Saggi per un mese

di Marco Moraschi, 30 luglio 2018

Saggi per un mese

Introduzione

Astronomia

La luce: una radiazione messaggera

Le onde gravitazionali: un nuovo telescopio sull’Universo

Buchi neri

Le missioni Voyager

Planet Nine: un nuovo pianeta nel Sistema Solare?

Proxima b: guida galattica per i sognatori

C’è vita sulla Terra?

L’oroscopo è una c***** pazzesca!

A cosa serve la ricerca spaziale?

Ambiente e Biologia

Il parco dell’Himalaya-Karakorum

L’evoluzione darwiniana nell’uomo è ancora attiva?

Water Footprint: quanta acqua usiamo davvero?

Consumo idrico e ciclo dell’acqua

Fisica

LED: il futuro dell’illuminotecnica

Il risveglio della (quinta) forza

Bomba all’idrogeno: la fusione nucleare

La meccanica quantistica come l’ho capita io

Entanglement quantistico

Il bosone di Higgs tra materia e antimateria

Chiralità e bellezza nell’Universo

Riflessioni

Dio e (è) la matematica

Stephen Hawking, elogio della mente umana

S.O.S. Laicità

Internet: pericolo o risorsa indispensabile?

Il digitale nella società liquida

La scienza nella vita

Sulla Natura

Lettera a un figlio che ha perso il padre

Extra

Teoria gender, un’analisi scientifica

Il cubo di Rubik: molto più di un gioco

Visita a Thales Alenia Space e Altec SpA

Recensione “Dove sono tutti quanti?”

Introduzione

A Ilaria, anche se un libro è troppo poco

 Chi mi conosce da tempo sa che, all’impegno di studente (a tempo pieno e quindi in maniera quasi totalizzante), ho sempre cercato fin da bambino di affiancare l’interesse per le discipline scientifiche, passione che ho coltivato, soprattutto negli ultimi anni, scrivendo prima per una rivista (“La Spora”, ora non più in pubblicazione), poi per il mio blog personale (anch’esso chiuso per mancanza di tempo) e infine come occasione di confronto con gli amici e con me stesso. In questi anni ho quindi accumulato molti articoli che ho scritto in seguito a notizie di attualità ed eventi che ho ritenuto interessanti di volta in volta, oltre a riflessioni “più profonde” che mi hanno accompagnato in questo periodo di crescita personale, in cui si passa dalla “giovinezza” all’età “adulta” (ora mica penserete che io sia vecchio?). Ho quindi ritenuto opportuno raccogliere alcuni di questi articoli e riflessioni in un unico libro, affinché non ne andasse perduta la memoria e il lavoro svolto, aggiornandoli dove richiesto, e cercando di adattarli per renderli più fruibili in questo contesto. Troverete quindi qui di seguito articoli e saggi di varia natura (da cui il titolo del libro), nei quali spero di essere riuscito a trasmettere, almeno in parte, l’amore per le discipline scientifiche (ma non solo). Molti sono gli argomenti trattati, dai temi astronomici (la mia vera passione) come i buchi neri e le missioni spaziali Voyager, al debunking dell’oroscopo (ti piace vincere facile, eh Marco?), al funzionamento dei LED, a riflessioni sulla morte e sulla vita, per non dimenticarci che prima di ogni altra cosa siamo soprattutto umani. Ho cercato di raggrupparli per macro-argomenti, ovvero astronomia, ambiente e biologia, fisica, riflessioni ed extra (dove, indovinate un po’, rientra ciò che non era legato alle altre categorie!), in modo da renderne più semplice la fruizione. Potete leggere questo libro come volete, dall’inizio, dal fondo, una pagina sì e una no, oppure scegliendo ogni volta quale argomento vi interessa di più leggere. Se leggete un saggio al giorno, ne avrete circa per un mese (“Saggi per un mese”… che fantasia!). Accanto ad alcuni articoli troverete inoltre il mese e l’anno di pubblicazione, in modo da renderne più semplice la contestualizzazione. Al termine di ogni testo sono infine riportate le fonti consultate, con i link di riferimento e altri contenuti per approfondire.

Quelle che seguono sono quindi le idee e le prove tecniche di un ragazzo appassionato, prendetele per quello che sono e scusatemi fin da subito per gli errori e le mancanze che troverete: me ne assumo tutte le colpe. Ringraziandovi per aver anche solo preso in mano questo libro, vi auguro quindi una buona lettura!

Astronomia

La luce: una radiazione messaggera

Tra i vari tipi di radiazione elettromagnetica, la luce è quella che ha sempre destato più curiosità nell’uomo: che sia per la sua natura duale onda-particella che incuriosisce tanto gli scienziati, o semplicemente per il fatto che ci permette di poter “vedere” ciò che ci sta intorno, rimane per noi qualcosa di meraviglioso. Ma perché è così importante?

Nel 1814 il fisico e astronomo Joseph von Fraunhofer fu il primo a inventare uno spettroscopio molto preciso che avrebbe permesso di riuscire a comprendere i messaggi che da alcuni miliardi di anni a questa parte le stelle diramano in ogni direzione nell’Universo. Già, perché le stelle ci parlano e lo fanno costantemente. Attenzione, non sto dicendo che influiscono sul nostro futuro e tantomeno che sono le anime delle persone defunte, come molte pseudoscienze vogliono farci credere. Le stelle parlano a chi può sentirle e si esprimono per mezzo della luce. La luce è una lingua meravigliosa che trascende l’identità di razza ed è in grado di comunicare con tutta la materia dell’Universo, dagli atomi di elio delle reazioni nucleari all’interno delle stelle, ai neuroni degli scienziati che si interrogano costantemente sulla natura del Cosmo. Tornando a Fraunhofer, il suo merito è stato quello di averci fornito uno strumento in grado di decodificare in maniera molto precisa i messaggi che, grazie alla luce, ci arrivano dalle stelle tramite lo spettro elettromagnetico. Viene quindi da chiedersi: cos’è lo spettro elettromagnetico (e di conseguenza uno spettroscopio)?

Lo spettro elettromagnetico non è altro che la distribuzione in energia dell’intensità di una radiazione elettromagnetica, ovvero l’insieme di tutte le possibili frequenze di una radiazione elettromagnetica. Facciamo un piccolo passo indietro. La luce è una radiazione elettromagnetica che emette in varie frequenze; ad ogni frequenza associamo un colore. Se pensiamo ai colori dell’arcobaleno tutto risulterà più semplice: ad ogni colore dell’arcobaleno corrisponde una determinata frequenza, se “rimettiamo insieme” tutti i colori otteniamo la luce bianca. Possiamo quindi pensare di riuscire a scomporre la luce in molti pezzi, come in un puzzle, il problema è però che i nostri occhi non sono sufficienti a “captare” tutti i pezzi del puzzle e soprattutto non sono in grado di disfare il puzzle quando è completo. Lo spettro che i nostri occhi sono in grado di vedere è infatti solamente quello compreso tra le frequenze di 400 e 790 terahertz; tutto ciò che c’è prima (infrarosso) e dopo (ultra-violetto) è a noi invisibile. Ci vengono quindi in aiuto alcuni strumenti che ci permettono di “catturare” tutti i pezzi del puzzle: lo spettroscopio ne è un esempio. Grazie ad esso possiamo distinguere tutte le frequenze di cui è composta la luce proveniente da una fonte, per esempio la luce del Sole. Analizzando lo spettro solare, Fraunhofer si rese conto, ad esempio, che erano presenti delle righe scure che da allora prendono proprio il nome di “righe di Fraunhofer”. Queste righe scure sono il risultato dell’assorbimento della luce solare degli strati più interni del Sole ad opera della materia più superficiale della stella, quella che ne costituisce l’atmosfera. Grazie quindi allo spettro elettromagnetico (e quindi grazie alla luce) siamo in grado di studiare l’atmosfera di una stella, che ci dà informazioni, per esempio, sulla composizione chimica della nube da cui la stella si è formata per contrazione gravitazionale. Così come esistono delle righe di assorbimento, esistono anche delle righe di emissione, specifiche della frequenza della radiazione elettromagnetica a cui avviene l’emissione, ovvero la transizione degli elettroni da uno stato ad energia maggiore a uno a energia minore.

Ciò che risulta sorprendente, a ben pensarci, è che l’universo in realtà … è buio. Ma come, ci hai appena detto che la luce è ciò che ci permette di vedere! In effetti è bene fare due precisazioni.

La luce è solo un particolare tipo di radiazione elettromagnetica, ma assume per noi un’importanza considerevole in quanto è ad essa che i nostri occhi sono sensibili. Ed è proprio qui il nocciolo della questione: sono i nostri occhi a rendere “visibile” ciò che vediamo, e il modo in cui lo vediamo. In altre parole, riusciamo a vedere la realtà intorno a noi solo perché abbiamo due organi di senso che, in un processo di evoluzione darwiniana durato milioni di anni, sono diventati sensibili a una specifica radiazione elettromagnetica. In particolare, i nostri occhi riescono a percepire un certo spettro di frequenze, che, guarda caso, è proprio la gamma in cui avviene la maggiore emissione da parte del Sole, e quindi quella più ricca di informazioni. Certo il merito non è tutto dei nostri occhi, nell’elaborazione dell’immagine finale interviene anche il nostro cervello, ma questo approfondimento ve lo lascio come compito per casa.

L’universo è stato davvero “buio” per un certo periodo di tempo della sua vita. Abbiamo ripetuto allo sfinimento che la luce è una radiazione elettromagnetica che presenta una natura duale onda-particella. A causa di questa natura duale, assume particolare importanza il mezzo materiale che si interpone tra la sorgente emettitrice e ciò che la riceve (i nostri occhi per esempio). Chiariamo tutto con un esperimento mentale. Se poniamo in una stanza una lampada accesa e noi ci mettiamo invece in una stanza adiacente separata da un muro, non siamo in grado di vedere la luce accesa a causa della presenza del muro che scherma il fascio luminoso. Se anziché porre una lampada, mettiamo un modem Wi-Fi, riusciremo invece in buona misura a captare parte delle onde emesse (anche se comunque ciò dipenderà dai materiali di cui è costituita la parete), poiché i due tipi di radiazioni elettromagnetiche hanno caratteristiche in frequenza differenti. Fino a circa 380 mila anni dopo il Big Bang, l’Universo aveva una densità talmente elevata da non permettere alla luce di attraversarlo: era sicuramente “buio” ai nostri occhi.

Insomma, grazie alla luce siamo stati in grado di ottenere informazioni sperimentali precise sulle abbondanze degli elementi chimici nell’Universo, siamo riusciti a determinare la natura e la composizione di molti pianeti extrasolari (i pianeti che ruotano intorno ad altre stelle), riuscendo in alcuni casi a comprendere addirittura se possono essere adatti per la vita e, infine, abbiamo anche compreso che il nostro Universo è in continua espansione.

Dalla nascita della Scienza ad oggi la Luce è stata la nostra migliore compagna di viaggio, ha fatto sì che iniziassimo a puntare gli occhi al cielo affascinati dalla volta stellata, e ci ha guidato nelle scoperte più importanti sull’evoluzione dell’Universo. È in questo modo che le stelle ci parlano: l’avreste mai detto?

FONTI:

Piero Bianucci, Vedere, guardare, UTET, 2015

Le onde gravitazionali: un nuovo telescopio sull’Universo

Abbiamo appena festeggiato il centenario della teoria della relatività di Einstein e subito una nuova entusiasmante scoperta la riporta sulle prime pagine dei quotidiani: le onde gravitazionali sono realtà. É meraviglioso che un qualcosa di ipotizzato 100 anni fa dalla mente umana, sia stato effettivamente verificato una volta che la tecnologia si è evoluta a sufficienza da poterlo rilevare. La mente umana ha saputo volare là dove l’occhio non era in grado di arrivare, riuscendo a donare al genio inarrivabile di Einstein un nuovo grandioso successo. Oltre al Nobel ai fisici ricercatori che hanno misurato le onde gravitazionali, dovremmo prendere in considerazione di donare ad Einstein un premio Nobel “alla memoria” o, come si dice, “alla carriera”.

Circa un miliardo e mezzo di anni fa, due buchi neri (uno di circa 36 masse solari e l’altro di 29 masse solari) hanno iniziato a corteggiarsi danzando e spiraleggiando l’uno intorno all’altro, avvicinandosi sempre di più e vorticando sempre più velocemente fino al momento in cui, come succede spesso in amore, sono diventati un corpo solo di ben 62 soli. Marco, ma 36 + 29 = 65, non 62! É aritmetica delle elementari! Avete ragione, ma in astrofisica 36 + 29 può fare 62! Ok, in realtà c’è un barbatrucco sotto: nonostante le loro masse sommate fossero pari a quelle di 65 Soli, circa 3 masse solari si sono trasformate in energia al momento della loro unione. Masse che si trasformano in energia? Ma oggi hai proprio bevuto! No, non ho bevuto, massa ed energia sono più o meno la stessa cosa e ciò che le collega è la velocità della luce, ce l’ha detto il buon vecchio Einstein ormai più di cent’anni fa con la nota formula E=mc2. Bene, torniamo al nostro racconto adesso. La loro unione non è stata però quieta e silenziosa dicevamo: si è sprigionata infatti una quantità di energia pari a tre volte la massa della nostra stella. Se questa energia fosse stata emessa sotto forma di luce, ovvero sotto forma di radiazione elettromagnetica, la regione dello scontro avrebbe brillato più di tutte le stelle dell’universo messe insieme! Ciò che invece successe fu che la struttura stessa dello spazio vibrò con violenza, e le increspature (le vibrazioni, le onde gravitazionali!) dello spazio hanno viaggiato nell’Universo più o meno indisturbate per 1,3 miliardi di anni luce fino a quando, il 14 settembre 2015, sono state rilevate (o rivelate) dai bracci di una grandissima antenna per onde gravitazionali sita negli USA, LIGO. Il 12 febbraio 2016, infine, i ricercatori e gli scienziati che hanno studiato questo avvenimento hanno dato al mondo la notizia che molti fisici attendevano da anni: le onde gravitazionali esistono!

Bene, abbiamo spiegato a grandi linee ciò che è successo, ma ora sarà meglio fare qualche precisazione su come ciò sia potuto avvenire e perché: la teoria della relatività generale. Poco più di un secolo fa Albert Einstein ha partorito dalla sua mente geniale un’idea apparentemente bizzarra: lo spazio è deformabile. Ogni oggetto dotato di massa è in grado di deformare (tanto o poco, dipende da quanta massa “c’è”) la trama del cosmo, il tessuto spazio-temporale. Vediamo di chiarire meglio con un esempio, potete farlo anche a casa (oppure nella vostra mente, in onore agli esperimenti mentali di Einstein): prendete un telo di stoffa, stendetelo in modo tale che la sua superficie sia uniforme e senza pieghe e poggiatevi sopra un peso, per esempio una mela. Potete notare che in corrispondenza della mela il telo si deforma e crea una concavità tutto attorno alla mela. Se fate rotolare una biglia sul telo, questa finirà inevitabilmente nella conca formata dalla mela. Ora trasportate tutto allo spazio-tempo: il “tessuto” dell’Universo è il vostro telo e la mela (o qualunque altro peso) è la vostra massa. Le masse deformano la trama del Cosmo: le altre masse più piccole, che si trovano a passare per sbaglio intorno alla massa grande, finiscono per cadere nella sua conca, aumentando la deformazione dello spazio. Ci siete fin qui? Bene, avete appena capito la teoria della relatività! Complimenti! Beh, dai, lo ammetto: in tutto c’è una fregatura, le cose sono molto più complesse di così, ma non abbattiamoci. Una delle previsioni più interessanti della teoria di Einstein era che se una massa è dotata di accelerazione, si provoca un’increspatura nel tessuto spazio-temporale che si propaga nello spazio: le onde gravitazionali! Pensate, se vi è più facile, a quando lanciamo un sasso in un lago: dal punto in cui il sasso cade in acqua, le onde si propagano sino a riva.

Un’ultima breve parentesi su LIGO (l’antenna che ha rilevato le onde gravitazionali) e poi giuro che vi lascio andare! Quando le onde gravitazionali passano attraverso la sorgente (nel nostro caso i due buchi neri) e l’osservatore (LIGO), lo spazio-tempo che li separa viene deformato, allungandosi e contraendosi ritmicamente. La deformazione che si produce dipende ovviamente dalla massa della sorgente e dalla sua distanza: pensate che, nel nostro caso, le deformazioni da rilevare erano molto più piccole di un protone! Capite benissimo che rilevare tali onde non è stato proprio un gioco da ragazzi, occorre una tecnologia estremamente all’avanguardia per rilevare una deformazione così piccola in mezzo all’intenso rumore di fondo presente intorno a noi.

E adesso? Adesso, come dopo ogni scoperta rivoluzionaria, non abbiamo solo molte (?) più risposte, ma soprattutto tantissime domande e possibilità in più! Le onde gravitazionali ci permetteranno di studiare l’Universo con un nuovo telescopio, ovvero non sfruttando solo più le radiazioni elettromagnetiche, ma anche le deformazioni dello spazio-tempo. Dopo l’era dell’osservazione ad occhio nudo, l’osservazione con i telescopi a Terra e l’osservazione con i telescopi spaziali (oltre alle missioni spaziali), inizia ora per l’astronomia una nuova entusiasmante era: l’era delle onde gravitazionali. Io non sto più nella pelle, e voi?

febbraio 2016

FONTI: https://www.ligo.caltech.edu/news/ligo20160211

Buchi neri

Un team internazionale di astronomi, guidato dall’Università della California a Berkeley, ha pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature uno studio in cui si annuncia la scoperta di un buco nero da record: circa 17 miliardi di masse solari (ovvero 17 miliardi di volte più grande del Sole!). Questo mostro dell’astrofisica fa parte di quella categoria di buchi neri definiti come “super massicci”, ovvero dei giganti cosmici che hanno una massa che varia tra qualche milione di masse solari fino a miliardi di volte quella della nostra stella. Se si approfondisce la notizia, si scopre che in realtà questo buco nero non è il più grande mai scoperto, il record infatti lo detiene un buco nero da 21 miliardi di masse solari che si trova nell’ammasso della Chioma. Il protagonista dello studio citato si trova invece in una zona del cielo a circa 200 milioni di anni luce dalla Terra (quindi, abbastanza vicino a noi in termini galattici). Il motivo per cui ha destato scalpore la notizia è dato dal fatto che la zona in cui si trova è apparentemente scarsa di galassie e questo fa presagire che i buchi neri siano molto più comuni nell’Universo di quanto ipotizzato. Inoltre, date le dimensioni e la relativa vicinanza, ora che le onde gravitazionali sono realtà, esiste la possibilità di riuscire a captare le onde gravitazionali che da quel buco nero partono in direzione della Terra.

Per capire meglio cosa sono i buchi neri occorre innanzitutto l’ingrediente chiave: la teoria della relatività. Questa famosissima teoria, sviluppata da Albert Einstein più di un secolo fa, reinterpreta e approfondisce il legame tra massa e gravità che era nato con la teoria della gravitazione universale di Isaac Newton. Una qualunque massa presente nello spazio deforma lo spazio-tempo, ovvero la trama di cui è composto il Cosmo. Gli altri oggetti che si trovano a passare nei paraggi di quella massa più grande vengono da essa attratti in quanto “scivolano” all’interno delle deformazioni prodotte nello spazio-tempo da quella massa. I buchi neri, previsti dalla teoria della relatività generale, portano all’estremizzazione il concetto precedentemente illustrato. Vediamo di chiarire tutto con un esempio. Supponiamo di avere un cannone carico con il quale possiamo lanciare qualunque oggetto alla velocità che vogliamo. Se tiriamo una normale palla di cannone con una quantità modesta di polvere da sparo, a quale distanza cadrà rispetto alla base del cannone? Beh, dovremmo sapere un po’ di dettagli in più: quanto “pesa” la palla di cannone, a che velocità viene lanciata, con quale inclinazione rispetto al suolo. Ad ogni modo siamo sicuri di una cosa: cadrà sulla Terra! Bene, e se invece volessimo lanciarla nello spazio in modo che non ricada sulla Terra? A quale velocità dovremmo lanciarla? La risposta, per il campo gravitazionale terrestre, è di circa 11 km/s. Questa velocità, in gergo tecnico, è detta “velocità di fuga”. Torniamo ora ai nostri buchi neri. Ammesso che sia possibile sistemare un cannone sulla superficie di un buco nero, ammesso che esista una superficie propriamente definita su un buco nero, ammesso che sia possibile arrivare sul buco nero … va beh, ammettendo l’impossibile, ci chiediamo: a che velocità dovremmo lanciare la palla di cannone perché non ricada sul buco nero? La risposta ce l’ha data Einstein: è maggiore della velocità della luce! Proprio così, la velocità di fuga su un buco nero è molto più elevata di 300’000 km/s. Tale velocità di fuga è così grande che nemmeno la luce riesce a sfuggire da un buco nero. Se riuscissimo a montare un enorme faro sul buco nero (a ridaje …) dallo spazio nessuno riuscirebbe a vederlo perché i raggi di luce ricadrebbero essi stessi sul buco nero. In effetti, se ci pensate, è proprio questo il motivo per cui si chiamano … neri. Ciò che invece può trarci in inganno è il termine “buco”. I buchi neri non sono propriamente dei buchi, o meglio, lo sono in quanto nulla di ciò che cade al loro interno può sfuggirgli (anche se ciò non è probabilmente del tutto vero, ci ritorneremo magari in un prossimo articolo…), ma in realtà sono dei corpi celesti come tutti gli altri, solo che sono dotati di una massa talmente elevata da avere una densità quasi infinita.

I buchi neri sono insomma corpi estremamente complessi, sui quali le spiegazioni scientifiche sono spesso discordanti e comunque anch’esse molto complicate. Rimane però ancora una domanda che vorrei chiarire: se nemmeno la luce può sfuggire da essi al punto che non si possono vedere, come facciamo a … vederli? Dato l’enorme campo gravitazionale di cui sono dotati, esercitano una grandissima influenza sui corpi che si trovano nelle loro vicinanze. Ci è quindi possibile osservare stelle che orbitano attorno a questi mostri celesti senza tuttavia vederli, ma scorgendo gli effetti gravitazionali che producono sulle masse vicine, come gas, stelle e raggi di luce.

aprile 2016

FONTI: http://www.nature.com/nature/journal/vaop/ncurrent/full/nature17197.html

Le missioni Voyager

Quasi 40 anni fa, al tempo del primo Star Wars, partivano le sonde Voyager, con un programma spaziale destinato ad entrare nella storia. Ora la Voyager 1 ha superato i 20 miliardi di chilometri di distanza dal Sole, contribuendo ancora una volta a nutrire l’entusiasmo per questa missione.

Non ci sono più le sonde di una volta. Eh già, quelle sonde destinate a imprimere un solco nella storia dell’astronomia e dell’esplorazione spaziale, che hanno fatto sognare almeno un paio di generazioni e che non si decidono ad andarsene in pensione. Certo, molte delle missioni degli ultimi anni sembrano alquanto promettenti, ma è difficile riuscire a immaginare quali saranno i loro risvolti futuri e le scoperte che potranno ancora portarci a distanza di anni. Il problema è sicuramente dovuto a un fattore economico non indifferente: nel caso delle sonde e delle missioni spaziali avviate a partire dal dopoguerra fino ad arrivare ai primi anni Novanta, possiamo indubbiamente parlare di una corsa alla conquista dello spazio che nasceva dagli interessi contrapposti di nazioni storicamente antagoniste, come gli USA e la Russia. La “corsa agli armamenti” diveniva quindi una corsa alla conquista della Luna o alle missioni spaziali, che se da un lato avevano indubbiamente grande rilevanza scientifica, dall’altro volevano porsi come una prova della supremazia e della potenza tecnologica di una nazione sull’altra.

Nell’ultimo ventennio qualcosa è cambiato e qualcosa sta mutando ancora da alcuni anni a questa parte; si è compreso (forse) che lo spazio è una risorsa preziosa per l’umanità, per tutti. La corsa allo spazio è stata aperta ai privati, molte agenzie spaziali hanno unito le forze, anche economiche, e sono riuscite a raggiungere obiettivi certamente degni di nota e di grande importanza scientifica (per esempio la missione dell’Agenzia Spaziale Europea “Rosetta”). Di fatto, però, possiamo dire che i tempi d’oro della corsa allo spazio sono sfumati e stanno lentamente riprendendo vigore solo grazie all’impegno costante della comunità scientifica, che non smette comunque di entusiasmarci e di donarci nuovo sapere. Il 1969 è rimasto per troppo tempo un traguardo che non si è più ritrasformato in punto di partenza, e sono ancora distanti gli anni in cui potremo vedere una missione con equipaggio umano su Marte. Dallo Sputnik all’Apollo 11, dalle Pioneer al telescopio spaziale Hubble, sono molte le sonde e le missioni che hanno segnato la storia dell’astronomia, ma nessuna è stata mai così longeva e importante come il Programma Voyager (per carità, non quello pessimo su Rai 2).

Composto di due sonde, la Voyager 1 e la Voyager 2, lanciate nel 1977, non ne vuole proprio sapere di scomparire dalla scena e torna periodicamente a far parlare di sé. Le due sonde hanno permesso di farci scoprire quasi tutto ciò che ora conosciamo, sicuramente in maniera più approfondita, del nostro Sistema Solare, dai giganti gassosi alla materia che compone lo spazio interplanetario. A differenza delle sonde del Programma Pioneer, che ormai non sono più funzionanti, entrambe le sonde Voyager continuano a trasmettere dati alle stazioni sulla Terra, mentre stanno viaggiando ai confini del Sistema Solare. Le batterie termoelettriche a isotopi radioattivi (alimentate a plutonio) di cui sono dotate consentono loro ancora diversi anni di vita operativa (stimata fino al 2025), anche se diversi strumenti sono stati via via disattivati per ridurre l’assorbimento di energia. Le sonde sono state costruite presso il Jet Propulsion Laboratory (JET), struttura finanziata dalla NASA. A bordo di ognuna di esse si trova una copia del Voyager Golden Record, un disco registrato che contiene immagini e suoni della Terra insieme a una selezione musicale. Sulla custodia del disco, anch’essa metallica, sono poi incise le istruzioni per accedere alle registrazioni in caso di ritrovamento. Il comitato che ha selezionato i contenuti da incidere sul disco è stato presieduto dall’astronomo Carl Sagan.

La sonda spaziale Voyager 1 è stata lanciata il 5 settembre 1977 dalla base NASA di Cape Canaveral, a bordo di un razzo Titan IIIE-Centaur, poco dopo la sua gemella Voyager 2. Dopo essere stata immessa in un’orbita che la portò molto vicino ai due giganti gassosi Giove e Saturno, è stata la prima sonda spaziale ad esplorare il Sistema Solare esterno. Oltre a numerose fotografie di corpi celesti molto distanti (in termini “umani”) da noi, permise, insieme alla sorella, di scoprire vulcani di zolfo su Io (una luna di Giove) e di studiare la composizione dell’atmosfera di Saturno e Titano, una delle sue lune. A causa della sua orbita, dopo aver visitato questi ultimi due corpi celesti, si allontanò dal piano dell’eclittica muovendosi verso l’esterno del Sistema Solare. Proprio il suo costante allontanamento dalla Terra le ha fatto guadagnare il titolo di oggetto costruito dall’uomo più distante dalla Terra (e funzionante!). La NASA ha infatti comunicato che la sonda Voyager 1, viaggiando a più di 60.000 chilometri l’ora, è il primo manufatto umano a lasciare il Sistema Solare per entrare nello spazio interstellare, e che il transito nella nuova regione inesplorata è avvenuto attorno al 25 agosto 2012 dopo 35 anni di viaggio e una distanza di 121 UA dal Sole (circa 18 miliardi di chilometri)! In realtà, nonostante i dati provengano da modelli di simulazione avanzati, gli scienziati non sono tutti d’accordo su “quando” e “dove” un oggetto lascia il Sistema Solare, poiché sono diversi i criteri oggettivi che si possono prendere in considerazione per definire i “limiti” dello stesso. Come detto, attualmente (gennaio 2016) la Voyager 1 si trova a circa 134 UA dal Sole, ovvero più di 20 miliardi di chilometri.

La sorella, la sonda spaziale Voyager 2 è stata invece lanciata il 20 agosto 1977 dalla NASA da Cape Canaveral, a bordo del razzo Titan III-Centaur. A differenza della Voyager 1, che ha visitato “solamente” Giove, Saturno e Titano, la Voyager 2 ha potuto osservare anche Urano e Nettuno, a causa di un fortuito allineamento planetario piuttosto raro. La maggior parte delle informazioni di cui disponiamo circa questi due pianeti proviene quasi esclusivamente da tale sonda. Passando vicino a Giove e Saturno essa ha potuto integrare le immagini e gli studi che già erano stati compiuti dalla gemella, mentre per gli ultimi due pianeti ha avuto l’esclusiva. Infine, anch’essa sta proseguendo il suo viaggio verso lo spazio interstellare, ma ad una velocità più bassa rispetto a quella della Voyager 1. Nell’estate del 1989 raccolse storici filmati durante il passaggio ravvicinato con Nettuno e la sua luna Tritone. Ora, a 25 anni da quell’evento, i dati sono stati “restaurati” e utilizzati da Paul Schenk, scienziato presso il Lunar and Planetary Institute a Houston, per realizzare la prima mappa a colori di quel bizzarro satellite naturale. Oltre alla mappa è stato anche realizzato un bellissimo video, che vi riporto qui di seguito.

gennaio 2016

FONTI:

https://voyager.jpl.nasa.gov/

Planet Nine: un nuovo pianeta nel Sistema Solare?

