola coraggiosamente in discussione. Come si vede, la rivolta metafisica non scivola necessariamente verso il nichilismo più estremo. Per Leopardi piuttosto che un eroe nichilista, Giobbe rimane un ribelle metafisico e una figura sublime del titanismo antico. Gli antichi, infatti, nella loro eroica grandezza, arrivavano ad imprecare e perfino a rivoltarsi contro quelle divinità con le quali continuavano ad intrattenere un intimo legame religioso. Appena prima di nominare Giobbe Leopardi aveva accennato ai casi di Giuliano l’Apostata31 e di Niobe.32 Secondo la leggenda l’imperatore romano avrebbe scagliato contro il cielo il proprio sangue nel momento della sconfitta, maledicendo — pur ferito a morte — la vittoria del «Galileo». Il mito di Niobe è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio.33 Niobe, che fino a poco tempo prima aveva osato allontanare i fedeli dall’altare di Latona (madre di Apollo e Diana), vantandosi con troppa audacia contro la dea della propria prolificità, è quindi costretta a compiangere, impietrita dal dolore, i suoi quattordici figli spietatamente colpiti a morte dalla punizione divina. Ma si può interpretare un atto di vana superbia quale quello di Niobe come un atto di rivolta contro il volere degli dèi? «Si professava vinta ma non cedente»,34 «si racconta, se non fallo». Così Leopardi.

Secondo Leopardi, una volta tramontato l’età eroica del mito, l’individuo si ritrovò da solo, e pertanto non potè rivolgere la propria protesta che contro se stesso, essendo svanite le figure estranee all’uomo personificanti il fato. Mentre uno spirito religioso come Giobbe, oltre a maledire se stesso, poteva ancora scagliare contro il cielo il suo lamento tanto più alto quanto più forte era rimasta la sua fede e nobile e alta la sua illusione.

Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto di Giuliano moribondo, non so se sia storia o favola. Di Niobe, dopo la sua sventura, si racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente. […] . Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l’eccesso dell’infelicità indipendente dagli uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta all’odio e alle bestemmie degli enti invisibili e superiori: e questo, tanto più quanto più l’uomo […] è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec.35

Da notare l’espressione: «eccesso dell’infelicità indipendente dagli uomini», che esprime nel modo più chiaro l’essenza del male del mondo, l’irreparabile condizione metafisica dell’uomo. Nel «Preambolo» al Manuale di Epitteto (1825) Leopardi porterà ancora un altro esempio di rivolta contro il fato e di volontà di «far guerra feroce e mortale al destino»: i Sette a Tebe di Eschilo. Qui infatti la partita non è solo contro gli uomini che hanno usurpato il potere, ma contro il destino che ha decretato fin dall’inizio la sconfitta degli eroi. Già nell’agosto del 1820 Leopardi aveva scoperto il pessimismo greco «della forza» tramite l’opera di Barthelemy Voyage du jeune Anacharsis en Grèce36. A proposito di Eschilo, poi, annota:

Ses héros aiment mieux être écrasés par la foudre que de faire une bassesse, et leur courage est plus inflexible que la loi fatale de la nécessité.37

Il coraggio degli eroi, più forte della stessa legge di Ananke, è ciò che affascina Leopardi, quel loro titanismo «inflessibile», che Nietzsche chiamerà «pessimismo della forza». Camus potrà dire analogamente, con lo sguardo rivolto al suo eroe assurdo: «non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo».38

Il «Preambolo» al Manuale di Epitteto chiarisce le due posizioni paradigmatiche — la ribelle e la rinunciataria — che rappresentano secondo Leopardi la grande alternativa fra «gli spiriti grandi e forti» dell’antichità e «gli animi di natura o d’abito non eroici» caratteristici, invece, della modernità.

L’uomo non può nella sua vita per modo alcuno né conseguir la beatitudine né schivare una continua infelicità. Che se a lui fosse possibile di pervenire a questi fini, certo non sarebbe utile, nè anco ragionevole, di astenersi dal procacciarli. Ora non potendogli ottenere, è proprio degli spiriti grandi e forti l’ostinarsi nientedimeno in desiderarli e cercarli ansiosamente, il contrastare, almeno dentro se medesimi, alla necessità, e far guerra feroce e mortale al destino, come i Sette a Tebe di Eschilo, e come altri magnanimi degli antichi tempi.39

La morale di Epitteto, con la sua esaltazione dell’indifferenza tranquillizzante e anestetizzante si attaglierebbe dunque più ai tempi moderni che a quelli antichi. Le pagine 503-507 dello Zibaldone testimoniano l’oscillazione irrisolta nell’anima di Leopardi fra titanismo e rassegnazione,40 eroismo e rinuncia, un’indecisione destinata a trascinarsi fino al cosiddetto ‘ciclo di Aspasia’. Nei suoi momenti peggiori Leopardi non trova la forza per opporsi al destino, ma non sa neppure rinunciare alla lotta. Neanche quando in lui il tono pessimista si fa più disperato, egli riesce ad abbandonare ogni speranza: «La disperazione medesima non esisterebbe senza la speranza».41 È quella «disperata speranza»42 che risuonerà anche nell’opera acerba del maggiore spirito leopardiano del primo Novecento: Carlo Michelstaedter. Cadono più che mai a proposito le parole di Walter Benjamin: «solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza».43

3. Due anelli mancanti: Voltaire e Leopardi

Nella ricostruzione camusiana della «rivolta metafisica» si avverte l’assenza di Leopardi come quella di Voltaire. Dietro il leopardiano Dialogo della Natura e di un Islandese si cela infatti l’atteggiamento pessimisticamente vitale di quel Voltaire che Thomas Mann non avrà difficoltà a riconoscere come un ribelle metafisico:

Voltaire si ribellò […]. Sì, ebbe un moto di rivolta contro il fatto e fato brutale, rifiutò di abdicare [“davanti alla potenza stupida, ossia alla natura”44] . Protestò in nome dello spirito e della ragione contro quello scandaloso eccesso della natura, del quale caddero vittime tre quarti di una città fiorente e migliaia di vite umane. […] questa è l’ostilità dello spirito contro la natura, la sua superba diffidenza contro di essa, la sua magnanima insistenza sul diritto di criticarla insieme con la sua maligna e irragionevole potenza.45

Voltaire […] in nome della ragione aveva protestato contro lo scandaloso terremoto di Lisbona. Assurdo? Anche questo era assurdo, ma, tutto ben considerato, si poteva benissimo […] vedere nell’assurdo l’aspetto spiritualmente onorevole.46

Nel Poema sul disastro di Lisbona, non riuscendo ad accettare la crudeltà e l’assurdità del fato, Voltaire vi si sarebbe rivoltato contro. Ma c’è da osservare come per Voltaire l’assurdo non consista tanto nel semplice silenzio della natura, quanto nel fatto che l’uomo continui ad interrogarla invano: «la natura è muta, vanamente l’interroghiamo».47 La protesta voltairiana risuonerà anche nel Dialogo tra il filosofo e la Natura (1771), in particolare là dove viene sollevata, accanto alla «domanda fondamentale della metafisica», la vecchia sapienza silenica e la denuncia della natura che divora ferocemente se stessa.48 Quello della natura carnefice di se stessa è un topos alquanto diffuso nel Sette-Ottocento: lo si ritrova in Hume,49 in Barthelemy,50 in Goethe,51 in Foscolo,52 nonché in Leopardi,53 Fichte54 e Schopenhauer. Quest’ultimo vedeva notoriamente il mondo come «un’arena di creature […] che esistono solo a condizione di divorarsi a vicenda».55 Nel citato dialogo voltairiano il filosofo si rivolge alla Natura con queste domande:

Mia cara madre, dimmi un po’perché esisti, perché esiste qualcosa? […] Il niente varrebbe meglio di questa molteplicità di esistenze fatte per essere continuamente dissolte, di questa moltitudine di animali nati e riproducentisi per divorarne altri ed essere a loro volta divorati, di questa folla di esseri senzienti formati per provare tante sensazioni dolorose e questa folla di intelligenze che così di rado intendon ragione? A che pro tutto questo, Natura?56

La Natura risponderà al filosofo che ella non ne sa nulla, e che tanto varrebbe rivolgere la domanda più in alto: «Interroga chi mi ha fatta».57 Che abbia un senso interrogare anziché no, sembra rimanere in tal modo garantito da Dio.

Un altro importante archetipo letterario che viene tenuto presente da Leopardi nel Dialogo della Natura e di un Islandese è quel Voyage du jeune Anacharsis en Grèce (1788) di quel Barthélemy che lo aveva riaccostato al pessimismo e al «nichilismo» silenico dei Greci:

Ma da dove viene ciò che esiste? da dove viene ciò che perisce, questi esseri? Che significano questi cambiamenti periodici che si succedono eternamente sul teatro del mondo? A chi è destinato uno spettacolo così terribile? forse agli dei, che non ne hanno alcun bisogno? forse agli uomini che ne sono le vittime? Ed io stesso, su questo teatro, perché mi hanno forzato a prendere un ruolo? perché trarmi dal nulla senza il mio consenso, e rendermi infelice senza chiedermi se consentivo ad essere? Io interrogo i cieli, la terra, l’universo intero. Cosa possono rispondere? eseguono in silenzio gli ordini di cui ignorano i motivi.58

Questo brano sembra ispirato al barone D’Holbach, che considerava gli uomini sventurati per essere stati jetés dans le monde sans leur aveu, «gettati in questo mondo senza il loro consenso».59

Nell’Uomo in rivolta Camus ha dipinto una variegata quanto memorabile galleria dei ribelli metafisici. Peccato non potervi incontrare figure come Voltaire e Leopardi. Per quanto riguarda gli eroi della mitologia classica, Camus ricorda Prometeo solo per avvertirci di non cadere nell’errore di scorgere in lui un eroe della rivolta metafisica: la teodicea tragica (sempre conciliante e comunque estranea all’idea della creazione da parte di un Dio personale) impedisce una simile interpretazione. Intanto la questione che Camus mi sembra lasciare in sospeso è un’altra: possiamo mettere sullo stesso piano tutti i personaggi della (vera o presunta) rivolta metafisica?

Il Dialogo della Natura e di un Islandese è l’operetta che per molti versi segna la svolta al cosiddetto ‘pessimismo cosmico’. L’Islandese è un viaggiatore errante come il pastore asiatico, poco meditativo e perseguitato dalla natura60 come il Candido di Voltaire dalla sfortuna Come Achille fra le ombre dell’Ade, o come l’Odisseo platonico nostalgico della sorte più trascurabile. Come Giobbe «colpevole […] di qualche ingiuria»61 a lui stesso ignota. Straniero al mondo come un’anima gnostica.62 Con l’Islandese Leopardi torna a protestare insieme all’Anima (del Dialogo della Natura e di un’Anima): che colpa ho commesso per venire «abbandonato dalla natura al caso»,63 in questo luogo inospitale ed ostico? Ma ora non c’è più la promessa insostenibile da parte della Natura di conferire col destino per riuscire ad ottenere una risposta. La Natura non ha più l’alibi di un fato che la sovrasta e può finalmente essere messa alle strette. Nell’omonima operetta l’Islandese appare perseguitato a partire dal Nord più glaciale del mondo abitato fino all’Africa subequatoriale più desertica come se fosse «colpevole» di qualcosa.64

La sfingea Natura, dalla «forma smisurata di donna»,65 romperà il silenzio solo per dire che lei non si avvede «se non rarissime volte»66 dell’infelicità da lei procurata ai viventi. Ma perché così raramente? Perché l’Islandese tocca qui inavvertitamente la Natura nel suo punto più nevralgico: la coscienza umana. L’uomo è divorato o avvolto definitivamente dal mistero sublime della Natura nel momento stesso in cui scopre di essere lui stesso Natura. Questa quasi umanizzazione di una natura mostruosamente indifferente alla felicità dei viventi è ciò che rende questo monologo dell’Anima con se stessa apparentemente tragico, poiché di un monologo inespresso si tratta, e soprattutto di un dialogo impossibile fra il tragico e l’assurdo, oltre che fra il drammatico interrogare dell’uomo e l’assurdo silenzio dell’Essere. Ma a sdrammatizzare l’aria da tragedia che pure sembra spirare nell’operetta rimane la sorte caricaturalmente e iperbolicamente antiprovvidenziale dell’Islandese e il finale scopertamente umoristico67 che lascia lo spazio a un sorriso tutto metafisico.

Lontana dal molesto consesso degli uomini, l’Anima dialoga con la Natura estranea per riuscire a scoprire la radice del dolore, nella vana speranza di poterla estirpare. L’Anima ha già disimparato a reclamare una «vita vitale», una «vera vita». Chiede solo, a costo di ridurre la propria vita al grado zero («non godendo non patire», quasi una degradazione dello stoico resistere astenendosi) di poter svelare il mistero del male nel mondo. Non pretende di essere «grande e infelice» (come avrebbe detto D’Alembert),68 ma come l’Achille omerico e l’Odisseo platonico reclama anzi una vita umile e priva di inutili inquietudini: «una vita oscura e solitaria» (per dirla con le parole dell’Ottonieri).69 In fuga da un mondo pessimisticamente percepito come «lega di birbanti»,70 l’Islandese si accontenterebbe di poter raggiungere, stoicamente, la «tranquillità della vita».71 Ma la Natura non gli dà tregua e lo incalza ad ogni piè sospinto. Inizia così la protesta dello spirito più rinunciatario, antieroico e disperato al mondo. Una denuncia resa ancora più drammatica e paradossale dal tono confidenziale che si deve ad una madre pure così algida: «tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia…»;72 «tu sei nemica73 scoperta degli uomini»; «sei carnefice della tua propria famiglia».74 La requisitoria ha il tono di una dolente lamentazione, ma anche quello di una ferma e virile protesta: le continue calamità e l’impossibilità di sfuggire alla furia della natura negano il fine naturale dell’uomo, il suo diritto alla felicità. La natura appare gnosticamente simile ad una prigione squallida e inospitale: «una cella tutta lacune e rovinosa».75 Di analogo tenore appaiono i versi della Quiete dopo la tempesta: «O natura cortese/ sono questi i tuoi doni?» o quelli di A Silvia: «O natura, o natura, / Perché non rendi poi/ Quel che prometti allor? Perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?». Ma si può pure pensare ai versi della prima canzone sepolcrale: «Se danno è del mortale/ Immaturo perir, come il consenti/ […]?».76 Senza dimenticare quelli accorati dell’inno ad Arimane: «Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? L’amore? … per travagliarci col desiderio, col confronto degli altri, e del tempo nostro passato, ec. / Mai io non mi rassegnerò ec.». La risposta della Natura è sconcertante quanto disarmante: «Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte».77 La Natura rimane ovunque «ignara»,78 indifferente e insensibile fuorché in un solo punto: l’uomo, «piccola parte» della Natura, come dice Voltaire nel Dialogo tra il filosofo e la Natura (che fa da sfondo all’analoga operetta leopardiana, in cui la parte del filosofo è svolta dall’Islandese). Come nel finale del Cantico del gallo silvestre il mondo si dissolve in un sublime silenzio prima che l’«arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale»79 venga inteso da alcuno, così pure la vita dell’Islandese si dissolve nel mistero: forse divorata da due macilenti animali feroci, due leoni (epilogo tragico) o forse coperta dalla sabbia del deserto (finale assurdo). Ad uccidere l’Islandese, al di là del finale umoristico che non riesce ad allentare la tensione tragica, è la stessa atmosfera dell’assurdo che si è ormai creata; è la fame del deserto, è il deserto stesso. Ad uccidere l’Islandese è il deserto del senso, la caduta di ogni teodicea e di ogni teleologia incentrate sull’uomo. Con la comparsa dell’assurdo scompare il senso del tragico.80 L’Islandese non è un eroe nichilista, ma è un’Anima disperata e rinunciataria che, quasi fosse stata istruita su un manuale stoico di vita,81 sarebbe ben disposta a venire a patti con la Natura pur di ottenerne in cambio la garanzia del quieto vivere. Al contrario, scopre che la sua è la tragedia di un mondo da cui è scomparso il tragico e che perciò si è tramutato in assurdo. A tale assurdo non si può sopravvivere quando si sia avuto l’ardire di guardarlo in faccia «nulla al ver detraendo». L’Islandese è l’anima antieroica del mondo nichilistico nel quale abbiamo fatto ingresso allorquando abbiamo scoperto che non esiste più il fato ed è dileguato il senso del tutto. La legge bronzea della natura parla di sé come di un meccanismo cieco: un cortocircuito di produzione e distruzione senza fine né meta. La richiesta di senso del viaggiatore metafisico cade dunque nel vuoto di fronte al silenzio della Natura. L’uomo solo, in fuga dall’infelicità, si trova alla resa dei conti con l’enigma ultimo del mondo; un enigma di cui, come dirà Nietzsche in Verità e menzogna, «la natura ha gettato via la chiave».82 Nietzsche ha di fatto esplicitato il senso della rivolta metafisica leopardiana quando ha scritto (a proposito del nichilista ingenuo e insoddisfatto): «non dovrebbe darsi un essere privo di senso e vano».83 Questa protesta rappresenta benissimo l’«iperbolica ingenuità» (ancora parole di Nietzsche), il candore dell’Islandese. È l’iperbolico candore di Leopardi (quello stesso che Bontempelli ritroverà in Pirandello), il suo inguaribile umanesimo antropocentrico a spingere l’Islandese ad intentare un vero e proprio «processo alla natura».84

Nell’interrogazione spasmodica e disperata dell’Islandese risuona non solo la protesta di Giobbe sul senso del dolore e della colpa, ma si annuncia anche quella «rivolta metafisica» che solo larvatamente aveva trovato in Lucrezio e in Voltaire dei pallidi quanto improbabili precursori. Ma laddove in Giobbe il male si traduceva in nonsenso (infine dissolto e riassorbito nel mistero divino), in Leopardi è il nonsenso che si risolve in irriducibile e inesplicabile male metafisico, e quindi in assurdo. Nietzsche dirà: «Il nichilismo appare ora non perché il dolore dell’esistenza sia maggiore di prima, ma perché si trova diffidenza a vedere un ‘senso’nel male della stessa esistenza».85

A dispetto dell’immagine spiritualizzante offertane da Mann, Voltaire non era certo quel titano della rivolta metafisica da lui dipinto, ma solo uno che si sarebbe accontentato di poter coltivare, metaforicamente parlando, l’utopia possibile del «giardino» della finitezza. Bisognava, insomma, poter immaginare Candido felice. Leopardi si associa bensì alla critica voltairiana dei filosofi ottimisti alla Leibniz, ma si discosta dall’illuminista francese allorché quest’ultimo lascia uno spiraglio aperto all’utopia del principio di speranza: «Un giorno tutto sarà bene, ecco la nostra speranza;/ Tutto è bene oggi, ecco l’illusione».86 L’antiprovvidenzialismo di Leopardi appare inoltre decisamente più spinto e di quello voltairiano, scevro com’è da ogni ipoteca divina. E tuttavia Leopardi rimane d’accordo con Voltaire almeno su un punto: dalla somma di tanti mali non potrà mai risultare un «bene generale». E soprattutto il Recanatese condivide la diagnosi pessimistica di Voltaire: «Bisogna ammetterlo, il male è sulla terra»;87 «il male esiste».88 Contro Rousseau, per Leopardi come per Voltaire, non esiste un Dio di bontà. Si tenga presente che il dilemma (o tetralemma) di Epicuro era stato a suo modo risolto da Voltaire (come gli avrebbe rimproverato Rousseau) 89 a danno della bontà e provvidenza di Dio: «perché voler giustificare la sua potenza a scapito della sua bontà?»90 Resta tuttavia la grande differenza di fondo: laddove Voltaire contesta la teodicea leibniziana, Leopardi la capovolge. Per lui «tutto è male».91 La filosofia della catastrofe si rovescia in una catastrofe della filosofia. Siamo al collasso dell’ontoteologia e all’aperta crisi della fiducia metafisica nel finalismo antropologico e cosmologico. Non solo la vita manca del suo fine, ma ovunque il fine dilegua. Se «il terremoto di Lisbona fu sufficiente per guarire Voltaire dalla teodicea leibniziana»,92 esso bastò a trasformare il giardino di Voltaire, per non dire quello della Bibbia, in un universo malato.

Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo (e quindi è ben difficile il supporre ch’ella non sia un male p. [er] l’universo intero, e ancora più difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, De malheurs de chaque être un bonheur général. Voltaire, épître sur le désastre de Lisbonne […] . Non si comprende come dal male di tutti gl’individui senza eccezione, possa risultare il bene dell’universalità; come dalla riunione e dal complesso di molti mali e non d’altro, possa risultare un bene.93

Dopo Leopardi, e sulla sua scia, Schopenhauer prenderà una netta posizione contro l’ingiustificato «ottimismo» che impronta di sé il pensiero di Leibniz come quello di Rousseau,94 schierandosi nel dibattito sorto dal Poema sul disastro di Lisbona a favore di Voltaire.95 Di lì a poche pagine si trova la menzione di Leopardi che suggella la catena dei grandi pessimisti di tutti i tempi.

Se alcune condizioni del nichilismo possono essere ravvisate nel pensiero di Pascal (con la sua ipotesi di un mondo senza Dio) 96 e di Voltaire (con la sua denuncia della teodicea più ottimistica), l’orizzonte nichilista emerge solo grazie a Leopardi con un’evidenza senza precedenti. Leopardi, infatti, ha scoperto per la prima volta nella storia del pensiero occidentale che il mondo non è semplicemente irrazionale o infondato (in quanto privo di una ragione sufficiente, diceva anche Schopenhauer), ma che esso è, a rigor di termini, assurdo. Si tratta di una scoperta inaudita e di una tale portata da stentare ancora ad essere compresa. Leopardi ha scoperto non già l’insensatezza del mondo, bensì la sua assurdità, ossia la sua sordità rispetto ad ogni umano appello dei senso. Egli ha avvertito per primo l’urto e la dissonanza fra la «domanda fondamentale» e il silenzio del mondo. Laddove la semplice constatazione dell’insensatezza poteva portare alla «rassegnazione» quale «sola redenzione del mondo»,97 la lucida coscienza dell’assurdo conduce invece ad un’inevitabile «rivolta metafisica» nel senso di Camus, ossia ad una «sfida» aperta contro il nonsenso del mondo. Al contrario di Schopenhauer, Leopardi non si rassegnò mai, novello Bruto che «gl’infausti giorni/ virile alma ricusa».98 Protestò anche contro l’imperio di Arimane — in cui Dio, Natura e Fato si fondevano in una sola figura — contro cui scagliò parole veementi e titaniche: «Pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà […] Mai io non mi rassegnerò».99 Non si deve dire a questo punto che Leopardi ha svelto ben prima di Camus le radici dell’assurdo? Se sì, vediamo in che modo.

 

4. Alle radici dell’assurdo

Leopardi ha spesso utilizzato il termine «assurdo», pur limitandosi ad intenderlo in modo alquanto tradizionale, cioè senza distinguerlo bene dal controsenso, dal contraddittorio, dal paradossale. Intorno al 1820 egli poteva scrivere, ad esempio: «Pare un assurdo,100 e pure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni».101 Quando poi nello stesso anno scriveva che «il sistema della natura e delle cose è totalmente assurdo» si trattava solo di un’ipotesi ‘assurda’,102 ma questa volta in un altro senso della parola. Il giovane Leopardi non aveva ancora avvertito la crisi del sistema della natura, anzi si trascina ancora dietro l’illusione di una natura benefica corrotta dalla ragione così come l’illusione di una religione quale unico rimedio contro le assurdità di una vita destinata all’infelicità e tentata perciò dalla razionalità del suicidio. L’assurdo si affaccia così per la prima volta come un’ipotesi paradossale, quasi come una mostruosità da rimuovere. Il punto di svolta è rappresentato dalle Operette morali, in cui Leopardi progettava di illustrare «gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia».103 L’idea dell’assurdo in Leopardi si insinua soprattutto in un periodo compreso fra il 1823 e il 1825, attraverso tutta una terminologia e un fraseggiare vagamente pascaliano come: «vastità incomprensibile dell’esistenza»,104 «orribile mistero delle cose»,105 «contraddizione spaventevole»,106 «misterio grande da non potersi mai spiegare»,107 «mostruosità»,108 «arcano mirabile e spaventoso»,109 «arcana malvagità»110 del mondo. Absurdus vuol dire, alla lettera, «sordo», «dissonante», «stonato». Nei suoi versi Leopardi non avrebbe potuto essere più chiaro: «Dalle mie vaghe immagini/ So bene ch’ella discorda: / So che natura è sorda».111 Lo spirito umano erra «per mar delizioso, arcano»,112 finché un «discorde accento»113 non lo ferisce d’improvviso, ricacciando nel «nulla» quel «paradiso» che si era immaginato. Anche nello Zibaldone viene ben presto in chiaro il rapporto fra l’uomo e la natura: «Ella è cieca e sorda verso te, e tu verso lei»,114 a «ragione» del suo «gioco reo» rimane «chiusa» al «mortale».115

A proposito dell’antropomorfismo dettato dalla religione Leopardi nota che «l’assurdo si misura dalla dissonanza col nostro modo di ragionare».116 Tale osservazione può essere generalizzata. Quando, infatti, Leopardi parla del «nostro modo di ragionare», o anche delle «nostre idee»,117 si riferisce al senso comune o anche alla metafisica ricevuta, rispetto ai quali il suo «sistema» si pone in urto stridente e paradossale:

Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello di Leibnitz, del Pope, che tutto è bene.118

«Assurdo», come dice lo stesso Leopardi, è ciò che «noi» «giudichiam» «fuor dell’uso»,119 ovvero ciò che esorbita in modo stridente e improvviso («tosto in effetto») 120 dalla nostra capacità usuale di giudizio e di pensiero.

Se con Leopardi una radicale meditazione sull’assurdo era già sorta all’alba del nichilismo contemporaneo, per una prima rigorizzazione della «filosofia dell’assurdo»121 si dovrà attendere ancora un secolo. Essa sarà affidata al leopardiano Giuseppe Rensi:

che cosa significa tale pungente e dolorosa sensazione che le cose avrebbero potuto andare altrimenti? Significa che il come sono andate, sotto il dominio di quei casi futili e ciechi, urta il nostro spirito, contraddice la nostra mente. Significa che per questa esse dovevano andare altrimenti. Ossia significa che quel procedere casuale e cieco è per noi sinonimo di assurdo.122

Nella prefazione al Mito di Sisifo, Camus annuncia che il suo libro — che non per nulla reca come sottotitolo: Essai sur l’absurde — parlerà di «una sensibilità assurda, che possiamo trovare diffusa nel nostro secolo, e non di una filosofia assurda (sic! ) che il nostro tempo, per dirla schietta, non ha conosciuta». Pare tuttavia che Jean Grenier avesse a suo tempo invitato il giovane Camus alla lettura di Rensi.123 Ad ogni modo, da un punto di vista genealogico nulla impediva a Camus di attingere alle stesse fonti di Leopardi, fra le quali spiccano Pascal (e più in generale i moralisti francesi) e Voltaire. Da Pascal Camus ha ripreso soprattutto l’atteggiamento di dignità e di superiorità della coscienza rispetto alla vastità incomprensibile del tutto: l’uomo è grande perché ha coscienza di essere piccolo (Pascal); può essere immaginato felice in virtù della lucida consapevolezza di trovarsi in un condizione assurda (Camus). Pascal non rimane forse il modello ideale di ogni «salto» nella fede o «suicidio filosofico» della ragione che sarà compiuto dai vari cavalieri dell’esistenzialismo: Kierkegaaard, Chestov, Jaspers? Non è stato Pascal a parlare (in anticipo su Leopardi) di una “infelicità naturale della nostra condizione”,124 di una «condizione dell’uomo» segnata dal divorzio tragico tra il suo bisogno di chiarezza e la possibilità di raggiungerla?125 E non è Camus stesso a spendere espressioni dal sapore pascaliano come «scommessa assurda»126 e «condizione ingiusta e incomprensibile»?127 Infine, non era il nietzscheano «movimento di Pascal»128 destinato a ricadere, insieme all’adempimento della profezia assurda di un mondo sdivinizzato, anche su Leopardi e Camus?

È rimarchevole come Voltaire nei Taccuini di Camus possa fare capolino quasi come un maestro del sospetto: “Voltaire ha sospettato quasi tutto. Ha affermato pochissime cose ma bene”.129 Non so se Camus conoscesse il voltairiano Dialogo tra il filosofo e la Natura, ma difficilmente poteva disconoscere il Poema sul disastro di Lisbona. Quand’anche, come pare, si fosse concesso il lusso di ignorare in buona fede un grande precedente come Leopardi, la letteratura francese dell’età illuministica e romantica, che di certo Camus ha ben presente, non era avara di poeti dalla sensibilità non tanto lontana da quella del poeta italiano: basti pensare alla triade Chamford, Vigny, Senancour.

Per venire a fonti più sicure, nel Mito di Sisifo Camus attinge agli archetipi classici dell’assurdo: da Sofocle130 a Kierkegaard e Dostoevskij, ai maestri dell’esistenzialismo. Contro ogni «salto» o «evasione» nella fede, si tratta per Camus di “vivere entro lo stato di assurdo”,131 senza sottrarsi a questa «evidenza»132 né alle sue conseguenze: prima fra tutte quella «privazione della speranza»133 che nella «rivolta» ci rende liberi da ogni «consolazione»;134 liberi perfino dalla disperazione, procurando all’«uomo assurdo» la pura gioia di essere cosciente.135 È notevole con quanta chiarezza una simile posizione sia stata raggiunta dall’ultimo Leopardi: «rifiuto ogni consolazione […] e ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita».136

Accanto alle tracce di una posizione scetticheggiante,137 si incontra nel pensatore francese un’importante «nozione» dell’assurdo dall’intonazione vagamente rensiana, e quindi leopardiana: «Il mondo, in sé, non è ragionevole: è tutto quello che si può dire. Ma l’assurdo vero e proprio è solo nel confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza, il cui richiamo risuona dal più profondo dell’uomo»;138 «l’assurdo nasce dal confronto fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo»;139 «è il divorzio fra lo spirito che desidera e il mondo che delude».140 Camus vorrebbe distinguere da un lato il «senso dell’assurdo» dalla sua «nozione»,141 così come tiene dall’altro a che l’evidenza quasi cartesiana e solitaria dell’assurdo e della rivolta si completi nella «coscienza collettiva» capace di diventare «costante presenza dell’uomo a se stesso».142 È rimasta celebre la riformulazione camusiana del cogito: «mi rivolto dunque sono»; o anche: «mi rivolto, dunque siamo». Come si vede nel Mito di Sisifo e una volta di più nell’Uomo in rivolta, non c’è posizione assurdista che non postuli una «rivolta metafisica», e tuttavia una semplice «rivolta metafisica» non basta da sola ad assicurare una «filosofia dell’assurdo». Gli esempi di Giobbe, Lucrezio, Voltaire valgano per tutti. Nessuno di tali personaggi ha avuto accesso ad una vera e propria esperienza dell’assurdo e ad una conseguente «rivolta metafisica». Analogamente, non c’è assurdismo che non sia nichilismo, ma il nichilismo non si esaurisce certo nell’assurdismo. L’assurdismo, anzi, è la versione che il nichilismo assume alle soglie della nostra epoca proprio a partire da Leopardi. Esso consiste, come si è detto, nell’affermare che il mondo è non semplicemente insensato ma appunto anche assurdo, cioè sordo alle più profonde domande di senso sollevate dall’uomo. Dal canto suo, Camus terrà a precisare che ad essere assurdo non è il mondo come tale, ma appunto “il confronto disperato tra l’interrogazione umana e il silenzio del mondo”.143 Come abbiamo visto, questa rigorosa nozione di assurdo era già ben presente nella mente e nell’opera di Leopardi, e ancor più rigorosamente in quella di Rensi.

La rivolta metafisica di Leopardi rimanda a quella dimensione dell’assurdo che sola consente di misurare la distanza fra il nichilismo contemporaneo e le sue più o meno remote condizioni storico-genealogiche. Primo fra tutti i pensatori dell’Occidente, Leopardi ha illuminato la soglia dell’assurdo e al tempo stesso ha trovato il coraggio invincibile di venire, per dirla con Michelstaedter, ai «ferri corti» con la propria vita e con l’arcano dell’esistenza universale, al punto di sognare di poter stringere attorno alla «nobil natura» del genio poetico l’intero genere umano che «a sollevar s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/ al comun fato…».144 Leopardi ha già compiuto il passo fatale dall’esperienza solitaria dell’assurdo a quella rivolta comune contro il male metafisico che finisce col dare un barlume di senso alla nostra vita.

Camus sembra accettare in un primo momento il destino assurdo di Sisifo con la saggezza meridiana e quasi nietzscheana di chi dice di sì alla vita, accettando la propria condizione e proclamandosi superiore al proprio destino. Ma alla fine, il solitaire solidaire perviene anch’egli, come il magnanimo «malpensante» nella Ginestra, ad un ethos della solidarietà umana capace di sorreggere nella «coscienza collettiva» quell’assurdo che resta la tenace «oscurità» sfidata dal sole,145 «l’ombra che misura la grandezza del piacere che ci è rifiutato», la «peste» che «non muore né scompare».146

 

