Le motivazioni di un viaggio

Copertina per incontri tematici2di Stefano Gandolfi, 3 dicembre 2022 

Pubblichiamo la trascrizione di un momento dell’incontro “Viaggi e viaggiatori”, nell’ambito della mostra sentieri in utopia.

Perché viaggiare?

Bruce Chatwin, autore di un libro il cui titolo era già esaustivo (“Anatomia dell’irrequietezza”) si chiedeva, con una domanda ovviamente retorica: “perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due [mesi]?”.

In questa domanda, e nelle sue mille risposte possibili, vi è già tutto il succo della questione. Al netto di ogni considerazione collaterale, o si ama viaggiare oppure no. A prescindere da tutte quelle che sono portate avanti come giustificazioni, scuse più o meno plausibili:

Sì, mi piacerebbe viaggiare, ma …:

  • sono troppo stressato dalla vita quotidiana e in ferie voglio rilassarmi su una spiaggia …
  • se non mangio la pasta o le lasagne sto male …
  • se non dormo nel mio letto sto male …
  • non conosco le lingue …
  • non sopporto le zanzare, gli insetti, i moscerini, i coccodrilli, gli animali feroci mi fanno paura …
  • sono a disagio con gli estranei …
  • ho paura di volare, dei treni, delle navi, degli incidenti stradali …
  • non mi piace viaggiare da solo …
  • non mi piace fare viaggi di gruppo …
  • e poi in definitiva viaggiare è bello, ma noi siamo in Italia, il paese più bello del mondo, con la cucina più buona e la gente più simpatica …

Tutte frasi che mi sono state dette, non le ho inventate, da persone che si sentivano in dovere di giustificarsi, quando invece dovrebbero essere fiere della loro scelta; almeno sono consapevoli dei loro limiti, o per meglio dire della loro indole stanziale, di cui non c’è nulla di cui vergognarsi.

Perché esistono due grandi categorie di umani, gli stanziali e i nomadi, i vagabondi, gli irrequieti; sono sempre esistite (i cacciatori/raccoglitori e i coltivatori/allevatori) e sono due categorie entrambe necessarie per spiegare la storia e l’evoluzione del genere umano.

In una società nella quale ovviamente non esistono quasi più i cacciatori/raccoglitori (salvo che in piccole, circoscritte comunità, peraltro in via di estinzione in quanto sempre più osteggiate e minacciate da un modello di vita dominante totalmente agli antipodi), può essere più difficile distinguere gli appartenenti ad uno dei due gruppi, e anche per ogni singolo individuo scoprire la propria vera identità, spesso, quasi sempre, soffocata da impedimenti veri, quelli del lavoro, della famiglia, della necessità della sopravvivenza propria e delle persone di cui si è responsabili.

Talvolta qualcuno si scopre viaggiatore al crepuscolo della propria vita, dopo la pensione (e in questo caso è più corretto dire all’inizio di una nuova vita!), e altri lottano tutta la vita per poter utilizzare al meglio le ferie, per soddisfare la propria passione, sia pure nei limiti economici, temporali e ultimamente anche sanitari/epidemiologici (nonché bellici) che la situazione impone.

I più ostinati ci riescono, a costo di sacrifici, di rinunce nell’arco dell’anno per poterselo permettere, dimenticando di essere stanchi perché fino alle ore otto della sera precedente hanno lavorato in modo selvaggio, accumulando turni e rinunciando a giorni di riposo per avere più giorni di ferie: per poi bruciare tutto in due o tre settimane, nelle quali vorrebbero vedere, conoscere, annusare il mondo, portarsi a casa il maggior numero di ricordi possibile, con la frenesia del cambiamento di vita, seppure temporaneo, e allo stesso tempo con l’angoscia del ritorno ineluttabile. E rimpiangendo i grandi viaggiatori del passato, per i quali spesso esisteva solo la data di partenza.

