Viaggiando in rimoti paesi

Carlo Vidua e il destino della Virtù

Viaggiando in rimoti paesi copertina Quadernodi Paolo Repetto, 6 maggio 2023, vedi il Quaderno

Introduzione

Un’educazione casalese

I primi viaggi

Romantico controvoglia

Dalla Lapponia all’Equatore

Nella culla della civiltà europea

In America!

Verso ovest e verso sud

Nell’Estremo Oriente

Morire nelle isole della Sonda

Sulle consonanze

Una bibliografia commentata

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Introduzione

Un uomo che logorò la sua vita
viaggiando in rimoti paesi,
e morì nell’Oceanica.
(Vincenzo Gioberti a Pier Luigi Pinelli, 1834)

Leggetelo. È il libro di un saggio;
un po’ arretrato, come me.
(Gino Capponi a Niccolò Tommaseo, 1834)

Non ho un buon rapporto col Romanticismo italiano. Forse perché un autentico Romanticismo in Italia non c’è mai stato, e coloro che più gli si avvicinano in realtà ne hanno preso le distanze: Leopardi vale per tutti, e Manzoni è quanto di meno romantico riesca ad immaginare. Dal momento però che non può essere applicata al fenomeno una denominazione di origine controllata, ma soprattutto che le mie idiosincrasie non interessano giustamente a nessuno, mi limito a dire che come tutti i prodotti culturali d’importazione il Romanticismo è stato recepito da noi con le cautele e i distinguo e le ammortizzazioni del caso (vedi appunto Manzoni), sino a farne un’altra cosa, oppure si è ridotto ad una serie di dignitosissime cover degli originali nordici (vedi Berchet o D’Azeglio). Il che, intendiamoci, per quanto mi riguarda non implica alcun giudizio negativo o riduttivo: se I promessi sposi fosse stato scritto in uno stile più autenticamente romantico ne sarebbe uscito un feuilleton o una telenovela. Che poi mi ci riconosca o meno, è un altro discorso.

Eppure, a volerlo cercare, qualcuno che interpreta appieno quello spirito (per come, appunto, lo intendo io), negli intenti, nella pratica e purtroppo anche negli esiti, lo si trova. Personalmente l’ho trovato nella figura di Carlo Vidua, che ho incontrato troppo tardi perché potesse entrare nel mio ristrettissimo Pantheon, ma che si è senz’altro guadagnato il diritto di non finire nell’armadio degli accumuli inutili. Se proprio volessimo classificarlo entro gli schemi canonici, Vidua potrebbe essere ascritto alla scuola tedesca, a dispetto del fatto che la sua lingua madre fosse praticamente il francese: è apparentabile per molti più versi a Goethe e ad Alexander von Humboldt che a Chateaubriand (che pure amava particolarmente) e a Lamartine (che non amava affatto). Col che, chiudo le etichettature e passo al nostro protagonista.

La vita di Vidua è un emozionante romanzo di vagabondaggio, e proprio di questo voglio raccontare, del fuoco che ardeva nei suoi polpacci (e che fuor di metafora letteralmente glieli bruciò): cercando tuttavia di non trascurarne gli aspetti e gli interessi meno “avventurosi”, quelli che ardevano nella sua mente, a partire dalla politica (intesa in senso “globale”) sino alla linguistica, all’archeologia e alla musica. Nei limiti di questa breve presentazione cercherò dunque di dare spazio anche ad essi, anticipando, quando mi parrà il caso, quelle che dovrebbero essere considerazioni conclusive. Insomma, si sarà già capito che proverò a documentare il più possibile il Vidua “autentico”, ma che ne uscirà soprattutto l’idea che di Vidua mi sono fatto.

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Un’educazione casalese

Carlo Vidua nasce conte di Conzano, paesino a metà strada tra Alessandria e Casale Monferrato, nel 1785. Tanto per “contestualizzarlo”, nasce lo stesso anno di Manzoni (li separa una settimana). Troppo tardi dunque per partecipare, anche solo emotivamente, all’infervoramento per la rivoluzione e agli umori contrastanti del periodo napoleonico, e troppo presto per vivere con ardore giovanile i primi moti carbonari. Diciamo che arriva giusto in tempo a beccarsi in pieno l’ondata reazionaria.

Si spiega così quello che potrebbe apparire un suo “disimpegno”: Vidua non è disimpegnato, è piuttosto un “non allineato”, che non si riconosce in alcuno dei modelli politici del suo tempo. È invece intrigato dalla loro varietà, quella che va emergendo mano a mano che gli orizzonti europei si allargano e nuovi popoli e nuove istituzioni si affacciano alla ribalta. Inoltre è un provinciale, e come Leopardi vive tutta la giovinezza lontano dai grandi centri dove la politica la si fa e la cultura ha i suoi luoghi deputati: cosa che in genere, e alla sua epoca ancor più, concorre a far vedere le cose con maggiore distacco (e, oserei dire, anche con maggior chiarezza).

Sempre come Leopardi, ha un padre convinto legittimista, col quale lo scontro è inevitabile, anche se per motivi che poco hanno a vedere con le opinioni politiche. Pio Vidua è un conservatore prudente, che ha evitato di compromettersi col bonapartismo ma anche di rovinare i propri interessi opponendoglisi apertamente, e che ottiene nel 1814 la nomina a ministro degli Interni nel primo gabinetto della restaurata monarchia sabauda per meriti puramente cortigiani. Non si segnala per spirito d’iniziativa o per particolari capacità politiche: è solo un passatista arroccato in difesa del prestigio e del rango del proprio casato. Per questo si opporrà sempre testardamente alle ambizioni e alla natura dell’unico figlio maschio, dal quale si attende solo la continuità della stirpe. Fino a quando gli è possibile ne condiziona quindi pesantemente le scelte, costringendolo a studiare privatamente con precettori religiosi (non gli consente nemmeno di iscriversi all’università e gli compera una laurea vaticana) e a tenersi lontano dagli ambienti “pericolosi”. Con tutto ciò, credo che quest’uomo abbia amato sinceramente, anche al netto delle motivazioni dinastiche, un figlio che ai suoi occhi pareva cercare ogni maniera e ogni pretesto per scontentarlo.

Da parte sua il giovane Vidua non riuscirà mai ad emanciparsi del tutto dalla soggezione filiale: anche se da un certo punto in avanti farà ciò che vuole, arrivando sino alla rottura insanabile, vivrà sempre la propria ribellione con un pesante senso di colpa. Continuerà a considerare sino all’ultimo il padre il suo principale interlocutore (delle 286 lettere di Carlo raccolte e pubblicate da Cesare Balbo la metà sono indirizzate a lui), e cercherà costantemente di rabbonirlo e consolarlo informandolo degli incontri con le massime personalità e autorità in ogni angolo del globo, del rispetto portato al suo nome e di come in fondo egli stesso contribuisca a farlo conoscere nel mondo e ad onorarlo. E comunque, quanto alle restrizioni impostegli in gioventù, il giovane patrizio ne fa buon uso, perché oltre che nelle lettere e nel diritto si impratichisce nel disegno e nella musica, e si sfoga con la scherma, l’equitazione e la danza.

Diversamente da Manzoni, Carlo non ha una madre (l’ha persa a quattro anni) che gli spalanchi le porte dei circoli intellettuali più avanzati. Ha in compenso un nonno materno che è stato un grande viaggiatore, dal quale eredita la passione, sia per via genetica che attraverso le rievocazioni serali (ed erediterà poi anche i mezzi per coltivarla). Lui stesso racconta che ancora molto piccolo, avendo udito un giorno il nonno narrare degli antipodi che abitano l’altra faccia della terra, aveva cominciato a scavare in giardino per andare a conoscerli. Credo che questo episodio, se anche fosse inventato, aiuti a capire per quale motivo Carlo rimanga tutto sommato estraneo al movimento patriottico e costituzionalista nel quale saranno coinvolti tutti i suoi migliori amici: nutre una conservatrice diffidenza nei confronti delle cospirazioni carbonare, ma soprattutto ha orizzonti e ambizioni più vasti.

Queste ultime le manifesta sin dalla giovane età. La matrigna Elisabetta, attenta ai sentimenti del ragazzo indubbiamente molto più del padre, scrive che “covava un fuoco segreto sin dall’età di otto anni e solo l’affliggeva il pensiero di non aver forse l’ingegno da farlo”. Un ritratto perfetto dell’animo di Carlo. Un ritratto che torna a più riprese nel diario e nelle lettere di quest’ultimo: “Se non sono gettato in un tourbillon io non farò mai e poi mai niente […] io, a venticinque, ventisei anni, voglio qualcosa di buono o nulla”. E continuerà a ribadirle (e a rimpiangerle), sino all’ultimo: “Ho tardato troppo, ho dilungato, nulla lascio di finito, e questa fama che sarà od è vanità, ma il cui desiderio mi animò tutta la vita, non la potrò conseguire fuor di pochi amici o parenti che in quarant’anni saran finiti, nessuno saprà che ho esistito” scriverà poco prima di morire.

Dunque: dobbiamo immaginare un’infanzia e un’adolescenza tutt’altro che libere e spensierate, ma in realtà molto meno oppressive di quanto a posteriori Carlo le ricordi (arriva a definire a più riprese la villa di Conzano “un carcere”). Più di una volta, mentre sta dall’altra parte del globo, gli capiterà di confrontare i paesaggi e le atmosfere con quelli della sua adolescenza monferrina, di trovare questi ultimi sempre superiori e di provare nostalgia per il grande giardino e per le cavalcate e le passeggiate, anche notturne, nelle “selve” e sulle colline tra Casale ed Asti (“Malgrado la presenza di briganti e ladri”, sottolinea). Queste “uscite” sono già una manifestazione dello spirito avventuroso e un po’ avventato che lo caratterizzerà, nonché di una propensione al protagonismo, e sono comprensibilmente viste con una certa apprensione in famiglia. La sorella, in una lettera alla nonna, scrive: “Sapevo già, cara nonna, delle scappate che il nostro giovanotto ha fatto quest’inverno, da un lato ne ho piacere, perché il movimento e le scappate con qualche amico gli sono necessarie e giovano alla sua salute, poi se lui prende le cose sempre in maniera un po’ eccessiva mi pare lo si possa perdonare a causa della sua età, tutti i giovani sono così”. A quanto pare, così prigioniero poi non era.

La nostalgia per l’aria di casa è tuttavia ogni volta smentita, non appena rimette piede nel regno di Sardegna. Non lo infastidisce solo la pressione dei familiari, ma tutto il vuoto apparato di convenzioni nel quale la classe cui appartiene si muove, quelle che lui stesso definisce “coglionerie”. “La mia solita felicità mi abbandona solo quando voglio fare ritorno in Piemonte; pare, che qualche genio me ne volesse allontanare per forza. Se fossi ai tempi degli antichi greci crederei che v’è una divinità nemica che mi caccia lungi dal Piemonte, come Ulisse lungi da Itaca.”

Se si escludono comunque pochi casi, ad esempio quello di Foscolo, la sua educazione non è diversa da quella dei giovinetti suoi contemporanei di condizione nobiliare o agiata. Ed è comprensibile che nei ritagli di libertà dagli impegni di studio e dai rituali domestici il ragazzo abbia cercato di evadere a piedi o a cavallo nei dintorni, e almeno con la mente negli spazi più remoti. Con la differenza, rispetto agli altri, che di là non è poi più rientrato.

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Da Casale Monferrato, dov’è cresciuto, Carlo si trasferisce poco prima dei vent’anni con la famiglia a Torino. Lì frequenta i circoli letterari e politici “che contano”, stringendo amicizia particolarmente con Cesare Balbo, futuro patriota, ideologo (Le speranze d’Italia), storico e primo ministro del regno di Sardegna, nonché suo primo biografo. Con Balbo e coi rampolli di altre famiglie dell’aristocrazia torinese fonda un sodalizio (la Società dei Concordi), avente come scopo niente meno che il riscatto dell’Italia dal ritardo culturale in cui giace, e in particolare dalla soggezione, non solo politica, nei confronti degli occupanti francesi. Nel gruppo Vidua (che ha assunto il soprannome de “L’allungato”) mantiene una posizione defilata: da un lato è senz’altro una figura di riferimento, per la sua intelligenza e la sua erudizione, e anche per sua alfieriana intransigenza: dall’altro si riconosce solo sino ad un certo punto negli scopi della società, sia per una spiccata tendenza all’individualismo, sia perché convinto che occorra guardare oltre gli angusti confini della patria. La sua smania di viaggiare non sempre è compresa dagli altri affiliati, e questo creerà col tempo una crescente distanza.

Lo disturba anche il fatto che alcuni di loro ad un certo punto scendano a patti con quello che egli considera un invasore e un despota. Balbo stesso ad esempio accetta incarichi nell’amministrazione napoleonica a Firenze, e Carlo non esita a rinfacciarglielo. “Oserai tu entrare nella chiesa di Santa Croce? Non temerai l’ombre di quei grandi?” Quanto ad un personale impegno nella politica però è molto restio. Le sue simpatie vanno all’ala più liberale del movimento patriottico piemontese, impersonata da Santorre di Santarosa, piuttosto che a quella moderata facente capo a Balbo: ma nella sostanza, poi, dei destini politici del Piemonte gli importa solo fino ad un certo punto. Lo dimostra anche la scelta dei temi dai lui proposti e trattati nel corso delle adunanze dei Concordi: Pensieri sulla Gloria; Sopra il destino della Virtù; Sull’oblio in cui sono caduti alcuni uomini grandi, ecc…. La dimensione nella quale vuole dare senso e visibilità alla sua esistenza è ben altra.

Oltre a quella per i viaggi, la sua grande passione sono i libri. È un raffinato bibliofilo, ma non è mosso dal puro istinto collezionistico: la sua bibliofilia è sin dall’inizio finalizzata al disegno che va concependo. Dovunque arrivi si procura ogni possibile documento su qualsivoglia aspetto della vita politica, sociale, economica e culturale del paese, e spedisce poi il tutto in patria: nel corso dell’esperienza americana raccoglierà ad esempio oltre milletrecento volumi. Nelle lettere agli amici e ai famigliari ricorre costante l’ansia per le casse zeppe di scritti, oggetti d’arte, cimeli storici, inviate dai luoghi più impensati.

È anche un lettore appassionato e vorace, che rivendica e mantiene una forte autonomia di giudizio rispetto a quanto legge. È significativo, ad esempio, che sia un grande ammiratore dell’intelligenza di Joseph de Maistre, ma che non condivida affatto le idee espresse dal conte savoiardo ne Le serate di San Pietroburgo. O che adori le tragedie alfieriane, ma non esiti a deprecarne gli accenti anti-gerarchici e anti-religiosi. E lo stesso vale per l’Ortis.

Le sue letture sono sterminate: nella prima gioventù si nutre naturalmente, oltre che di Alfieri e di Foscolo, di Chateaubriand ma anche di Vico, dei classici della storiografia italiani e latini, degli illuministi francesi (e un po’ più tardi, quando avrà acquisito una sufficiente padronanza linguistica da quelli inglesi): in seguito si volgerà sempre più specificamente ad opere legate alle mete dei suoi viaggi, per preparare questi ultimi e per poi commentarli. Humboldt, naturalmente, e Ferguson, Gibbon, Montesquieu, Robertson, De Las Casas, ecc…

Come ho già accennato, tra i suoi amori c’è anche la musica. Questo gli è stato trasmesso soprattutto dalla nonna materna, ma in famiglia sono tutti appassionati, compreso il padre. È un ottimo esecutore, oltre che un discreto compositore. Scrive di lui Cesare Balbo: “Studiò la musica su varii strumenti e principalmente sul cembalo. Fece progressi grandi nell’ esecuzione e nell’accompagnamento, e tali poi nella composizione che non solo la musica sua corse il paese e l’Italia, ma egli ebbe il piacere navigando molti anni appresso tra i mari di Grecia d’udir risonare le sue melodie in quei climi così propizi”. Magari Balbo enfatizza un po’, ma pare davvero che il Vidua cembalista riscuotesse un gran successo nei palazzi e alle corti frequentati durante i suoi viaggi. Senza dubbio usava anche la musica come passepartout per entrare in confidenza con gli interlocutori che lo interessavano.

Viaggiando in rimoti paesi 05E sempre a proposito di amori, poco o nulla si sa di una sua vita sentimentale “attiva”. Il giovanile accenno ad una fanciulla morta prematuramente (che si chiamava Teresa, come la Teresa Fattorini di A Silvia) è molto generico, e più che da un moto di commozione sincera sembra dettato dalla moda romantico-sepolcrale dell’epoca: “Io mirava quei flutti: e come l’onda, mio dicevo tra me stesso, che vedo trascorrere e confondersi, ratto così passò la gentile donzella, e già sta per confondersi, o si confonde il suo nome nella notte del tempo, e le sue belle forme tra le altre ceneri del sepolcro […]” . Più tardi ironizza sul fatto che gli sia stato attribuito un innamoramento per una “ninfa sestrina”, chiarendo che: “Nessuna donna possiederà mai una parte del mio cuore. Conviene che questo sesso sia al servizio del nostro divertimento e delle nostre necessità, non che sconvolga l’anima”. Il che lo escluderebbe da ogni sospetto di romanticismo, e parrebbe condannarlo all’aridità sentimentale. Anche se poi, quando arriva il tempo dei bilanci, sembra provare rimpianto quel flirt appena accennato: “[…] ricorderò con dolore di aver seguito i tuoi suggerimenti, e di non aver tolto quella ninfa sestrina di cui nel 1813 ti feci già una sì vantaggiosa descrizione”.

In verità, l’ostinata resistenza che Vidua oppone al destino matrimoniale impostogli dal padre e dagli obblighi del suo status viene sempre da lui stesso intesa come una scelta non definitiva. “La sola ragione che mi indurrebbe ad abbandonare la libertà, che tanto apprezzo, sarebbe consolare mio padre che moltissimo rispetto, e che amo. Vedo dunque che alla fine per compiacerlo, finirò per rinunziare al genere di vita indipendente che finora ho goduto.” La sua opposizione non è ideologica, ma strategica. Ha pianificato la propria esistenza in funzione di un’opera che ne eterni la memoria, e questa opera suppone una conoscenza che può essere acquisita solo attraverso i viaggi. La passione per i viaggi, che in un’ottica del genere diventa strumentale, è tale che tutto di fronte ad essa passa in second’ordine. È l’unica cosa per la quale valga la pena ribellarsi e difendere le proprie scelte, e va vissuta sin a quando si regge. “Io voglio preparare alla mia età matura meno regrets che possa. Ne avrei certo se mi maritassi senza compiere il corso dei miei viaggi.” Una volta appagata – e l’appagamento può venire solo dall’aver completato il giro del mondo e dall’aver conosciuto tutte le civiltà possibili – al resto ci si può adattare di buon grado.

Può anzi essere la condizione indispensabile per tirare le somme e dedicarsi finalmente alla scrittura: “Ma per tutto questo ci vorrebbe tempo, tranquillità, ritiro e compagnia, e in questo inclino al parer tuo, compagnia di una donna, che assorbendo a sé l’affetto, non lo lasciasse più divagare. Hai ragione, è tempo di stabilirsi.”

Non fosse per la smania di muoversi, Vidua potrebbe dunque essere il perfetto protagonista dei salotti romantici torinesi, e permettersi anche il brivido della cospirazione. Tutto questo però non lo soddisfa: “Molte cose ci sono in questo particolare degne di attenzione, che non si possono o malagevolmente apprender dai libri; onde è necessario vederle ove sono, osservare come vengono poste in uso e qual effetto ne procede, per questo motivo i viaggi potranno servire di strumento efficacissimo, onde ampliare le idee e moltiplicare le cognizioni”.

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I primi viaggi

Vallo però a spiegare al padre, che lo vorrebbe sposato e avviato ad una carriera amministrativa o politica di alto livello e che tiene ben stretti i cordoni della borsa. Di fatto Carlo riesce a sganciarsi e ad allontanarsi più spesso da casa solo dopo i venticinque anni, quando comincia a godere di una rendita propria. “Io era dunque così sovranamente stufo di non far niente, di non avere nessuno scopo nella mia vita, così annoiato, senza alcuna speranza nemmeno di poter viaggiare stanti le difficoltà di mio padre, che mi saltò l’idea di partire da Torino, andare in qualche città lontana […].” Lo fa viaggiando nel 1810 per la prima volta fuori d’Italia, in terra francese, compiendo una sorta di pellegrinaggio nei luoghi petrarcheschi. Si porta dietro tutti i suoi pregiudizi nei confronti della patria del giacobinismo (“Più vedo questa Francia e più mi insuperbisco di essere nato italiano.”), pregiudizi che conserverà per tutta la vita, ma matura per Petrarca una vera adorazione. E soprattutto ha la conferma che il suo futuro non può essere che nel viaggio: “Trovo che l’agitazione dei viaggi, il moto, il cambiamento di oggetti, la varietà dei naturali e dei costumi delle persone che vi si incontrano, innalzano l’animo, fanno nascere delle riflessioni, vi tolgono molti pregiudizi e maniere di pensare, vi danno dell’esperienza di mondo, vi accostumano a parlar bene”. E infatti al rientro intraprende subito un lungo giro per l’Italia centrale. Percorre a cavallo tutta la Toscana e buona parte dell’Umbria, riempiendosi gli occhi di arte e di natura e il cuore di emozioni: ad esempio davanti alle selve di abeti di Vallombrosa, che “fanno parer vere le selve incantate dell’Ariosto”. Naturalmente tutto questo, anziché appagarlo, gli alimenta una irrequietudine e una voglia di fuga sempre maggiori.

È costretto però ancora per qualche tempo a mordere il freno, anche se ormai il bisogno di muoversi è diventato quasi un’ossessione: “Se non esco da quel circolo di Casale, Conzano e Torino languirò eternamente senza far nulla di buono”. Il primo vero strappo con la famiglia avviene nel 1813: dopo un lungo soggiorno in Liguria (dove conosce la “ninfa sestrina”, e tra una camminata e una cavalcata lavora a una storia di Firenze – poi perduta), alla fine dell’anno torna in Francia, passando per Ginevra e raggiungendo questa volta Parigi, in tempo per assistere alla caduta di Napoleone e all’occupazione della città da parte degli Alleati. La cosa non lo emoziona più di tanto, non ne parla quasi. Si potrebbe manzonianamente dire che “di mille voci al sonito / mista la sua non ha”. Si limita a commentare: “Quantunque questi avvenimenti siano degni di memoria, nondimeno se fossi io un Tacito preferirei a tutti gli argomenti e le scene che presentano quei giorni quello della condotta e dei sentimenti della nazione vinta; io non ne fui mai gran cosa ammiratore. Chi non è stato in Francia non può ben apprezzare, e poi chi non li ha veduti in questa occasione non può non conoscere in tutta la sua estensione quel misto di leggerezza e di eccesso, di sedizioso e di pieghevole, che non ne fa un popolo unico”. Col che, i francesi sono sistemati.

Questa volta ha deciso l’itinerario autonomamente, all’insaputa della famiglia (anche se di fronte al fatto compiuto il padre provvederà a finanziargli parte delle spese). E ne approfitta. Infatti non rientra, ma durante l’estate del 1814 si sposta in Inghilterra e in Irlanda, e passa poi in Scozia. Oltremanica constata i primi effetti della rivoluzione industriale sul paesaggio, sulle tradizioni, sui costumi e sui caratteri, e ne è disgustato. “Quel che non si sente più è la voce del Bardo. Né più si incontra la dolce ospitalità né la valorosa ferocia. Grazie a quelle malnate novità si sono aperte per ogni dove delle nuove strade, si sono costruiti dei ponti, si tagliarono i boschi. Invece dei famosi guerrieri si ritrovano dei grossi mercanti accorti nel loro interesse […].” In un viaggio successivo sarà invece positivamente colpito dalle istituzioni anglosassoni, soprattutto dopo aver assistito alla sobrietà di una seduta parlamentare. Per ora rientra infine attraverso Belgio e Olanda, ripassando nuovamente per Parigi e rinnovando il suo giudizio negativo.

Nel frattempo è assai cresciuto, e non solo intellettualmente. La descrizione fattane da un corregionale che lo ha incontrato a Parigi nel 1814 ci offre un sembiante ben diverso da quello rimandato dai suoi unici due ritratti esistenti. “[…] grandissimo di statura, ma cotanto magro che di più nol potea essere. La di lui fisionomia era veramente brutta, la pelle giallognola, la bocca squarciata, mostrando denti e gengive in pessimo stato, dimesso assai nel vestire, gonzo nel camminare e vi si aggiungeva la vista breve […]. Ma allorché parlava, era tanta la sua istruzione, tale la sua eloquenza, che tutto facea dimenticare l’orrido della sua presenza […]. Era erudito nelle lingue italiana, latina francese e inglese, e tutte le parlava con facilità e bella pronuncia. Era avido di apprendere le costumanze delle genti ove egli recavasi […].Era tutto originalità del modo suo di vedere e di giudicare […]. Al clavicembalo […] suonava con grande maestria e profonda espressione. Avea una voce perfida, ma la sapea modulare a cagionar diletto.”

Evidentemente i viaggi, soprattutto se affrontati come in questo caso con scarsità di mezzi, lasciano il segno. Sembra davvero il brutto anatroccolo: e il prosieguo del racconto, dove si parla di un suo brutale arresto a Le Havre per sospetto di spionaggio o di contrabbando, e di come il conte abbia atteso di essere portato davanti a un tribunale per palesare la sua identità e impartire una lezione di civismo alle autorità francesi, completa il quadro.

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Romantico controvoglia

La vera vita di Carlo Vidua, quella che a me interessa, comincia dunque proprio mentre si chiude in Europa la parentesi napoleonica. Non è solo una coincidenza. A chi come lui è assetato di gloria la cappa grigia della restaurazione chiude nel vecchio continente ogni orizzonte. Scrive a Cesare Balbo: “Credi tu che gl’istorici dei nostri tempi tra la folla dei nomi da tramandare ai posteri sceglieranno il mio? Mai no: fuori che una qualche circostanza rarissima attacchi il mio nome a qualche grandissimo avvenimento”. Cosa che oggettivamente non solo a Conzano, ma in tutto il Piemonte, per uno che oltretutto rifiuta di entrare nella guardia imperiale, è difficile attendersi. Per qualche tempo, tra il luglio 1815 e la primavera del 1818, torna dunque a muoversi tra Casale e Torino, mettendo mano anche alle osservazioni maturate nel primo viaggio; ma ha ormai chiaro ciò che vuole e già progetta mete lontane (nel mirino ci sono gli Stati Uniti, il Canada e l’America Latina). Coltiva pertanto le amicizie e le conoscenze che possono procurargli agganci e agevolare i suoi futuri spostamenti, si dedica alle studio delle lingue e delle storie, e comincia a maturare il disegno di una grande opera comparativa tra i vari sistemi politici di tutto il mondo, da fondarsi sull’esperienza diretta.

Con tutto questo non rimane estraneo al dibattito culturale acceso in Italia dal clima della Restaurazione, quello che contrappone i “classicisti” ai “romantici”. Vi partecipa anzi tempestivamente, stendendo nel 1816 (o forse già nel 1813) un discorso Dello stato delle cognizioni in Italia che anticipa non solo nei tempi, ma nei modi e nelle conclusioni, il leopardiano discorso Sullo stato presente dei costumi degli italiani, pubblicato otto anni dopo (nel 1824). Lo fa però a modo suo: sia perché sposta il discorso dal piano artistico-letterario e da quello politico all’analisi storico- antropologica, sia perché alla fine non pubblica il trattatello (che verrà dato alle stampe ad opera di Cesare Balbo solo dopo la sua morte, nel 1834).

Nel suo scritto Vidua imputa il ritardo accumulato dalla cultura italiana principalmente a tre fattori. Intanto la tendenza dei nostri intellettuali a oscillare tra l’imitazione pedissequa e idolatra dei classici, che si risolve in pura erudizione, e quella altrettanto acritica degli stranieri. Poi l’ignoranza diffusa tra le classi basse. A questo proposito più tardi scriverà: “Dobbiam confessare per nostra vergogna che in molte parti d’Europa e specialmente in Piemonte v’è molta minor proporzione di persone del popolo che sappian leggere che nelle Filippine e tra’ Cristiani delle Molucche”. Su questa ignoranza hanno fatto sempre leva le classi dominanti (nelle quali Vidua però non fa rientrare la Chiesa: le riconosce anzi una funzione civilizzatrice), usandola strumentalmente per il loro dominio, mentre “ormai la propagazione della lingua, la celebrità della letteratura, ed il vanto delle cognizioni sono divenute una maniera di acquistar reputazione, un titolo di gloria nazionale, uno strumento di potere”. Strumento da utilizzarsi nei confronti del popolo “ad addolcirne i costumi, ad affezionarlo alla patria e ad istruirlo nei rudimenti della religione, della lingua e dell’ agricoltura”.

Viaggiando in rimoti paesi 08Per intanto il primo dei problemi da affrontare è, secondo Vidua, l’assenza di una lingua comune, conseguenza di un desolante provincialismo: “Siamo più stranieri a noi stessi che agli altri: è cosa deplorevole che più differenza e opposizione di idee e di costumi vi sia tra l’una e l’altra delle nostre province e un’altra nazione europea o anche asiatica”. Questo nasce, oltre che dalle contingenze storiche (le diverse dominazioni che si sono susseguite sulla penisola), dal fatto che da noi la classe colta ha continuato testardamente e arrogantemente ad esprimersi in latino, salvo poi nel corso del Settecento volgersi al francese, allargando così sempre più la forbice culturale nei confronti degli altri ceti e non favorendo l’evoluzione dei diversi volgari verso un idioma comune. In realtà, gli esempi per la costruzione di una lingua condivisa esistono, arrivano da tutta la letteratura rinascimentale pre-barocca e possono costituire la base per mettere fine alle sterili dispute in difesa degli usi lessicali localistici. E una volta individuata la direzione, la lingua per Vidua deve essere difesa da un lato contro la “corruzione dei dialetti”, dall’altro dall’“infranciosamento”, dall’adozione di termini e costrutti stranieri che sono le crepe attraverso le quali si insinuano anche le perniciose idee d’oltralpe.

Ciò non implica assolutamente un atteggiamento di chiusura nei confronti delle culture straniere. Il ritardo nei loro confronti è evidente, e Vidua indica naturalmente come rimedio più efficace per ridurlo quello dei viaggi (citando tra l’altro come esempi proprio i fratelli Humboldt, un linguista e uno scienziato-viaggiatore): “Di due fratelli illustri in Prussica, un passava come ambasciatore dall’una ad altra corte d’Europa, mentre l’altro passava come dotto dall’una all’altra Cordigliera del Perù”.

Quanto alla mancata pubblicazione del suo piccolo trattato, Carlo la spiega poi in una lettera lamentando incertezze sullo stile e accampando la necessità di lasciar decantare lo scritto per qualche mese: ma la ragione vera è che ha altro per la testa. Ha superato i trent’anni, è uno spilungone alto più di un metro e novanta e in buona salute, possiede tutti i numeri e la preparazione di base per svolgere un lavoro scientifico serio, compresa la conoscenza di diverse lingue, antiche e moderne, sa conversare piacevolmente, perché sa porre le domande e soprattutto sa ascoltare le risposte, gode finalmente anche di una discreta indipendenza economica per aver ereditato dai nonni materni: non può perdere altro tempo rispetto ai suoi progetti. E, non ultimo, vuole sottrarsi il più possibile al controllo del padre.

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Dalla Lapponia all’Equatore

Per questo continua a scalpitare, e alla fine di aprile del 1818 s’incammina nuovamente per Parigi e Londra, questa volta in compagnia dell’amico Alessandro Doria e di un domestico, Leonardo. È riuscito “dopo qualche difficoltà” a strappare l’assenso del padre – o almeno così lui dice in una lettera alla matrigna, alla quale chiede ora sostegno, e non solo morale: “Il desiderio mio di istruirmi, di non perdere l’occasione di essere con un amico, i grandi vantaggi e per conto della sicurezza e anche pel caso di malattia che derivano dall’essere in buona compagnia, la considerazione che se ritardo ancora a viaggiare, aspetterei poi troppo tardi a maritarmi […] mi spinsero a partir subito ed a fare quanto era in me per non lasciar sfuggire questa opportunità. […]. Ma i viaggi lontani a farli con comodo e senza rischiar la salute esigono assai maggior spesa, a cui lo stato presente dei miei interessi non potrebbero forse bastare, laonde […] la prego volermi aiutare in questa circostanza … Se n’avrò i mezzi, l’idea mia sarebbe di fare tutto in una volta il giro di que’ paesi, che meritano esser veduti, onde poi tornare a casa tranquillo e stabilirmi”.

Dall’Inghilterra, dove si riconcilia se non col paesaggio almeno con la cultura giuridica e politica anglosassone, passa all’inizio dell’estate in Danimarca, e poi in Svezia. Assiste ad alcune udienze concesse dal sovrano ai rappresentanti dei diversi ceti popolari, e le trova decisamente istruttive. Risale quindi la penisola scandinava spingendosi sino alla Lapponia, dove soggiorna per un mese. Ha probabilmente in mente l’esperienza di Giuseppe Acerbi (all’epoca direttore de la Biblioteca Italiana, la rivista dei “classicisti”), che in Lapponia era stato negli anni 1798/99, e aveva poi raccontato i suoi viaggi in due fortunati volumi: ma non è escluso abbia notizia anche del Viaggio settentrionale di Francesco Negri, pubblicato più di un secolo prima. Raccoglie numerose notizie sulla demografia e sui costumi dei Sami, che affida al suo taccuino, e trova e annota le tracce dei viaggiatori che lo hanno preceduto.

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Ridiscende quindi attraverso la Finlandia sino a Pietroburgo (1 ottobre), dove è ricevuto persino dallo zar Alessandro I, e a Mosca, dove dimora per altri due mesi. Sin qui ha in pratica seguito l’itinerario del suo quasi concittadino Vittorio Alfieri, che all’epoca, assieme al Foscolo, è un po’ il modello di tutti i giovani italiani, e in specie dei piemontesi. La Russia, al contrario della Svezia, non gli piace granché: ma vi dimora comunque undici mesi e fa incetta di documenti e di incontri. E non ha nei confronti del dispotismo russo la stessa reazione sprezzante che era stata dell’Alfieri (che non aveva neppure voluto essere presentato a Caterina II).

A questo punto, mentre Doria rientra in Italia, Vidua prosegue per Novgorod e quindi verso il Caucaso. Il viaggio occupa la primavera e l’estate del 1819, e durante questi mesi il conte entra a contatto con Cosacchi, Circassi e Tartari, e partecipa anche alle loro attività di caccia. Per un certo periodo si ferma poi presso i Calmucchi, dei quali apprezza soprattutto i riti religiosi, le danze e la musica. Infine passa in Crimea.

Da Odessa attraversa dunque il Mar Nero e il primo di settembre è a Costantinopoli. Trova i turchi sgarbati ed insolenti, sospettosi e ostili nei confronti degli stranieri, per cui è necessario viaggiare sempre accompagnati da un giannizzero. In realtà ciò che maggiormente lo disturba è la difficoltà nel reperire quei piccoli tesori archeologici dei quali altrove fa man bassa. Lascia dunque la capitale ottomana e visita Smirne e le isole greche, e alla fine del 1819 approda in Egitto. Qui si fermerà per un anno, spingendosi nel corso di varie spedizioni lungo il Nilo sino alla seconda cateratta, nella Bassa Nubia.