Note

  1. Lo Zibaldone e le Operette morali di Leopardi verranno rispettivamente citate secondo le seguenti abbreviazioni: Z (seguita dal numero di pagina dell’autografo) = Zibaldone, 3 voll., edizione critica rivista da R. Damiani, Zibaldone, Mondadori, Milano 1997-20033; OM = G. Leopardi, Operette morali, a cura di C. Galimberti, Guida, Napoli 1998. I Frammenti postumi di Nietzsche (nell’edizione critica Adelphi) verranno abbreviati con la sigla FP. Il presente articolo riprende e sviluppa in una prospettiva nuova un paragrafo della mia tesi di dottorato: Leopardi e la genealogia del nichilismo (Palermo 2010).
  2. Benjamin, Ombre corte. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino 1993, p. 109.
  3. Basti ricordare qui la triade di critici: Umberto Bosco, Walter Binni, Sebastiano Timpanaro. Nella ricostruzione di Bosco (Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze 1957) la rivolta contro il «fato indegno» e la «legge arcana» del Bruto Minore prelude già allo «specifico titanismo leopardiano» (ivi, p. 13). Il titano del pensiero non si ribellerebbe più contro gli uomini vili del suo tempo né cercherebbe di scuoterli dalla loro inerzia, ma si rivolterebbe contro il destino. Il «non domato nemico della fortuna» (ad Angelo Mai) cederebbe il passo alla «guerra mortale, eterna» al «fato indegno» con cui «il prode guerreggia» (Bruto Minore, vv. 38-39). Ma il titanismo si trasferisce «dall’azione al pensiero». Le Operette Morali (specie le prime venti) rappresenterebbero la piena espressione di questo «titanismo del pensiero» (Bosco, cit., p. 13), che affronta a viso aperto l’orrido vero. Il Preambolo al volgarizzamento del Manuale di Epitteto (1825) chiarisce le due posizioni — quella rinunciataria e quella ribelle — che rappresentano a suo avviso la grande alternativa fra «gli spiriti grandi e forti» tipici dell’antichità e «gli animi di natura o d’abito non eroici» caratteristici invece della modernità. La morale di Epitteto, con la sua esaltazione dell’indifferenza tranquillizzante e anestetizzante si attaglierebbe dunque ai tempi moderni piuttosto che agli antichi. Nei suoi momenti più bui Leopardi non riesce a ribellarsi al destino, ma non si abbandona neppure alla rassegnazione e alla disperazione. Da questo stato d’animo ambivalente il suo spirito cercherà di reagire e di risorgere nel biennio dei grandi Idilli (1828-’29). Così, il «pastore errante» non combatte «ma neppure accetta il destino», «riaffermando sbigottito e sconsolato l’incomprensibilità della legge di dolore che governa la vita» (Bosco, op. cit., p. 17). La filosofia di Tristano rappresenta per Bosco — e siamo d’accordo con lui — la forma più matura e definitiva del titanismo leopardiano, giacché affronta «la crudeltà del destino umano» (OM 497) «nulla al ver detraendo» (La ginestra, v. 115), compiacendosi della propria capacità di non venire «a patti» col destino e di non piegare il capo di fronte ad esso. Un simile titanismo trova la sua espressione più tipica nel ciclo di Aspasia. Nella «notte senza stelle» (Aspasia, v. 108) il poeta, sdraiato sull’erba, sorride quasi a volersi vendicare del mutevole spettacolo della natura. In Amore e morte si dichiara «renitente al fato», mentre nella Ginestra risuonano i famosi versi: «nobile natura e quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato». Questa è anche l’ultima parola di Leopardi: «non renitente» eppure «non piegato» al volere del fato. Timpanaro dal canto suo ha osservato come nel Bruto minore il «titanismo storico» si tramuti in «titanismo cosmico» (S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa, 1969, pp. 148-149). Quello di Leopardi si configura come un pessimismo senza conciliazione in una superiore sintesi, un pessimismo irriducibilmente non dialettico, ma lucidamente e agonisticamente aperto alla lotta dell’uomo contro il comune nemico: la natura o il fato (ivi, p. 174; p. 182). Se già De Sanctis aveva considerato la morale eroica «la parte più poetica del pensiero leopardiano», Walter Binni esalterà la poesia eroica assumendo la categoria dell’eroismo come la più adatta a caratterizzare l’atteggiamento protestatario del Recanatese.
  4. Leopardi, lettera a de Sinner, 24 maggio 1832.
  5. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 31.
  6. Prendiamo chiaramente a prestito tale espressione dal cap. II de L’uomo in rivolta di Albert Camus. L’immagine della «rivolta metafisica», anche senza alcun riferimento (esplicito) a Camus, è stata abbastanza sfruttata dalla critica leopardiana. Cfr. W. Binni, La protesta di Leopardi, Sansoni, Firenze 1989. p. 84; p. 126; p. 135; p. 218; p. 220; p. 224; pp. 228-229 e passim. Binni ha decifrato la posizione leopardiana come una «polemica metafisica» (p. 228) e una «protesta contro la realtà sbagliata» (pp. 84-85). È risaputo che già per Luporini il nichilismo attivo di Leopardi implica un momento di «ribellione» contro il fato (C. Luporini, Leopardi progressivo, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 120; Id., Decifrare Leopardi, Gaetano Macchiaroli editore, Napoli 1998, p. 245; p. 269). Si vedano pure G. Casoli, Dio in Leopardi, Città Nuova Editrice, Roma 1985, p. 138; B. Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Einaudi, Torino 1997, p. 127; p. 145; p. 151. Sul versante filosofico o religioso, l’idea della «rivolta ontologica» è ben presente in A. Caracciolo (Leopardi e il nichilismo, Bompiani, Bologna, 1994, p. 38; pp. 114-115; Id., Nichilismo ed etica, Il melangolo, Genova 2002, p. 72), ma anche in S. Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il Saggiatore, Torino 1988, p. 161), in Roberto Garaventa, che ha parlato anche lui di una «rivolta ontologica» (Il suicidio nell’età del nichilismo. Goethe, Leopardi, Dostoevskij, Franco Angeli, Milano 1994, p. 158; Id., La noia, Bulzoni, Roma 1997, p. 244). L’atteggiamento di “rivolta” o di “ribellione” di Leopardi era già stato avvertito bene da D. Barsotti, La religione di Giacomo Leopardi, San Paolo, Milano 2008, p. 73; p. 79; p. 221 e passim. Il recente saggio di F. Cassano Oltre il nulla (Laterza, Roma-Bari 2003) ispirato all’idea camusiana di una rivolta metafisica e solidale (cfr. Id. Il pensiero meridiano, cit., pp. 85-88).
  7. Basti pensare al Poema sul disastro di Lisbona.
  8. Lucrezio, De rerum natura, I, vv. 62-79. È stato già notato il debito di alcuni versi della Ginestra (vv. 111-114) nei confronti di questo «elogio di Epicuro» (S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, cit., p. 419 postilla alla p. 223 e n. 86). Sul pessimismo di Lucrezio vedi anche H. Bergson, Extraits de Lucrèce avec commentaire, études et notes, Delagrave, Paris, 1883; tr. it. Lucrezio, Medusa, Milano 2001, pp. 32-33. Per Epicuro il mondo è assolutamente privo di finalità: «nec ratione ulla nec arte (…) instructum» (apud Lattanzio). Cfr. E. Bignone, Lucrezio come interprete della filosofia di Epicuro, in Id., L’Aristotele perduto, Bompiani, Milano 2007, p. 1050.
  9. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 41.
  10. Ivi, p. 40.
  11. Ivi, p. 39.
  12. Ivi, p. 37.
  13. E. Andreoni Fontecedro, Natura di voler matrigna. Saggio sul Leopardi e su natura noverca, Kepos, Edizioni, Roma 1993, pp. 35 ss. L’autrice nota come la formula natura noverca non derivi a Leopardi direttamente da Lucrezio (in cui essa è, in effetti, assente), bensì ad altri autori latini (come Cicerone e Plinio) nei cui vetusta placita risuonano gli antichi adagi del pessimismo greco, che giungono a Leopardi mediante Lattanzio e Angelo Mai (scopritore del De re publica di Cicerone).
  14. Stratone parla di una vis divina (Cicerone, De natura deorum, I, 35).
  15. Ivi, vv. 195 ss.
  16. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 35.
  17. Modernità e cristianesimo sono parte di un unico movimento epocale: Benjamin Constant docet (I Padri della Chiesa, lo “Spettatore”, IX, Milano, 1817, pp. 559-564. L’articolo era già apparso sul “Mercure de France”). E si tratta di un autore noto a Leopardi come a Camus.
  18. Libro di Giobbe, 3, 20.
  19. Leopardi, Canto del pastore errante, vv. 52-56.
  20. Z 507.
  21. Z 3342-3343.
  22. La figura del Deus absconditus è comune tanto al Libro di Giobbe (13, 14; 23, 8-9) quanto all’Ecclesiaste. Cfr. Isaia, 45, 15; Salmi, 27, 8-9; 88, 47.
  23. Il Dio dei patriarchi, il Dio del patto e dell’alleanza si è eclissato. Il Dio di Giobbe, come il Dio del Qohélet, come in parte quello già annunciato dai profeti (per es. Geremia, 23, 23), è un Dio lontano, un Dio divenuto misterioso e incomprensibile. Tale sarà anche il Dio di Pascal.
  24. Libro di Giobbe, 40, 2; 13, 3; 23, 2.
  25. E. Niccoli – B. Salvarani, In difesa di Giobbe e Salomon. Leopardi e la Bibbia, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1998, p. 144; L. Marcon, Giobbe e Leopardi. La notte oscura dell’anima, Guida, Napoli 2005, p. 63. E. Bloch in Ateismo nel cristianesimo (Feltrinelli, Milano 2005, pp. 156-157) parla con simpatia di Giobbe come di un «Prometeo ebraico» in rivolta titanica contro il vecchio e inumano Dio dell’«oblio dell’etica» (ivi, p. 157) e della natura mostruosa.
  26. Ecclesiaste, 1-2.
  27. Analogamente, nel mito orientale di Gilgames è detto che «I giorni dell’uomo sono contati, qualunque cosa egli faccia non è altro che vento» (Tavoletta di Yale, 141-142).
  28. S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 2002, p. 305: «L’esperienza del dolore che nel Libro di Giobbe tocca il limite del non senso è però collocata nuovamente in un orizzonte di comprensibilità, trova una sua giustificazione, almeno in linea di principio, nell’imperscrutabile disegno di Dio. Il misterium Dei restituisce, sia pure per via mediata, senso al dolore».
  29. Secondo una leggenda cristiana risalente a Teodoreto, l’imperatore Giuliano l’Apostata prima di morire sconfitto dai Parti, avrebbe scagliato al cielo il proprio sangue, esclamando: «Hai vinto, o Galileo».
  30. Una possibile fonte è la Corinne (cap. VIII) di M.me De Stäel (cfr. C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 269 n. 19).
  31. Ovidio, Metamorfosi,VI, vv. 273-312.
  32. Z 505.
  33. Z 504-507.
  34. Leopardi cita dall’antologia: Leçons de littérature et de morale di Noël-Delaplace, vol. I, p. 488.
  35. Z 222.
  36. Camus, Il mito di Sisifo, p. 119.
  37. Leopardi, Poesie e prose, vol. II, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 1988, p. 1046.
  38. Si tratta di quelle che S. Timpanaro ha chiamato le «due facce del pessimismo» leopardiano: «la rassegnata e la combattiva» (La filologia di Giacomo Leopardi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 110).
  39. Z 1546.
  40. Z 1865. Sul topos letterario della «disperata speranza», si veda L. Sozzi, Il paese delle chimere, Sellerio, Palermo 2007, pp. 321-349.
  41. Benjamin, Le affinità elettive, in Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 243.
  42. T. Mann, La montagna incantata, Corbaccio, Milano 1994, p. 369.
  43. Ivi, p. 232.
  44. Ivi, p. 368.
  45. Voltaire, Poema sul disastro di Lisbona, 163.
  46. Voltaire, Dialogo tra il filosofo e la Natura, in Scritti filosofici, vol. II, UTET, Torino 1971, p. 628. Cfr. Id., Poema sul disastro di Lisbona, v. 118: «Nati per i tormenti, muoiono ciascuno a causa dell’altro».
  47. D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 87: «una guerra perpetua divampa fra tutte le creature viventi».
  48. -J. Barthélemy, Voyage du jeune Anacharsis en Grèce, cit., cap. XXVIII, p. 425.
  49. Goethe, I dolori del giovane Werther, 18 agosto, in Id., Romanzi, a cura di Caruzzi, Prefazione di C. Magris, Mondadori, Milano 1979, pp. 59-61.
  50. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Bompiani, Milano 1988, p. 108: «Ho già sentito tutta a tua bellezza […] Ma nella mia disperazione ti ho poi veduta con le mani grondanti di sangue; la fragranza dei tuoi fiori mi fu pregna di veleno, amari i tuoi frutti; e mi apparivi divoratrice de’ tuoi figliuoli adescandoli con la tua bellezza e co’ tuoi doni al dolore».
  51. Z 4258; Z 4485-4486; Z 4462; Z 4511; Dialogo della Natura e di un Islandese, OM 243; Paralipomeni, IV, 12, vv. 7-8. Per quanto riguarda la concezione pessimistica e autodistruttice della natura nella ‘triade’ Goethe, Foscolo, Leopardi, si veda G. Manacorda, Materialismo e masochismo. Il «Werther», Foscolo e Leopardi, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 135-145.
  52. G. Fichte, La missione dell’uomo, in Id. La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Laterza, Roma-Bari 1970, p. 51 n.132.
  53. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1999, p. 1497.
  54. Voltaire, Natura. Dialogo tra il filosofo e la Natura, cit., p. 628.
  55. Barthélemy, cit., cap. XXVIII, p. 427 (tr. mia).
  56. D’Holbach, Il buon senso, Garzanti, Milano 2005, p. 79.
  57. G. Leopardi, OM 241-242. L’immagine della natura persecutrice rimarrà, d’ora in poi, un punto di non ritorno, come conferma, ad esempio il Dialogo di Plotino: «la natura, il fato e la fortuna ci flagellano di continuo» (OM 465), alcuni versi di Al conte Carlo Pepoli (vv. 78-84), e un pensiero del 1829 in cui la natura è chiamata «persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni gen. E specie, ch’ella dà in luce» (Z 4486).
  58. Leopardi, OM 242.
  59. Anche in Camus, come in Leopardi e Rensi, sono presenti tracce di un certo gnosticismo, a partire da titoli di per sé eloquenti come: Lo straniero, La caduta, L’esilio e il regno. Cfr. F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 126.
  60. Z 1611. Cfr. G. Leopardi, Sopra un bassorilievo, vv. 77-78: «a tutti noi che senza colpa, ignari,/ né volontari al viver abbandoni».
  61. Leopardi, OM 242.
  62. Leopardi, OM 322. Forse una reminiscenza di Jean Paul (letto da Leopardi in De l’Allemagne di M.me de Stäel): «Davanti a lui sta immobile il mondo intero, come la grande sfinge egizia di pietra semisdraiata sulla sabbia» (Jean Paul, Discorso del Cristo morto, in Id., Scritti sul nichilismo, Morcelliana, Brescia 1997, p. 24).
  63. Leopardi, OM 244.
  64. Non si può dimenticare che Luigi Pirandello chiude la prima parte del suo saggio sull’Umorismo proprio evocando “quei certi dialoghi e quelle certe prosette del Leopardi” non tenute nel dovuto conto dall’Arcoleo. Si può anzi legittimamente sospettare un influsso delle Operette morali sulla teoria pirandelliana dell’umorismo.
  65. Sul «detto di D’Alembert», citato di seconda mano da Leopardi, cfr. le puntualizzazioni filologiche di E. Peruzzi, «L’edizione fotografica dello Zibaldone», in AA. VV., Lo Zibaldone cento anni dopo, Olschki, Firenze 2001, t. I, pp. 378-379.
  66. Leopardi, OM 335.
  67. Leopardi, Pensieri, I.
  68. Leopardi, OM 238; OM 241.
  69. Leopardi, OM 241.
  70. Leopardi, Paralipomeni alla Bratracomiomachia , IV, 12, 8.
  71. Leopardi, OM 243.
  72. Leopardi, OM 145.
  73. Leopardi, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, vv. 48-49.
  74. Leopardi, OM 244. Per illuminare il senso di quel «rarissime volte» si può ricorrere a Dostoevskij, laddove descrive il «suicidio logico» di un materialista annoiato della vita: «la natura non soltanto non mi riconosce il diritto di domandarle conto, ma non mi risponde per nulla, e non perché non voglia, ma perché non può rispondere; poiché mi sono convinto che la natura, per rispondere alle domande, ha destinato (inconsciamente) me stesso e mi risponde con la mia coscienza» di «querelante e querelato» (Diario di uno scrittore, Bompiani, Milano 2007, p. 609). Il ragionamento del suicida si spinge fino all’aperta «rivolta metafisica»: «condanno questa natura — che senza tante cerimonie mi ha creato per la sofferenza — a essere distrutta insieme a me» (ivi). Si tratta di un passo significativamente ripreso da Camus nel Mito di Sisifo, cit., pp. 101-102.
  75. Si pensi a G. Leopardi, La ginestra («dell’uom ignara»), nonché all’Inno ai Patriarchi («Di colpe ignara e di lugubri eventi»).
  76. Leopardi, OM 401.
  77. Il tragico muore a vantaggio dell’assurdo, mentre il senso non conciliato cede il passo al deserto del senso. L’esistenza del senso tragico della vita postula infatti l’esistenza di un Fato e di un Senso indecifrabile che il mondo secolarizzato non ammette più. Sul tema dell’impossibilità del tragico, che merita un discorso a parte, si vedano utili spunti in: P. Szondi, Teorie del dramma moderno, Einaudi, Torino 2002, p. 110; S. Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il Saggiatore, Torino 1988, p. 144; G. Anders, L’uomo è antiquato, I, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 231; Id., L’uomo è antiquato, II, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 378; E. Niccoli – B. Salvarani, cit., p. 134; p. 148; p. 150; G. Garelli, Filosofie del tragico, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 67-69; p. 87; p. 89; pp. 111-112; M. Cacciari, Dallo Steinhof, Adelphi, Milano 2005, pp. 59-60; S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 2006, pp. 191-192; S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 2002, p. 206; p. 358; Id., La salvezza senza fede, Feltrinelli, Milano 2008, p. 98; U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, p. 686.
  78. Alludo al Manuale di Epitteto, che nelle intenzioni di Leopardi avrebbe dovuto costituire il punto di partenza per il suo progettato Manuale di filosofia pratica. Cfr. E. Bigi, Dalle «Operette morali» ai «Grandi Idilli», «Belfagor», XVIII, n. 2, 31 marzo 1963, p. 136 e n. 14. Sul rapporto critico di Leopardi con il pensiero stoico, cfr. V. Steinkamp, La filosofia pratica di Giacomo Leopardi, in AA. VV., Leopardi poeta e pensatore, Guida, Napoli 1997, pp. 148-153; S. Mainberger, Felicità come indifferenza: Leopardi, Melville, Beckett, in AA. VV., Leopardi poeta e pensatore, cit., pp. 451-457.
  79. La frase si trova già in incunabolo di questo scritto, apparso l’anno precedente col titolo Sul pathos della verità (1872), dove si sottolinea la tendenza nichilistica della conoscenza (che, separata dall’arte, conduce inevitabilmente verso la «disperazione» e l’«annientamento») di contro alla funzione occultante della natura, che «nasconde la maggior parte delle cose».
  80. Nietzsche, FP 1887-1888, 11[97].
  81. Campailla, La vocazione di Tristano, cit., pp. 145-174.
  82. Nietzsche, FP 1886-1887, 5 [71], 4.
  83. Voltaire, Poema sul disastro di Lisbona, vv. 219-220.
  84. Ivi, v. 126.
  85. Ivi, v. 139. Si tratta di quel malum mundi ammessa, in un’ottica cristiana, da Alberto Caracciolo come pure da Luigi Pareyson.
  86. Voltaire-Rousseau-Kant, Sulla catastrofe. L’illuminismo e la filosofia del disastro, a cura di A. Tagliapietra, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. XXIV-XXV; pp. 20-21 n. 47, n. 57; p. 24; p. 37 n. 10.
  87. Ivi, p. 24.
  88. Moneta, L’officina delle aporie. Leopardi e la riflessione sul male negli anni dello Zibaldone, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 210-222.
  89. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 326. Cfr. Id., Metafisica. Concetto e problemi, Einaudi, Torino 2006, p. 126.
  90. Z 4175.
  91. Schopenhauer cita la Professione di fede del Vicario Savoiardo (Emilio), ma anche la Lettera sulla Provvidenza indirizzata a Voltaire. Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 1502-1503.
  92. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 1499-1503. Leopardi è ivi citato a p. 1507.
  93. Dedico un intero capitolo della mia tesi di dottorato al «movimento di Pascal» (come lo chiamava Nietzsche).
  94. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 27, tr. P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo. L’edizione Mondadori, dalla quale citiamo, traduce, invece: «vera liberazione del mondo» (p. 232).
  95. Leopardi, Bruto minore, vv. 58-59.
  96. Leopardi, Ad Arimane.
  97. L’assurdo in Leopardi si affaccerà altre volte timidamente quale eccezione al «sistema della natura», fino a quando esso non verrà drammaticamente denunciato come la regola, inaccettabile da parte dell’uomo.
  98. Z 99.
  99. Z 364.
  100. Z 1393. Vedi la lettera a Giordani del 4 settembre 1820: «Consoliamoci della indegnità della fortuna. I questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtù, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche».
  101. Z 3171.
  102. Z 4099.
  103. Z 4129.
  104. Z 4174.
  105. Leopardi, Cantico del gallo silvestre, OM 401.
  106. Leopardi, Ad Arimane.
  107. Leopardi, Il risorgimento, vv. 117-119.
  108. Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna, v. 43.
  109. Ivi, v. 47.
  110. Z 2432.
  111. Leopardi, Palinodia, vv. 166-167.
  112. Z 1470.
  113. Z 4174.
  114. Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia, IV, 20.
  115. Ivi (sott. mia).
  116. Va precisato che l’espressione «filosofia dell’assurdo» era già stata utilizzata in funzione polemica contro l’epigono di Schopenhauer Bahnsen (G. Invernizzi, Il pessimismo tedesco dell’Ottocento. Schopenhauer, Hartmann, Bahnsen e Mainländer e i loro avversari, La Nuova Italia editrice, Firenze 1994, p. 235).
  117. Rensi, La filosofia dellassurdo, Adelphi, Milano 1991, p. 197.
  118. Camus ebbe al liceo come insegnante di filosofia Jean Grenier (poi divenuto suo maestro e amico), che nel 1926 aveva già scritto in francese un saggio sullo scetticismo di Rensi nel contesto dei Trois penseurs italiens: Aliotta, Rensi, Manacorda («Revue philosophique de la France et de l’Étranger», LI, 1926, nn. 5-6, pp. 361-389). Lo scritto di Grenier si trova ora riproposto col titolo Giuseppe Rensi, le scepticisme come prefazione della Philosophie de l’absurde di Rensi, Allia, Paris 1996 (la postfazione Giuseppe Rensi et le miroir du nihilisme è di Nicola Emery). Secondo Nicola Emery (Giuseppe Rensi. L’eloquenza del nichilismo, Formello (RM) 2001, p. 99; p. 148), Grenier avrebbe consigliato a Camus la lettura di Rensi, finendo così con l’influenzare l’idea camusiana dell’assurdo. A parte il fatto che una reminiscenza adolescenziale (l’aver sentito parlare di Rensi da parte del suo primo maestro di filosofia) può avere giocato un suo segreto ruolo, resta il fatto che per varie vie — in primis Kierkegaard, Dostoevskij e Kafka — Camus aveva attinto ad una diffusa «sensibilità» già circolante sul tema, ignorando di fatto che una «filosofia dell’assurdo» era nata con Rensi a cento anni esatti dalla morte di Leopardi. Alle affinità fra Rensi e Camus ha accennato anche Sergio Givone, in una sua recensione del già citato volume di Emery: Rensi prima di Adorno e Camus. La via italiana al pensiero negativo, «L’Unità», 9 luglio 1997).
  119. È stato Sartre a notarlo (Spiegazione dell’«Étranger» di Camus, in Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 208). Nel volume citato si trovano sparse alcune considerazioni sull’assurdo in Camus (ivi, pp. 207-212; p. 252). Il modo in cui l’assurdo è rappresentato al termine della Nausea segna tutta la distanza da Camus: per Sartre l’assurdo nasce dalla superfluità e gratuità del contingente e della fatticità, non già, come in Camus (ma, si badi, già in Leopardi e Rensi!), dal dissidio avvertito fra senso (preteso dall’uomo) e non senso (del mondo).
  120. Pascal, Pensées, 437 Brunschvicg. Cfr. G. Leopardi, Z 4099-4100; Z 4129 ss.
  121. Camus, Il mito di Sisifo, cit. p. 8.
  122. Ivi, p. 12.
  123. Nietzsche, FP 1887, 9 [182].
  124. Camus, Taccuini 1942-1951, Bompiani, Milano 1992, p. 271.
  125. Il poeta tragico è espicitamente nominato nella pagina conclusiva del Mito di Sisifo. Dal canto suo, un grande studioso della tragedia, Mario Untersteiner, attento lettore di Rensi, potrà dedicare una omonima monografia a Sofocle, leggendolo proprio alla luce della categoria dell’assurdo (Sofocle, Lampugnani Nigri, Milano 1974).
  126. Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 39.
  127. Ivi, p. 46.
  128. Ivi, p. 51.
  129. Ivi, p. 55.
  130. Ivi, p. 58.
  131. Leopardi, OM 497.
  132. Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 48: «Non so se il mondo abbia un senso che lo trascenda; ma so che io non conosco questo senso e che, per il momento, mi è impossibile conoscerlo. Che valore ha per me un significato al di fuori della mia condizione?». L’atteggiamento scettico di Camus è ribadito anche più avanti (ivi, p. 50; p. 52). Ma l’apparente rigidità di una «metafisica scettica» si allenta ben presto in una specie di scetticismo metodico che nell’Uomo in rivolta sarà destinato a mettere capo a un superamento del nichilismo posto sotto il segno del «pensiero meridiano» e della «misura». Intanto, ammesso che niente abbia un senso, la coscienza di questo stesso e la conseguente rivolta dovrebbero bastare, secondo Camus, ad assicurare un senso alla nostra vita (cfr. ivi, pp. 50-51). Analogamente, l’«assurdo» verrà presentato come «l’equivalente, sul piano dell’esistenza, del dubbio metodico di Cartesio» (L’uomo in rivolta, cit. p. 10). Infatti, «grido che a nulla credo e che tutto è assurdo, ma non posso dubitare del mio grido e devo almeno credere alla mia protesta» (ivi, p. 12). Da un simile «ragionamento» riemerge inoltre il valore, il senso della vita: «il ragionamento assurdo ammette la vita come solo bene necessario, in quanto essa ammette appunto il confronto: senza la vita, la scommessa assurda non avrebbe più appoggio alcuno. Per dire che la vita è assurda, bisogna che la coscienza sia viva» (ivi, p. 8).
  133. Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 23.
  134. Ivi, p. 28.
  135. Ivi, p. 46.
  136. Ivi, p. 29. Per la verità, il tentativo di tenere distinti il sentimento o l’emozione dal concetto, l’esperienza o l’atteggiamento dall’analisi e dal ragionamento dell’assurdo non appare sempre così riuscito, specie nell’«Introduzione» all’Uomo in rivolta.
  137. Ivi, p. 51.
  138. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 8. Eppure, ciò non impedisce a Camus di continuare a parlare di un “mondo assurdo” o “irrazionale” o simili, specie nel Mito di Sisifo (cit., p. 23; p. 28; p. 40; p. 43; p. 49; p. 65; p. 91; p. 106).
  139. Leopardi, La ginestra, vv. 111-113.
  140. Non può sfuggire l’altra profonda affinità che lega segretamente Camus a Leopardi: il tema camusiano della «solarità» corrispondente a quel genio meridiano e immaginativo che accompagna Leopardi senza ripensamenti in tutto l’arco del suo pensiero. Si tratta del polo positivo del nichilismo leopardiano: il solo in grado di assicurare una direzione e un senso alla sua rivolta metafisica.
  141. Camus, La peste, Bompiani, Milano 1980, p. 235.