Se n’è parlato molto in queste settimane: il nostro Sistema Solare potrebbe avere un nono inquilino, il cosiddetto (nominato in fretta e furia) “Planet Nine”. Molti quotidiani sono usciti con titoloni che annunciavano la scoperta di un nuovo pianeta, ma le cose non stanno proprio così in realtà: la ricerca promette bene, ma di certo per ora non c’è nulla. Cosa si è scoperto quindi e cosa c’è di vero in questa notizia? Scopriamolo insieme!

Konstantin Batygin e Mike Brown, due ricercatori del Caltech, il Californian Institute of Technology, hanno pubblicato su “The Astronomical Journal” uno studio secondo il quale il nostro Sistema Solare potrebbe avere, oltre l’orbita di Plutone (che però, ricordo, è un pianeta nano), un nono pianeta dalle dimensioni di dieci volte la Terra. Secondo alcune simulazioni al computer e i dati a disposizione dei ricercatori, si registrano infatti delle anomalie nelle orbite di alcuni oggetti celesti che orbitano oltre Nettuno (nello specifico, sei corpi celesti nella fascia di Kuiper), il che lascia presagire l’esistenza di una massa molto grande (secondo i calcoli, una decina di volte la Terra appunto) che, con il proprio campo gravitazionale, interagisce con tali oggetti modificandone l’orbita rispetto alle traiettorie attese. Le ipotesi prese in considerazione per spiegare il fenomeno sono state numerose, ma a mano a mano che lo studio procedeva, nessuna è risultata tanto convincente quanto la presenza di un pianeta gigante, battezzato per l’occasione “Planet Nine”. Esso si troverebbe a una distanza di circa 30,5 miliardi di chilometri di distanza dal Sole, ovvero 200 volte la distanza che c’è tra noi e il Sole, e impiegherebbe tra i 10 e i 20 mila anni per compiere un giro completo intorno alla nostra stella.

I ricercatori del Caltech non sono però i primi ad ipotizzare la presenza di un altro pianeta nel nostro piccolo quartiere galattico; già nel 2014 Trujillo e Scott Sheppard del Carnegie Institution for Science argomentarono su Nature che la loro scoperta del pianeta nano 2012 VP113, insieme all’esistenza di altri piccoli oggetti precedentemente identificati nel Sistema Solare esterno, suggeriva la possibile presenza di un ulteriore corpo celeste di dimensioni maggiori. Altro caso famoso nella storia dell’astronomia è quello del “Pianeta X”: ipotizzato inizialmente dall’astronomo statunitense Percival Lowell nel 1909, la sua ricerca è continuata per un paio di decenni ed è poi sfociata nella scoperta di Plutone nel 1930 ad opera di Clyde Tombaugh. In realtà le dimensioni di Plutone non sono compatibili con le previsioni fatte da Lowell, ma ciò in realtà è dovuto ad alcuni errori commessi dallo stesso Lowell nel calcolo delle perturbazioni gravitazionali delle orbite di Nettuno e Urano. Le ricerche del Pianeta X compiute negli anni successivi non hanno portato ad alcun risultato.

Ora che abbiamo capito qualcosa riguardo a questo nuovo possibile pianeta viene però da chiedersi: ma se è così grande, come mai non lo abbiamo mai visto? Innanzitutto, occorre precisare che nonostante la potenza dei telescopi odierni sia incredibilmente elevata, esistono comunque dei limiti di natura tecnica: tale pianeta infatti (ipotizzandone quindi l’esistenza) rifletterebbe una minima parte della luce solare, trovandosi a così grande distanza dalla nostra stella, e ciò renderebbe quindi molto difficile individuarlo. Occorre inoltre precisare che l’analisi delle immagini acquisite dai più grandi telescopi del mondo, come quelli presenti alle Hawaii, non viene quasi mai effettuata da un essere umano, di conseguenza gli algoritmi di ricerca potrebbero averlo scartato in quanto non conforme all’obiettivo della ricerca in corso.

La domanda più importante che dobbiamo però farci ipotizzando un eventuale Planet Nine è: ma è davvero un pianeta? Può sembrare banale e scontato, ma capire cos’è un pianeta e comprendere quindi come identificarne uno non è facile quanto sembra. A conferma di ciò possiamo portare il famoso caso di Plutone e il dibattito che da anni è aperto sul fatto che esso debba essere ritenuto un pianeta oppure un pianeta nano. A risolvere la confusione su questa questione è stata l’Unione Astronomica Internazionale che il 24 agosto 2006 a Praga è intervenuta per chiarire finalmente la definizione di pianeta. Secondo quindi la definizione ufficiale, si definisce “pianeta” un corpo celeste che rispetti tutte e tre le seguenti condizioni:

  • deve orbitare intorno al Sole (e non intorno a un altro corpo celeste, come accade per le lune);
  • deve avere una massa sufficientemente grande, tale per cui la forza di gravità permetta di raggiungere l’equilibrio idrostatico, ossia una forma quasi sferica (il che avviene circa intorno ai 1000 chilometri di diametro);
  • deve aver “spazzato” la propria orbita, ovvero non devono essere presenti altri corpi minori nei dintorni della sua orbita.

Tali regole hanno portato ad un acceso dibattito nella comunità scientifica e hanno avuto come conseguenza il declassamento del già citato Plutone, entrato a far parte dei cosiddetti “pianeti nani”. Tale pianetino infatti non ha ripulito la propria orbita e quindi non può più essere considerato un pianeta. Nella categoria dei pianeti nani vengono ad oggi ufficialmente riconosciuti 5 corpi celesti: Plutone, Haumea, Cerere, Makemake ed Eris. Al contrario di quello che si può pensare, tale definizione non è data dalla pura convenienza, ma è utile anche per identificare i processi di formazione dei vari corpi celesti. I pianeti del Sistema Solare si sono infatti formati al suo interno e ciò risulta anche nel fatto che il loro perielio si trova all’interno del Sistema Solare stesso. Per quanto riguarda i pianeti nani invece sembra che la loro formazione sia avvenuta all’esterno del Sistema Solare e che siano stati successivamente attratti dal campo gravitazionale del Sole o degli altri pianeti.

Se dovessimo quindi mai scoprire effettivamente Planet Nine dovremmo quindi anche verificare che rispetti tutte e tre le regole elencate in precedenza per poter entrare a far parte della famiglia dei pianeti.

Insomma, esistono alcuni indizi concreti a favore dell’esistenza di Planet Nine, ma l’eventuale scoperta non è ancora avvenuta. I due ricercatori hanno dato notizia del loro studio proprio per incoraggiare gli astronomi di tutto il mondo a cercare questo pianeta e confermarne quindi eventualmente la scoperta. Nell’attesa che i telescopi che abbiamo a disposizione scandaglino il cielo alla ricerca di questo “fuggitivo”, cerchiamo di non fantasticare troppo, anche se, come diceva Agatha Christie, “un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”.

febbraio 2016

FONTI:

http://iopscience.iop.org/article/10.3847/0004-6256/151/2/22/meta

http://www.nature.com/nature/journal/v507/n7493/full/nature13156.html

http://www.iau.org/

Proxima b: guida galattica per i sognatori

Nella recensione di “Dove sono tutti quanti?” (nota: vedi “Extra” in fondo al libro) abbiamo parlato di esopianeti e di come si possa comprendere se un pianeta lontano anni luce da noi possa essere abitabile o favorevole alla vita come la conosciamo. La speranza di trovare un giorno un pianeta simile al nostro, e magari pure abitato da qualche vicino galattico, rimane sempre molto elevata, ma si scontra inevitabilmente con le dimensioni inimmaginabili dell’Universo e con la limitatezza dei nostri mezzi tecnologici. Da poco però, gli scienziati dell’ESO hanno annunciato di aver scoperto un pianeta simile alla Terra (chiamato Proxima b) intorno alla stella più vicina al Sole, Proxima Centauri. Ma la domanda è: quanto simile? Cosa sappiamo di Proxima b? Come al solito, proviamo a fare chiarezza.

La stella più vicina alla nostra (rullo di tamburi…il Sole!) si trova a soli 4 anni luce da noi, il suo nome è Proxima Centauri. Questa stella forma insieme ad altre due stelle più grandi, Alpha Centauri e Beta Centauri un sistema triplo. Tuttavia, è proprio intorno a quella più vicina a noi che gli astronomi dell’ESO (European Southern Observatory) hanno appena scoperto un pianeta, Proxima b. Stando ai dati raccolti, questo pianeta è di tipo roccioso, è grande circa 1,3 volte la Terra e orbita intorno alla sua stella in appena 11 giorni. Proxima Centauri è una piccola nana rossa e quindi, nonostante Proxima b sia molto vicino ad essa, non viene surriscaldato dalle radiazioni, ma anzi si trova in quella che gli scienziati chiamato “Goldilocks Zone”, ovvero quella zona intorno a una stella che permette l’esistenza di acqua allo stato liquido e condizioni potenzialmente favorevoli alla vita come la conosciamo. Facendo un paragone con il nostro Sistema Solare, la Terra si trova nella sopracitata Goldilocks Zone, in quanto su di essa l’acqua è presente allo stato liquido, e la radiazione solare è sufficiente a scaldarci, ma non a bruciarci. Sempre proseguendo il paragone, mentre la Terra si trova a circa 150 milioni di chilometri dal Sole, Proxima b è distante solo 7 milioni di chilometri dalla sua stella. Se fate caso ai dati citati, notate quindi che le somiglianze con la Terra non sono poi molte (l’acqua è possibile che ci sia, ma non ne siamo sicuri…e non sappiamo neanche se ha un atmosfera!), quindi mi dispiace, molto probabilmente Proxima b non è una Terra-bis. Una conferma è data dal fatto che Proxima Centauri non è una stella tranquilla come il nostro Sole, ma ogni tanto spruzza nello spazio circostante raggi X e altre particelle, oltre a una buona dose di raggi ultravioletti, i quali bloccherebbero sul nascere ogni tentativo di comparsa della vita su Proxima b. Non voglio però smontare tutti gli entusiasmi, ulteriori studi certamente permetteranno di saperne di più e chissà che magari le cose siano diverse da come immaginiamo. Carichi di speranze, allora, facciamo le valigie e mettiamoci in viaggio, destinazione Proxima b. Già, ma come facciamo ad arrivarci?

Nel paragrafo precedente abbiamo detto che Proxima b dista “solo” 4 anni luce dalla Terra. Il “solo” è riferito alle distanze galattiche e intergalattiche, che sono anche enormemente più grandi di così, ma per le tecnologie attuali non sono affatto pochi. Ci vorrebbero infatti 4 anni viaggiando alla velocità della luce, limite insuperabile (per la teoria della relatività) e tecnologicamente irraggiungibile da parte dell’uomo. Con le tecnologie attuali se ci mettessimo su una navicella e la puntassimo verso Proxima b impiegheremmo circa 100 mila anni a raggiungerlo! Nello stesso tempo impiegato da noi per arrivare a Proxima b, la luce è capace di attraversare tutta la Via Lattea, che ha un’ampiezza di circa 100 mila anni-luce appunto. No, direi quindi che pensare di raggiungere questo pianeta con una missione umana non sia fattibile, almeno per il momento. Qualcuno ha altre idee? Beh, ovvio, neanche da chiedere! Il miliardario russo Yuri Milner, con la collaborazione del fisico Stephen Hawking, ha messo a punto un piano per raggiungerlo in circa 40 anni. La sua idea è quella di utilizzare delle piccolissime e leggerissime sonde spaziali, dotate anche di fotocamere per scattare qualche bella cartolina, che viaggiando a una velocità di circa il 10-20% rispetto a quella della luce, permettano di raggiungere Proxima b in tempi umani. Il programma StarShot, così è chiamato, prevede che queste piccole navicelle siano spinte da dei potenti raggi laser posizionati sulla Terra.

La grandeur di certi miliardari, insomma, non smette mai di stupire, ma chissà, magari sarà proprio grazie a lui che riusciremo a sbirciare da vicino nel nostro vicinato galattico.

settembre 2016

FONTI: http://www.nature.com/nature/journal/v536/n7617/full

http://www.media.inaf.it/2016/08/24/proxima-centauri-pianeta-vicino/

/nature19106.html                       http://www.eso.org/public/news/eso1629/

https://www.sciencenews.org/blog/context/visits-proxima-centauri-planet-probably-millennia-away

C’è vita sulla Terra?

No, non c’è un errore nella domanda, se è questo che state pensando. Ma allora che senso ha chiedersi se c’è vita sulla Terra? Certo che c’è: la vediamo! È proprio questo il punto: noi stessi siamo “vita” nel nostro pianeta e, vivendoci sopra, non possiamo che osservare facilmente il prodotto di un’evoluzione durata pressappoco 4,5 miliardi di anni, che ha portato le prime molecole organiche costituenti della vita, gli amminoacidi, ad aggregarsi per formare proteine, cellule e poi organismi complessi. Tuttavia, rispondere a questa domanda, uscendo dai riferimenti convenzionali, può esserci utile per l’analisi e lo studio di quelli che vengono definiti “pianeti extrasolari”, ovvero quei pianeti che si trovano all’esterno del nostro Sistema Solare e compiono un moto di rivoluzione intorno ad altre stelle. Il loro numero aumenta di giorno in giorno grazie alla potenza crescente dei telescopi che abbiamo a disposizione: di conseguenza, individuare dei fattori discriminanti per comprendere se su alcuni di essi possa essersi sviluppata la vita, non può che fornirci risorse preziose nella loro classificazione, al fine di scovare finalmente nell’Universo il nostro amico extraterrestre. Ecco quindi che lo studio dell’unico pianeta su cui siamo certi si sia sviluppata la vita, la Terra appunto, è di fondamentale importanza. Per fare questo dovremo però analizzare il nostro pianeta da un punto di vista “esterno” e “non condizionato”, ovvero chiederci: se potessimo osservare la Terra da lontano, trattandola quindi come un pianeta lontano, essa ci apparirebbe abitabile? Quali sono le tracce che la vita lascia dietro di sé? Apparentemente può risultare semplice rispondere a queste domande, ma nella realtà dei fatti incrociare i dati e le osservazioni al fine di trovare risposte con un basso margine di errore non è così semplice.

Il Lunar Crater Observation and Sensing Satellite (LCROSS) della NASA è una sonda spaziale che è stata lanciata il 18 giugno 2009 con lo scopo di rilevare la presenza di eventuali depositi di ghiaccio in alcune regioni costantemente in ombra dei poli lunari, tramite l’osservazione dell’impatto sulla superficie della Luna dello stadio superiore del razzo vettore Centaur. L’analisi spettrale del pennacchio di detriti sollevato da tale impatto ha evidenziato la presenza di idrogeno e di acqua in misure spettroscopiche comprese tra l’infrarosso e l’ultravioletto (circa 100 Kg di acqua in un cratere del diametro di 20 metri), confermando quindi le attese e i risultati della precedente missione Clementine. Ma cosa c’entra tutto ciò con la ricerca della vita? Come spesso accade per le missioni spaziali, il LCROSS destò la curiosità degli scienziati che decisero quindi di utilizzarlo anche per altri scopi. In un’estensione del progetto iniziale, ci si chiese quindi se questa sonda potesse rivelare la presenza di acqua (elemento essenziale per la vita come la conosciamo) anche sulla Terra, specie dopo aver osservato che gli oceani terrestri riflettono la luce del Sole con un fenomeno che prende il nome di scintillio. La sonda effettuò quindi tre sessioni di osservazione nel 2009 e lo studio dei dati si mostrò fin da subito molto interessante. In particolare, gli scienziati notarono una grande differenza tra i risultati ottenuti e le aspettative. Infatti, da alcune osservazioni compiute a Terra riguardo al fenomeno della “luna cinerea” (che si verifica quando la luce del Sole viene riflessa dalla Terra e illumina la parte in ombra della Luna) ci si aspettava uno scintillio molto più forte rispetto a quello registrato. Dall’analisi dello spettro, inoltre, la riflessione si era rivelata più debole in alcune lunghezze d’onda, come se fosse stata in parte schermata dall’atmosfera.

Nello studio dei criteri di abitabilità di un esopianeta, quindi, l’analisi del “luccichio” non si rivelerebbe risolutiva, in quanto passibile di influenza da parte di altri fattori, come nuvole o calotte ghiacciate nelle regioni polari. Sarebbe quindi necessario affiancare allo scintillio altri fattori che costituiscano un segno quasi inequivocabile della presenza della vita. Un buon candidato è sicuramente l’ozono che, nella stessa missione, è stato osservato principalmente nelle frequenze dell’ultravioletto. Ci sono però anche altri ottimi bio-indicatori di cui tenere conto, ovvero, a titolo di esempio, l’ossigeno, il metano e l’anidride carbonica, che rappresentano delle vere e proprie tracce chimiche che la vita lascia nell’ambiente. Ci sono però altre due condizioni che dobbiamo tenere in considerazione: se la vita che andiamo cercando è anche vita “intelligente” allora vi sono anche altre tracce che possiamo cercare (per esempio i segnali radio emessi dalle telecomunicazioni, come sta facendo da anni il progetto SETI). Inoltre, nessuno ci garantisce che su altri pianeti la vita non possa essersi sviluppata a partire da altri componenti, come la chimica inorganica, e in altre modalità a noi sconosciute.

Per costruire i prossimi telescopi per lo studio dei pianeti extrasolari avremo bisogno, oltre che di nuove tecnologie, anche e soprattutto delle abilità necessarie al loro utilizzo, abilità che possiamo acquisire solamente interrogandoci in modo continuativo sui meccanismi che hanno generato la vita sulla Terra. E chissà che un giorno non troveremo finalmente la risposta al famoso paradosso di Fermi: se l’Universo brulica di alieni, dove sono tutti quanti?

FONTI:

http://arxiv.org/abs/1405.4557

http://setiathome.ssl.berkeley.edu/

http://www.astrobio.net/news-exclusive/earth-look-like-habitable-planet-afar/

http://www.nasa.gov/mission_pages/LCROSS/main/index.html

L’oroscopo è una c***** pazzesca!

Non so se ci sia bisogno di scriverci un articolo, ma a giudicare dai dati e dalle tendenze attuali, credo proprio di sì, purtroppo. Metà della popolazione italiana lo consulta regolarmente o confida nell’oroscopo; chi “per gioco”, chi “per curiosità” e chi perché “ci crede veramente”. Che sia per diletto o per convinzione, poco importa: l’anno scorso una delle applicazioni più scaricate sugli store digitali italiani (App Store e Google Play) era proprio quella di Paolo Fox, il più noto degli astrologi italiani. Di conseguenza, eccomi qui: perché non dovete credere all’oroscopo.

L’oroscopo affonda le proprie radici nel passato, ed è infatti una zavorra che ci portiamo dietro da tempi immemori e di cui evidentemente non riusciamo proprio a fare a meno. La tentazione di poter predire il futuro e conoscere con anticipo gli eventi che dovranno accadere è d’altronde molto forte in tutti noi; ma se in passato le conoscenze scientifiche erano inferiori e non alla portata di tutti, di certo non si può dire lo stesso dei tempi moderni in cui le informazioni sono accessibili istantaneamente. Come ha detto brevemente Donald Miller: “Nell’era dell’informazione, l’ignoranza è una scelta”. Dall’oracolo di Delfi ai fondi di caffè, passando per le viscere degli uccelli, in passato non è davvero mancata la fantasia per quanto riguarda le tecniche di predizione del futuro. Nonostante molte di queste siano ormai scomparse senza lasciare traccia (ma nemmeno tutte, ahimè), l’astrologia resiste stoicamente sulla propria rocca, assediata dai quattro lati e perfino per via aerea.

L’astrologia, che ve lo dico a fare, è quella pseudo-scienza o completo-fesseria (termine di cui detengo ovviamente il copyright, ma ve ne concedo l’utilizzo) che sostiene che gli astri (stelle e pianeti) abbiano una qualche influenza sulle vicissitudini di noi terrestri e permettano quindi di comprendere gli episodi passati o predire quelli futuri. Tralasciando le analogie con altre dottrine simili (me ne viene giusto in mente una nata circa duemila anni fa…), vediamo brevemente di smontare punto per punto queste fandonie.

Le costellazioni. Tanto tempo fa gli antichi non avevano l’iPhone, e neanche la bussola! Escogitarono quindi un sistema per riconoscere le stelle nel cielo e capire da che parte erano girati (beh, in realtà la spiegazione dovrebbe coinvolgere anche la mitologia e la religione, ma adesso non ci interessa): raggrupparono le stelle della volta celeste in gruppi più o meno numerosi e diedero un nome a ciascuno di questi gruppi. Abbiamo quindi l’Orsa Maggiore, la Vergine, la Lira e altre moltissime figure sparse per la volta stellata; probabilmente essi credevano davvero che quei raggruppamenti di stelle assomigliassero a un’orsa o a un leone, o forse erano sotto l’effetto di potenti oppiacei quando le chiamarono così, fatto sta che quelle costellazioni sono giunte fino a noi e vengono ancora oggi utilizzate per comodità di localizzazione dagli astronomi. Il problema, se così si può definire, è che le stelle che appartengono a una stessa costellazione non hanno necessariamente nessuna interazione fra loro se non la fantasia di chi le sta osservando. Potrebbero quindi benissimo essere presenti in una stessa costellazione due stelle a distanze immense l’una dall’altra (e anzi, è proprio così!) che per casualità geometriche e di prospettiva ci appaiono nel cielo con una certa distanza reciproca di pochi gradi. Potrebbe addirittura accadere che una di queste stelle sia a una distanza talmente elevata da noi che magari è già morta, ma la luce della sua esplosione non ci è ancora arrivata e quindi la vediamo brillare nella notte come se niente fosse. Le costellazioni, uno dei pilastri dell’oroscopo, sono quindi una costruzione umana e non hanno alcun significato fisico.

Il segno zodiacale. Le costellazioni non sono visibili tutto l’anno (tranne quelle intorno alla Stella Polare, dette circumpolari), ma girano nel cielo notturno e diurno e si alternano durante le stagioni. Accade così che la loro posizione rispetto al Sole cambi a seconda del periodo dell’anno. In particolare, c’è un periodo dell’anno in cui una a turno di un certo gruppo di costellazioni si trova dietro il Sole (per noi che guardiamo il Sole dalla Terra): queste si chiamano appunto “Costellazioni dello Zodiaco” e sono tutte localizzate lungo l’eclittica, che è la linea che traccia il percorso apparente del Sole nel cielo. Ipoteticamente quindi, se io fossi del segno del Leone, significherebbe che quando sono nato io il Sole era proiettato nella costellazione del Leone. Ora, si potrebbe pensare che essendo 12 i mesi dell’anno, siano per questo 12 i segni zodiacali, ma…sbagliato! Beh, che c’è di sbagliato stavolta!? I mesi sono 12 e i segni zodiacali pure, prendi e porta a casa! Mi spiace deluderti amico, ma i segni zodiacali in realtà… sono 13! Se seguiamo infatti il percorso del Sole incontriamo 13 costellazioni. Tutti infatti si dimenticano del povero Ofiuco. Quindi amici miei, se siete nati tra il 30 novembre e il 17 dicembre ora lo sapete: il vostro segno è l’Ofiuco (dai che non è un segno così brutto dopotutto)! L’introduzione di questo tredicesimo segno zodiacale, in realtà noto da tempo immemore agli astronomi, sposta di conseguenza tutte le altre date. Quindi, anche ipotizzando che l’oroscopo dica la verità, state leggendo il segno zodiacale sbagliato! Ma c’è un’altra ragione per cui l’oroscopo che state leggendo non è quello del segno giusto: a causa di un fenomeno chiamato precessione degli equinozi, le date dei segni zodiacali sono diverse da quelle a cui i segni attuali si riferiscono. Le date attuali infatti derivano da quelle originarie fissate ai tempi dei babilonesi, ma nel frattempo la posizione delle stelle sulla sfera celeste è cambiata, e così anche il periodo dell’anno in cui sono visibili. Insomma, se vi vergognate a dire che siete della Vergine, beh dai, potete controbattere che in realtà il vostro segno è il Leone: questo sì che è un segno da macho.

Le influenze di stelle e pianeti. Non per fare il guastafeste, ma dopo che abbiamo distrutto il calendario agli astrologi, sfasciamo pure quel poco che rimane della baracca e non se ne parli più. Secondo gli astrologi, stelle e pianeti esercitano su di noi una certa influenza che è in grado di modificare l’andamento degli eventi e delle nostre vite. E come, ci è dato saperlo? Vediamo, l’etere è uscito di scena più di un secolo fa, quindi su quello non possiamo fare affidamento. Cavi invisibili forse? Mi sento di escluderli. Divinità pagane? Mi affascinano, ma non fanno per me. Cosa ci rimane dunque? Boh, proviamo con la forza di gravità e vediamo se funziona. Prendiamo una stella qualunque, Sirio. Dati presi da Wikipedia: massa di 4,289 × 1030 [kg], distanza dalla Terra 8,611 anni luce. Prendiamo una persona a caso: Maria. Anche se è una donna e il peso non si dice (ma in realtà vogliamo sapere la massa… non fateci caso, scusate, sono sottigliezze da scienziati), in questo caso ci serve quindi al bando le galanterie: 55 kg. Prendiamo ora la formula della gravitazione universale di Newton: “la forza di gravità scambiata reciprocamente tra due masse è direttamente proporzionale al prodotto delle due masse tramite una costante universale G e inversamente proporzionale al quadrato della distanza che le separa”. Calcoli alla mano, la forza di gravità scambiata tra Maria e Sirio è pari a 2,22 × 10-12 [N]. Se considerate che la forza che Maria scambia con la Terra è di 539 [N] capite bene che l’influenza gravitazionale che Sirio esercita su Maria è ridicola ed è per questo che è decisamente trascurabile e priva di significato.

È stata dura, ma siamo giunti alla fine. Se non ci siete arrivati spero sia perché per voi queste cose sono banalità e non avevate voglia di leggervi tutta questa pappardella. Altrimenti, spero vi sia servito per mettervi in guardia da cialtroni e altri furfanti. Naturalmente il titolo trae ispirazione dal mitico ragionier Fantozzi. In un titolo sta male scrivere certe parole (dicono), ma qui in fondo, ammesso che qualcuno arrivi a leggerlo, possiamo finalmente dirlo: “L’oroscopo è una cagata pazzesca!!

FONTI:

http://www.wired.it/play/cultura/2015/01/07/dobbiamo-liberarci-dalloroscopo/

http://www.wired.it/scienza/spazio/2015/03/27/segni-zodiacali-ofiuco-oroscopo-bufala/

http://www.linkiesta.it/it/article/2016/01/02/basta-interrogare-le-stelle-gli-oroscopi-non-servono/28767/

http://www.ilpost.it/2011/01/17/ofiuco-oroscopo/

https://www.cicap.org/n/articolo.php?id=271871

A cosa serve la ricerca spaziale?

A cosa serve la ricerca spaziale? In tanti me l’hanno chiesto spesso, e forse non ho mai risposto in maniera approfondita come avrei voluto. Le argomentazioni che vengono rivolte contro la ricerca e l’esplorazione spaziale sono spesso del tipo “è un immenso spreco di denaro”. Non è affatto così, e spero con questo articolo di riuscire a convincere anche voi dell’importanza di fare ricerca in questo campo.

La ricerca spaziale è un inutile spreco di denaro, porta via un sacco di risorse preziose. Ogni anno si spendono più di 1500 miliardi di dollari in spese militari, di cui circa 650 solo negli USA. Le agenzie spaziali di tutto il mondo, nel complesso, ricevono invece finanziamenti per circa 25-30 miliardi di dollari all’anno. La ricerca spaziale ha quindi un budget che è inferiore al 2% di quello militare globale. Nel 2015 la NASA è stata finanziata dal governo americano con 18,01 miliardi di dollari, ovvero lo 0,49% del budget federale approvato di 3688 miliardi di dollari. Insomma, briciole.