Viaggiando in rimoti paesi 11Il trasferimento da Alessandria al Cairo è compiuto con una piccola carovana che consente di farci un’idea di come viaggia Vidua: è accompagnato da due arabi che conducono un cammello, un cavallo e due asini con i bagagli, mentre lui e il suo domestico Lorenzo viaggiano a loro volta a cavallo. Il bagaglio comprende una tenda, due letti, le vesti, la biancheria e le scarpe, i fucili e le pistole, più una batteria da cucina, i viveri e le bevande. Non è l’immagine classica (e romantica) dell’esploratore o del giramondo alla quale noi oggi siamo abituati, ma occorre considerare come all’epoca, e specialmente in quelle terre, non fosse facile trovare sistemazioni notturne e posti di ristoro. Non mancavano certamente gli avventurieri capaci di affrontare i deserti o le foreste africane armati solo del loro coraggio (vedi René Caille o, più tardi, Richard Burton), ma Vidua non è né un esploratore né un avventuriero, è un giovanotto di famiglia patrizia che ha scelto di compiere il suo Gran Tour, il suo viaggio iniziatico, fuori dell’Europa. L’equipaggiamento di cui sopra è comunque praticamente lo stesso col quale si muoveva nei medesimi luoghi, esattamente due secoli prima, un altro viaggiatore italiano, Pietro della Valle.

In Egitto dà la concreta dimostrazione di non essere un viaggiatore per diporto, ma uno studioso dotato di notevole intuito e di metodo nella ricerca. Lo testimonia l’egittologo Frédéric Caillaud, che condivide con lui un breve periodo di ricerca: “Durante il mio soggiorno al Cairo ho conosciuto un viaggiatore assai interessante, il conte Vidua di Torino, che era arrivato in Egitto dalla Lapponia: aveva già visitato i monumenti della Bassa Nubia, disegnato le piante di quei monumenti con la cura più scrupolosa, e usato la stessa esattezza nel copiare le iscrizioni […]. Eravamo insieme sulla via per Suez quando ho scoperto gli alberi pietrificati […]. Ho ascoltato i suoi racconti con viva curiosità, ed egli volle ascoltare con lo stesso interesse la narrazione dei miei viaggi”. Vidua visita appunto tutti maggiori siti storici, corredando i suoi appunti con disegni, e trascrive una serie di iscrizioni trovate all’interno del tempio di Abu Simbel (che pubblicherà dopo il ritorno, unica opera sua edita in vita). Il colpo da maestro è però l’acquisto a nome del governo sabaudo della collezione di antichità egizie raccolte da Bernardino Drovetti, un ex ufficiale napoleonico con l’animo dell’avventuriero e del saccheggiatore, che ha ammassato una quantità di reperti unica al mondo. Questo acquisto porrà le basi per la nascita del museo egizio di Torino, mentre la raccolta di iscrizioni lo farà conoscere a tutti gli studiosi della nascente egittologia, compreso Champoillon, che cercherà di associarlo alle sue ricerche.

Viaggiando in rimoti paesi 12Carlo Vidua non è però uomo da concentrarsi su un solo paese e votarsi a un unico campo di studi. Vuole lasciare la sua impronta un po’ in tutti. Intanto comincia col lasciarla concretamente. In Egitto, ad esempio, incide il proprio nome su tutti i monumenti visitati, tanto da guadagnarsi lo stigma negativo di Flaubert: “Leggiamo nei templi i nomi dei viaggiatori: mi sembra una vana piccineria. Ce ne sono che hanno richiesto tre giorni per essere incisi. Qualcuno si ritrova dappertutto, con una costanza di imbecillità sublime. C’è uno di nome Vidua, che non ci lascia mai […]”. In effetti, la cosa può riuscire fastidiosa: ma è chiaro che nel caso del nostro non è una imbecillità da turista, bensì quasi un marcare il territorio, e inviare un messaggio agli amici e ai posteri. Che a volte lo recepiscono: è già capitato a lui in Lapponia, e quando qualche anno dopo Santorre di Santarosa troverà su una colonna di un tempio di Atene il nome di Vidua, suo amico, inciderà accanto ad esso il proprio.

È comunque evidente che il viaggio non è più per lui solo lo “stromento efficacissimo onde ampliare le idee e moltiplicare le cognizioni”: quando fa incidere su uno dei colossi di Abu Simbel “Carlo Vidua Italiano qui venne dalla Lapponia” posa un mattone per un suo futuro monumento. E lo stesso fa quando racconta in termini “eroici” agli amici le proprie esperienze: “Ho sofferto il soffribile, otto giorni con acqua putrida nel mese di luglio sotto questo sole, tre giorni non avendo altro cibo, né bevanda che quattro meloni, trottar sui dromedari: infine ho voluto provare che cosa era un viaggio al deserto, e ne posso dire qualche cosa”.

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Nella culla della civiltà europea

Ad agosto del 1820 Vidua lascia l’Egitto e risale verso la Terrasanta. Qui compie il rituale pellegrinaggio a Nazareth, a Betlemme e al Santo Sepolcro di Gerusalemme: poi trascorre l’autunno visitando Tiro, Sidone, Damasco, Tripoli e Beirut, e spingendosi sino a Palmira. Nel dicembre finalmente decide di rientrare in Europa, facendo scalo prima a Cipro e poi a Rodi. Il maltempo che osteggia la navigazione lo costringe a sbarcare nell’isola di Cos, e qui la sua imperturbabilità di fronte al genere femminile viene scossa: “Le donne sono molto belle, molto vivaci, molto disinibite, e lungi dal coprirsi il volto come in tutto il resto della Turchia, esse amano guardare e farsi guardare […]. Le ragazze si affrettano ad andare alla passeggiata o a danzare per le vie, dove piazzate davanti alle porte delle loro case stuzzicano gli uomini con proposte piccanti, e si divertono a ridere, a motteggiare, a sostenere conversazioni sfrontate”. Sembra di leggere pari pari l’elogio delle donne di Cos tessuto due secoli prima da Della Valle. Quindi, delle due l’una: o Vidua ha letto i Viaggi di Della Valle, o le donne di Cos sono davvero sempre state così, belle e impudenti.

Durante la successiva navigazione nell’Egeo deve addirittura sostituirsi al comandante della nave su cui viaggia, visto che “[…] il capitano, il pilota e tutti i marinai erano nelle tenebre”. Approda ad Atene nell’aprile del 1821 e vi si ferma per sei settimane. La città è in rivolta contro il dominio ottomano, ma il conte non sembra affatto essere emotivamente partecipe della vicenda. L’unico suo coinvolgimento arriva da una palla di cannone che gli entra in camera durante il bombardamento turco: “Una palla di cannone venne a trovarmi in camera, mentre ero ancora a letto, senza far altro che guastare un poco il muro […]. Quanto alle palle di fucile, ne vennero molte in casa mia, senza far danno né a me, né ad altri. Se i turchi avessero saputo […]”. Per il resto, passeggia tranquillamente per la città mentre piovono le bombe. Sembra il tipico understatement inglese, un po’ cinico e decisamente antiromantico, ma in realtà è lo stesso atteggiamento col quale Leopardi (ancora lui) prendeva le distanze dai patrioti “progressisti” del circolo Viesseux. È uno sguardo disincantato sulle cose e sulla storia, che non significa rassegnazione, ma ricerca di senso, per sé e per il mondo, in ideali filosofici ed estetici più alti delle infatuazioni patriottiche o delle lotte per le cause perse. Insomma, per dirla in altre parole, Vidua è senz’altro in cerca di gloria e di fama personale, ma vuole guadagnarsi l’una e l’altra con qualcosa che vada oltre il bel gesto o l’atto di insensato coraggio. A combattere con i Greci è invece il suo domestico Leonardo, che rompe gli indugi, lascia il padrone dopo avergli sequestrate tutte le armi e passa nelle fila dei rivoltosi, facendo una carriera militare rapidissima. “A quest’ora sarà diventato generale”, commenta sarcasticamente Carlo quando ne dà notizia al padre. E licenzia il domestico.

Viaggiando in rimoti paesi 14Intanto, le vicende rivoluzionarie che potrebbero magari direttamente coinvolgerlo (i moti piemontesi del 1821), e che vedono protagonisti i suoi amici Balbo e Santorre di Santarosa, si stanno consumando in sua assenza. Ma anche su quelle, a posteriori, il suo giudizio non si spingerà oltre la personale simpatia per gli sfortunati (e ingenui) patrioti.

A risparmiare a Carlo la necessità di schierarsi interviene comunque il caso. Ripartito da Atene dopo aver assistito alla sua capitolazione, si trova nuovamente bloccato per due mesi a Smirne, dove nel giugno del 1821 assiste inorridito alle stragi compiute dalle milizie ottomane. Anche il resto del viaggio è travagliato, o quanto meno interminabile, tanto da fargli scrivere: “Pareva che fossimo incaricati di disegnare le coste, o di dar l’ispezione ai porti”. Arriva infatti in vista di Marsiglia solo alla fine di settembre del 1821. Qui però deve scontare un lunghissimo periodo di quarantena (due mesi senza poter sbarcare dalla nave e altri due confinato in un lazzaretto della città), perché proveniente da località nelle quali imperversa la peste. La descrizione che fa di questo soggiorno conferma i lati migliori del suo carattere: “Io del resto mi trovo qui molto bene. Ho una buona camera con due gabinetti. In uno dormo io, e nell’altro un Francese molto civile e cortese […]. Egli suona bene del flauto. Mi sono fatto affittare un buon cembalo per opera del console che mi mandò anche della musica. Così facciamo de’ concerti, io compongo delle piccole arie per flauto, egli le eseguisce. Inoltre possiamo aver comunicazione colle nostre signore – Esse vengono la sera in camera mia, e come ce ne sono tre giovani che cantano, io le accompagno, gli altri quarantenari vengono ad ascoltarci, e così passiamo una delle più dolci quarantene che si sieno mai fatte”.

Viaggiando in rimoti paesi 15Le “nostre signore” di cui parla sono le componenti di una bizzarra famiglia di otto donne, che così ha prima descritto: “Una bisava decrepita – due sue figlie vecchie, di cui una ha tre figlie, una delle quali maritata ha una serva indocile, e una bambina che completa la quarta generazione, e ch’è la sola persona tranquilla di tutta la famiglia. S’immagini tutta questa gente col loro cane rinchiusi con me ed un altro passeggiero (negoziante Francese assai buona persona) in una piccola camera, gridando, piangendo, disputando fra loro, con noi, col capitano; la bambina che stride, la decrepita che tosse, il cane che abbaia, non è un vivere, ma è continuo morire. La notte, per caldo che faccia, vogliono restar stivati nella camera colle finestre chiuse, e cento altre indiscrezioni colle quali corrispondono alle cortesie ed attenzioni, che abbiamo usato verso loro”. Il quadretto è fantastico, per l’essenziale efficacia della scrittura ma soprattutto perché dimostra che Vidua è un viaggiatore vero. Riesce prima ad adattarsi ad una simile infernale situazione, e a reinterpretarla poi simpaticamente come una “dolce quarantena”.

Si capisce comunque molto bene da un’altra lettera dello stesso periodo perché questo indugio non gli pesi affatto. “Il mio viaggio è terminato. Non ho scordato che tu (n.b. il Marchese del Carretto) ne facilitasti il principio, Tutto sta nell’uscir una volta di prigione. Ora vado a costituirmi di nuovo. Veramente il solo stimolo che mi v’induca, e credo il solo piacere che avrò nel rivedere il paese natio sarà quello di rivedere mio padre, mia sorella, e qualche raro amico. come te, e come pochi altri. E che vi farò? Durante il mio viaggio ho trovato de’ peregrini pari miei, che anelavano al momento di finire le loro peregrinazioni. Altri che mi dicevano: oh, quando sarete ritornato in Piemonte sarete un oggetto di curiosità, Vi opprimeranno d’interrogazioni […] io rideva, e pensavo tra me stesso: eh quanto poco conoscete il Piemonte! È vero che altrove i viaggi danno buona riputazione, da noi piuttosto la tolgono. Buono per me, che non li ho intrapresi per vanità ma per mia istruzione, e particolarmente per mio diletto. Posso dire di aver vissuto in questi tre anni e mezzo, e se avrò lunga vita le memorie che ne serbo faranno il divertimento della mia vecchiaia”.

Finalmente agli inizi della primavera del 1822 rientra nel regno di Sardegna. Non è un ritorno trionfale, come Carlo aveva ben presagito. I moti ‘patriottici’ sono stati soffocati da un pezzo, alcuni amici sono in carcere, altri in esilio, e il clima, in generale e in casa Vidua in particolare, è decisamente pesante: lo constata appena mette piede in Piemonte, allorché gli viene imposto di tagliare immediatamente i baffi che aveva lasciato crescere alla turca e che portava da due anni (c’è un’ordinanza reale apposita). Non ha così modo di mostrarsi ai familiari nel suo nuovo look orientaleggiante, spettacolo per il quale si era munito di caffetani e turbanti. Ma, ciò che più importa, non è ancora rientrato che già il padre e tutto il parentado tornano all’attacco con le insistenze sul matrimonio.

Carlo riesce a prendere respiro per altri tre anni opponendo una resistenza passiva. Trova mille motivi per procrastinare: deve stendere le relazioni dei suoi viaggi (ma ha molti dubbi sull’interesse che possono destare nei piemontesi), redigere un libro sulle iscrizioni antiche che ha raccolto in Egitto e in Grecia (le Inscriptiones antiquae a comite Carolo Vidua in Turcico itinere collecte, unica opera sua edita in vita, Parigi 1826), ma soprattutto deve curare la fase decisiva dell’affare Drovetti, che si conclude solo nel 1823 con l’acquisizione della collezione da parte del governo sabaudo, e comporta ora la sistemazione museale dei materiali.

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In America!

All’inizio del 1825 lo troviamo nuovamente in Francia: l’aria di casa si è fatta irrespirabile. A Parigi questa volta conosce Alexander von Humboldt. La mia prima curiosità nei confronti di Vidua è nata proprio da questo incontro, dalla menzione che Humboldt ne fa sia nelle sue lettere, lodando il libro sulle iscrizioni, sia nel Kosmos, dove parla di “un viaggiatore dalle molte peregrinazioni e libero ricercatore, il mio amico piemontese conte Vidua”. Il grande viaggiatore-scienziato tedesco è in quegli anni una vera star, ammirata in tutta Europa, ed è estremamente disponibile nei confronti dei giovani animati da curiosità scientifica e spirito d’avventura. Vidua possiede entrambe queste caratteristiche, e in più è fortissimamente determinato a metterle a frutto. E Humboldt gliele riconosce subito. Un loro contemporaneo (il conte Federico Sclopis) qualche anno dopo la morte del viaggiatore racconta: “Ho incontrato in questa biblioteca il signor Humboldt, col quale abbiamo parlato dei viaggi di Vidua, che egli ha personalmente conosciuto e che sembra tenere in grande considerazione. Egli ritiene che l’idea dominante in Vidua fosse quella della politica, e che guardasse soprattutto a quella in tutti i suoi viaggi […]. Il signor Humboldt non conosceva che le iscrizioni raccolte da Vidua nel suo viaggio mediorientale, le ritiene importanti e si è fatto l’idea che questo viaggiatore dovesse avere una grande conoscenza delle lingue antiche”.

È vero che Humboldt ha conosciuto praticamente mezzo mondo, e che tendenzialmente andava d’accordo con tutti, ma l’apprezzamento espresso nei confronti del casalese, anche molti anni dopo la scomparsa di quest’ultimo, è decisamente lusinghiero. Dimostra che i due si sono trovati e subito intesi. Vidua d’altra parte non è lì per caso: sta per mettere finalmente in atto il suo progetto americano. Ne espone al barone le motivazioni e le linee principali e riceve un profluvio di consigli sulle mete, sui tempi di percorrenza, sull’equipaggiamento; ma soprattutto ottiene una serie di lusinghiere commendatizie, che gli permetteranno di incontrare le figure più importanti della politica americana del tempo. Non poteva godere di un viatico migliore.

Viaggiando in rimoti paesi 17Molto diversa, com’era da attendersi, è la reazione paterna. Carlo ha meticolosamente programmato e preparato il viaggio in America, ma non ne ha mai discusso in famiglia. Tutto rischia quindi di saltare quando a Marsiglia, poche settimane prima della data fissata per la partenza, arriva un ordine restrittivo dello stato sabaudo nei suoi confronti, fatto emanare probabilmente proprio dal padre. Il giovane non si rassegna, e in una lettera al genitore fa chiaramente intendere che da un rimpatrio inglorioso non uscirebbe offuscata solo la sua immagine. A quanto pare tocca il tasto giusto, perché l’ordine è rapidamente revocato. Carlo si imbarca dunque per l’America alla fine di febbraio del 1824, salpando dal porto di Le Havre.

In questo periodo l’America non è ancora meta di migranti economici in fuga dal nostro paese, come lo sarà alla fine dell’Ottocento: è frequentata invece dal fior fiore della intellighenzia italiana. I giovani si recano oltreoceano per viaggi più o meno lunghi, come nei casi di Paolo Andreani e di Francesco Arese, o per trapiantarsi definitivamente, spesso in ruoli di prestigio, come il librettista Lorenzo da Ponte, gli storici e politici Filippo Mazzei e Carlo Bellini, il militare e trapper Francesco Vigo, o addirittura per portarne a compimento l’esplorazione, come Costantino Beltrami. In molti casi si tratta di fuorusciti politici, reduci dalla militanza napoleonica o dalle rivoluzioni costituzionaliste degli anni venti (Pietro Maroncelli è uno di questi). Sono attratti da un’istituzione repubblicana che sembra funzionare e si propone come alternativa ai dispotismi restaurati in Europa: ma anche dalla vastità di un mondo aperto sull’Ovest, nel quale è pensabile ogni esperimento sociale, ogni realizzazione economica, ogni fuga dall’avanzata del moderno o, in alternativa, da ogni ritorno dell’antico. Carlo Vidua in qualche modo riassume in sé tutte queste motivazioni.

La traversata oceanica è tutt’altro che tranquilla: la nave passa da un fortunale all’altro, impiegando quarantatre giorni per raggiungere il nuovo continente. Ma anche in questa occasione il conte non si smentisce: mentre fuori infuriano i marosi si distrae suonando la spinetta. Sembra un atteggiamento alla Chateaubriand (che durante la traversata si tuffava in mare dalla nave per fare un po’ di moto – salvo poi dover essere fortunosamente recuperato), un’esibizione per impressionare gli altri passeggeri e farsi precedere da un alone di imperturbabile eccentricità: ma direi che è in linea con la sua personalità, e se anche l’aneddoto, che dobbiamo al protagonista stesso, fosse inventato, sarebbe comunque verosimile.

Vidua approda a New York nei primi giorni di aprile. Di lì prosegue per Filadelfia, e visita in successione Boston, Washington e Monticello. Grazie alle lettere di presentazione di Humboldt e a quelle che si è procurato nelle varie ambasciate ha modo di incontrare durante questo tour tre ex-presidenti e il presidente in carica, prima separatamente e poi eccezionalmente tutti assieme. Certamente l’essere figlio di un ministro di uno stato europeo e l’essere munito di commendatizie autorevoli gli apre le porte: ma è poi lui, col suo genuino interesse e la sua intelligenza a guadagnarsi una sincera e spontanea ospitalità, perché gli americani ci tengono a che il loro sistema di governo sia correttamente conosciuto nel vecchio continente. Tutti coloro che lo incontrano ne sono conquistati.

Eppure Vidua è molto diverso dal barone tedesco che lo aveva preceduto vent’anni prima, e che a sua volta aveva suscitato entusiasmo negli stessi interlocutori. Non li lascia storditi e quasi in soggezione: è al contrario uno che fa domande, è curioso di quel mondo e apprezza l’immediatezza e la semplicità che caratterizza anche i rapporti con persone di altissimo rango. Per questo piace molto ad esempio al presidente Quincy Adams, che così annota nel suo diario: “Il conte è davvero curioso […] è un ottimo concertista al pianoforte, ci ha suonato due o tre arie […]” e ancora “[…] è una persona di grande intelligenza e conoscenza”. A sua volta a Vidua piace Adams, perché è un moderato e perché dotato di un forte senso etico: non a caso il presidente una volta tornato all’avvocatura assumerà, diversi anni più tardi, la difesa degli schiavi ammutinati dell’Amistad, e ne otterrà l’assoluzione. Tra i due si instaura una calda simpatia, tanto che Vidua viene trattenuto a colloquio e a pranzo dal presidente più volte in pochi giorni. “La prima visita fu un dialogo lungo e animato di un’ora. Lunghi discorsi tenemmo pure il giorno che mi invitò a pranzo, ed un’altra sera che passai seco, e se mi fossi fermato lungamente a Washington avrei potuto vederlo bene spesso, giacché mi fece padrone di andare a passare ogni sera con lui.”

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La cosa si ripete a casa di Thomas Jefferson, dove si trovano in visita altri due ex-presidenti, Madison e Monroe, oltre allo stesso Quincy Adams. “I momenti che si passano con uomini di questa sorta sono preziosi, ma ordinariamente perduti, perché la presenza di altre persone e la circospezione impediscono di interrogare e di rispondere. Qui invece eravamo in villa, eravamo soli, io straniero, essi ritirati dagli affari, sicchè la conversazione non potè essere né più libera né più interessante. E siccome essi non si mostravano schivi di rispondere, io non mostrai paura di interrogare.” Credo di non sbagliare pensando che i quattro si fossero riuniti lì appositamente per conoscere lui, incuriositi dagli elogi che Adams junior ne aveva tessuto. E credo anche che posti di fronte a domande come: “Quanto tempo è credibile che la loro propria (repubblica) duri senza separarsi?” abbiano capito di avere davanti uno che vedeva lontano.

Un altro ex-presidente, John Adams (il padre di Quincy), incontrato qualche tempo dopo, ne riceve evidentemente un’immagine altrettanto positiva: “[Adams] le aveva parlato molto di me, dicendole che certo io avevo studiato bene la loro storia, e che di tanti viaggiatori che gli erano stati presentati nessuno gli aveva mai fatto interrogazioni di quella natura, che gli avevo fatto io”. E anche il sindaco di Boston scrive: “Analitico, curioso, intelligente, […] Vidua è intento in modo non comune nella ricerca della storia e dello stato attuale di questo paese”.

Questa la favorevolissima impressione che Vidua desta (e che ricambia, parlando dei singoli personaggi). Ma che impressione matura riguardo le istituzioni e le prospettive della giovane repubblica? Quando da Boston e da Washington si sposta a New York incontra un altro tipo di americani. “New York – scrive – non mi piace quanto Boston. È vero che or molta gente è in villa, e poi queste gran città commerciali non sono mai fatte per divertire uno straniero. La gente vi è troppo occupata a far denari.” E anche a fare politica, ma in maniera diversa da quella dell’aristocrazia schiavista della Virginia. Gli uomini nuovi sono i grandi imprenditori, i mercanti alla John Jacob Astor, i lobbisti e i finanzieri come Aaron Burr e Martin Van Buren, che condizionano la macchina elettorale e di lì in poi determineranno la politica americana.

La nube sul futuro degli Stati Uniti è rappresentata per Vidua da personaggi come Andrew Jackson, già candidato alla presidenza e all’epoca probabile futuro presidente, mercante di schiavi e odiatore degli indiani, fondatore del partito democratico e sostenitore del protezionismo: il tipico self made men semi-analfabeta che ha fatto carriera per la sua spregiudicatezza e irruenza, quanto di più lontano dall’aristocrazia intellettuale che ha così benevolmente accolto il giovane conte europeo.

Più in generale, Vidua sembra essersi fatto questa idea. La rivoluzione americana è stata gestita da una minoranza di privilegiati che aveva come scopo principale quello di sostituire la propria egemonia a quella inglese. Lo stesso vecchio Adams gli ha confermato che la maggioranza degli americani era contraria all’indipendenza o era indifferente. Ma tutto sommato gli artefici della rivoluzione, pur partendo da concezioni di fondo molto diseguali, e pur adottando nella competizione politica e nell’ accaparramento del consenso mezzi molto spregiudicati, hanno creato un sistema equilibrato, anche se fragile per l’esistenza nelle diverse ex-colonie di esigenze economiche spesso contrastanti. È un sistema che garantisce in primo luogo le libertà, quindi costituisce un esempio cui guardare. Vidua è colpito ad esempio dalla tranquillità nella quale si svolgono le operazioni di voto: “Ho assistito ad una elezione nello stato del Maine; ciascuno andava a portare il suo biglietto, la gente di diverso partito s’incontravano senza dir nulla, ciascuno dava il voto al suo candidato, i signori di città ne tenevano registro, un silenzio, una quiete, non si sarebbe sentito volare una mosca; quando scadde il tempo fissato per dare i voti, fu fatto lo scrutinio ossia il sommario dei voti in presenza di tutti, e fu dichiarata l’elezione senza gridi, senza tumulto”. (mi chiedo cosa penserebbe oggi!). O ancora, dall’ordine e dalla sicurezza che regnano nelle ex-colonie: “Sui costumi e sulla religione di questo popolo vi sarebbe molto che dire; ma esso merita questo grande encomio, che sebbene si governi da sé, e la forza pubblica vi sia debolissima, pure le persone e le proprietà vi sono talmente sicure che si viaggia ad ogni ora, e le case sono aperte fin di notte, senza serrature, senza chiavi e senza feriate” (anche su questo, avrebbe forse dei ripensamenti).

Ritiene però che quello americano sia un modello difficilmente ripetibile al di qua dell’oceano. In effetti, le condizioni sia fisiche (gli spazi) che sociali (l’eguaglianza dei diritti) degli Stati Uniti sono ben diverse da quelle europee. Inoltre, tutto il conclamato egualitarismo, che teoricamente è la base del modello democratico, è clamorosamente smentito dal fatto che una parte considerevole della popolazione, tra nativi che vengono espropriati delle loro terre e schiavi che sono stati importati (e continuano ad esserlo), non partecipa di nessuna liberà, né civile né politica (nel 1830, a fronte di una popolazione di oltre quindici milioni, i votanti sono un milione e mezzo) Col passare del tempo, secondo Vidua, questi problemi diverranno sempre più gravi, e peseranno moltissimo sulla tenuta dell’unione. “Una tranquillità perfetta che continuerà tanto che non ci sia sovrabbondanza di popolazione, una sicurezza personale illimitata, e indipendente dal capriccio dei governanti, una libertà intera di vivere e di scrivere, limitata però dall’uso dei duelli, da processi per calunnia e in certi punti dalla pubblica opinione, nessun timore di potere arbitrario, questi sono beni reali e preziosi, e certo questi beni si godono in America dai cinque sesti degli abitanti. Ma lo spettacolo dell’altro sesto, cioè di due milioni di creature umane staffilate, vendute, affittate come bestie sol perché non hanno la pelle bianca, mi amareggiava continuamente il soggiorno sì vantato della terra di libertà.

Ciò che intravvede, e che non ha potuto poi dettagliare e commentare con calma e in maniera più approfondita, è né più né meno ciò che vedrà Alexis de Tocqueville esattamente cinque anni dopo.

Tocqueville arriva in America nel 1831, con Gustave De Beaumont, inseparabile sodale di una vita. La motivazione ufficiale del suo viaggio è lo studio del sistema giuridico e penale degli Stati uniti, ma il soggiorno di quasi un anno gli consente indagare in profondità le differenze tra la “rivoluzione” americana e quella francese. Studia gli effetti della democrazia, e constata che questa promuove l’uguaglianza a scapito della libertà e l’individualismo a scapito della coesione sociale. Il rischio (a suo parere molto concreto) sul lungo termine è quello della massificazione e del trionfo del conformismo: la democrazia finisce allora per scadere nel dispotismo della maggioranza. Questo il succo de La democrazia in America, il poderoso saggio scritto negli anni immediatamente successivi al ritorno, e destinato a dargli la fama.

Vidua non ha modo di ordinare le sue impressioni, non effettua questi collegamenti, ma coglie già perfettamente quelli che ne saranno i presupposti. Nel resoconto della sua esperienza americana inviato all’amico Roberto D’Azeglio, rispondendo alla domanda di quest’ultimo: “Osserva ben quegli uomini, e dimmi se veramente son più felici degli altri. Vi trovi libertà vera?” scrive: “Non andai in America fanatico, ma a dir vero inclinato in favore. Non ho incontrato nessun dispiacere … nessuno disse male di me, e alcuni dissero più bene che non merito. Lungi dall’aver motivo di disgusto, ho dunque doveri di gratitudine. Ma pur la verità, ch’è il primo dei doveri, mi costringe a confessare che quegli uomini e quel paese mi gustaron pochissimo. … quanta diremo sia la felicità di un popolo che tutto intero corre ansante, senza riposo e senza intermissione in cerca del solo guadagno; in cui le scienze e le arti sono coltivate solo nell’interesse commerciale; in cui l’attività individuale tende ad isolare e a infievolire i nodi più stretti di un popolo sommamente industrioso, è vero, ma privo di fantasia, incapace di passioni generose, tenere o magnanime, del popolo il più freddo e il più calcolatore, che la terra abbia visto giammai? Parlo dell’universale, Dio mi guardi dal calunniare i particolari; son pronto a rendere giustizia a questi, e forse ancora sarei inclinato a riconoscere in favore dell’universale, che que’ difetti medesimi li rendon più capaci di sostenere la libertà, la quale difficilmente si può acquistare, o presto sfugge dalle mani delle nazioni dotate di tempra fervida e di calde passioni. Però, se la libertà si paga a tal prezzo […]”.

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Verso ovest e verso sud

Vidua ha naturalmente letto i libri di Chateaubriand e quelli di James Feminore Cooper, anche se questi ultimi non lo entusiasmano. Cooper l’ha poi anche conosciuto personalmente durante il viaggio. Vuole ora visitare le foreste canadesi teatro delle gesta dell’ultimo dei Mohicani, ma soprattutto completare la sua ricognizione dei sistemi politici nordamericani andando a verificare i modi della colonizzazione inglese: e vuole anche esplorare la frontiera occidentale statunitense, aperta una ventina d’anni prima con l’acquisto della ex Louisiana francese. Negli ultimi mesi del 1825 compie quindi un itinerario che dal Canada lo porta lungo la linea della frontiera sino a st. Louis, nel Missouri. Ha modo di ammirare le cascate del Niagara, delle quali scrive con entusiasmo: “Non mi sazio di vederle: son qui da due giorni e non fo altro che vagheggiarle: la pioggia, la nebbia e soprattutto la luna diversificano in mille modi la scena, e senza essere tacciati di romanticismo si può dire che questo è uno dei luoghi più romanzeschi del globo”. Altrettanto entusiasmo mostra però, oltre che per gli spettacoli della natura, per quello dell’intraprendenza umana, che in pochissimi anni ha creato città come Rochester e Pittsburg, ricche di manifatture d’ogni genere e pulsanti di vita: “È incredibile l’industria e l’attività di questa nazione, qualità in cui essa sorpassa e la Francia e l’Inghilterra che pur sono reputate le nazioni più industriose d’Europa”.

È un percorso più lungo di quello compiuto dallo scrittore bretone trent’anni prima, e anche di quello che di lì a pochi anni intraprenderà de Tocqueville. Tocca l’Ohio, il Kentuky, l’Indiana, l’Illinois e il Missouri: e Vidua si rende conto che il futuro dell’America è proprio nella frontiera.

Tutta questa parte degli Stati Uniti chiamata Western Country, che si estende lungo i grandi fiumi dell’Ohio e del Mississippi, è comparativamente agli altri stati sulle sponde dell’Atlantico, un paese nuovo. […] Questo è il più brillante teatro dell’industria di questo attivissimo popolo. L’americano non ha l’attaccamento al campanile, il rincrescimento di staccarsi dagli amici, dai parenti, da una patria. […] All’età di vent’anni ei si prende una moglie e va a cercare fortuna nell’Ovest. La terra è a buon mercato […] i raccolti di due o tre anni bastano a vivere, a pagare la terra e a fabbricare una cascina. A poco a poco la famiglia cresce, ma crescono le braccia: ed i suoi figli a vent’anni imitano il padre, abbandonando la casa paterna e andando a cercar fortuna sempre più all’ovest.

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Da St. Louis si imbarca su un battello che discende il Mississippi, e nel febbraio 1826 lascia gli Stati Uniti, partendo da New Orleans e recandosi in nave in Messico. È intenzionato a raccogliere materiali per una storia della rivoluzione messicana e più in generale di tutte le recenti rivoluzioni che si sono prodotte o sono ancora in corso nell’America Latina, nelle ex-colonie spagnole: e anche in questo caso non si accontenta di intervistare le massime autorità nei palazzi del potere, ma intende visitare in lungo e in largo i diversi paesi. Vuole ricalcare quasi passo passo le orme di Humboldt, ed aggiornare le considerazioni riportate da quest’ultimo quando l’ondata rivoluzionaria era ancora all’inizio.

In Messico però la delusione è cocente: riguarda il paesaggio (una campagna squallida e deserta), la viabilità (è questo uno dei paesi in cui viaggiare è più costoso, più difficile, più faticoso), gli abitanti, che hanno una fisionomia selvaggia, l’economia, poverissima e se possibile in dissesto, e poi, soprattutto, le istituzioni. La chiesa tollera manifestazioni religiose carnevalesche: “Il giovedì santo, trovandomi in un borgo presso s. Luis Potosi andai In parrocchia dopo pranzo credendo assistere all’ufficio: ma trovai che invece dell’Ufficio sì commovente […] si facevano in cambio tre processioni con grandi mascheroni, con fiaccole, con tiri e spari e musiche di violini come se fosser balli”. La classe politica uscita dalla rivoluzione non promette granché bene: “Qui in tutte le parti sono occupati a costituirsi; con quanta perizia, e quanta scienza politica e governativa nol so”. Vidua presenzia ad alcune sedute degli organismi di governo provinciali, e constata come nei confronti degli spagnoli l’odio sia radicato (e meritato, a giudicare da quel che sente). Ritiene quindi impossibile che la Spagna possa riprendersi le sue colonie. Ma ha anche forti dubbi sulla tenuta del nuovo assetto politico. “Io sono per l’emancipazione, però dopo che ho visto Messico, desidero per loro bene che i Repubblicani arrabbiati non abbian tanta influenza, e che non sia dato loro il potere di piantare il pugnale nelle viscere della loro patria, come sgraziatamente fanno.”

Mentre è in Messico gli capita anche un fatto tra il comico e l’increscioso. “Passando ad altro soggetto, vorrei raccontarti la storia della mia morte, ma non la so bene. Mentre io stava visitando il Messico fu pubblicato negli Stati Uniti il racconto della maniera con cui io era stato ammazzato ne’ deserti dagli Indiani; colà son tanti i giornali! dall’uno all’altro lo ripeterono, e un letterato di Filadelfia, città ove mi aveano conosciuto molto, fece la mia Necrologia, e la fece stampare nel più famoso di que’ fogli periodici […]. Il console generale negli Stati Uniti scrisse al Ministro al Messico per saper s’era vero, ed io poi seppi da lui la mia morte e la mia risurrezione tutto in una volta quando fui di ritorno a Messico. – Desiderava leggere la mia necrologia per la rarità del caso, che al solito non la legge il morto, però finora non l’ho potuta avere. Il suddetto Ministro degli Stati-Uniti al Messico, ch’è mio amico, mi disse ’che m’avean detto molto bene. – Sia un compenso per quelli che dicon male.” Il problema è che la notizia giunge sino in Europa, e solo il sopraggiungere di una tempestiva smentita evita ai famigliari di Carlo un coccolone.