Postilla sulla leggerezza

di Paolo Repetto, 2 aprile 2016

(Avrei potuto titolarla Post dictum, perché è in effetti queste cose sono state dette in coda alla simpatica discussione seguita all’intervento. Le inserisco non per una coazione al riciclo, ma perché in maniera sia pur rozza riassumono il mio convincimento che la cultura o è impegno etico, o non è affatto)

Mi accorgo che il mio intervento (Leggeri come le pietre) ha sforato di molto i tempi previsti, risultando probabilmente tutt’altro che leggero. Il che mi fa sorgere un dubbio. A dire il vero è lo stesso che da qualche tempo torna sempre, qualsiasi argomento io affronti. Potrei tenermelo, ma non mi sembra corretto, e comunque ormai siamo in ballo. Quindi sarò irrituale e mi porrò io stesso la domanda: Va bene, noi scegliamo perché siamo “leggeri”. Ma fino a che punto siamo noi a scegliere di essere tali? Detto in soldoni: non è che leggeri, rispetto alla quotidianità dei rapporti come in letteratura, ci si nasce, e se non ci sei nato, hai voglia a diventarlo? Calvino giustamente questo dubbio non ce l’ha, o almeno non lo esprime; e in effetti c’entra poco con la sua lezione, che tratta la fenomenologia letteraria della leggerezza, la dà per scontata e parla di una sua applicazione. Ma io ho sconfinato, non solo dal tempo ma anche dall’ambito letterario, e allora mi viene spontaneo risalire a monte e chiedermi se è davvero possibile ‘educare alla leggerezza’. Non è una domanda oziosa. Ci riguarda da vicino, qui e adesso. Incontri come questo, al di là delle limitatissime capacità e competenze di chi li conduce, hanno un senso, sono in qualche modo costruttivi, oppure servono solo a raccontarcela tra noi, che presumiamo di essere leggeri e ce ne sentiamo gratificati? E di fronte ad atteggiamenti diversamente orientati nei confronti dell’esistenza, è una causa persa in partenza?

Non ho una risposta, né sono qui per darne. Infatti sto ponendo delle domande. Il dubbio rimane. Ma proprio la lettura di Calvino, le sorprese che continua a procurarmi ogni volta e le riflessioni che ha messe in moto da subito, mi rafforzano a credere che valga la pena. In fondo, siamo tutti “malati di speranza”. È la malattia che ci fa vivere. E comunque, non ci fosse altro, rimane il piacere di aver riletto le Lezioni americane e di condividere questa lettura.

Non solo quello, però. Io ritengo che intesa in senso ampio, come impegno conoscitivo e habitus etico, la leggerezza costituisca l’unico vero vaccino contro le più allarmanti patologie morali contemporanee: l’integralismo e l’arroganza. E che abbiamo un gran bisogno di farne scorta. L’integralismo è l’espressione più eclatante della pesantezza spirituale: nasce paradossalmente proprio dalla superficialità, dall’incapacità o dal rifiuto di cogliere la complessità del mondo. Nell’uno e nell’altro caso è una forma di arroganza, direttamente proporzionale all’ignoranza. Lo è stata sempre, ma lo è tanto più nella sua versione attuale. Non conoscere il mondo induce ad averne paura, e ad adottare di conseguenza un comportamento aggressivo, una forma di difesa preventiva che si risolve eminentemente nel rifiuto di sapere: appare rivolta contro gli altri, ma ha come vero avversario se stessi, l’”inconscia coscienza” della propria inadeguatezza, che invece di tradursi in consapevolezza, e quindi in spinta positiva a coltivarsi, si risolve in uno sprezzante arroccamento. Rifiutare la complessità del mondo, dopo averla conosciuta, è invece una forma di debolezza, di viltà, che al pari dell’ignoranza pura non può che portare al disprezzo di se stessi, e quindi allo stesso atteggiamento nei confronti degli altri.

Insisto su queste cose perché nelle diverse fenomenologie della presunzione, dell’aggressività, della maleducazione, dell’ignoranza spudoratamente e quasi orgogliosamente sbandierata, l’arroganza mi sembra davvero il male più diffuso tra le ultime generazioni. Un male che non solo non viene combattuto, ma è sempre più tollerato, ad esempio nelle scuole, in nome non si sa bene di quale nuovo progetto antropologico, ma più in generale in ogni ambito di rapporti umani: e viene addirittura coltivato nelle “scuole di management”, quelle dove si forgia la futura classe dirigente economica e politica.

Mi sforzo di credere che un qualche argine si possa fare: e quando tutto congiura a non lasciarmelo credere, mi dico che comunque la resistenza, quali possano essere le prospettive, è un dovere morale. E questo imperativo non può essere incrinato da alcun dubbio.

 

Leggeri come le pietre

di Paolo Repetto, 2 aprile 2016

Non conosco nulla al mondo
che abbia tanto potere quanto la parola.
A volte ne scrivo una, e la guardo,
fino a quando non comincia a splendere.
Emily Dickinson

Carlo Levi ha titolato un suo romanzo-reportage Le parole sono pietre. Non so se si tratti di un conio originale o di una citazione: è comunque un bellissimo titolo, che si autolegittima immediatamente perché colpisce davvero come una pietra. E lascia il segno. Lo si può però interpretare in mille modi, e infatti da sessant’anni continua ad essere saccheggiato e piegato agli usi più diversi (è quello che sto facendo anch’io). Può significare, ad esempio, che le parole pesano, nel senso che sopravvivono a coloro che le pronunciano, spesso anche sfuggendo all’intenzionalità originaria; oppure che possono fare molto male, se scagliate con animo malevolo, o che buttate per aria a vanvera possono ricaderti in testa; o ancora, che sono un materiale da costruzione, e rimangono mucchio inerte quando manca un progetto, un’idea a legarle, ma diventano edificio se sapientemente disposte. Ciascuna di queste interpretazioni, nel giusto contesto, ha una sua validità. Occorre però distinguere tra la concretezza del significato, che è positiva, e la pesantezza del linguaggio, che è invece negativa.

Questa distinzione viene mirabilmente chiarita nella prima delle Lezioni americane di Italo Calvino, quella dedicata alla leggerezza. Calvino riabilita un termine che nell’uso corrente, almeno sino all’avvento delle pubblicità delle acque minerali e degli yogurt, ha sempre sofferto di un retrosapore acidulo. Si definisce ad esempio ‘leggera’ una donna disinvolta negli affetti e si qualifica come “leggerezza” un comportamento scorretto, quando si vuole essere benevoli, e l’aggettivo è in genere associato a immagini o concetti negativi, sia pure apparentemente per mitigarli: si parla di una “leggera” imperfezione fisica per usare un eufemismo, o di un pasto ‘leggero’ per non dire che era insufficiente, o consumato senza piacere. Anche il consiglio di “prendere la vita alla leggera” nasce dal presupposto che l’esistere non sia affatto leggero, mentre per converso si lamenta insostenibile la “leggerezza” dell’essere.

Applicando la categoria della leggerezza al campo della letteratura, un settore nel quale essa non gode di una considerazione molto migliore, si scompiglia l’ordine dei valori. Calvino lo fa viaggiando aereo attraverso i secoli e i capolavori e ci regala proprio col suo scritto la migliore esemplificazione di quanto va teoricamente affermando. Spazia nelle letterature mondiali, a partire da quelle classiche, e allinea in un’ideale continuità gli autori apparentemente più lontani (Lucrezio ed Ovidio, ad esempio). Quando poi arriva alla moderna letteratura occidentale identifica in essa due grandi filoni, l’uno facente capo a Cavalcanti, l’altro a Dante. Nel primo caso, dice, siamo di fronte a “una concezione del linguaggio come elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, nel secondo il linguaggio prende il peso, lo spessore, la concretezza dei corpi”.

Lo scrittore non prende partito per l’uno o per l’altro modello: il suo non è un manifesto di poetica. È una proposta di lettura (e di scrittura), nella quale tra l’altro riesce implicito che al di sopra di un certo livello la letteratura approda sempre alla leggerezza, e che i modi in cui lo fa sono diversi, ma non contrapposti. Quello che gli preme dimostrare è che la leggerezza non indebolisce il linguaggio, anzi, gli dà forza. Parla di una gravità senza peso, e per esemplificarla cita Valéry: “Essere leggeri come un uccello, e non come una piuma”. Ecco, essere leggeri non significa per Calvino volteggiare qua e là trascinati dal vento, ma librarsi in volo vincendo la resistenza dell’aria e quella della gravità, per guardare alle cose della terra col necessario distacco e da una sufficiente altezza. Per questo insiste sul Cavalcanti, proponendolo a modello sia come persona, quale è descritto nel famoso racconto di Boccaccio (sì come colui che leggerissimo era), sia come il poeta che ingentilisce passioni e sentimenti attraverso il teatrino degli spiritelli: ma solo per mostrare che in Cavalcanti l’idea di fondo è quella di una organicità del mondo, mentre in Dante prevale piuttosto quella di una organizzazione. Lo fa confrontando due versi quasi identici, che evocano entrambi quanto di più leggero e assieme concreto si può immaginare, la caduta dei fiocchi di neve: e riesce a farci percepire la diversa consistenza delle coltri lasciate dalle due nevicate.