La ricerca spaziale non ha ricadute utili. Chi ha questa convinzione (spero in buona fede) è evidentemente poco informato sulla realtà delle cose. Moltissimi degli oggetti che utilizziamo ogni giorno qui sulla Terra sono infatti figli della ricerca e dell’esplorazione spaziale, e derivano direttamente o indirettamente dalle tecnologie sviluppate dalla NASA o dalle altre agenzie per le missioni spaziali. Ecco un breve elenco, non esaustivo:

  • L’ABS dell’automobile, il sistema di sicurezza che evita il bloccaggio delle ruote dei veicoli durante le frenate.
  • I macchinari a raggi X e risonanze magnetiche utilizzati in ambito ospedaliero.
  • Lo smartphone, e in particolar modo le tecnologie hardware connesse alla potenza di calcolo.
  • Il “cmos”, una tecnologia elettronica per la progettazione dei circuiti integrati e ampiamente utilizzata, ad esempio, nelle comuni macchine fotografiche digitali per trasformare l’immagine catturata dall’obiettivo in un segnale elettrico.
  • Il GPS e le comunicazioni su grande distanza.
  • Il bluetooth.
  • I coagulometri tascabili che permettono a chi affronta terapie anticoagulanti di tenere sotto controllo lo stato del proprio sangue.
  • Le protesi leggere e resistenti, costruite grazie all’AMS-2, il rilevatore di particelle che va a caccia di antimateria e materia oscura sulla Stazione Spaziale Internazionale.
  • I visori termografici a infrarossi utilizzati dai Vigili del Fuoco per localizzare i focolai e le persone da soccorrere durante gli incendi.
  • Gli scarponi da neve (“Moon Boot”).
  • Il Cronidur30, una speciale lega di acciaio impiegata per realizzare coltelli, lame e strumenti chirurgici.
  • Alcune tecnologie software utilizzate nei programmi di “fotoritocco”, sviluppate dalla NASA per elaborare le immagini scattate alla partenza dello Space Shuttle.
  • Molti dei migliori materiali isolanti, come l’Aerogel.
  • Il Warp10, un dispositivo per il trattamento dei dolori muscolari e articolari.
  • Il Vad, un dispositivo medico portatile che aiuta il pompaggio del sangue nei pazienti che sono in attesa di un trapianto cardiaco.
  • Il lattice a memoria di forma (“memory foam”), oggi utilizzato in cuscini, materassi ed elmetti protettivi.
  • Alcuni nutrienti presenti nel latte artificiale per i neonati.
  • L’aspirapolvere senza fili.
  • I cibi liofilizzati.
  • I pannelli solari.
  • Le coperte termiche utilizzate per i pazienti in ipotermia.
  • Molti materiali ignifughi (resistenti al fuoco).
  • Alcune tecnologie utilizzate negli impianti cocleari che servono a restituire l’udito a molti bambini che nascono con questa disabilità.

Sulla Terra abbiamo problemi ben più importanti, rispetto a sapere se c’è un po’ di ghiaccio su Marte. In realtà, molti dei problemi che abbiamo qui sulla Terra sono stati risolti, o potranno essere risolti in futuro, con le applicazioni derivanti dalla ricerca spaziale. Sulla Stazione Spaziale Internazionale, per esempio, fra i tanti esperimenti che sono stati compiuti, la Argotec, un’azienda di Torino, ha potuto effettuare degli studi per migliorare il riscaldamento e la produzione di energia anche riducendo i consumi, una tematica indubbiamente attuale per il nostro pianeta. Il bello della ricerca di base, sia essa spaziale o di altro tipo, è che porta sempre a nuove applicazioni e tecnologie, oltre che a ricadute importanti per la vita quotidiana. Certo, bisogna avere la pazienza di aspettare, perché alcuni progetti sono a lungo termine o potrebbero avere ricadute non nell’immediato, ma il ritorno economico c’è sempre. La ricerca si ripaga da sola, basta non avere fretta. Chissà che mondo sarebbe oggi senza tutte le tecnologie sviluppate nella corsa allo spazio del secolo scorso (vedi elenco al punto 2); magari molte sarebbero state inventate comunque, ma è fuori discussione che la ricerca spaziale sia stata un’attrattiva e un incentivo non indifferente al loro sviluppo.

Se queste motivazioni non fossero abbastanza, voglio riportarvi qui di seguito un testo classico che viene sempre citato quando si tratta di spiegare le ragioni e l’importanza della ricerca spaziale. Nel 1970, una suora attiva nello Zambia scrisse una lettera a Ernst Stuhlinger, allora direttore scientifico della NASA. Non sappiamo il contenuto della lettera della suora, ma possiamo ipotizzare che gli avesse chiesto se non fosse meglio destinare il denaro utilizzato per la ricerca spaziale ad altre cause qui sulla Terra. La risposta di Ernst Stuhlinger, che non voglio riassumervi perché è bella così e va letta interamente, è la seguente:

6 maggio 1970

Cara suor Maria Gioconda,

la sua è una delle tante lettere che ricevo ogni giorno, ma mi ha toccato più profondamente delle altre perché viene da un cuore compassionevole e da una mente profonda. Cercherò di rispondere meglio che posso alla sua domanda.

Prima, tuttavia, desidero esprimere la mia grande ammirazione per lei e per tutte le altre sue coraggiose sorelle, perché state dedicando le vostre vite alla più nobile causa umana: aiutare il proprio prossimo in difficoltà.

Lei chiede nella sua lettera come abbia potuto proporre la spesa di miliardi di dollari per organizzare un viaggio su Marte, in un momento in cui molti bambini su questa Terra muoiono di fame. Lo so che non si aspetta una risposta del tipo “Oh, non sapevo che ci fossero bambini che muoiono di fame, d’ora in poi mi asterrò dalla ricerca spaziale fino a quando il genere umano non avrà risolto la questione!”. In effetti, ho iniziato a essere a conoscenza del problema della fame nel mondo ben prima di sapere che fosse tecnicamente possibile un viaggio verso Marte. Tuttavia, credo – come molti altri miei amici – che viaggiare verso la Luna e forse un giorno verso Marte e altri pianeti sia un’iniziativa che dovremmo affrontare ora, e penso anche che questo tipo di progetti, nel lungo termine, possano contribuire alla soluzione dei gravi problemi che affliggono la Terra molto di più di altri progetti discussi ogni anno, e che portano spesso a risultati tangibili solo dopo molto tempo.

Prima di spiegarle come il nostro programma spaziale possa contribuire alla soluzione dei problemi qui sulla Terra, vorrei raccontarle una storia che pare sia vera e che potrebbe aiutarla a comprendere l’argomento. Circa 400 anni fa, in una cittadina della Germania viveva un conte. Era uno di quei nobili buoni ed era solito dare buona parte dei propri guadagni ai suoi concittadini poveri: erano gesti molto apprezzati, perché c’era molta povertà e le ricorrenti epidemie causavano seri problemi. Un giorno, il conte incontrò uno sconosciuto. Aveva un banco di lavoro e un piccolo laboratorio nella sua abitazione, lavorava sodo di giorno per avere qualche ora ogni sera per lavorare nel suo laboratorio. Metteva insieme piccole lenti ottenute da pezzi di vetro; le montava all’interno di alcuni cilindri e le utilizzava per osservare oggetti molto piccoli. Il conte fu affascinato da ciò che si poteva vedere attraverso quegli strumenti, cose che non aveva mai visto prima. Invitò l’uomo a trasferire il suo laboratorio nel castello, diventando un incaricato speciale per la realizzazione e il perfezionamento dei suoi strumenti ottici.

La gente in città, tuttavia, si arrabbiò molto quando capì che il conte stava impegnando il proprio denaro in quel modo senza uno scopo preciso. «Soffriamo per la peste», dicevano, «mentre lui paga quell’uomo per i suoi passatempi inutili!». Ma il conte rimase fermo sulle sue posizioni. «Vi do tutto quello che posso», disse, «ma darò sostegno anche a quest’uomo e al suo lavoro, perché sento che un giorno ne verrà fuori qualcosa di buono!».

E in effetti qualcosa di buono avvenne, anche grazie al lavoro di altre persone in diversi luoghi: l’invenzione del microscopio. È noto che questa invenzione ha contributo più di molte altre idee al progresso della medicina, e che l’eliminazione della peste e di altre malattie contagiose in molte parti del mondo sia stata possibile in buona parte grazie agli studi resi possibili dal microscopio. Dedicando parte del proprio denaro alla ricerca e alla scoperta di nuove cose, il conte contribuì molto di più a dare sollievo dalla sofferenza umana rispetto a ciò che avrebbe potuto fare dando tutto i propri soldi ai malati di peste.

La situazione cui ci troviamo davanti oggi è simile in molti aspetti a quella che le ho appena raccontato. La presidenza degli Stati Uniti spende circa 200 miliardi di dollari nel proprio bilancio annuale. Questi soldi vanno alla salute, all’istruzione, allo stato sociale, al rinnovamento delle strutture urbane, alle autostrade, ai trasporti, agli aiuti all’estero, alla difesa, alla conservazione del territorio, alla scienza, all’agricoltura e a molte altre realtà all’interno e all’esterno del paese. Circa l’1,6 per cento del budget è stato destinato alla ricerca spaziale quest’anno. Il programma spaziale comprende il Progetto Apollo e molti altri progetti più piccoli legati alla fisica dello spazio, all’astronomia, alla biologia nello spazio, allo studio dei pianeti, all’analisi delle risorse della Terra e all’ingegneria spaziale. Per rendere possibile questa spesa per il programma spaziale, lo statunitense medio con un reddito annuo di 10mila dollari paga circa 30 dollari, con le imposte, per il programma spaziale. Il resto dei suoi soldi, 9.970 dollari, rimangono per la sua sussistenza, per il pagamento di altre imposte, il suo divertimento e per i suoi risparmi.

Ora lei probabilmente mi chiederà: “Perché non prendete 5 o 3 o 1 dollaro di questi 30 pagati dal contribuente medio e non li destinate ai bambini che muoiono di fame?”. Per rispondere a questa domanda, devo spiegarle brevemente come funziona l’economia in questo paese. La situazione è inoltre molto simile in altri paesi. Il governo è costituito da una serie di ministeri (Interno, Giustizia, Salute, Educazione, Stato Sociale, Trasporti, Difesa, eccetera) e da alcuni uffici (National Science Foundation, National Aeronautics and Space Administration e altri). Tutti questi ogni anno preparano un budget sulla base degli incarichi che hanno ricevuto, e ognuno deve poi difendere il proprio budget dal meticoloso lavoro di controllo delle Commissioni del Congresso e dall’Ufficio che si occupa del budget nazionale e dalla presidenza. Quando i fondi sono infine destinati dal Congresso, li possono spendere solamente per le cose specificate nel bilancio.

Il budget della NASA, naturalmente, può essere organizzato solamente per la spesa di risorse legate direttamente all’aeronautica e allo spazio. Se questo budget non venisse approvato dal Congresso, i fondi proposti non utilizzati non diventerebbero disponibili per qualcos’altro; non sarebbero semplicemente prelevati dai contribuenti, salvo la destinazione di quei fondi per l’espansione del budget di un altro ufficio/ministero. Capirà da questa breve descrizione che il sostegno per i bambini affamati, o meglio un aumento dell’impegno profuso già dagli Stati Uniti per questa nobile causa nella forma di aiuti verso l’estero, può essere solo ottenuto se il ministero competente fa richiesta per una linea di credito a questo scopo, e solo se la richiesta viene poi approvata dal Congresso.

Ora lei potrebbe chiedermi se io sia a favore o meno di una mossa di questo tipo da parte del nostro governo. La mia risposta è un sì convinto. Difatti, non avrei alcun problema nel sapere che le mie tasse vengono aumentate di qualche dollaro allo scopo di sfamare i bambini affamati, ovunque si trovino.

So che tutti i miei amici la pensano allo stesso modo. Tuttavia, non potremmo portare in vita un simile programma semplicemente rinunciando a fare progetti per i viaggi verso Marte. Al contrario, penso addirittura che lavorando al programma spaziale posso dare il mio contributo per alleviare e forse risolvere gravi problemi come la povertà e la fame sulla Terra. Alla base del problema della fame ci sono due fattori: la produzione di cibo e la distribuzione del cibo. La produzione del cibo attraverso l’agricoltura, l’allevamento, la pesca e altre operazioni su larga scala è efficiente in alcune parti del mondo, ma radicalmente disastrosa in molte altre parti. Per esempio: le grandi aree di terreno potrebbero essere utilizzate molto meglio se venissero applicati sistemi più efficienti di irrigazione, di fertilizzazione, di previsione del tempo, di piantumazione, di selezione dei campi, di calcolo dei tempi per le coltivazioni e di pianificazione.

Il miglior strumento per migliorare questi fattori è, indubbiamente, lo studio della Terra con satelliti artificiali. Orbitando intorno al pianeta, i satelliti possono monitorare grandi aree di terreno in poco tempo, possono osservare e misurare l’ampia serie di variabili che indicano lo stato e le condizioni dei campi, del suolo, delle precipitazioni eccetera, e possono inviare queste informazioni sulla Terra. Si stima che anche un piccolo sistema di satelliti con il giusto equipaggiamento possa far aumentare la produzione dei campi per molti miliardi di dollari.

La distribuzione del cibo per chi ne ha bisogno è un problema totalmente diverso. La questione non è tanto legata alla possibilità di distribuire grandi volumi, bensì di cooperazione internazionale. Chi controlla un piccolo paese spesso non è a proprio agio con l’idea di ricevere grandi quantità di cibo inviate da una nazione più grande, semplicemente perché teme che insieme con il cibo arrivi anche una maggiore influenza dall’estero. Un efficiente sollievo dalla fame, temo, non arriverà fino a quando tutti i confini tra le nazioni non saranno diventati più labili di adesso. Non penso che l’esplorazione spaziale porterà a questo miracolo dall’oggi al domani. Tuttavia, il programma spaziale è certamente uno dei più promettenti e potenti elementi che lavorano in questa direzione.

Mi permetta di ricordarle la recente tragedia sfiorata dell’Apollo 13. Quando ci siamo avvicinati al momento cruciale del rientro dei nostri astronauti, l’Unione Sovietica ha interrotto tutte le comunicazioni radio russe sulle bande di frequenza usate dal Progetto Apollo per evitare possibili interferenze, e navi russe hanno stazionato nel Pacifico e nell’Atlantico nel caso fosse stata necessaria un’operazione di recupero di emergenza. Se la capsula che trasportava gli astronauti fosse ammarata vicino a una nave russa, i russi si sarebbero senza dubbio dati da fare al pari di quanto avrebbero fatto se ci fossero state in gioco le vite dei loro cosmonauti. Se i loro viaggiatori nello spazio un giorno si dovessero trovare in condizioni di emergenza simili, gli statunitensi farebbero senza alcun dubbio la stessa cosa.

La maggiore produzione di cibo attraverso sistemi di monitoraggio in orbita, e una migliore distribuzione del cibo attraverso migliori relazioni internazionali, sono due esempi di come il programma spaziale possa influenzare la vita sulla Terra. Vorrei ancora citarle due esempi: lo stimolo a ideare nuove tecnologie, e la creazione di conoscenza scientifica.

Le necessità di alta precisione e affidabilità imposta per i componenti di una navicella spaziale per viaggiare verso la Luna sono state senza precedenti nella storia dell’ingegneria. Lo sviluppo di sistemi che raggiungano questi severi requisiti ci ha dato una grande opportunità per trovare nuovi materiali e metodi, per inventare migliori sistemi tecnologici, per realizzare nuove procedure, per allungare la vita delle strumentazioni, e anche per scoprire nuove leggi della natura.

Tutte queste nuove conoscenze tecniche sono ora disponibili anche per applicazioni legate a tecnologie per la Terra. Ogni anno circa mille nuove innovazioni create dal programma spaziale trovano il loro impiego nelle tecnologie qui sulla Terra, e portano a migliori sistemi per la cucina, per le coltivazioni, a migliori navi e aeroplani, a migliori sistemi per le previsioni del tempo, a migliori comunicazioni, a migliori strumenti sanitari, a migliori utensili e strumenti che usiamo nella vita di tutti i giorni. Probabilmente lei ora si chiederà perché dobbiamo prima sviluppare un piccolo sistema di sostegno per la vita per far viaggiare sulla Luna i nostri astronauti, invece di poter costruire un sensore per monitorare il cuore dei pazienti. La risposta è semplice: i progressi significativi nella soluzione di problemi tecnici non sono spesso realizzati attraverso un approccio diretto, ma tramite obiettivi più grandi e ambiziosi che portano a una maggiore motivazione per l’innovazione, che spingono l’immaginazione oltre e fanno sì che gli uomini diano il loro meglio, e che innescano catene a reazione.

Il volo spaziale senza dubbio riveste questo ruolo. Il viaggio verso Marte non sarà certo una fonte diretta di cibo per sfamare gli affamati. Tuttavia, porterà a così tante nuove tecnologie e potenzialità che le ricadute da questo progetto da sole avranno un valore di molto superiore ai costi.

Oltre alla necessità di nuove tecnologie, c’è la continua grande necessità di realizzare nuove scoperte scientifiche, se vogliamo migliorare le condizioni della vita umana sulla Terra. Abbiamo bisogno di più conoscenze nei campi della fisica, della chimica, della biologia, e soprattutto nella medicina per affrontare tutti quei problemi che minacciano l’esistenza della vita umana: la fame, le malattie, la contaminazione del cibo e delle acque, l’inquinamento e i cambiamenti ambientali.

Abbiamo bisogno di più donne e uomini che scelgono di seguire una carriera scientifica e abbiamo bisogno di un migliore sistema di sostegno per quegli scienziati che dimostrano di avere il talento e la determinazione di impegnarsi in lavori di ricerca fruttuosi. Devono essere raggiungibili obiettivi di ricerca ambiziosi, e deve esserci sostegno a sufficienza per i progetti di ricerca. Di nuovo, il programma spaziale con le sue meravigliose opportunità legate alle ricerche sulle lune e i pianeti, sulla fisica e l’astronomia, sulla biologia e la medicina, è uno stimolo ideale per indurre quella reazione tra lavoro scientifico, opportunità di osservare fenomeni naturali, e il sostegno necessario per portare avanti la ricerca.

Tra tutte le attività che sono dirette, controllate e finanziate dal governo statunitense, il programma spaziale è certamente l’attività più visibile e discussa, anche se consuma solamente l’1,6 per cento del budget nazionale e il 3 per mille del prodotto interno lordo nazionale. Come stimolo per lo sviluppo di nuove tecnologie e per la ricerca nelle scienze non ha altri pari. E per questo, potremmo anche dire che il programma spaziale si sta facendo carico di una funzione assunta per tre o quattro millenni dalla guerra.

Quanta sofferenza umana potrebbe essere evitata dalle nazioni, se invece di competere con il lancio di bombe dagli aeroplani e dai razzi ci fosse una competizione per viaggiare verso la Luna! Questa competizione promette grandi vittorie, ma non lascia spazio all’amara sconfitta che porta a nient’altro che alla vendetta e a nuove guerre.

Anche se il nostro programma spaziale sembra portarci via dalla Terra verso la Luna, il Sole, i pianeti e le altre stelle, penso che nessuno di questi corpi celesti troverà la stessa attenzione dedicata dagli scienziati dello spazio verso la Terra. Avremo una Terra migliore, non solo grazie a tutte le nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche che potremo applicare per migliorare la vita, ma anche perché iniziamo ad apprezzare meglio il nostro pianeta, la vita e l’uomo.

Terra

La fotografia che allego a questa lettera mostra una vista della Terra realizzata dall’Apollo 8 quando era in orbita intorno alla Luna nel Natale del 1968. Di tutti i meravigliosi risultati raggiunti fino a ora dal programma spaziale, questa foto forse è la cosa più importante. Ci ha aperto gli occhi sul fatto che la nostra Terra è una bellissima e preziosa isola sospesa nel vuoto, e che non c’è altro posto per noi in cui vivere se non il sottile strato di superficie del nostro Pianeta, circondato dal nulla scuro dello spazio. Mai così tante persone si erano accorte prima quanto sia limitata la nostra Terra, e quanto sarebbe pericoloso alterare il suo equilibrio ecologico. Da quando questa foto è stata pubblicata, in molti si sono fatti sentire per raccontare i problemi e le sfide per l’uomo di questi tempi: l’inquinamento, la fame, la povertà, la vita nelle città, la produzione di cibo, il controllo delle acque, la sovrappopolazione. Non è sicuramente successo per caso se abbiamo iniziato a renderci conto di queste enormi sfide nel momento in cui l’era spaziale ai suoi primordi ci ha mostrato come appare il nostro Pianeta.

Fortunatamente, l’era spaziale non è solamente uno specchio per vedere noi stessi, è anche una risorsa che ci dà le tecnologie, la motivazione e anche l’ottimismo per affrontare questi problemi con fiducia. Ciò che impariamo dal nostro programma spaziale, penso, segue pienamente ciò che aveva in mente Albert Schweitzer quando disse: “Guardo al futuro con preoccupazione, ma con buona speranza”.

I miei migliori auguri per lei e per i suoi bambini, sempre.

Con viva cordialità,

Ernst Stuhlinger

 

FONTI:

http://www.lettersofnote.com/2012/08/why-explore-space.html

Fai clic per accedere a articolo_silvestro.pdf

http://www.wired.it/scienza/spazio/2016/06/03/tecnologie-nasa-quotiano/?utm_source=facebook.com&utm_medium=marketing&utm_campaign=wired

Ambiente e Biologia

Il parco dell’Himalaya-Karakorum

Qualche anno fa ebbi l’occasione di ascoltare una conferenza tenuta da Manlio Coviello, responsabile delle Nazioni Unite per le risorse energetiche del Sudamerica. I temi che vennero trattati in quell’incontro furono numerosi: dal ruolo italiano nel futuro della ricerca, fino allo sviluppo di nuove tecnologie intelligenti, dal consumo dei combustibili fossili come fonte primaria di energia, fino alla nascita delle Smart Cities. Le tematiche affrontate ruotavano, però, intorno ad un unico perno, che costituiva la principale ragione dell’incontro: il consumo energetico (cos’altro aspettarsi da un responsabile per le risorse energetiche?). Ciò che quel giorno colpì particolarmente la mia attenzione fu un’affermazione che Coviello fece quasi come premessa all’intero discorso: “Giusto un paio di anni fa ricordo che si parlava di energie rinnovabili come il futuro del sostentamento energetico del genere umano; oggi le cose sono cambiate e le discussioni mondiali vertono sul risparmio energetico e un migliore sfruttamento dei combustibili fossili”. Non so voi, ma io lo trovai stupefacente. Com’era possibile che in un paio di anni si fosse cambiata idea in modo così radicale? Qualche accenno alla risposta arrivò già quel giorno, ma fu solo con il passare del tempo che riuscii ad entrare meglio nella logica di quell’affermazione, quando iniziai cioè a comprendere l’importanza dei “compromessi” (non è di certo un termine tecnico) che, in campo ecologico, si rivelano quantomeno fondamentali. Ve lo spiego meglio con un esempio: il Parco dell’Himalaya Karakorum.

Il Parco dell’Himalaya Karakorum, sito in una regione che si estende dalla Cina all’Afghanistan e comprendente Pakistan, India e Nepal, ospita la terza più imponente massa di ghiacci del pianeta, dopo le calotte polari naturalmente. Luogo mistico e di grande rilevanza naturalistica, racchiude al suo interno alcune specie uniche in natura, costituisce la maggiore riserva idrica dell’Asia ed è meta ambita dagli scalatori, in quanto sede di quattro delle quattordici cime planetarie che superano gli ottomila metri. Nato sulla carta nel 1993, il parco ha subito continui ritardi di realizzazione per via di una gestione molto complessa, che ha richiesto lunghi anni di trattative e, ed è qui che entrano in gioco, numerosi compromessi. La difficoltà cui ci si è trovati subito di fronte, infatti, è stata quella di dover conciliare la tutela ambientale, faunistica e floreale con il ricco melting pot di culture e popolazioni viventi al suo interno. Il 17 aprile 2014, infine, è stato ufficialmente tagliato il traguardo, grazie e soprattutto, al contributo dell’italiano EvK2Cnr, con il suo direttore Maurizio Gallo.

I compromessi ecologici adottati hanno richiesto un accurato ed intenso studio del territorio, nonché un’attiva partecipazione delle popolazioni locali, i cui ritmi sono dettati dalla disponibilità delle risorse naturali, in un delicato equilibrio reciproco. Per la riuscita e la tenuta del progetto si è quindi rivelato necessario tenere in considerazione le opposte esigenze del parco e dei suoi abitanti. Una prima idea è stata quella di definire una “zona tampone” (buffer zone) all’interno del parco stesso, facendola coincidere con le aree di pascolo e di raccolta, di vitale importanza per quelle popolazioni la cui sussistenza è principalmente legata all’allevamento di bestiame. Il compromesso è consistito nella vaccinazione degli animali, onde evitare lo scambio reciproco di malattie fra animali domestici e selvatici (con evidenti guadagni reciproci), e in un sistema assicurativo che ha permesso di disincentivare l’abbattimento dei predatori di bestiame. Altro problema che si riscontrava nel parco era l’uso eccessivo di legname per il riscaldamento domestico, attività che danneggiava sia il clima locale (per via delle polveri in sospensione nel mezzo aereo) sia i polmoni degli abitanti, già affaticati da un’aria particolarmente tersa e rarefatta. È stata quindi progettata appositamente una stufa, corredata di canna fumaria, che consuma il 50% in meno della legna e sono stati piantati più alberi intorno ai villaggi. Nuovamente, il vantaggio del compromesso è stato reciproco. L’ultimo caso che possiamo citare è relativo allo smaltimento dei rifiuti, derivanti principalmente dalle spedizioni turistiche. La tecnologia è stata d’aiuto anche in questo caso, permettendo la costruzione di un particolare inceneritore ad alta efficienza, che permette di bruciare plastica e altri rifiuti a temperature tali da ridurre drasticamente l’impatto ambientale. Il parco dell’Himalaya Karakorum è forse quindi l’esempio più riuscito di compromesso ecologico, una riserva naturale che è riuscita a conciliare le esigenze opposte di sfruttatori di riserve naturali e riserve naturali stesse, raggiungendo un grado di equilibrio e perfezione che ha pochi eguali nel mondo, seppure l’impegno organizzativo si riveli necessariamente costante; se ciò non fosse stato tenuto in considerazione fin dall’inizio, probabilmente non si sarebbe riusciti né a preservare il territorio dall’eccessivo sfruttamento umano, né a migliorare le condizioni di vita dei residenti nella zona, come evidente dai 21 anni trascorsi fra la nascita del progetto e la sua entrata in funzione.

Nella progettazione di un parco naturale, così come nello sviluppo e nella ricerca di nuove fonti di energie rinnovabili, per tornare all’introduzione, è importante soppesare onestamente sia i privilegi e i benefici dell’opera sia i fattori di rischio e gli svantaggi, in modo che i due piatti della bilancia siano ben equilibrati. Molti studiosi ritengono, infatti, che lo sviluppo di energie alternative e pulite debba tenere in considerazione non solo il vantaggio che deriva dall’avere a disposizione una fonte di energia rinnovabile, e quindi potenzialmente “infinita”, ma anche, e soprattutto, l’impatto ambientale che questa provoca e l’effettivo guadagno in termini energetici rispetto ai combustibili fossili. Solamente rimodulando i nostri consumi e le nostre abitudini potremo così sperare in un futuro ecologicamente sostenibile; in fondo, potremmo addirittura scoprire che il compromesso che dovremo adottare, non è poi così amaro come pensiamo.

FONTI:

http://www.cknp.org/cms/

http://www.evk2cnr.org/cms/it/ricerca/programmi_integrati/karakorum_trust

https://www.researchitaly.it/uploads/5110/L’Espresso.pdf?v=e11f592

BBC Science, n. 22. (Novembre 2014), mensile di cultura scientifica. Sprea editori.

L’evoluzione darwiniana nell’uomo è ancora attiva?

L’Origine delle Specie, pubblicata da Charles Darwin nel 1859, è forse tra le opere scientifiche più importanti di tutti i tempi. Questo è vero non soltanto per la teoria dell’evoluzione in essa descritta, ma anche, e forse soprattutto, per l’infinito dibattito che ha scatenato in molti campi del sapere, dalla religione alla filosofia. Qualche tempo fa vi chiesi se aveste qualche interesse o dubbio particolare a cui avrei potuto provare a rispondere (anche tramite l’aiuto di qualcuno più competente di me). Uno di voi pose una domanda sull’evoluzione darwiniana nell’uomo, ritenuta non più attiva. Egli era interessato a sapere se esistono dei sistemi di manipolazione genetica volti a contrastare questa carenza. Vi stupirete della risposta, così come mi sono stupito io nel cercarla.

Un luogo comune molto diffuso è che, con lo sviluppo della tecnologia dovuto all’aumento delle capacità cognitive, l’uomo sia riuscito a sottrarsi alle forze della natura. La selezione naturale, descritta da Charles Darwin come una componente dell’evoluzione darwiniana, si sarebbe quindi interrotta nell’uomo moltissimi anni fa. In effetti, homo sapiens è l’unica specie sulla Terra che riesce a crescere fino all’età riproduttiva il 95-99% dei propri figli. Se guardiamo ai progressi in campo medico, non possiamo negare che senza le cure attuali molti bambini non raggiungerebbero l’età dello sviluppo sessuale. Sembrerebbe quindi venire meno una caratteristica fondamentale dell’evoluzione darwiniana: la selezione naturale e sessuale degli individui più forti, a discapito di quelli più deboli. In realtà le cose non stanno esattamente così, in quanto l’uomo si sta ancora evolvendo e la selezione naturale è in realtà tuttora attiva. Le prove a conferma di questa tesi le hanno portate due studi differenti, usciti entrambi sulle pagine della rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences”.