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Anche Città del Messico, dove arriva il 21 giugno dopo aver girovagato per quattro mesi nella zona centrale del paese, non corrisponde affatto alle sue aspettative. La paragona a Torino, per le montagne che le fanno cornice, ma trova che tanto il panorama che la configurazione urbana siano decisamente inferiori. Naturalmente non manca di raccogliere tutto ciò che può, e di spedire dalla capitale il solito stock di casse pieno di libri, tele, statuine, medaglie, ecc…

Nel paese dilaga però la febbre gialla, e decide allora di lasciare il Messico e dirigersi verso il Perù. Non senza concedersi, lungo il cammino che lo porta verso la costa pacifica, un mese di sosta a Guadalajara, che giudica la più bella città del Messico e dove trova ospitalità presso un gentiluomo inglese. In realtà è anche incerto se proseguire nel suo progetto dell’America Latina o volgersi direttamente all’Asia (ha in mente la Persia).

A sciogliere ogni dubbio arriva una missiva della sorella che lo informa del grave stato in cui versa la salute del padre. Sconvolto dal rimorso, Carlo intraprende una galoppata che in un mese lo riporta a Città del Messico, e di lì a vera Cruz, dove trova un passaggio per l’Europa. Si imbarca il 22 febbraio e giunge a Bordeaux nell’aprile del 1827, dopo una traversata ancora una volta tempestosa. Ma sta scritto da qualche parte che il ritorno non sia definitivo. Un duro contrasto epistolare con il padre, nel frattempo ristabilitosi, induce il nostro a non rientrare in patria. I motivi della rottura si possono facilmente immaginare: gli viene dettato l’ennesimo ultimatum, pena l’essere definitivamente diseredato. Carlo non è disposto ad accettarlo e si ritiene quindi sciolto moralmente da ogni vincolo. “Sarebbe stato naturale qualche rincrescimento della strada fatta indietro, e quale strada! Tuttavia pensai che non era possibile pentirsi di aver fatto ciò che si deve, e io sono contento di aver avuto occasione di mostrare in un modo così poco volgare il mio rispetto e affetto per mio padre. Avevo compiuto un dovere. Tal dovere non esistendo più, era naturale di finire ciò che avevo incominciato. Invece di fare il giro della palla da levante a ponente, questo accidente me lo fa fare da ponente a levante.”

Del resto, era già chiaro molto prima, quando a proposito di matrimonio e di carriera scriveva ad un amico: “Se mai mi decidessi, sarebbe unicamente per far piacere a mio padre. Capisco che ei ne dee avere gran desiderio, e s’io fossi a suo luogo l’avrei. Ma la perdita della libertà, l’interruzione de’ miei studi, e soprattutto l’obbligo di dovere vivere in un paese sì diviso, e in mezzo a tante piccolezze, e ad opinioni che per la loro esagerazione da una parte e dall’altra, non si combaciano con le mie idee moderate […]”.

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Nell’Estremo Oriente

Vidua deve aggiornare i suoi programmi, e non impiega molto. Solo tre mesi dopo il rientro, nel luglio del 1827, riparte da Bordeaux per quello che nelle intenzioni dovrebbe essere il suo ultimo viaggio (così almeno scrive alla sorella): la destinazione prossima è l’Estremo Oriente, in particolare la penisola indiana e il sud-est asiatico, ma il progetto è molto più ambizioso: prevede l’Australia e la traversata del Pacifico sino al Cile e al Perù, e quindi di valicare le Ande per toccare Buenos Aires e Rio de Janeiro.

Arriva dunque a Calcutta a metà novembre del 1827 (dopo cinque mesi di navigazione!). Nel gennaio dell’anno successivo risale il Gange fino a Benares, per essere poi a Delhi in febbraio. Il tam tam che lo precede funziona, comincia ad essere conosciuto anche negli angoli più remoti del mondo come “il Viaggiatore”. Le credenziali a questo punto se le firma da solo. Incontra così i massimi esponenti della Compagnia delle Indie ed è presentato personalmente al Gran Mogol. Ha il tempo anche di frequentare i “salotti” coloniali, e di biasimare la spocchia che li caratterizza. Gli inglesi guardano con sprezzo alla sua curiosità per culture che ritengono inferiori: e al contrario degli americani ritengono inferiore anche la cultura sua. Significativo è quanto racconta a proposito di un’accesa discussione a casa di un alto funzionario della Compagnia: “Alla fine milady alzandosi mi disse che ero bigot. Le risposi: è bigot chi attacca, non chi si difende, chi vuol perseguitare, non chi apologizza, io amo i protestanti, non ho declamato contro di essi. È bigot chi fa accuse senza fondamento, chi vuole escludere i suoi compatrioti dall’esercizio di egual diritti, ecc […]”. Questo ci rimanda un illuminante quadretto degli ambienti frequentati da Vidua, ma ci dice anche che lo stesso non ci sta a recitare la parte dell’ospite che si fa andare bene tutto.

È indignato soprattutto dalla netta linea di separazione che gli inglesi hanno tirato tra sé e gli indiani, e dallo sfruttamento di questi ultimi: a Calcutta “io tentai qualche passeggiata a piedi: gli indiani mi fissavano come si guarda un pazzo, sì poco sono avvezzi a veder un bianco muovere le gambe. I cavalli stessi paion riservati solo ad usi nobili, condurre carrozze o portar eleganti cavalieri. Raro si vedon cavalli condurre carrette; bestie da soma son gli indiani, cavalli di stanza son gli indiani, l’ufficio degli asini, dei buoi è fatto dagli indiani: tutte le mercanzie son care fuorché la carne umana”.

D’altro canto, “il pregiudizio della casta è insuperabile, e necessita questo numero considerevole di domestici giacché non ridurreste mai quel che vi veste a servirvi a tavola e quel che vi serve a pranzo a salir dietro il cocchio, uno non può toccar le scarpe perché è pelle di animale; l’altro non può portarvi il brodo perché è bevanda immonda, tutto li contamina, tutto li sporca, gettano il resto delle nostre vivande appena abbiamo finito di pranzare! Indi nasce quel notabile e quasi incredibile contrasto, che cento milioni di uomini rispettano ed ubbidiscono a pochi europei, ciascun dei quali è riguardato da loro come creatura sì nauseosa, sozza, immonda, che nemmeno il più povero non consentirebbe a dividere seco lui un pezzo di pane”.

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In India non si ferma a lungo. Abbastanza però per raccogliere un sacco di materiale, da spedire a casa in un “ricco baule”, pieno di “manoscritti Indiani in differenti lingue, ornamenti donneschi, rappresentazioni de’ costumes ossia abiti delle differenti condizioni di persone, ed altri vari oggetti”. Nell’aprile del 1828 è comunque sui primi contrafforti dell’Himalaya, senza peraltro sembrarne particolarmente impressionato: si limita a prendere atto che le vette sono indubbiamente molto più alte di quelle alpine, e che per salirle occorrerebbe una sosta prolungata, ma le trova molto meno spettacolari.

Poi, tornato alle pianure, si sposta nell’estate a Singapore e trascorre un intero anno tra il porto aperto di Canton e i possedimenti portoghesi (Macao) e spagnoli (Manila).

Canton è diventata verso la fine del secolo precedente la sede ufficiale dei traffici inglesi con la Cina, soppiantando il ruolo che era stato in precedenza dei portoghesi di Macao (a metà dell’Ottocento sarà a sua volta soppiantata da Hong Kong). In una lettera al padre (col quale la comunicazione epistolare è ripresa) Vidua racconta come gli stranieri che risiedono a Canton siano soggetti a forti restrizioni nei movimenti e a continui controlli. In sostanza non possono uscire dalle aree destinate allo scambio commerciale. Qualora ciò accada, c’è il rischio di essere aggrediti e bastonati da una moltitudine di cinesi furiosi. Gli stessi impiegati della compagnia delle Indie non possono risiedere sul territorio cinese per più di sei mesi l’anno, e trascorrono gli altri sei a Macao. Non possono nemmeno portare con sé le mogli o la famiglia.

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La curiosità di Vidua però la vince. Con vari espedienti, come l’accompagnare un medico della compagnia nelle sue visite ai maggiorenti della città, o dietro invito diretto di ricchi mercanti cinesi, riesce ad intrufolarsi in alcuni templi e monasteri, o in grandi ville con magnifici giardini, e persino ad assistere a rappresentazioni teatrali. Si arrischia anche, assieme ad altri tre giovani europei, a sbarcare su una spiaggia deserta a qualche chilometro dalla città, e a fare poi un giro nell’interno della campagna, mantenendosi sempre fuori vista e annotando tutto il possibile sui sistemi di coltivazione, sulle abitazioni rurali, sulle piantagioni del the, ecc. Scrive a suo padre, forse anche per dimostrargli che non va a spasso senza scopo: “La campagna nei dintorni di Cantòn è molto coltivata e le fattorie frequenti, i canali di irrigazione e i diversi livelli del suolo destinato alla coltivazione del riso molto bene curati, indicano grandi progressi anche in Cina in questo settore così importante dell’agricoltura”. È l’occhio del proprietario di risaie in Italia.

Alla fine del febbraio 1829, data del trasferimento semestrale degli europei, il governatore della Compagnia delle Indie gli offre un passaggio per Macao. A dispetto della sosta forzatamente breve Vidua è riuscito a raccogliere una gran quantità di oggetti che forniscono una importante documentazione sulla Cina dell’epoca: statuine di divinità o di personaggi del taoismo, paesaggi in miniatura, mappe locali o del Giappone, carte da gioco, armi, nonché una intera Bibliothèque Chinoise, che spedisce immediatamente al padre.

Il 3 maggio abbandona definitivamente l’Estremo Oriente continentale diretto a Singapore. Durante la primavera ha intanto iniziato la stesura di un trattato politico, in cui intende riunire proprie le osservazioni sugli ordinamenti dei luoghi visitati. Pervenuto a Cesare Balbo e confluito infine nella Biblioteca nazionale di Torino, il manoscritto dell’opera incompiuta è andato distrutto nell’incendio che devastò la biblioteca nel 1904.

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Morire nelle isole della Sonda

A metà del 1829 si trasferisce a Giava, dove rimane sei mesi ed entra in contatto con un sistema di colonizzazione diverso. La compagnia olandese delle Indie pratica una politica più morbida, ma non meno repressiva, rispetto a quella inglese: a Vidua sembra decisamente più intelligente. Ma a Giava, forse per la suggestione del paesaggio, porta avanti un altro progetto, direttamente ispirato dalla Naturgemalde (più o meno, la descrizione della natura) di Humboldt: quello di percorrere e in lungo tutta l’isola e di mapparne l’orografia, determinando con il barometro l’altezza delle principali montagne. In effetti ne scala due che superano i quattromila metri, col risultato di dover poi rimanere a letto e a digiuno per diversi giorni. Giava non è innervata da una vera e propria catena montuosa, ma sulla linea da est ad ovest sorgono ben centoventi vulcani, un quarto dei quali ancora attivi. Vidua si propone di censirli e di redigere poi una serie di tavole che presentino la distribuzione geografica delle piante, che nell’isola varia dalla foresta equatoriale lungo le coste ai boschi di tipo alpino oltre i duemila metri.

Nel marzo del 1830 si sposta alla vicina isola di Madura, e successivamente ad Ambon, nelle Molucche, dove è ospite del governatore olandese. Viaggia sull’Iris, una goletta comandata da Jan Hendrik De Boudyck-Bastiaanse, che gli dedicherà i suoi Voyages faits dans les Moluques, à la Nouvelle-Guinée et à Célèbes, avec le comte Charles de Vidua, de Conzano, à bord de la goëlette royale l’Iris (Parigi 1845). Nel corso della navigazione vengono scoperte alcune nuove isole, e ad una di esse viene dato il nome di Isola di Vidua: ciò che la dice lunga sulla stima e sull’amicizia che “il Viaggiatore”, come ormai è chiamato ovunque, riesce rapidamente a conquistarsi. Il comandante scriverà di lui che era anche un abilissimo navigatore (complimento non comune per un piemontese), e che a bordo lavorava come qualunque altro membro dell’equipaggio.

Viaggiando in rimoti paesi 26L’esplorazione delle isole della Sonda è però solo un’ulteriore tappa di avvicinamento al continente australe, rispetto al quale l’interesse torna ad essere prevalentemente politico. “Il mio scopo nel visitare la Nuova Olanda è di osservare nella sua infanzia una colonia tutta di razza europea, destinata a divenire in cento o centocinquant’anni uno stato importante. Ho visitato gli stati Uniti nell’età giovanile. Visitar la Nuova Olanda è come veder dei secondi Stati uniti ancor bambini […]

È anche ossessionato dalla perfetta salute fisica: non che sia un ipocondriaco, anzi, non manca mai, nelle lettere a parenti e amici, di sottolineare come con tutto il suo viaggiare non si sia mai beccato un malanno: e quando questo accade, nell’ultimo anno, lo rileva con rammarico e stupore, quasi un presagio.

A dispetto delle febbri intestinali, ad agosto Vidua è sull’isola di Celebes, viaggiando sempre con Bastiaanse: e qui avviene la tragedia. Durante un’escursione in una caldara scivola con una gamba nella lava bollente. Un po’ se la cerca; il governatore delle Molucche scrive ad un suo omologo: “La rapida fine del conte Vidua deve essere attribuita all’accidente che gli è capitato nelle contrade dell’interno di Menado, e del quale è stato lui stesso la causa, non avendo voluto ascoltare il capo indigeno che lo aveva avvertito del pericolo e voleva trattenerlo, cosa di cui egli si era mostrato irritato. Il defunto era posseduto da un ardore eccessivo: non concedeva al suo corpo alcun riposo”. L’incidente appare subito molto grave, ma non per questo il casalese vuole rinunciare alla sua esplorazione. Trova però un medico solo venti giorni dopo, a Ternate, la regina delle Isole delle Spezie: e qui deve necessariamente fermarsi. Sfrutta comunque l’immobilità forzata mettendo ordine nei suoi appunti e scrivendo. Spera ancora di poter riprendere il viaggio: ma la situazione si va velocemente aggravando. La cancrena alla gamba sale sino alla coscia: l’ultima flebile speranza è legata all’amputazione.

Il 21 dicembre s’imbarca pertanto per Ambon, dove spera di farsi operare: ma è troppo tardi. Muore durante il viaggio, il giorno di Natale del 1830. In una lettera inviata quindici giorni prima al governatore olandese suo amico ha scritto: “Ciò che rimpiango è di non avere davanti altri tre anni di vita, per poter raccogliere il frutto di tante fatiche, di tante ricerche, di tanto lavoro nelle quattro parti del mondo. Sia fatta la volontà di Dio”. Chiede anche che tutti i suoi scritti vengano distrutti. Il suo corpo è tumulato sulla spiaggia dell’isola, dove il governatore fa erigere un sepolcro. Anche il luogo dove è avvenuto l’incidente porta oggi il suo nome: è il Count Vidua Solfatara Field, sul vulcano Tondano.

Poi, nel 1833 almeno le sue spoglie tornano finalmente a casa. Il padre si attiva in tutti i modi e la salma, con un’ultima lunghissima navigazione che passa per Rotterdam e Genova e che sembra rinnovare postuma le peregrinazioni del Viaggiatore, è traslata a Conzano.

Pio Vidua gli sopravvive sei anni. Un anno dopo, nel 1837, muore anche la sorella. Il timore che aveva angustiato il padre per trent’anni si avvera: il ramo casalese dei Vidua si estingue. Ma si avvera anche, almeno in parte, e almeno fino ad oggi, quello che aveva angustiato il figlio: sul suo nome cade l’oblio.

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Sulle consonanze

Non mi resta ora che spiegare brevemente i motivi della particolare simpatia che provo per Carlo Vidua. Sono tantissimi e diversi, e in qualche caso anche un po’ difficili da spiegare, perché il personaggio è un groviglio di contraddizioni. Provo a riassumerli.

Intanto c’è il suo straordinario curriculum di viaggiatore. L’ho scoperto colpevolmente tardi ma ha calamitato subito il mio interesse, perché nell’Ottocento nessun altro italiano ha viaggiato quanto lui. Quando poi ho saputo dei suoi rapporti con Humboldt l’interesse naturalmente si è moltiplicato. A rendermelo particolarmente caro è stato infine il suo tragico destino, che non solo lo ha strappato alla vita ma lo ha anche relegato in un angolo in ombra della storia. Diciamo che rientra a pieno titolo tra i “quasi adatti” dei quali mi sono prevalentemente occupato: di quei “perdenti” che non inseguendo il successo, ma la virtù e la conoscenza, a volte anche inconsapevolmente, hanno in realtà vissuto esistenze straordinarie.

Che tipo di viaggiatore fosse l’ho già detto. Non è annoverabile tra i grandi camminatori perché si è mosso quasi sempre a cavallo (o su cammello), in carrozza o in nave, in genere con uno o più servitori al seguito. Nemmeno è stato un viaggiatore “eroico”, di quelli che cercano il confronto coi propri limiti o si spostano sempre sul filo della sopravvivenza. Ha visitato un’enorme fetta di mondo ben coperto sia sul piano economico che su quello delle conoscenze e delle credenziali. Era perfettamente consapevole di godere di una condizione di privilegio, non se ne scusava affatto e riteneva semmai doveroso metterla a frutto: “Coloro appunto, cui la fortuna fu larga de’suoi doni, e che talvolta come usarne non sanno, quelli potrebbero agevolmente andar ricercando le contrade straniere, onde giovare alla patria, ed illustrare il loro nome”. Non dunque da turisti, ma da studiosi. Come tale Vidua pianificava meticolosamente i suoi percorsi, solo che questi poi si dilatavano e si ramificavano in ogni direzione, senz’altro perché poteva permetterselo, ma prima ancora perché trovava costantemente nuovi motivi di interesse, scopriva e inseguiva nuove curiosità. Il fine “scientifico” di tutto questo vagare era autentico, almeno negli intenti, anche se credo che con l’andar del tempo sia diventato quasi un pretesto, e che Vidua abbia continuato a spostare sempre un po’ più in là gli orizzonti per non dover affrontare, una volta fermo, l’onere di un bilancio. A dispetto dei reiterati propositi di ritorno e di stabilizzazione definitiva, espressi soprattutto nelle ultime missive, penso che ad un certo punto il viaggio sia diventato per lui, da strumento che era, il fine. O che lo fosse sin dall’inizio.

Cos’ho trovato dunque di particolarmente attrattivo nel Vidua viaggiatore? Senz’altro la determinazione: intraprendeva quasi tutte le sue avventure in compagnia di amici o conoscenti che ad un certo punto, per vari motivi, rinunciavano, mentre lui proseguiva imperterrito. E fino all’ultimo, anche a dispetto del grave incidente occorsogli, non intendeva rinunciare al completamento del giro del mondo. Mi piace poi il suo senso di responsabilità, anche se talvolta può sembrare pretestuoso: se uno sceglie di viaggiare non è giusto, né nei confronti propri né in quelli altrui, che contragga legami ai quali poi non può convenientemente ottemperare: “Quando l’uomo si marita, conviene che rinunci ai viaggi, e stabilisca di tenere compagnia bene o male a quella donna che per sua ventura o disgrazia ha scelto”.

E mi piace infine la capacità di adattarsi. Non mi riferisco chiaramente alle condizioni materiali del viaggio, che erano comunque disagevoli, anche muovendosi col minimo di comodità concesso dall’epoca, ma a quelle psicologiche. Si trovava altrettanto a suo agio ovunque e con qualunque interlocutore, fossero sovrani, presidenti, marajà, governatori coloniali, mercanti o beduini: non adulava, non si umiliava, li interrogava mostrando un interesse genuino, li ascoltava e cercava di trarre da tutti il numero maggiore di informazioni possibili: non era lì per giudicare, anche se poi nelle lettere i suoi giudizi li esprimeva, ma per capire.

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Il Vidua “uomo” mi ha intrigato invece perché sfugge ad ogni incasellamento. È impossibile metterlo perfettamente a fuoco. Lui stesso non ha collaborato granché. Non ha lasciato opere compiute (se si eccettua la raccolta di iscrizioni antiche, che è un lavoro specialistico), fallendo malinconicamente nell’adolescenziale assillo di tutta una vita, la costruzione di una immagine di sé ricalcata su quella degli eroi antichi. Quindi non abbiamo un autoritratto “autorizzato”, la sua versione soggettiva. Ma riesce difficile anche ricostruirne un ritratto sufficientemente oggettivo attraverso ciò che ci è rimasto, perché le sue lettere, che pure di quella immagine sono piene, la cambiano poi in realtà a seconda dei destinatari: la loro scrittura si adatta di volta in volta a trasmettere ciò che Carlo riteneva l’interlocutore si aspettasse.

Viaggiando in rimoti paesi 29Ciò non significa che Vidua fosse uno Zelig, un uomo senza personalità. Era semmai un personaggio un po’ pirandelliano, costantemente lacerato tra la mozione paralizzante degli affetti e quella liberatoria degli istinti. Alla fine ha prevalso la seconda, ma non ha mai soffocato definitivamente la prima: così che ogni esperienza è stata da lui vissuta sotto una doppia luce. Dovessimo giudicare solo dalle lettere al padre, ad esempio, ne verrebbe fuori un aristocratico un po’ eccentrico che si compiace soprattutto delle sue frequentazioni altolocate – oggi sarebbe un cacciatore di selfie con le celebrità –, del rispetto tributato alle sue ascendenze nobiliari e del ruolo di ambasciatore itinerante dello stato savoiardo nel mondo: mentre è evidente che tutto questo serviva solo a tentare di giustificare davanti al genitore la propria disobbedienza, e che la frequentazione di quegli ambienti era strumentale al lavoro che intendeva compiere (e alla fama che sperava ricavarne). Così, in quelle agli altri famigliari la preoccupazione costante è di rassicurarli sul proprio stato di salute, sulla sicurezza dei viaggi e sul fatto che non si dimentica di loro, usando però spesso la formula “è stato un po’ pericoloso, o un po’ difficile, ma comunque sono ancora vivo e sano”, come a tenerli comunque allertati sull’eccezionalità di quanto stava facendo; mentre nelle lettere agli amici si compiace di inserire aneddoti, avventure e osservazioni che rimandino l’immagine di un originale freddo e coraggioso e riscattino la sua apparente diserzione dalle lotte patriottiche.

Le testimonianze esterne trasmettono invece un Carlo Vidua molto diverso: Quincey Adams ne parla come di una persona semplice e alla mano; Caillaud è conquistato dalla sua serietà e al tempo stesso dalla sua disponibilità; il comandante olandese dell’Iris racconta come sulla nave si adattasse volenterosamente a qualsiasi compito, pur essendo un passeggero pagante. Alla fine la versione meno credibile è proprio quella del suo già intimo amico e primo biografo Cesare Balbo, che nell’editarne le lettere ha costruito con tagli mirati una oleografica figurina di eroe romantico, malinconico e sfortunato.

Io mi sono fatto questo personalissimo quadro. Vidua è un personaggio anacronistico. Ma lo è nel senso più letterale del termine; sta fuori dal tempo, e non solo dal suo. Non era un romantico, pur avendone tutte le caratteristiche, non era un illuminista, pur utilizzando tutti i criteri illuministici di interpretazione della realtà. Questo crea l’impressione che non abbia mai veramente capito quanto stava accadendo e avesse idee piuttosto confuse su quanto sarebbe potuto accadere in futuro. Io credo invece che Vidua si sia volutamente (e quindi consapevolmente) rifiutato di capirlo, perché ciò che lo circondava andava a configgere, oltre che con la sua indole irrequieta, con tutte le sue idealità: e non parlo delle convinzioni politiche e religiose, ché quelle sono legate all’ambiente in cui era cresciuto e al periodo in cui ha vissuto, ma delle idealità etiche delle quali si era nutrito sin da bambino. C’è un passo di una sua lettera (a Roberto d’Azeglio) che fa intendere benissimo la sua posizione: “È vero che a Torino, a sentir le esagerazioni insopportabili di certa gente, mi sentivo sì trascinato alla liberalità, che mi facevo forza per non diventarlo eccessivamente. – Così nell’altro mondo le esagerazioni liberali mi disgustavano tanto, che mi facevo forza per non diventare partigiano delle Soirée de st.Petersbourg”. È una frase che avrebbe potuto essere pronunciata da Corto Maltese (tra l’altro, fisicamente Vidua gli somiglia un po’), e che naturalmente sottoscrivo.

Vidua era un aristocratico, ma non un codino. Era un conservatore, ma non un reazionario. Si rifaceva agli ideali degli àristoi greci e latini come raccontati da Plutarco e da Tacito, ma quelle idealità le vedeva reincarnate anche nei crociati e nei paladini cristiani, o nei missionari gesuiti del Paraguay (quelli del film Mission). Tra i contemporanei che più ammirava c’erano i quaccheri americani, perché non si limitavano a professare la fede, ma la praticavano, e il filantropo inglese John Howard, uno che aveva girata tutta l’Inghilterra e buona parte dell’Europa visitando le carceri, denunciandone le atrocità e formulando suggerimenti per il miglioramento delle condizioni di vita dei prigionieri. Ecco, Howard era il suo modello più prossimo: un grande viaggiatore (si calcola abbia percorso più di 70.000 chilometri) e un benefattore dell’umanità, ascoltato dai potenti, riconosciuto e celebrato (almeno nella sua epoca) un po’ ovunque. E Vidua lo contrappone in positivo, ad esempio, al nostro Beccaria, che si era conquistato la fama cercando di applicare alla realtà italiana i principi riformatori d’oltralpe, senza mai muoversi dal suo studio.

Insomma, Vidua era un utopista: ma non di quelli che immaginano un’utopia buona per tutti gli uomini, e cercano sciaguratamente di attuarla, bensì di coloro che se ne creano una individuale e cercano il più possibile di abitarla.

Già questo basterebbe ad assicurargli un posto nel mio cuore. C’è però molto di più. Sono convinto infatti come Machiavelli che i lettori più attenti del presente siano sempre i conservatori, che sanno ciò che perdono con il cambiamento, e non i progressisti, che oggettivamente non sanno cosa troveranno e ritengono che ogni novità sia di per sé positiva. E sono anche convinto che per lo stesso motivo i grandi reazionari (si pensi a De Maistre) siano i più sensibili ai dettagli anche minimi del cambiamento, coloro che ne scorgono prima degli altri gli indizi e ne presagiscono più lucidamente le derive negative. Il bilancio che traccia al termine del viaggio in America è la migliore testimonianza di questa capacità premonitoria.

Altri motivi di consonanza sono forse più banali, ma per me non meno significativi. Dell’ammirazione per Humboldt e di quella per De Maistre ho già parlato: aggiungerei quella per Vico, che all’epoca di Vidua era ignorato dalla gran parte dei nostri intellettuali, e ha continuato ad esserlo almeno sino alla riscoperta da parte di Croce. Ma pure quella per Plutarco e Tacito e Senofonte tra i classici antichi, e per Machiavelli tra i moderni.

C’è poi il legame forte con la campagna. Certo, nel suo caso è il legame che può avere un proprietario di risaie, dalle quali trae la rendita che gli consente di viaggiare, troppo distratto da altri impegni negli ultimi quindici anni di vita per curarne l’amministrazione. Ma dalle lettere traspare comunque un certo orgoglio per la propria origine “rurale”. Si manifesta anche in questo caso la bipolarità di Vidua, diviso tra l’ammirazione per l’industriosità e la crescita economica e la nostalgia per un mondo preindustriale che va scomparendo. Ciò spiega il fastidio per i disboscamenti selvaggi in Inghilterra prima e in America poi, la preoccupazione per perdita della centralità economica dell’agricoltura, che porta con sé il tramonto del millenario assetto sociale ad essa connesso. Ma spiega anche l’attenzione ai tipi di coltivazione, alle tecniche, alle rese, laddove la maggioranza dei viaggiatori suoi contemporanei in genere non distingueva una spiga di grano da un’erbaccia.

Viaggiando in rimoti paesi 30Tale senso di appartenenza gli fa anche ad apprezzare, ad esempio, le musiche della tradizione popolare in ogni parte del globo; e persino le espressioni dialettali, dalle quali vorrebbe liberare la nostra lingua, ma delle quali sente comunque, almeno in particolari contesti, la forza e l’espressività: racconta ad esempio divertito delle esclamazioni cui si abbandonava il suo maestro di musica: “così s’fa pu prest”, o “à l’è na bestia”.

E questo ci riporta al tema della lingua. Nel Discorso sullo stato delle cognizioni in Italia parla, come abbiamo già visto, della necessità per la lingua (e per la nostra cultura in genere) di spiemontizzarsi e sfrancesizzarsi, di “sottrarsi all’imbarbarimento”. Ma non è solo questione di tornare ad una purezza lessicale che in fondo il nostro idioma non ha mai conosciuto, e che semmai andrebbe costruita: ciò che Vidua auspica è una lingua il più possibile aderente all’oggetto, senza fronzoli e ghirigori, semplice ed efficace. Chiede di uscire dalle esasperazioni metaforiche e immaginifiche del Barocco, che nascono dall’assenza di contenuti, ma anche di rifiutare gli orrori e i languori lessicali del romanticismo. Oggi dovrebbe chiedere un risciacquo nella prosa calviniana per liberare il nostro lessico dai tecnicismi forzati, dagli anglicismi superflui, dagli idiomatismi virali, ma anche delle massicce iniezioni di concretezza nei temi e nelle argomentazioni. Sarebbe più anacronistico che mai, e si sentirebbe più che mai estraneo alla sua terra e alla sua gente. Sensazioni che conosco bene, così come conosco quella di incompiutezza, che fortunatamente in me è stata messa a tacere dall’età. Lui è stato meno fortunato.

I motivi dell’affezione per Vidua sono dunque svariati. I più significativi sono paradossalmente proprio quelli legati alle sue “debolezze”, alle incoerenze che anziché farmi avvertire una distanza me lo hanno avvicinato: il rapporto contradditorio col padre e con i luoghi dell’infanzia, l’oscillazione costante tra nostalgia del passato e speranza nel futuro, l’anelito all’assoluta libertà e la giustificazione, pur parziale del dispotismo, l’apertura e la disponibilità al confronto e l’intimo arroccamento su posizioni pregiudiziali. Ci accomuna persino il rapporto con la scrittura. Scrive a Roberto d’Azeglio: “Ho bisogno de’ tuoi consigli sullo scrivere o non scrivere viaggi — e in che lingua — la nostra è la più bella. Pur se li scrivo in Italiano, nessuno li leggerà. — Dall’uno canto ci inclino — dall’altro penso che già troppi viaggi sono stampati”.

Come esco, dunque, dal viaggio compiuto in compagnia di questo personaggio e delle sue lettere? Con un sentimento di rammarico: per lui, perché non ha completato il viaggio attorno al mondo, e soprattutto non lo ha potuto degnamente raccontare. Per me, che il viaggio non l’ho nemmeno iniziato, perché non ho mai visitato l’isola di Cos.

Viaggiando in rimoti paesi 31

Una bibliografia commentata

Nell’intraprendere la scrittura di questo pezzo ero pienamente consapevole dell’inadeguatezza delle mie forze (non ho le capacità di concentrazione indispensabili per una ricerca che risponda ai crismi “scientifici”) e anche del fatto che questo lavoro, indipendentemente dal risultato, non avrebbe contribuito granché ad arricchire e a divulgare la conoscenza del suo oggetto. Dovevo farlo per adempiere ad un impegno preso con Vidua diversi anni fa. Diciamo che era diventata una questione tra me e lui. Ho voluto comunque che nel suo piccolo la narrazione fosse la più esatta possibile. Per questo, oltre che dei testi originali delle lettere e dei pochi scritti editi di Vidua, mi sono avvalso di diversi studi a lui dedicati, scoprendo con mia sorpresa che sono molti più di quanto inizialmente reputassi. Quest’ultima constatazione da un lato mi rallegra, dall’altro mi fa deplorare il fatto che non sia ancora stata realizzata una biografia del Viaggiatore capace di sottrarlo al destino di nicchia, una di quelle cose all’inglese che rendono avvincente anche la storia di impiegato del catasto.

I materiali per un lavoro di questo genere sono a mio giudizio già presenti nel lavoro su Carlo Vidua. Un romantico atipico, di Roberto Coaloa e Andrea Testa, edito a cura del Comune di Casale Monferrato nel 2003, che rimane comunque una raccolta di testi redatti in diverse occasioni. Se organizzati in una corretta sequenza narrativa e depurati delle eccessive ripetizioni potrebbero già offrire un’immagine sufficientemente completa e accattivante del personaggio. Per quanto mi concerne, ho saccheggiato spudoratamente da questo testo le citazioni riferibili ai materiali inediti utilizzati dagli autori. Spero non me ne vogliano.

Per chi si fosse appassionato all’argomento sono reperibili (con un certo sforzo) una serie di testi su aspetti particolari della sua vicenda:

Angela Ferraris – Carlo Vidua. La virtù infelice, in “Piemonte e letteratura 1789-1870” – Atti del convegno di S. Salvatore, ottobre 1981

Vincenzo Moretti – Carlo Vidua viaggiatore, in “Piemonte e letteratura 1789-1870” – Atti del convegno di S. Salvatore, ottobre 1981

Gian Paolo Romagnani – Carlo Vidua. Un inquieto aristocratico subalpino, in “Studi piemontesi”, nov. 1986 vol. XV-2

Gian Paolo Romagnani – Carlo Vidua. Viaggiatore e collezionista – Casale M., 1987

Andrea Testa – Carlo Vidua viaggiatore italiano negli Stati uniti, in “Rivista di storia, arte e archeologia per le province di Alessandria e di Asti” CV 1996

Andrea Testa – Riflessioni sugli ultimi viaggi di Carlo Vidua alla ricerca di nuovi mondi – Atti del convegno “L’altro Piemonte nell’età di Carlo Alberto”, ottobre 1999

Esiste anche uno schizzo biografico di misura analoga a quell0 mi0, un po’ datato nell’approccio “ideologico”, ma nel complesso esauriente e piacevole. È Il conte Carlo Fabrizio Vidua viaggiatore monferrino dell’800, di Mario Cappa, comparso sulla “Rivista di Storia, Arte Archeologia per le province di Alessandria e Asti”, anno LXXXII, 1973

Per leggere direttamente Vidua si possono (insomma!) vedere

Carlo Vidua – Relazioni del viaggio in Levante e in Grecia – Olschki, Firenze 2011 (stampato in facsimile)

Carlo Vidua – In Viaggio Dal Grande Nord All’impero Ottomano – Edizioni Dell’Orso, Alessandria (lo si trova a un prezzo che va dai 350 ai 380 euro)

Carlo Vidua – Narrazione viaggio alla Nuova Guinea 1830 (testo bilingue, a cura di Marisa Viaggi Bonisoli), ed. Angolo Manzoni, Torino 2003

Le Lettere sono rintracciabili invece solo nella versione digitale o a prezzo di antiquariato: Lettere del conte Carlo Vidua pubblicate da Cesare Balbo. Tomi I – II – III, presso G. Pomba, 1834, all’indirizzo https://books.google.it/books/about/Lettere_del_conte_Carlo_Vidua.

Per una bibliografia esauriente (ma aggiornata fino al 2003) rimando al volume di Roberto Coaloa e Andrea Testa.

Meteorosophia

Il piacere della pioggia, soprattutto quando manca

di Vittorio Righini, 1 maggio 2023

Perché a una persona viene in mente di scrivere un piccolo saggio sulla pioggia? Perché, per me ad esempio, la pioggia è ansia, ricordi, serenità, suoni, bianco e nero. Soprattutto ansia, perché mi preoccupo tanto quando non arriva, come succede dall’autunno 2021 ad oggi, primavera 2023.