Naturalmente non ho intenzione di seguire Calvino passo passo nella sua selva di spunti e di rimandi. Sarebbe inutile, perché la scrittura di Calvino non ha bisogno di esegeti. Si fa prima a leggerlo, e se ancora non lo aveste fatto, affrettatevi. Cercherò di non guastarvi il piacere. Mi limito quindi a mettere a fuoco ciò che la prima lezione americana ha suggerito a me. Non è un uso improprio: ho il beneplacito di Montaigne, uno che a Calvino piaceva molto, il quale diceva che la parola è per metà di colui che parla, per metà di colui che l’ascolta. E allora, vado con la mia metà.

Parto proprio dal rifiuto della connotazione negativa: per arrivare ad intenderci è importante stabilire innanzitutto cosa la leggerezza non è. Come dice lo stesso Calvino, la leggerezza non va confusa con la superficialità. Per tenerci ad un recente titolo di successo, la scrittura “leggera” non è quella che viaggia “Tre metri sopra il cielo”. In questo caso la leggerezza non sarebbe nemmeno quella della piuma, al più quella della polvere: ma non è questo il punto. Ciò che a noi importa è che l’autentica “leggerezza” del linguaggio non ha niente a che vedere con la povertà o con l’inconsistenza dei contenuti: al contrario, ha la capacità di rendere accessibile una fondamentale intuizione del mondo. E non solo: ha anche il merito di renderla accettabile. Il linguaggio non è soltanto uno strumento. È il sistema che organizza e moltiplica le possibilità di significato delle parole, e in questo modo fa circolare – e prima ancora fa nascere – le idee. Le parole possono servire per erigere bastioni saldamente ancorati al suolo, pesanti e invalicabili, oppure ad innalzare cattedrali gotiche, con guglie che puntano verso il cielo e le sollevano da terra. Con esse si possono costruire muri, ma anche aprire finestre. Ecco, a noi interessa il linguaggio che alza muri solidi, ma apre in essi delle finestre.

Finestre su cosa, però? Su ciò che sta sotto la superfice. Sulla materialità e sulla complessità del mondo. Più lo sguardo scende nel profondo, più diventa chiara e visibile l’intima connessione delle cose, che sono riconducibili a pochi principi comuni, solo variamente combinati (l’esempio che Calvino porta è quello dell’atomismo e di Lucrezio). La complessità della materia rivela la sua fondamentale semplicità. La leggerezza nasce dunque da una conoscenza profonda: è un modo per sottrarsi alla indeterminatezza del caso, quella si insostenibile, o almeno per non arrendersi ad essa passivamente. Conoscere significa mettersi in condizione di sostenere la visione pietrificante della Medusa, ovvero l’idea dell’insignificanza oggettiva del nostro esistere, senza lasciarsi pietrificare. Calvino cita il mito di Perseo, che cattura l’immagine di Medusa attraverso uno specchio. Quello specchio è la mediazione culturale, che è assieme coscienza di appartenere al divenire naturale e consapevolezza di esserne stati in qualche modo espulsi. La mediazione ci ritaglia un minuscolo frammento di spazio e un infinitesimale lasso temporale nei quali possiamo esercitare la nostra libertà e dobbiamo assumerci la nostra responsabilità. Oggi l’immagine della Medusa la cattureremmo attraverso un obiettivo, saremmo addirittura noi a pietrificarla: ma questo della differenza tra lo specchio e l’obiettivo è un altro discorso, che riguarda una deriva della conoscenza, buono magari per una futura conversazione. Per stasera limitiamoci a dire che lo specchio è il linguaggio. E che il linguaggio è “leggero” quando non altera e non nasconde la verità, ma riesce a creare tra noi ed essa una zona di rispetto nella quale ci sia consentito costruire senso. Dalle finestre si vede la verità, ma si vede anche il cielo che le sta sopra. E non è necessario andare tre metri oltre.

Per poter essere comunicata e condivisa questa conoscenza deve tradursi, nella fattispecie letteraria, in chiarezza e in precisione. La chiarezza riguarda i contenuti. Lo specchio deve essere lucido. Le cose sono semplici, lo sono in una maniera che non ci piace, ma stanno così. E già sapere come stanno le cose comunque ci rassicura: ciò di cui abbiamo davvero paura è l’ignoto.

Ma cosa dobbiamo intendere per precisione? La cura pignola del dettaglio? Se così fosse Leopardi dovrebbe essere immediatamente espulso dal club (come suggeriva Pascoli, per via delle rose e delle viole), mentre ne è invece uno dei membri più autorevoli. In letteratura infatti la precisione non coincide col realismo. Quella che noi chiamiamo realtà è solo una delle sue possibili e momentanee manifestazioni. Un contadino medioevale catapultato nella nostra era rifiuterebbe di credere ai suoi occhi, ma anche lo stesso Pascoli dovrebbe digerire la compresenza sugli scaffali del supermercato di uva, ciliegie e arance al mese di febbraio. La precisione ha a che vedere piuttosto con la coerenza interna al testo, di qualsiasi natura esso sia. E dietro al testo deve esserci un sistema coerente di pensiero, chiaramente intuibile. Borges non ha mai scritto una riga di realtà, ma assieme allo stesso Calvino è l’autore più preciso e leggero che io conosca. La precisione non vieta dunque di inventarsi un mondo, ma impone che le regole che lo governano siano poi rispettate. Chi riesce a farlo, come Lewis Carroll o Tolkien o Philiph Dick, ma anche gli autori dei cartoni animati classici, da Silvestro al Vilcoyote, crea dimensioni che hanno la stessa dignità di esistere delle geometrie non euclidee.

Allo stesso modo, la precisione non vieta di rileggere la natura e la storia con occhiali agli infrarossi, che ne mostrano facce nascoste e inaspettate. Ariosto e Leopardi fanno proprio questo. Ma sanno dove puntare lo sguardo. E quindi, una volta constatato come le cose siano mutevoli e intercambiabili e quanto tutto sia effimero e vano (non solo le cose: pure i sentimenti, gli odi, le passioni, ecc., vanno e vengono e si trasformano), capiscono anche che, in ultima analisi, tutto in qualche modo si tiene, sia pure in una catena della quale noi siamo solo un anello, e abbastanza periferico.

La leggerezza non è tuttavia relativismo. Il fatto che tutto sia intimamente connesso e che ogni cosa possa trasformarsi in un’altra non significa affatto che una cosa vale l’altra: significa, piuttosto, che nulla va mai completamente perduto (altro esempio che Calvino porta è quello di Ovidio e delle Metamorfosi). Il relativismo è negare valore a tutto: la leggerezza è, al contrario, attribuirglielo. Non però alla maniera di certa “postmodernità”, ponendo tutto sullo stesso livello: piuttosto, attribuendo il valore attraverso un segno più o meno, in termini algebrici. Sto evidentemente parlando, a questo punto, non più della letteratura, ma della vita nel suo complesso. La leggerezza comporta, perché profondità, perché conoscenza, perché precisione, l’obbligo di scegliere: ed è un’opzione etica, non solo poetica.

Cerco di spiegarmi. Rimanendo nell’ambito letterario, possiamo affermare che la leggerezza sta nel trattare argomenti seri in modo che rimangano tali, senza per questo diventare grevi. Di conseguenza, non è mai volgarità: è anzi assoluta eleganza. Calvino la identifica, oltre che nel gesto di Cavalcanti, nel passo danzante di Mercutio e nella “melanconia” che caratterizza un po’ tutti i personaggi shakespeariani: la melanconia è tristezza diventata leggera. Come abbiamo già visto, questo alleggerimento non nasce dalla superficialità, ma dalla coscienza che la sostanza ultima del molteplice è un pulviscolo di atomi. Noi non governiamo le aggregazioni di queste particelle (di qui la nostra tristezza), possiamo però scegliere come raccontarle, e in qualche misura come muoverci al loro interno (di qui la melanconia). Porto anch’io un esempio, che mi è suggerito dai movimenti del valzer (non sono affatto un ballerino, ma ho rivisto recentemente 2001. Odissea nello spazio, e la danza cosmica di pianeti e astronavi al suono de Il bel Danubio blu mi ha affascinato). Il valzer fa levitare armoniosamente nell’aria i corpi, è sospensione della gravità. Si volteggia sfiorando appena il pavimento, in sincronia totale con le altre coppie, senza sgomitare, senza creare vicendevoli intralci. È una metafora della società ideale, e anche della narrazione ideale, quella che si realizza nella vorticosa coreografia del poema ariostesco. Al confronto le danze moderne sono pesanti, involgarite da gesti meccanici e bruschi, sovraccariche di un atletismo esasperato: fingono uno scatenamento liberatorio, ma anche il più acrobatico dei ballerini si stacca da terra solo per un momento, per poi ricadere pesantemente. Portano una sfida continua alla gravità, nella quale però alla fine la gravità vince sempre. E sono danze individuali, il cui unico scopo appare quello di guadagnare lo spazio centrale, calamitare l’attenzione, sottraendola agli altri. Non si potrebbe trovare metafora migliore della società attuale e della letteratura che ne sortisce, che hanno quale caratteristica più spiccata la confusione tra leggerezza ed esibizionismo becero.

Proprio perché elegante, invece, la leggerezza rifugge dall’esibizione: è anzi il suo contrario, è il sottrarsi ad ogni forma di spettacolarizzazione. Di sé come del mondo. Sta agli antipodi della smania di dare spettacolo di sé, di mostrarsi senza alcun imbarazzo anche nelle situazioni più degradanti, della disponibilità a lasciarsi umiliare, maltrattare, mettere alla berlina, pur di essere guardati, che sembra aver contagiato l’umanità intera (e non solo l’Occidente: anche gli anti-occidentali hanno ceduto al fascino dell’autorappresentazione). E, allo stesso modo, della compulsione a fare spettacolo di ogni cosa, incorniciandola, falsificandola, esasperandola. Questi sembrerebbero atteggiamenti legati al prevalere della cultura dell’immagine rispetto a quella scritta, e quindi estranei alla letteratura. Ma le cose non stanno così, perché la caduta di ogni inibizione a mettersi a nudo e la volontà di “spettacolarizzare” qualsiasi tema vanno a incidere anche, e pesantemente, sulla narrazione scritta. Il concetto di leggerezza va ridefinito dunque anche in questo ambito, perché in effetti la spettacolarizzazione alleggerisce la realtà, ma solo nel senso che le fa perdere consistenza: e non è questa la leggerezza di cui parla Calvino.

In letteratura il rifiuto dell’esibizione significa, ad esempio, che si può trattare qualsiasi argomento, anche quelli ritenuti più scabrosi, senza indulgere a noiosissime discese nelle cinquanta sfumature della meccanica copulatoria o nei cataloghi più o meno patinati delle fantasie “perverse”. Significa che in realtà non ci sono argomenti scabrosi, ma solo atteggiamenti grevi o stupidi nel trattarli. Che esiste un naturale senso del pudore, che non ha nulla a che fare con quello “comune”, e attiene ai modi, non ai contenuti. “La sventurata rispose” non è un capolavoro di reticenza, ma di eleganza allusiva. Viene da un autore che non parrebbe certo figurare tra le bandiere della leggerezza, ma la raggiunge attraverso quella forma positiva di autocensura che è il rispetto dell’intelligenza altrui (intendo di quella che agli altri si vorrebbe poter attribuire, e che va dunque coltivata e sollecitata).

Un discorso analogo vale per temi come quello della violenza o della morte, che mantengono la loro dignità e serietà solo quando vengono affrontati con una discrezione intesa non a rimuoverne o a celarne la drammaticità, ma a circoscriverne lo spazio, a conservarlo “sacro”. Voglio dire che è necessario salvaguardare quella famosa zona di rispetto, all’interno della quale siano poi chiamati a risvegliarsi e ad agire in ciascuno il senso dell’orrore e della vergogna e la capacità di sdegno o di compassione. Non si tratta di creare o difendere dei tabù: quelli semmai li genera l’ignoranza, che si alimenta del consumo crescente e bulimico di emozioni precotte (ma emozioni è troppo: diciamo di eccitazioni da montagne russe), e quindi necessita di sempre nuove barriere artificiali da abbattere. Si tratta invece di mantenere il controllo su ciò che viene mostrato, sulla qualità e sulla quantità, così da conservargli una leggerezza che lo innalzi a interagire col cervello, anziché con la pancia.

Il problema non è dunque marcare la distanza e la differenza nei confronti di altri argomenti, quelli impropriamente definiti “leggeri” (distanza che pure esiste). È capire che lo stile rappresenta già una metà del messaggio. La sciagurata battuta di Fantozzi sulla corazzata Potemkin non ha aperto la strada alla leggerezza, ma ai film di Pierino, allo squallore del trash e all’horror più truculento. La stagione di dissacrazioni a tappeto dalla quale veniamo ha spazzato via assieme ideologie e idealità, etichette obsolete e buon gusto: i bombardamenti non alleggeriscono mai il paesaggio, si lasciano solo alle spalle pesanti cumuli di macerie.

Dicendo cosa la leggerezza non è, abbiamo già anticipata la sua definizione in positivo.

La leggerezza è infatti allusione: pur nella precisione lascia libero spazio alla nostra capacità immaginativa, senza zavorrarla col peso di immagini e di informazioni superflue, quando non fuorvianti. Mi viene in mente un altro esempio tratto dalla quotidianità. Non so quanto appropriato, ma è il primo che trovo: la differenza che corre tra la saggezza meteorologica popolare, che butta lì consigli fondati quantomeno su una millenaria esperienza, lasciando però ampia facoltà di interpretarli, e la pretesa delle rubriche meteo-previsionali che furoreggiano in televisione, che al di là della spettacolarità sono assai meno affidabili dei proverbi, ma mirano a condizionare e indirizzare la vita, le scelte, le attività. E ci riescono, se è vero che ormai la maggior parte delle persone quando vuol conoscere la situazione del tempo non alza gli occhi al cielo, ma li fissa sul monitor o sul display.

Vi chiederete cosa c’entra con la letteratura. Bene, io penso che la letteratura non debba essere specchio della vita (di quale, poi?): se voglio sapere com’è la vita mi guardo attorno, non vado a leggerlo in un libro, così come se voglio sapere che tempo fa guardo fuori dalla finestra, e non al video. Non deve nemmeno diventare un manuale di istruzioni per vivere, né fornirci le previsioni dettagliate sul clima che andremo ad incontrare. Deve solo farci conoscere le infinite possibilità di sviluppo di quella trama unica per tutti che è appunto la vita, farcele scorrere davanti, rendercene partecipi, sì che possiamo dilatare e arricchire la nostra individuale esperienza, e confrontarla. Ma per ottenere questo effetto, per consentirci di entrare in tutte queste altre vite non può dettagliare, deve alludere, cogliendo in una estrema sintesi, come fanno i proverbi, ciò che l’esperienza ci dice comune, o almeno comunicabile.

Non solo. Deve anche guardare oltre, e immaginare. Cogliere quelle varianti della trama che la storia ancora non ha scritto, o sono state scartate in corso d’edizione, ma affollano la dimensione del possibile e vanno anche oltre. Se la conoscenza è indispensabile, perché riguarda il passato, l’immaginazione copre il futuro, e può nascere solo dalla prima, ma deve poi conquistarsi una sua autonomia. La leggerezza è dunque immaginazione.

Ovvero, è possibilità di utopia: è ciò che consente di immaginare mondi altri, o un altro mondo. Calvino ci fa viaggiare attraverso una letteratura che sospende i corpi per aria, li sottrae alla gravità, da Cyrano a Swift e al Barone di Münchausen. Non è un caso che si arresti proprio alle soglie della fantascienza ufficiale, anche se per un estimatore della scienza come Calvino potrebbe sembrare un paradosso. La scienza mette le ali alla nostra immaginazione, nel senso che di volta in volta ci mostra dei limiti e ci spinge a superarli: ma le sue ricadute tecnologiche quelle ali le tarpano. Se Astolfo viaggia su un cavallo alato e il Barone di Münchausen può ancora sollevarsi da terra tirandosi per il codino, da Verne in poi per andare sulla Luna sono diventate necessarie pesanti e complicate astronavi. L’utopia di cui stiamo parlando non implica la verosimiglianza: non ha nulla a che fare con le Utopie ufficiali, letterarie, scientifiche filosofiche o politiche, meno che mai con quelle che hanno tentato di tradursi in realtà. È utopia nell’accezione più letterale del termine, perché non pretende alcuna trasferibilità nel reale. E proprio per questo può tener conto del fatto che non tutti provano gli stessi bisogni o hanno le stesse aspirazioni, che l’abito che ad uno calza a pennello ad un altro va stretto, o casca da tutte le parti. Lo accetta, ma nel contempo non rinuncia a immaginare un mondo migliore, magari anche a comportarsi per quanto possibile “come se”; e nel farlo già alleggerisce e migliora questo.

C’è però anche un’altra dimensione “utopica”, questa più privata, che non riguarda i modi della relazione con gli altri, ma quelli della convivenza con se stessi. Mi riferisco alla capacità che abbiamo, e che la letteratura acuisce e alimenta, di trasfigurare le nostre esperienze, di trasporle in altri luoghi e in altri tempi, di caricarle di significati che ne cancellino ogni banalità o negatività. In questa dimensione la leggerezza della letteratura può davvero opporsi alla pesantezza del vivere. L’esempio che Calvino pesca in Kafka (ne Il cavaliere del secchio l’uscita alla ricerca di un secchio di carbone diventa un’avventura cavalleresca) ci dice da un lato quanto liberatorio possa essere lo sganciamento dalla realtà che la letteratura consente e ci dimostra dall’altro quanto la levità stessa del racconto già di per sé trasfiguri quella realtà. Non è un effetto consolatorio, si badi bene. Il racconto letterario, quando riesce a staccare dal qui ed ora, dallo specifico del fatto e della circostanza, dal peso di corpi e tempi che lo ingabbiano e lo schiacciano, diventa universalmente coinvolgente. In esso ci si rispecchia, si condivide il tutto estraendone la parte migliore.