In quelle due o tre settimane si vivono le emozioni della conoscenza, la prese di coscienza della relatività del proprio piccolo mondo, la curiosità di scoprire luoghi, persone, culture, abitudini, stili di vita, religioni, cibi, passatempi, giochi, musica, ogni forma d’arte e di cultura, ci si mette in gioco valutando la propria capacità di adattarsi ad abitudini anche radicalmente diverse dalle nostre, a interagire con persone che a casa loro posseggono la dignità e la grandezza che gli compete e che spesso, tragicamente, perdono quando sono costretti ad emigrare, a fuggire per necessità economiche, politiche, militari, religiose.

Si scoprono sotto una luce completamente diversa situazioni sociali, antropologiche che là ci risultano assolutamente plausibili mentre a casa nostra apparirebbero perlomeno problematiche. Si impara a fare confronti, valutazioni non più e non solo in termini di meglio e peggio, di superiorità ed inferiorità, ma semplicemente in termini di differenza, senza alcuna arbitraria pretesa di sentirsi migliori di altri. Si scopre qualcosa che poi sarebbe prezioso, indispensabile, riuscire a portarsi a casa per non dimenticarsi di queste valutazioni.

Le motivazioni di un viaggio (4)

Il viaggio offre anche queste opportunità, che più che mai sono preziose per rompere il circolo vizioso di pregiudizi, atteggiamenti razzisti o classisti, odi razziali o di genere che appartengono, spesso, a chi non oltrepassa il confine del piccolo mondo in cui vive.

Il viaggio è un arricchimento, sia per motivi nobili, altruistici, ma anche semplicemente per il proprio godimento personale, per la propria indole di nomadi e di irrequieti; è un antidoto alla monotonia ed al peso di una vita che spesso ci stringe come un cappio e ci costringe in recinti sempre più stretti, ci soffoca in una infinita serie di limitazioni, di rinunce sempre più gravose in un circolo vizioso sempre più perverso e senza via d’uscita.

È a mio avviso, e non solo mio, uno dei modi più nobili di fare qualcosa che non sia strettamente indispensabile per la sopravvivenza fisica, qualcosa che sia anche un po’ inutile, ma che dà ossigeno ad esigenze e pulsioni più remote, aldilà della pura e semplice necessità di arrivare alla sera per ricominciare la mattina successiva.

Un grande alpinista francese degli anni Sessanta, Lionel Terray, definì sé stesso e i suoi sodali “i conquistatori dell’inutile”. Questa definizione penso si possa applicare anche alla categoria dei viaggiatori, degli irrequieti, dei navigatori solitari, se per inutile si intende non produttivo, non finalizzato al puro lavoro, alla crescita economica propria e della società; se si intende insomma qualcosa che si frappone alla logica del profitto e del fatturato.

Questa “inutilità” spesso viene accostata anche a tutte le categorie artistiche, della musica, della pittura, della letteratura; quante volte si sente dire che “con la cultura non si mangia”, dalla famiglia e, ahimè, anche magari dalla scuola e dalle istituzioni? Certo, il viaggiatore perlomeno è meno esecrabile delle altre categorie sopra menzionate per i motivi detti prima; perché viaggia nelle ferie, due o tre settimane, poi torna a casa e ricomincia a lavorare e a produrre. Quindi è meno minaccioso e sovversivo rispetto ad un artista.

Dall'Appennino alle Ande (20)

Quando si manifestano i sintomi che preludono alle motivazioni del viaggio? Spesso c’è un po’ di genetica, in genere qualche familiare, parente, cugino, di quelli un po’ strani, bizzarri, magari una “pecora nera” della famiglia, che a Natale o Pasqua era sempre in giro per il mondo e in estate lo stesso. Che ti piombavano in casa a salutarti di ritorno da Marte o dalla Luna con abiti, oggetti, soprammobili strani e inusuali, che ai genitori provocavano scandalo e imbarazzo mentre ai bambini, chissà perché, suscitavano semplicemente curiosità e fascino, ancor di più se alimentato dai racconti dei posti visitati. E che dopo tanti anni ti risvegliavano un ancestrale desiderio di visitare uno di quei posti magici ed esotici descritti dal cugino strambo.