Al 29 marzo 2022 erano 111 giorni che non pioveva nel basso Piemonte, e il 30 marzo 2022 sono cadute quattro ore di pioviggine, termine tecnico relativo a quella pioggerellina che bagna gli umani ma non impregna il terreno agricolo ormai estremamente assetato, non rialza il livello del Po, così basso da portare alla superficie un paio di chiatte affondate nella seconda guerra, inumidisce appena il fondo secco del lago di Ceresole, una volta 35 milioni di metri cubi d’acqua, circa 2 km quadrati, ora solo un’arida passeggiata nella polvere, nel terzo inverno più secco degli ultimi 65 anni (poi superato dall’inverno 2022/2023) ; quando arriva la pioggia, in questi casi, è come la neve per i bambini a Natale.

Poi capita una pioggia come quella del 4 ottobre 2021 a Rossiglione (GE): 740 mm. in 12 ore, record mondiale. Eppure, Rossiglione non è Bergen, Norvegia, la città più piovosa d’Europa, o Waialeale, Hawaii, la zona più piovosa del mondo. Rossiglione è a meno di un’ora da dove vivo io, ci passo col treno sulla via per andare a Zena ancora oggi, in passato coi compagni di scuola prima e all’Università poi.

Ricordi, perché molti dei miei momenti più sereni li ho passati al coperto, sotto un portico, una veranda, alla finestra, spesso con un libro in mano, con la pioggia come contorno. Serenità, perché quando arriva dopo tanto tempo la guardo cadere il più a lungo possibile e mi rilasso. Suoni, perché ad ogni consistenza di pioggia corrisponde un suono diverso. Bianco e nero, perché quando piove i colori finiscono in un grigio analogico ricco di moltissime sfumature tra il bianco e il nero.

Avevo intenzione di scrivere queste poche pagine solo quando pioveva, ma ci avrei messo troppo tempo per finire, qui piove poco, mi pare di averlo già scritto, e io non sono più un giovanotto da tempo: così mi sono adeguato e ho scritto nei giorni nuvolosi, tanto per avere una scusa.

Pioggia a volte fetente, a volte avvenente, a volte insolente.

Pioggia fetente

Meteorosophia 02Quanto è bella l’Irlanda? quanti ci passano le vacanze estive, e si, piove a volte, ma fa parte del panorama. Io accompagnai mio figlio, nel 2010, a passare due mesi di studio della lingua a Dublino, anzi nei dintorni. Senza troppa fatica convinsi mia moglie che sarebbe stato opportuno, oltre che viaggiare con lui, fermarmi tre o quattro giorni per verificare se le condizioni erano ottimali e se potevamo stare tranquilli. In realtà, una volta mollato Alessandro alla scuola prevista, avevo affittato una piccola auto per poter fare un breve viaggio, tutto solo con la mia fotocamera in bianco e nero, nella meravigliosa e verde Irlanda. Partimmo a luglio, ma atterrammo a novembre a Dublino, o almeno così sembrava. I campi erano verdissimi, le strade con l’asfalto lucido, il cielo e l’orizzonte si confondevano nello stesso grigiore nebuloso. Mi dissi: no problem, domani sarà bello.

Macché: passai oltre settantadue ore sotto una pioggia costante, indifferente a tutto, mai disastrosa né mai leggera, soprattutto spesso accompagnata da tremende folate di vento. Vidi le Cliff od Moers (le immaginai, più che altro) dal finestrino dell’auto. Non scendevo nemmeno per orinare, la facevo dalla portiera per non farmela ributtare addosso dal vento. Tanto nessuno si sarebbe accorto di niente, perché non c’era un cane in giro. Non mi venne voglia di leggere, come spesso mi capita con la pioggia, tantomeno di scrivere! fare fotografie, invece, è uno dei pochi vantaggi offerti dalla pioggia. e ne feci parecchie, mettendo a serio rischio la vecchia fotocamera analogica. Ricordo che il secondo giorno mi fermai a pranzo in uno di quei ristori che sono a metà tra il pub e il locale di tendenza (secondo la tendenza irlandese). Mi chiesero se volevo pranzare fuori, era luglio, sotto una veranda a 30 centimetri dalla pioggia, ma protetti. Non risposi e andai a sedermi in un buio angolo dell’interno, ero l’unico, gli allegri irlandesi erano tutti all’aria aperta, in mezze maniche. Il terzo giorno non era cambiato nulla, solo passavo a salutare mio figlio e riprendevo un aereo verso il luglio italiano. La prima cosa che ho fatto, uscendo dalla Malpensa, è stata andare in una vecchia e decorosa trattoria sul Ticino (oggi non esiste più, ovvio): ho mangiato le rane (cibo in tema coi tre giorni precedenti) e anche senza pioggia mi sono sentito a casa. Ma quando sono tornato mi sono fatto delle domande, che prescindono dal discorso sfiga.

Meteorosophia 03

Ad esempio, quante giornate di pioggia ci sono in Irlanda? tra i 150 e i 225 giorni. Poi, perché più si sale a nord e più piove? (questa è veramente una domanda stupida… mi viene in mente quella Signora americana del New Jersey che visita i giardini a Oxford e chiede al giardiniere: ma come fate voi ad avere un prato verde così bello? io ci lavoro tanto, ma non riesco a farlo venire così! il giardiniere educatamente le risponde che ci vogliono tre cose: un taglio costante – una notevole quantità d’acqua – e del tempo.

La Signora risponde che lo taglia ogni 3 giorni, lo innaffia con regolarità, poi chiede: voi qui quanto tempo avete impiegato? e il giardiniere risponde, con nonchalance: circa mille anni. Quindi, inutile chiedersi perché più si va a nord, più piove.

Meteorosophia 04Mio figlio vive a Bruxelles, lavora lì; perfino a luglio, quando lo chiamo mi risponde sempre: piove. Con la pioggia si convive, anche se non la si ama. Ma se tu la ami, e capiti in modo veramente occasionale in Irlanda dove non sei mai stato prima, pretendi, dico, pretendi che in quei tre fottuti giorni non piova troppo, giusto per vedere qualcosa. Mio figlio mi ha poi detto che dopo la mia partenza non ha piovuto tutto il mese. Insomma, anything to declare? Don’t go Ireland! (citazione adattata dal film Snatch)

Disgressione tecnica

Come scrivevo prima, pioggia il 4 ottobre 2021 a Rossiglione (GE), 740 mm. in 12 ore, record mondiale. Oggi la chiamano la bomba d’acqua. I meteorologi si ostinano a dire che è un termine idiota, anche a me non piace ma, effettivamente, 740 mm. in 12 ore… eppure, Rossiglione, a meno di un’ora da casa mia, lì diluvia, qua secca tutto. Non ci sono grandi catene montuose che ci separano, solo il fatto che Rossiglione è all’interno della Valle Stura, che si apre sulla pianura padana a pochi km. verso nord, e si chiude a pochi km. dal passo del Turchino, 591mt. s.l.m., mica il Kangchenjunga, per favore… eppure li piove, fin troppo, mentre qui (basso Piemonte, provincia di Alessandria) si seccano i peli nel naso.

Meteorosophia 06Insomma, cos’è la pioggia? me lo vado a studiare, per capirne di più, e cito testualmente la descrizione che se ne fa nella presentazione dell’ottimo libro di AlokJha: Il Libro dell’acqua. La storia straordinaria della più ordinaria delle sostanze.

«Praticamente tutte le nostre funzioni biologiche possono essere ricondotte al modo in cui le molecole d’acqua si attraggono e danzano tra loro. Ogni luogo della Terra è saturo d’acqua o è stato in qualche modo forgiato da essa. L’acqua è la sostanza più comune che abbiamo: la usiamo quotidianamente nelle nostre case, ci cade addosso direttamente dal cielo e si muove in continuazione sotto i nostri piedi nelle falde acquifere; ma si trova anche allo stato gassoso nell’aria che respiriamo, liquida negli oceani e nei fiumi e solida nella neve e nei ghiacciai. Non stupisce che proprio l’acqua sia al centro dei rituali di quasi tutte le religioni. L’acqua è anche “semplice”, o almeno così crediamo: H2O, una piccola molecola fatta di soli tre atomi legati tra loro a formare una microscopica V. Eppure, a un esame più accurato, l’acqua risulta essere una sostanza più che mai sorprendente e straordinaria. Ad esempio si espande quando si raffredda (il ghiaccio galleggia sull’acqua), cosa che pochissime altre sostanze fanno. Ma non sono solo le sue caratteristiche fisiche ad essere particolari: in effetti l’acqua è lo sfondo costante della grande storia della Terra, della vita e dell’umanità. Viene dallo spazio profondo, è una figlia del Big Bang, e si è concentrata sul nostro pianeta in maniera fortuita. Una volta arrivata non è più andata via e il suo costante movimento ciclico ha letteralmente dato forma al mondo.»

Adesso che so cos’è l’acqua, passiamo alla pioggia. Ma cos’è la pioggia, oltre che acqua che cade dall’alto? i miei studi universitari in Geografia non mi sono di grande aiuto, questa è meteorologia, e bisogna andare a spulciare libri, o, se preferite, a ravanare (cioè cercare disordinatamente, come i topi quando entrano nella credenza) sul web.

« La pioggia è la più comune precipitazione atmosferica e si forma quando gocce separate di acqua cadono al suolo dalle nuvole. Il suo codice METAR è “RA” (dall’inglese rain). » (da Wikipedia).

(Rain mi piace, mi ricorda un brano di Ryuichi Sakamoto – R.I.P. – con un piano martellante che ricorda appunto una pioggia battente, o insolente).

Ma la pioggia è qualcosa in più e il web mi aiuta a capire:

La pioggia gioca un ruolo fondamentale nel ciclo dell’acqua, nel quale il liquido che evapora dagli oceani sotto forma di vapore si condensa nelle nuvole e cade di nuovo a terra, ritornando negli oceani attraverso il ruscellamento, i laghi, i fiumi e le falde sotterranee, per ripetere nuovamente il ciclo. In tal modo si rende disponibile alla biosfera, permettendo lo sviluppo della flora e della fauna e l’abitabilità agli esseri umani.

In meteorologia l’ammontare della pioggia caduta si misura in millimetri (mm.) attraverso i pluviometri o pluviografi: 1 mm. di pioggia equivale a 1 litro d’acqua caduto su una superficie di 1 m². La quantità di pioggia ricevuta annualmente nelle varie zone terrestri ne classifica, assieme alla temperatura, il tipo di clima. Una parte della pioggia che cade dalle nuvole non riesce a raggiungere la superficie ed evapora nell’aria durante la fase di discesa, specialmente se attraversa aria secca; questo tipo di precipitazione è detta virga.

Meteorosophia 05Quindi, a Rossiglione (GE), il 4 ottobre 2021 sono caduti, mediamente, 741 litri di acqua su una superficie di un metro quadrato. Provate nel giardino di casa vostra: cintate in modo impermeabile un metro quadro di terra e versategli sopra 741 bottiglie di acqua da un litro. In breve nascerà il riso, e sarà già pronto al consumo, solo da scolare, con un filo d’olio e sale.

Oggi i meteorologi spiegano che non ci si deve stupire più di tanto se, tra i fenomeni più diffusi, ci sarà una incostanza di piogge e, quando arriveranno, saranno spesso disastrose e incontrollate. E ci voleva questa bella notizia, dopo il Covid, la revisione del catasto, la guerra in Ukraina e le altre 100 guerre dimenticate, il Tibet sottomesso, la scomparsa delle osterie di una volta e dei commestibili, i pesci siluro che ammorbano il Po (fortuna che ci sono battaglioni di rumeni che con bombe e altri ammenicoli li pescano, li sfilettano e li mandano al loro paese dove sono molto graditi, pare, nonostante il pesce siluro si alimenti di qualunque cosa, dal topo morto alle carcasse etc.) e altre questioni di cui non frega niente a nessuno. Ok, lasciamo perdere questi scritti populisti e torniamo al nostro liquido.

Se non basta la pioggia a Rossiglione, andiamo in India, nella regione del Megalhaya. Qui cadono mediamente 12.000 mm. (dodicimila) di pioggia all’anno, e gli ombrelli, detti Khasi, costruiti in bambù e foglie di banano, sono praticamente delle canoe a poppa chiusa ma capovolte in testa al lavoratore delle risaie. Io dovrei andare lì per finire come si deve questo scritto… me la sbroglierei in poche ore. L’ispirazione non mancherebbe e potrei onorare il desiderio di scrivere solo quando piove, cosa che, come avrete capito, qui riesce male.

L’avrete già vista in TV l’immagine, su Geo&Geo e in altri programmi simili: gente magra che lavora il riso sotto un cappello che sembra, vagamente, un sombrero ma che ripara dall’acqua, non dal sole. Non è bello lavorare tutto il giorno sotto il sole, a raccogliere pomodori nel Casertano ad esempio, ma nemmeno sotto la pioggia del Megalhaya, sebbene protetti dai kashi.

Pioggia avvenente

Meteorosophia 07Ho già scritto di queste isole in un altro mio libretto, ma qui mi voglio soffermare sugli effetti benefici, in luoghi tra l’altro molto belli. St. Vincent è un’isola caraibica di lingua inglese, e a quest’isola appartengono anche le Grenadines, gruppetto di isole tropicali con spiagge da sogno e nomi evocativi: Bequia, Mustique (Jagger & Bowie, per fare due nomi che hanno frequentato l’isoletta), Tobago Keys e poi la più esclusiva, Petite Saint Vincent.

Sono sicuro che non piove sulle spiagge di Mustique o di Bequia, ma dove soggiornavo io a Saint Vincent, a 3 o 4 km. nell’entroterra di Kingstowne del suo porto, pioveva solo la notte. Avevo un bungalow rialzato sul terreno, fatto di palme e legno all’apparenza fragile, completamente impermeabile. Non c’era aria condizionata, ma uno splendido ventilatore a soffitto con delle pale grosse come quelle di un aereo d’epoca.

Di giorno il sole, caldo e potente, di notte pioggia, a intervalli. Brevi e intensi rovesci che mitigavano il caldo accumulato di giorno, e che accompagnati al suono della pioggia sulle palme del tetto, fornivano un concerto al quale, per non addormentarmi come un pollo in pochi secondi, mi sottraevo sedendomi su un dondolo in veranda con un libro in mano.

Per non parlare del profumo dell’acqua che cade sulla vegetazione tropicale; come da noi sulla polvere crea un delicato odore inebriante, lì quell’odore è profumo. Non ho letto molto, in quel periodo, il sonno cullato dalla pioggia e dal clima perfetto aveva in fretta la meglio sulla veglia. Ma nei ricordi ho ben impresso quanto ho amato quel clima così completo per i miei gusti. A volte, mi svegliavo e spioveva, termine non corretto etimologicamente ma che a me ricorda la fine della pioggia e lo sgocciolio dai tetti, con i rivoletti d’acqua che scendono sul marciapiede e sulla strada.

La pioggia nei libri

Meteorosophia 08La prima cosa che mi viene in mente è Simenon, e il suo amato (e da lui anche un po’ detestato) Jules Maigret. Amato perché è alla base delle sue fortune, detestato perché Simenon cerca tutta la vita di slacciarsi dal Commissario, con moltissimi romanzi – alcuni non troppo riusciti, sebbene il numero di quelli validi sia alto – sempre molto crudi, amari e cupi, perché raccontano storie di persone che hanno sempre perso, un’umanità che non riesce a salvarsi. Invece, con Maigret è diverso; le storie, le figure, sono spesso simili a quelle dei personaggi dei romanzi, ma interviene il Commissario e la sua umanità, che rende il racconto più avvincente e più sereno, nonostante gli esiti. Veniamo al dunque: in molti dei polizieschi di Maigret la pioggia la fa da padrona; spesso più della nebbiolina, del grigiore delle nuvole, del freddo spinto dal vento del nord, e dalla neve, mai troppo abbondante sulle rive della Senna. È una pioggia che Maigret vede già dalla camera da letto, quando M.me Maigret, cioè la Sig.ra Louise Lèonard, apre la finestra che da sul boulevard Richard-Lenoir e conferma una mattinata di pioggia a un Commissario, spesso infreddolito quando non pesantemente raffreddato, che vorrebbe restare a letto, ma confida nella potente stufa in ghisa del suo ufficio. Beh, quella pioggia mi commuove; nel Nord Italia di nebbia non se ne parla più, forse è meglio così, però peccato per tutti quei ricordi perduti, quelle foto di Ghirri, quelle visioni distorte, quel fiume Po che scompariva nel grigio ed oggi riappare dalle brume. Anche la pioggia latita in inverno; qui in Piemonte o non piove, o se lo fa la temperatura è molto bassa, si gira facilmente in neve, una spruzzatina, s’intende, niente che illuda i mocciosi, come ero io 60 anni fa, di andare a far palle di neve sotto casa. Però quella pioggia parigina io un po’ la conosco, la ricordo, la rimpiango. Uscivi di casa con l’ombrello aperto, rientravi la sera sempre con l’ombrello, a Parigi e a Milano. Non era temporale, non era un diluvio, non era la pioggia più bella, ma bagnava. Simenon (che i suoi Maigret li scriveva dai posti più impensabili, dai Caraibi agli USA, dalla Svizzera alla Cote d’Azur, alla barca) associava il racconto al suo ricordo dell’infanzia in Belgio (dove piove ancora tanto, ripeto).

Meteorosophia 10Scrive bene Ezio Mauro, sul venerdì di Repubblica, il 17 maggio 2019, un flash sul quale concordo in pieno:

Se qualcuno scattasse una fotografia alle creature di Simenon, sarebbe di solitudine, in bianco e nero, magari coi profili forti e marcati di Yves Montand. Ci fosse un quadro, sarebbe Hopper, quei due tra le tinte tenui, inquadrati da una finestra in una stanza qualunque e in una sospensione del tempo, purché prima di qualcosa. Se poi partisse la musica, sarebbe evidentemente quella di Paolo Conte.

In realtà, di pioggia nei libri si parla poco, ma la parola pioggia è molto usata nei titoli; spesso come sinonimo, ma niente che abbia poi realmente a vedere con la parola. Rare le eccezioni, coma Pioggia di W. Somerset Maugham, dove la pioggia ha la sua importanza; La pioggia fa sul serio, per andare più sul leggero, di Machiavelli & Guccini, anche qui la componente liquida ha un suo perché; Storia della pioggia, di Niall Williams, è un altro libro in cui l’acqua che cade ha una funzione narrativa.

Altri non ne ricordo, nel senso che non li conosco, e dando una scorsa ai titoli che comprendono la parola pioggia l’ho trovata usata soprattutto come sinonimo per una moltitudine di situazioni non prettamente metereologiche. La pioggia intesa come ricchezza, la pioggia come nostalgia, l’odore della pioggia come ricordo, la pioggia come situazione negativa dal punto di vista sentimentale, e ancora molte altre sfumature.

Pioggia insolente

Meteorosophia 09La pioviggine è quella pioggerellina con micro-gocce che sembra proprio non stia piovendo e dopo cinque minuti siete fradici. L’avrete di sicuro già provata in Italia, almeno al nord. È novembrina, o almeno, prima di queste ultime rivoluzioni climatiche lo era. E poi marzolina, certo. Se resiste poi si trasforma in pioggia vera, se cede diventa nebbia, e col gelo nevischio. Non dà nessuna soddisfazione, non è buona, come si suol dire, per niente. Nemmeno per l’agricoltura, perché l’umidità non basta ad ammorbidire il terreno prima della semina. È noiosa, ci fa dire ‘‘resto in casa’’, l’ombrello è di troppo e il cappello insufficiente. L’auto è sempre sporca, la casa umida, gli abiti anche, la visibilità ridotta, le vetrine non sono invitanti, di camminare non se ne parla, insomma una schifezza. Però ti permette di godere il vero silenzio, quello che non provi normalmente con la pioggia cadente.

Meteorosophia 11L’ho sperimentata anche a Parigi, in un novembre che, a inizio settimana, sembrava un Indian Summer. Sole tiepido, foglie cadenti, tutto rallentato, temperatura mite, dolce. Improvvisamente, in una notte, è arrivata la demente, accompagnata da un freddo odioso, perché si usciva e si tornava in albergo inzuppati, sempre e comunque. Anticipava l’inverno a tutti gli effetti, che alla fine del mio soggiorno si è presentato con un vento atlantico e temperature così gelide da rintanare anche i parigini, pur abituati al loro clima. Non si poteva più mangiare le ostriche, troppo fredde, solo zuppa di cipolle. Un TGV mi ha salvato riportandomi a casa, nel basso Piemonte, dove una volta, quando faceva freddo, faceva freddo davvero. Almeno, una volta era così, adesso l’inverno 2022/2023 è stato il più caldo degli ultimi cento anni. La primavera 2023, la più secca di sempre.

Cambiamento climatico

Meteorosophia 12Già, lo sappiamo o lo sospettiamo tutti: che sia in atto un cambiamento climatico dovuto all’inquinamento pare ormai ben più evidente rispetto a quelli che credono che sia dovuto alla ciclicità del clima. Ciò nonostante anche la ciclicità del clima è una componente che è sempre esistita e tuttora compare. Solo che avvengono fenomeni estremi che in passato erano ben più rari. Non mi avventuro (non ne ho i mezzi) in una digressione sul cambiamento climatico, e mi limito a tornare a bagnarmi sotto le amate gocce di pioggia.

Qui nel nord ovest i primi segnali che compaiono in televisione relativamente alla mancanza di pioggia sono i livelli del Po e del Lago Maggiore, con il Ticino come emissario.

Il 2021/2022 è stato particolarmente segnalato, ma il 2022/2023 (prima parte) lo ha già surclassato: il Po ha segnato livelli bassi come non mai, al di sotto dei 7 metri sotto lo zero idrometrico con una portata dimezzata rispetto al passato, cioè 450 metri cubi al secondo rispetto agli usuali 880 circa. Negli ultimi giorni di marzo, è arrivata un po’ di pioggia e neve, ma sul nord del Piemonte. Ha contribuito a un consistente rialzo del livello del Lago Maggiore, alla riapertura delle dighe sui Navigli, a un cauto ottimismo per non rovinare tutte le principali coltivazioni piemontesi. Piogge buone in centro Italia e al sud, in Veneto e a est.

Epilogo

Meteorosophia 1329 marzo 2023: giornata grigia, tempo da pioggia, si, si, il classico cielo che promette pioggia insistente. Nulla.

30 marzo 2023: vedi due righe precedenti.

1 aprile 2023: finalmente è tornato uno splendido sole (!) e di acqua non se ne prevede affatto nei giorni a venire.

Meteorosophia 147 aprile 2023: sto attraversando il basso Alessandrino, e a Casalcermelli comincia a piovere, con buona consistenza; mi fermo a pranzo a Frugarolo, esco verso le 14.30 e piove ancora come si deve! mi illudo, e mi avvio verso Predosa, Sezzadio, Acqui, sotto l’acqua. Intanto piove a nord est, non tanto ma è già qualcosa. I bacini del Centro Italia sono provvisti di acqua, me lo conferma un amico romano che, anche lui, ha a cuore queste tematiche. Al Sud Italia ha piovuto molto più che al Nord. Arrivo a Sezzadio e spiove. A Strevi la strada comincia ad asciugarsi. A casa, la strada è inumidita. Basta, sono stanco di indossare piume e turchesi e fare la danza dei Cherokee, mi ero illuso, ma tanto per cambiare si resta all’asciutto qui da me, nel distretto del deserto di Taklamaklan, prefettura di Alessandria, città di Acqui Terme.

Buona pioggia a tutti, prima o poi.

Viaggi, sesso e fantasia

di Paolo Repetto, 2 aprile 2023

Viaggi, sesso e fantasia - Quaderno copertinaAnni fa ho trattato in un paio di articoli il rapporto degli italiani col viaggio (cfr. Perché non esiste in Italia una letteratura di viaggio). All’epoca mi è stato rimproverato di declassare i nostri connazionali a viaggiatori di serie B, mentre in realtà sostenevo semplicemente che non è mai esistita in Italia una cultura diffusa del viaggio, paragonabile ad esempio a quella inglese: ed è una cosa di cui rimango tuttora convinto, anche se non ho naturalmente mai pensato che gli italiani, pur nei secoli meno luminosi della loro storia, tra il XVII e il XIX, non si siano mossi per il mondo, e nemmeno che abbiano lasciato scarsa traccia dei loro spostamenti. Le memorie e i diari si sprecano, e a quelli dei naviganti cinquecenteschi hanno fatto seguito nei secoli successivi quelle di missionari e diplomatici. Neppure sono mancati i viaggiatori per diletto o per spirito di avventura, ma (ed è questa la differenza di cui parlavo) costoro hanno trovato in patria un uditorio piuttosto limitato e tiepido. Per svariati motivi, che ho già elencati negli scritti di cui sopra e che non starò a ripetere.

I viaggiatori dunque ci sono stati, e hanno scritto anche parecchio. Solo oggi, però, le loro relazioni stanno poco alla volta riemergendo dall’oblio, in virtù del momento particolarmente positivo per la letteratura di viaggio in generale. E in queste relazioni c’è di tutto: avventura, critica sociale, religione, osservazione scientifica e naturalistica, etnografia, storia, economia, né più né meno come negli scrittori dei paesi di antica vocazione coloniale. Ma c’è anche di più, e qui volevo arrivare: c’è un’attitudine particolare che nei francesi e negli inglesi, ad esempio, è meno presente (almeno nei secoli cui faccio riferimento). Gli italiani parlano infatti volentieri di avventure galanti e di performances erotiche, spesso al limite o ben oltre il limite della credibilità. Il che non è una novità, e induce a pensare che nei secoli la mentalità dell’italica gente sia cambiata ben poco.

1. Questi temi non comparivano naturalmente nei resoconti dei viaggiatori medioevali, che erano quasi tutti dei religiosi. Lo stesso Marco Polo cerca nei limiti del possibile di evitarli; o meglio, racconta dei costumi “facili” delle diverse popolazioni orientali, ma con lo sguardo freddo dell’entomologo. A Pechino le donne, se il marito si assenta per più di venti giorni, possono cercarsi un altro uomo: nello Uiguristan i padroni di casa offrono con insistenza le loro mogli agli ospiti, e per non disturbare escono di casa: lo stesso a Kaindu. Stranezze orientali. Riferisce anche dell’incredibile numero di prostitute che ovunque prestano i loro servigi, cosa che peraltro avrebbe potuto constatare anche nella sua Venezia. Non ci dice però se si sia adeguato ai costumi locali e abbia fruito dell’offerta. Al contrario del grande viaggiatore arabo Ibn Battuta, che racconta volentieri delle sue quattro mogli e aggiunge che è sempre stato in grado di soddisfarle ampiamente, Marco sembra aver vissuto i suoi diciannove anni di permanenza asiatica in una castità monacale.

Viaggi, sesso e fantasia 02Dopo la scoperta del nuovo mondo, invece, l’attenzione ai possibili risvolti erotici dell’incontro con culture diverse si acuisce. Colombo non può fare a meno di apprezzare le grazie delle amerindie, e nel diario sottolinea il gradimento dei suoi marinai. La nudità fisica di uomini e donne è la prima cosa che nota, e gli pare del tutto anomala, segno di povertà, di semplicità e primitivismo: non però di lussuria. La stessa attitudine possibilista ritroviamo in tutti coloro che gli vanno in scia. Per i navigatori-esploratori del Cinquecento i corpi nudi esibiti con tanta disinvoltura non sono forse così scioccanti come lo saranno tre secoli dopo per i loro epigoni vittoriani, ma trasmettono pur sempre una bella scossa, soprattutto perché lo statuto speciale degli indigeni, che ancora non si è deciso se considerare uomini o no, e che comunque non sono soggetti alle leggi cristiane, consente di apprezzarli, e magari di fruirne, senza troppi sensi di colpa. Di fatto, ad esempio, presso gli spagnoli e i portoghesi approdati per primi al Nuovo Mondo non si sviluppa, almeno inizialmente, alcuna ripugnanza sessuale. Al contrario, cronisti e testimoni della conquista narrano sovente dell’attrazione degli spagnoli per le giovani indigene e dei portoghesi per le “mulatte”, sia pure come semplici oggetti di fornicazione. E comunque il compiacimento per la bellezza di queste donne e per la loro mancanza di inibizioni (sarà più tardi il caso delle tahitiane per Bougainville e Cook e delle amerindie urone e irochesi per il barone De La Hontan) aggiunge una sfumatura piccante all’Eden che viene raccontato.

Viaggi, sesso e fantasia 03La percezione “benevola” non dura a lungo, anche se naturalmente il commercio sessuale interrazziale non cesserà mai di essere praticato. Nelle nascenti colonie i missionari lo deprecano in difesa dell’innocenza dei nativi e della loro educazione morale, in patria ci si affretta a vietare le unioni miste e il riconoscimento di figli, soprattutto per scoraggiare l’eccesso di migrazioni, ma si lasciano ai religiosi le problematiche morali. Questo spiega probabilmente perché nei resoconti degli esploratori e dei colonizzatori tra il XVI e il XVIII secolo sulla sessualità si tenda a glissare. Non mi risulta sia mai stata tentata una storia generale delle esplorazioni e dei viaggi vista da questo angolo prospettico, perché la documentazione in effetti è scarsa e reticente. Non sarò io a provarci, ma penso che riserverebbe grosse sorprese.

In questa storia farei comunque senz’altro rientrare, sia pure per una porticina laterale, un paio di singolari viaggiatori italiani: Ludovico De Varthema e Pietro Della Valle. I due non sono dei protagonisti di primo piano, i loro nomi sono praticamente sconosciuti al di fuori della cerchia degli specialisti, e soprattutto non seguono le rotte atlantiche, ma vanno a cercare fortuna, conoscenza e avventure (di ogni genere) sulla via dell’Oriente. Il loro approccio è quindi diverso da quello degli scopritori, perché non si confrontano con una realtà antropologica inaspettata e sorprendente, ma con culture note da millenni, almeno sulla carta: e viaggiano portandosi appresso tutti gli stereotipi correnti alla loro epoca sui costumi degli orientali, compresi quelli sessuali. A costruire questi stereotipi (o meglio, a rafforzarli, perché in realtà già esistevano dai tempi di Erodoto) avevano contribuito nel medio evo i polemisti cristiani, insistendo soprattutto sulla lascivia del culto islamico, a prova della quale portavano la pratica della poligamia e il paradiso sensuale descritto nel Corano. Maometto stesso era tacciato di essere un lussurioso, e le biografie dedicategli al di qua del Mediterraneo e dei Pirenei si sbizzarrivano nell’aneddotica scandalistica.

Viaggi, sesso e fantasia 04Durante i loro viaggi i nostri protagonisti tendono spesso e volentieri a vedere confermata questa “dissolutezza morale”: ma sono anche curiosi di indagare a quali particolari esigenze ambientali o a quali motivazioni storiche rispondano le usanze più sorprendenti, e sono propensi in certa misura a giustificarle. Ciò che si aspettano, e che incontrano, non sono dunque corpi esibiti al naturale, o una sessualità libera e disinvolta: al contrario, vogliono penetrare il mistero che si cela dietro i veli e gli abiti castigatissimi, dentro gli harem e nei ginecei proibiti. Pur non essendo ancora apparse in Europa Le mille e una notte, l’esotismo importato da opere come Il milione ha acceso anche fantasie pruriginose. È soprattutto De Varthema a dare corpo a queste fantasie, a inverarle. Lo fa con un linguaggio spregiudicato ed esplicito, certamente molto più di quello dei suoi contemporanei Colombo e Vespucci, perché sa che il pubblico cui è destinato il suo racconto non si scandalizzerà affatto. Quello stesso pubblico decreterà pochi anni dopo il successo dell’Aretino e di Gerolamo Straparola. De Varthema non è però un precursore di quella letteratura pornografica che con l’affermarsi della stampa conoscerà nel Cinquecento una enorme diffusione. Nel suo racconto l’erotismo è solo un condimento, sparso qua e là ma senza esagerare, e soprattutto dal sapore genuino.

Per Pietro Della Valle invece, che si muove grosso modo sulle sue tracce, ma oltre un secolo dopo, le cose sono più complesse: tra i due c’è il concilio di Trento, c’è l’attività inquisitoria della Controriforma. Può solo accennare, raccontare fino ad un certo punto, lasciare spazio all’immaginazione: nemmeno questi accorgimenti varranno però a salvare la sua opera dalla messa all’indice.

Ho scelto di far parlare il più possibile direttamente i due attraverso le loro relazioni, perché dubito che qualcuno voglia prendersi la briga di andarle a leggerle. De Varthema se la sbriga in meno di duecento pagine, ma di non facile lettura; il diario di Della Valle ne occupa invece quasi tremila. E comunque, già attraverso i diversi linguaggi che usano è possibile farsi un’idea delle due differenti personalità.

2. Ma su questo tornerò. Ora seguiamoli nei loro vagabondaggi orientali. Il primo, Ludovico De Varthema, è una figura straordinaria di avventuriero, mercante, navigatore e impareggiabile affabulatore, che compare improvvisamente ai confini estremi dell’Oriente appena raggiunto dagli europei, e sembra anzi averli preceduti tutti. Quando dico affabulatore non intendo “contafrottole”: il nostro è senz’altro propenso a speziare alquanto le sue avventure, ma gli ingredienti di fondo sono tutti naturali. Sottoposti ad una analisi critica i suoi spostamenti hanno trovato totale riscontro, così come sono risultate verosimili le descrizioni dei luoghi e dei costumi. Può apparire eccessiva la parte che si riserva nelle varie vicende in cui è implicato, ma quando s’impara a conoscerlo si capisce che da uno così ci si può attendere davvero di tutto. E comunque, per quanto attiene ad esempio alla sua partecipazione allo scontro tra i potentati indiani e i lusitani e al ruolo che vi ha giocato, i riconoscimenti che gli sono stati tributati dalla corona portoghese testimoniano della veridicità complessiva del suo racconto.

Delle sue origini sappiamo poco. È probabilmente un bolognese (o ha vissuto per qualche tempo a Bologna), trasferitosi verso la fine del Quattrocento a Roma in cerca di opportunità, che dopo aver provato a studiare ed essersi reso conto che non gli entrava nulla (lo dice lui stesso) decide di mettersi per il mondo. Nell’introduzione all’“Itinerario nello Egypto nella Surria[Siria] nella Arabia deserta e felice nella Persia nella India e nella Ethiopia”, redatto al rientro dalle sue avventure e che per un certo periodo lo ha reso famoso in mezza Europa, scrive “Me disposi volere investigare qualche particella de questo nostro terreno giro; né avendo animo (cognoscendome de tenuissimo ingegno) per studio overo per conietture pervenire a tal desiderio, deliberai con la propria persona e con li occhi medesmi ceri costumi. car de cognoscere li siti de li lochi, le qualità de le persone, le diversità degli animali, le varietà de li arbori fruttiferi e odoriferi de lo Egitto, de la Surria, de la Arabia deserta e felice, de la Persia, de la India e della Etiopia, massime recordandome esser più da estimare uno visivo testimonio che diece de audito”.

Parte da Venezia in una data imprecisata, con ogni probabilità nel 1500. Ha poco meno di trent’anni, non è quindi più giovanissimo, ma è un uomo scafato, che ha già maturato anche esperienze militari ed è provvisto di suo di un sacco di fegato; soprattutto ha una incredibile capacità di adattarsi a tutti i luoghi e le situazioni, di fingere e di approfittare della buona fede o della dabbenaggine altrui. In sostanza considera lecito ogni mezzo pur di raggiungere il suo scopo, che è quello di vedere e conoscere più cose possibile e di portare a casa la pelle. Ciò lo fa apparire un grandissimo e a volte cinico opportunista, ma stanti le circostanze questo atteggiamento è l’unico che può consentirgli di sopravvivere.