Conosco l’esperienza descritta da Kafka: l’ho vissuta più volte, oserei dire che la vivo costantemente. È quella che mi consentiva ad esempio di trasformare i lavori agricoli più noiosi e ripetitivi, come l’azionare per intere giornate la pompa a mano per l’irrorazione, in fantastiche galoppate nella storia e nella letteratura. Stavo al fianco di Ben Hur incatenato ai remi sulla galera, così come negli assolati pomeriggi dell’aratura accompagnavo Lawrence nella traversata il deserto, alla guida del bue anziché del cammello, o sul ponte di una petroliera mi immedesimavo in Billy Budd. Ed è la stessa trasmutazione alchemica che ancora mi spinge, di fronte ad un pasto forzatamente frugale, ad addentare il pane e il formaggio con il gusto e il sollievo che avrebbero provato Primo Levi e i suoi sfortunati compagni, se avessero potuto farlo. Qualcuno potrà leggerci un segno di alterazione mentale. Per me è il modo di vivere tutte quelle vite che l’avarizia della natura non mi concede.

La leggerezza descritta da Calvino è insomma ironia: e anche qui, bisogna intenderci bene sul significato del termine, o almeno su quello che vorrei dargli stasera. Letteralmente ironia (da eirōneía, “dissimulazione”) indica uno stravolgimento del significato delle parole. Si riferisce cioè all’uso delle parole per dire altra cosa, a volte quella contraria, rispetto a quanto dovrebbero significare. È un uso ambiguo, e infatti può essere sfruttato anche per ingannare. Ma, a prescindere dalla bontà o meno delle intenzioni, sganciare le parole dal vincolo obbligato con le cose significa moltiplicare all’infinito le nostre possibilità Letto in positivo, e saltando tutta una serie di passaggi, questo atteggiamento consiste quindi nell’essere seri, ma senza prendersi troppo sul serio. Posizionarsi un po’ fuori della realtà, creando uno spazio ove far interagire ciò che è con ciò che vorremmo fosse, ma mantenendo ferma la coscienza che la realtà è quella. Non a caso l’autore di assoluto riferimento di Calvino è l’Ariosto.

Si impone un’altra precisazione. L’ironia intesa come capacità di distacco non comporta un rifiuto degli altri. Presuppone anzi un’attitudine benevola nei loro confronti: dà credito agli altri quantomeno di essere in grado di capirla. Per questo non va confusa col sarcasmo. Nel sarcasmo non c’è leggerezza, perché esso nasce dal disprezzo, non mira a correggere e addirittura nemmeno chiede di essere compreso, parte anzi dalla certezza di non esserlo. Non che il disprezzo non sia lecito: ma, come diceva Chateaubriand, sono talmente tanti quelli che lo meritano che andrebbe distribuito con estrema parsimonia. Per limitarci alla letteratura, la leggerezza non è provocazione, almeno come quest’ultima è intesa nella maggior parte dei casi dalle avanguardie, ovvero come una forma di sarcasmo, spesso arrogante. Alla letteratura, e alla poesia in particolare, la provocazione è già intrinseca nel momento stesso in cui chiama ad una attenzione diversa sulla realtà. Non è necessario caricarla di un surplus di aggressività, che la rende solo pesante, oltre che effimera. Per questo si leggono oggi persino le poesie di Carducci (altro insospettabile, quanto a leggerezza) e non quelle di Licini, e si continuerà in futuro a leggere le poesie di Caproni o di Vittorio Sereni, mentre saranno giustamente dimenticate quelle di Sanguineti o di Balestrini.

La leggerezza è, finalmente, gioco. Crea una sfera autonoma e può compiutamente dispiegarsi solo all’interno di essa. È una ricostruzione del mondo operata con i limitati materiali che il mondo ci offre ma attraverso l’illimitata arte combinatoria della nostra immaginazione. Tutta la cultura umana è in fondo gioco, ma la letteratura ne è a mio avviso (e anche a quello di Calvino) il campo simbolicamente più significativo. Il gioco non è illusione, ma anzi, assoluta consapevolezza. La sua sfera trascende la saggezza, ma non sconfina nella follia. Sta in mezzo. In essa valgono regole dettate da noi e una visione della realtà che siamo noi a scegliere come terreno. Quindi, una volta in campo, abbiamo più che mai il dovere di fare sul serio. Il gioco deve essere libero, disinteressato e ordinato. Si potrebbe aggiungere “esclusivo”, ma anche questo è un tema scottante, che necessita di una trattazione a parte.

Di conseguenza, per quanto possa sembrare paradossale, credo che la leggerezza passi anche attraverso una certa ritualità, quando questa non si riduce a esibizione cerimoniale. È piuttosto l’irritualità a tradursi sovente in puro spettacolo, in espediente per l’esibizione. Parlo della ritualità intrinseca a certi atti quotidiani, o a certe formule nelle relazioni interpersonali, che si spoglia di tutta la pesantezza formale quando non è fingere in vita ciò che è morto da tempo. Apparecchiare la tavola, per fare un esempio peregrino, anche quando si viva in totale solitudine, oppure l’uso della terza persona quando il livello superficiale della confidenza lo richieda, sono forme di ritualità che possono essere ricondotte a quelle regole di rispetto, di sé, degli altri, del mondo, che Manzoni applicava alla letteratura. Forme che non gravano sul vivere, e sullo scrivere, ma anzi lo alleggeriscono, fornendo dei punti fermi sui quali poggiare i piedi per procedere in sicurezza. I bambini amano sentirsi raccontare sempre la stessa favola, possibilmente con le stesse parole. Vogliono ritrovare ciò che si aspettano, perché questo li rassicura.

La letteratura in fondo fa proprio ciò, racconta sempre la stessa favola, solo lo fa con parole e protagonisti diversi: il che è già più che sufficiente a sorprenderci e a spiazzarci. Ma perché questo spiazzamento abbia un senso, e non spinga solo ad una rassegnata disperazione, è necessario che dalle pagine di un libro giungano indizi che costringano e aiutino ad ingegnarci per trovare la rassicurante intima connessione delle cose: e questi indizi devono stare sotto le pietre-parole, e queste devono essere sufficientemente leggere da poter essere sollevate. E disposte in maniera tale da lasciarci intuire un percorso.

Questa è per me la leggerezza.

Post scriptum. Ho interrotto per qualche minuto la trascrizione a memoria di questa conversazione per uscire a comprare le sigarette. Nel breve percorso sino alla tabaccheria ho incontrato giovani sudamericani dalle incerte occupazioni, i vicini di casa cinesi, il gruppo di anziani o di sfaccendati che si parcheggia regolarmente davanti al bar dell’angolo, due studenti in magno, oltre alle vecchiette che uscivano dal minimarket con le borse della spesa. Non ho potuto fare a meno di chiedermi che cosa potrebbero significare per loro queste parole. Ad esempio, la parola futuro. Al di là delle normali differenze comportate dall’età e dalle diverse collocazioni sociali, che bene o male potrebbero essere immaginabili in una società omogenea, qui si danno delle distanze siderali, che annullano ogni comune significanza dei termini. Le parole che hanno lastricato il cammino della nostra civiltà rischiano di diventare a breve solo le sue pietre tombali.

 

Knut Hamsun

di Paolo Repetto, 2014

Hamsun è il padre della scuola moderna di letteratura in ogni aspetto: nella sua soggettività, nell’impressionismo, nell’uso della retrospettiva, nel liricismo. Tutta la letteratura moderna del ventesimo secolo deriva da Hamsun.

Isaac Bashevis Singer

Anche il terzo dei nostri “vagabondi” è uno scrittore marchiato. Gorkij lo era come intellettuale “organico” allo stalinismo; London ha l’annullo dello scrittore per adolescenti, approssimativo e raffazzonato anche quando tratta di temi politici, oltre a quello di “un tanto a pagina”. Hamsun si porta dietro il marchio infame di “collaborazionista”, di complice del nazismo e ammiratore di Hitler, alla maniera di Céline o di Drieu de la Rochelle. Nel suo caso però, anche se non gode più della fama che gli valse il Nobel nella prima metà del secolo scorso, si può almeno dire che è rimasto scrittore di culto per una piccola nicchia di estimatori, e non necessariamente soltanto nostalgici di destra. È anche, probabilmente, tra i tre, quello destinato ad una più prossima “riabilitazione”, per la tematica ambientalista di fondo che attraversa la sua opera, anche se in realtà l’idea che la regge non è affatto in linea con la moda ambientalista contemporanea. Quanto a forza narrativa non è nemmeno lontanamente parente di Gorkij, così come non lo è di London quanto a inventiva. Hamsun vince in delicatezza, per uno stile apparentemente dimesso e in realtà incredibilmente attento all’efficacia linguistica. “La lingua deve risuonare con tutte le armonie della musica. Lo scrittore deve sempre, in ogni occasione, trovare la parola palpitante che cattura la cosa e che è capace di ferire la sua anima fino alle lacrime per la sua esattezza. La parola può essere trasformata in un colore, in un suono, in un odore” scrive in una sua lettera. Come racconta un suo conoscente: “Poteva fare salti di gioia ed entusiasmarsi per un giorno intero per un aggettivo originale, particolarmente espressivo, che aveva trovato in un libro o aveva creato lui stesso”.

Ed è straordinario come l’esito di una impostazione così diversa risulti altrettanto naturale di quelli robusti e violenti che gli altri due hanno tratto da esperienze di vita molto simili.

Knut Pedersen (questo era il vero cognome: Hamsun deriva da una storpiatura del nome della località nella quale visse ragazzo) viene al mondo nel 1859 nel sud della Norvegia, in una famiglia di modeste condizioni, dopo altri tre fratelli (alla fine saranno sette). Il padre è un contadino insoddisfatto, che tre anni dopo la sua nascita abbandona la fattoria appartenente da generazioni alla famiglia per inseguire l’ambizione di diventare artigiano, trasferendosi presso un parente ad Hammarøy, nella provincia del Nordland, al largo delle Isole Lofoten e al di là del Circolo Polare Artico. Lì, nel piccolissimo villaggio di Hamsund, lavora la terra e impianta un laboratorio di sartoria. Il luogo di per sé è fantastico: un paesaggio impressionante, con gigantesche falesie, fiordi grandiosi e luci boreali; un piccolo Eden dove Knut vive immerso nella natura e sviluppa un senso di totale comunione con essa. Non lo è però per gli affari: la famiglia piomba nell’indigenza e per garantire un minimo di istruzione almeno ad un figlio, ma soprattutto per scaricarsi di una bocca da sfamare, il padre affida Knut ad uno zio materno benestante. Il ragazzino (ha nove anni) passa di colpo dal paradiso povero di Hamsund all’inferno di timore, di ipocrisia, di grettezza ammantata di religione che lo attende a Vestfjord. Il fratello della madre, Hans Olsen, è un predicatore puritano, rude e manesco, che detesta l’idea stessa di divertimento, ivi compresi i giochi dei figli, e ricorre alle punizioni corporali per la minima mancanza. Hamsun scriverà che “in quella casa era considerato peccato persino sorridere”, e che “il terrore e le percosse erano equamente distribuiti su tutti i componenti della famiglia, senza preferenze o imparzialità”. Per sfuggire alla brutalità dello zio, nei rari momenti in cui questi non lo fa sgobbare, il giovane si rifugia nella foresta del Grande Nord, dove trova paesaggi di fiaba e respira una atmosfera di serenità. Non è molto interessato alle Lofoten, che pure sono ben visibili dalla costa, e neppure alla pesca e alle attività marinaresche: ama i boschi e le montagne della terraferma, che gli consentono di nascondersi alla vista altrui e di dominare stupendi panorami. Si rinserra sempre più in se stesso, sviluppa un carattere chiuso e guardingo, riesce a dialogare solo con la natura, che va a sostituire i riferimenti famigliari che gli sono mancati.

A quattordici anni, terminati gli studi, decide che ha sopportato sin troppo le percosse e i precetti biblici. Manda a quel paese lo zio, lascia la casa-prigione e torna al sud, dove trova lavoro come venditore ambulante. Ha inizio la stagione dei suoi vagabondaggi, che di lì a poco lo riportano però nuovamente nella regione settentrionale. Per tre anni gira in lungo e in largo a vendere merci d’ogni genere, e svolge anche per un breve periodo l’incarico di maestro elementare alle Lofoten, accumulando le esperienze poi trasposte nel personaggio di Edevart de I Vagabondi. A diciassette anni si ferma: impara il mestiere di calzolaio, impartisce lezioni private e riesce a far stampare la sua prima prova letteraria, L’enigmatico – Storia d’amore del Nordland. Il romanzo viene apprezzato, almeno a livello locale: non solo gli procura un impiego, ma induce un ricco mercante a fargli da mecenate, destinandogli una borsa di studio che gli consenta di continuare a scrivere. La seconda opera, tuttavia, non ha altrettanta fortuna. Viene rifiutata dagli editori e Knut si ritrova a spasso. Letteralmente. Ricomincia infatti il vagabondaggio, ricominciano i mille mestieri. Di volta in volta è sterratore, cordaio, capomastro in una cava, etc… Cerca anche spazio in Danimarca, ma trascorre un terribile inverno di fame e freddo a Christiania, l’odierna Copenhagen.

Decide a questo punto di emigrare in America. Ha ventitre anni e una lettera di raccomandazione per un professore scandinavo dell’Università del Wisconsin, che pur apprezzandolo non è in grado di trovargli una sistemazione adeguata. Anche negli Stati Uniti la vita è dura: dovrà sbarcare il lunario come commesso in un magazzino prima e impiegato in un deposito di legname poi, fino a quando non viene convinto a trasferirsi come assistente al gruppo Unitariano, un movimento religioso nato in Norvegia che ha una sede a Minneapolis. Qui le cose cominciano ad andare meglio, e riesce anche a farsi apprezzare come conferenziere. Nell’estate del 1884 gli viene però diagnosticata la tubercolosi. Gli Unitariani gli pagano il viaggio di ritorno in patria, ma quando arriva in Norvegia scopre, con sollievo e con dispetto, che la diagnosi era sbagliata. Ringrazia il cielo e la sua fibra, e nel frattempo ottiene di far pubblicare qualche articolo letterario e qualche racconto su un paio di riviste. Ma non è sufficiente per vivere.

Riparte quindi nel 1886 per l’America. Il soggiorno dura altri due anni; stavolta lavora come bigliettaio di tram a Chicago, mentre riprende l’attività di conferenziere. Dopo due anni però, definitivamente deluso e consapevole di non avere alcuna chanche come intellettuale in quel mondo, Knut rientra in Scandinavia. Di questa esperienza darà un resoconto molto critico in Dalla vita spirituale dell’America moderna (1889), un libello nel quale accusa gli americani di essere adoratori del dio denaro, e attacca da posizioni aristocratiche la democrazia, la società di massa, il modello produttivo industriale, la civiltà urbana. L’America è per lui il paese del vagabondaggio senza scopo, perché non offre alcun luogo cui tornare quando si è stanchi di girovagare. Estendendo il concetto, in una serie di scritti successivi criticherà anche il turismo di massa, principalmente quello anglo-americano diretto verso l’Europa, che trasforma il fiero popolo norvegese in una popolazione di cameriere e di baristi. Questo antiamericanismo si tradurrà col tempo in una ostilità più generalizzata nei confronti di tutto il mondo anglosassone e della sua cultura, e sarà determinante anche per le future scelte politiche di Hamsun.

Torna a Copenaghen, deciso questa volta ad andare sino in fondo, ad ottenere la consacrazione letteraria. Ha ormai trent’anni. Ripete in pratica l’esperienza di dieci anni prima, che già aveva provato a mettere su carta durante il soggiorno americano. Vive come un barbone, in una squallida mansarda, saltando un pasto dietro l’altro. E racconta la fame che gli attanaglia le viscere, la miseria che gli si attacca alla pelle. “Quello che mi interessa è l’infinita varietà di movimenti della mia piccola anima, l’estraneità originale della mia vita mentale, il mistero dei nervi in un corpo affamato! […]”. Proprio Fame è il titolo di questa cronaca della lotta di un’anima contro la materialità di un corpo, della resistenza ad oltranza alle più elementari esigenze di quest’ultimo: in essa le esperienze dell’autore sono tutte filtrate dalle allucinazioni prodotte dal digiuno e dagli stati nervosi che attraversa in repentine sequenze, variando dall’esaltazione alla depressione più profonda. Il racconto è talmente realistico, così intenso e coinvolgente nella descrizione dei sintomi che, anche se comparso anonimo su una rivista, suscita la commozione e l’entusiasmo del pubblico. L’anno successivo Fame è pubblicato in volume: Hamsun è ormai uno scrittore. E non è solo merito della novità del tema. Oltre ai“mondi segreti che si fanno, fuori dalla vista, nelle pieghe nascoste dell’anima, […] quei meandri del pensiero e del sentimento; quegli andirivieni estranei e fugaci del cervello e del cuore, gli effetti singolari dei nervi, i morsi del sangue, le preghiere delle nostre midolla, tutta la vita inconscia dell’anima” i lettori scoprono una scrittura fresca e impulsiva, condita anche di un paradossale sarcasmo.

Il successo arride ad Hamsun a trent’anni, un po’ in ritardo rispetto a Gorkij e a London. Ma lo scrittore ha tutto il tempo di goderselo. Vivrà altri sessantatre anni, tutt’altro che monotoni, costellati da ulteriori vagabondaggi, da viaggi per la Scandinavia, la Russia, la Turchia, da due matrimoni, da un sacco di libri di successo. Sceglierà di vivere, cinquantenne, in totale comunione con la natura, riceverà un premio Nobel e infine sarà colpito da un’accusa di tradimento e sconterà tre anni di manicomio criminale. Ma è la prima fase della sua esistenza a ispirargli quell’idea dell’uomo e del mondo che trasferirà poi nei suoi romanzi.