Selezione naturale e sessuale in una storica popolazione monogama umana

Questo studio, che ha come prima firma quella di Alexandre Courtiol, ha preso in considerazione la popolazione finlandese, che ha subìto un notevole sviluppo demografico in tempi abbastanza recenti. Gli studiosi hanno analizzato i registri parrocchiali di alcune chiese della Finlandia, in cui erano presenti i dati di nascita e di morte dei fedeli, oltre a data del matrimonio, numero di figli e giorno di nascita, e alcuni dati relativi alla ricchezza delle famiglie e quindi del ceto sociale. I dati a cui si ha avuto accesso riguardano circa 6000 persone vissute tra il 1760 e il 1849. La popolazione di riferimento presenta caratteristiche di rilievo scientifico, come la monogamia (dovuta a imposizione sociale), un ambiente di vita di dimensioni limitate e ben definito, e infine tassi di natalità, mortalità e fertilità tipici delle società preindustriali. I parametri di interesse per la valutazione della selezione naturale sono essenzialmente 4:

  • Sopravvivenza all’età adulta, che indica quanti piccoli di una determinata specie riescono a sopravvivere sino all’età adulta, rispetto al numero totale di nati.
  • Possibilità di accoppiamento, che indica la disponibilità di partner per ogni individuo.
  • Successo nell’accoppiamento, ovvero quanti individui trovano effettivamente un partner per la riproduzione.
  • Fertilità, ovvero la possibilità di generare figli oppure no.

Analizzando questi dati e rapportandoli al successo riproduttivo relativo nell’arco della vita di ogni individuo, si è notato che non sono presenti differenze significative con i dati raccolti per altre specie viventi. In altre parole, la selezione naturale e la selezione sessuale si sono dimostrate attive anche in tempi recenti della storia dell’uomo. L’evoluzione darwiniana ha svolto il suo corso anche in una popolazione relativamente avanzata tecnologicamente. Lo sviluppo della tecnologia non ha precluso all’uomo la possibilità di evolversi, ed è dunque un meccanismo condiviso con i nostri antenati cacciatori e raccoglitori.

Tassi di variazione nell’evoluzione darwiniana

Venendo a tempi più recenti, Stephen Stearns e i suoi collaboratori della Yale University, hanno analizzato i dati raccolti nel Framingham Heart Study, uno studio attivo da quasi 70 anni, prendendo in considerazione molti aspetti significativi della salute di oltre 2000 donne, e andando poi a osservare le ricadute che questi avevano sulla salute e le caratteristiche dei figli. Sulla base dei dati raccolti e osservati, hanno poi effettuato delle previsioni sui figli, ipotizzando che essi sarebbero stati più bassi e pesanti, e con differenti valori di pressione sanguigna e livello di colesterolo. Nonostante il numero di anni dello studio non sia effettivamente comparabile con il tempo a disposizione dell’evoluzione darwiniana (almeno migliaia di anni), i risultati osservati, anche in questo caso, sono stati assolutamente in linea con quelli raccolti in altre specie presenti in Natura.

Conclusioni

I risultati raccolti in questi due studi (ma non sono gli unici due), mostrano che l’evoluzione darwiniana nell’uomo risulta essere ancora attiva, e la variazione dei caratteri della popolazione è in linea con le altre specie osservate in Natura. L’uomo è quindi nella media delle altre specie viventi, nonostante siamo spesso tentati di credere di essere all’esterno della catena biologica e dei processi naturali. Oltre agli studi presentati, riporto tra le fonti una riflessione interessante di Marco Cattaneo, direttore delle riviste “Le Scienze”, “Mente&Cervello” e “National Geographic Italia”, che vi consiglio di leggere come spunto aggiuntivo al tema dell’evoluzione umana.

FONTI:

Marco Cattaneo: La fine dell’evoluzione umana? http://cattaneo-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/09/23/la-fine-dellevoluzione-umana/comment-page-1/

http://www.lescienze.it/news/2009/10/21/news/sempre_attiva_la_selezione_naturale_sull_uomo-573117/?refresh_ce

http://www.lescienze.it/news/2012/05/02/news/evoluzione_specie_umana_popolazione_preindustriale_agricoltura-998498/

https://www.framinghamheartstudy.org/

http://www.pnas.org/content/109/21/8044

http://www.pnas.org/

Water Footprint: quanta acqua usiamo davvero?

Quando gli astronomi cercano di comprendere se un pianeta a molti anni luce da noi possa essere in grado di ospitare la vita, una delle prime cose che cercano di scoprire è se su di esso sia presente acqua allo stato liquido. Sulla Terra, la vita come la conosciamo noi ha infatti potuto svilupparsi proprio grazie alla presenza di acqua. Nonostante, però, nell’Universo buio la Terra appaia come un “pale blue dot” (un “pallido puntino blu”), l’acqua non è presente in così grande abbondanza, ma anzi, è una risorsa preziosa e limitata che bisogna utilizzare in modo saggio. Cerchiamo quindi di scoprire insieme qualcosa in più sul water footprint, ovvero: “quanta acqua stiamo sprecando?”

Al mattino, appena dopo che è suonata la sveglia, si va in bagno, si apre il rubinetto e ci si lava con abbondante acqua e sapone (perché … vi lavate vero?). Poi la colazione, latte e cereali, e si è pronti per affrontare la giornata. Una giornata che dalle nostre parti è piena di piccoli gesti che consideriamo, ormai, abbastanza scontati e ai quali non poniamo neanche più attenzione. Vestiti, carne, automobili, soldi, smartphone, sono tutte cose che fanno parte della nostra quotidianità; alcune sono fondamentali per vivere, altre no, ma tutte sono accomunate da una risorsa unica e indispensabile per noi, l’acqua. Le persone usano ogni giorno, spesso in modo inconsapevole, grandissime quantità di acqua. La usiamo per bere, cucinare, lavare, ma anche per coltivare il cibo, produrre gli indumenti che indossiamo e i gadget tecnologici di cui siamo circondati. L’acqua è una risorsa di cui non possiamo fare a meno, ma proprio perché è così preziosa, dovremmo imparare a usarla meglio e a non sprecarla, se non vogliamo distruggere l’unico pianeta che abbiamo. Per capire quanta acqua usiamo realmente ogni giorno e come possiamo risparmiarla, ci viene in aiuto un parametro chiamato “water footprint”, che in italiano suona un po’ come “impronta di acqua” o, meglio, “impronta idrica”.

Questo parametro serve a misurare la quantità di acqua che viene usata per produrre ogni bene e servizio che usiamo. Può essere definito in molti modi: può infatti essere misurato per un processo singolo, come la crescita del grano, per un singolo prodotto, come una t-shirt o un chilo di carne, o per una grande multinazionale. Generalmente è associato a un territorio specifico, o può essere riferito a più nazioni o continenti. In ogni caso il water footprint è una misura in volume di quanta acqua è stata consumata o inquinata dall’uomo. Le unità di misura sono le più diverse a seconda del paese di riferimento, ma ci aiutano sempre a capire per quale scopo quella quantità di acqua è stata impiegata. Esistono tre componenti del water footprint: verde, blu e grigio. Esse si riferiscono alla provenienza e alla “sostenibilità” dell’acqua utilizzata. L’acqua verde sarà quindi quella piovana, che abbiamo a disposizione per così dire “gratuitamente” e non va ad intaccare la disponibilità delle risorse idriche. L’acqua blu è invece quella proveniente dai bacini idrici e dalle falde sotterranee, che bisogna quindi utilizzare con moderazione perché è l’unica che possiamo utilizzare “quando vogliamo”. L’acqua grigia infine è quella ottenuta come emissione, e quindi tipicamente non riutilizzabile e inquinata.

Come già anticipato prima, il water footprint di un prodotto è il quantitativo di acqua che viene consumato e inquinato in tutti gli stadi di produzione ed è quindi la somma delle componenti blu, verde e grigia dell’acqua. Ciò significa che se stiamo considerando il water footprint di un litro di latte, stiamo contando tutti i litri di acqua che la mucca ha bevuto per produrre quel latte, che sono stati usati per pulire la stalla, per produrre il mangime che la mucca ha mangiato e così via. In questo modo possiamo capire quanto un prodotto specifico contribuisce ai problemi legati alla carenza d’acqua in un determinato territorio e quali prodotti possono essere considerati più sostenibili di altri. Naturalmente è bene contestualizzare ogni dato per non creare false convinzioni e paure. Nonostante ciò, voglio riportarvi di seguito alcuni dati, affinché siano per voi uno spunto di riflessione su quanta acqua c’è e quanta ne consumiamo senza rendercene conto e provare a farvi capire, quindi, che è importante prestare attenzione ad ogni gesto che facciamo (per esempio chiudere l’acqua mentre ci laviamo i denti), perché ha delle conseguenze e delle implicazioni che magari ignoriamo.

Si è calcolato che sulla Terra siano presenti circa 1.400.000.000 (1 miliardo e 400 milioni) di chilometri cubi di acqua. Facendo un rapido calcolo, considerato che la Terra “pesa” (in realtà sarebbe più corretto dire “ha una massa di”) 5,972 x 1024 Kg (ovvero circa 6 seguito da 24 zeri) si ottiene che la quantità di acqua presente sulla Terra è solo lo 0,02% di tutta la massa disponibile. E noi che pensavamo ce ne fosse tanta! La storia però non finisce qui. Di tutta questa quantità che abbiamo detto, solo circa il 3% è acqua dolce, ovvero acqua che possiamo potenzialmente sfruttare (i processi di desalinizzazione dell’acqua del mare sono ancora troppo costosi). Da questo 3% bisogna però togliere ancora un bel po’, in quanto i 2/3 dell’acqua dolce presente sul nostro pianeta sono concentrati nelle calotte polari, mentre solo 1/3 è facilmente accessibile. Riassumendo, quindi, possiamo effettivamente usare solo l’1% di tutta l’acqua presente sul pianeta, che ha una massa pari allo 0,0002% della massa della Terra! Dai dati più recenti che abbiamo (o per lo meno, che ho trovato io) nel 2012 sono stati consumati ben 3760 chilometri cubi di acqua, ovvero circa 3.760.000.000.000.000 litri. Ma come viene usata quest’acqua? Circa il 69% viene usata per l’agricoltura, il 19% nei processi industriali e il restante 12% in casa.

Si è calcolato che, in media, ogni persona (nei paesi industrializzati) consuma ogni giorno circa 1500 litri di acqua. Coooosa?? Ma se io al massimo bevo due bicchieri d’acqua al giorno! Beh, innanzitutto dovresti bere di più perché ti fa bene, ma come detto prima ci sono tante cose per cui viene utilizzata l’acqua. L’uso domestico, cioè l’acqua che effettivamente facciamo uscire dal rubinetto, ammonta a circa 200 litri. Un esempio? Per fare una doccia si consumano in media 80 litri di acqua (si, circa 9 di quei pesantissimi cestelli che portate a casa dal supermercato), per mandare giù dal water i vostri liquidi e solidi corporei (ci siamo capiti) se ne vanno in media 40 litri di acqua (pensate che spreco, 40 litri di acqua potabile, in genere, solo per mandare giù della … cacca). E il resto direte? Il resto è la cosiddetta “acqua virtuale”, un fattore che concorre a definire il water footprint. Per esempio: sapete quanta acqua serve per produrre 1 Kg di carne di manzo? Circa 15.000 litri! E per 1 litro di latte? 1000 litri di acqua! Ma ancora: 1150 litri di acqua per una pizza, 780 litri di acqua per un pacco di pasta, 60 litri di acqua per mezzo litro di the, 720 litri di acqua per una bottiglia di vino.

Insomma, senza voler generalizzare troppo e fare inutili allarmismi, questi dati cambiano molto per ogni popolazione e andrebbero riferiti in modo specifico al metodo e al territorio di produzione. In ogni caso, quelli che vi ho fornito sopra sono valori plausibili che spero aiutino a darvi un’idea di quanta acqua usiamo e, spesso, sprechiamo senza nemmeno rendercene conto. Se abbiamo a cuore il nostro futuro e quello dei nostri figli faremmo meglio ad essere più accorti.

FONTI: http://waterfootprint.org/en/

Consumo idrico e ciclo dell’acqua

Ben ritrovati. Un breve articolo per provare a rispondere, nei limiti delle mie competenze, a una domanda ricevuta un po’ di tempo fa nei commenti del blog. Un lettore chiedeva alcuni chiarimenti in merito all’articolo sull’impronta idrica (Water Footprint). Il succo del discorso era più o meno il seguente: quanta acqua di quella che utilizziamo ogni giorno (o anche solo ogni tanto) rimane per così dire “intrappolata” in ciò che costruiamo e resta quindi “esclusa” dal ciclo dell’acqua? Quanta acqua è “intrappolata” all’interno degli organismi viventi, in particolare l’uomo? Quanta acqua di ciò che produciamo viene scissa nei suoi elementi fondamentali trasformandosi quindi in qualcos’altro? Le domande sono molte interessanti e stimolanti, provo a rispondere anche se non sono sicuro di essere in grado. Ogni suggerimento è ben accetto. Grazie!

Partiamo da una breve sintesi del ciclo dell’acqua, visto che nel commento era citato. Il ciclo idrologico dell’acqua non ha un vero e proprio punto di partenza: essendo un ciclo ogni punto può essere considerato come punto di partenza e di arrivo (data, appunto, la natura “ciclica”). Per convenzione si suole partire dal mare, a cui si ritornerà alla fine del ciclo. Il Sole, la nostra stella, fornisce l’energia sufficiente a riscaldare gli strati superficiali del mare e a permettere ad alcune particelle di acqua di sfuggire alla massa liquida e trasformarsi quindi in vapore (è appunto il processo di evaporazione, che avviene anche a temperatura ambiente e non solo in fase di ebollizione). Il vapore presente nell’atmosfera non proviene solo “dal mare”, ma entrano in gioco anche altri apporti, come quello della evapotraspirazione degli esseri viventi, l’evaporazione da altri bacini superficiali come laghi e fiumi e la sublimazione, ovvero il passaggio diretto dallo stato solido a quello gassoso (vapore d’acqua). Il vapore così prodotto viene sollevato nell’atmosfera dalle correnti ascensionali, dove incontrando un gradiente di temperatura sempre più elevato (la temperatura diminuisce a mano a mano che aumenta l’altitudine), finisce per condensare nuovamente (torna allo stato liquido) in piccolissime particelle di acqua liquida. Si formano così le nuvole. Queste ultime vengono trasportate dai forti venti presenti in atmosfera, percorrendo quindi lunghe distanze. Infine, l’acqua accumulatasi nelle nuvole precipita sotto forma di pioggia o neve, andando a riempire i bacini sotterranei e superficiali o le calotte ghiacciate. Per gravità, dalle terre emerse l’acqua scorre nuovamente verso il mare, dove tutto può ricominciare.

Provo ora a rispondere alle domande presenti a inizio articolo. Temo sia difficile riuscire a stimare in maniera precisa quanta acqua viene “incamerata” negli oggetti prodotti dall’uomo artificialmente (a meno che in questi l’acqua sia presente in uno stato evidente). L’enorme varietà di costruzioni e manufatti prodotti, oltre al fatto che essi non sono evidentemente “censiti” in maniera precisa, non consente infatti di effettuare calcoli esatti e temo, purtroppo, nemmeno spannometrici. Da quanto ho potuto apprendere con qualche ricerca, per la costruzione di un edificio di medie dimensioni (visto che tale esempio è citato proprio nella domanda) occorrono circa 80 mila litri d’acqua, che vengono utilizzati per opere di costruzione e pulitura dell’edificio stesso (dall’impasto della malta alla pulitura delle pareti). Quest’acqua, tuttavia, dev’essere poi espulsa dall’edifico stesso tramite evaporazione, in un processo che si completa in genere in circa 5-6 mesi. A priori, quindi, sarei tentato di dire che tutta quest’acqua rientra nel ciclo dell’acqua. Considerando però che parte dell’acqua viene utilizzata per impastare il cemento, credo che la cosa migliore sia analizzare la formula chimica della calce, che è la seguente: CaO + H2O –> Ca(OH)2 + calore. Da questa formula sembra quindi che parte dell’acqua in ingresso (reagenti) venga “immagazzinata” nel cemento stesso sotto forma di elemento ossidrile (prodotti), in una reazione chimica esotermica (che libera calore). Il fatto che il cemento debba poi asciugare è legato al fatto che per ragioni pratiche si utilizza una maggiore quantità di acqua rispetto a quella richiesta dalla reazione chimica stessa. Quanta acqua di quella utilizzata per produrre il cemento viene quindi “trasformata” nella reazione chimica e “inglobata” nel cemento stesso? Dipende da molti fattori e, in generale, non saprei fornire una risposta precisa.

Per quanto riguarda invece gli esseri viventi, e in particolare l’uomo, nonostante anche in questo caso credo sia difficile ottenere dei valori precisi, possiamo procedere con una stima utilizzando nuovamente il “metodo spannometrico” tanto caro a noi ingegneri. Come suggerisce il lettore che ha posto la domanda, sapendo che siamo circa 7 miliardi (in realtà ormai un po’ di più) di persone su questo pianeta e considerando un peso medio di 70 kg (mi sembra ragionevole), sapendo inoltre che il nostro corpo è composto all’incirca all’80% di acqua (in realtà io proporrei una media del 66% visto che la composizione di acqua del nostro corpo varia con l’età), “quanta acqua abbiamo sottratto all’ecosistema e la teniamo non disponibile fino a ogni nostra singola dipartita”? Effettuando un calcolo veloce troviamo che il risultato è 323 miliardi di litri (spanne) di acqua. Mi sentirei di aggiungere, inoltre, che tutta quest’acqua rientri nel ciclo dell’acqua dopo la morte di ciascuno di noi. Anzi, a dire la verità, visto che come spiegato a inizio articolo, nel ciclo dell’acqua il vapore entra in atmosfera anche grazie all’evapotraspirazione degli esseri viventi, probabilmente l’acqua contenuta nel nostro organismo si può considerare come facente parte a tutti gli effetti del ciclo dell’acqua.

Per quanto riguarda l’ultima domanda, che secondo me è la più difficile, ammetto di essere impreparato e, purtroppo, neanche con il metodo spannometrico potrei arrivare a una risposta. In parte credo valgano alcune delle considerazioni fatte al punto 1, quando si analizza la reazione chimica che si sviluppa per la produzione di cemento, anche se questo ovviamente è solo un piccolissimo punto della questione.

FONTI: https://water.usgs.gov/edu/watercycleitalianhi.html

Fisica

LED: il futuro dell’illuminotecnica

Stanno entrando nelle nostre case silenziosamente e occupando ogni posto disponibile senza che noi ce ne accorgiamo, rubando il lavoro e mandando in pensione colleghe con un’esperienza secolare. Di chi sto parlando? Dei LED naturalmente! Basta guardarsi un po’ intorno per scoprire che questi invasori silenziosi hanno davvero colonizzato tutti i dispositivi tecnologici in nostro possesso: smartphone, elettrodomestici, cartelloni pubblicitari, telecomandi, semafori, laser e naturalmente tutte le lampade e i faretti di recente costruzione. Ma perché hanno avuto così tanto successo e si sono diffusi in modo così capillare?

Il primo a descrivere l’effetto luminoso di un diodo è stato l’ingegnere britannico Henry Joseph Round, che notò la presenza di una debole luminescenza generata applicando una differenza di potenziale di 10 V tra due punti di un cristallo di carburo di silicio. La prima applicazione commerciale di questa scoperta risale però solo agli inizi degli anni ‘60, quando l’inventore statunitense Nick Holonyak Jr riuscì a produrre delle particolari lampadine a semiconduttori che emettevano una luce rossa; esse vennero inizialmente utilizzate nei circuiti elettronici e come luci di segnalazione. Negli anni successivi, lo studio nel campo dei semiconduttori permise di produrre LED a luce verde, che abbinati a quella rossa permettevano di produrre luce gialla. La vera rivoluzione avvenne però negli anni ‘90 quando Isamu Akasaki, della Meijo University e Nagoya University, Hiroshi Amano, della Nagoya University, e Shuji Nakamura, dell’Università della California (Santa Barbara), in seguito a numerosi anni di studio del fenomeno, riuscirono finalmente nell’intento di produrre un LED blu. Proprio questa invenzione ha fatto vincere loro il premio Nobel nel 2014, in quanto il LED blu, se combinato con un LED rosso e uno verde, permette di ricostruire lo spettro per la luce bianca. Dagli anni ‘90 ad oggi questa tecnologia è diventata sempre più efficiente, le sue prestazioni sono aumentate notevolmente e hanno permesso di risparmiare moltissima energia elettrica.

“LED” è in realtà l’acronimo per “Light Emitting Diodes”, ovvero “Diodo a emissione di luce”, che come è possibile intuire, è un particolare semiconduttore in grado di emettere luce se attraversato da una corrente molto piccola (10-30 mA). Un diodo (“di” e “odo”, in quanto sono presenti due – “di” – elettrod – “odo”) è il più semplice tipo di semiconduttore esistente, ovvero un materiale capace di “lasciarsi attraversare”, oppure no, dalla corrente. La maggior parte dei semiconduttori viene creata a partire da materiali poco conduttori che però vengono modificati (“drogati” nel gergo elettronico) per cambiare il bilanciamento interno tra le cariche positive (lacune) e negative (elettroni). Quando due parti con diverso bilanciamento di cariche vengono accostate l’una all’altra si genera quella che è chiamata giunzione P-N. In pratica una giunzione P-N permette alla corrente di scorrere in un solo verso e non nell’altro. Nel caso dei LED tale giunzione è realizzata con arseniuro di gallio o con fosfuro di gallio, entrambi materiali in grado di emettere radiazioni luminose se attraversati da una corrente elettrica. Senza entrare troppo nello specifico, il funzionamento del led si basa su un fenomeno chiamato “elettroluminescenza”, grazie al quale vengono prodotti fotoni (le particelle che “formano” la luce) in seguito alla ricombinazione degli elettroni e delle lacune quando la giunzione è polarizzata con una tensione diretta positiva. Per variare la lunghezza d’onda (e quindi il colore della luce) si può intervenire sui materiali semiconduttori utilizzati e quindi sui processi di fabbricazione. La lunghezza d’onda propagata dalla luce emessa da un LED è relativamente ristretta, generando di fatto colori molto più puri rispetto alle lampadine tradizionali.

I LED sono composti quindi da un chip semiconduttore e da due terminali, uno positivo (quello più lungo) e l’altro negativo (quello più corto). Naturalmente occorre rispettare le polarità quando li si inserisce in un circuito elettronico. Le comuni lampadine a incandescenza, illegali dal 2012, sono invece formate da un sottile filamento in tungsteno che, venendo attraversato dalla corrente elettrica, raggiunge temperature elevatissime (fino a 2500 °C), diventando incandescente ed emettendo fotoni. Se provate a toccare una lampadina ad incandescenza accesa anche solo da pochi minuti, noterete come in effetti essa sia molto calda e difficile da tenere in mano, cosa che invece non avviene per i LED.

Proprio a causa della tecnologia alla base del loro funzionamento, i LED risultano molto più convenienti rispetto alle lampadine a incandescenza e a quelle a fluorescenza (a proposito, queste ultime contengono generalmente mercurio quindi gettatele negli appositi contenitori di raccolta se vi capita di averne in casa di non funzionanti). Tornando ai LED, essi sono particolarmente interessanti per le loro caratteristiche di elevata efficienza luminosa e di affidabilità. Le lampadine a incandescenza, proprio per il fatto che producono così tanto calore, sono molto poco efficienti, in quanto trasformano in energia luminosa solo il 10% dell’energia elettrica necessaria per tenerle accese; ciò significa che per ogni euro che pagate per tenerle accese, solo 10 centesimi circa li spendete per avere luce, mentre gli altri 90 centesimi servono per…scaldarla (quando si dice “mandare i soldi in fumo”). A causa inoltre delle elevate temperature che raggiunge il filamento di tungsteno, esso si consuma come succede per la legna che arde nel camino, e come risultato si ha che la durata media di vita di una lampadina a incandescenza è molto breve (1000/1500 ore) se confrontata con quella di un LED (50000 ore). Visto che abbiamo citato il mercurio presente nelle lampadine fluorescenti, possiamo evidenziare che invece il LED non contiene gas nocivi o altre sostanze tossiche dannose per la salute, oltre che per l’ambiente. I LED inoltre emettono luce solamente nella radiazione visibile, senza produrre in modo indesiderato raggi ultravioletti o infrarossi.

Volendo quindi riassumere in un elenco tutti i vantaggi del LED:

  • Durata di funzionamento.
  • Elevato risparmio energetico ed economico (se confrontato con lampade ad incandescenza, fluorescenti e alogene).
  • Luce pulita perché priva di componenti IR (infra-red) e UV (ultra-violet).
  • Funzionamento in sicurezza perché a bassissima tensione (normalmente tra i 3 e i 24 V)
  • Accensione immediata.
  • Colori saturi.
  • Insensibilità a umidità e vibrazioni.
  • Assenza di mercurio ed altre sostanze inquinanti.

Adesso che sapete tutto, comprerete solo più i LED, vero?

Il risveglio della (quinta) forza

Un po’ di tempo fa le pagine di molti quotidiani si sono riempite di titoli sensazionalistici che acclamavano la scoperta di una quinta forza fondamentale. Verificata la notizia, si scopre però che non è esattamente così: è quindi bene chiarire gli studi che sono stati effettuati, mettendo in ordine ciò che si sa per certo.

Il Modello Standard, ovvero il modello attualmente in uso per spiegare il funzionamento dell’Universo, prevede 4 forze (o interazioni) fondamentali. Esse permettono di descrivere tutti i fenomeni fisici (o quasi) a tutte le scale di energia e distanza. Le 4 forze fondamentali sono cioè quelle forze a cui tutte le altre si riconducono. Esse sono: la forza elettromagnetica, la forza gravitazionale, la forza nucleare forte e la forza nucleare debole (alle alte energie, queste ultime due sono unificate nella forza elettrodebole).

Forza elettromagnetica. Questa forza regola la propagazione delle onde e dei campi elettrici e magnetici, in quanto è responsabile delle proprietà chimiche degli atomi e della struttura delle molecole. Una carica immersa in un campo elettromagnetico o posta nelle vicinanze di un’altra carica, reagisce con uno stato di moto o di quiete in base alla forza elettromagnetica risultante.

Forza gravitazionale. La forza gravitazionale è responsabile dell’attrazione reciproca delle masse. Essa è ben modellizzata dalla legge della gravitazione universale newtoniana nella fisica classica; si manifesta invece in una curvatura dello spazio-tempo in base alla teoria della relatività generale di Albert Einstein.

Forza nucleare forte. Tale forza è in grado di mantenere uniti i quark, ovvero i costituenti elementari dei protoni e dei neutroni. Tra tutte le forze conosciute è quella più intensa.

Forza nucleare debole. Infine, la forza nucleare debole è responsabile dei decadimenti nucleari e permette quindi la nascita delle reazioni nucleari presenti all’interno delle stelle.

L’11 agosto di quest’anno, un gruppo di fisici teorici dell’Università della California (sede di Irvine) ha annunciato di aver scoperto le prove dell’esistenza di una quinta forza fondamentale nell’Universo. Lo studio, guidato da Jonathan L. Feng e pubblicato su Physical Review Letters, analizza in realtà i risultati di un altro studio effettuato da alcuni colleghi (prima firma di A. J. Krasznahorkay) dello Institute for Nuclear Research dell’Accademia Ungherese delle Scienze. In quest’ultimo studio, gli scienziati ungheresi avevano infatti rilevato un’anomalia nel decadimento radioattivo di un isotopo del berillio (berillio 8), che potrebbe essere stata causata dalla presenza di una quinta forza fondamentale. I risultati dell’esperimento compiuto in Ungheria sono stati inizialmente caricati sui server di pre-print di ArXiv il 7 aprile 2015 e successivamente pubblicati su Physical Review Letters lo scorso 26 gennaio. Il primo articolo di commento allo studio ungherese da parte di Jonathan L. Feng e dei suoi colleghi americani è datato 25 aprile, ed è stato pubblicato su ArXiv.

Nel 2013, invece, i ricercatori dell’Amherst College e dell’Università del Texas ad Austin hanno pubblicato sulla rivista Science un articolo in cui spiegavano i risultati ottenuti con un esperimento volto a rilevare una ipotetica quinta forza tramite l’interazione tra gli spin degli elettroni presenti nei minerali ferrosi del mantello terrestre e il campo geomagnetico.

Nell’esperimento condotto dagli scienziati ungheresi si è notato che facendo collidere i nuclei di litio 7 con un fascio di protoni, si producono nuclei eccitati instabili di berillio 8, il quale decade dopo una frazione di secondo e si scinde nuovamente in un nucleo di litio 7 e in un protone. Nello 0,4% dei casi, invece, secondo il Modello Standard, anziché decadere in un nucleo di litio 7 e in un protone, il berillio 8 decade in una coppia elettrone-positrone. E così in effetti si è verificato, tuttavia si è rilevato un picco in cui gli elettroni e i positroni sono emessi a 140 gradi con un’energia complessiva di 17 MeV, nonostante il modello preveda che le coppie elettroni-positroni diminuiscono all’aumentare dell’angolo che separa le traiettorie. Escluso l’errore sperimentale, la spiegazione di tale picco potrebbe essere dovuta alla conoscenza incompleta del decadimento di questi nuclei atomici. Secondo l’équipe ungherese la spiegazione risiede in una particella denominata protone oscuro, mentre gli scienziati americani attribuiscono il fenomeno osservato a un bosone X protofobico, una particella mediatrice di una forza a corto raggio che interagisce con elettroni e neutroni. Quest’ultima forza è quindi la quinta forza? Non lo sappiamo, in effetti non ci sono evidenze sperimentali dell’esistenza di una quinta forza, ma solo alcuni indizi. Il Modello Standard non è quindi stato rivoluzionato e rimane valido, anche se scricchiolante sotto certi aspetti. Altri laboratori stanno conducendo esperimenti per verificare l’esistenza o meno di questa ipotetica quinta forza, tra questi: DarkLight e HPS al Jefferson Lab, LHCb al CERN e PADME ai laboratori nazionali di Frascati dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Insomma, chi vivrà, vedrà.

agosto 2016

FONTI:

http://journals.aps.org/prl/abstract/10.1103/PhysRevLett.117.071803

https://arxiv.org/abs/1504.01527

http://journals.aps.org/prl/abstract/10.1103/PhysRevLett.116.042501

http://arxiv.org/abs/1604.07411

http://science.sciencemag.org/content/339/6122/928.abstract

Bomba all’idrogeno: la fusione nucleare

Ha suscitato parecchio scalpore in questi giorni la notizia che la Corea del Nord ha condotto un test con una bomba all’idrogeno miniaturizzata. Al di là della veridicità dell’evento (tutta da dimostrare), scopriamo insieme cosa sono la bomba H e la fusione nucleare, il processo fisico alla base del suo funzionamento.