Viaggi, sesso e fantasia 05La prima tappa del suo viaggio è in Egitto, dove però non rimane a lungo. Si sposta infatti quasi subito in Libano; poi da Beirut, via Tripoli e Aleppo, arriva a Damasco, dove si fa un’amante siriana, flessuosa come una gazzella, con la quale convive giusto il tempo per imparare un po’ di arabo. Arruolatosi come Mamelucco, (cioè come mercenario al servizio del sultano) si aggrega alla scorta di una carovana diretta alla Mecca, fingendosi mussulmano. Durante il viaggio è smascherato da un mercante, che però lo prende a benvolere e una volta arrivati alla città santa lo ospita nella sua casa. Ospitalità completa, offerta soprattutto dalla moglie: “La compagnia che mi fece la ditta donna non si poteria dire, e massime una sua nipote de quindici anni, quale mi promettevano, volendo io restare li, di farmi ricco”. Non è questo però ciò che Ludovico cerca: giusto il tempo di visitare le città sacre dell’Islam, poi lo spirito errabondo ha la meglio, per cui taglia la corda con l’intenzione di raggiungere l’India. In realtà arriva solo ad Aden, dove è arrestato come spia e rischia di trascorrere il resto dei suoi giorni in catene. Ma qui mette a frutto tutte le sue risorse, si finge pazzo e gioca sulla prestanza fisica, suscitando prima la compassione e poi il desiderio della moglie del sultano.

La Regina de continuo stava alla fenestra con le damigelle sue, e dalla mattina alla sera stava li per vederme, e per parlar con meco: e io da piuhominisbeffegiato cavandomi la camisa cosi nudo andava inanti alla Regina, laqual tanto havea piacere quanto me vedeva, e non voleva che io me partisse da lei, e davami de boni e perfetti cibi da mangiare, in modo che io triomphava”.

Riporto qui di seguito quasi per intero il “Capitolo della liberalita della Regina”, anche se piuttosto lungo, perché mi sembra un capolavoro di sottintesi e reticenze. De Varthema fa intravvedere tutte le delizie di un paradiso mussulmano, racconta la sua resistenza alle offerte peccaminose e alle lascivie, ma al tempo stesso lascia intendere che qui si tratta di salvare la pelle e che alla fine il sacrificio della sua purezza è giustificato: perche non voleva perdere lanimael corpo. Il tutto costellato da brani di conversazione in uno spassosissimo arabo alla romanesca, che dovrebbe conferire realismo al racconto, con tanto di traduzione simultanea.

Viaggi, sesso e fantasia 06La prima notte sequente la Regina mi venne a visitare con cinque o sei damicelle e comincio examinarme e io pian piano gli cominciava dare ad intendere che non era pazzo. Et lei prudente cognoscereel tutto mi non esser pazzo e cosicominciomicarezare con mandarme un bono letto alla loro usanza e mandomi molto ben da mangiare. El di sequente mi fece fare un bagno alla usanza pur loro con molti perfumi continuando queste carezze per dodeci giorni, comincio puoi a descendere e visitarme ogni sera a tre o quattro hore de notte e sempre mi portava de bone cose da mangiare. Et intrando lei dove ch’io era me chiamava: Iunus tale intelohancioe: Lodovico vien qua haitu fame? E io respondeva e vuallacioesi per la fame che havea de venire e mi levava in piedi e andava ad lei in camisa e lei diceva: Leislei scamisfochcioe non cosi, levate la camisa. Io li rispondeva:lasetiane maomigenon de laincioe o Signora io non son pazo adesso. Lei mi rispuose:Vualla anearf in te ha bedeuin te mige non intemaf duniameta loncioe, per Dio so ben che tu non fosti mai pazo anzi sei elpiuavi satohuomo che mai vedesse. Et io per contentarla me levai la camisa e ponevome la davanti per honesta e cosi me teneva due hore davanti a lei standome a contemplare come se io fussi stato una nympha e faceva una lamentatione inverso Dio in questo modo: Ialla in te stacal ade abiat me telsamps in te stacalaneauset: Ialla lanabi iosaneassiet: Villetaneauset ade ragela biath Insalla ade ragelIosane insalla oetbith mitlade cioe o Dio tu hai creato costui biancho come el sole el mio marito tu lo hai creato negro: el mio figliuolo anchora negro, e io negra. Dio volesse che questo homo fusseel mio marito: Dio volesse che io facesse uno figliuolo come e questo. Et dicendo tal parole piangeva continuamente e suspirava manegiando de continuo la persona mia e promettendomi lei che subito che fusse venuto el Soldano me faria cavar li ferri. Laltra notte venendo la ditta Regina venne con due damigelle e portomi molto bene da mangar e disse Tale Iunuscioe vien qua Lodovico, aneiglaudech Io li risposi: Leis seti ane Mahomethich fio cioe disse La Regina voi tu Lodovico che io venga a star con te un pezo: Io risposi che non, che ben bastava ch’io era in ferri senza che mi facesse tagliare la testa. Disse allhora lei Let caffane darchia larazane, cioe non haver paura che io ti fo la securta sopra la mia testa. In cane in te mayrithane Gazella in sich: ulle tegia in sichulle Galzerana insich cioe: Se tu non vuoi che venga io, verra Gazella, over Tegia, over Galzerana. Questo diceva lei solo per scambio de una de queste tre voleva venire essa e star con mieco, e io non volsi mai consentire per che questo pensai dal principio che lei mi comincio a far tante carezze. Considerando anchora che poi che lei havesse havutoel contento suo lei me haveria dato oro, e argento, cavalli, e schiavi, e cio che io havesse voluto. Et poi me haveria dato X schiavi negri li quali seriano stati in una guardia che mai non haveria possuto fugire del paese perche tutta la Arabia felice era advisata de mi cioealli passi. E se io fusse fugito una volta non mi mancava la morte, o veramente li ferri in mia vita. E per questo rispetto mai non volsi consentire a lei: e etiam perche non voleva perdere lanimael corpo. Tutta la notte io piangeva recomandandomi a Dio. De li a tre giorni venne el Soldano e la Regina subito mi mando a dire che se io voleva stare con lei che essa me faria riccho. Io li risposi che una volta mi facesse levare li ferri, e satisfare alla promessa che haveva fatta a Dio e a Mahometh, e puoi faria cio che volesse sua Signoria. Subito lei mi fece andare inanti al Soldano. Et lui mi dimando dove io voleva andare dappuoi che io havesse cavato li ferri. Io li risposi,Iasidiha bumafis una mafis, mereth mafis quelle mafis, ochumafis otta mafis alla al nabyinte bessidi in te iati iaculaneab dech cioe, O Signor io non ho padre, non ho madre, non ho mogliera, non ho figlioli, non ho fratelli ne sorelle, non ho se non Dio el Propheta e tu Signore, piace a te di darme da mangiare che io voglio essere tuo schiavo in vita mia: e di continuo lachrimava. Et la Regina sempre era presente e disse lei al Soldano. Tu darai conto a Dio de questo povero homo el quale senza cagione tanto tempo hai tenuto in ferri: guardate da la ira de Dio. Disse el Soldano hor su va dove tu voi che io te dono la liberta: e subito mi fece cavar li ferri e io me inginochiai e li basai li piedi e alla Regina li basai la mano la qual me prese pur anchora per la mano dicendo vien con me poveretto per che so che tu te mori de fame. E come fu nella sua camera me baso piu de cento volte: e poi mi dette molto ben da mangiare e io non haveva alchuna volunta de mangiare: la cagione era che io vidi la Regina parlare al Soldano in secreto e io pensava che lei me havesse dimandato al Soldano per suo schiavo: per questo lo dissi alla Regina mai non mangiaro se non me promettete de darmi la liberta. Lei respose: scur mi lanuinte ma arfesiati alla: cioe tace matto tu non sai quello che ti ha ordinato Dio: Incane in te mille in te amirra: cioe Se tu sarai buono sarai Signore. Gia io sapeva la Signoria che lei mi volea dare: ma io li respuosi che me lassasse un pocho ingrassare e ritornare el sangue che per le paure grande che io haveahavuto altro pensiero che de amore havea in petto: Lei respuose: Vulla intecalem milieane iaticulli onbeit e digege e aman e filfil e cherfa e gronfiliio sindi cioe: per Dio tu hai ragione ma io ti daro ogni giorno ova: galline: piccioni: e pepe: canella: garofoli: e noce moschate. Allhora mi rallegrai alquanto de le bone parole e promissione che lei mi ordino. Et per ristorarmi meglio stetti ben XV o XX giorni nel palazo suo. Un giorno lei me chiamo e disseme se io voleva andare a caza con lei. Io li risposi de si e andai con seco. Alla tornata poi finsi di cascare amalato per la stracheza e stetti in questa fintione VIII giorni e lei de continuo me mandava a visitare. Et io un giorno mandai a dire a lei che havea fatto promissione a Dio e a Mahomet de andare a visitare uno santo homo el qual era in Aden lo qual dicono che fa miracoli, e io lo confirmava esser vero per far il fatto mio, e lei me mando a dire che era molto contenta, e fecemi dar un cambello e XXV Seraphi doro, del che io ne fui molto contento.” Non ne dubitiamo.

Naturalmente appena libero De Varthema se la svigna. Va in Aden, fa visita al santo uomo e manda poi un messaggio alla concubina del Sultano annunciandole di essere stato completamente risanato e di voler ringraziare Allah col compiere un pellegrinaggio per tutte le terre arabe. Nel frattempo contatta segretamente il comandante di una nave che deve fare rotta per l’India, e in attesa dell’imbarco compie effettivamente un viaggio nello Yemen meridionale, fino a Sana’a. Poi, finalmente, prende il largo per il Golfo Persico e l’India, non prima però di essere spinto da un fortunale sulle coste somale, dove ha l’occasione di visitare la città di Berbera, sede di un fiorente mercato di schiavi e di avorio.

Viaggi, sesso e fantasia 07

All’inizio del 1504 lo troviamo a Diu, un porto indiano sulla costa alta occidentale del Deccan. Riparte quasi subito per il Golfo Persico, e di lì si addentra in Persia sino ad Herat, tentando invano di raggiungere anche Samarcanda. Nel frattempo ha stretto amicizia con un mercante persiano, col quale si accompagnerà sin quasi alla fine del viaggio. Colpito dalle ardenti professioni di fede musulmana alle quali De Varthema si abbandona senza troppi scrupoli, ed evidentemente affascinato dallo spirito curioso e avventuroso del finto mamelucco, costui lo prende a benvolere, al punto da offrirgli in sposa una sua parente: “Io ti voglio dare una mia nepote per moglie, la qual se chiama Samis, cioe Sole. Et veramente havea el nome conveniente allei, perche era bellissima …. Giunti che fossemo alla casa de costui subito mi monstro la ditta nepote sua della quale finsi de esserne molto contento anchora che lanimo mio fosse ad altre cose intento”. Sugli sviluppi ulteriori della vicenda Varthema è reticente, li salta a piè pari, anche se il fatto che il sodalizio col persiano sia durato altri tre anni porta a pensare che la cosa sia andata a buon fine. È senz’altro vero comunque che il suo animo è ad altre cose intento.

Infatti, tornato di lì a poco sul golfo, si imbarca nuovamente per l’India e discende via mare la costa occidentale, fermandosi in vari porti e addentrandosi spesso anche all’interno. Una delle soste più prolungate la effettua a Calicut, e lì annota, con sorpresa ma non senza un malcelato compiacimento, costumi che sono agli antipodi rispetto a quelli occidentali. Nella città invale una prassi esattamente opposta allo ius primaenoctis: evidentemente la verginità vi è considerata solo un fastidio: “Questi Bramini: sappiate che sono li principal della fede, come a noi li Sacerdoti, e quando el Re piglia mogliere cerca lo piu degno e lo piuhonorato che si sia de questi Bramini, e fallo dormire la prima notte con la moglie sua, accio che la svirgine: non crediate che ’l Bramino vada volentieri a far tal opera, anzi bisogna che ’l Re li paghi IIII o CCCCC ducati: e questo usa el Re solo in Calicut, e non altra persona”.

Ma non è tutto. Ancora più interessante è per De Varthema un’altra pratica che anticipa il moderno “scambismo”: (Capitolo: Come li Gentili alcuna volta scambiano le loro mogliere) “Li gentilhomini e mercadanti gentili hanno fra loro tal consuetudine. C’è tutta una serie di convenevoli, poi; Dice l’uno. In penna tonda gnan penna cortu, cioe. Cambiamo donne: dami la tua donna, io ti daro la mia. responde l’altro. Nipanta goccioli, cioe dicitu da senno? dice quell’altro Tamarani, cioe, Si per Dio. Responde el compagno e dice. Biti banno, cioe, vieni a casa mia. E poi ch’e arrivato a casa chiama la donna sua, e dicegli. Penna in gagaba ido con dopoi, cioe, Donna vien qua, va con questo che costui e tuo marito. responde la donna. E indi, cioe perche? Dituel vero per dio? Tamarani? Risponde el marito. Ho gran pantagocciolli, cioe, Dico el vero. Dice la donna. Perga manno, cioe, Me piace, Gnan poi, cioe, io vo, e cosi se ne va con el suo compagno alla casa sua. Lo amico suo dice poi alla sua moglie, che vada con quell’altro, e a questo modo scambiano le mogliere, e li figlioli rimangono a ciascuno li soi: fra le altre sorte de gentili prenominati una donna tene V, VI e VII mariti. E VIII anchora, e un ce dorme una notte, e l’altro l’altra notte, e quando la donna fa figlioli lei dice, che e figliolo a questo, o a quello, e cosi loro stanno al ditto della donna”.

Notare che la donna dice “perga manno”, ovvero. “Mi piace”: quindi in teoria lo scambio non può essere fatto senza il suo consenso. Ma secondo De Vartema il consenso è scontato, ed anzi entusiasta. L’altro aspetto notevole è che sia la donna a stabilire di chi sono i figli (cosa in effetti logica, ma sul piano del diritto a quel tempo non accettata ovunque, e meno che mai in Europa). Il nostro autore non ci dice se sia stato messo in condizione di farsene attribuire qualcuno, ma anche fosse sarebbe difficile chiamarlo alle sue responsabilità genitoriali. È già altrove.

Dopo aver doppiato il capo Comorin, cioè la punta inferiore della penisola del Deccan, ed aver visitato Ceylon, De Varthema risale la costa del Coromandel sino a Madras. Di lì attraversa il golfo del Bengala per sbarcare sulle coste dell’odierno Myanmar, scende poi lungo la penisola malese e arriva a Sumatra (io cerco di farla il più possibile breve, ma nel frattempo sono già trascorsi altri tre anni e i luoghi visitati sono decine. Siamo ora nel 1506). Non contento, fa il periplo completo delle isole della Sonda, tocca il Borneo e sbarca poi a Giava, stabilendo anche un record, perché arriva sino alle isole Mollucche, il punto più orientale mai raggiunto fino ad allora da un viaggiatore italiano, e mai toccato da un <occidentale proveniente da ovest.

Viaggi, sesso e fantasia 08Nel corso di questa peregrinazione incontra la città di Tarnassari, che non sono riuscito a identificare con precisione ma che comunque si segnala per una variante dell’usanza già trovata a Calicut: e stavolta viene coinvolto direttamente.

(Capitolo come el Re fa sverginare sua mogliere e cosi li altri gentili dela Citta).

El Re de ditta Citta non fa sverginare la sua moglie a li Bramini come fa el Re de Calicut anci la fa sverginare a homini bianchi, o siano christiani, overo mori, pur che non siano Gentili: liquali Gentili anchora loro inanzi che menino la sposa a casa sua trovano uno homo bianco, sia de che lingua se voglia, lo menano a casa loro pur a questo effetto per farse svirginar la moglie: e questo intervenne a noi quando arrivassemo in ditta Citta per ventura scontrammo III o IIII mercadanti, liquali comincion a parlar co’l mio compagno in questo modo, langelli ni pardesi, cioe, Amico siti voi forestieri? rispose lui, Si. Disser li mercadanti, Etheranali ni banno, cioe, quanti giorni sono che seti in questa terra? Li respondemmo, Munnalgnad banno, cioe, Sono III giorni che noi semo venuti: e cosi uno de quelli mercadanti ce disse, Biti banno gnanpigamanathon ondo, cioe, Veniti a casa mia, che noi siamo grandi amici de forestieri: e noi udendo questo andassimo con lui: giunti che fussemo in casa sua, lui ce dette a far collatione, e poi ce disse. Amici miei Patancinale banno gnan pena periti in penna orangono panna panni cortu, cioe de qui a XV giorni io voglio menar la donna mia, e uno de voi dormira con lei la prima notte, e me la svirginera. Intendendo noi tal cosa rimanemmo tutti vergognosi, disse allora el nostro Turcimano, non habbiate vergogna che questa e usanza dela Terra. Udendo poi questo disse el mio compagno, Non ci facciano altro male, che de questo noi ce contentaremo pure pensavamo de essere delegiati: El mercadante ce cognobbe star cosisuspesi, disse. O sangalli maranconi aille ochamane zaririchenu, cioe. O amici non habbiate melanconia che tutta questa terra usa cosi. Cognoscendo al fine noi che cosi era costume de tutta questa terra, si come ce affirmava uno, el quale era in nostra compagnia, e ne diceva, che non havessimo paura: el mio compagno disse al mercadante, che era contento de durar questa fatiga: allora el mercadante disse. Io voglio che stiate in casa mia, e che voi e li compagni e robbe vostre allogiate qui con meco fino a tanto che menaro la donna. Finalmente dapoi il recusar nostro per le tante carezze che ce faceva costui fussemo astretti V che eramo insieme con tutte le cose nostre alloggiare in casa sua. Da li a XV giorni questo mercadante meno la sposa, e el compagno mio la prima notte dormitte con essa, laqual era una fanciulla de XV anni, servite el mercadante de quanto gli haveva richiesto: ma dapoi la prima notte era periculo della vita se ce fusse tornato piu: ben e vero che le donne hariano voluto che la prima notte havesse durata un mese: li mercadanti poi che tal servitio da alcuno de noi haveano receputo volentieri ce haveriano tenuti III e V mesi a spese loro, perche la robba val pochi dinari, anchoraperche sono liberalissimi, e molto piacevoli huomini.

Credo di aver dato una sufficiente idea del tipo di narrazione di De Varthema e di come ha vissuto le sue esperienze. Il tono e i ritmi rimangono gli stessi quando descrive la traversata di un deserto, l’incontro con città, popoli e costumi diversi, i suoi stratagemmi di sopravvivenza. Si sente che la vicenda è ricostruita a posteriori, non sulla base di appunti scritti ma sulla sola memoria, che presenta buchi evidenti: ma tutto questo non rende affatto meno credibile il racconto. Quanto al nostro tema specifico, quello dell’erotismo, è trattato secondo uno schema quasi fisso. Da un lato c’è la presunzione di una superiore perizia amatoria degli europei, che assieme al colore della pelle conferisce loro un irresistibile fascino: “ben e vero che le donne hariano voluto che la prima notte havesse durata un mese”. Dall’altro ci sono femmine orientali passionali e disinibite, e maschi molto piacevoli uomini ed estremamente compiacenti e generosi. Gli orientali non sono comunque per lui dei barbari: sono figli di una cultura diversa, e con l’eccezione delle prestazioni sessuali sono né più né meno come gli europei.

Per completezza riassumo in poche righe gli ultimi anni della permanenza di De Varthema nel lontano Oriente, che sono se possibile ancor più avventurosi dei primi, ma nei quali entrano in gioco altre motivazioni. Lasciata la Malacca Ludovico riguadagna la costa del Coromandel, doppia nuovamente il capo Cormorin e risale sino a Calicut, Qui ai primi di dicembre del 1505 le sue sorti si incrociano con quelle di una flotta portoghese inviata ad imporre un “protettorato” sui piccoli potentati costieri. Abbandonato il mercante persiano col quale si accompagnava da tre anni, raggiunge praticamente a nuoto le navi europee e si mette al servizio dell’ammiraglio. Le sue informazioni prima e le sue capacità di combattente poi risultano preziose per i lusitani, che riescono a sconfiggere la flotta dello Zamorin locale e compensano l’avventuriero con la nomina a cavaliere e con l’incarico di dirigere una grande fattoria per la produzione delle spezie.

Viaggi, sesso e fantasia 09Alla fine del 1507 però De Varthema giudica che la sua assenza dall’Europa si sia protratta sin troppo. Si imbarca per tornare al Mediterraneo doppiando il Capo di Buona Speranza, quindi costeggia l’Africa orientale e fa scalo nell’odierno Kenya e in Mozambico. Una volta entrato nell’Atlantico il natante su cui viaggia è sballottato da furiose tempeste, che lo spingono fino all’altezza delle isole di Sant’Elena e di Ascensione; poi tocca le Azzorre e approda finalmente alla metà dell’anno successivo a Lisbona. Qui l’italiano viene accolto a corte con tutti gli onori, prima di intraprendere l’ultima tappa che lo riporta a Roma.

Anche in patria è caricato di riconoscimenti. Il papa stesso (è Giulio II, il papa guerriero) lo insignisce di un titolo nobiliare, e lo sollecita a scrivere e pubblicare nel 1510 l’Itinerario, che conosce immediatamente una enorme fortuna (verrà tradotto in decine di lingue). Varthema non si gode a lungo però la celebrità: muore nel 1517 (o perlomeno, in quell’anno risulta già morto), a meno di cinquant’anni, dopo essere sopravvissuto agli scontri con i predoni nei deserti dell’Hijiaz, alle prigioni orientali, alla caccia ai cristiani nel Deccan, alla battaglia navale di Cannanore contro lo Zamorin, ai fortunali dell’oceano. Evidentemente la vita tranquilla e monotona dell’Urbe non gli si addiceva. Oppure gli anni trascorsi in oriente gli sono stati conteggiati tripli dal fato.

L’eccezionalità della vicenda di De Varthema sta prima di tutto nelle date. Il suo viaggio ha inizio solo due anni dopo l’apertura della rotta per l’India da parte di Vasco Da Gama, nello stesso anno in cui Cabral scopre il Brasile, e si compie prima ancora che Balboa riconosca il Pacifico e Magellano porti a compimento la prima circumnavigazione del globo. E questi sono i nomi che ricordiamo. Ma evidentemente assieme a loro si muoveva tutta una turba di avventurieri o di disperati, in fuga o in cerca di opportunità, per motivi economici o religiosi o anche semplicemente, come il nostro, per voglia di cambiare aria e vedere come si respirava all’altro capo del mondo. Tra i meriti dell’Itinerario c’è anche quello di farceli intravvedere, dispersi nei luoghi più sperduti e impantanati nelle situazioni più improbabili, tanto da indurre a pensare che almeno per la via di terra dai tempi di Marco Polo e di Guglielmo di Rubruk i rapporti con l’Oriente non fossero mai cessati.

Nell’Itinerario c’è naturalmente molto altro, cui non ho fatto cenno perché non rientrava nell’assunto di queste pagine: ma ciascuno potrà scoprirlo con proprio comodo, perché dell’opera sono state fatte ultimamente addirittura due edizioni.

3. Il secondo protagonista della nostra storia, Pietro Della Valle, è di altro lignaggio rispetto a De Varthema. Appartiene ad una famiglia di antica nobiltà, è figlio unico, è molto versato nelle lingue classiche e a vent’anni ha già conosciuto la notorietà come musicista e compositore. Ma ha un debole: s’innamora facilmente e si fa trasportare dalla passione. Così, quando la giovane di cui si è innamorato va sposa ad un altro, anziché accoltellarla come farebbe oggi molla tutto, lascia Roma dov’era nato e dove la sua famiglia era potente. Vive per qualche tempo a Napoli e qui matura qualche esperienza militare, combattendo contro i barbareschi: ma si dà da fare anche sul piano sentimentale, se è vero quanto racconta ad un certo punto: “anche in Italia ho generato figliuoli prima di aver moglie … Quanto alla prima volta che io generai in tempo che beveva l’acqua …. E di un altro figliuolo che mi nacque poi un’altra volta già in tempo che io beveva l’acqua di anni prima, dicono che per essere stato generato in quell’abbondanza di umor freddo e umido, per questo non visse, se non pochi giorni, e morì di catarro.” È l’unico accenno che fa a queste circostanze.

Infine, a metà del 1614, parte da Venezia diretto in Oriente. Destinazione ufficiale, i Luoghi Santi. Che non si tratti semplicemente di un pellegrinaggio devozionale o espiatorio lo dicono però le modalità stesse con le quali organizza i suoi spostamenti.

Viaggia infatti in condizioni molto diverse da quelle di de Varthema: è accompagnato da tre servitori (in alcune biografie si parla anche di un pittore, ma nelle Lettere non è mai menzionato esplicitamente), dispone di mezzi pressoché illimitati, può esibire credenziali tali da farsi accogliere ovunque nei palazzi del potere, si porta appresso un bagaglio che nemmeno le pop star odierne. Anche quando affronta luoghi selvaggi, lontani dalle città, più che un pellegrino sembra un crocerista pieno di esigenze e di capricci: “La provvisione la facemmo per un mese, chè tanto appunto pensavamo di trattenerci, e la portammo un poco avvantaggiata per poterne dare a quelli che trovavamo per la via,. Non volli per noi provvisione di quelle carni salate, nè di legumi grossi, o d’altre porcheriacce che conferiscono poco alla sanità, alla quale io bado molto più che al gusto nel mangiare; ma, invece di queste cose, feci portare buone gabbie piene di polli vivi, come è mio solito, e quantità di farri e di risi … Avevamo anche i nostri ordigni da cucina, ed ogni sera, dove ci si faceva notte, piantata la tenda e fatto fuoco con qualche sterpo che per la via trovavamo, facevamo da mangiare e stavamo allegramente. Sotto la tenda poi, cenato che si era a lumi di candele, ci mettevamo a dormire, avendo ognuno di noi altri il suo materassetto con buone coperte che tenevano caldo, ma io ci volli ancora i lenzuoli e spogliarmici e mutarmici ogni sera, e mi dolse molto che non ci aveva ancora lo scaldaletto che mi era uscito di mente di farlo portare … ma un’altra volta non me lo dimenticherò più certo, e con buona provvisione di carboni piccoli solo a quell’effetto. Tuttavia non mi mancò mai la camicia calda e i panni quando la mattina mi vestiva, con l’acqua calda da lavare il viso, che di fuochi mattina e sera ne faceva fare in abbondanza. Gli Arabi dei camelli alle volte non avrebbono voluto che si fosse fatto fuoco, perchè temevano che di lontano non fosse veduto, e che non fosse venuto a quello gente, com’essi dicono, di malaffare …. Me ne fecero pregar più volte dal capigì, ma io rispondeva, che fuoco voleva in ogni modo, e che gli Arabi venissero pur allegramente…”. Porta inoltre con sé una dotazione per la scrittura che gli consentirà di redigere per anni un diario giornaliero, di prendere dettagliatissimi appunti e di riversare poi il tutto in chilometriche lettere, che invia al suo amico napoletano Mario Schipano e che una volta raccolte costituiranno il corpo dei suoi Viaggi.

Viaggi, sesso e fantasia 10

Non conosce la fretta. Costeggia la Grecia fino alle rive dell’Ellesponto, facendo ripetuti scali nelle isole dell’Egeo, e individua poi un sito di rovine che potrebbe essere quello di Troia. Di lì si sposta a Costantinopoli, dove si trova talmente bene da prolungare il suo soggiorno per oltre un anno. Non si dirige poi immediatamente in Palestina, ma la prende larga, approdando prima ad Alessandria e scendendo quindi lungo il Nilo sino al Cairo. Un’altra lunga sosta, per risalire poi via terra sino al Sinai e di qui a Gerusalemme.

In tutti questi luoghi, segnatamente a Costantinopoli e al Cairo, e in seguito a Bagdad, a Teheran e ad Isfahan, volge una intensissima attività di relazioni e di studio. Nelle missive, spedite quando possibile con una certa regolarità e articolate sempre con lo stesso schema, per temi, descrive luoghi, monumenti, costumi, tradizioni, ponendo particolare attenzione agli intrighi delle piccole e grandi corti locali e cercando di orientarsi nei labirinti dinastici e nei complessi meccanismi di potere orientali. Non risulta avere avuto alcun incarico speciale, ma guarda e racconta come fosse una spia inviata a scoprire i segreti del potere musulmano. “In quei pochi giorni che ci fermammo in Rodi, vidi di quel luogo quanto si poteva vedere, e feci quello che non ha fatto mai, nè potrà far cristiano alcuno in quella fortezza; cioè girai più volte le muraglie dentro e fuori, entrai nei fossi, nelle casematte ed in ogni parte, ricercandole, osservandole minutamente; vidi tutte le artiglierie ad una ad una, ne presi misura di alcune, mi feci dir quanto portavano, volli veder le misure de’ carichi, entrai dove tengono le munizioni, salii sopra il castello fino in cima e lo girai tutto”. Più avanti si auto-convincerà di essere l’uomo giusto per gettare le basi di un’alleanza trasversale in funzione anti-islamica, che coinvolga i Persiani e i Cosacchi, e solleciterà ripetutamente una qualche investitura semi-ufficiale che gli arrivi da Roma. Salvo poi rendersi conto che con l’avvento degli europei i giochi in Oriente sono completamente cambiati.

Comunque, corregge puntigliosamente le informazioni sui territori che attraversa, spesso ancora risalenti agli autori classici, e ogni volta che le riscontra errate o approssimative o superate dal tempo (vale a dire, quasi sempre), si compiace visibilmente di rimettere a posto le cose: “Le sette bocche del Nilo che si dicono e che c’erano anticamente, secondo Strabone, e tutti gli altri scrittori de’ tempi passati, oggidì io non le ritrovo, perchè due sole, che son le sopraddette, ve ne sono navigabili”.

Si dedica intensamente anche ad altre attività, volte ad accrescere in ogni campo la conoscenza. Al Cairo, ad esempio, acquista alcune mummie e a Costantinopoli acquisisce diversi documenti di valore storico, tutti materiali da inviare a Roma assieme alle lettere. Non solo: raccoglie le sementi di specie rare o sconosciute in Europa: “Ho gran desiderio di portare in Italia qualche cosa di nuovo; perchè è debito d’ognuno di arricchir la patria, quando può, delle bellezze straniere. Tra le altre cose, credo che di fiori mi sarebbe facile a trovar cose nuove, perchè qui ve ne sono molti, e se ne fa gran professione: ma io, come quegli che non so niente del mestiere, non sono informato quali in Italia vi siano e quali no”. Ed è lui a descrivere per primo e a introdurre poi concretamente in Europa il gatto d’angora.

Viaggi, sesso e fantasia 11Ha già contratto peraltro tutte le cattive abitudini del turista moderno: “Non ebbi men gusto a veder la piramide di fuori, perchè salii con qualche poco di fatica fino in cima dove si gode una bellissima vista, scoprendosi il mare e l’Egitto con molto paese attorno. Là su nel più alto, in quella parte che guarda verso Italia, mi presi piacere di lasciarvi intagliato il nome mio, con quello di qualche altra persona a cui io non voglio male”.

Ma anche quelle del saccheggiatore “orientalista”: “Di questa mummia spezzata, volli per me la testa tutta intera … Volli ancora, e la trovai nella medesima tomba,una testa di donna fatta di tela incollata molto grossa, concava dentro, e di fuori indorata il viso e il collo, con le ciglia d’ebano o d’altro simil legno nero ivi incastrate, e lavorato tutto il resto di pittura e d’oro, massimamente nel petto e nelle spalle, molto curiosamente, con diverse figurine d’idoli egizii, di altari, di caratteri edi altri geroglifici misteriosi … E Presi ancora un idoletto di creta cotta, che stava là per terra fra l’arena,ed era una testa del bue Api …”.

Viaggi, sesso e fantasia 12Nel frattempo cura comunque le proprie malinconie amorose. Già durante la prima traversata ha la prova che il viaggio rappresenta un’ottima terapia. “… mi trattenni in Scio nove o dieci giorni, col maggior gusto che abbia avuto mai in vita mia … Non si fa mai altro che cantare, ballare e stare in conversazione con le donne, e non solo il giorno, ma la notte ancora sino a quattro e cinque ore per le strade; che io mai a’ miei dì non ho provato vita più allegra; ed in quanto a me, v’impazziva di gusto. Io col mezzo degli amici e della lingua, che mi aiutava assai, presi in un tratto domestichezza grande; e già trovava innamorate e trattenimenti quanti ne voleva; e le donne veramente son belle, ed avvenenti assai”.

La sua attenzione per le donne non è inferiore a quella per le rovine e per i documenti. Al Cairo rimane abbagliato da una bellezza etiope, “nera come un carbone ma bella di fattezze al possibile” e la fa ritrarre (dal fantomatico pittore che dovrebbe accompagnarlo?) Quando si tratta di ragazze non ha pregiudizi riguardo al colore della pelle: anzi, sembra particolarmente attratto da quelle colorate: “L’altro ritratto è di una dama nata nella Mekka, ma di razza indiana, come io credo, ed è d’un colore giallo, come quello del grano; ma graziosissima, e di una carnagione la più dilicata che io mai abbia veduto in vita mia”.

Non sempre però l’impressione è quella: “Non ho veduto paese, dove tanto gli uomini quanto le donne tengano manco conto di mostrar le vergogne che in quieto. Stanno mezzo nudi, o tutti per dir meglio: la gente passa e guarda, e non se ne curano niente. E ben vero che queste contadine hanno carni bruttissime, sporche ed annerite dai continui soli, in guisa che piuttosto muovono stomaco che tentazione di concupiscenza”.

E non frequenta solo ambienti altolocati: “Delle donne ancora non posso lasciar di dire che se ne veggono di belle, e non solo delle bianche, fra le quali tuttavia corre voce che ci sia non poca infezion di mal francese, avendone i nostri Veneziani, come si dice, sparso qui copiosa mercanzia: ma delle Etiopesse ancora e brune e nere ce ne son di belle assai, e con fama di più pulite; come quelle che per lo colore dai nostri Europei non vengon tanto manomesse”.

Oppure: “Le cenghì sono una mano di donne ballatrici e tutte amiche mie, che questo carnevale spessissimo hanno anche favorito la mia casa, dove coll’autorità del capigì che tengo al mio servizio, si gode pubblicamente libertà di molte cose. Queste cenghì del Cairo sono diversissime da quelle di Costantinopoli, e procede per avventura dalla caldezza del paese che è maggiore, onde qui son più proclivi al male; insomma i balli loro non consistono in altro che in movimenti di vita, fatti in terra sopra un tappeto in diverse foggie e diverse positure, tutti rappresentanti atti osceni, ma cento volte più sfacciati che quelli delle ciaccone e saravandespagnuole”. Il che lo rivela piuttosto esperto nella materia.

A Costantinopoli bazzica il gran Bazar e le passeggiate lungo il Bosforo: “Noialtri vi andiamo spesso per veder delle dame turche, che a stuolo vi passeggiano, o per comprare, o, come io credo, piuttosto per esser vedute, quanto comportano i veli che ricuoprono loro la faccia, i quali però non celano sempre gli occhi, né impediscono affatto che, a chi vogliono, non si possano far conoscere. Vanno esse tese e dritte come pali, con le mani messe, per nasconderle, in certe fessure della veste esteriore che hanno dinanzi, a guisa de’nostri borsellini, e con le braccia inarcate in fuori, che paiono tanti manichi di orcioletti. Quando incontrano alcuno di noi altri stranieri, con cui sanno di potere usar più libertà, quasi che la folla a ciò far le costringa, ci danno degli urtoni col gomito: noi se son belle, facciamo altrettanto, e si ride: non si manca di dir talvolta delle parolette, e di fare altre frascherie, e così bel bello si va facendo delle amicizie”.