Il prototipo del vagabondo di Hamsun è già riconoscibile nel protagonista di Fame. Quello che viene narrato è un vagabondaggio urbano: parrebbe quindi molto più vicino ai percorsi circoscritti di Machen che a quelli aperti di Gorkij o di London. In realtà è distante tanto dall’uno quanto dagli altri. Hamsun racconta le peripezie psichiche e mentali imposte dalla fame e dalla miseria: l’autobiografismo è esplicito e viene confermato proprio dalla sintomatologia minuziosa e puntuale. Il protagonista è un individuo totalmente incapace di inserirsi nel meccanismo organizzativo e produttivo della società moderna: è un disadatto per scelta e per istinto, uno che rifiuta ogni ruolo prestabilito e si sottrae a qualsiasi impegno morale e politico. La sua contrapposizione al mondo pianificato, razionalizzato e sterilizzato dalla cultura borghese si manifesta attraverso reazioni schizofreniche, dettate dalla complessità degli impulsi che urgono, da una forza vitale “originaria” che non può essere ingabbiata nelle abitudini, nella routine. Ma proprio la sua coazione a vagabondare gli preserva uno sguardo diretto sulle cose, ciò che gli consente di vederle nella loro nudità ed essenzialità. Fin qui Hamsun parrebbe un romantico totale, che viaggia sulla linea di Eichendorff, e prima ancora su quella di Goethe (il Goethe del Canto del viandante nella tempesta): un viandante spinto a peregrinare senza sosta per ogni dove perché non sente più suo un ordine fondato sulla famiglia e sulla religione.

Il legame col romanticismo si ferma però a questo punto: gli eroi romantici, i Keats, i poeti che battevano i denti per il freddo e per la fame nelle loro misere soffitte, erano comunque dei pesronaggi di tragica grandezza. Sconfitti in apparenza nella sfida con un mondo prosaicamente sordo alla bellezza, trionfavano moralmente. Il vagabondo di Fame appare invece un velleitario e un vinto, un refrattario alla modernità che se ne porta però addosso tutte le tare e le stigmate: è nevrastenico, incerto e contradditorio, costantemente dilaniato tra la voglia di andare e la ricerca ossessiva di una panchina sulla quale riprendere fiato. Il suo vagare insensato e febbrile per la città sembra il girare a vuoto di un moscone che sbatte da tutte le parti e trova solo nelle ultimissime righe la finestra per uscire (in questo caso, l’imbarco sulla prima nave in partenza). Non c’è assolutamente nulla del vagabondaggio pragmatico di Gorkij e nemmeno di quello scanzonato di London. Sembra piuttosto apparentabile all’irrequietezza già decadente di Rimbaud.

Questo errare all’impazzata non è giustificato da alcuna necessità pratica o teso ad alcuna finalità; è mosso solo dall’ostinata volontà di tener fede ad un rifiuto. Nel costante delirio di cui è preda, per il protagonista non c’è più alcuna differenza tra i luoghi o tra le persone: a tutto e a tutti applica la sua allucinata interpretazione della vita, in realtà ridotta sempre più alle pure risposte istintuali, e nessuno dei suoi gesti riesce comprensibile a coloro che lo incrociano. Una signora che è rimasta colpita e intrigata dalla sua figura e dai suoi modi inquietanti lo fa salire in casa: ma quando scopre che non è né un ubriaco né un pericoloso seduttore si spaventa a morte per l’innocenza con la quale egli le rivela ciò che prova. “Voi siete un pazzo!”gli dice, prima di cacciarlo. L’incomunicabilità esterna è totale: l’unica forma di arricchimento passa per l’analisi introspettiva, nel caso del protagonista quasi un’auscultazione. Questa autoesclusione dalla comunità umana non si traduce però in astio e nemmeno in una qualche forma di accusa nei confronti della società. Ad Hamsun non importa affatto di denunciare gli orrori della realtà sociale nella quale è immerso. Guarda soltanto a ciò che il contatto con quella realtà gli provoca dentro.

Alla luce degli sviluppi successivi, quella di Fame sembra davvero una febbre di crescita. Dove porti questa febbre, a quale atteggiamento nei confronti della esistenza e della società approdi, cominciamo a capirlo già in Misteri (1892).

Nagel, il protagonista di Misteri è ancora una volta un “instabile”, nella cui vita si intrecciano follia e debolezza, esaltazione e disagio, delicatezza e crudeltà. Piomba nel bel mezzo di una piccola comunità provinciale che lo accoglie dapprima curiosa e divertita, percependolo come un “originale”, ma che poco alla volta lo spinge a margine, bollandolo come uno spostato. A vagabondare in questo caso è infatti il cervello, impegnato in un continuo sproloquio minaccioso e aggressivo, in sostanza un disperato tentativo di difesa contro una realtà esterna che gli fa paura.

In Misteri è evidente ormai che il rifiuto riguarda tutta la cultura borghese, con i suoi annessi ideologici e sociologici, democrazia, progresso, capitalismo, primato dell’occidente, massificazione, e si estende alle idealità rivoluzionarie e alla conflittualità sociale. Il bersaglio preferito di Nagel, quello che riassume tutto ciò che gli è antitetico, è il positivismo alla Ibsen, al quale viene opposta la conoscenza che procede dall’istinto e dall’intuizione. È per il momento una presa di distanza tutta in negativo, che procede per provocazioni e dissacrazioni (Nagel stesso si definisce un “cialtrone” e uno “straniero all’esistenza”): ma intanto cominciano ad emergere, sia pure confusamente, alcune idee chiave che costituiranno l’ossatura della successiva produzione e della posizione ideologica di Hamsun. Ripensando anche la sua esperienza americana (il protagonista è reduce da un lungo periodo trascorso all’estero) lo scrittore arriva a concludere che la società urbana, industriale, ha distrutto l’odalsbonde, l’uomo “totale”, quello che sa badare da solo a se stesso, tipico della tradizione scandinava. L’odalsbonde non ha nulla a che vedere con il self made men americano, l’uomo di successo all’interno della società capitalistica: “ Secondo me, signora, il più grande non è quello che è stato il più abile nel realizzare, sebbene sia proprio lui quello che, ora e sempre, ha suscitato il maggior chiasso al mondo. No, la voce del sangue mi dice che il più grande è colui il quale ha attribuito alla vita il maggior valore concreto, il profitto più positivo”.

È piuttosto una interpretazione dell’ubermensch, l’oltreuomo nietzchiano, ispirata dal persistente sotterraneo paganesimo e dalla tradizione di intimo rapporto con la natura che caratterizzano lo spirito scandinavo. La civiltà meccanizzata ha appunto cancellato per Hamsun i legami che uniscono l’uomo “integrale” agli elementi naturali. Su questa concezione pesa evidentemente anche la personale e negativa esperienza legata alle scelte del padre (ma anche alla propria di emigrante): una volta strappato alla sua terra il contadino perde ogni riferimento, ogni appartenenza e comunione cosmica, per ridursi solo ad un numero, la cui pulsioni non sono dettate dai ritmi della terra, ma dai tempi e dalle finalità del capitalismo industriale e, peggio ancora, finanziario. Diventa un “mediocre”.

In conseguenza di questo strappo possono darsi due possibili atteggiamenti: la resa, o l’omologazione, che è percepita come “normalità”, ma che porta invece a comportamenti assolutamente innaturali, incoerenti e inconclusivi; e la fuga, o il vagabondaggio, la scelta di chiamarsi fuori rispetto alle convenzioni e alle convenienze, e di mantenere proprio attraverso lo sradicamento la libertà dello sguardo e la possibilità di aggrapparsi all’essenziale, alle grandi “forze telluriche”. Il distacco dalla “civiltà” ribalta completamente il punto di vista. Anziché impedita e distratta dai muri delle contingenze e dei ruoli, la vista spazia sull’insieme, e coglie la vanità di esistenze schiave dell’utile: “Se fossimo lassù e oziassimo tra i soli e le code delle comete ci sfiorassero la fronte! Se la terra non fosse piccola e gli uomini minuscoli; una Norvegia con due milioni di montanari e una banca di credito per mantenerli! Che impressione fa essere uomo per così poco? Ti fai largo a gomitate col sudore della fronte per pochi anni d’umana esistenza, per poi morire in ogni caso!” Nel caso di Nagel in realtà il distacco non avviene: non regge il rapporto con la natura, che nel suo delirio sente ormai come perduta e persino minacciosa, e non opera il taglio netto con il convenzionalismo borghese. Sembra quasi che abbia bisogno di rimanerne all’interno per sentirsi vivo e darsi un senso attraverso la protesta e la provocazione, senza assumersi la responsabilità di una scelta decisa. Alla fine non gli rimane che il suicidio.

La scelta parrebbe essere invece stata fatta dal protagonista di Pan, romanzo del 1904. “Soltanto Dio sa, pensavo, a cosa mi è dato d’assistere quest’oggi, e perché mi si apre il mare davanti agli occhi. Forse mi è dato di scorgere il cervello stesso della terra, il suo lavoro, l’intimo ribollio”. Il giovane tenente Glahn stacca completamente dalla società e si rifugia in una capanna posta ai margini della grande foresta, a ridosso di un piccolo villaggio di pescatori nella Norvegia settentrionale. Lì sembra finalmente trovare quella unità vitale che Nagel preconizzava, attraverso una panteistica immersione nella natura. “Mi colmava di pace e di gratitudine l’aroma delle radici, delle foglie, l’aspro profumo dei pini, che fa venire in mente quello del midollo. Non appena ero nella foresta ogni cosa entrava in me, silenziosamente. La mia anima si faceva forte e sicura”. Non sappiamo da dove arrivi, quali esperienze negative lo spingano a cercare la solitudine. Ma è certo che nella grande foresta ha la sensazione pacificatrice di una completa appartenenza: “Conosco i posti dai quali passo, alberi e pietre son lì come prima nella solitudine, le foglie sfrascano sotto i miei piedi. Il sussurro monotono e i noti alberi e i sassi sono troppo per me, una strana gratitudine mi pervade, ogni cosa ha rapporto con me, ogni cosa si mescola con me, io amo ogni cosa”. Assorbe i ritmi della natura, adegua ad essi il suo fisico e il suo pensiero e riscopre una dimensione temporale ciclica, ma tutt’altro che ripetitiva, in contrasto con quella lineare ma monotona della cultura del progresso. “Ero pieno di gioia e di gratitudine per il profumo di radici e fronde e per l’alito grasso del pino silvestre che ricorda l’odore del midollo; solo nel bosco tutto si placava dentro di me e la mia anima diventava uguale e piena di forza. Per giorni e giorni andavo sulle alture boscose, con Esopo al fianco, e non mi auguravo niente di meglio che di poter andare lassù per giorni e giorni, quantunque la neve e la fanghiglia di primavera coprissero ancora metà del paese”. Ogni parte, anche la più insignificante, di quella natura, diventa parte di sé: ne condivide la sorte, e così facendo ad un tempo stesso si annulla nella natura e si infinitizza (che è altra cosa dell’annichilimento nella massa e nel tempo lineare):“Raccatto un ramoscello secco e lo tengo in mano e lo guardo, mentre me ne sto seduto e penso ai fatti miei; il rametto è quasi marcito, la sua misera corteccia mi fa impressione, un senso di pietà mi attraversa il cuore. E quando mi alzo e mi incammino, non butto via lontano il rametto, ma lo poso per terra e mi fermo e me ne compiaccio; infine, prima di lasciarlo, lo guardo un’ultima volta con gli occhi umidi”.

E tuttavia, è sufficiente l’incontro con Edvarda, la figlia di un mercante locale, per far saltare tutti gli equilibri. È un’altra pulsione, a suo modo anch’essa primordiale, in conflitto con ciò che lo ha mosso a cercare rifugio in quel luogo sperduto. Più che dal carattere di Edvarda, che passa dallo slancio nei suoi confronti all’indifferenza più fredda e continuamente lo spiazza, Glahn è in realtà turbato dalla paura nei confronti del proprio sentimento, dalla crescente coscienza che questo sta diventando condizionante. Edvarda rappresenta anche l’altro mondo, quello dal quale tentava di fuggire e che rientra invece prepotentemente nei suoi pensieri. È attratta dalla sua diversità, dal suo “sguardo di fiera”, ma non è affatto disposta a condividerla: vive il rapporto come un capriccio, e lo gioca secondo le regole e le schermaglie della cultura borghese. Appena Glahn accetta quel giuoco e rientra in quel mondo è uno sconfitto; è disorientato, incapace di corrispondere alle attese. Questo amore malato e sofferto è la misura del suo fallimento, della sua incapacità di sottrarsi alle seduzioni fittizie della civiltà. Non può che fuggire, ma ormai è segnato, e potrà liberarsi solo cercando altrove la morte (anche questo, però in maniera contraddittoria: non si suicida, perché questo negherebbe la sua pulsione primordiale a vivere secondo natura, ma spinge un altro, attraverso continue provocazioni, ad ucciderlo).

Nelle opere successive, segnatamente in Sotto la stella d’autunno (1906) e Un viandante suona in sordina (1909), i toni cambiano. Dopo aver “mostrato i pugni serrati” l’autore sembra voler prendere respiro, tirare le somme. Ripensa il suo vagabondo con uno sguardo più pacato: la rabbia cede alla consapevolezza. Hamsun è passato nei romanzi precedenti dal rifiuto delle ideologie all’ideologia del rifiuto, rigettando in blocco la modernità in nome di un nichilismo confusamente nietzchiano; ora comincia ad intravvedere anche l‘alternativa, nel ritorno ad una civiltà contadina preindustriale, incontaminata. Per il momento però il suo personaggio (non è un caso che il protagonista di entrambi i romanzi abbia il vero nome dell’autore, Knut Pedersen) è alla ricerca di un nuovo radicamento, in una società arcaica e remota, per il quale risulta ancora inadeguato. Si porta infatti appresso i segni, le scorie, di una educazione improntata al modello culturale e di vita borghese, e non riesce, e nemmeno lo vuole davvero, a liberarsene totalmente. Non a caso nel suo ridottissimo bagaglio c’è anche il “vestito buono”. Il Pedersen di Sotto la stella d’autunno è un cittadino, un “signore” secondo la percezione dell’epoca, che si finge di umili origini per trovare in uno sperduto villaggio contadino una nuova identità, per vivere lontano dai ritmi e dai ruoli insostenibili della città e dell’industrialismo. In realtà, non è uguale agli occasionali compagni di strada, lavoratori stagionali che si muovono lungo le linee dei raccolti: è intellettualmente su un altro piano. Per questo non riesce ad adattarsi né ai ritmi, sia pure diversi, né alle gerarchie, che esistono anche nella campagna più profonda: non riesce a tenere a freno uno spirito capriccioso, sensuale e almeno in superfice indipendente: La ciclicità e la immobilità di quel mondo dopo un po’ pesano sul suo animo irrequieto, e quindi mantiene un atteggiamento di attrazione-fuga che finisce per dare scacco alla nostalgia per la semplicità primitiva. Pedersen, a differenza dei protagonisti dei romanzi precedenti, non si suicida: ma nemmeno si radica in qualcosa, rimane sospeso nel limbo leggero del “vagabondaggio”.

Lo stesso personaggio ricompare dopo aver compiuto un salto temporale di sei anni ne Un viandante suona in sordina”. Non è affatto cambiato, salva una estraneità ancora maggiore al mondo verso il quale era fuggito trent’anni prima. Il vagabondaggio ne ha fatto un osservatore che si tiene in disparte e non si lascia coinvolgere, per salvaguardare il suo diritto ad andarsene in qualsiasi momento. Vede lucidamente tutto il torbido, l’ipocrisia del mondo provinciale che scorre davanti ai suoi occhi, la futilità delle tresche e l’assurdità delle tragedie. Ha l’intima coscienza che la vita vera sta altrove, scorre nelle vene della natura, si sostanzia del piacere spirituale dell’abbandono al suo respiro. È un tenente Glahn corazzato ormai contro l’irrompere della materialità dei rapporti umani. Ma, ancora, quell’ “altro” che insegue non è definito: la sua condizione è quella di chi si tiene libero in vista di possibili “occasioni di senso”, ma finisce per adagiarsi o incagliarsi in questo stato. E comunque, la sua ricerca di autenticità avviene paradossalmente sotto false spoglie. La ricerca diventa fine a se stessa, diventa essa stessa il senso, e in questa prospettiva la condizione del libero vagabondo, che si ferma solo là e solo quando prova sensazioni positive, non si lega a luoghi o persone e viaggia con bagaglio leggero, è quella ideale. Il fascino che il romanzo ha esercitato sui lettori, e che ne fa probabilmente il più amato tra quelli di Hamsun, si spiega proprio con questa temporanea e apparente leggerezza. Che rasserena, almeno sino a quando non torni ad urgere la nostalgia di un equilibrio vitale meno fragile.

Il passo decisivo, il ritorno senza ripensamenti e incoerenze, si ha finalmente con Il risveglio della terra (o, secondo un’altra traduzione, I germogli della terra), il libro del 1917 che porta Hamsun a vincere tre anni dopo il Nobel. Il romanzo costituisce il capolinea ideologico del percorso di Hamsun (non certo quello artistico: è probabilmente una delle opere meno convincenti, proprio per la pesantezza e l’ambizione dell’assunto), che coincide, come vedremo, con quello di una notevole componente della cultura nordeuropea. E il premio si spiega proprio per questo.