Una bomba all’idrogeno, o bomba H come viene anche chiamata (dal simbolo chimico dell’idrogeno, H appunto), è un ordigno nucleare che sfrutta un processo fisico a due stadi, comprendente sia il processo di fissione nucleare (lo stesso processo che viene sfruttato nelle moderne centrali nucleari per la produzione dell’energia) che quello di fusione nucleare. La prima bomba all’idrogeno venne sviluppata dal fisico ungherese Edward Teller, rifugiatosi negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste. Non mi dilungherò sugli aspetti storici dello sviluppo, ma, se siete interessati a conoscere gli aspetti che hanno portato alla creazione di questo ordigno nucleare, vi consiglio di leggere l’intervista di Stefania Maurizi al fisico americano Richard Garwin (pubblicata sul settimanale “TuttoScienze” del quotidiano “La Stampa” il 24 novembre 2004), il quale collaborò appunto con Teller alla sua costruzione.

L’idea generale che sta alla base della bomba H è quella di utilizzare la potenza della bomba A (la bomba atomica a fissione), posta all’interno di un contenitore fissile di atomi leggeri, per innescare una successione di reazioni nucleari a catena. In pratica, al momento dell’esplosione del nucleo centrale si avvia una reazione termonucleare di fusione degli atomi leggeri che costituiscono il “rivestimento” del nucleo stesso, la quale scatena a sua volta una reazione di fissione nucleare degli atomi di uranio presenti nel rivestimento esterno. Gli elementi leggeri sottoposti a fusione nucleare sono generalmente alcuni isotopi dell’idrogeno, come il deuterio e il trizio, ma talvolta vengono anche usati idrogeno e litio, per formare atomi più pesanti (elio, simbolo chimico He) e neutroni.

La fusione nucleare è un processo fisico molto comune in natura; tale reazione termonucleare è infatti alla base del funzionamento delle stelle, le fucine della vita. Quando infatti un agglomerato di gas raggiunge il valore di massa critica (alcune volte la massa del pianeta Giove), la forza di gravità prodotta da tale densità di massa è talmente elevata nel nucleo, da riuscire, grazie all’enorme pressione, ad avviare la fusione nucleare degli elementi più leggeri. Il nostro Sole, per esempio, ha avviato la fusione nucleare circa 5 miliardi di anni fa, durante i quali ha continuato a fondere atomi di idrogeno per formare elio, generando così una enorme quantità di energia (es. il calore che possiamo percepire d’estate in spiaggia). Una volta terminata la fusione dell’idrogeno, le stelle iniziano a fondere elementi sempre più pesanti, e tali processi richiedono un quantitativo di energia sempre più elevato, sino ad arrivare al punto in cui l’energia richiesta per la fusione è maggiore di quella fornita da tale reazione termonucleare. Ecco quindi che la stella inizia velocemente a consumarsi fino a esplodere in una supernova, generando tutti quegli elementi chimici più pesanti che sono stati fondamentali per la nascita della vita sulla Terra (es. carbonio).

Detta così, sembra una banalità, ma “accendere” e soprattutto controllare la fusione nucleare sulla Terra è un’impresa titanica; i fisici ci stanno provando da almeno 50 anni, e probabilmente per almeno altri 30 non vedremo centrali nucleari a fusione per la produzione di energia. In una bomba H è presente un complesso sistema di specchi che “riflettono” i neutroni, a cui si aggiungono dei complessi sistemi per convogliare il flusso energetico generato nell’esplosione del materiale fissile. L’innesco richiede infatti temperature e pressioni elevatissime. L’energia che si sprigiona da una bomba all’idrogeno è enorme (diverse decine di megatoni, ovvero alcune centinaia di bombe atomiche) ed è fonte di fortissime radiazioni che hanno un effetto devastante sugli oggetti e sugli esseri viventi.

Infine, un ulteriore precisazione sul processo di miniaturizzazione. Cosa significa miniaturizzare una bomba nucleare? Beh, in effetti il significato è all’incirca quello che il termine suggerisce. La miniaturizzazione serve infatti a ridurre le dimensioni dell’ordigno nucleare, procedimento che richiede capacità tecnologiche ancora più sofisticate, al fine di permetterne l’installazione sull’ogiva di un missile a lunga gittata. Come la bomba A, anche la bomba H può essere infatti installata su moltissime armi, come missili balistici e aerei.

gennaio 2016

FONTI:  https://stefaniamaurizi.it/it-art-0085.html

La meccanica quantistica come l’ho capita io

Quando sentiamo parlare degli studi e dei campi di ricerca che interessano la fisica delle alte energie (come quella dell’acceleratore di particelle LHC), ci troviamo sempre un po’ spaesati: dalla materia oscura all’antimateria, dalla relatività generale alla meccanica quantistica, i concetti fisici sono sempre molto complicati da intuire e spesso sconosciuti al grande pubblico. Proviamo quindi insieme a soffermarci su uno di questi: la meccanica quantistica.

Consideriamo un sistema fisico, cioè un insieme di corpi che partecipano a un certo fenomeno. Per esempio, osserviamo un’automobile che viaggia con velocità costante. In tal caso il sistema è costituito dall’automobile e dalla strada. Nella fisica classica non vi sono limitazioni di principio alla misurazione delle caratteristiche di un sistema fisico: ad ogni istante possiamo, per esempio, misurare la posizione dell’automobile, la sua velocità e la sua energia. Conoscendo la legge di stato (ovvero la legge che descrive in modo “esaustivo” il sistema), nel caso della nostra automobile l’equazione del moto rettilineo uniforme, e le condizioni iniziali, possiamo anche prevedere come si evolverà nel tempo tale sistema. È vero che esistono limitazioni “tecniche” o “operative”, dovute all’intrinseca imprecisione degli strumenti di misura che impieghiamo, ma nulla ci impedisce (per lo meno in linea teorica) di costruire strumenti più sofisticati e di riuscire anche a calcolare in maniera molto precisa l’errore da cui saranno affette le nostre misurazioni. Ebbene, negate tutto il paragrafo precedente e avrete la meccanica quantistica!

Gli oggetti “quantistici” (es. atomi, elettroni, quanti di luce) si trovano in certi “stati indefiniti”, descritti da certe entità matematiche. Soltanto all’atto della misurazione fisica si può ottenere un valore reale, ma finché la misura non viene effettuata, l’oggetto quantistico rimane in uno stato che è “oggettivamente indefinito”, sebbene sia matematicamente definito. Ciò significa che la misurazione interviene fatalmente nel sistema, modificandolo. Non è possibile effettuare la misurazione senza mutare lo stato del sistema, poiché è solo nel momento in cui osserviamo il fenomeno che questo si manifesta con un dato reale. Le entità matematiche riferite al sistema (in gergo “funzioni d’onda”) descrivono in realtà solo una rosa di valori possibili che l’oggetto o il sistema preso in esame può assumere: solo uno di questi valori diventerà reale all’atto della misurazione, non prima. Volendo fare un paragone con l’automobile, è come se ammettessimo che essa potrebbe realmente trovarsi in qualunque punto della strada, e rivelasse la sua posizione solamente nel momento in cui la osserviamo. Attenzione però: il noto (?) principio di indeterminazione di Heisenberg ci dice che non possiamo conoscere contemporaneamente sia la quantità di moto (e quindi la velocità) che la posizione dell’automobile. Tale ragionamento risulta naturalmente privo di senso se relazionato a un oggetto come l’automobile, per il quale vale la fisica classica, ma per gli enti quantistici risulterebbe privo di senso un discorso costruito sulla fisica classica. Come osservarono Maxwell e Boltzmann infatti, se volessimo applicare il metodo meccanicistico della fisica classica alla descrizione del moto delle particelle di un gas (es. aria) dovremmo misurare in tempi brevissimi la posizione iniziale e le velocità di un numero incredibilmente alto di particelle per decimetro cubo, un’impresa a dir poco impossibile. Non possiamo però permetterci di rinunciare a studiare il comportamento reale di un gas o il moto di alcune particelle cariche; ecco quindi che la meccanica quantistica assume un’importanza fondamentale.

La fisica classica è costruita solidamente sull’idea che la natura segue leggi ben precise (“deterministiche”) e sul fatto che se si dispone di conoscenze sufficienti circa un corpo o un qualsiasi sistema a un dato istante, il suo comportamento futuro è calcolabile esattamente. La meccanica quantistica ci dà però un messaggio nuovo sulla struttura della realtà, e sancisce la fine del “realismo” oggettivo e materialistico a favore di una concezione “idealistica”, in cui gli oggetti esistono in uno stato “astratto” e “ideale”, che rimane teorico finché la percezione di un soggetto conoscente non lo rende reale. È l’osservatore che costringe la natura a rivelarsi in uno dei possibili valori, le caratteristiche reali ed oggettive del sistema fisico sono “create” in parte dall’atto dell’osservazione. Tutto ciò può sembrare assurdo e, anzi, probabilmente lo è. Qualche anno fa tuttavia, Andreas Albrecht, fisico teorico all’Università della California (Davis), concluse che questo è proprio il comportamento della probabilità su tutte le lunghezze scala.

La probabilità del metodo statistico era (ed è) una probabilità intrinseca alla realtà, e non relazionata alle nostre limitazioni di misura: è una proprietà fondamentale della natura. Per comprendere la portata rivoluzionaria di tale teoria basta ricordare che molti illustri fisici hanno inizialmente rifiutato questa insolita interpretazione, asserendo che la meccanica quantistica era una teoria incompleta e provvisoria; Einstein affermò che “Dio non gioca a dadi con l’universo”. La sua affermazione non era relativa a qualche particolare aspetto del divino (al quale, per la cronaca, egli non credeva), ma mostrava semplicemente una certa incredulità nei confronti della meccanica quantistica: egli non poteva accettare che la realtà fosse contraddistinta dal caso e dall’indeterminatezza dei risultati. Gli esperimenti mostrarono, però, che il metodo statistico era l’unico accettabile per la descrizione degli enti quantistici, e in effetti forse anche Einstein dovette ricredersi, tanto più che se la meccanica quantistica esisteva era anche grazie al suo contributo!

La meccanica quantistica, infine, non è un’idea bizzarra balzata alla mente di qualche scienziato, ma è la teoria alla base di tutte le interpretazioni fisiche odierne; negare la meccanica quantistica significa negare l’intero apparato di teorie scientifiche elaborate nel XIX, XX e XI secolo e ammettere di aver completamente travisato la comprensione di quel misero 5% dell’Universo conosciuto.

[I fisici tra voi che stanno leggendo questo articolo immagino si siano messi le mani nei capelli, dei quali sono ormai privi dopo esserseli strappati per la disperazione. Mi rivolgo a voi: l’ho fatto apposta, così adesso potrete affermare con certezza assoluta che gli ingegneri non capiscono niente!]

Entanglement quantistico

Uno dei fenomeni più affascinanti della meccanica quantistica è sicuramente l’entanglement, un particolare fenomeno fisico che permette alle informazioni di “attraversare” enormi distanze in un tempo pressoché istantaneo. Proprio questa particolarità fa sognare i fisici e gli appassionati che sperano un giorno di poter finalmente ricreare il teletrasporto, già anticipato dalla fantascienza da molti anni. In attesa di viaggiare su navicelle spaziali ultraveloci e di realizzare le altre tecnologie viste in Star Wars e Star Trek, proviamo a comprendere meglio la natura fisica della realtà che ci circonda.

Abbiamo già accennato più volte alla meccanica quantistica. Nel 1935, quando questa teoria era già stata sviluppata quasi interamente, il buon Einstein, insieme ai fisici Nathan Rosen e Boris Podolsky, pubblicò su Physical Review il famoso articolo “Can Quantum-Mechanical Description of Physical Reality Be Considered Complete?”, in cui i tre fisici si chiedevano appunto se la descrizione quanto-meccanica della realtà fisica si potesse considerare conclusa o se invece mancasse ancora qualcosa a questa teoria. Einstein è stato sicuramente uno dei padri fondatori della meccanica quantistica, tuttavia non riusciva a rassegnarsi al fatto che l’Universo potesse davvero funzionare in questo modo. Egli non voleva cioè accettare l’idea che la probabilità fosse una proprietà intrinseca alla realtà, e che quindi la realtà non esistesse già determinata, ma fosse necessaria la presenza di un soggetto conoscente per far collassare le funzioni d’onda, che descrivono la realtà, in uno stato piuttosto che in un altro. In realtà, la meccanica quantistica, per quanto assurda possa sembrare, descrive esattamente la meccanica degli enti quantistici. Per avvalorare la tesi che la meccanica quantistica fosse incompleta, i tre fisici si dilettarono in un esperimento mentale, oggi realizzato fisicamente centinaia di volte, che vi riporto qui di seguito.

Supponiamo di avere una sorgente che genera due particelle A e B perfettamente identiche (non ci interessa ora se esse siano fotoni, elettroni oppure qualcos’altro, purché siano uguali). Tali particelle viaggiano in direzioni opposte e raggiungono entrambe due rivelatori posti a qualsiasi distanza (grande o piccola, non importa) che permettono di verificare se esse siano rosse oppure verdi. Immaginiamo, per esempio, di avere la sorgente delle due particelle sulla Terra, un rivelatore sul Sole (lo so, non riusciremmo a mettercelo perché si fonderebbe seduta stante, ma suvvia, è un esperimento mentale, non siate pignoli) e un altro rivelatore su Marte (in realtà i due rivelatori si devono trovare alla stessa distanza dalla sorgente, ma per adesso facciamo finta che non sia importante). Ora, cosa succede quando una particella, per esempio la particella A, raggiunge il rivelatore posto sul Sole? Ebbene, se il rivelatore ci mostra che la particella A è rossa, allora anche la particella B sarà rossa, e viceversa. Ho semplificato molto, ma il concetto di base è che la misura effettuata su una particella condiziona istantaneamente la misura effettuata sull’altra particella. Le due particelle sono cioè “entangled” (da cui “entanglement”), ovvero “intrecciate”. Provo quindi a indovinare la vostra domanda: ma non può essere che, visto che le particelle sono uguali, allora è normale che se una è rossa lo è anche l’altra e viceversa? AAAAAAAAHH! Andate subito a rileggere l’articolo di meccanica quantistica!! Scherzo, dai. Le due particelle, prima della misura sono sia verdi che rosse (come già specificato in precedenza, ciò è valido solo per alcune proprietà e per gli enti quantistici, ma questo è un esempio “didattico”); il loro stato viene “stabilito” al momento della misurazione. Se vi sembra assurdo, siete in buona compagnia: Einstein definì la connessione tra le due particelle una “spooky action at a distance”, ovvero una “spaventosa azione a distanza”.

Una delle proprietà che viene quindi a decadere con l’entanglement quantistico è quella di località. Se lo stato di una particella dipende da quello di un’altra particella che si trova a una distanza anche molto grande, allora non è più vero che ciò che accade qui è determinato solo da tutto ciò che si trova qui (chiaro no?). Il fisico John Bell nel 1964 dimostrò proprio che il principio di località non è valido nella meccanica quantistica, e ciò è noto sotto il nome di “principio della disuguaglianza di Bell”.

Una spiegazione che potremmo darci per questo fenomeno potrebbe essere allora che nel momento in cui la particella A collassa su un dato valore del suo stato quantico, un segnale velocissimo parta da A per raggiungere B. Anche qui però si pone un problema: se fosse davvero così il segnale dovrebbe viaggiare molto più velocemente della luce, ma ciò non è possibile, ed è ben assodato, proprio per la teoria della relatività. Tale problema è noto ai fisici come paradosso EPR (Einstein-Podolsky-Rosen). Cos’è allora davvero l’entanglement e come possiamo descriverlo? Beh, per adesso i fisici non hanno risposte certe, ma l’unica certezza è che l’entanglement è davvero reale. Recentemente un gruppo di fisici è infatti riuscito a verificare l’entanglement per ben 4 fotoni in contemporanea, come riporta lo studio presente tra le fonti.

Insomma, come funzioni esattamente l’entanglement per adesso non lo sappiamo. La scienza non ha sempre le risposte pronte, e non si vergogna ad ammettere che ci sono cose che ancora non ha capito. Per adesso, ci accontentiamo di guardare con stupore all’entanglement quantistico, in attesa di capire un giorno quali sono i “segreti” fisici che si celano dietro il suo funzionamento e poter così realizzare le promesse proibite della fantascienza.

marzo 2016

FONTI:

http://journals.aps.org/prl/abstract/10.1103/PhysRevLett.116.073601

Il bosone di Higgs tra materia e antimateria

Vi presento oggi uno studio uscito un paio di anni fa sulla prestigiosa rivista Physical Review D, che tuttavia rimane ancora oggi di grande interesse per la fisica del Modello Standard. Il protagonista al centro dello studio è il Bosone di Higgs (vi prego, non chiamatelo “Particella di Dio”), che si rivela interessante nell’analisi dell’asimmetria tra materia ordinaria e antimateria.

Circa 4 anni fa, grazie all’acceleratore di particelle LHC, sito presso il CERN di Ginevra, veniva rilevata una nuova particella fisica, il Bosone di Higgs, la cui esistenza era già stata postulata circa cinquant’anni prima dall’omonimo scienziato, che ha potuto quindi guadagnarsi il Premio Nobel per la Fisica nel 2013. Tale particella è appunto un bosone, ovvero una particella mediatrice di forza, che in questo caso particolare è associata al campo di Higgs, un campo fondamentale che conferisce massa alle particelle elementari. Questa scoperta si è rivelata di straordinaria importanza nella formulazione del Modello Standard, ma da quell’8 ottobre 2012 la discussione si è protratta a lungo e i campi di importanza di questa nuova particella sembrano essere più numerosi di quanto inizialmente considerato. Un team internazionale di scienziati si è infatti chiesto quale importanza abbia assunto il bosone di Higgs nella “lotta” che, alle origini dell’Universo, il Big Bang, ha portato alla vittoria della materia ordinaria sull’antimateria. Lo studio, pubblicato sulla rivista Physical Review D, si interroga sulle ragioni per cui la materia prevalente nell’Universo conosciuto sia appunto quella ordinaria e come mai, invece, l’antimateria sia presente in percentuali così basse.

La materia ordinaria costituisce la stragrande maggioranza di ciò che compone l’Universo, mentre l’antimateria, a parte alcune eccezioni astronomiche, è quasi del tutto assente, e la sua esistenza è stata osservata solamente mediante riproduzioni sperimentali in laboratorio. Nonostante questo forte sbilanciamento, l’antimateria ha delle caratteristiche molto simili a quelle della materia ordinaria: le antiparticelle sono infatti pressoché identiche a quelle della materia ordinaria, eccezion fatta per la carica elettrica, che risulta di segno opposto (ad una particella con carica negativa corrisponde un’antiparticella con carica positiva, e viceversa). Una delle ipotesi per cui l’Universo è prevalentemente asimmetrico ad ogni livello è che “ciò che è uguale a sé stesso non si sviluppa”; dal momento che oggi osserviamo una così grande disparità tra il quantitativo di materia e antimateria, ciò significa che anche originariamente doveva essere presente un elemento di diversità, per quanto piccolo, nella simmetria. Se infatti con il Big Bang si fosse generata una quantità uguale di materia e antimateria, ciò che avremmo ottenuto sarebbe stata un’annichilazione totale di materia ed energia. Ciò che ha permesso invece all’Universo di essere così com’è è invece un’asimmetria di carica e di parità (cioè relativa all’inversione delle coordinate spaziali) che i fisici chiamano “violazione della simmetria CP”. Viene quindi naturale chiedersi perché inizialmente fosse presente questa rottura nella simmetria e sembra che il bosone di Higgs possa esserne in qualche modo responsabile o co-responsabile, anche se non si sa ancora né perché né in quale misura.

Gli scienziati Mattew J. Dolan dello SLAC (Stanford Linear Accelerator Center), Philip Harris del CERN di Ginevra, Martin Jankowiak, dell’Università di Heidelberg in Germania, e Michael Spannowsky, dell’Università di Durham nel Regno Unito, hanno quindi messo a punto un esperimento per comprendere meglio la correlazione tra la variazione di intensità del campo di Higgs e l’asimmetria tra materia e antimateria. Lo SLAC, una delle strutture in cui si svolge questo esperimento, è un acceleratore lineare di particelle lungo 3 chilometri, nel quale circolano elettroni e positroni (il positrone è l’antiparticella dell’elettrone) ad alcuni metri di profondità sotto il suolo. L’obiettivo dei ricercatori è in primo luogo quello di confermare che il bosone di Higgs rientra nel Modello Standard, la teoria fisica che descrive tutte le particelle elementari e tre delle quattro forze fondamentali note (rimane esclusa, ad oggi, la forza gravitazionale). Riuscire a dimostrare ciò equivarrebbe ad affermare che il Modello Standard è alla base delle leggi che regolano il funzionamento dell’intero Universo. Nell’esperimento viene analizzato il “decadimento” del bosone (un processo tramite il quale si trasforma in altri componenti) in due particelle elementari Tau e due jet di altre particelle (emissioni di forma conica): è questo il processo che servirà a capire se la particella di Higgs è implicata nella vittoria della materia sull’antimateria. Non ci resta che aspettare.

aprile 2016

FONTI: http://arxiv.org/pdf/1406.3322v1.pdf        www6.slac.stanford.edu/

http://journals.aps.org/prd/abstract/10.1103/PhysRevD.90.073008

http://journals.aps.org/prl/abstract/10.1103/PhysRevLett.114.061302

Chiralità e bellezza nell’Universo

Il piccolo principe indovinò che non era molto modesto, ma era così commovente!

“Come fai ad essere così bello?”

“Vedi, io sono un fiore e sono una creazione della natura, e in quanto tale sono perfettamente simmetrico…” […] “In natura esistono tantissime simmetrie.”

“E a cosa servono?”

“Beh, a fare i fiori belli, non c’è dubbio. Una simmetria è qualcosa che il sole ci ha dato e che nessuno potrà mai imitare. Tutto in natura nasce da una simmetria.”

Nella versione originale de “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry compare questo breve dialogo tra un fiore e il piccolo principe appunto, meravigliato dalla bellezza di molti oggetti naturali che presentano particolari simmetrie. Viene cioè delineato quello che è un binomio essenziale presente tanto nelle teorie scientifiche quanto nella storia dell’arte, ovvero l’accostamento fra bellezza e simmetria. La tendenza più comune tende infatti ad associare a un canone di bellezza la presenza di una simmetria, e viceversa; proprio da qui partiremo per cercare di capire quanto comuni sono le simmetrie in natura e se, di conseguenza, l’Universo in cui viviamo è così bello perché è simmetrico (oppure no).

Iniziamo provando quindi a dare una definizione di simmetria che esuli dall’aspetto intuitivo e possa rientrare in un contesto più oggettivo e rigoroso. Quando gli scienziati utilizzano tale termine fanno in genere riferimento a un’invarianza nelle equazioni che descrivono il fenomeno in questione; ciò significa che quando è presente una simmetria non è più importante la direzione (spaziale o temporale) da cui si descrive il fenomeno, poiché le equazioni non cambiano (sono cioè “invarianti”). Più banalmente, con applicazione alla realtà quotidiana, può essere definito simmetrico o “speculare” un oggetto che non cambia venendo osservato da punti di vista differenti. Uno degli assunti fondamentali di tutte le scienze è quello per cui le leggi sono le stesse in ogni luogo ed in ogni tempo considerato. Le leggi fisiche non cambiano con lo spazio e il tempo. Più in particolare, si fa sempre riferimento all’invarianza delle equazioni rispetto ad un arbitrario sistema di riferimento spazio-temporale. Tale simmetria è oggi chiamata simmetria continua dello spazio-tempo ed è presente in tutte le teorie quantistiche moderne.

La definizione di universo simmetrico si rivela però alquanto problematica: la scienza moderna ha scoperto che la simmetria speculare è spesso assente in natura, l’universo è asimmetrico a tutti i livelli, da quello subatomico a quello macroscopico. Molte domande sulle cause di tale asimmetria rimangono senza risposta, ma negli ultimi decenni si sono fatti progressi nella comprensione dei motivi per i quali la chiralità a un determinato livello può dare origine a una chiralità a un altro livello. Cerchiamo ora di comprendere quindi il significato del termine “chiralità” qui utilizzato. Quasi tutti gli oggetti che si trovano in natura non coincidono con la propria immagine speculare, si dice pertanto che posseggono chiralità. Tutta la natura è chirale, ovvero mostra preferenza per la destra (chiralità destrorsa) o per la sinistra (chiralità sinistrorsa). Nel caso di alcune comuni entità chirali, per esempio i riccioli dei capelli oppure le nostre mani, il significato di destrorso o sinistrorso è chiaro, ma per altre entità più complesse o di forma irregolare la distinzione è alquanto arbitraria. Se prendiamo invece un qualunque oggetto che venga riflesso da uno specchio, l’immagine riflessa risultante è indistinguibile dall’oggetto originario. Gli oggetti identici alle loro immagini speculari si dicono achirali, cioè privi di chiralità.

In natura non sono solo gli oggetti a presentare chiralità, ma anche i processi, come le reazioni chimiche (che possono avvenire “in un verso” o in quello opposto). Alcune interazioni atomiche e nucleari mostrano, per esempio, una preferenza per la sinistra o per la destra. Se tutti i processi fossero chiralmente simmetrici, nel mondo reale osserveremmo un ugual numero di sistemi (immagini speculari l’uno dell’altro) che mostrano preferenze opposte. Il fatto che non sia così indica che alcuni processi naturali sono asimmetrici. Il motivo del predominio dell’asimmetria sulla simmetria è da ricercare, secondo alcuni, nel fatto che ciò che è uguale a sé stesso non si sviluppa. Di conseguenza, se in origine vi è stata una semplice simmetria, questa doveva comunque contenere un elemento di diversità o di discontinuità che le permettesse di svilupparsi in una forma superiore. Benché quindi un oggetto chirale e la sua immagine speculare siano ovviamente differenti, non esiste a priori alcun motivo perché uno debba essere superiore all’altro. Tuttavia, il mondo reale evidenzia solitamente una preferenza per un tipo di chiralità sull’altro. Ciò è particolarmente vero nel caso degli organismi viventi, a titolo di esempio: la maggior parte delle persone è destrimane, le spirali elicoidali delle conchiglie dei molluschi marini sono in prevalenza destrorse, i rampicanti di solito si avvolgono con l’andamento di un’elica destrorsa, ma il caprifoglio cresce con un avvolgimento sinistrorso. Una struttura elicoidale negli organismi viventi è stata trovata persino nella scala dei batteri. Come scoprì Louis Pasteur, anche le molecole possono essere chirali. I chimici chiamano enantiomeri levogiri e destrogiri (L e D) le molecole che presentano rispettivamente chiralità sinistrorsa e destrorsa. Lo studio della chiralità delle molecole è fondamentale, in quanto possono reagire fra loro solamente le molecole che presentano stessa chiralità (anche il lander Philae della missione “Rosetta” sulla cometa 67P-Churyumov-Gerasimenko è stato progettato per studiare la chiralità delle eventuali molecole organiche presenti, per comprendere se esse siano compatibili con quelle terrestri).