E ancora: “Non c’è altro spasso che stare a sedere in qualche strada di passo sopra un banco di bottega, menando le gambe, che in Turchia è cosa civile, e veder passare una mano di femmine che vanno, chi al bagno, e chi per altri fatti loro. Noi non manchiamo di dir loro in passando delle parolette amorose, verbi grazia, Iasitti, iaruhi, iaaini, iacalbi, taàli; ed esse, se sono cortesi, come avviene per lo più, si cacciano a ridere, e fanno con noi un poco di gatte filippe, come si dice in Napoli: ma, se talvolta si abbatte in alcuna dispettosa e di mala grazia, che pur per tutto se ne trovano, si piglia collera, ci sgrida, ci bestemmia in sua lingua e fa mille altre smorfie rabbiose”.

Viaggi, sesso e fantasia 13La confidenza cresce rapidamente, e la resistenza alle tentazioni è debole: “Qualche dama turca mi viene a visitare: e mi pregano che lasci crescere la barba all’usanza loro, e dicono che io sarei più bello assai; che cosi è veramente secondo il gusto loro: ma, insomma, io non mi ci posso accomodare, che mi pare una sporcheria, e dico loro burlando, che da questo, e dal tagliar la pellecchia in poi, del resto le servirò in ciò che vorranno. Tomasello ci si è accomodato, ed è per questo tanto accetto alle femmine, che tutto il dì ne trova perle strade che gli toccano la barba e gli fanno carezze alle guance, dicendo, ghiuzèl, ghiuzèl, cioè, bello, bello”. Anche Della Valle in realtà non tarda a cedere: si lascia credere la barba, per adeguarsi totalmente al costume locale, e la taglierà soltanto dopo l’ingresso in Persia.

Nell’isola di Kos (o Coo), davanti alla costa anatolica, “non mi maravigliai di quel che aveva inteso, che le donne di Coo siano, non mcn che belle, dedite ai piaceri amorosi”. Si trova talmente bene che quando riparte accorrono a salutarlo “un gran numero di donne, fra le quali molte giovani e belle”, e si capisce perché durante la sosta successiva a Rodi “voleva tornare con un caicco a dar un’altra vista in Coo alle mie chirazze, ed a fare i servigi di madonna Caterina”.

E più tardi, a Gaza: “Ebbi, andandovi, un buonissimo incontro, perchè vi trovai le donne e mogli del bascià che erano una truppa di più di venticinque o trenta, ed esse ancora andavano a spasso, e, come in quelle strade non vi era gente, andai ragionando e dicendo galanterie con loro un gran pezzo, perchè, parlando io loro in turco, che è quanto a dire in lingua cortigiana (poichè quella del paese è araba), avevano esse gran gusto, come appunto sarebbero in Napoli le dame di Spagna trovandosi con stranieri che parlassero loro spagnuolo”.

Quello della lingua è un suo chiodo fisso. Fa lunghissime digressioni sulle etimologie, sulle trascritture e sulle pronunce corrette, e ha delle priorità per quanto ne concerne l’uso: “Io poi attendo al solito alla lingua turca, e questa mattina è stata appunto la quarantesima seconda lezione, che di tutte ne tengo conto. In quanto al parlare ordinario, con le dame già mi fo intendere”.

Nei primi due anni, quanto a “turismo sessuale”, il nostro pellegrino non si fa mancare davvero nulla.

Viaggi, sesso e fantasia 14

Le cose cominciano a cambiare quando arriva nei luoghi santi e si addentra poi nel Medio Oriente. Le priorità diventano altre. All’inizio del percorso che dal Cairo lo porta a Gerusalemme sale il monte Sinai (a Natale, in mezzo a una bufera di neve, quasi una prima invernale), poi tira dritto sino ad Aleppo. Di lì passa a Gerusalemme, e di donne a questo punto non si parla più. Ci sono da riconoscere e raccontare, possibilmente correggendo le narrazioni precedenti, i luoghi della devozione.

Ma non si ferma a lungo. Gerusalemme oltre al profumo di sacralità offre ben poco. Pagato il tributo devozionale prosegue dunque il viaggio attraversando il deserto siriaco ed entrando in Mesopotamia, dove nuovamente trova meraviglie, comprese tavolette di scrittura cuneiforme che si affretta a spedire a Roma. Trova anche, però, qualcos’altro. A Baghdad conosce una giovane cristiana diciottenne di origini siriane, Sitti Maani, e se ne invaghisce subito: anzi, ne era già invaghito prima di vederla, perché ne aveva sentito decantare le lodi da una occasionale guida  “Molto prima che io entrassi nella Babilonia, era già arrivata a me la fama di lei. Un nuovo, che veniva meco in quel viaggio, appena uscito d’Aleppo, quando per riposar dal cammino, passavamo le ore oziose e più calde del giorno sotto al padiglione, per modo di trattenermi con vari ragionamenti, e con raccontarmi diverse cose, mi cominciò a dar contezza di questa signora, della quale egli aveva piena notizia. E più volte si stese tanto con me in lodarla ed in rappresentarmi con affetto la eccellenza delle qualità, non men dell’animo che del corpo di lei, delle quali egli, con disuguale ed infelice sorte era troppo pazzamente ammiratore, che io, dal primo per pigliarmi gusto di lui, lo faceva ragionare spesso di questo, tirandolo a bella posta con arte in tal proposito.” Naturalmente alla lunga è lui a perdere la testa. “Non era ancora giunto all’Eufrate, quando l’animo mio, secondo il solito impaziente ed impetuoso negli affetti, già bolliva. Non vedeva l’ora di attraversar la Mesopotamia, di arrivare al Tigri e di andare a pascer gli occhi di quel che immaginava dover a loro piacere”. Quando ciò avviene, vede confermate tutte le sue più ardite fantasie.

Viaggi, sesso e fantasia 15Pieno d’entusiasmo, confida al suo corrispondente: “Le dirò che è Assira di nazione, di sangue di Cristiani antichissimi, d’età d’anni diciotto in circa, e dotata, oltre le altre buone qualità (che quelle dell’animo io certo stimo non ordinarie), anche nel corpo di bellezza conveniente, per non esagerarla: che agli sposi invero non par che stia bene di esagerar la bellezza delle spose loro, ma se io non fossi tale, parlerei forse di lei altramente. Però la sua bellezza è all’usanza di questi paesi: cioè, color vivace, e che agli Italiani parerà che tiri piuttosto alquanto al brunetto che al bianco: capelli che tirano al nero, e così le ciglia, inarcate non senza grazia, e le palpebre, che lunghe, ed all’usanza di Oriente, ornate con lo stibio fanno ombra insieme opaca e maestosa. Gli occhi gli ha pur del medesimo colore, e per lume, allegri e brillanti; ma ne’ moti, per modestia, gravi; la vita per donna, nè grande, nè piccola, però nella sua statura molto ben proporzionata in tutte le parti; accompagnata poi da agilità, da portamento nobile, grazia nel parlare e nel ridere, denti minuti e bianchissimi, e simili altre circostanze che a me sogliono piacere”.

Risultato: la sposa subito, vincendo le resistenze del padre di lei, e si ritrova accanto una impavida compagna di avventura: “Io godo di vederla di questo umore, perchè avendo da far la vita che io fo, se avessi per moglie una dama melindrosa, come dicono gli spagnuoli, ed inclinata agli aghi, ai fusi come quelle d’Europa, mi sarebbe di grandissimo fastidio ed impaccio. Ella non me ne dà punto, anzi me ne dà solamente con sollecitarmi troppo come fa alle volte agli incomodi, e privar se stessa e me di mille comodità che potremmo godere in pace. Del mangiare e del bere basta che io dica che è molto simile a me. Sereno, caldi e freddi non teme: ama più di alloggiare in campagna sotto tende, che in luoghi murati. Non si cura di letti morbidi, e bene spesso mi serra i lenzuoli nelle casse, acciocchè io non mi spogli e mi levi più a buon’ora. È la prima a levarsi, la prima a sgridar me e gli altri di pigrizia, ed in fine ètale qual appunto conviene e per i viaggi e per la guerra. A cavallo poi marcia in abito, se non succinto, almen raccolto e con le gambe da uomo, che così si usa in Oriente, armata bene spesso a guisa di Amazzone, e corre e galoppa, seguitandomi per monti e per valli; dice che questa è la vera vita, e che star nelle città o serrata fra quattro mura, come per lo più fanno in questi paesi, o come le ho detto io che si fa nelle parti nostre, passeggiando per le strade e vedendo solo botteghe e gente veduta altre volte, che è cosa infelice”.

Viaggi, sesso e fantasia 16Da quel sciupafemmine che era (o che si professava, perché in effetti dal ritratto rimasto non sembra un gran bell’uomo), il nostro Pietro si trasforma dunque in un adorante marito, che è persino geloso della signora Maani e scrive per lei una corona di trentasei sonetti. In realtà Maani è sì piena di virtù, ma ha anche un caratterino tutt’altro che facile. Ha un alto concetto delle proprie origini e della dignità aggiuntiva di moglie di un nobile occidentale, ciò che la rende spesso capricciosa: provoca una rissa per essere stata sfiorata involontariamente da un uomo; quando Pietro si taglia la barba gli tiene il broncio per un mese: “Però la signora Maani, quando mi vide in quella guisa (che lo feci senza essa saperlo) si ebbe a disperare, e non poteva soffrire che io mi fossi levato la maggior bellezza che avessi, a detto suo. Ebbi che fare a placarla”. Poi comincia ad essere assillata dalla paura che non arrivino figli, e vuol costringere il marito, da sempre astemio, a bere vino per aggiustarsi il sangue. Ma tutto questo viene raccontato da Pietro come divertente bizzarria: ciò che lo preoccupa ora è preparare i suoi e l’ambiente romano ad accettare questa donna. Pertanto si dilunga nelle lettere a decantarne le virtù, anticipando possibili opportunità derivanti dal suo inserimento e contando sul fatto che il suo corrispondente ne divulgherà i contenuti: “Potrebbe V. S. passeggiando con la signora Maani in qualche giardino, mostrarle le erbe ad una ad una e sentirne il vero nome con vera pronunzia, che questo è il modo da far progresso nelle lingue straniere”.

Comincia pertanto a pensare seriamente al ritorno: vuole rientrare in Italia, “per mostrar quelle delizie alla mia signora Maani, e darle agio di ricever favori da quelle dame, che V. S. mi scrive che la desiderano.” Insomma, è anche impaziente di mostrare ai romani la sua bellissima conquista. E poi c’è una felice novità: “Essendosi la signora Maani scoperta gravida, dopo aver ciò desiderato lungamente invano per lo spazio di cinque anni addietro, ed assicurati già bene della gravidanza col sensibil moto della creatura nel ventre, tra l’allegrezza di questo e del viaggio intrapreso verso la patria, non ci pareva aver più che desiderare. Nuotavamo perciò tutti in un mar d’allegrezza, e passavamo di continuo il tempo fra di noi in buona conversazione, ridendo e scherzando col maggior giubilo del mondo”.

Viaggi, sesso e fantasia 17Tutti questi progetti sono purtroppo destinati a naufragare. Quando decide di indirizzarsi al porto di Hormuz, da dove dovrebbe iniziare il viaggio di ritorno, Pietro viene a trovarsi nel bel mezzo del conflitto scoppiato tra i Portoghesi e i Persiani (che hanno l’appoggio degli inglesi) per il possesso della città. Lui, la sua sposa e tutta la comitiva che viaggia con loro rimangono intrappolati per mesi in una zona malarica, e uno dopo l’altro cadono malati. La sorte peggiore è proprio quella di Maani, che verso alla fine di dicembre del 1521 ha un aborto spontaneo e muore pochi giorni dopo.

Da questo punto in poi riassumo succintamente le ulteriori peripezie di Pietro Della Valle, perché non hanno più rapporto con gli aspetti che volevo indagare. In preda alla disperazione, Pietro fa rozzamente imbalsamare il corpo della moglie, che viene chiuso in una cassa e lo seguirà per tutto il resto del viaggio, ovvero per i successivi quattro anni. Per conservare le amate spoglie e sottrarle sia al sospetto delle autorità, di volta in volta persiane, arabe, indiane e turche, che alla superstizione dei marinai, dovrà inventare infiniti stratagemmi. Ma è determinato a non seppellire la moglie in terra di infedeli, e ci riuscirà. Con questa disgrazia, comunque, cade la motivazione più forte a rientrare immediatamente. L’unica rotta rimasta aperta, anche dopo la fine del conflitto tra i portoghesi e i persiani, è quella per l’India, e là Pietro si dirige. Si reinventa uno scopo, vuol conoscere il modo di vivere degli abitanti e soprattutto le diverse manifestazioni del politeismo induista.

A questa ricerca dedica altri due anni. Sbarca a Surat e scende poi a Goa. Di lì ripercorre tutta la costa nord-occidentale, addentrandosi anche nella zona del Gujarat e spingendosi lungo le coste afgane. Come sempre si muove con molta lentezza, e dà finalmente inizio al vero viaggio di ritorno agli inizi del 1525, imbarcandosi a Muscat, nell’Oman, risalendo tutto il golfo persico e procedendo poi via terra a partire da Bassora. Attraversa quindi una immensa zona desertica, nella quale deve vedersela sia coi predoni che, e ancor più, con i vari funzionari locali del potere ottomano, che fanno a gara nel taglieggiarlo. Si ferma ancora brevemente ad Aleppo e arriva sulle coste del Mediterraneo, ad Alessandretta, solo alla fine dell’anno: di lì passa a Cipro e poi a Napoli, dove incontra il suo corrispondente Schipani. Finalmente il 28 marzo 1526 è a Roma.

È l’unico componente rimasto della spedizione partita da Venezia dodici anni prima. Ho tralasciato infatti di dire, tra le moltissime altre cose, che nel frattempo uno dei servitori è stato ucciso dall’altro per motivi poco chiari, che quest’ultimo è stato rimpatriato alla chetichella per sottrarlo alla giustizia ottomana, che le varie guide e gli interpreti assunti nel corso del viaggio si sono sfilati uno ad uno. Con lui ci sono ora due donne, Batoni Mariam Tinatin, rinominata Mariuccia, una ragazzina georgiana che Maani aveva preso sotto la sua protezione, ed Eugenia, una giovane indiana di Scilan, oltre a un frate, già vicario generale in Armenia, e a quattro nuovi servitori reclutati durante la seconda parte del viaggio.

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La storia di Pietro Della Valle non si conclude qui. Al momento dell’arrivo le sue peripezie sono già famose, e ancor più lo saranno quando, dopo aver recuperato le cinquantasette lettere scritte a Schipani, pubblica il primo volume dei suoi viaggi (un secondo volume sarà curato postumo dai figli). Riesce a far parlare di sé anche per altri motivi. Intanto dà finalmente sepoltura alla salma della moglie con una teatrale cerimonia; poi, tra il mormorio scandalizzato della Roma-bene sposa la giovane Mariuccia, la ragazza che lo aveva accompagnato per buona parte del viaggio e che gli darà quattordici figli; infine ferisce a morte per futili motivi un domestico della famiglia Barberini, praticamente sotto gli occhi del papa, cavandosela comunque a buon mercato con un paio d’anni d’esilio. Nel contempo si occupa di magia e di astrologia, traduce i codici riportati dal viaggio e altri antichi testi persiani, approfondendo i suoi interessi per la linguistica, scrive libretti per composizioni musicali, compone brani per strumenti da lui stesso inventati, Persevera anche nel suo personalissimo progetto politico di alleanza con la Persia, senza trovare in realtà alcun uditorio. Vuol continuare ad essere a suo modo un protagonista anche in patria.

Insomma. Che personaggio è Pietro Della Valle, e perché ho raccontato di lui? Non certamente per quell’empatia che ha motivato quasi tutte le altre mie mini-biografie: piuttosto per sfruttare l’effetto di contrasto col protagonista precedente. Della Valle non è affatto simpatico. È vanaglorioso, teatrale, affetto da una costante mania di protagonismo. In alcune circostanze si mostra anche freddo e cinico: “Demitrio Chidoni maltese, orefice, che ho trovato qui e l’ho preso in questo viaggio, ed in ogni altra occasione per interprete della lingua araba in luogo di quello della lingua turca, che mi morì in Alessandria; il quale però fece bene a morire, perchè in ogni modo d’interprete turco nè io oramai ho molto bisogno, nè in questi paesi mi poteva servire, perchè la lingua araba e non la turca è necessaria”. O ancora, per un altro compagno: “La morte di quest’uomo non mi alterò molto, perchè era preveduta, e poi era avvezzo in Costantinopoli a vederne morir due e tremila al giorno, e molti intorno intorno alla mia camera, sani e gagliardi di peste in ventiquattro ore, ed in manco tal volta, sì che non mi era cosa nuova la morte d’un infermo di più mesi”. La vicenda stessa della salma di Maani può essere letta ad un certo punto come una questione di puntiglio, piuttosto che di amore eterno. Una volta a Roma, infatti, apre la cassa e sfascia la mummia, sperando si sia conservata intatta, e di poter quindi mostrare al pubblico il suo splendido trofeo; salvo poi richiudere subito inorridito per lo sfacelo.

Ne ho scritto dunque perché anche nella prima parte del racconto, dove si mostra più disinibito e farfallone, si avverte rispetto alla immediatezza rozza ma autentica di De Varthema qualcosa di forzato, di insincero. È difficile trovare personaggi tanto diversi, pur se animati da una stessa curiosità: perché la declinano in maniera opposta. De Varthema si butta nell’avventura senza uno scopo reale, per provarne il sapore, e la vive poi sino in fondo tirando a sopravvivere. A raccontarla ci penserà solo dopo, dietro le pressioni dei suoi contemporanei. Della Valle è già nell’ordine d’idee del viaggiatore moderno e contemporaneo: si viaggia per raccontarlo, per mostrare le foto agli amici, per spuntare le mete sul taccuino. A dispetto di tutte le sue dichiarazioni, e magari anche della buona fede, con lui il viaggio alla Ulisse, intrapreso “per seguir virtute e canoscenza”, è finito. E anche per quanto concerne il nostro tema, dietro l’insistenza nel chiedere che le lettere siano rese pubbliche e fatte conoscere soprattutto a Roma c’è una offesa e neppure troppo celata volontà di rivincita nei confronti della donna che lo aveva ingannato e dell’ambiente che aveva probabilmente riso di lui,

Il rapporto che ha De Varthema col sesso è ancora quello di Boccaccio; quello di Della Valle è già nell’ottica del Don Giovanni, del collezionista (nella fattispecie, anche di ossa). Prelude a Les Liasons dangereuses, alle Memorie di Casanova, alle lettere italiane di Byron e ai racconti che sessant’anni fa ci facevano gli amici che erano stati in Svezia (o magari solo a Rimini). De Varthema è ciò che avremmo voluto essere, Della Valle ciò che siamo diventati.

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A conclusione di questa lunga e faticosa cavalcata mi riservo una riflessione sulle modalità con le quali è stato composto questo pezzo. Per sentirmi autorizzato a scriverlo mi sono sorbito la lettura di poco meno di tremila pagine. L’ho fatto però a modo mio, applicando un metodo collaudato. Quando ho avuto ben chiaro cosa stavo cercando ho attivato dei sensori mentali allertati su alcuni termini, su certi nomi, su immagini che rimandassero a particolari concetti o argomenti. Né più né meno quello che accade con gli algoritmi usati per le intercettazioni. Facendo scorrere le pagine sul monitor (il testo di Della Valle l’ho trovato solo on line, di quello di De Varthema possiedo due edizioni, ma per questo tipo di operazione è più adatta la lettura digitale) i sensori individuavano a colpo d’occhio la presenza o meno di ciò che mi interessava. Nel caso di Della Valle l’operazione era per fortuna semplificata dal fatto il viaggiatore ha redatto le sue lettere seguendo sempre lo stesso ordine e gli stessi criteri: descrizione degli spostamenti, dei luoghi raggiunti, delle architetture, dei caratteri fisici degli abitanti, delle loro attività economiche, dei costumi, delle tradizioni, delle forme di potere e del modo in cui questo era esercitato. Quindi narrazione degli avvenimenti storici significativi, da quelli più remoti a quelli recenti, degli intrighi, dei pettegolezzi, ecc … In questo modo mi è stato possibile saltare a piè pari interi blocchi di pagine, quando capivo dove stava andando a parare l’autore, perdendomi senz’altro qualcosa ma mantenendo focalizzata l’attenzione sull’aspetto che mi importava. È un metodo tutt’altro che ortodosso, buono per compilatori mercenari di tesi di laurea e non certo per ricercatori storici seri, ma ai fini di lavori di questo genere funziona egregiamente.

Piuttosto, non so quanto sia applicabile da tutti. Credo che occorra una disposizione naturale, che induce automaticamente a modalità veloci di lettura e viene così ulteriormente allenata e potenziata. Non ha nulla a che fare con le tecniche di apprendimento e di memorizzazione che circolano sul mercato, pubblicizzate all’insegna dello “studiare in fretta” e del “ridurre i tempi”, anche se queste ne riprendono e ne standardizzano i principi. O ci sei portato o no. Personalmente, ho digerito in questo modo già nell’infanzia e nell’adolescenza, del tutto ignaro e vergine di tecniche, una quantità impressionante di letteratura, passando da Andersen a Salgari, a Verne, a Curwood, a London e arrivando precocemente a Balzac e Stendhal: e quando sono passato alla saggistica ho applicato, sempre inconsapevolmente, un metodo desunto direttamente dagli albi delle figurine. Ciò non significa essere più bravi o più pronti di altri: significa semplicemente che si è fatti così, e ciò si evidenzia anche nel modo in cui si affronta ogni altro aspetto della vita, sempre in affanno come il coniglio bianco di Alice.

Con tutto ciò ho trascorso davanti al computer nelle ultime settimane almeno una quarantina di ore, solo per avvallare con le citazioni dirette un impianto di interpretazione che nelle grandi linee avevo già abbozzato da un pezzo. E arrivato al termine mi sono chiesto: ne valeva la pena?

Se prescindo dai risultati, che a fronte dell’impegno profuso avrebbero dovuto essere indubbiamente molto migliori, mi rispondo di si: tutto sommato è un lavoro coerente con la linea di ricerca che ho intrapreso oltre mezzo secolo fa, e se aggiunge poco nemmeno toglie qualcosa. Ne è valsa la pena anche perché naturalmente i miei sensori sono molto indisciplinati, si accendono e si spengono quando garba a loro, e mi hanno quindi obbligato a soffermarmi su una miriade di altri aspetti del racconto singolari e peregrini (ma forse la verità è che tutti quelli allertati in altre occasioni rimangono comunque attivi per sempre). Valeva poi senz’altro la pena per me, che tenevo da anni questi due personaggi sospesi in punta di penna, senza mai decidermi a liberarmene in un modo o nell’altro. Ho così pagato un altro piccolo debito. Ma valeva anche perché quando le motivazioni cominciano a scarseggiare e tutto ti appare futile e superfluo (ovvero, ti appare com’è), è necessario ogni tanto un colpo di reni per verificare quantomeno se questi funzionano ancora. Quindi, si: per me è valsa la pena.

Non so per gli altri: ma questo, per fortuna, e in tutta sincerità, non è un mio problema.

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Se volete saperne di più su questi due viaggiatori potete leggere direttamente le loro opere:
Ludovico De Varthema – Itinerario– Ed. dell’Orso, Alessandria, 2011
Ludovico de Varthema–Viaggio alla Mecca (parziale)– prefazione di Franco Cardini, Milano, Skira, 2011
Pietro Della Valle – Viaggi di Pietro della Valle il Pellegrino. Volume primo – La Turchia. La Persia (1374 pagine). http://www.liberliber.it, 2021
Pietro Della Valle – Viaggi di Pietro della Valle il Pellegrino. Volume secondo – La Persia. L’India e il ritorno in patria (pagine 1440) –www.liberliber.it, 2021

Oppure leggere opere che parlano di loro. Ad esempio:
Attilio Brilli –Il viaggio in Oriente – Il Mulino, 2012
Raffaele Salvante – Il “Pellegrino” in Oriente. La Turchia di Pietro della Valle – Polistampa, Firenze 1997
Chiara Cardini – La porta d’Oriente. Lettere di Pietro della Valle – Città Nuova Roma 2001
Marziano Guglielminetti – Viaggiatori del Seicento – UTET Torino 1967

Ritirate e ripartenze

I libri che non mi sono piaciuti (4)

di Vittorio Righini, 1 aprile 2023

Sylvain Tesson: uno scrittore sottovalutato. Scrivo oggi di un libro di Tesson che non mi è piaciuto, solo per trovare la scusa ed elencare tutti gli altri suoi libri, uno più bello dell’altro. D’altronde la rubrica si intitola “I libri che non mi sono piaciuti”, e devo onorare …

Il primo di febbraio 2023 è mancato all’affetto dei suoi cari Philippe Tesson, non più giovanissimo (era del 1928…). È stato un grande giornalista specializzato in teatro, editorialista televisivo di grande fama, direttore di Le Quotidien de Paris. Polemista intransigente e a volte discutibile, è stato un protagonista del giornalismo francese del secolo scorso. Ha lasciato i tre figli Stephanie, del 1969, Sylvian, del 1972 e Daphnè, del 1978. Bene, direte voi, ma qui ‘‘che c’azzecca?’’ (cit. Di Pietro, estikazzi). Beh, c’azzecca il figlio Sylvian, un cinquantunenne con una carriera di scrittore e viaggiatore di tutto rispetto, piuttosto sottovalutato in Italia ma osannato nel suo paese. Penserete, la solita grandeur, i soliti francesi pesanti da sopportare quando parlano di se stessi. Sarei perfettamente d’accordo sulla grandeur transalpina ma no, credetemi, Sylvian è veramente un grande.

L’ho scoperto molti anni addietro, con il libro: Baku, elogio dell’energia vagabonda. Un viaggio a piedi e in bicicletta dal Lago d’Aral al Mar Caspio, fino alla città costiera di Baku, poi la Georgia e la Turchia fino al Mar Nero seguendo le tracce degli oleodotti. Un viaggio che è anche un continuo interrogarsi sul valore dell’energia, sul suo significato, in qualunque forma essa si sviluppi. Mi sono piaciute le sue idee, il suo pensare, e il suo modo di rapportarsi con gli altri, non sempre semplice ma sempre esplicito.

Da quel libro ne ho poi letti altri, diciamo tutti quelli tradotti in italiano, e un paio, faticosamente, in francese. Il libro di maggior successo credo sia stato Nelle Foreste Siberiane, Sellerio, 2012, che narra un’estate trascorsa in solitudine in un capanno sul lago Bajkal, con due cani in mezzo al nulla.

Un libro ricco di riflessioni e pensieri, ispirato e interessante. Certo, nel capanno aveva una stufa a legna, con un fornello. Notevoli comforts in una località che solo per arrivarci in barca ci vuole una settimana … e niente linea cellulare, wi-fi, luce elettrica etc. etc.; se vi sembra una passeggiata, provate voi a starci un’estate, sul Bajkal; se poi vi piacciono le zanzare, allora sarete in paradiso…

Diverso invece, un libretto alcolico, è Beresina, Sellerio 2012, con l’autore che con amici compra un paio di vecchi sidecar Ural a Mosca e in piano inverno, carico di coperte e vodka, ripercorre il tracciato della ritirata di Napoleone, e il libro salta dalle sbronze giornaliere alla storia della ritirata da Mosca a Les Invalides del Bonaparte. Divertente, scorrevole, un po’ pazzo, il libro, come l’autore.

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Beresina è l’ultimo libro del Tesson pre-incidente (anche se va in stampa dopo l’incidente); incidente che vede Sylvian impegnato a scalare una facciata di una casa, e a otto metri circa d’altezza la scivolata, la caduta e l’impatto, che per molti avrebbe significato morte certa. Invece si salva, con mesi e mesi di ospedale, cure, riabilitazioni ortopediche e fisioterapiche, e successive inibizioni in alcune delle cose che gli piacevano (il bere, su tutte, che gli causa crisi epilettiche, come si legge in Sentieri Neri). Quest’ultimo, scritto post-incidente, presenta un autore che, pur desideroso di rimettersi in moto soprattutto fisicamente, è destinato a una visione della vita più calma, più ponderata, riflessiva e interiore. Basta estremi, piccole e grandi follie, rincorse dell’impossibile. Tesson ritorna sulla terra, alla terra, con Sentieri Neri, una camminata faticosa e zoppicante da Tenda alla Normandia, con i chiodi nella schiena, la bocca storta per una paresi facciale non ancora risolta, un occhio fuori dall’orbita. Oggi i segni dell’incidente si vedono ancora, ma in modo molto più soffuso.

Ed eccoci, finalmente, al libro che non mi è piaciuto: nel 2018 esce Un’estate con Omero, con l’autore che si rifugia in una piccola stanzetta (una piccionaia, forse una piccola cappella nelle isole Cicladi) e riflette su Omero e sul suo messaggio. Se devo essere sincero, non mi sono innamorato di questo libro, che non porta nulla di nuovo. Anzi, la sua interpretazione presta il fianco ad alcune critiche. E ora sono a posto, ho denigrato quanto dovevo, e posso tornare a incensare. Infatti nel 2020 viene pubblicato in Italia La Pantera delle Nevi, e in questo caso vi copio la mia recensione del libro fatta come cliente a firma Giovanni su un sito commerciale nazionale (sono un Giovanni Vittorio, effettivamente): “Dopo un paio di libri non all’altezza, a mio modesto parere, scritti in una fase molto complicata della sua vita dopo il tremendo incidente del 2014, riconosco in questa ricerca della lentezza e della contemplazione il vecchio Tesson. Ci sono qui alcune delle sue perle, quelle frasi che hanno sempre caratterizzato questo autore, frasi da sottolineare a matita, o da riportare in un proprio taccuino. Poi, un’insolita vena romantica e nostalgica verso una donna perduta, e verso la madre. Bentornato, Sylvain, e speriamo che l’Editore si decida a stampare in italiano anche i tuoi primi libri’.’

Segnalo, per chi ama anche i libri di fotografia, lo stupendo Tibet: Mineral Animal del 2018, a firma Tesson per il testo e Vincent Munier per le foto. Un libro straordinario, costoso, ma con tutte foto in bianco e nero relative al viaggio di ricerca fotografica della pantera delle nevi, foto invernali, bianche e gelide, dettagliatissime.

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E veniamo ad oggi: in Francia nel 2021 è uscito Un été avec Rimbaud, per ora nessuna traccia qui di una eventuale edizione tradotta. Ma Gallimard da mesi fa girare Blanc, un libro che mi interessa, ci interessa: una raccolta dei viaggi tra il 2018 e il 2021 di Tesson e Daniel du Lac, guida alpina e famoso scalatore, partendo da Mentone per tutto l’arco alpino fino a Trieste. Un viaggio all’insegna del bianco, in cui l’altitudine è la chiave della felicità. Dite che ci onoreranno di una felice traduzione italiana? mah, chi può dirlo, non ho mai capito perché traducono certi libri e certi no. E ne approfitto per ricollegarmi a quanto sopra: ho citato solo una piccola parte dei libri di Tesson, un po’ perché alcuni mi sono piaciuti meno (non ho detto che non mi sono piaciuti, ho detto che mi sono piaciuti meno – mi viene in mente lo sketch del trio comico in cui Giovanni dice: ‘‘mia mamma non sta tanto bene’’, e Giacomo corre a riferire: Aldo, la mamma di Giovanni sta male! Giovanni si incazza e ribadisce: HO DETTO: non sta tanto bene – scusate l’excursus).

Un po’ perché alcuni altri, che meriterebbero, non sono stati tradotti. (Su tutti L’Axe du Loup – De la Sibérie a l’Inde sur les pas des evades du goulag  – che si ispira a  Tra noi e la Libertà di Slawomir Rawicz, un gran bel libro che narra la fuga di 6 prigionieri da un gulag in Siberia, dei tre sopravvissuti arrivati in India, e che ha creato polemiche perché si è ritenuta impossibile la riuscita del viaggio (soprattutto da parte di Peter Fleming, che era un ricco tritapalle inglese con un poco di meglio da fare che scrivere libri mediocri e farsi gli affari altrui. Almeno suo fratello ci ha dato 007 …)

Io penso sia sempre meglio leggere il bellissimo I Fiumi scendevano a Oriente di Leonard Clark, col rischio che qualcosa se lo sia inventato, che un menosissimo ed inappuntabile diario di viaggio. E qui potrei fare alcuni esempi di autori italiani, ma non voglio scatenare una bufera. Non oggi.

Viaggi nel cuore di Creta (a piedi e senza assilli)

I libri che non mi sono piaciuti (3)

di Vittorio Righini, 1 marzo 2023

Il 27 luglio del 2007 venne pubblicato, per i paesi di lingua inglese, The Golden Step – A Walk Through the Heart of Crete. L’autore, Christopher Somerville, è un rispettabile autore di guide di viaggio (molto apprezzate soprattutto le sue Map Walks, che coprono su tutti i lati il Regno Unito, e sono sicuramente tra le più vendute ed apprezzate da migliaia di camminatori, britannici e non).

Viaggi nel cuore di Creta 01Ho una sua bellissima guida su Creta in inglese che consulto quando vado nell’isola e una sull’Irlanda (l’ho trovata in italiano). Nel 2009, per ragioni che sfuggono alla mia comprensione, dati i tempi biblici di traduzione dei libri inglesi in italiano, è uscito Lo Scalino d’Oro. Viaggio a piedi nel cuore di Creta, grazie alla EDT (siano benedetti da qualunque Dio di loro gradimento per la rapidità nel tradurre e presentare il libro).

Io colleziono libri sulla Grecia, preferibilmente in italiano (perché un po’ di inglese lo parlo, ma finché si tratta della guida di Creta non è un problema, mentre un Roumeli di Patrick Leigh Fermor in inglese, per esempio, mi occupa tempi biblici a volerlo leggere tutto).

Quindi, con gioia ho comprato Lo Scalino d’Oro pensando fosse più che altro una guida: invece mi sono ritrovato un diario di viaggio fatto col cuore, basato sulla necessità di levarsi per un paio di mesi dal lavoro e dalla routine, con la moglie che offriva il viaggio in solitario al marito alla condizione che la lunga camminata sulle creste di Creta non si traducesse in un’altra guida, ma solo in relax.

È un libro per chi ama Creta, certo, ma anche per chi non ne sa nulla e vuole solo leggere una bella storia vera: non è un romanzo e non è una vera guida, ma una esperienza. La particolarità, confermata dal Club Alpino di Creta, era che Somerville tentava per primo la traversata a piedi da solo da Creta est a ovest, per arrivare al Monastero detto appunto dello Scalino D’oro (Chrisoskalitissa), all’estremo ovest della grande isola. Somerville racconta il suo peregrinare, le genti, i luoghi, gli animali, il cibo, il vino, ma poco prima di arrivare è costretto dalla neve a scendere e fare a piedi un pezzo di costa, perché in alto non si può passare. È il primo camminatore che ha fatto il percorso, i cretesi del Club Alpino ne sono lieti, lui non se ne vanta, non è di fondamentale importanza, quel che conta è averlo fatto.