L’eroe protagonista de Il risveglio della terra è Isak. Anche nel suo caso non c’è passato. Si intuisce la peregrinazione, ma non è dato conoscere la provenienza. L’uomo arriva, diretto verso il Nord. Ha con sé un sacco, il suo primo sacco, carico di viveri e di alcuni arnesi. È robusto e rude; ha la barba rossa e incolta; cicatrici sul viso e sulle mani testimoniano il lavoro o la guerra”. Si intuisce anche che, a differenza dei suoi predecessori, ha dato un taglio netto, tanto nei confronti della società borghese quanto in quelli del vagabondaggio. Ha recuperato una determinazione e una pazienza antica, ciò che agli altri faceva difetto. Comincia a costruirsi una capanna, quando è ben sicuro di aver messo tra sé e il resto del mondo uno spazio sufficiente, e si procura anche una donna. Nessuna passione, nessun “sentimento malato”: l’incontro ha un che di animalesco, ma nell’accezione positiva di un accoppiamento semplice e naturale: “La donna si aggirò a lungo per la prateria, senza osar di presentarsi. Era già quasi notte quando finalmente si avvicinò. Si trattava di una donna forte, dagli occhi scuri, florida e rude, con solide mani; aveva ai piedi stivali di cuoio grezzo, come i Lapponi, e sulle spalle una pelle di montone”. Il resto è solitudine, radicamento alla terra, duro lavoro, frugalità, autosufficienza, equo paternalismo. Isak è “un coltivatore della terra, anima e corpo, un agricoltore instancabile. Un fantasma risorto dal passato ad indicare il futuro, un uomo degli albori della coltivazione, un colono della terra vecchio di nove secoli, ed allo stesso tempo, un uomo di oggi”.

È l’utopia del ritorno ad un passato immaginario, come risposta alla non vivibilità della società moderna. Questa società malata di progresso, di democrazia, di liberalismo, non accetta di restare a margine: attenta alla sua serenità dall’interno, attraverso un figlio che sceglie la città e si perde poi addirittura in America, e dall’esterno, con l’apertura di una miniera proprio ai confini della sua terra. Ma Isak continua imperterrito nel suo lavoro duro e nel suo rifiuto alla contaminazione, e lascia all’altro figlio, Sivert, un podere ben organizzato ed una eredità morale semplice e ferma, non religiosa, se non nel senso di un rispetto sacrale e riconoscente della terra. Rivendica una sua purezza antecedente il peccato originale, quando afferma con orgoglio di non aver mai letto un libro. Isak è fondatore di un nuovo-antico modello di comunità, impermeabile alle seduzioni, alle chimere e agli artifici, economici e ideologici, del moderno: “Nessun uomo su questa terra vive di banche e industria. Nessuno. Gli uomini vivono di tre cose e di nient’altro: del grano che spunta nei campi, del pesce che vive nel mare e degli animali ed uccelli che crescono nella foresta. Di queste tre cose”. E comunque il suo rapporto con la natura non è affatto idillico: sono lontani i lirismi di Pan. Isak non si aspetta dalla terra emozioni, ma frutti, sostentamento: è un rapporto dare e avere realisticamente simbiotico. La terra è dura, è bassa, ma è solida: è suolo.

La ferita aperta dalla fuga del padre di Hamsun dalla terra si chiude idealmente con il ritorno ad essa di Isak. Ma non si tratta solo di una ricucitura morale. Dietro questo passaggio dall’epica del vagabondo a quella del contadino sedentario ci sono dei cambiamenti significativi nella vita dello scrittore. Dopo il fallimento di un primo matrimonio, nel 1909 Hamsun, ormai cinquantenne, sposa un’attrice che ha la metà dei suoi anni, Marie Andersen. La giovane lascia la carriera per seguirlo ad Hamarøy, il villaggio dove Knut aveva trascorso la sua infanzia. Lì acquistano una fattoria, col fermo proposito di vivere di agricoltura: la scrittura dovrà essere solo un hobby o poco più. In realtà la più convinta della scelta è forse proprio la moglie: è lei a dedicarsi alla vita contadina, mentre Hamsun continua ad essere irrequieto, e qualche anno dopo decide, con grande rammarico di lei, di lasciare Hamarøy e di tornare verso sud. Dopo un paio di altre esperienze fallite acquistano una tenuta nobiliare in rovina a Nørholm, vicino a Lillesand, che ristrutturano senza badare a spese e nella quale si fermeranno definitivamente. Anche qui, a curare le attività agricole è lei. Hamsun si fa costruire poco lontano un capanno nel quale può dedicarsi a scrivere senza essere disturbato dai figli: e spesso va a cercare ispirazione altrove. La stabilità raggiunta è solo parziale, e mette a nudo, anziché sanarle, le contraddizioni.

Nel momento in cui si definisce l’ideologia nuova cui approda il percorso di Hamsun, quella di una società tradizionale, legata alla natura non da un rapporto di sfruttamento ma da uno di simbiosi, che dalla natura e dalla pratica contadina trae i suoi valori arcaici e perenni, dell’anarchico individualista di Fame e di Misteri non rimane più nulla. Viene però anche clamorosamente smentita tutta quell’analisi impietosa che proprio in Misteri veniva fatta dell’industria culturale, di quelle che sono le liturgie istituzionali della cultura in genere e della letteratura in particolare. Secondo quanto denunciava confusamente Nagel in Misteri, in pratica anche per la letteratura vale il nuovo modello produttivo, con la creazione di un’ampia schiera di produttori specializzati, attraverso la diffusione dell’istruzione di massa (stiamo parlando della Scandinavia); ciò che fa si che ci siano un sacco di potenziali autori di buoni libri: “Buoni libri possono scriverli anche capitani danesi, pittori norvegesi e casalinghe inglesi”. La diffusione di una genialità standardizzata fa sparire la genialità, anche quella vera, in mezzo all’offerta e al consumo di massa. Al più possono salvarsi i grandissimi geni di cui non si parla, perché non sono inseriti nel circuito produzione-consumo letterario, e che quindi sfuggono anche alla visibilità e all’impegno, di qualsiasi tipo, che il mondo appunto automaticamente impone. “La mia intelligenza non è grande, non si spinge lontano, eppure potrei contare centinaia di persone, generalmente ritenute grandi, che riempiono il mondo della loro fama; i loro nomi mi risuonano nelle orecchie. Tuttavia preferirei nominare quei due, quattro, sei massimi eroi dello spirito, quei semidei, quei giganteschi creatori; e poi, per conto mio, volgermi piuttosto a pochi puri, insignificanti, ottimi geni di cui non si parla mai, che vivono poco e muoiono giovani e sconosciuti”.

Ora, questa non è esattamente la condizione di uno che scrive venti romanzi, viene santificato con il Nobel e arriva a superare i novant’anni. La portata e la coerenza dell’atteggiamento polemico di Hamsun vanno misurate anche su questi dati. È probabile che scrivere fosse inizialmente una risposta spirituale al mondo freddo e materialistico che lo circondava, e che lo condannava a tribolare con vari lavori per coprire le esigenze quotidiane. Ma queste tribolazioni, al di là del fatto che sono di tutti, ad un certo punto finiscono, mentre quello di scrivere continua ad essere un bisogno impellente. Del tutto comprensibile ed encomiabile, peraltro. Il fatto è che la risposta a questo bisogno rischia molto spesso di essere melodrammatica, di tradursi in uno smisurato egocentrismo: e ho l’impressione che questo sia anche il caso di Hamsun. La sua compagna di quarant’anni, Marie, lascia un ritratto probabilmente inteso a circonfonderne di romantica sofferenza il lavoro, ma che a me pare soprattutto la testimonianza di un eccezionale egoismo e di una notevole e contradditoria presunzione di sé. Racconta come nei momenti di crisi o di insoddisfazione il marito strappasse rabbiosamente in un attimo tutto ciò che aveva scritto sino ad allora, e di come tutta la famiglia fosse coinvolta nelle doglie creative. Di quanto potesse essere depresso e infelice in quei periodi, e in altri momenti sprezzante rispetto al lavoro letterario, considerato fatuo e insano; ma anche come non avesse poi problemi a lasciare moglie e bambini a Nørholm, alla faccia del radicamento e dell’agricoltura, per trasferirsi a scrivere in un albergo sulla costa. E tutto questo mentre scriveva: “Si parlava della fama di Ibsen, rompendo i timpani con discorsi sul suo coraggio: non era il caso di distinguere fra il coraggio pratico e quello teorico, fra la disinteressata e temeraria tendenza alla, ribellione e la domestica audacia rivoluzionaria? La prima risplende nella vita, l’altra meraviglia a teatro”. C’è poco di Isak, in questi atteggiamenti. C’è molto invece ancora della nevrastenia borghese del protagonista di Fame: insoddisfazione e ansia, desiderio di affermarsi e rifiuto di quel mondo dal quale dovrebbe venire il riconoscimento. Solo che in quello la nevrastenia era ancora giustificata dall’insuccesso, mentre qui ci troviamo di fronte a una perdita completa della dimensione delle cose. Da un lato un’attività che nella recente edizione completa delle opere riempie quindici volumi, e non tutti di capolavori, dall’altro un atteggiamento sprezzante, “infastidito dalla fama e insofferente di onori e ammirazione” (spariva il giorno del suo compleanno per evitare gli ammiratori).

Ho una concezione molto ludica della scrittura, probabilmente troppo limitativa rispetto all’oggetto specifico, ma in linea con quella che ho della vita. Chi scrive deve divertirsi e divertire, nel senso letterale del termine, che è quello di indurre il lettore a pensare anche ad altro che non siano i problemi della immediata sopravvivenza. Hamsun in questo senso diverte, ma nega di divertirsi. Non è l’unico: questa paranoia del partorire cultura con dolore è estremamente diffusa, l’hanno inventata gli sciamani e l’hanno adottata poi gli artisti per giustificare il fatto di fare un lavoro che non sembra – e forse non è – un lavoro, finendo col tempo per crederci essi stessi. Quindi è una sindrome diffusa. Ma nel caso di Hamsun finiamo un po’ più in là, nella sfera degli scrittori maledetti, che si sentono perseguitati, incompresi, vittime del perbenismo e dell’ottusità del sistema o dell’intera società. E più in là ancora, in quella di chi in fondo disprezza non solo chi fa il suo stesso lavoro, ma anche i suoi lettori e quasi l’attività stessa, e accondiscende con molta sofferenza e degnazione a sporcarsi le mani d’inchiostro, ben sapendo che altri sono i valori. Finiamo nella leggenda, autoalimentata prima e coltivata poi da aspiranti discepoli in cerca di un messia (provate a visitare qualche sito sulla rete).

Ora, la leggenda del maledetto e dell’incompreso è clamorosamente smentita da mezzo secolo di successi; quella del poeta-contadino non solo dalla testimonianza della moglie, ma dall’immagine stessa che dell’uomo della terra ci viene data attraverso Isak. Per essere bucolici non è necessario presentare contadini che passano il loro tempo all’ombra dei faggi raccontandosi storie: si ottiene lo stesso effetto quando si irrigano i campi col sudore. Ma di questo mi riservo di parlare più avanti. Per il momento torniamo agli sradicati.

Vagabondi, del 1927, è il primo volume di una trilogia che comprende anche August (1930) e Ma la vita continua (1933). Sono trascorsi quarant’anni da Fame, Hamsun ne ha ormai settanta ed è già stato insignito del premio Nobel. È la prima volta che il termine compare nel titolo di un suo libro: in Un viandante suona in sordina il termine norvegese usato nel titolo è Vander, mentre per “vagabondi” è Landstryker: il primo può essere meglio tradotto con viandante, mentre il secondo esprime proprio l’idea del vagabondaggio. Torna il tema antico, trattato però con uno spirito e con un piglio completamente diversi: e proprio il termine usato nel titolo ne è la riprova. Nel racconto delle peripezie di Edevart, e soprattutto di quelle di August, si mescolano nostalgia e disincanto: la nostalgia riguarda un’età nella quale era possibile ancora commettere degli errori pensando che sarebbero comunque state esperienze; il disincanto riguarda lo spreco di anni e di vite in una giostra errabonda che non approda poi a nulla. I due irrequieti compari rappresentano due modelli diversi di vagabondo (se di vagabondi si può nel loro caso parlare. Sono piuttosto dei venditori ambulanti e dei marinai): pensoso e intimamente insoddisfatto il primo, che si porta dentro un costante senso di colpa nei confronti della terra, dei familiari e del mondo che ha lasciato, ma che è comunque irresoluto e impossibilitato ad un ritorno; assolutamente sradicato e inconcludente, nelle sue fantasie esotiche e nelle sue avventure sempre sul filo della legalità, e anche un po’oltre, il secondo. Le loro avventure trascinano alla lettura, ma non racchiudono più alcun dilemma, alcuna drammaticità: se ne ricava una sensazione di malinconia, e insieme di narrazione picaresca. Sono il racconto di un anziano che rievoca le pazzie giovanili, mostrandone la sventatezza ma sotto sotto rimpiangendo l’incosciente possibilità di vivere alla giornata. Cosa che è tollerabile quando almeno sulla carta di giornate disponibili ne rimangono davanti ancora molte.

In generale, comunque, anche nel periodo più tardo i vagabondi raccontati da Hamsun non sono degli agonisti nella lotta primordiale per la vita, come quelli di London. Sono invece come abbiamo visto alla ricerca di un equilibrio interiore che è stato turbato dalla civilizzazione moderna, meccanicistica e razionalistica, e dall’allontanamento dalla natura. Cercano qualcosa che non è Dio e nemmeno l’avventura: cercano delle radici, esattamente al contrario di quelli di London. Si potrebbe dire che i vagabondi di London sono irrequieti, come il loro prototipo Hukleberry Finn, quando devono fermarsi, perché per indole non hanno terraferma; mentre quelli di Hamsun sono irrequieti, stanno male, proprio durante la peregrinazione della ricerca, anche se questo girovagare li strappa a modelli e convenzioni che non tollerano o che semplicemente sono incapaci di fare propri.

In effetti sono più diversi da quelli di Gorkij e di London di quanto questi non lo siano tra loro. Sono meno disperati dei primi, sono meno rassegnati, o attaccati al loro destino errabondo, dei secondi. È da chiedersi se addirittura possano essere fatti rientrare nella categoria del vagabondo quale noi la intendiamo, che suppone un errare, per scelta o per costrizione, senza prospettive: mentre qui ci troviamo piuttosto di fronte a dei fuggitivi, che si staccano da una realtà che va loro stretta per inseguire un sogno di fortuna, e lo perseguono senza prendere coscienza della sua inconcludenza, come August, o non riescono a tornare indietro anche quando lo vorrebbero, come Edevart.

Riesce abbastanza strano pensare che Vagabondi abbia potuto essere letto, nella seconda metà del secolo scorso, come una sorta di risposta, anzi, di anticipazione europea a Sulla strada. Nello spirito che anima i protagonisti del primo non c’è assolutamente nulla della incoscienza, sia pure alcoolica, di quelli del secondo. Quella di Hamsun alla fine è un’Europa luterana, tormentata e priva di gioia. Di lì a breve diverrà addirittura uno scenario tragico.

Quando esce Ma la vita continua Hitler è appena salito al potere. Nel volgere di pochi anni crescono anche nei paesi scandinavi dei movimenti populisti le cui matrici ideologiche, il culto romantico delle origini, il mito del volks e del vikingo, il nazionalismo, il rifiuto della civiltà industriale e della cultura liberal-democratica, la xenofobia, sono le stesse del nazismo. In Norvegia il principale di questi movimenti è il Nasjonal Sammlung di Vidqun Quisling. Il leader fascista e populista vagheggia una Norvegia inclusa in una grande confederazione germanica, in funzione anti-americana, anticomunista e più genericamente anti-capitalistica: ciò che corrisponde in qualche misura alle aspettative dell’ormai ottantenne Hamsun.

Allo scoppio della guerra le truppe tedesche invadono il paese, chiave strategica per il controllo del mare del Nord e del ferro svedese, incontrando peraltro una forte resistenza. Contemporaneamente Quisling tenta un colpo di stato, che non riesce e che fa si che i tedeschi, una volta sconfitto l’esercito norvegese, instaurino un regime di occupazione militare. Nel corso della guerra Hamsun si reca personalmente da Hitler per chiedere un nuovo assetto del governatorato imposto alla Norvegia, e in effetti questo viene sostituito da un governo fantoccio guidato dallo stesso Quisling. Ad Hamsun, in realtà, al di là del problema politico contingente interessa verificare la visione del Fuhrer rispetto ad un nuovo assetto mondiale che escluda le banche, la finanza, ecc. È immaginabile quanto patetico possa essere stato quell’incontro, tra un vecchio quasi completamente sordo e perduto nelle sue fantasie e un uomo da sempre in preda alle sue ossessioni. In compenso dopo la guerra Hamsun persisterà a difendere le sue scelte, e dopo la morte di Hitler ne scriverà persino un necrologio commosso: ciò che significa che non si è reso affatto conto di avere di fronte un alienato.

Al termine del conflitto lo scrittore viene arrestato e posto sotto accusa per collaborazionismo. Il suo sostegno al regime filonazista di Quisling è stato, anche per ragioni anagrafiche, solo morale, e nemmeno sempre incondizionato (ad esempio, non condivide la deportazione degli ebrei: d’altro canto nei suoi libri non c’è traccia di antisemitismo): ma è indubbio che la politica nazionalista norvegese rispecchi nelle grandi linee la sua concezione del mondo, e che da questa sia stata anche influenzata.

Hamsun viene quindi processato e internato in un istituto psichiatrico, dal quale uscirà tre anni dopo, ormai novantenne. Tutt’altro che piegato, però: durante l’internamento scrive Sui sentieri dove ricresce l’erba, un’autodifesa che nulla concede a pentimenti o ritrattazioni, e che è invece un attacco sarcastico e altezzoso, al limite della presa in giro, nei confronti delle istituzioni che lo hanno condannato e di una società nella quale continua a non riconoscersi. Tra l’altro, introduce anche qui la figura di un vagabondo, un vecchio amico che funge da pretesto per la rievocazione del buon tempo antico. In realtà è ormai solo: anche la moglie, che gli ha dedicato una vita intera, piegandosi di buon grado alla sua concezione patriarcale del mondo e della famiglia, non intende più seguirlo su questa strada. Esce quindi di scena come uno dei suoi viandanti, in sordina, alimentando ulteriormente il mito di un animo nobile e sdegnoso, che non si è piegato alla persecuzione e che ha guardato negli occhi i suoi avversari sino all’ultimo istante.