Poi le letture certamente. Fin da bambino con Salgari e tanti altri, il cinema quando ce n’era l’occasione, magari con Bud Spencer e Terence Hill che andavano benissimo ad alimentare la fiamma. E poi, a scuola e a casa, quella strana passione per la geografia che per tutti gli altri erano solo noiosissime cartine mute, atlanti geografici incomprensibili fatti di laghi, fiumi, confini a nord, sud, est, ovest, quanto grano, quante industrie, quanti pescatori e dove finiscono gli Appennini e cominciano le Alpi.

Ma per me erano grimaldelli per scoprire un mondo totalmente nuovo, affascinante, da comprendere ed esplorare, Erano mappe, carte stradali con una miriade di simboli da convertire in luoghi reali, in strade, ponti, tunnel, città con i loro intrichi di vie, palazzi, parchi, stazioni della metropolitana, campi e palazzetti sportivi, teatro di scorribande, imprese, gesta epiche degli eroi della strada … era una mappa di New York regalatami dal cugino giramondo sulla quale mi studiavo le strade, i percorsi, le gesta dei protagonisti del film “I guerrieri della notte”, erano le mitiche carte Michelin dell’Africa dove studiavo e sognavo spedizioni on the road dalle coste mediterranee fino a Capo di Buona Speranza. Erano le mappe escursionistiche dell’Himalaya, del Nepal e del Tibet che ho divorato e studiato a memoria quando è esplosa la passione per la montagna, sincrona con quella dei viaggi. Erano i libri di Chatwin, Sepulveda, Coloane, Mutis che non avrebbero avuto alcun significato se non avessero avuto una solida e precisa correlazione con le relative coordinate geografiche, e che mi sono portato in Sud America a fianco delle Lonely Planet.

E poi erano gli amici, i compagni di classe, più fortunati, più intraprendenti di me, oppure quelli che avevano più coraggio nell’opporsi ai dinieghi dei genitori ed andavano nel Sahara con una “Due Cavalli” o una “R4”, scassatissime, che poi magari abbandonavano là vendendole per due soldi per comprarsi il biglietto della nave di ritorno; erano i loro racconti di queste epiche imprese, veri e propri riti di iniziazione alla vita reale. Sempre insieme a loro, prima e dopo il viaggio, a studiare le Michelin del Nord Africa, per viaggiare almeno con la fantasia.

La geografia dunque, quello strumento magico che ti permette di trasformare simboli in realtà.

Quella geografia negletta, disprezzata e quasi scomparsa dalla scuola, salvo poi ritornare prepotentemente in auge sotto forma di geo-politica, quello strumento indispensabile per poter perlomeno tentare di comprendere cosa è successo nel mondo negli ultimi decenni e, quotidianamente, accade oggi, in Europa (Ucraina) in Asia (Tibet, Afghanistan, Taiwan, Nord Corea…), in Medio Oriente (Irak, Iran, Siria …) in Africa (Somalia, Etiopia, Nigeria …), in Sud America, praticamente in tutto il pianeta, ove è impossibile anche solo vagamente spiegarsi i fatti che accadono senza collocarli in una dimensione geografica e storica.

E quindi anche quei professori che si ricordano a distanza di quarant’anni, che ti hanno fatto innamorare della storia e della geografia, spiegandoti che l’umanità non è fatta solo di date, luoghi, cifre da imparare a memoria.