La forza elettromagnetica si comporta in modo tale che, se avviene un dato processo, l’immagine speculare di quel processo ha la stessa probabilità di verificarsi. Di qualsiasi forza che dia origine a un processo e alla sua immagine speculare con uguale probabilità si dice che conserva la parità. Dato che la forza elettromagnetica conserva la parità, ci si dovrebbe quindi aspettare che nel mondo gli enantiomeri L e D siano presenti nella stessa proporzione. Perché ciò non avviene? Lo scienziato Chien-Shiung Wu e i suoi colleghi della Columbia University hanno scoperto che la forza nucleare debole, una delle quattro interazioni fondamentali della materia, non conserva la parità. Oggi è quindi evidente che la forza nucleare debole, agendo a livello delle particelle elementari, può dare origine alla chiralità e all’asimmetria negli atomi e nelle molecole, ma non sappiamo se queste caratteristiche vengano espresse anche a livello di piante e animali. Per esempio, l’asimmetria chirale in molti organismi viventi sembra non essere correlata all’asimmetria presente nel loro DNA (che per gli esseri umani è generalmente sinistrorso) o nelle loro proteine. Da un’asimmetria destrorsa nei costituenti elementari di un organismo, infatti, può risultare un’asimmetria chirale sinistrorsa dell’organismo stesso. Elementi di asimmetria chirale sono stati individuati non solo nel mondo dei costituenti elementari, ma anche nel caso di grandezze che spaziano nell’infinitamente grande, per esempio nel caso delle galassie a spirale studiate dal professor Michael Longo, insieme ad altri cinque studenti dell’Università del Michigan. Per verificare l’esistenza di una simmetria iniziata con il Big Bang, l’immagine specchio di una galassia che ruota in maniera antioraria dev’essere quella di una galassia che possiede una rotazione oraria. La presenza di un eccesso nel numero di galassie che ruotano in un senso piuttosto che in un altro ha dunque portato a convalidare la tesi di una rottura spontanea nella simmetria, o come dicono i fisici, di una violazione di parità su scale cosmiche. I ricercatori hanno trovato che le galassie tendono a ruotare secondo una direzione privilegiata, in altre parole esiste un eccesso di galassie a spirale che ruotano in direzione antioraria osservando il cielo in una regione diretta verso il Polo Nord Galattico.

Come già spiegato in precedenza, la differenza sostanziale tra materia e antimateria consiste nella carica elettrica. Le particelle di materia “normale” e quelle di antimateria sono sostanzialmente identiche tranne che per la carica elettrica, che risulta opposta. Quando due particelle, una di materia e l’altra di antimateria, si scontrano avviene il fenomeno dell’annichilazione: la massa delle due particelle viene istantaneamente e completamente convertita in energia e si ha la produzione di due raggi gamma. Se quindi all’origine dell’Universo, con il Big Bang, si fosse prodotto un numero uguale di particelle di materia e antimateria, si avrebbe avuto l’annichilazione di tutte le particelle e l’Universo non sarebbe di certo come lo conosciamo oggi. Nell’Universo attuale la materia “normale” o “ordinaria” compone circa solo il 4% della massa dell’intero Universo: il resto sono energia e materia oscura. E l’antimateria? Antimateria non ce n’è quasi, sembra proprio essere sparita. Si riscontra quindi anche in questo caso un’asimmetria su scale cosmiche iniziata 13,7 miliardi di anni fa con il Big Bang. Il Big Bang ha prodotto uguali quantità di materia e antimateria? E se sì, che fine ha fatto l’antimateria? Quali leggi fisiche erano valide nei primi istanti dopo il Big Bang? Sono domande alle quali per adesso non abbiamo risposta, ma che mostrano incontrovertibilmente come l’universo in cui viviamo sia asimmetrico a tutti i livelli.

La rottura spontanea della simmetria appare quindi come un meccanismo mediante il quale un sistema passa “spontaneamente” da uno stato simmetrico a uno asimmetrico. Essa avviene soltanto in particolari condizioni fisiche, per esempio non può avvenire in un sistema chiuso all’ingresso di energia e materia. Sembra dunque essere contraddetta la nozione universalmente accettata in base alla quale su scale cosmiche sufficientemente grandi l’universo appare isotropo, cioè non esiste una direzione privilegiata. La vita stessa è una rottura di simmetria. Dalle particelle più piccole come protoni e neutroni sino ad arrivare ad enormi ammassi di materia come le galassie, sembra essere quindi presente una rottura nella simmetria, un’asimmetria prevalente che nega inesorabilmente il principio cosmologico. Chissà, forse è proprio nell’uniforme discontinuità che lega l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande che possiamo riscontrare il maggior elemento di simmetria dell’universo. Per intanto, limitiamoci ad accettare la natura così come ci è stata presentata, poiché nella vera bellezza la simmetria ha sempre qualche imperfezione. Del resto, come diceva il fisico Richard Feynman: “La meccanica quantistica dice che la natura è assurda dal punto di vista del senso comune. E concorda pienamente con gli esperimenti. Quindi spero che accetterete la natura per quello che è: assurda!”,

FONTI:

Massimo Teodorani. I Grandi Numeri Celesti – L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Ed. Scienza e conoscenza, Macro Edizioni, 2009.

Paolo Berra. Simmetrie dell’universo. – Dalla scoperta dell’antimateria a LHC. Edizioni Dedalo, 2013.

Amedeo Balbi. Il buio oltre le stelle – L’esplorazione dei lati oscuri dell’Universo. Codice Edizioni, 2011.

Fai clic per accedere a Simmetrie.PDF

Fai clic per accedere a 1104.2815.pdf

http://www.verascienza.com/linfinitamente-grande-e-linfinitamente-piccol

http://www.homolaicus.com/scienza/uomo_universo9.htm

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http://fisiclandia.blogspot.it/2012/01/la-delicata-simmetria-del-cosmo.html

Riflessioni

Dio e (è) la matematica

Premetto che non è mia intenzione spaventare tutti coloro che speravano di aver abbandonato per sempre la matematica con il diploma delle scuole superiori: potete tranquillamente tornare ai vostri filosofi e alle vostre tele d’artista, senza per nulla interessarvi di queste righe sparse, anche se probabilmente vi perdete qualcosa. Non tanto per la dubbia bravura dell’autore di questo articolo, ma piuttosto perché la matematica è ovunque: che ci piaccia o no, non possiamo ignorarla.

Al contrario di quanto è accaduto per i Dieci Comandamenti, la scienza non è stata consegnata all’uomo su maestose tavole di pietra donate direttamente da Dio. La storia della scienza è infatti una continua rincorsa alla comprensione dell’Universo, un lunghissimo viaggio che ha visto numerosi buoni risultati, ma anche piste false ed errori colossali. La sete di meraviglia che ci ha da sempre contraddistinti ha richiesto l’analisi di migliaia di ipotesi, modelli e argomentazioni a favore di alcuni o contro altri. Molte idee che sembravano inizialmente valide e ingegnose si sono poi rivelate sbagliate quando sono state sottoposte alla verifica degli esperimenti, ovvero dopo che le osservazioni della Natura hanno mostrato la fallacia di queste tesi. Protagonista indiscussa di questa bellissima storia è sicuramente lei: Sua Maestà la Matematica. Come ebbe infatti a osservare Galileo Galilei ne “Il Saggiatore”: “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”. Secondo Galilei, quindi, l’Universo si esprime tramite la matematica e per poterlo comprendere dobbiamo imparare la lingua che usa per comunicare, poiché altrimenti ci resterà per sempre sconosciuto. Galilei non è sicuramente l’unico a pensarla così: il filosofo della scienza Alexandre Koyré (1892 – 1964), per esempio, osservò che nel pensiero scientifico c’è stata una rivoluzione solo nel momento in cui si è compreso che la matematica è la grammatica della scienza. Ed è proprio da Galilei in avanti che infatti c’è stata una rivoluzione nei metodi della scienza; se infatti gli aristotelici si accontentavano di una descrizione qualitativa della natura, mutuata per autorità da Aristotele (il principio dell’auctoritas), Galileo sosteneva che le risposte alle domande degli scienziati erano scritte nella Natura stessa e quindi occorreva porre gli interrogativi direttamente alla Natura e ascoltarne quindi le risposte. La questione intorno alla quale molti scienziati e filosofi della scienza hanno dibattuto è poi la seguente: la matematica è una scoperta oppure un’invenzione umana? Ci si chiede quindi se la matematica sia stata inventata dall’uomo per spiegare il funzionamento dell’Universo o se invece questa esista prima dell’uomo e sia quindi da egli semplicemente stata scoperta un pezzetto alla volta. Personalmente ritengo che la matematica sia un’invenzione umana: l’Universo va per così dire “per conto suo” (come sostiene il professor Odifreddi), mentre noi matematici, fisici e ingegneri cerchiamo di racchiuderlo entro i confini di ciò che possiamo comprendere, la matematica appunto, commettendo spesso errori di approssimazione. Non è però l’unica interpretazione possibile. In ogni caso, come disse una volta il fisico inglese James Jeans (1877 – 1946): “Sembra che l’Universo sia stato progettato da un matematico puro”. Sembra cioè che la matematica funzioni fin troppo bene per spiegare e descrivere l’Universo. Si attribuiscono quindi alla matematica dei poteri che generalmente sono associati solamente a una divinità, ovvero onnipresenza e onnipotenza. La matematica ha l’incredibile potere di essere nascosta dietro ai meccanismi più celati sul funzionamento della Natura e di riuscire sempre a fornire soluzioni ed interpretazioni accettabili (con l’unico limite della conoscenza umana). Laddove la matematica non riesce a funzionare, si scopre che, come disse invece il matematico Ian Stewart: “C’è una parola nella matematica per definire i risultati del passato che sono cambiati: quella parola è errori”. Quando ci accorgiamo quindi che la matematica non riesce a interpretare al meglio il funzionamento di un sistema è perché abbiamo commesso noi degli errori nel tentare di forzare il modello; modificando il modello in seguito all’evoluzione delle conoscenze, ritroviamo di nuovo il funzionamento impeccabile delle note formule matematiche. Torniamo quindi all’interrogativo iniziale: la matematica è un’invenzione o una scoperta? Dio è un matematico?

Alcuni matematici credono di si, o meglio, credono che la matematica stessa sia dio (fate uno sforzo di astrazione, dai). Per esempio, i pitagorici ritenevano la “Monade” (il numero Uno) non solo il principio (archè) di tutti gli altri numeri, ma anche e soprattutto un’entità reale quanto l’acqua, l’aria e il fuoco che faceva parte della struttura fisica del mondo ed era all’origine della creazione. I pitagorici avevano inoltre una fede che è quella fondante della scienza moderna, ovvero che esistano leggi naturali generali che ci permettono di descrivere l’Universo. Se infatti gli scienziati non credessero che è possibile capire la Natura e che vi siano delle relazioni matematiche per spiegare il funzionamento di ogni cosa, non perderebbero più tempo ad indagare la fisica della realtà con ogni mezzo tecnologico. Ancora prima dei pitagorici, il primo ad avere avuto questo sentore fu probabilmente Talete di Mileto (625 – 547 a.C. circa), il quale riteneva che dietro agli eventi che altri descrivevano come opera delle divinità capricciose, vi fossero invece delle spiegazioni matematiche, razionali e dimostrabili. Fu una conquista immensa. La matematica iniziava quindi il suo cammino per elevarsi al di sopra di tutte le altre discipline studiate all’epoca dai filosofi. Dopo duemilacinquecento anni, la matematica regna ancora incontrastata. Lunga vita alla regina!

FONTI: Mario Livio, Dio è un matematico. La scoperta delle formule nascoste dell’universo, BUR Saggi, 2009.

Stephen Hawking, elogio della mente umana

Torna periodicamente alla ribalta, un po’ per la sua simpatia, un po’ per la genialità, ma sempre comunque perché ci mostra il lato più umano della scienza; Stephen Hawking è uno dei fisici più amati degli anni moderni, oltre che uno dei più famosi e geniali.

E mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi ne vediamo il genio”. Recitava così la campagna “Think Different” che la Apple Computer lanciò nel 1997. L’unica cosa che non si può fare con “tutti coloro che vedono le cose in modo diverso” è ignorarli, “perché riescono a cambiare le cose” e “fanno progredire l’umanità”. Ed è proprio così che potremmo definire una delle menti più brillanti della fisica contemporanea: Stephen Hawking. Certo, forse il termine “folle” non è direttamente associabile alla sua personalità, ma “genio” è sicuramente un diminutivo in confronto alla grandezza dei suoi orizzonti. Nato nel 1942, la sua non è stata una vita affatto semplice (ma comunque sempre degna di essere vissuta, come lui ha sempre sostenuto); come molti di voi già sapranno, a 21 anni gli è stata infatti diagnosticata una rara malattia degenerativa del motoneurone, probabilmente una forma particolare e meno aggressiva di sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Nonostante gli fosse stata pronosticata un’aspettativa di vita di due anni, a 74 anni Stephen Hawking è ancora vivo, a dimostrare, oltre alla sua incredibile tempra, che probabilmente la sua malattia non è stata mai compresa bene fino in fondo. Nonostante l’impossibilità di muoversi autonomamente e di parlare, la sua vita è stata densa di successi, che non è il caso di stare qui a ricordare perché questa non è una biografia (e tantomeno un elogio funebre). Hawking è uno degli scienziati che, insieme ad Einstein, è riuscito a guadagnarsi la simpatia dell’opinione pubblica, e non a torto. Oltre che uno scienziato con importantissimi studi e risultati all’attivo, egli ha saputo farsi portavoce di uno spirito scientifico che ha affascinato le masse e avvicinato moltissime persone alla scienza; probabilmente questo è uno dei suoi più grandi meriti. Nello stereotipo comune gli scienziati sono un po’ dei topi da laboratorio aridi e silenziosi, ma Hawking ci ha mostrato che non è così, egli ha diffuso il volto umano della Scienza, che progredisce e lotta continuamente contro le difficoltà, imparando dai propri errori e avendo l’umiltà di cambiare opinione, senza alcuna pretesa di Verità. E proprio in questo sta la forza della Scienza, un processo dinamico alimentato da persone in carne e ossa, che aprono continuamente dei dibattiti con la Natura, per provare a scoprire quell’essenza di meraviglia che permea tutto lo spazio conosciuto.

Oltre al suo amore per la Scienza, Stephen Hawking ci ha trasmesso il suo incondizionato amore per la Vita. Se ci pensate, non è poco detto da uno con cui il mondo ha un debito inestinguibile. “Valuterò il suicidio assistito solo se sentirò un grande dolore, se riterrò di non avere più nulla da offrire e se penserò di essere un peso per chi si occupa di me”. No, queste parole (che ha pronunciato alcuni mesi fa) non entrano in contraddizione con quanto ho detto prima. Il suo amore per la Vita è amore per il mondo, per l’uomo, per un’avventura nella quale ciò che conta e ci entusiasma è il viaggio, e non la meta. Questa vita è Vita perché è bella e ci emoziona, e dobbiamo imparare a viverla sino a quando saremo in grado di annusare il suo vento carico di mistero che ci soffia in faccia. Con le parole di Stephen Hawking: “Quando le persone mi chiedono se un dio ha creato l’universo, io rispondo loro che la domanda stessa non ha senso. Il tempo non esisteva prima del Big Bang, per cui non può esistere un tempo in cui dio ha creato l’universo. È come chiedere indicazioni per un angolo della Terra; la Terra è una sfera, non ha angoli, per cui cercarli è un inutile esercizio. Siamo tutti liberi di credere in ciò che vogliamo, ed è un mio punto di vista che la spiegazione più semplice sia che non esiste alcun dio. Nessuno ha creato l’universo, nessuno dirige il nostro destino. Questo mi porta a una profonda certezza; probabilmente non esiste l’inferno, e nemmeno una vita dopo la morte. Abbiamo quest’unica vita per apprezzare il grande disegno dell’universo, ed è per questo che sono estremamente grato”. In questo disegno, non esiste un unico disegnatore: i disegnatori sono infiniti, e si avvicendano continuamente per le strade del mondo, a disegnare chi un puntino soltanto, chi un angolino del foglio e chi intere pagine. Stephen Hawking è uno dei tanti disegnatori, ma non uno qualunque, forse uno dei più grandi disegnatori. Potremo dimenticarci le sue teorie, il luogo in cui è nato o i titoli dei suoi libri, ma non potremo mai ignorare il suo corpo inerte e atrofizzato da un lato, e la sua mente ineguagliabile dall’altro, che appartiene alle stelle.

Aggiornamento: Stephen Hawking è deceduto il 14 marzo 2018. Ora la sua mente appartiene davvero alle stelle, e i suoi resti mortali sono sepolti nell’Abbazia di Westminster, a Londra, a fianco a quelli dei più grandi scienziati della storia, come Isaac Newton, Charles Darwin e Paul Dirac.

maggio 2016

S.O.S. Laicità

A mano a mano che ci addentriamo nel XXI secolo, torna periodicamente a smuovere l’opinione pubblica una parola che, nata negli anni dell’Illuminismo in Francia, tanti speravano fosse poi stata eliminata dal dizionario italiano dall’Accademia della Crusca. Mi dispiace rivelarvi che non è così, la laicità è più viva che mai. Il dibattito che si crea intorno a questo termine è soprattutto legato al suo significato, che in effetti si presta a molteplici interpretazioni e fraintendimenti. Il punto in questione è infatti se la laicità è da considerarsi positiva oppure negativa. Parlando di laicità positiva, sosteniamo un approccio di apertura verso le religioni (tutte le religioni), che si traduce in un riconoscimento generale dei diritti che esse invocano, il che può riguardare, a titolo di esempio striminzito, le festività, la costruzione di edifici di culto o la propaganda alla ricerca di nuovi adepti. Con laicità negativa, invece, intendiamo che il convivio degli dei può essere appacificato solamente tramite la negazione o la privazione dei diritti, in modo che vengano evitate interferenze distruttive di ogni sorta con le leggi dello Stato e del vivere comune. Avrete certamente notato che nel presentare i due tipi di laicità a confronto non sono stato imparziale; scusatemi, ma in effetti io propendo per la seconda scelta e ho volutamente cercato di portare l’acqua al mio mulino, vi spiego perché. La laicità, oltre ad essere un’idea radicata nella mente dell’intellighenzia più illuminata, è sicuramente anche un modello di governo, in quanto tramite il suo esercizio possono venire influenzate le politiche economiche e sociali di uno Stato. Il riconoscimento universale dei diritti che una laicità positiva potrebbe proporre, tramite le mani di un governo che adottasse le misure elencate come esempio nella definizione di laicità positiva, rischierebbe però di trasformarsi in una negazione della libertà e delle leggi dello Stato. Proviamo infatti a immaginare che cosa accadrebbe se gli aderenti alle varie fedi fossero lasciati liberi, è loro diritto, di scegliersi un giorno a settimana come festa da santificare: ai musulmani il venerdì, agli ebrei il sabato, ai cristiani la domenica, e già il week-end è andato a farsi benedire (in tutti i sensi). Anche se ammettessimo che tale concessione dei diritti sia normata dallo Stato e controllata, per esempio, da una commissione ad hoc tramite un sistema proporzionale, ci vedremmo costretti a negare consenso alle fedi di minoranza e nascerebbero sicuramente conflitti non solo con le leggi dello Stato, ma anche con i diritti appena concessi. Solo la laicità negativa permette l’esercizio della legalità, della libertà, della fratellanza. Attenzione però a non confondere libertà negativa con ateismo di Stato. Con l’esercizio di una laicità negativa non si negherebbe alle varie fedi il diritto di pregare il loro dio. Laicità negativa è riconoscere che per non creare discriminazioni e fare in modo che ogni cittadino sia libero nel pensiero, nelle scelte, nella vita comunitaria con la società e sul lavoro, deve essere ben netta la distinzione tra vita pubblica e privata. Solamente nel momento in cui l’unica legge è quella dello Stato potremo essere sicuri di punire seriamente gli attentatori del Bene comune. Una moralità condivisa non può che essere quella che si pone come obiettivo la felicità, e che non è vincolata ai capricci degli dei e ai dogmi delle fedi. La laicità negativa è quella che riconosce che prima di essere “figli di Dio” come qualcuno afferma, siamo innanzitutto cittadini del mondo, e come tali dobbiamo sottostare alla giurisprudenza umana e alle regole di convivenza comune, in modo che a tutti sia concesso di godere parte di quella felicità che solo sulla Terra possiamo davvero provare.

Internet: pericolo o risorsa indispensabile?

Internet è indubbiamente il mezzo principale attraverso il quale oggi vengono veicolate le notizie. Grazie alla nascita del web, le informazioni possono viaggiare molto più velocemente in questa immensa ragnatela globale, collegando tra loro punti distanti migliaia di chilometri. Se da un lato questa è sicuramente una notizia positiva, in quanto si sono accorciate enormemente le distanze e di conseguenza i tempi in cui le notizie possono essere intercettate, dall’altra sono nate alcune problematiche che prima non esistevano.

Quando nell’era pre-Google si voleva svolgere una ricerca di qualunque tipo (per esempio scrivere un articolo scientifico o informarsi sulla letteratura relativa a un argomento), libri, giornali e riviste erano l’unica alternativa possibile. Ecco quindi che ci si poteva rivolgere al proprio bibliotecario di fiducia per trovare più velocemente le informazioni che si stavano cercando. In ogni caso però, ci si poteva impiegare comunque parecchio tempo a trovare i libri adeguati e poi a individuare le pagine d’interesse. Al tempo di internet, per fortuna, non è più così: le informazioni sono disponibili subito, e si trovano molto più velocemente. Oltre ad essere una grande comodità, questo è però anche un potenziale pericolo. Siamo infatti sommersi dalle informazioni. In mezzo a questo flusso infinito di notizie è difficile riuscire a utilizzare un filtro adeguato a ogni situazione. Il motore di ricerca che abbiamo interrogato ci presenta un elenco senza fine di siti internet in cui sono presenti i termini di ricerca che abbiamo inserito. Per un utente esperto può risultare magari più semplice districarsi in mezzo a questo groviglio, ma per un utente comune impreparato sull’argomento, il pericolo di imbattersi in “bufale” e informazioni scorrette è purtroppo molto elevato. Chi controlla infatti la veridicità delle informazioni reperibili online? Nessuno. Anche la sempre citata Wikipedia contiene molti errori, alcuni di lieve entità, altri di maggiore risalto, ma comunque spesso difficili da scovare. Può quindi capitare che in questa giungla selvaggia alcune informazioni scorrette ottengano maggiore risalto rispetto a informazioni più corrette e verificate. É questo il caso per esempio di molte bufale che grazie a Internet sono riuscite a trovare ampia diffusione: scie chimiche, correlazione tra vaccini e autismo, alieni in visita al Pianeta Terra.

Dal momento poi che i siti di informazione appaiono agli occhi dell’utente tutti uguali, manca in Internet quel riconoscimento di autorità che si può attribuire a una persona fisica di fiducia. Nonostante si possa attribuire un livello di fiducia anche a una testata giornalistica presente online, è sempre bene però interrogarsi e riservarsi il beneficio del dubbio. Vi faccio un esempio: qualche tempo fa, una testata giornalistica di tutto rispetto (non vi faccio il nome perché può capitare a tutti di sbagliare) ha rilanciato la notizia di una nuova dieta che poco alla volta sta arrivando anche in Italia. Tale regime alimentare è il “respirianesimo”. Ora, credo che vi rendiate conto da soli che vivere di sola aria “nutrendosi dell’energia del Cosmo” è una sciocchezza allucinante, ma se delle testate giornalistiche di buona fama rilanciano informazioni del genere, allora significa che un pochino dobbiamo iniziare a preoccuparci. Una persona di non così grande cultura, potrebbe infatti lasciarsi influenzare da queste bufale che ottengono ampia visibilità, non essendo dotata degli strumenti intellettuali necessari a condurre un’analisi razionale.

Riassumendo, le problematiche a cui i motori di ricerca dovrebbero quindi saper rispondere oggi sono:

Qualità dei risultati. I risultati che compaiono ai primi posti nelle pagine di ricerca non sono sempre i più adeguati per i termini di ricerca inseriti. Bufale e informazioni scorrette possono ottenere maggiore visibilità rispetto a siti e fonti affidabili.

Pubblicità. La ricerca di contenuti “social”, che attraggano visitatori e quindi incrementino i ricavi pubblicitari dei siti internet, va a discapito di contenuti di maggiore qualità e comprovata veridicità (es. respirianesimo citato prima).

Quantità di risultati. I motori di ricerca non sono spesso in grado di filtrare in maniera adeguata i contenuti. L’utente comune non sempre è in grado di distinguere la qualità dei contenuti proposti.

Concludo quindi con una serie di consigli che possono tornarvi utili per valutare l’affidabilità di una fonte:

Autorità. Verificate sempre quale autorità ha chi vi sta fornendo l’informazione.

Fonti. Sono citate le fonti da cui quell’informazione è stata presa? É possibile verificare quell’informazione in altro modo?

Scopo. Perché vi viene fornita quell’informazione?

Datazione. A quando risale quell’informazione? C’è una fonte più recente?

Contesto. Come vi viene presentata l’informazione?

Il digitale nella società liquida

Qualche giorno fa la pagina Facebook de “Il Post” rilanciava la notizia, ormai vecchia di un anno, di una ragazza americana di 16 anni che ha deciso, di sua spontanea volontà, di privarsi dello smartphone per una settimana. Incuriosito, leggo l’articolo. Nel primo paragrafo di introduzione c’è subito un dato che salta all’occhio: secondo un rapporto di Common Sense Media, ogni giorno i ragazzi americani trascorrono nove ore sui social media per divertimento, ovvero più del tempo che passano a dormire. Naturalmente queste nove ore non sono tutte di fila, ma spalmate nell’arco della giornata e, in effetti, non è difficile credere che il dato sia abbastanza aderente alla realtà. Basta guardarsi intorno, che già è qualcosa di straordinario; siamo infatti sempre troppo impegnati a guardare i nostri schermi retroilluminati per renderci conto di ciò che accade intorno a noi. Vi assicuro, però, che qualche volta io l’ho fatto davvero (di guardarmi intorno, intendo) e “ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare”. Ricordo, per esempio, una mattina, un giorno qualunque della settimana, saranno state pressappoco le 8. Entro al bar per fare colazione prima delle lezioni al Politecnico. Ordino caffè e brioche e mi siedo al tavolo. Mi piace sedermi quei cinque minuti di orologio e godermi il momento, senza distrazioni, senza fretta. Tra l’altro c’è sempre della buona musica qui, questa mattina ascolto “Mind games” di John Lennon, bellissima, non la conoscevo, me la appunto. Di fronte a me, seduti a un tavolo, ci sono padre e figlio che fanno colazione. Il padre avrà una quarantina d’anni, il figlio penso non più di 6. E sapete cosa stanno facendo? No, non stanno chiacchierando tra di loro, che sarebbe un bel modo di iniziare la giornata. Il padre mangia e beve con movimenti automatici con la mano sinistra, mentre con la destra, con gli occhi e tutto il resto del corpo, è incredibilmente concentrato su uno schermo di 5” pollici di diagonale, non esiste nient’altro per lui, solo il suo smartphone. E il figlio? E il figlio, per stare buono e non disturbare, ha davanti un tablet su cui guarda i cartoni animati. Spero sia un caso isolato quello che ho visto, ma ho come l’impressione che non sia così, perché più mi guardo intorno e più mi rendo conto di quanto siamo distratti. Cito un altro caso. Pizzeria, sabato sera. Sono con la mia fidanzata, chiacchieriamo, parliamo, ridiamo. È bello che un rapporto di coppia sia fatto così, altrimenti perché si sta insieme? Nel tavolo vicino a noi c’è un’altra coppia. Noi ci guardiamo negli occhi, loro guardano ciascuno il proprio smartphone. Non una parola, fisicamente si trovano in pizzeria, con la testa chissà dove, su Whatsapp, su Facebook, con gli amici (veri amici?).

Al bar, in pizzeria, al cinema. Siamo continuamente distratti da un costante flusso di notizie senza fine, distrazioni su distrazioni che non fanno che allontanarci dal vivere il momento presente, ma ci proiettano sempre verso un altrove, non reale, ma fittizio, virtuale. Intendiamoci, la colpa non è della “tecnologia” come si sente dire. Chi mi conosce sa quanto io sia appassionato di tutto ciò che riguarda la tecnologia (che non è solo il “digitale” come in questo caso, spesso confondiamo i due termini). La tecnologia è uno strumento nelle nostre mani, e dev’essere al nostro servizio. Ciò a cui stiamo assistendo è però un’inversione di ruoli: anziché strumento, il digitale è diventato cosciente e guida le nostre scelte e le nostre decisioni. Come qualcuno ha fatto notare, non siamo noi che abbiamo bisogno di Facebook, ma il contrario. Siamo noi che costituiamo la linfa vitale dei social network, noi serviamo a loro, non il contrario. Una bella frase recita: “Se non stai pagando per usarlo, allora il prodotto sei tu”. Noi costituiamo il prodotto, i nostri dati, la nostra identità, la nostra vita. Tutto viene svenduto in questa società liquida, regalato al peggior offerente.