Con il libro in mano, dieci anni fa visito una piccola parte di Creta, utilizzando alcuni riferimenti al suo viaggio. Incontro un suo amico, che gestisce una taverna con camere. Gli spiego che sono lì dopo aver letto il libro, e con la voglia di salire sullo Psiloritis (Il Monte Ida), 2456 mt. soltanto, ma la montagna più alta di Creta, e la più bella. Tra me e il locandiere si instaura un’amicizia che nei giorni successivi mi renderà la vita ancora più agevole; lui mi tratta come se mi conoscesse da decenni, ceno al suo tavolo, vado a far commissioni con lui. Una sera gli chiedo, di fronte a un piatto particolare, se ha un pizzico di peperoncino. Scopro che non lo conosce, non sa cos’è. Tornato in Italia, prendo un pieghevole con fotografie delle varie specie di peperoncino, lo traduco in greco, aggiungo varie bustine di semi differenti e vari campioni freschi e pronti all’uso. Il pacchetto arriva e il locandiere mi manda una affettuosa mail di ringraziamento. Se nella zona di Thronos qualcuno oggi aggiunge del peperoncino alla carne, beh, potrei esserne responsabile.

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Nel marzo del 2017 viene editato un libro dal titolo: Rapporto a Kazantzakis. La traversata di Creta a piedi, di Luca Gianotti. Un noto sito di vendite online che tutti conosciamo lo presenta scrivendo: “Luca Gianotti ha percorso per primo l’isola di Creta a piedi in 29 giorni, camminando da Est a Ovest, attraversando le sue tre grandi catene montuose per poi camminare in riva al mar Libico”.

Naturalmente mi incuriosisco e compro il libro, che mi lascia del tutto indifferente; dello stesso autore è molto più interessante The Cretan Way, una guida in inglese dei sentieri di Creta che riporta le tracce GPS, ed è quindi certamente molto utile.

Viaggi nel cuore di Creta 03Ma tornando al Rapporto a Kazantzakis, nella bibliografia noto che il libro di Somerville è citato come tutti gli altri, ma solo nella versione in inglese del 2007. Mi permetto allora di scrivere all’autore, che cura un sito dedicato ai cammini e organizza viaggi a pagamento con accompagnatore per escursioni a piedi in molte località italiane ed estere, facendogli notare che il libro di Somerville è disponibile dal 2009 anche in italiano, e che avendo l’inglese fatto per primo questo cammino sarebbe giusto riportare nel sito anche questa informazione.

Apriti cielo: l’autore mi risponde che il primo ad aver fatto il cammino per intero è lui; Somerville verso la fine è sceso e per 10/15 km. ha camminato sulla costa e poi è risalito. Cosa che sapevo benissimo anch’io, ma quando c’è andato Somerville c’era la neve e sono stati quelli del Club Alpino locale a sconsigliare fortemente l’inglese a procedere nell’ultimo tratto (per evitare rischi a se stesso e anche ad eventuali soccorritori), mentre quando è andato Gianotti la stagione era differente.

Ho un carattere puntiglioso, e ho risposto a mia volta che quello mi sembrava un atteggiamento non corretto verso Somerville: ottenendo solo di essere tacciato di vedere il male ovunque. Quando sento queste risposte mi chiudo, e ho quindi immediatamente interrotto ogni rapporto epistolare con questo signore.

Nemmeno ho scritto a Somerville per dirgli che avevo fatto il paladino per la sua giusta causa … ho immaginato che all’inglese non poteva fregar di meno su chi è arrivato uno e chi due …

Ora, se qualcuno obietterà che vado cercando il pelo nell’uovo, stavolta avrà ragione. Ma io credo che la correttezza intellettuale, che è poi senza tanti giri di parole correttezza etica, vada salvaguardata già a partire dalle cose piccole e apparentemente futili. Altrimenti, come dicono quei mattacchioni dell’Accoglienza ligure, si comincia col fare il pesto con le noci e si finisce a letto coi consanguinei. O a fare escursioni a pagamento con accompagnatore.

Rumiz versus Boatti o Boatti versus Rumiz?

Nessuno dei due

I libri che non mi sono piaciuti (2)

di Vittorio Righini, 1 febbraio 2023

Un recente giorno d’estate chiacchieravo di libri con due amici al bar, un bicchiere di vino rosso in mano; caso più unico che raro, tutti e tre appassionati di narrativa di viaggio. Il ricercare questi libri porta alla conoscenza di autori che non sono solo e necessariamente scrittori di viaggio, prima di tutto perché la narrativa di viaggio, per essere efficace, comprende la Storia, con la S maiuscola. Nella loro bibliografia, questo tipo di autori ha titoli validi ed importanti di ben altro genere.

Un esempio italiano è Paolo Rumiz: dopo averlo conosciuto anni addietro con Tre uomini in bicicletta (con Altan e Rigatti, da alcuni considerato un ‘’libercolo’’, invece gentilissimo approccio a temi, problemi e luoghi vicini eppur complessi), l’ho poi apprezzato con È Oriente, La leggenda dei monti naviganti, Morimondo, ed altri ancora per arrivare all’ottimo Appia e soprattutto ad Annibale. Quest’ultimo (è del 2008, l’ho scoperto tardi) è un libro di storia, non di viaggi (sebbene Annibale viaggiasse parecchio, anche se spesso lo faceva d’obbligo …). Dovrebbero portarlo come testo nelle scuole, e anche lo studente più ostinato, mi permetto di rilevare, si appassionerebbe alla Storia, quella con la S maiuscola.

Rumiz versus Boatti o Boatti versus Rumiz 01

Tornando al bar, un amico mi suggeriva Il filo infinito di Rumiz, del 2019, libro che racconta di un viaggio di ricerca dell’autore nei monasteri benedettini d’Europa; in realtà lo possedevo ma non lo avevo ancora aperto. In cambio, gli suggerivo la lettura di Sulle strade del silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni di Giorgio Boatti. Il filo conduttore di entrambi, infatti, è la visita ai monasteri, italiani d’ogni vocazione in Boatti, anche stranieri ma solo benedettini in Rumiz. In realtà non potevo proporre un confronto tra due libri più diversi di questi. Paolo Repetto mi dice: sono agli antipodi. Verissimo. Una cosa li contraddistingue: entrambi non vanno a visitare per vocazione religiosa ma perché hanno il fondato sospetto che in questo tipo di eremi si possa trovare un orientamento nelle vicissitudini odierne, capirne di più, magari risolvere qualcosa, almeno con se stessi, se non con gli altri.

Per Rumiz è una navigazione interiore, come scritto sulla terza di copertina; una ricerca ostinata e preoccupata (a mio avviso anche un po’ ansiata); per Boatti, una ricerca col cuore in mano, senza troppo giudicare, solo vedere, narrare, forse intuire. Mi riesce facile preferire, in questo caso, Boatti a Rumiz; il secondo, che nei suoi ultimissimi libri definirei una pentola di fagioli in ebollizione, tende sempre di più ad esplorare l’io, in particolare il suo. A volte mi mette freddo, mi vien voglia di accendere il camino; mi raggela soprattutto la sua mancanza di entusiasmo, comprensibile certo con l’età, con l’esperienza, col disincanto. Forse mi sbaglio, forse sono io che non riesco a leggerla questa speranza, e se è così me ne scuso, sono io che non ho capito. Alla fine de Il filo infinito, insomma, ho più dubbi di prima, freddo, e voglio una bella minestra calda di ceci per rinfrancarmi.

Allora preferisco leggere libri di tono giornalistico, il giornalismo serio, che ti da una informazione, non la distorce ma ti lascia ampia scelta sulle somme da tirare. Meno poetico e colto di quello di Rumiz, ma più fruibile alla massa, a me quindi, è quello di Boatti. Che non devi accendere il camino, non ti devi sbattere a fare la minestra di ceci, che è davvero buona ma troppo “ora et labora” se la vuoi fare bene, e ti basta uno spaghetto aglio, olio e peperoncino.

Rumiz versus Boatti o Boatti versus Rumiz 04

Ariette 14.0: Dai tempi di Noé

di Maurizio Castellaro, 11 gennaio 2023

Il Principato di Monaco consiste in 2 chilometri quadrati insensati in cui risiedono 40.000 persone asserragliate intorno al vecchio Casinò. Enormi colate di cemento violentano mare e terra, per dare spazio a boutiques esclusive, parcheggi sotterranei, ascensori scavati nella roccia. Poco più avanti, Cannes è un piccolo clone di Los Angeles. Ospita da oltre 70 anni il più importante festival della fabbrica dei sogni, ed esibisce al termine della sua Croisette un Casinò, yatchs arroganti e ville con 20 stanze e 20 bagni, che vende a decine di milioni di euro ciascuna. Solo a pochi chilometri nell’entroterra, in piccoli paesini come Vallauris, Vence, Saint-Paul, geni come Picasso, Matisse e Chagall sono stati attivi dopo la guerra per decenni, idolatrati da collezionisti di tutto il mondo, ricchissimi e forse ignari. Nella mia memoria vorrei riuscire a scindere il ricordo dello skyline di Montecarlo dal segno essenziale e spirituale che Matisse ha lasciato sui muri della Chapelle du Sainte-Marie du Rosaire di Vence. Allo stesso modo, vorrei riuscire a separare l’immagine della neve finta davanti al Casinò del Principato da quelle delle tele sublimi dipinte a Nizza da Chagall, e ispirate dal Cantico dei Cantici. Ma non ci riesco. Questi due ordini antitetici di immagini vanno tenuti assieme, perché li lega una connessione segreta, perché forse questi due livelli di realtà sono uno la verità dell’altro, in perenne e insostenibile tensione. E forse perché proprio la loro inscindibile antitesi senza sintesi ci ricorda che, se mai ci sarà salvezza per noi, essa passerà dalla ricerca della bellezza e della purezza in mezzo a ciò che bello e puro non è, e sarà comunque una salvezza individuale, e mai collettiva. È una storia antica, già vecchia ai tempi di Noè, quando ancora nel mondo la pioggia cadeva.

Ariette 14.0 Dai tempi di Noé 01

Convers(az)ione in Sicilia

Note sparse da una passeggiata sull’isola

di Paolo Repetto, 8 gennaio 2023

Numquam tam mal est Siculis quin aliquid facete et commode dicant
… quod esset acuta illa gens, et controversa natura
(Cicerone, In Verrem e De oratore)

Ho deciso di vedere la Sicilia giusto in tempo. In tempo per me, che ho ormai toccato i tre quarti di secolo e avrò sempre meno voglia e forze per viaggiare, ma anche per la Sicilia. Già dall’estate prossima, infatti, calerà probabilmente sull’isola un’orda di americani e di inglesi, ammaliati da una serie televisiva che è andata in onda nei paesi anglosassoni la scorsa stagione (The white lotus) e ambientata a Taormina. Questo significherà prezzi alle stelle e impossibilità di trovare sistemazioni. A breve, poi, se il mutamento climatico procede con questo ritmo, sparirà anche l’ultima parte del ghiacciaio dall’Etna, modificando irrimediabilmente l’immagine più iconica del paesaggio siciliano. Infine, non meno grave, c’è il rischio che Salvini venga preso sul serio e si cominci a costruire il famigerato ponte sullo stretto (che nessun indigeno, a quanto ho potuto appurare, vuole). Per fortuna in questo caso possiamo sperare in tempi assai più dilatati, e tecnicamente non cambierebbe granché: ma nell’immaginario a quel punto la Sicilia non sarebbe nemmeno più un’isola.

Non sono stati comunque questi timori a farmi decidere. Prima di partire, di queste cose o non sapevo o non mi importava nulla. Ero invece infarcito di pregiudizi, di quelli correnti e anche di alcuni miei particolari, e se non avevo mai voluto visitare quella parte del nostro paese era proprio per il timore di vederli confermati. Per l’occasione non li ho lasciati a casa, ciò che potrebbe sembrare mentalmente più ecologico: li ho invece messi nello zaino, e ne sono contento, perché così ho potuto liberarmene per strada.

Prima di muovermi non mi sono documentato su guide o su narrazioni altrui: non ho nemmeno progettato un itinerario. È una scelta che faccio sempre, scientemente. Ciò che davvero m’interessa preferisco scoprirlo in loco; di norma arriva da dove meno te lo aspetti. Ho dunque girato per una decina di giorni a naso e ho comprato una carta stradale della Sicilia solo prima di venir via, ma più che altro per verificare cosa mi ero perso (e anche perché in precedenza non ne avevo trovato una decente, pur cercandola in più di una edicola o libreria: a quanto pare non usano più, sono state sostituite da Google Map, ed è un modo completamente diverso di programmare e di compiere i percorsi).

Anche stavolta sono riuscito comunque a fingere per il viaggio una motivazione e una giustificazione più “alte”, a tradurlo in una sorta di pellegrinaggio. Doppio, in questo caso, perché includeva una ricognizione delle terre di Verga (e di De Roberto e di Pirandello) e quattro passi sulle orme di J. G. Seume. Volevo vedere dove avevano scritto i primi e dove aveva camminato l’altro. Sono partito quindi per andare non a conoscere, ma a riconoscere: che non è un bel modo di viaggiare, e mette a rischio di delusioni, ma è quello cui sono condannati coloro che hanno viaggiato troppo sui libri.

Infine: malgrado sia stato e sia tuttora un divoratore di narrativa di viaggio, non ho mai raccontato un viaggio mio. Intanto perché mi sono sempre limitato a esperienze piuttosto banali, se valutate secondo i parametri dell’avventura e della scoperta, ma soprattutto perché non possedendo doti di narratore renderei banale anche ciò che magari tale non è. Mi limito dunque a mettere in fila qualche estemporanea considerazione che il viaggio mi ha suggerito.

Il paesaggio eterno. Accennavo sopra al bagaglio di pregiudizi sulla Sicilia e sui siciliani che mi sono portato appresso. In realtà, per quanto concerne la “fisicità” dell’isola, più che di pregiudizi si trattava di immagini desunte da Verga, dalle sue novelle ambientate “fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa, lontan lontano, verso l’Etna nebbioso”, quei campi sui quali si erano spezzati la schiena Mastro don Gesualdo e Mazzarò, mentre la Lupa affastellava manipoli, senza fermarsi nemmeno “allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana”. L’impressione che ne avevo tratto era quella dell’aridità afosa, il colore quello dai campi bruciati dal sole, con una vegetazione rada e stentata, qualcosa di simile alle savane semidesertiche dell’Africa o della parte centrale dell’Asia. Certo, erano rappresentazioni estive, e immagino veritiere. Io ho però girato l’interno dell’isola in pieno inverno, godendo di una sequenza ininterrotta di giornate di sole, e mi sembrava di essere in Irlanda (con la differenza appunto che qui non pioveva). Sono transitato per valli e colline dai profili dolcissimi, per la massima parte coltivate a grano, nelle quali le spighe precocemente spuntate, di un verde brillante, creavano immensi tappeti ondulati. E appena la linea delle colline si drizzava un poco il colore sfumava nel verde opaco degli uliveti, e a interromperlo c’erano solo a tratti le macchie geometriche rosso-brune dei vigneti spogli. Mi è apparsa una terra incredibilmente ricca, laddove sino a ieri l’avevo immaginata povera e avara. Le nostre colline, al paragone, devono abbassare la testa.

L’elemento fondamentale del paesaggio, sbarcando come ho fatto io a Catania, è naturalmente l’Etna. Come metti piede a terra te lo trovi lì, e continui ad averlo davanti sempre, dovunque ti sposti. Eppure l’impressione immediata è tutt’altro che di imponenza. Sulle prime il vulcano mi ha dato l’idea di non essere molto più alto del Tobbio, mentre in realtà lo è tre volte di più. Inganna per la pendenza lieve dei suoi fianchi, per il rapporto tra l’altezza e l’area della base. Per questo sembra sempre vicinissimo, anche quando ci sono di mezzo decine di chilometri. E comunque l’impressione rimane tale anche quando sei alle pendici o lo risali sino a qualche centinaio di metri dalla vetta. Insomma, quello che colpisce è la sproporzione tra le dimensioni percepite e gli effetti delle eruzioni, che riscontri sino a distanze incredibili.

Conversione in Sicilia 02

Il paesaggio odierno. Era uno dei temi dolenti. Da quanto avevo appreso dai conoscenti o dalla narrazione televisiva mi aspettavo strade disastrate, non finite, a perdersi nel nulla. Al contrario. Ho viaggiato quasi costantemente su fondi stradali molto migliori di quelli delle nostre provinciali, orientandomi grazie a una segnaletica efficace. Per chi ami guidare, la Sicilia offre percorsi straordinari. La differenza rispetto al Nord è che sono raramente intervallati da paesini: si incontrano quasi sempre agglomerati piuttosto consistenti, e questo è il retaggio di campagne rimaste semifeudali sino al secolo scorso, nelle quali la piccola proprietà contadina non esisteva.

Nelle città maggiori, ma anche nei centri più piccoli, il traffico è costantemente intenso. Avendo pernottato in più di un’occasione a Giarre, che è un centro di media grandezza piuttosto anonimo, privo di richiami turistici e di una vocazione economica specifica, ho continuato a chiedermi verso cosa si affrettassero tutti quegli automobilisti che transitavano ad ogni ora per la via principale. Non è comunque un traffico caotico. E questo a dispetto del fatto che siano in funzione pochissimi semafori: due terzi sono fuori uso, o sono stati addirittura rimossi, eppure la circolazione scorre fluida. Sempre a proposito di rimozioni, in tutto il viaggio non ho pagato una sola volta il parcheggio: le macchinette distributrici dei biglietti sono state sapientemente neutralizzate o asportate ovunque. Il problema sono piuttosto i bordi delle strade. In molte località, soprattutto quando si procede verso la parte occidentale dell’isola, le aree di emergenza sono utilizzate come vere e proprie discariche. Era una delle cose che temevo di vedere, e purtroppo l’ho verificata. Ma non sono riuscito a darmene una spiegazione. Mi sembra impossibile che una popolazione per altri versi così civile e orgogliosa della propria terra non si renda conto del danno di immagine che questa sconcezza provoca. D’altro canto, in diversi centri la raccolta avviene ancora porta a porta, col risultato di cumuli di sacchi dell’immondizia che spesso ostruiscono i marciapiedi e che non offrono certamente uno spettacolo decoroso. Questo, e il fatto che il fenomeno delle discariche stradali sembra localizzato a macchia di leopardo, in alcuni comuni e non in altri, induce il sospetto che al di là dell’incuria delle amministrazioni ci sia dietro qualche giro d’affari poco chiaro.

Un’altra peculiarità è costituita dal numero spropositato di viadotti. Non trattandosi di un paesaggio andino, e nemmeno appenninico, molto spesso le bretelle sopraelevate di cemento vanno a livellare pendenze molto dolci, che si sarebbero potute affrontare con percorsi che seguissero le inclinazioni del terreno, un po’ come accade in Francia. Un amico malizioso mi ha suggerito che i viadotti servono, più che per ciò che passa sopra, per ciò che può essere occultato nei piloni. Al di là della battuta, lo spreco di denaro pubblico qui salta veramente agli occhi.

Uno stereotipo che avrei voluto invece vedere confermato riguarda il costo minore della vita. Almeno per quanto concerne la ristorazione è falso. Ho mangiato benissimo, ma con un livello medio di spesa pari se non superiore (tra i venticinque e i trenta euro, limitandomi a un primo ed un secondo) a quello che avrei incontrato al Nord. E questo non soltanto nelle località più gettonate, in riva al mare o nelle città d’arte, ma anche all’interno. Non ho trovato menù turistici, pur essendo uno che a queste cose ci bada, e ho constatato che non è diffusa neppure l’offerta del “pranzo di lavoro”, quella che dalle nostre parti consente di pranzare decentemente, se non si hanno pretese particolari, con dodici o quindici euro (persino in Liguria, che è tutto dire). In compenso i ristoratori ti sfilano i soldi con una simpatica e sincera cortesia, caratteristica questa che ai liguri e ai piemontesi non appartiene. La battuta immediata del solito amico è stata che giustamente dove non si lavora i pranzi di lavoro non sono contemplati. Fino a quindici giorni fa l’avrei sottoscritta, ma dal poco che ho potuto vedere i siciliani mi sono parsi molto attivi. Evidentemente hanno abitudini prandiali diverse dalle nostre.

Conversione in Sicilia 03

Il paesaggio storico. Sapevo che avrei incontrato in Sicilia molta architettura barocca, e non è stata certo questa la molla che mi ci ha portato (il barocco non gode delle mie preferenze). Non immaginavo però tanta opulenza ostentata. Quando a Noto, a Scicli, a Modica e nella stessa Catania ti riscuoti dal primo stordimento, quello prodotto dal susseguirsi uno di fianco all’altro di sontuosi palazzi che rivaleggiano in decori e volute, o dalle imponenti facciate di decine di chiese che testimoniano la passata potenza delle confraternite e degli ordini religiosi più mal noti, non puoi non provare una sensazione di disagio. Realizzi che questa terra deve essere stata un tempo davvero molto ricca, e che questa ricchezza era scandalosamente maldistribuita, molto più di quanto non lo fosse altrove. E viene spontaneo associare immediatamente tale sperequazione alla decadenza di cui proprio quegli edifici sono per contrasto testimoni. Non ho mai provata un’impressione del genere a Genova, a Torino, a Milano, dove pure i palazzi signorili non mancano, ma non trasmettono così sfacciatamente l’idea dell’esibizione del potere e della ricchezza. Il risultato è che per quanto mi riguarda non ho potuto separare per un attimo quelle immagini dal pensiero di quanto sudore e quanta miseria ci fosse dietro. Non sono l’unico: coloro cui ho confidato questa impressione mi hanno confermato di aver provato una identica malinconia, e persino rabbia, anziché uno stupore ammirato.

Lo stesso discorso vale per le meraviglie architettoniche e decorative di epoca romana. La villa del Casale di piazza Armerina, ad esempio, ti lascia sulle prime stupefatto, poi, di mano in mano che scopri gli incredibili mosaici e l’idea di lusso che dovevano veicolare pensi sempre più a chi quelle opere le ha realizzate e a chi a questo lusso era completamente sacrificato. Se un’idea mi ha percorso la mente è quella della freddezza inumana di chi ci abitava.

Un po’ diversamente stanno le cose per i resti greci di Siracusa e della Valle dei Templi. Non che dietro non si percepisca altrettanta spietatezza e sofferenza, ma il fatto che i teatri e i templi erano destinati all’uso pubblico rende un po’ più accettabile l’idea. Questo vale tanto più, e mi rendo conto che si tratta di una reazione puramente emozionale, per gli innumerevoli castelli coi quali il potere svevo-normanno, personificato soprattutto da Federico II, ha segnato il territorio. Anche in questo caso entra in gioco l’idea di un uso di difesa pubblico, che corrisponde solo in parte al vero: i castelli, quelli federiciani in primis, avevano in realtà lo scopo di far percepire la presenza di un potere superiore a quello dei baroni e delle tante famiglie nobiliari che amministravano il territorio.

Di fatto, l’imbattermi costantemente in queste formidabili costruzioni (ne ho visti solo una dozzina, e visitati solo una metà, ma in tutta la Sicilia ci sono più di duecento castelli medioevali), per la gran parte in qualche modo riferibili allo “stupor mundi”, mi ha portato a riflettere su cosa avrebbe potuto significare per il nostro paese la realizzazione del sogno di Federico di un unico regno, e l’uscita dalla soggezione al potere della chiesa. Avremmo avuto ottocento anni per diventare una vera nazione, e per sviluppare quel minimo di senso civico che può tenerla assieme.

Ho anche scoperto un personaggio del quale avevo forse già avuto qualche sentore in passato, ma che non ho mai approfondito: Riccardo da Lentini, l’architetto il cui nome si trova in calce a tutti i progetti di edificazione, di urbanistica e di fortificazione voluti da Federico. Forse di alcuni non ha realizzato personalmente il disegno, ma è indubbio che tutti recano il segno del suo zampino. Lo si può considerare una sorta di Ministro dei lavori pubblici nell’amministrazione federiciana (oggi quel ruolo è affidato a Salvini!). Ognuna delle costruzioni ha una pianta e una struttura diversa, il che è anche comprensibile, trattandosi non di villette a schiera ma di opere destinate alla difesa, che dovevano adeguarsi all’orografia e alla natura di luoghi già naturalmente predisposti: eppure un’idea architettonica di fondo le accomuna tutte, ed è immediatamente percepibile. Ora, sarà ignoranza mia, e forse è un nome che nella storia dell’architettura ha un grosso rilievo, ma in una veloce indagine effettuata al ritorno su cinque o sei manuali di storia dell’arte e allargata poi a opere più specifiche e di maggiore consistenza non ne ho trovato traccia. In Francia, in Germania o in Inghilterra sarebbe una star. Da noi è pressoché ignorato. Ho identificato in tutta la Sicilia solo quattro vie a lui intitolate, tante come quelle dedicate a Fabrizio de André.

Conversione in Sicilia 04

Enna. Se racconti a qualcuno che sei stato ad Enna, ti guarda ironico e ti chiede cosa cavolo ci sei andato a fare. Non c’è nulla ad Enna, dicono. Non un’attrazione che giustifichi la visita, puoi capitarci solo se ci vive qualche parente. Del resto, provate anche a documentarvi su internet; più o meno, se non incappate nella guida dell’ufficio turistico locale, ricaverete la stessa impressione. Enna è al centesimo posto (su centosette) nella graduatoria della qualità della vita. Tra le città siciliane precede solo Caltanisetta. È l’ombelico della Sicilia, ma in un’isola questo significa essere il punto più lontano dal mare, e non è in genere motivo di pregio. Persino le cronache criminali sono reticenti: pare che non vi accada mai nulla, che i loro morti, se ce ne sono, li facciano sparire come i cinesi.

Tutto questo era più che sufficiente per motivarmi ad andarci. Volevo vedere il nulla, penetrare la barriera di mistero che circonda la città, capire come possa esistere un posto tanto sfigato. Perché naturalmente la immaginavo come un luogo desolato, piatto, sonnolento, completamente anonimo. Bene, nulla di più sbagliato. Intanto Enna, come l’Everest, merita di andarci già solo perché è lì. Si arrampica su un’altura, arriva quasi ai mille metri di quota, non c’è un metro di strada in piano, e dalla cima domina a trecentosessanta gradi le bellissime vallate a grano di cui parlavo sopra, per l’occasione ammantate di un tappeto di velluto verde. Le domina con l’autorità del castello normanno-federiciano, tanto imponente quanto elegante, eretto su fondamenta già greche e poi romane. E di lassù capisci tutto. Lì sotto c’è quello che per secoli, anzi, per millenni, prima della globalizzazione, è stato il granaio d’Italia (e se le cose in Ucraina continueranno così potrebbe tornare ad esserlo). Si spiega così il lusso quasi urtante e scandaloso di reperti romani come la Villa del Casale di Piazza Armerina, a pochi chilometri di distanza.

In compenso Enna (e questo l’ho scoperto naturalmente solo dopo) è tra le prime tre città del meridione per consuetudine con la lettura (è uno degli indici con i quali si valuta la qualità della vita), la prima in Sicilia. Dovevo aspettarmelo, non sono mai attratto dai luoghi senza un qualche motivo.

A deludermi invece sotto questo aspetto è stata Siracusa. In pratica sono andato in Sicilia con un’unica meta obbligata, la fonte Aretusa presso la quale Johann Gottfried Seume voleva andare a leggere i versi di Teocrito (e per farlo percorse tutto solo, a piedi, nel 1802, duemiladuecento chilometri in quattro mesi, partendo da Lipsia, e altri tremila e passa per tornare a casa facendo un salto anche a Parigi). Bene, la fonte Aretusa è ancora lì, ma nessuna statua, nessuna targa ricorda questo gesto incredibile di devozione alla poesia, di coraggio e di resistenza fisica. E già questo è grave. Ma il peggio viene quando si prova ad indagare tra i librai siracusani. Nessuno conosce l’esistenza di “L’Italia a piedi 1802”, l’unica traduzione italiana (uscita per Longanesi nel 1976) di Spaziergang nach Syrakus im Jahre 1802. (Una passeggiata a Siracusa nell’anno 1802), ma nessuno soprattutto sa nulla di Seume e del suo viaggio. La stessa cosa si ripete poi con i librai di Catania e di Agrigento (forse avrei dovuto provare ad Enna, ma ci sono capitato in un giorno festivo). Ora, non pretendo che tutti condividano le mie passioni, in genere ne sono anzi piuttosto geloso, ma pensavo che il viaggio e il personaggio potessero prestarsi, se vogliamo, se non altro ad uno sfruttamento biecamente turistico, potessero magari rappresentare un richiamo per allodole tedesche. Invece, il nulla.

Un’esperienza quasi simile me l’ha procurata Bronte. Anche in questo caso, ci sono andato a bella posta per testare quale memoria fosse rimasta dei fatti dell’agosto 1860, quelli raccontati da Verga nella novella Libertà. Mi ha incuriosito ulteriormente il trovare in ognuna delle città siciliane visitate una via intitolata a Garibaldi, in genere addirittura la principale, o in alternativa a Vittorio Emanuele II, e persino in un paio di casi a Nino Bixio. Non pensavo che questi personaggi fossero così popolari in Sicilia. A Bronte ho capito. Ho interrogato un giovane barista, nativo del paese, chiedendogli se ci fosse qualche monumento, qualche iscrizione a ricordo dei fatti, e mi sono sentito rispondere: “Di queste cose non so nulla, a scuola non me ne hanno mai parlato”. E la sua non era omertà, perché ha tentato di rimediare alla mia sorpresa parlandomi del castello di Nelson a Maniace, sperando magari c’entrasse in qualche modo. Un paio di avventori molto più anziani, possibili nipoti dei fucilati o dei deportati da Bixio, ma altrettanto ignari, hanno confermato la totale cancellazione della vicenda dalla storia del paese.

Queste sono le impressioni a caldo, almeno quelle di cui ho ricordo al momento. Magari capiterà in seguito di riprenderle e integrarle e organizzarle in maniera più approfondita. Per ora rimangono solo quelle immediatamente successive al ritorno, al rientro nella “normalità” piovigginosa dell’altra Italia. Una decina di giorni volutamente senza giornali e tivù mi hanno tagliato fuori da un sacco di grandi Eventi, primi tra tutti i funerali e le beatificazioni in tempo reale dei personaggi più disparati, da Lando Buzzanca a Pelè all’ex-papa Ratzinger. Ne ho colto solo gli ultimi stanchi strascichi, e segno in positivo tra le cose che il viaggio mi ha offerto anche l’avermi risparmiato gli stomachevoli compianti delle prefiche televisive.

E arrivo all’inevitabile domanda finale. Vale la pena alla mia età girare ancora il mondo, quando quello che ti interessava lo hai già visto, e se non lo hai visto non ti interessa più? Più in generale, ha ancora senso girare per un mondo globalizzato, che ha azzerato le differenze? Sia pure facendolo al di fuori dei circuiti organizzati, nella speranza di collezionare non solo foto e cartoline che si potrebbero benissimo scaricare da internet, ma incontri ed emozioni più profonde? La risposta parrebbe ovvia: vale comunque la pena. Ma non sono così convinto.

Quanto al discorso dell’età, credo che arrivi un momento nel quale si è più inclini a guardarci indietro, disseppellendo ricordi e cercando di riportarli in vita, che a guardarci attorno. Quanto invece al mondo globalizzato, so bene che, a saper guardare, qualcosa di nuovo e di diverso lo si trova sempre: ma il nuovo e diverso, ammesso che ancora esistano, sono davvero tali e possono condizionarti la vita solo quando ti capitano, non quando li vai a cercare.

Detto questo, sto comunque cominciando a fare un pensierino alla Calabria (altra terra incognita). Si vede che tanto vecchio ancora non sono.

Conversione in Sicilia 05

Le motivazioni di un viaggio

Copertina per incontri tematici2di Stefano Gandolfi, 3 dicembre 2022 

Pubblichiamo la trascrizione di un momento dell’incontro “Viaggi e viaggiatori”, nell’ambito della mostra sentieri in utopia.

Perché viaggiare?

Bruce Chatwin, autore di un libro il cui titolo era già esaustivo (“Anatomia dell’irrequietezza”) si chiedeva, con una domanda ovviamente retorica: “perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due [mesi]?”.

In questa domanda, e nelle sue mille risposte possibili, vi è già tutto il succo della questione. Al netto di ogni considerazione collaterale, o si ama viaggiare oppure no. A prescindere da tutte quelle che sono portate avanti come giustificazioni, scuse più o meno plausibili:

Sì, mi piacerebbe viaggiare, ma …:

  • sono troppo stressato dalla vita quotidiana e in ferie voglio rilassarmi su una spiaggia …
  • se non mangio la pasta o le lasagne sto male …
  • se non dormo nel mio letto sto male …
  • non conosco le lingue …
  • non sopporto le zanzare, gli insetti, i moscerini, i coccodrilli, gli animali feroci mi fanno paura …
  • sono a disagio con gli estranei …
  • ho paura di volare, dei treni, delle navi, degli incidenti stradali …
  • non mi piace viaggiare da solo …
  • non mi piace fare viaggi di gruppo …
  • e poi in definitiva viaggiare è bello, ma noi siamo in Italia, il paese più bello del mondo, con la cucina più buona e la gente più simpatica …

Tutte frasi che mi sono state dette, non le ho inventate, da persone che si sentivano in dovere di giustificarsi, quando invece dovrebbero essere fiere della loro scelta; almeno sono consapevoli dei loro limiti, o per meglio dire della loro indole stanziale, di cui non c’è nulla di cui vergognarsi.

Perché esistono due grandi categorie di umani, gli stanziali e i nomadi, i vagabondi, gli irrequieti; sono sempre esistite (i cacciatori/raccoglitori e i coltivatori/allevatori) e sono due categorie entrambe necessarie per spiegare la storia e l’evoluzione del genere umano.

In una società nella quale ovviamente non esistono quasi più i cacciatori/raccoglitori (salvo che in piccole, circoscritte comunità, peraltro in via di estinzione in quanto sempre più osteggiate e minacciate da un modello di vita dominante totalmente agli antipodi), può essere più difficile distinguere gli appartenenti ad uno dei due gruppi, e anche per ogni singolo individuo scoprire la propria vera identità, spesso, quasi sempre, soffocata da impedimenti veri, quelli del lavoro, della famiglia, della necessità della sopravvivenza propria e delle persone di cui si è responsabili.

Talvolta qualcuno si scopre viaggiatore al crepuscolo della propria vita, dopo la pensione (e in questo caso è più corretto dire all’inizio di una nuova vita!), e altri lottano tutta la vita per poter utilizzare al meglio le ferie, per soddisfare la propria passione, sia pure nei limiti economici, temporali e ultimamente anche sanitari/epidemiologici (nonché bellici) che la situazione impone.

I più ostinati ci riescono, a costo di sacrifici, di rinunce nell’arco dell’anno per poterselo permettere, dimenticando di essere stanchi perché fino alle ore otto della sera precedente hanno lavorato in modo selvaggio, accumulando turni e rinunciando a giorni di riposo per avere più giorni di ferie: per poi bruciare tutto in due o tre settimane, nelle quali vorrebbero vedere, conoscere, annusare il mondo, portarsi a casa il maggior numero di ricordi possibile, con la frenesia del cambiamento di vita, seppure temporaneo, e allo stesso tempo con l’angoscia del ritorno ineluttabile. E rimpiangendo i grandi viaggiatori del passato, per i quali spesso esisteva solo la data di partenza.

In quelle due o tre settimane si vivono le emozioni della conoscenza, la prese di coscienza della relatività del proprio piccolo mondo, la curiosità di scoprire luoghi, persone, culture, abitudini, stili di vita, religioni, cibi, passatempi, giochi, musica, ogni forma d’arte e di cultura, ci si mette in gioco valutando la propria capacità di adattarsi ad abitudini anche radicalmente diverse dalle nostre, a interagire con persone che a casa loro posseggono la dignità e la grandezza che gli compete e che spesso, tragicamente, perdono quando sono costretti ad emigrare, a fuggire per necessità economiche, politiche, militari, religiose.