La tecnologia (nel nostro caso, il digitale) è uno strumento, e come tale dev’essere usato. Ogni cosa ha bisogno di un manuale di istruzioni e di una buona dose di buon senso da parte di chi la sta utilizzando. I social network non sono da meno, dobbiamo imparare ad usarli o saremo noi ad essere usati, come in realtà sta già accadendo. Prendiamo un coltello, per esempio. Lo scopo con il quale è stato inventato è certamente quello di aiutarci a mangiare o fornirci un aiuto nei lavori manuali. Esso può però anche essere usato come arma per uccidere qualcuno. La colpa non è certamente del coltello, non è malvagio, lui. La colpa è di chi lo utilizza per uccidere e lo usa con scopi diversi da quelli per cui è stato concepito. Con il digitale la cosa si complica, però. Non è infatti sufficiente conoscere il “manuale di istruzioni”, ma bisogna anche saperlo interpretare. Penso al mio caso. Mi ritengo un utente consapevole, nel senso che conosco le insidie, i vantaggi e gli svantaggi che stanno dietro al digitale, a internet e ai social network. Sono perfettamente nelle condizioni di poter utilizzare il digitale, gli smartphones e Internet senza problemi. Ma non è sufficiente, il pericolo è infatti in agguato. Non voglio sembrare troppo allarmista, complottista o qualunque altra cosa che finisce per -ista, ma occorre essere sinceri. Con il digitale il manuale di istruzioni non è sufficiente. Dicevo, penso al mio caso. Mi riferisco a Facebook nello specifico. Un paio di anni fa ho deciso di eliminare il mio profilo Facebook e la ragione è semplice: non mi importava proprio niente di farmi i fatti altrui. Dopo un po’ prendo una decisione: magari Facebook ha un altro utilizzo, no? E in effetti esistono tanti utilizzi quante sono le persone che lo usano. Così mi iscrivo di nuovo, ma lo uso diversamente. Anziché come strumento di gossip, lo uso come fonte di notizie. Non accetto amicizie, giusto quei pochi amici che vedo regolarmente (10-15). Non mi interessa vedere ciò che fanno (eddai, non offendetevi) per cui nascondo ciò che pubblicano. Decido di seguire solamente testate giornalistiche, riviste, siti di informazione scientifica o personaggi pubblici di interesse. Ecco quindi che la mia sezione notizie diventa effettivamente piena solamente di … notizie. È un po’ come sfogliare contemporaneamente centinaia di quotidiani, tutto passa da lì. All’inizio è molto bello: finalmente uno strumento di aggregazione di notizie su misura, non c’è spazzatura, tutto ciò che compare è perché l’ho scelto io. È tutto interessante, ogni post, ogni notizia, rispecchia perfettamente i miei gusti. Cosa potrei volere di più? La fine. E qui non posso non citare il bellissimo monologo di Novecento, il protagonista dell’omonimo libro di Alessandro Baricco, nonché del meraviglioso film di Giuseppe Tornatore “La leggenda del pianista sull’oceano”. Non lo voglio tagliare, è bello così com’è e va gustato interamente. Almeno questo non merita una fine. Eccolo.

Tutta quella città … non si riusciva a vederne la fine …

La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? Era tutto molto bello, su quella scaletta … e io ero grande con quel bel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi che sarei sceso, non c’era problema.

Non è quello che vidi che mi fermò, Max. È quello che non vidi.

Puoi capirlo? Quello che non vidi …

In tutta quella sterminata città c’era tutto tranne la fine.

C’era tutto. Ma non c’era una fine.

Quello che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo.

Tu pensa a un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono.

Tu lo sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti.

Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quegli 88 tasti la musica che puoi fare è infinita.

Questo a me piace. In questo posso vivere.

Ma se tu. Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai, e questa è la verità, che non finiscono mai …

Quella tastiera è infinita. Ma se quella tastiera è infinita allora su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare.

Ti sei seduto sul seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio.

Cristo, ma le vedevi le strade? Anche soltanto le strade, ce n’erano a migliaia!

Ma dimmelo, come fate voi laggiù a sceglierne una.

A scegliere una donna. Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire.

Tutto quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce, e quanto ce n’è.

Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla …

Io ci sono nato su questa nave. E vedi, anche qui il mondo passava, ma non più di duemila persone per volta.

E di desideri ce n’erano, ma non più di quelli che ci potevano stare su una nave, tra una prua e una poppa.

Suonavi la tua felicità su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato a vivere in questo modo.

La terra … è una nave troppo grande per me. È una donna troppo bella. È un viaggio troppo lungo. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare.

Non scenderò dalla nave. Al massimo, posso scendere dalla mia vita.

Capite ora cosa intendo? Il problema di quello stream di notizie, bellissimo per carità, interessantissime, è che non c’è una fine. Puoi sfogliare un elenco infinito di cose interessanti da leggere, ma non riesci a sceglierne una. Sono tutte interessanti, come faccio a sceglierne una? “Tutto quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n’è”. Quando si ha tutto, non si ha niente. Hai a disposizione infinite informazioni, ma è come se non ne avessi a disposizione alcuna. Quanto tempo perderai a sfogliare quell’elenco?

Porto di nuovo il mio esempio. Facebook ha una funzionalità utilissima: puoi salvare per un secondo momento un contenuto, un post, così quando avrai tempo lo troverai tra gli elementi salvati per leggerlo e non andrà perduto. Interessante questo articolo, lo salvo. E questa notizia? Dopo la leggo. Qualche giorno fa sono tornato tra i miei elementi salvati per leggere qualcosa. Sapete quanti articoli avevo salvato per “dopo”? 125! Ma ci rendiamo conto? 125 articoli da leggere in un altro momento. Quando? Chissà, di tempo libero non ce n’è molto. E cosa me ne faccio allora di 125 articoli interessantissimi se intanto non posso leggerli? Non so se riuscite a capire cosa intendo, ma per me non è gestibile. Siamo bombardati da un continuo flusso di informazioni. Mentre mangiamo, ci riposiamo, siamo sul treno, a lavoro, a scuola, in bagno (sì, ho visto gente andare in bagno con il computer). Sempre. Non riusciamo a dedicarci completamente a qualcosa che siamo già distratti da qualcos’altro. Guardiamo la TV, una trasmissione che ci interessa, e nel frattempo dobbiamo inviare compulsivamente dei tweet ai nostri follower su Twitter per far sapere loro come la pensiamo. Come facciamo a concentrarci sulla trasmissione se nel frattempo dobbiamo scrivere, leggere, rispondere ad altre persone? Ripeto, non sto sostenendo che il problema sia la tecnologia, il digitale (che ci dà opportunità grandiose), il problema è come lo stiamo usando: nel modo sbagliato. Anziché esserci di aiuto, ci distrae, ci allontana dalla vita. Non fraintendetemi, non sono un sostenitore della teoria “si stava meglio quando si stava peggio”, per carità. Questa è un’epoca straordinaria nella quale vivere.

Il nostro cervello elabora continuamente una catena lunghissima di informazioni: deve dire al cuore di battere, percepire la temperatura esterna, farci sapere se abbiamo fame, sete, ci scappa la pipì, permetterci di vedere, sentire, stare in equilibrio. Ma ciò che gli chiediamo con l’utilizzo continuativo dei nostri smartphones lo manda in sovraccarico, gli chiediamo qualcosa di troppo. Non riusciamo più a goderci un concerto che dobbiamo filmarlo dal cellulare e condividerlo subito. Ma con chi? Frega davvero qualcosa agli altri di ciò che stiamo facendo? Probabilmente no, o forse sì? Credo che sia necessario ridimensionare il nostro comportamento, altrimenti finiremo per cortocircuitare i risultati che con milioni di anni l’evoluzione della nostra specie ha ottenuto. Siamo ancora una specie intelligente? Io credo di sì, ho fiducia in homo sapiens sapiens, ma è tempo di maturare e salire ancora un gradino. Tutta questa velocità, questo multitasking, questo sovraccarico che ogni giorno ci viene richiesto ci fa male. Produrre sempre di più, sempre più velocemente, sempre più notizie da gestire, informazioni. La tecnologia ci può e ci deve aiutare, ma non dev’essere essa stessa fonte di stress e di sovraccarico. Deve semplificarci la vita, non complicarcela ulteriormente. In un altro film, “Le ali della libertà” (regia di Giuseppe Tornatore), Brooks, il responsabile della piccola libreria di un carcere, scrive in una lettera, dopo essere uscito di prigione: “Miei cari amici, è incredibile come vadano veloci le cose qua fuori. Ricordo che una volta quando ero ragazzo vidi una macchina, ma adesso, sono dappertutto. Sembra che all’improvviso il mondo abbia una gran fretta […]”. Sembra che il mondo abbia una gran fretta. Sempre più veloce, sempre più in fretta. Dove dobbiamo andare? Non lo so. Forse chi crede in Dio è felice di tutta questa fretta, magari arriva prima nell’aldilà per incontrarlo. Io non credo in Dio, ma non è questo l’importante. La verità è che, ci piaccia o no, questa è l’unica vita che siamo sicuri esista e non possiamo permetterci di sprecarla. Dobbiamo viverla intensamente. Smettiamola di voler fare mille cose tutte insieme, tutte male. Concentriamoci di più su ogni momento, ogni gesto, ogni azione. Non lasciamoci distrarre dal rumore di fondo, dobbiamo riprenderci il tempo che ci viene ingiustamente sottratto. Se siamo in pizzeria con qualcuno, parliamoci. Chi ci sta di fronte ha molto più da dire di chi è all’altro capo di uno smartphone. Torniamo a vivere ogni momento, con serenità, godendo di questa vita in tutte le sue sfaccettature. I ricordi che maturiamo non potrà portarceli via nessuno, il brivido del momento è qualcosa che rimarrà per sempre sulla nostra pelle. Certo, una foto ci aiuterà a ricordarcelo, ed è giusto che sia così. Ma impariamo a dosare meglio ciò che abbiamo, facendo in modo che ogni cosa dia un valore aggiunto alla nostra vita, la arricchisca, non la svilisca. Steve Jobs, nel suo discorso del 2005 all’università di Stanford, ha detto:

Remembering that you are going to die is the best way I know to avoid the trap of thinking you have something to lose. You are already naked. There is no reason not to follow your heart.

No one wants to die. Even people who want to go to heaven don’t want to die to get there. And yet, death is the destination we all share. No one has ever escaped it, and that is how it should be, because death is very likely the single best invention of life. It’s life’s change agent. It clears out the old to make way for the new.

[…] Your time is limited, so don’t waste it living someone else’s life. Don’t be trapped by dogma – which is living with the results of other people’s thinking. Don’t let the noise of other’s opinions drown out your own inner voice. And most important, have the courage to follow your heart and intuition. They somehow already know what you truly want to become. Everything else is secondary.

Tradotto:

Ricordarti che un giorno morirai è il modo migliore per evitare di cadere nella trappola di pensare che hai qualcosa da perdere. Sei già nudo. Non c’è alcuna ragione per non seguire il tuo cuore. Nessuno vuole morire. Persino le persone che vogliono andare in paradiso non vogliono morire per andarci. Sì, la morte è la destinazione che condividiamo tutti. Nessuno l’ha mai sfuggita, ed è giusto che sia così, perché la morte è molto probabilmente l’invenzione migliore della vita. È l’agente di cambio della vita. Spazza via il vecchio per fare strada al nuovo.

[…] Il tuo tempo è limitato, quindi non sprecarlo vivendo la vita di qualcun altro. Non lasciarti intrappolare dai dogmi – poiché sono il risultato del pensiero di qualcun altro. Non lasciare che il rumore delle opinioni altrui sovrasti la tua voce interiore. E soprattutto, abbi il coraggio di seguire il tuo cuore e il tuo istinto. In qualche modo loro sanno già ciò che diventerai. Tutto il resto è secondario.

Dobbiamo vivere ogni momento. È questo il succo della mia riflessione. Non facciamoci distrarre. Concentriamoci sulla nostra vita. E tiriamo fuori il coraggio di prendere in mano le redini; talvolta è più comodo farsi guidare, ma è necessario seguire la nostra voce interiore con onestà per aspirare a qualcosa di grande. Già il poeta latino Orazio, nelle sue Odi, scrisse: “Carpe Diem”. Generalmente tradotto con: “Cogli l’attimo”. Questa breve frase, molto intensa, è alla base di un ultimo film meraviglioso che voglio citare. “L’attimo fuggente”, con uno straordinario Robin Williams nel ruolo del professor Keating. Dovendo condensare due ore di film in poche righe, ho estrapolato queste citazioni:

Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.

[…] Citando Walt Whitman, «O me o vita, domande come queste mi perseguitano. Infiniti cortei di infedeli. Città gremite di stolti. Che v’è di nuovo in tutto questo, o me o vita? Risposta. Che tu sei qui, che la vita esiste, e l’identità, che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso. Che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso.» Quale sarà il tuo verso?

Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza, in profondità, succhiando tutto il midollo della vita, […] per sbaragliare tutto ciò che non era vita e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto.

Abbiamo la possibilità di rendere ogni istante prezioso, non sprechiamolo. Qualcuno un giorno mi ha detto “Rendi la tua vita un’opera d’arte”. Lo farò. E voi?

febbraio 2017

FONTI:

http://www.ilpost.it/2016/01/28/senza-smartphone/

La scienza nella vita

Le persone con le quali mi capita di parlare quotidianamente, sanno certamente che, forse a causa degli studi ingegneristici, e sicuramente anche per carattere (“ognuno ha la sua testa”), tendo ad essere molto razionale, a volte fin troppo, in tutte le decisioni che prendo, quasi a voler applicare il metodo scientifico alla vita quotidiana. E la scienza, effettivamente, non è un compartimento stagno che può essere aperto solo nel momento in cui si fa una ricerca o si vuole esaminare la veridicità di un’affermazione. La scienza è in grado di sostenere il discorso sull’uomo e sulla morale, la scienza può essere un’ottima compagna di vita, che può indirizzarci verso alcune decisioni piuttosto che verso altre. La scienza è maestra di vita, e il metodo scientifico torna utile in molte circostanze, perché ci insegna a riflettere e ragionare seguendo uno schema logico, che raramente ci condurrà in errore. Il metodo scientifico è valido in tutti i campi del sapere. Attenzione però, il metodo scientifico è consolidato ormai da 400 anni (forse anche di più), ma ciò non vuol dire che con la scienza non si commettono errori. Per carità! Anzi, la scienza è vive di errori; la differenza però che ha con una fede o una dottrina, è che questi errori sono il carburante che la muove e la fa progredire, e procede per gradi di conoscenza.

Gli scienziati commettono continuamente errori, i quali vengono però analizzati costantemente e sottoposti all’attenzione della comunità scientifica internazionale che formula nuove ipotesi, teorie e correzioni. La forza della scienza è proprio costituita dagli errori in effetti. La capacità di sbagliare è ciò che ci permette fin da piccoli di crescere, imparare e migliorarci. Ciò che rovina le nostre menti è credere che ci siano verità assolute che non vanno messe in discussione. Steve Jobs diceva “Don’t be trapped by dogma, which is living with the results of other people’s thinking”, ovvero “Non lasciatevi intrappolare dai dogmi, perché essi sono il risultato del pensiero di qualcun altro”. In poche parole, usate la vostra testa e se possibile sbagliate, è l’unico modo per ricordarvi la lezione e impararla a dovere. Mettete in discussione l’autorità, cercate di indagare a fondo la realtà che vi circonda e sforzatevi di capire. Non c’è niente di più sbagliato che accettare dogmaticamente le verità altrui: pochissime cose nella vita sono assolute.

Lo scetticismo è ciò che ci differenzia dalle bestie, la nostra capacità di rimescolare le carte e interrogarci profondamente sul mondo in cui viviamo. Sperimentate, viaggiate, non abbiate paura e datevi da fare per creare un mondo migliore. Sempre citando Steve Jobs, non è importante chi ha torto o ragione, ciò che conta è l’argomento della discussione. Tante persone non riescono a imparare nulla perché sovrappongono il loro ego alle loro idee: bisogna sapersi separare dalle proprie idee. Cercate di assumere sempre un’altra prospettiva, anche solo per verificare la correttezza delle vostre convinzioni. Non abbiate paura di separarvi dalla strada vecchia. “Le idee quando nascono sono fragili, pensieri ancora informi, così facili a perdersi, così facili a compromettersi, così facili a finire schiacciati*, ma è proprio nelle idee che si nasconde la chiave per diventare immortali. Osate, e nulla sarà più come prima.

*Cit. Rick Tetzeli e Brent Schlender, “Steve Jobs Confidential”, Sperling & Kupfer, 2015.

Sulla Natura

Un po’ di tempo fa mi è capitato di partecipare al funerale di un amico, un mio coetaneo, un ragazzo di 21 anni. Carlo (nome di fantasia) si era ammalato alcuni mesi prima di un tumore, un dolore che è stato più grande della sua forza e che, infine, lo ha sconfitto togliendogli il respiro troppo presto. Quando accade che un ragazzo così giovane interrompe così bruscamente l’esplorazione di questo nostro pianeta, sorgono molte domande. La Natura è cattiva? Perché accadono queste cose? Cosa possiamo fare?

Il termine natura è a mio avviso fin troppo abusato. “Natura” significa infatti tutto e niente. Quando sento espressioni del tipo “è contro natura” mi chiedo se chi pronuncia queste frasi si sia mai davvero interrogato sul significato del termine che utilizza. Se provate a cercare la parola “natura” sul dizionario della Treccani, troverete come primo risultato il seguente: “Il sistema totale degli esseri viventi, animali e vegetali, e delle cose inanimate, che presentano un ordine, realizzano dei tipi e si formano secondo leggi”. Il termine natura racchiude in sostanza tutto ciò che esiste. Dire quindi, per esempio, che l’omosessualità è contro natura significa scegliere deliberatamente di essere contro natura, in quanto si sta ignorando la realtà delle cose. Se natura comprende tutto ciò che esiste allora l’essere umano e le sue creazioni fanno parte essi stessi della natura, in quanto figli diretti o indiretti dello stesso Universo. Eppure, questa parola viene continuamente usata a sproposito in libri, pubblicità, film, servizi televisivi. Il significato che quindi nell’uso comune si tende ad attribuire (a mio avviso erroneamente) al termine “natura” è quello di “incontaminato dall’uomo, non artificiale (ovvero, ciò che non è un artefatto umano)”. La natura intesa così allora è davvero molto bella. I paesaggi incontaminati che vediamo nei documentari, gli animali selvatici che vengono filmati nei loro habitat, gli eventi naturali di rara bellezza che accadono in posti molto distanti da noi. La natura così intesa è davvero bellissima. La verità però è che non siamo mai stati tanto amanti della natura (sempre nel significato definito poche righe fa) come da quando ci siamo allontanati parecchio da essa, riparandoci al sicuro delle nostre case con riscaldamento, acqua potabile ed elettricità. Se vivessimo la natura da animali tra gli animali, in una savana piena di insidie e pericoli, ne saremmo terrorizzati. Nessun antibiotico a proteggerci dai batteri patogeni, nessuna protezione dalle intemperie, nessun aiuto da macchine artificiali che ci risparmierebbero la fatica. Così al sicuro nella modernità, chiusi nella nostra comoda bolla tecnologica, ci concediamo il lusso di disprezzare tutto ciò che l’uomo ha creato, credendo che un ritorno alle origini possa portare giovamento alle vite di tutti.

E così “naturale” entra a far parte del linguaggio quotidiano con un’accezione estremamente positiva: cure naturali o alternative (che entrano in contrasto con la medicina definita “tradizionale”, che però è l’unica che funziona davvero), cibo naturale (in contrasto agli scienziati che vorrebbero farci mangiare gli OGM, o contro l’agricoltura che utilizza prodotti chimici per migliorare la resa e la qualità degli alimenti), e poi materiale naturale, soluzione o perfino legge naturale. Cerchiamo di aprire gli occhi: chi usa il termine naturale lo fa per confonderci, per non farci pensare con la nostra testa. Non voglio fare un discorso troppo generale che può prestarsi a cattive interpretazioni, ma quando vi dicono che naturale = buono non dovete crederci. La natura non è né buona, né bella, né giusta. Ma non è nemmeno cattiva, brutta o sbagliata. La natura è semplicemente indifferente. A questo proposito, ci terrei che leggiate alcuni paragrafi tratti da un libro del biologo britannico Richard Dawkins:

[…] Questa è una delle più dure lezioni che un essere umano debba imparare. Noi non riusciamo ad ammettere che gli eventi della vita possano essere né positivi né negativi, né spietati né compassionevoli, ma semplicemente indifferenti alla sofferenza, mancanti di scopo.

Noi essere umani abbiamo sempre presente il concetto di scopo. Ci è difficile soffermarci su qualcosa senza domandarci quale sia la sua funzione, quale il suo motivo o quale il suo obiettivo. Quando l’ossessione per lo scopo diventa patologica le si dà il nome di paranoia, consistente nell’interpretare come scopo negativo ciò che in realtà è soltanto casuale sfortuna. Ma questa è una forma estrema di una fissazione pressoché universale. Mostrateci un qualsiasi oggetto o processo e ci sarà difficile resistere alla tentazione di chiedere ‘Perché’ e ‘A quale scopo’.

Il desiderio di individuare uno scopo in ogni dove è naturale in un animale che vive circondato da macchine, da opere d’arte, da strumenti e da manufatti aventi una precisa destinazione; un animale, per di più, i cui pensieri sono costantemente dominati dai propri obiettivi personali. Un’automobile, un apriscatole, un cacciavite o un forcone giustificano tutti la domanda: ‘A cosa serve?’. È probabile che i nostri predecessori pagani si siano posti il medesimo interrogativo sul tuono, sulle eclissi, sulle rocce e sui corsi d’acqua. Oggi ci facciamo vanto di esserci scrollati di dosso questo animismo così primitivo. Se una pietra che si trova nel mezzo di un ruscello si rivela un comodo punto di appoggio per attraversarlo, noi consideriamo la sua utilità come un beneficio casuale, non come un vero e proprio scopo. Ma la tentazione atavica riaffiora prepotentemente quando veniamo colpiti da una tragedia (la parola stessa ‘colpiti’ ha un’eco animistica): ‘Perché, perché il cancro/il terremoto/l’uragano ha colpito proprio mio figlio?’. E la medesima tentazione può diventare addirittura motivo di compiacimento quando il dibattito verte su argomenti come l’origine di tutte le cose o le leggi fondamentali della fisica, nel qual caso culminerà puntualmente nella vuota domanda esistenziale ‘Perché vi è qualcosa invece del nulla?’.

Ormai ho perso il conto delle volte in cui qualcuno si è alzato al termine di una conferenza per proclamare: ‘Voi scienziati siete molto bravi a rispondere alle domande sui come, ma dovreste ammettere di essere impotenti dinanzi alle domande sui perché’. Lo stesso principe Filippo, duca di Edimburgo, fece questa osservazione al termine di una conferenza tenuta a Windsor dal mio collega Peter Atkins. Dietro la domanda vi è sempre il sottinteso, mai giustificato, che essendo la scienza incapace di rispondere a domande sui ‘Perché’, deve esistere un’altra disciplina che è qualificata a dare le risposte: un sottinteso, ovviamente, del tutto illogico.

Credo proprio che Atkins abbia liquidato il ‘Perché’ regale piuttosto sbrigativamente. Il mero fatto che sia possibile formulare una domanda non la rende di per sé né legittima né sensata. Esistono molte cose su cui è possibile domandare ‘Qual è la sua temperatura?’ o ‘Di quale colore è?’, ma queste domande non si possono porre riguardo ad altri argomenti, come la gelosia o la preghiera. Analogamente, è giusto domandare ‘Perché’ riguardo ai parafanghi di una bicicletta o riguardo alla diga di Kariba, ma non si ha il diritto di presumere che una domanda sul ‘Perché’ meriti una risposta quando riguardi un masso, una sventura, l’Everest o l’universo. Può succedere che una domanda sia semplicemente impropria, anche se profondamente sentita.

[…] Se l’universo fosse composto solo di elettroni e di geni egoisti (e in effetti è così, N.d.M.), tragedie insensate come questa sarebbero esattamente ciò che dovremmo aspettarci, insieme con una buona fortuna ugualmente insensata. Un universo siffatto non sarebbe né cattivo né buono quanto a intenzioni. In un universo di cieche forze fisiche e di duplicazione genetica, alcune persone rimangono danneggiate mentre altre sono fortunate, e in tutto ciò non vi è né ragione né giustizia. L’universo che noi osserviamo ha precisamente le proprietà che potremmo aspettarci se non avesse né progetto né scopo, né bene né male, null’altro che cieca e impietosa indifferenza. […]

La prossima volta che vi capiterà quindi di dover decidere di ambiente o di salute, di leggi o di morale, ricordatevi che non ha senso basarsi sulla natura (sempre ammesso che sia possibile farlo), ma solo sulla nostra intelligenza, o la nostra coscienza, che, in un modo o nell’altro, ci ha condotto fin qui abbastanza felicemente.

FONTI:

Richard Dawkins. Il fiume della vita. 2008.

N.d.M. sta per “Nota di Marco”, ovvero…mia!

http://www.treccani.it/vocabolario/natura/

Lettera a un figlio che ha perso il padre

Alessio (nome di fantasia), mio coetaneo, ha perso il padre da poco. Un infarto, tanto basta per lasciare all’improvviso questa vita. Che giustizia c’è in tutto questo? Come può essere garantita la giustizia in un altrove, un aldilà, se già in questo piccolo mondo non è rispettata? Queste parole ti sembrano umane, perché lo sono. Ma sono i nostri valori che ci rendono umani e sulla base dei quali proviamo emozioni e sentimenti. Il nostro essere umani ci rende partecipi del dolore, perché non basta la fattualità della vita a farci tacere, ma cerchiamo risposte che sappiamo di non poter trovare. Ad alcune domande non c’è risposta, ad altre abbiamo paura di trovarla, ed altre ancora non ha senso nemmeno porsele. Solo per il fatto che una domanda è formulabile non significa, infatti, che questa domanda sia sensata o abbia risposta. Dov’è Dio? Perché non fa nulla? Perché c’è la morte? Non ho una risposta, e quindi sto zitto. Diffida di chiunque voglia convincerti del contrario. Non ce l’ho io, e non ce l’ha nemmeno lui. In questi anni ho provato tante volte a rispondere, e non ho mai trovato la Verità. Se vuoi posso dirti la mia verità, ma non sei costretto ad accettarla. Non ha senso chiedersi perché siamo qui, ci siamo e basta, ed è questo ciò che conta. Rispondere Dio non è una risposta, è un vaneggiare “pallido e assorto” che evita di rispondere alla domanda. Non abbiamo trovato la risposta, ci stiamo ingannando con le nostre stesse mani. Godi di ogni frutto che la vita vorrà donarti, si dice così, anche se in realtà la vita non è affatto un dono. La natura prende e toglie, senza coscienza del bene e del male. Ciò che per noi ha un valore sentimentale, ce l’ha sulla base dei nostri sentimenti appunto. Il bene o il male sono concetti relativi. La vita ti toglie un nonno, un padre, e ti regala un figlio. È questa la sua bellezza, e dobbiamo imparare ad accettarla così com’è; le farfalle sono belle anche se la loro vita dura solo un giorno. La fugacità del tempo non dev’essere motivo di sconforto, ma deve anzi aiutarci a vivere più a fondo la nostra vita. Per imparare ad amare ogni giorno, a piangere sotto il cielo stellato e capire finalmente le giuste proporzioni. La natura non è né buona, né giusta, né cattiva, né sbagliata: è semplicemente indifferente a ciò che le passa vicino, noi compresi. Se imparerai ad accettare questo piccolo segreto, forse non sarai più felice di come sei adesso. Le domande sono scritte nel nostro essere umani, sarebbe stupido ignorarle. Ma magari ti sarà più facile accettare che se non c’è un senso nelle cose, allora non vale la pena di cercarlo. Sono convinto che per chi crede in Dio sorgano invece molti più problemi. Perché non è ammissibile che un Padre buono, giusto, misericordioso faccia penare così i suoi figli. Nessun padre lo vorrebbe, e non importa cosa si sono inventati i teologi. Ricorda cosa diceva il professor Keating: “La razza umana è piena di passione”. Ed è vero. Non permettere a nessuno di scherzare con i tuoi sentimenti, le tue emozioni, non permettere a nessuno di approfittare delle tue paure, neanche se questo qualcuno è Dio stesso. Dio è morto quando è morto tuo padre. Dio è morto quando è morto chiunque senza spiegazione. Non cercherò di convincerti che la morte è una cosa bella. A nessuno piace l’idea di morire. Come diceva Steve Jobs: “Neanche chi crede nel Paradiso vuole morire per andarci”. La morte è dolore, che arrivi per un motivo preciso e atteso, la vecchiaia, o che colpisca all’improvviso in un giorno qualunque. Nessuno è preparato alla morte, nemmeno io. Ma accettare le cose così come sono, può farci stare un pochino meglio. Qualcuno dice che la morte è la grande livellatrice, butta via il vecchio per fare posto al nuovo. In un universo senza scopo, senza coscienza, questo è esattamente ciò che dovremmo attenderci. Non pensare a ciò che ti attende, che ti aspetta, che è stato. La tua vita è nel presente, e ogni secondo passato a sprecare il fiato davanti a una croce che non ha orecchie, a cercare risposte a ciò che una risposta non ha, è un secondo in meno a tutta la gioia che puoi creare per compensare il male che vedi. Gioia e dolore sono emozioni e giudizi umani. Vivili come tali, né più né meno, senza togliere loro importanza o esagerarli nel tuo animo, qualunque cosa sia. Vivi, perché non c’è altro di meglio che tu possa fare.

Extra

Teoria gender, un’analisi scientifica

Negli ultimi mesi il mondo cattolico (non in modo unanime per fortuna) è insorto contro la cosiddetta teoria gender, un ipotetico costrutto ideologico che mirerebbe a indottrinare le menti indifese dei bambini con una visione antropologica distorta della realtà. Al di là delle credenze personali e delle ideologie, per la verità molto presenti intorno a certi argomenti, cosa dice la scienza riguardo alla “teoria gender”?

Innanzitutto, cos’è la teoria gender? Beh, questo sarà un paragrafo molto breve e il motivo è presto spiegato: la teoria gender non esiste. Nessuno in ambito accademico ha mai parlato infatti di teoria gender. Tale termine è stato coniato dal mondo cattolico più conservatore e dalla destra più reazionaria sul finire degli anni ‘90 e i primi anni 2000 per creare consenso intorno a ideologie sessiste e omofobe. Negli ultimi anni è quindi entrato negli slogan dei manifestanti, per lo più ignari, contrari a qualunque tipo di intervento che voglia in qualche modo “scardinare” l’ordine sessuale formato dal dualismo maschio/femmina.

Chiarito che la teoria gender non esiste, andiamo quindi ad analizzare quelli che invece sono gli studi di genere. Nati a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 essi traggono origine dalla cultura femminista che è riuscita a trasportare nel mondo accademico il sapere creatosi con i movimenti sociali di quegli anni. Nel mondo anglosassone si sono quindi sviluppati prima i “gender studies” e poi i “gay, lesbian and queer studies”, ovvero degli strumenti concettuali che, muovendosi in un campo di studio interdisciplinare, hanno permesso di analizzare le realtà storiche, sociali e culturali delle relazioni tra i sessi nella loro complessità. Lungi dal voler dare una definizione particolare della differenza tra i sessi, questi studi hanno dimostrato come sia difficile includere in sottocategorie stagne l’essere umano, a causa di una molteplicità di esperienze e di identità. I gender studies hanno contribuito in modo significativo a diminuire i casi di bullismo sessista e discriminazioni basate sul genere e sull’orientamento sessuale, arricchendo di conoscenze molti settori di ricerca, come la medicina, la psicologia, l’economia, la giurisprudenza e le scienze sociali. Nel corso degli anni è infatti emerso come il sessismo, l’omofobia, il pregiudizio e gli stereotipi di genere siano appresi dai bambini sin da primi anni di vita e vengano poi trasmessi tramite la socializzazione, le norme sociali, le pratiche educative, il linguaggio e la comunicazione mediatica. Infine, questi studi hanno dimostrato (se mai ce ne fosse bisogno) che l’omosessualità è una variante non patologica della sessualità umana.

Dopo aver presentato gli studi di genere, rimane ancora da capire il significato del termine “genere” utilizzato. Il sesso di un individuo è determinato biologicamente alla nascita in base ai genitali, grazie ai quali è possibile categorizzare in femmine e maschi i neonati (lasciamo perdere il caso di malformazioni o altre malattie). Gli studi di genere non negano l’esistenza di questo sesso biologico, ma sottolineano come il sesso da solo non sia sufficiente a definire quello che siamo. La nostra identità, infatti, è una realtà complessa e dinamica che interagisce costantemente con l’ambiente circostante e gli stimoli ricevuti, ed è composta di varie categorie (sesso biologico, genere, orientamento sessuale, ruolo di genere, …).

La categoria di “genere” compare nella ricerca psichiatrica, sociologica e antropologica americana intorno agli anni ‘50. Essa nasce dalla necessità di distinguere tra sesso, ovvero la dimensione corporea di una persona (il sesso biologico) e genere appunto, ovvero la percezione che ogni persona ha di sé in quanto maschio o femmina (identità di genere), ma anche il sistema socialmente costruito intorno a quelle stesse identità (ruolo di genere). La distinzione fra sesso anatomico e genere evidenzia come possa esserci una discontinuità tra il corpo con cui si nasce, l’immagine che si ha di sé e i ruoli stabiliti dagli altri o dalla società (gli stereotipi di genere). Il genere è quindi un costrutto socioculturale composto da fattori non biologici che contribuiscono a modellare il nostro sviluppo come uomini e donne e a incasellarci in determinati ruoli (di genere) ritenuti consoni all’essere femminile e maschile. Al contrario, quindi, del sesso biologico, che è presente dalla nascita, il genere si acquisisce e si sviluppa con i modelli socioculturali di riferimento. Infine, troviamo l’orientamento sessuale, ovvero l’attrazione sessuale e affettiva che possiamo provare verso altri individui (del nostro stesso sesso o del sesso opposto).

La questione del genere sessuale è quindi estremamente complessa, poiché complessa è la realtà intorno a noi e soprattutto l’emotività di ciascun individuo. Ciò che però dovremmo ricordarci è che non è importante l’identità sessuale delle persone, quanto il valore di ogni essere umano in quanto tale, indipendentemente dalle sue differenze, specificità, caratteristiche. Ogni persona ha la propria dignità e come tale va rispettata: non esistono caratteristiche che privino gli esseri umani della loro dignità, se non la crudeltà verso altri esseri umani. La discriminazione toglie dignità a chi discrimina.

FONTI:

Fai clic per accedere a AIP_position_statement_diffusione_studi_di_genere_12_marzo_2015%281%29.pdf

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/10/michela-marzano-la-teoria-gender-non-esiste-questa-battaglia-ideologica-rischia-di-bloccare-la-legge-sulle-unioni-civili/2207011/

http://www.wired.it/attualita/politica/2015/03/13/teoria-del-gender/

http://www.ilpost.it/2015/04/16/teoria-del-genere-gender-theory/

Il cubo di Rubik: molto più di un gioco

Sono sicuro che anche voi da qualche parte in casa ne avete uno: in un cartone in soffitta, in quel vecchio contenitore dove ci sono i giochi dei bambini di quando erano piccoli, o magari ancora lì, sulla mensola in sala che vi fissa irrisolto. Il cubo di Rubik è un gioco popolarissimo, capace di affascinare tutte le generazioni, con le sue facce colorate forse impossibili da rimettere a posto come quando lo abbiamo comprato. Ma come, pensiamo, mi reputo una persona intelligente, possibile che non riesca a risolvere un rompicapo per bambini? Beh, in effetti sì, è possibile. E le ragioni sono due: la prima, come detto, è che è un rompicapo anche per bambini, ma non solo, e la seconda è che risolverlo è in effetti impossibile (se non sai come si fa), a meno che non abbiate a disposizione moltissimo tempo. Per esempio, se iniziate ora a risolverlo procedendo a caso e provate una combinazione al secondo, potreste riuscire nella vostra impresa nel giro di 1350 miliardi di anni circa, ovvero più del tempo che è trascorso dal Big Bang ad oggi e molto più di quello che sarà sufficiente al Sole per morire. La probabilità di risolvere il cubo di Rubik procedendo a caso è infatti di 1 diviso 43.252.003.274.489.856.000, ovvero 1 diviso 43 miliardi di miliardi. Per fare un confronto, è più probabile che uscendo di casa vi colpisca in testa un meteorite.

Storia

Il “cubo magico” venne inventato per fini didattici nel 1974 dal professor Ernő Rubik, docente di architettura all’istituto universitario d’arte e design Moholy-Nagy Művészeti Egyetem di Budapest. Lungi dall’essere considerato un gioco, all’inizio venne utilizzato solamente dai matematici ungheresi per spiegare la geometria tridimensionale e risolvere problemi statistici e teorici. Il cubo si presentava diverso da quello attuale: era di legno, senza colori e con gli angoli smussati. La versione attuale venne brevettata 3 anni dopo, nel 1977, e nel 1980 venne esportato dalla Ideal Toy Company con il nome attuale: “cubo di Rubik”. Dopo oltre quarant’anni dalla sua invenzione, di questo rompicapo matematico ne sono state vendute più di 350 milioni di unità in tutto il mondo, rendendolo senza dubbio il re dei giocattoli.

Curiosità

  • Il cubo di Rubik esiste, oltre che nella sua versione più famosa, la 3x3x3, anche in altre versioni, dalla 2x2x2 alla 17x17x17, ovvero un cubo con 17 quadratini per lato. Per i non vedenti è inoltre stata inventata una versione braille.
  • Il cubo di Rubik più prezioso venne costruito nel 1995 dalla Diamond Cutters Int. ed è costituito da oro a 18 carati e pietre preziose come smeraldi, ametiste e rubini. Il suo valore è stato valutato in 1,5 milioni di dollari.
  • Il cubo di Rubik più grande si trova a Knoxville, nello stato del Tennessee: è alto 3 metri e pesa mezza tonnellata.
  • Il più piccolo cubo di Rubik è stato invece realizzato dal designer Evgeniy Grigoriev; perfettamente funzionante, è un cubo 3x3x3 che misura un centimetro per lato.
  • Il metodo di risoluzione più semplice e conosciuto per il cubo di Rubik è il cosiddetto “metodo a strati”, ma ne esistono anche altri che vengono usati dai “campioni” nelle gare ufficiali. I più usati sono il metodo Petrus e il metodo Fridrich, per i quali può essere necessario imparare più di 140 algoritmi diversi.
  • Ernő Rubik impiegò più di un mese a risolvere il cubo che lui stesso aveva inventato. Per dirla tutta, non era nemmeno sicuro che potesse esistere una soluzione per il cubo.
  • Il detentore del record umano per la risoluzione più veloce del cubo di Rubik appartiene all’australiano Feliks Zemdegs che ha impiegato 4,22 secondi. Il robot che ha invece risolto il cubo di Rubik nel minor tempo possibile si chiama Rubik’s Contraption e ha impiegato 0,38 secondi.
  • Il cubo di Rubik è diventato così popolare che non solo esistono campionati e competizioni in cui si sfidano i “cubers” (ovvero gli atleti di questo “sport”, comunemente conosciuto come “speedcubing”), ma nella lingua inglese è entrato il verbo “to cube”, che sta proprio a indicare l’arte di risolvere il cubo in tempi molto rapidi.
  • Si calcola che al mondo ci siano oltre 100 mila speed cubers che partecipano a gare ed eventi per appassionati.
  • Il cubo di Rubik ha fatto la sua comparsa anche in alcuni film e serie TV. Tra questi troviamo, per esempio, i Simpson, The Big Bang Theory, WALL•E e Una notte al museo 2.

Matematica (e non solo)

Oltre che un gioco divertente, il Cubo di Rubik è un oggetto matematico di grande interesse, d’altronde è stato inventato proprio con questo scopo. Il cubo di Rubik, nella sua versione originale, è composto da otto angoli (i vertici in cui si incontrano tre “lati”) e da dodici spigoli (i “lati”, dove si incontrano due facce). Come spiegato, per esempio, sulla pagina Wikipedia riportata tra le fonti, esistono quindi 8! (si legge “otto fattoriale”, ovvero 8x7x6x5x4x3x2x1, cioè 40320) modi diversi di disporre gli angoli del cubo. Ciascuno di questi angoli può essere ruotato in tre posizioni diverse (ogni cubetto angolare presenta tre facce di colore diverso), ma solo 7 degli 8 angoli possono essere ruotati in maniera indipendente, ovvero posso scegliere arbitrariamente la posizione di sette angoli, mentre l’ottavo sarà determinato. Ciò fornisce 37 (=2187) combinazioni. I dodici spigoli possono essere disposti in 12!/2 (239500800) modi possibili e ciascuno di essi può essere ruotato a piacere indipendentemente dagli altri, ad eccezione dell’ultimo che è determinato; si ottengono in totale 211 possibilità. Il numero totale di permutazioni è dunque dato dalla moltiplicazione di tutti i termini precedenti, ovvero:

che è il numero citato in precedenza, ovvero circa 43,25 miliardi di miliardi. Il cubo di Rubik, oltre che per il calcolo delle probabilità e per la statistica, viene utilizzato per studi di geometria tridimensionale, problemi di ottimizzazione, teoria dei gruppi, algoritmi di crittografia e perfino in ambito medico, non solo nella ricerca, ma anche, per esempio, come “terapia” per bambini autistici.

FONTI:

https://it.wikipedia.org/wiki/Cubo_di_Rubik

https://www.ilpost.it/2014/05/19/cubo-di-rubik-storia/

Fai clic per accedere a rubik.pdf

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Visita a Thales Alenia Space e Altec SpA

L’ingresso principale di Thales Alenia Space si trova a Torino, in Strada Antica di Collegno, 253. Una volta arrivati, occorre passare dalla portineria, dove vengono ispezionati gli zaini e controllati i documenti di identità; la zona infatti è militare, di conseguenza non è possibile scattare fotografie all’interno degli edifici (salvo specifico permesso) o girare liberamente come visitatori se non accompagnati. Puntualissimo, arriva quindi il nostro accompagnatore: l’ingegner Claudio Casacci (a cui, tra l’altro, è dedicato l’asteroide 4814 Casacci). Claudio, che vuole farsi dare del tu, è un astronomo instancabile. Appassionato nel profondo, gli brillano gli occhi quando nell’auditorium ci racconta di Thales Alenia. Lui è in azienda dal 1985, e in questi 31 anni ha visto crescere l’azienda dall’interno e ha potuto seguire da vicino l’evoluzione del settore aerospaziale.

Thales Alenia Space, ci racconta, è nata nel 2007 come joint venture tra Thales, colosso francese attivo in molti settori ingegneristici, e Finmeccanica. Le partecipazioni sono rispettivamente al 67% e 33%. La storia di Alenia però è ben più lunga: nel 1990, dalla fusione tra Aeritalia Sistemi Spaziali e Selenia Spazio nasce Alenia Spazio, specializzata nella produzione di componenti meccaniche ed elettroniche per le missioni spaziali. Nel 2005 poi Alenia Spazio si fonde con Alcatel Space, da cui nasce Alcatel Alenia Space. Nel 2007, infine, l’acquisto da parte di Thales e la nascita quindi dell’attuale Thales Alenia Space. L’esperienza che questa azienda ha quindi maturato in tutti questi anni la rende un’eccellenza nel panorama non solo italiano, ma anche europeo e mondiale per quanto riguarda la produzione di componenti per le missioni spaziali.

Thales1Tra le società principali che si rivolgono a Thales Alenia Space ci sono naturalmente le grandi agenzie spaziali note al grande pubblico, come la NASA (National Aeronautics and Space Administration) e l’ESA (European Space Agency). Ma non solo. Sono moltissime infatti le collaborazioni con tante agenzie private attive nei settori più vari della ricerca, dalla medicina, alle telecomunicazioni. D’accordo, ma cosa fanno in concreto a Torino? Torino non è l’unica sede di Thales Alenia Space, ma qui in particolare il lavoro si concentra su tutto ciò che riguarda le missioni spaziali e la presenza (anche fisica) dell’uomo nello spazio; vengono prodotte componenti meccaniche per satelliti, sonde e navicelle spaziali. Per citare giusto due numeri (spero di ricordarmeli correttamente, nel caso non fosse così, segnalatemelo) su 135 viaggi che sono stati fatti con lo Space Shuttle dalla NASA, 69 di questi riguardavano missioni in cui tutto o solo qualche pezzo era stato costruito dalla Alenia. Collaborazione fondamentale è inoltre quella con la Stazione Spaziale Internazionale, per la quale sono stati progettati e costruiti (in autonomia o in collaborazione) due nodi (2 e 3), l’MPLM, la Cupola, Columbus e ATV. Molte sono inoltre le missioni spaziali che hanno visto una partecipazione attiva di Thales Alenia Space, tra queste ricordiamo velocemente: Beppo-SAX, Rosetta, ExoMars, BepiColombo, Venus Express.

Dopo una parentesi sulla storia dell’azienda, gli obiettivi e i progetti, ecco quindi che ci muoviamo alla scoperta dello stabilimento. Cosa c’è da vedere? Beh, sicuramente molti uffici, il lavoro di progettazione e costruzione richiede soprattutto menti e cervelli al lavoro, ma ciò che affascina il pubblico sono sicuramente le camere di integrazione, ovvero il luogo fisico dove vengono assemblate le varie componenti per la costruzione di moduli e navicelle. Ci sono sostanzialmente due tipologie differenti di camere: quelle asettiche e quelle in atmosfera protetta. La differenza è sostanzialmente relativa alla “pulizia” dell’aria all’interno; nelle prime c’è una disinfezione pressoché completa dai batteri (per evitare la contaminazione), nelle seconde si assicura “semplicemente” un numero di particelle per metro cubo inferiore a 100 mila. Naturalmente non è possibile visitare questi ambienti dall’interno, ma grazie a grosse vetrate è possibile vedere tutto ciò che viene svolto all’interno. È inoltre presente una Glove Box, ovvero uno spazio di lavoro isolato dall’esterno, all’interno del quale vengono costruite varie componenti dai tecnici tramite dei guanti isolati (sembrano un po’ le cappe dei biologi).

Ecco quindi il momento di visitare ALTEC SpA. Ci guida nel tour Marco (che purtroppo non ci ha detto il cognome), ingegnere che si sta occupando della missione ExoMars. Appena arrivati veniamo condotti in un’area in cui è stata ricostruita, sulla base dei dati presi dai satelliti in orbita intorno a Marte, la possibile zona di atterraggio del lander della missione ExoMars che partirà nel 2020. Sono 400 metri quadrati di superficie, in cui vengono condotti i test per verificare le capacità motorie del lander, che dovrà muoversi su un terreno accidentato con molti ostacoli da evitare.

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Dopo aver ricevuto informazioni sul lander, ci spostiamo quindi nella hall, dove è possibile ammirare un modellino della ISS (ma neanche tanto -ino). La configurazione dei moduli è simile a quella attuale, seppure con delle differenze; i colori invece non corrispondono a quelli reali. Una curiosità che mi ha colpito: sulla ISS vengono considerate come fonti di calore anche…gli astronauti stessi, che concorrono quindi a scaldare la stazione spaziale con il calore dei loro corpi! 6 astronauti producono infatti circa 1,2 KW di potenza.

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Infine, si va negli hangar, dove sono conservati alcuni moduli prodotti negli stabilimenti (come MPLM) e altri prototipi e modelli in scala. Ciò che attira maggiormente la nostra attenzione è sicuramente lui, lo shuttle IXV. IXV, il cui acronimo sta per Intermediate eXperimental Vehicle, fa parte di un programma dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) per la progettazione di un veicolo spaziale per il rientro controllato in atmosfera da un’orbita bassa. Magari qualcuno di voi se lo ricorda: l’anno scorso, precisamente l’11 febbraio 2015, era stato condotto con successo un volo di test di un prototipo funzionante, che è stato lanciato con un lanciatore Vega. Ebbene, quel prototipo è conservato negli hangar di ALTEC SpA. Si possono chiaramente notare i segni lasciati dal rientro in atmosfera; l’attrito con l’aria genera enormi quantità di calore (in realtà non è solamente l’attrito), a cui il veicolo resiste grazie a delle protezioni termiche, si notano quindi dei segni neri di “sbruciacchiature” (scusate il termine tecnico) lungo tutto il corpo di IXV.

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È stata sicuramente una mattinata densa e ricca di emozioni. Ciò che colpisce di più visitando l’azienda non sono tanto gli edifici o le componenti meccaniche visibili, quanto le persone. È stupendo come in un unico luogo vi siano così tante persone mosse da una passione comune: non ci sono ingegneri, biologi o dottori, ci sono solo uomini con un’unica grande voglia di fare qualcosa di grande, di mostrare al mondo quanto la ricerca e l’esplorazione spaziale possano non solo arricchire le nostre conoscenze, ma anche avere ricadute fondamentali sulle nostre vite di tutti i giorni, con l’evoluzione tecnologica e scientifica degli oggetti che usiamo per curarci, svagarci e lavorare. Le persone che lavorano in Thales Alenia Space si emozionano parlando delle missioni a cui hanno collaborato; le sonde, i satelliti, i moduli che lì sono stati costruiti vengono visti come dei figli, che crescono poco alla volta, a cui si ha dato vita non senza sacrifici certo, ma con grande soddisfazione. L’esplorazione spaziale è una tappa fondamentale nell’evoluzione umana, che ci ha dato tanto e potrà ancora farci crescere molto per portarci, infine, a scoprire qualche segreto in più sul meraviglioso Universo in cui viviamo.

Grazie quindi a tutti coloro che lavorano in Thales Alenia Space e ALTEC SpA, ai ragazzi di AESA Torino che hanno organizzato questa stupenda esperienza e a tutti coloro che hanno partecipato alla visita, da “visitatori” o da “guide”.

maggio 2016

Recensione “Dove sono tutti quanti?”

Dove sono tutti quanti? O anche, siamo soli nell’Universo? È una domanda che tanti, se non tutti, si pongono almeno una volta nella vita. Siamo gli unici abitanti di questo curioso Universo, oppure là, da qualche parte fra una gigante rossa e un buco nero, altri bizzarri organismi vivono le loro vite incoscienti della grandezza del Cosmo? E se sì, sono intelligenti? Non è facile rispondere a questi interrogativi, e certamente non si può liquidare la questione in poco tempo: lo sa bene il bravissimo astrofisico Amedeo Balbi, che ha deciso di scriverci un libro per provare a chiarire ciò che abbiamo scoperto finora.

Amedeo Balbi, classe 1971, è astrofisico presso l’Università di Roma “Tor Vergata”. A 45 anni non si è certo vecchi, ma le sue radici affondano in un passato glorioso per l’esplorazione spaziale. Nato poco meno di 2 anni dopo l’allunaggio, Amedeo Balbi ha vissuto la sua infanzia durante anni ricchi di stimoli nel campo della ricerca scientifica e dell’esplorazione spaziale. Da Star Trek a Star Wars, anche il mondo del cinema celebrava quegli anni di entusiasmo verso la conquista dello spazio, e un bambino che si fosse trovato a crescere in quel periodo non avrebbe fatto fatica a viaggiare con la fantasia verso altri pianeti lontani nello spazio e nel tempo. Ed è proprio quello che faceva anche Amedeo Balbi, come racconta nel suo libro: fingeva di viaggiare per l’Universo sopra a un’astronave e rimaneva incantato ogni volta che osservava quei puntini luminosi nella notte. D’altronde, sfido chiunque a non provare la stessa emozione: il cielo sopra di noi è sempre stato un’attrattiva affascinante per l’essere umano, ed è da lì che sono nate le storie e i miti più strani. Divinità ed esseri umani intrecciavano le loro storie nel passato proprio attraverso quel cielo stellato, in cui fantastiche figure leggendarie si muovevano e giudicavano gli esseri umani per i loro stessi difetti. Guardando tutti quei puntini luminosi, qualcuno di più qualcuno di meno, qualcuno più rosso altri più blu, la fantasia non può che muoversi verso territori inesplorati e accendere in noi la curiosità di saperne di più. Fintanto che le nostre conoscenze dell’Universo sono state abbastanza limitate, se non quasi nulle, ovvero prima della nascita della scienza moderna, dobbiamo ammettere che non siamo stati molto bravi a indagare sulla sua natura. Tutto ruotava intorno alle divinità, che muovevano i pianeti nella notte e portavano con un carro alato il Sole durante il giorno; fantasioso, ma sinceramente poco affascinante. Nel momento in cui però abbiamo iniziato a puntare un telescopio su quei mondi lontani, nemmeno l’Inquisizione è riuscita a fermare la nostra sete di meraviglia. Figuriamoci poi quando con l’inizio dell’esplorazione spaziale abbiamo iniziato a inviare navicelle e sonde nel Sistema Solare: l’entusiasmo è schizzato alle stelle (letteralmente). A mano a mano però che abbiamo preso coscienza della bellezza dell’Universo e abbiamo iniziato a capirne alcuni segreti, un dettaglio non trascurabile ci è saltato all’occhio: l’Universo è grande, spaventosamente grande. E anzi, appena abbiamo intuito le dimensioni dell’Universo, ecco che nuovi studi ci hanno rivelato che in realtà l’Universo era ancora più grande di quanto immaginassimo e ancora, continuava ad espandersi. Sembrava potessimo atterrare (si fa per dire…) su una stella lontana nella nostra galassia, e invece siamo costretti a rimanere in questo piccolo angolo chiamato “Sistema Solare”.

La scoperta che l’Universo non è alla nostra portata (nel senso che per adesso non possiamo muoverci da una parte all’altra con facilità), non ci ha però fermato e anzi, forse lo ha reso ancora più affascinante. Ciò che non possiamo avere, desta in noi più desiderio, dicono.

Una volta capito quanto è grande l’Universo, qualcosa però è cambiato nel nostro approccio, o almeno si spera. L’illusione di essere speciali è infatti sempre stata forte negli esseri umani. E in effetti è comprensibile, chi non vorrebbe essere speciale? Dal sistema geocentrico in cui il Sole e gli altri pianeti ruotano intorno alla Terra, alle divinità che si prendono cura di noi e ci osservano ogni secondo della nostra vita, sull’essere speciali non abbiamo mai messo a freno la fantasia. Poi però abbiamo iniziato a studiare, e abbiamo compreso che ci sono moltissime stelle nell’Universo, e il nostro Sole non è quindi così speciale, anzi, è abbastanza comune. Nella sola Via Lattea, la nostra galassia, si pensa ci siano fino a 200 miliardi di stelle, e forse intorno a ognuna di esse c’è almeno un pianeta. Anche i pianeti non sono quindi rari nell’Universo, peccato averlo scoperto solo adesso che ormai Giordano Bruno è stato bruciato sul rogo. E come la Via Lattea, è probabile ci siano altre 120 miliardi di galassie nel Cosmo se non di più. Insomma, in un posto così grande che neanche la nostra mente è in grado di capire quanto, pensare di essere speciali e frutto dell’interesse di un qualche dio, è pura superbia. Consoliamoci però, con questa riflessione: forse qualcosa di speciale il nostro Sistema Solare ce l’ha, almeno ai nostri occhi. La Terra non è un posto speciale nell’Universo, ma per noi lo è eccome: è casa nostra. Qui c’erano le condizioni ideali per la vita come la conosciamo, e su questo piccolo pianeta ha potuto nascere Homo Sapiens, non certo la civiltà più intelligente della galassia, ma qualcosa di buono lo abbiamo fatto anche noi. Quindi non siate tristi, a chi non sembrerebbe speciale casa propria?

E va bé Marco, taglia corto. Hai scritto un sacco di parole e ancora non ci hai detto se gli alieni esistono oppure no. Dobbiamo chiederlo direttamente ad Amedeo Balbi? Beh, sicuramente lui potrebbe rispondervi molto meglio di me, ma il fatto è che la questione è complessa e sì, ne sappiamo ancora poco nonostante tutti questi anni di studi. D’altronde l’unico caso noto nell’Universo in cui sia presente la vita è il nostro, quindi abbiamo tanta carenza di casi notevoli da studiare. Nell’articolo “C’è vita sulla Terra?” (nota: vedi capitolo Astronomia) spiegavo che un modo per capire se su un altro pianeta è presente la vita è quello di studiare la nostra Terra, e vedere quindi se dall’esterno ci sembrerebbe abitabile. Lo studio della Terra dall’esterno, e in “Dove sono tutti quanti?” è spiegato molto bene, non è tuttavia l’unico caso a noi vicino che possiamo studiare. Negli ultimi anni sono infatti stati scoperti alcuni organismi, chiamati “estremofili”, che hanno la capacità di sopravvivere in luoghi incredibilmente inospitali, come gli abissi oceanici, o il fondo di laghi ghiacciati e desolati. Può sembrare una scoperta di poco conto, ma in realtà aver trovato dei batteri che riescono a vivere in luoghi completamente bui, ricchi di zolfo, con poco ossigeno ed elevate pressioni, estende notevolmente i luoghi interessanti per la ricerca della vita. Se infatti fino a poco tempo fa avremmo potuto ritenere come buoni candidati per la vita (come la conosciamo) solamente quei pianeti che ci fossero sembrati simili alla Terra, oggi sappiamo che, per esempio, le lune ghiacciate dei giganti gassosi del nostro Sistema Solare potrebbero essere luoghi altrettanto interessanti. Prendiamo in considerazione Europa, una delle lune di Giove. Gli studiosi ritengono che sotto la superficie ghiacciata di questo satellite, potrebbero trovarsi dei vasti oceani di acqua liquida, elemento essenziale per la vita. Inoltre, grazie alla forza di marea esercitata da Giove, Europa viene continuamente “stiracchiato” in un senso e nell’altro, e ciò provoca un riscaldamento per attrito, e quindi calore importante per la vita. Per farla breve, su Europa potrebbero essere presenti dei batteri nelle profondità oceaniche anche molto simili a quelli rinvenuti sulla Terra. Ma naturalmente sono tutte supposizioni.

L’argomento vita nell’Universo è talmente affascinante che si potrebbe intavolare un discorso e stare a parlarne per ore tutti insieme senza annoiarsi, e raccontandosi sempre qualcosa di nuovo. Ciò di cui vi ho parlato qui, non è altro che un piccolo spunto di tutto ciò che c’è in realtà da scoprire e imparare nel bellissimo libro di Amedeo Balbi. L’astrofisico romano esce un po’ dallo schema narrativo a cui ci aveva abituati nei libri precedenti, e lo fa in maniera molto gentile e piacevole. È un po’ come se si sedesse con noi al bar a chiacchierare, rispondendo in maniera semplice ai nostri dubbi e alle nostre domande, che poi sono anche le sue. Ripercorre nel suo libro anche parte della sua infanzia, mostrandoci attraverso gli occhi di un bambino il fascino esercitato dall’esplorazione spaziale, che deve però scontrarsi con la realtà fisica e tecnologica. Senza mai perdere rigore scientifico, ma lasciando comunque correre la fantasia laddove è possibile farlo, “Dove sono tutti quanti?” si legge tutto d’un fiato. È uno di quei libri che si custodiscono gelosi in un cassetto e ogni tanto si torna a sfogliarli, perché unisce con incanto la bellezza del metodo scientifico e la voglia irrefrenabile di correre della mente umana. E dopo che lo avrete letto, non guarderete mai più le stelle con gli stessi occhi, e più forte di prima vi chiederete: ma dove diavolo sono tutti quanti?

luglio 2016