Si scoprono sotto una luce completamente diversa situazioni sociali, antropologiche che là ci risultano assolutamente plausibili mentre a casa nostra apparirebbero perlomeno problematiche. Si impara a fare confronti, valutazioni non più e non solo in termini di meglio e peggio, di superiorità ed inferiorità, ma semplicemente in termini di differenza, senza alcuna arbitraria pretesa di sentirsi migliori di altri. Si scopre qualcosa che poi sarebbe prezioso, indispensabile, riuscire a portarsi a casa per non dimenticarsi di queste valutazioni.

Le motivazioni di un viaggio (4)

Il viaggio offre anche queste opportunità, che più che mai sono preziose per rompere il circolo vizioso di pregiudizi, atteggiamenti razzisti o classisti, odi razziali o di genere che appartengono, spesso, a chi non oltrepassa il confine del piccolo mondo in cui vive.

Il viaggio è un arricchimento, sia per motivi nobili, altruistici, ma anche semplicemente per il proprio godimento personale, per la propria indole di nomadi e di irrequieti; è un antidoto alla monotonia ed al peso di una vita che spesso ci stringe come un cappio e ci costringe in recinti sempre più stretti, ci soffoca in una infinita serie di limitazioni, di rinunce sempre più gravose in un circolo vizioso sempre più perverso e senza via d’uscita.

È a mio avviso, e non solo mio, uno dei modi più nobili di fare qualcosa che non sia strettamente indispensabile per la sopravvivenza fisica, qualcosa che sia anche un po’ inutile, ma che dà ossigeno ad esigenze e pulsioni più remote, aldilà della pura e semplice necessità di arrivare alla sera per ricominciare la mattina successiva.

Un grande alpinista francese degli anni Sessanta, Lionel Terray, definì sé stesso e i suoi sodali “i conquistatori dell’inutile”. Questa definizione penso si possa applicare anche alla categoria dei viaggiatori, degli irrequieti, dei navigatori solitari, se per inutile si intende non produttivo, non finalizzato al puro lavoro, alla crescita economica propria e della società; se si intende insomma qualcosa che si frappone alla logica del profitto e del fatturato.

Questa “inutilità” spesso viene accostata anche a tutte le categorie artistiche, della musica, della pittura, della letteratura; quante volte si sente dire che “con la cultura non si mangia”, dalla famiglia e, ahimè, anche magari dalla scuola e dalle istituzioni? Certo, il viaggiatore perlomeno è meno esecrabile delle altre categorie sopra menzionate per i motivi detti prima; perché viaggia nelle ferie, due o tre settimane, poi torna a casa e ricomincia a lavorare e a produrre. Quindi è meno minaccioso e sovversivo rispetto ad un artista.

Dall'Appennino alle Ande (20)

Quando si manifestano i sintomi che preludono alle motivazioni del viaggio? Spesso c’è un po’ di genetica, in genere qualche familiare, parente, cugino, di quelli un po’ strani, bizzarri, magari una “pecora nera” della famiglia, che a Natale o Pasqua era sempre in giro per il mondo e in estate lo stesso. Che ti piombavano in casa a salutarti di ritorno da Marte o dalla Luna con abiti, oggetti, soprammobili strani e inusuali, che ai genitori provocavano scandalo e imbarazzo mentre ai bambini, chissà perché, suscitavano semplicemente curiosità e fascino, ancor di più se alimentato dai racconti dei posti visitati. E che dopo tanti anni ti risvegliavano un ancestrale desiderio di visitare uno di quei posti magici ed esotici descritti dal cugino strambo.

Poi le letture certamente. Fin da bambino con Salgari e tanti altri, il cinema quando ce n’era l’occasione, magari con Bud Spencer e Terence Hill che andavano benissimo ad alimentare la fiamma. E poi, a scuola e a casa, quella strana passione per la geografia che per tutti gli altri erano solo noiosissime cartine mute, atlanti geografici incomprensibili fatti di laghi, fiumi, confini a nord, sud, est, ovest, quanto grano, quante industrie, quanti pescatori e dove finiscono gli Appennini e cominciano le Alpi.

Ma per me erano grimaldelli per scoprire un mondo totalmente nuovo, affascinante, da comprendere ed esplorare, Erano mappe, carte stradali con una miriade di simboli da convertire in luoghi reali, in strade, ponti, tunnel, città con i loro intrichi di vie, palazzi, parchi, stazioni della metropolitana, campi e palazzetti sportivi, teatro di scorribande, imprese, gesta epiche degli eroi della strada … era una mappa di New York regalatami dal cugino giramondo sulla quale mi studiavo le strade, i percorsi, le gesta dei protagonisti del film “I guerrieri della notte”, erano le mitiche carte Michelin dell’Africa dove studiavo e sognavo spedizioni on the road dalle coste mediterranee fino a Capo di Buona Speranza. Erano le mappe escursionistiche dell’Himalaya, del Nepal e del Tibet che ho divorato e studiato a memoria quando è esplosa la passione per la montagna, sincrona con quella dei viaggi. Erano i libri di Chatwin, Sepulveda, Coloane, Mutis che non avrebbero avuto alcun significato se non avessero avuto una solida e precisa correlazione con le relative coordinate geografiche, e che mi sono portato in Sud America a fianco delle Lonely Planet.

E poi erano gli amici, i compagni di classe, più fortunati, più intraprendenti di me, oppure quelli che avevano più coraggio nell’opporsi ai dinieghi dei genitori ed andavano nel Sahara con una “Due Cavalli” o una “R4”, scassatissime, che poi magari abbandonavano là vendendole per due soldi per comprarsi il biglietto della nave di ritorno; erano i loro racconti di queste epiche imprese, veri e propri riti di iniziazione alla vita reale. Sempre insieme a loro, prima e dopo il viaggio, a studiare le Michelin del Nord Africa, per viaggiare almeno con la fantasia.

La geografia dunque, quello strumento magico che ti permette di trasformare simboli in realtà.

Quella geografia negletta, disprezzata e quasi scomparsa dalla scuola, salvo poi ritornare prepotentemente in auge sotto forma di geo-politica, quello strumento indispensabile per poter perlomeno tentare di comprendere cosa è successo nel mondo negli ultimi decenni e, quotidianamente, accade oggi, in Europa (Ucraina) in Asia (Tibet, Afghanistan, Taiwan, Nord Corea…), in Medio Oriente (Irak, Iran, Siria …) in Africa (Somalia, Etiopia, Nigeria …), in Sud America, praticamente in tutto il pianeta, ove è impossibile anche solo vagamente spiegarsi i fatti che accadono senza collocarli in una dimensione geografica e storica.

E quindi anche quei professori che si ricordano a distanza di quarant’anni, che ti hanno fatto innamorare della storia e della geografia, spiegandoti che l’umanità non è fatta solo di date, luoghi, cifre da imparare a memoria.

E poi i primi viaggi coi genitori, con un padre entusiasta e forse più bambino di me nell’eccitazione e nella curiosità di scoprire posti nuovi. Un viaggio in Polonia nel 1972, in piena era della “Cortina di Ferro”, insieme ad una coppia di amici di famiglia, grandissimi viaggiatori ed avventurieri, noi in quattro su un Alfa Romeo, loro in due su un Maggiolino Volkswagen, fermi per ore alla frontiera fra Cecoslovacchia e Polonia con le auto letteralmente smontate in cerca di dollari che erano stati nascosti nelle scarpe del viaggiatore più innocente e meno sospettabile, ovvero il sottoscritto tredicenne. E poi il cambio dei dollari come in film di spionaggio e di guerra fredda, in mezzo alla piazza principale di Cracovia piena di folla a mezzogiorno, con una donna polacca che ci ha affiancato per uno scambio di buste senza parlarci né guardarci, previo segno di riconoscimento concordato tramite conoscenza sicure…. cos’altro può crescere in testa ad un ragazzino che a Praga, di ritorno, ha scattato di nascosto (dai genitori e dai soldati) un intero rullino di foto ad una parata militare, cosa vietatissima ovviamente, dato che all’epoca non si trattava di folklore per i pochissimi turisti, ma di situazioni estremamente serie e con poco sense of humour del governo e della polizia?

Ovviamente non c’è bisogno (e non ce n’è mai stato, perlomeno da parte mia) di manifestazioni di coraggio, di spavalderia ed esibizionismo per viaggiare in modalità appena un po’ diversa da quella puramente turistica.

L’emozione del viaggio è tutta interiore, dentro di sé. Inizia dal divano e a tavolino, con un libro in mano, un racconto di viaggi, una guida turistica, una cartina, due amici con cui programmare il viaggio. E prosegue sulla strada, dove il viaggio inizia già al casello di Castelceriolo, di San Michele o di Alessandria Sud. Ed il percorso è il viaggio, la meta è solo un dettaglio, un plus che ovviamente fa piacere raggiungere, ma che in molte circostanze rappresenta solo il coronamento di un’avventura già memorabile e ragguardevole. Capo Nord è il pretesto, il primo chilometro e i successivi tremila sono la vera essenza del viaggio.

Le motivazioni di un viaggio (2)

Anche il viaggio in aereo, evoluzione indispensabile ed inevitabile quando i confini e le mete si allontanano dall’Europa, è sempre un’emozione. Lo rimane anche dopo tantissimi voli lunghi, noiosi e disagevoli per chi come me è alto un metro e novanta e non vuole accendere un mutuo per pagarsi la prima classe.

Ma se si affronta il viaggio con quello spirito e quella curiosità del bambino che è dentro in noi, anche le ore di attesa all’aeroporto, specialmente di qualche città straniera, rappresentano un’avventura; girovagando fra i negozi per curiosare fra i souvenir del posto senza comprare nulla, mangiando qualcosa di locale anziché i soliti cibi anonimi e globalizzati … Senz’altro questo farà sorridere e provocherà qualche sguardo di compatimento da parte dei cosiddetti veri viaggiatori, quelli scafatissimi, che non si sorprendono più di nulla, che sono uomini e donne di mondo e che guardano tutto con superiorità. Ma di ciò non mi importa nulla, io resto il bambino che ogni volta guarda ogni cosa come se fosse la prima volta. E se e quando non sarà più così, quel giorno forse smetterò di viaggiare.

Quando i disagi non saranno più sopportabili, quando non faranno più parte del gioco, dell’avventura, della sfida con sé stesso ad accettare gli inconvenienti, le scomodità, quando il cibo sarà immangiabile, le persone e i compagni di viaggio diventeranno insopportabili, i letti scomodi e durissimi, i panorami monotoni, quando la curiosità sarà scemata, quando non verrà più voglia di scattare alcuna fotografia, quando il taccuino per gli appunti rimarrà bianco, sia durante il viaggio che dopo, quando non ci sarà più nulla da raccontare agli amici perché non si è più riusciti a raccontare nulla a noi stessi, quando si avrà voglia di tornare a casa, quando di fronte alla possibilità di fare un fuori programma si preferirà tornare in camera in albergo perché ci si sente stanchi, quando si proverà nostalgia per la nobildonna palermitana ultraottantenne che in Namibia, con una frattura di femore in atto si ostinava a voler proseguire il viaggio in fuoristrada… ecco, in quel momento, come il fuoriclasse sportivo che anticipa il declino ritirandosi in pieno splendore, bisognerà avere il coraggio e l’obiettività di ripensare alla propria vita.

Ed il viaggio continuerà, certo che continuerà, con altre modalità, con i ricordi, riordinando gli appunti di viaggio, le foto, i racconti ai giovani che viaggiano on-line con le immagini dei social.

Perché il viaggio, il vero viaggio, non è un hobby a tempo perso, ma è qualcosa che si ha dentro di sé e fa parte della propria vita, non è un elemento di contorno, non è qualcosa che si affronta solo se non si è troppo stanchi, solo se si “scende” in alberghi di lusso, solo se ci sono garanzie totali di confort di buon esito a priori. È una dimensione dello spirito.

Le motivazioni di un viaggio (5)

Viaggiare significa consumare le piastrelle dei terrazzi di casa durante il lock-down per la COVID, significa guardare fuori dalla finestra se sei immobilizzato a letto per un intervento chirurgico, per esplorare le strade sotto casa e scoprire qualcosa di nuovo sui marciapiedi e nei giardinetti di fronte.

Significa guardare Google Maps per ripercorrere percorsi alpinistici in Himalaya, sulle Ande, sulle nostre Alpi, e percorrerne di nuovi con la fantasia, ma quella fantasia che stringe con rabbia il sogno e la speranza di poterli percorrere davvero.

Significa, ogni volta che sopravviene un problema fisico, di salute, un’intolleranza alimentare o quant’altro, affannarsi a programmare un viaggio che sia compatibile con questi problemi, senza rinunciare a farlo, semmai studiando tutte le contromisure necessarie.

Significa essere sempre pronti a preparare i bagagli, a tenere a portata di mano i borsoni, a verificare periodicamente i passaporti, le attrezzature per i trekking, i vestiti, il materiale fotografico. Anche nelle giornate in cui magari non riesci nemmeno ad uscire da casa.

Significa non arrendersi, prendere ad esempio i sempre più frequenti modelli di comportamento delle persone che con disabilità importanti portano a termine imprese meravigliose, sportive o “semplicemente” turistiche.

Significa ostinarsi a studiare le lingue, anche quando sembra un’impresa disperata se non lo hai fatto da giovane studente, significa imparare quattro frasi di nepalese e inorgoglirsi di stupire uno sherpa che d’estate lavora in un nostro rifugio di montagna, salutandolo nella sua lingua.

Significa rimettersi in gioco ogni volta, alimentare nuovi sogni, rinnovare l’entusiasmo, la curiosità e l’ingenuità del bambino che è in noi, quella curiosità che è probabilmente, aldilà della fortuna di non avere problemi seri di salute, il miglior antidoto all’invecchiamento psico-fisico.

Significa rimpiangere quella stanzetta senza armadi, senza termosifone, senza bagno, senza arredi, con un materasso su una rete, a 4500 metri di altitudine in Bolivia, il giorno prima di salire su un vulcano di 6000 metri per poi ridiscendere facendo in tempo a mangiare una pastasciutta al ragù preparata a metà pomeriggio dai padroni di casa.

Significa ricordare l’espressione di due ragazzini di 14 anni che dopo una settimana passata a dormire in tenda in mezzo alla savana, in Botswana, fra leoni ed elefanti che ci passavano vicino, alla prima notte di civiltà in un buon albergo, confortevole, ci supplicavano di riportarli in mezzo alla savana, e chissenefrega se non c’era la doccia con l’acqua calda, se non ci si lavava, ma si pasteggiava alle sei di pomeriggio con gin-tonic e noccioline in barba a quel che avrebbero potuto pensare i genitori che ce li avevano affidati…

Significa che, ogni volta che sull’autostrada Voltri-Gravellona, al bivio dopo Casale, si svolta per andare verso Santhià e la valle d’Aosta, si prova un desiderio incontrollabile di tirare diritto per andare verso Malpensa e provare a vedere se riesce ad imbarcarsi per qualche destinazione … e l’alternativa non è un campo di prigionia, ma la nostra casa di montagna, unica passione che rivaleggia con quella per i viaggi, dicotomia che si può risolvere solo, come abbiamo fatto tante volte, organizzando un viaggio che preveda anche un trekking e/o una salita su una montagna.

Viaggiare è vivere, arricchendosi di conoscenza, come disse il sommo Poeta. Vivere è viaggiare.

Dall'Appennino alle Ande (31)

sentieri in utopia

catalogo della mostra in Ovada, dal 3 all’11 dicembre 2022

Perché una “vetrina”

sentieri in utopia copertinaDal 3 all’11 dicembre i Viandanti usciranno dalle nebbie (che sono state sino ad oggi il loro naturale habitat, e lo saranno ancora per il futuro) per proporre una testimonianza del loro operato in cinque lustri di esistenza. Non è una vetrina promozionale: non siamo depositari di verità, non imbandiamo sapienza, non cerchiamo adepti, non chiediamo finanziamenti. Semplicemente, dal momento che il sodalizio esiste da oltre un quarto di secolo, ci teniamo a far sapere a chi già ci conosce che è ancora vivo, e a chi ancora non ci conosce che ci siamo anche noi.

È una scelta che parrebbe contraddire quella che è stata sinora la nostra discrezione: ma essere discreti non significa agire nell’ombra come una società segreta. L’accesso ai nostri scritti e alle nostre immagini è sempre stato libero (e gratuito), le nuove collaborazioni sono sempre state ben accette: uniche pregiudiziali, l’uso del buon senso e la capacità di autoironia.

La mostra va letta quindi con questo spirito. Se dopo un giro completo della sala vi sarete incuriositi o divertiti, potrete già considerarvi viandanti ad honorem.

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Riproponiamo di seguito il vecchio biglietto da visita dei Viandanti. Sotto una patina di retorica che oggi può anche far sorridere, e a dispetto delle situazioni diverse che gli oltre venticinque anni trascorsi hanno creato, i propositi professati all’epoca non solo sono rimasti validi, ma hanno acquistato un’attualità ancora maggiore. Viandanti per sempre, dunque.

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Io sono un viandante, uno scalatore, disse egli al proprio cuore; io non amo le pianure e, a quanto pare, non posso starmene a lungo tranquillo. E qualunque destino o esperienza mi tocchi, – in essi sarà sempre un peregrinare e un salire sulle montagne: alla fine non si esperimenta che se stessi.
FRIEDRICH NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra

Chi sono i Viandanti delle Nebbie?

Si fa prima a dire “cosa” non sono. I “Viandanti” non sono un partito politico, ma oppongono una resistenza politica ad ogni forma di omologazione istupidente; non sono un gruppo sportivo, ma praticano la disciplina sportiva più pura, quella che richiede solo buone gambe, volontà e fantasia; non sono un’agenzia di viaggi, ma promuovono una conoscenza non utilitaristica del territorio; non sono un’associazione ecologica, ma si battono da bravi indigeni per la difesa del “loro” ambiente; non sono un’accademia culturale, ma coltivano ogni manifestazione non istituzionalizzata del sapere; non sono un ordine mendicante, ma rifiutano la mercificazione di ogni idealità.

In breve, non rispondono ai requisiti di visibilità imposti dal dominio dell’insignificanza virtuale. Sono invece un’esperienza, anzi tante, diverse, continue esperienze di (r)esistenza extra-catodica e post-cellulare, cioè di vita degna di questo nome, di amicizie, di letture, di escursioni, di convivi, di scoperte, che non vogliono essere consumate in un arcadico distacco, ma vanno trasmesse nelle forme più semplici, dirette e genuine, attraverso le quali è possibile esprimere sogni, idee ed emozioni, ed invitare gli altri ad esserne partecipi (e non spettatori).

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Wanderers forever

cropped-tobbio4.jpgC’era una volta, tanti e tanti … beh, insomma, una ventina d’anni fa, un gruppo di amici, di quelli messi assieme dalle circostanze della vita e dalle passioni in comune anziché dall’anagrafe, che si ritrovavano sempre più spesso a frugare tra gli scaffali di una caotica libreria ovadese, a camminare lungo i sentieri del Parco di Marcarolo o a cenare in un capanno sperduto nella campagna. Era un’allegra brigata, a metà strada tra il cenacolo intellettuale e la compagnia del calcetto …

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Storia del logo

cropped-vianda-300-ppi-png.pngLa storia del logo dei Viandanti merita di essere raccontata. Dunque: siamo nel novembre del novantacinque e i Viandanti delle Nebbie hanno organizzato in Ovada una mostra su Il West nel fumetto italiano, che ospita tra le altre cose una sezione dedicata alle illustrazioni di Renzo Callegari. In occasione della chiusura provo a contattare, (senza molte aspettative ma nemmeno cerimonie, una semplice telefonata da uno sconosciuto) il maestro, che sembra incuriosito e si presenta in effetti puntuale, accompagnato da un paio di allievi della sua scuola di fumetto di Rapallo. Chiusa la mostra, li invitiamo a cenare con noi al Capanno, già all’epoca sede ufficiale dei Viandanti …

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Come è nato il Capanno

Capanno 2018 10 06 01 seppiaCredo che anche la storia del Capanno, come quella del logo, meriti di essere raccontata.
È andata così. Quando ancora erano in vita i miei genitori avevo l’abitudine di trascorrere tutte le sere, subito dopo cena, una mezzoretta con loro (abitavano al piano inferiore). Si commentava la giornata, si programmavano i lavori, a volte semplicemente seguivo assieme a loro il telegiornale. All’epoca (parlo di venticinque e passa anni fa) ero affetto da una sorta di compulsione a disegnare, cosa che mi portavo dietro sin dall’infanzia. Era probabilmente un modo per isolarmi dagli altri e per evadere nei miei mondi fantastici …

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Istruzioni per l’uso del sito, della mostra, della mappa

I materiali prodotti dai Viandanti in tutti questi anni sono ospitati nel sito https://viandantidellenebbie.org/. Ma è sufficiente digitare “Viandanti delle Nebbie” per trovarci. Una volta entrati nella home appaiono sulla destra del monitor una serie di voci che aprono altrettante sezioni. Sempre sulla destra, scendendo, trovate gli elenchi di quanto è stato pubblicato anche in formato cartaceo. Sulla sinistra potete aprire direttamente gli interventi più recenti. Nella parte bassa della home scorrono infine immagini tratte dagli album. Non troverete cookies o messaggi promozionali di alcun genere.
Tutti i materiali sono consultabili e scaricabili gratuitamente.
La mostra prevede alcuni pannelli iniziali di presentazione del sodalizio, per passare poi a proporre le copertine di tutti i volumetti editi dai Viandanti. I codici QR presenti su ciascuna copertina aprono direttamente alla consultazione integrale dei libretti. Sono esposte anche le locandine delle mostre curate dai Viandanti, oltre ad una serie di pannelli tratti dalle stesse. Gli esemplari delle pubblicazioni cartacee sono disponibili per una presa di visione, ma comprensibilmente non per l’asporto.

La mappa che potete consultare nelle pagine seguenti è stata costruita per suggerire ai visitatori del sito e della mostra una serie di itinerari percorribili attraverso le nostre pubblicazioni. In effetti i percorsi avrebbero potuto essere molti di più, o essere tracciati tenendo conto di direzioni diverse: ma preferiamo siano eventuali visitatori o estimatori del sito a riconoscerli e a costruirli. Le “stazioni” non rispettano un ordine cronologico di pubblicazione, ma un semplice gioco di rimandi. In alcuni casi sono poste all’incrocio di diverse linee, in quanto fruibili lungo più itinerari: ma in realtà la cosa potrebbe valere per quasi tutte le pubblicazioni. Come potrete constatare, nessuna linea prevede stazioni terminali. Il cammino di un Viandante è sempre aperto.

sentieri in utopia - mappa a mano 2la prima versione della mappa

Mappa dei sentieri in utopia

sentieri in utopia - mappa download

sentieri in utopia locandina con margini

Parole in cammino

Diable_à_Paris_fronstispice (2)Durante il periodo di apertura della mostra sono previsti tre incontri pubblici, mirati a presentare il lavoro del sodalizio dei Viandanti, a giustificarne per quanto possibile lo spirito e a suggerire ai visitatori alcune possibili modi per gustarlo e per trarne, se non briciole di sapere, almeno un po’ di piacere.
Con queste premesse è evidente (ma lo era già dai titoli) che gli argomenti proposti saranno solo dei pretesti per spaziare in lungo e in largo, come facciamo abitualmente nei nostri testi, tra natura e cultura, realtà e fantasia, quotidianità e storia.
Abbiamo immaginato questi incontri non come conferenze o, peggio ancora, come “dibattiti”, ma come amichevoli conversazioni dalle quali tutti i partecipanti escano possibilmente con la voglia di rivedersi ancora. Come uno scambio non pedantesco di esperienze, tale magari da indurre qualcuno ad andarsi a leggere ciò di cui ha sentito parlare, a riflettere sui temi che sono stati toccati, a rassicurarsi sul fatto che il regime dei social e dei talk show non ha ancora occupato tutti gli spazi.
Le titolazioni assegnate agli incontri riflettono naturalmente, sia pure in maniera molto sommaria, gli interessi comuni ai curatori e ai visitatori del sito. Ma chi appunto il sito già lo conosce sa che questi interessi non sono mai “specialistici” e vengono coltivati in campi aperti e con metodi tutt’altro che canonici. E chi non lo conosce potrà verificarlo integrando gli incontri con qualche incursione nel nostro catalogo. Sarà il benvenuto.

Comunque, per fingere un minimo in più di informazione, negli incontri saranno (grosso modo) trattati i seguenti temi:

  • Viaggi e peregrinazioni | Perché si viaggia. Storia dei viaggi e storie di viaggio. Pensare con i piedi. Tipologie della letteratura di viaggio.
    • Le motivazioni di un viaggio

      Le motivazioni di un viaggio (1)Perché viaggiare? Bruce Chatwin, autore di un libro il cui titolo era già esaustivo (“Anatomia dell’irrequietezza”) si chiedeva, con una domanda ovviamente retorica: “perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due [mesi]?”. In questa domanda, e nelle sue mille risposte possibili, vi è già tutto il succo della questione. Al netto di ogni considerazione collaterale …

  • Biografie e bibliografie | L’importante è non nascere adatti. Vizi privati e pubbliche virtù.  Confessioni di un bibliopatico. Perché si mente dicendo di aver riletto un libro.
    • Biografie e bibliografie

      Biografie e bibliografieProvo ad andare al nocciolo della questione. Perché si scrive? Camillo Sbarbaro, presente nell’ultimo Ritratti di famiglia dei Viandanti, risponde ironicamente: “si scrive per essere notati, e si continua a scrivere perché si è noti”. Proprio lui che per cercare di fare i conti con la figura paterna ha scritto poesie che valgono vent’anni di sedute psicoterapiche. Non scherziamo. Scrivevano eroi come Levi, Fenoglio, Leopardi, Foscolo, Dante. Ma scrivevano anche borghesi tranquilli come Gozzano, Montale, Eco, Saba. Se proviamo a mettere in relazione le loro biografie e le loro bibliografie …

    • Ancora su “Biografie e bibliografie”

      Ancora su Biografie e bibliografie (1)Sono convinto che la biografia sia importante per comprendere l’opera di un autore o, meglio, le motivazioni che l’hanno indotto a scrivere e magari a scegliere certe tematiche invece di altre. Ma nella biografia vanno comprese le influenze che cultura e letteratura, cioè le letture fatte, la bibliografia esperita, hanno esercitato su di lui …

  • Natura e cultura | Siamo un tragico errore della selezione naturale? Le storie che ci siamo raccontati. La memoria e il piagnisteo. Quattro salti nella cultura (in offerta).
    • Natura e letteratura per cammini di viandanza

      Natura e letteratura per cammini di viandanza1 Marlon-Brando-in-Apocalypse-Now-1979Ad avvicinare coloro che sarebbero poi diventati i Viandanti delle Nebbie, prima ancora che nascesse l’amicizia, furono le comuni letture di libri nei quali il rapporto con la natura veniva proposto senza eccessive epiche parolaie. È stato quindi decisivo per ciascuno individuare le coordinate per le proprie letture in scrittori che avevano messo al centro della narrazione il rapporto con il bosco, la montagna, il mare o semplicemente con la quotidianità contadina …

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I Quaderni dei Viandanti

sentieri in utopia Uomo x Quaderni (2)I Quaderni sono nati con l’intento di raccogliere in volumetti e rendere disponi-bili per eventuali estimatori (?)i materiali pubblicati su Sottotiro review. E così è stato, almeno per i primi due o tre libretti. Poi la cosa ha ci preso la mano, e si è tra-sformata in una vera e propria impresa editoriale …

Quaderni logo

Gli Album dei Viandanti

sentieri in utopia x Album Viandante - Pietro Morando2Un viandante non è un viaggiatore. Non si limita a superare occasionalmente delle distanze, ma percorre degli itinerari, connota degli spazi. E dal momento che nemmeno è un pendolare, questi spazi, questi itinerari sono sempre diversi. Il viaggio è la sua vita, lo spostamento è la sua meta …

Album logo

Gli sguardistorti

UNASOS~1È il proseguo di Sottotiro review in modalità digitale, per quel che possiamo fare noi restii al digitale. Ci autorizziamo a lanciare degli sguardi nella rete che hanno la presunzione di proiettare delle occhiate “ostinate e contrarie” verso ciò che il quotidiano ci offre. Sono sguardistorti verso un mondo di cui dichiariamo la nostra difficoltà a comprenderne i meccanismi autodistruttivi, ma che ci stupiamo a scrutare per indagarne le distopie …

Nuovi sguardistorti2 - Bottone

La sottotiro review

sentieri in utopia x sottotiroSottotiro è una rivista nata nei primi anni novanta dello scorso secolo in Toscana. Dopo un paio di numeri e un lungo letargo è rinata in Piemonte, nelle colline ovadesi. L’intento era quello di costituire, nel suo piccolo, un tramite e un luogo di contatti, di scambi culturali, di amicizie e (magari!) anche di discussioni. Per un certo periodo lo è anche stata, e non solo a livello strettamente locale: non avrà inciso sull’opinione pubblica, ma ha senz’altro contribuito, tramite il comune impegno, le discussioni redazionali, gli incontri necessari per costruirla materialmente, a creare o a rinsaldare amicizie …

Sottotiro review

La Biblioteca del Viandante

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La Biblioteca raccoglie diverse opere attinte dalle fonti più disparate, che potrebbero riuscire interessanti per altri frequentatori del nostro sito. Avremmo potuto fornire semplicemente le indicazioni per rintracciarle, ma ci sembra di offrire un servizio utile proponendole in PDF, che consente di scaricarle direttamente in formato stampa. Si tratta in genere di testi di pensatori pochissimo conosciuti, o sconosciuti del tutto, difficilmente reperibili in commercio, oppure di antologie …

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Amici

La mostra è dedicata agli amici che in questi venticinque anni hanno percorso coi Viandanti un ultimo tratto della loro strada. Poi si sono congedati, ma il loro cammino non si è interrotto. Gli amici ci lasciano, ma non scompaiono: e oggi sono presenti con noi in questa sala.
Non vogliamo raccontarli, l’hanno già fatto loro stessi, ciascuno a modo suo. Chi volesse conoscerli meglio può trovarli sul sito (per Mario Mantelli, oltre ai suoi libri – Di cosa ci siamo nutriti e Viaggio nelle terre di Santa Marta e San Rocco – e ai quattro Quaderni di prose e di poesie pubblicati dai Viandanti, si possono leggere: Una raccolta di silenzi; Arrivederci, maestro!; Visite guidate nei giardini della memoria; Che belle figure!. Per Armando Cremonini, Il collezionista. Per Gianmaria Olivieri Un viandante parte in sordina. A Piero Jannon è dedicato l’Albo A spasso con Piero, Per Gianni Martinelli parlano le immagini de Il West nel fumetto italiano: sono quasi tutte tratte dalle sue raccolte).

Quelli che dormono sulla montagna

Quelli che dormono sulla montagnaQuando i Viandanti delle Nebbie si misero alla ricerca di riferimenti ideali si imbatterono quasi per caso negli Yamabushi. I riferimenti ideali sono importanti, soprattutto se sono abbastanza lontani nel tempo e nello spazio da rimanere ideali. Per noi gli Yamabushi erano perfetti: stavano dall’altra parte del globo ed erano praticamente spariti dalla circolazione da almeno un secolo e mezzo. In più, anche in piena New Age li conosceva nessuno (tanto che per un attimo l’idea di riesumarli ci ha sfiorato, e resto convinto che avremmo trovato adepti) e i loro rituali erano impegnativi solo sul piano fisico. Adoravano come noi le montagne, le salivano come noi, come noi le rispettavano, senza provare alcun bisogno di domarle e di sconfiggerle. Non c’era da cambiare una virgola nel nostro atteggiamento e nei nostri comportamenti. Gli Yamabushi sono quindi …

Quei cretini di Dunning e Kruger

Ariette 2 01I Viandanti delle Nebbie sono da sempre consapevoli della prevalenza del cretino, tanto da auspicare emendanti spedizioni di massa alla chiesa francese che ospita il sarcofago di San Menulfo, antico miglioratore delle sinapsi di chiunque introduca il capo nel suo apposito orifizio (rimando all’articolo “Il decretinatore”). Dò il mio piccolo contributo al dibattito presentando l’“effetto Dunning e Kruger”, scoperto nel 1999. Dunning e Kruger sono due simpatici psicologi che hanno dimostrato scientificamente il motivo per cui individui incompetenti in un campo tendano a sopravvalutare le proprie abilità …

Tracce e impronte

sentieri in utopia 11Il mondo lo si può “camminare” in vari modi, da soli o in compagnia, di fretta o in tutta calma, motivati da una scelta o spinti da una necessità; così come sono svariati i mezzi, oltre ai piedi, grazie ai quali si può viaggiare. Ma gli atteggiamenti fondamentali che inducono a incamminarsi per il mondo sono riconducibili in linea di massima a due: la semplice voglia di scoprirlo, magari in cerca di rifugio, e viverlo, oppure il desiderio di raccontarlo, studiarlo o conquistarlo.  Nel primo caso sulla polvere o sul fango della strada percorsa si lasciano soltanto delle tracce, che vengono prima o poi spazzate via dal vento del tempo o dilavate dalle acque, mentre rimangono fortemente impresse nell’animo; negli altri casi si marcano invece delle impronte, a volte talmente profonde e durature che quel mondo vanno anche a modificarlo. E qualche volta accade anche che le orme involontarie diventino letteralmente impronte rivelatrici, come nei casi di Laetoli, dell’isola di Calvert o del deserto del Nefud.

Le pagine qui raccolte sono dedicate a uomini che il mondo lo hanno percorso nell’una e nell’altra maniera, in piccolo o in grande, con differenti intenti e nei contesti temporali più lontani, accomunati comunque dal desiderio di conoscerlo e di lasciare una traccia, almeno scritta, del loro passaggio. Si va dai grandi esploratori e dai camminatori instancabili a personaggi semisconosciuti, ai dilettanti del camminare, dell’arrampicare o del viaggiare, in una varietà che spiega, anche se forse non giustifica, il “vario stile” delle trattazioni. La continuità tra costoro è assicurata non da ciò che hanno fatto, hanno visto o hanno descritto, ma dallo spirito col quale hanno esaltato una naturale disposizione biologica traducendola in una scelta culturale.

Quanto poi tale scelta sia stata positiva o meno per l’umanità lo lasciamo discutere agli osservanti del “politically correct”: per quanto ci riguarda, crediamo si tratti di una diatriba stupida, o perlomeno inconcludente, perché quello di ampliare e allontanare sempre più il proprio orizzonte è per l’uomo un istinto, dettato dalla necessità di sopravvivenza, sin dal momento in cui ha assunto la postura eretta. Forse non ha ottemperato appieno all’imperativo di Ulisse, e nel suo peregrinare ha perseguito più “canoscenza” che “virtute”: ma questa è un’altra storia, e l’affronteremo altrove.

Mutazioni

mutazioniLe vespe sono tornate a nidificare nella mia libreria. Accade da cinque o sei estati, prima non si era mai verificato. Probabilmente ne è entrata una per caso, ha apprezzato l’ambiente e lo ha comunicato alle altre. Le vespe, a differenza dei cristiani, comunicano molto e hanno una formidabile memoria della specie. Magari si tratta delle discendenti di quella prima esploratrice, immigrate di terza, quarta o quinta generazione, che ormai considerano casa mia anche la loro …