E poi i primi viaggi coi genitori, con un padre entusiasta e forse più bambino di me nell’eccitazione e nella curiosità di scoprire posti nuovi. Un viaggio in Polonia nel 1972, in piena era della “Cortina di Ferro”, insieme ad una coppia di amici di famiglia, grandissimi viaggiatori ed avventurieri, noi in quattro su un Alfa Romeo, loro in due su un Maggiolino Volkswagen, fermi per ore alla frontiera fra Cecoslovacchia e Polonia con le auto letteralmente smontate in cerca di dollari che erano stati nascosti nelle scarpe del viaggiatore più innocente e meno sospettabile, ovvero il sottoscritto tredicenne. E poi il cambio dei dollari come in film di spionaggio e di guerra fredda, in mezzo alla piazza principale di Cracovia piena di folla a mezzogiorno, con una donna polacca che ci ha affiancato per uno scambio di buste senza parlarci né guardarci, previo segno di riconoscimento concordato tramite conoscenza sicure…. cos’altro può crescere in testa ad un ragazzino che a Praga, di ritorno, ha scattato di nascosto (dai genitori e dai soldati) un intero rullino di foto ad una parata militare, cosa vietatissima ovviamente, dato che all’epoca non si trattava di folklore per i pochissimi turisti, ma di situazioni estremamente serie e con poco sense of humour del governo e della polizia?

Ovviamente non c’è bisogno (e non ce n’è mai stato, perlomeno da parte mia) di manifestazioni di coraggio, di spavalderia ed esibizionismo per viaggiare in modalità appena un po’ diversa da quella puramente turistica.

L’emozione del viaggio è tutta interiore, dentro di sé. Inizia dal divano e a tavolino, con un libro in mano, un racconto di viaggi, una guida turistica, una cartina, due amici con cui programmare il viaggio. E prosegue sulla strada, dove il viaggio inizia già al casello di Castelceriolo, di San Michele o di Alessandria Sud. Ed il percorso è il viaggio, la meta è solo un dettaglio, un plus che ovviamente fa piacere raggiungere, ma che in molte circostanze rappresenta solo il coronamento di un’avventura già memorabile e ragguardevole. Capo Nord è il pretesto, il primo chilometro e i successivi tremila sono la vera essenza del viaggio.

Le motivazioni di un viaggio (2)

Anche il viaggio in aereo, evoluzione indispensabile ed inevitabile quando i confini e le mete si allontanano dall’Europa, è sempre un’emozione. Lo rimane anche dopo tantissimi voli lunghi, noiosi e disagevoli per chi come me è alto un metro e novanta e non vuole accendere un mutuo per pagarsi la prima classe.

Ma se si affronta il viaggio con quello spirito e quella curiosità del bambino che è dentro in noi, anche le ore di attesa all’aeroporto, specialmente di qualche città straniera, rappresentano un’avventura; girovagando fra i negozi per curiosare fra i souvenir del posto senza comprare nulla, mangiando qualcosa di locale anziché i soliti cibi anonimi e globalizzati … Senz’altro questo farà sorridere e provocherà qualche sguardo di compatimento da parte dei cosiddetti veri viaggiatori, quelli scafatissimi, che non si sorprendono più di nulla, che sono uomini e donne di mondo e che guardano tutto con superiorità. Ma di ciò non mi importa nulla, io resto il bambino che ogni volta guarda ogni cosa come se fosse la prima volta. E se e quando non sarà più così, quel giorno forse smetterò di viaggiare.

Quando i disagi non saranno più sopportabili, quando non faranno più parte del gioco, dell’avventura, della sfida con sé stesso ad accettare gli inconvenienti, le scomodità, quando il cibo sarà immangiabile, le persone e i compagni di viaggio diventeranno insopportabili, i letti scomodi e durissimi, i panorami monotoni, quando la curiosità sarà scemata, quando non verrà più voglia di scattare alcuna fotografia, quando il taccuino per gli appunti rimarrà bianco, sia durante il viaggio che dopo, quando non ci sarà più nulla da raccontare agli amici perché non si è più riusciti a raccontare nulla a noi stessi, quando si avrà voglia di tornare a casa, quando di fronte alla possibilità di fare un fuori programma si preferirà tornare in camera in albergo perché ci si sente stanchi, quando si proverà nostalgia per la nobildonna palermitana ultraottantenne che in Namibia, con una frattura di femore in atto si ostinava a voler proseguire il viaggio in fuoristrada… ecco, in quel momento, come il fuoriclasse sportivo che anticipa il declino ritirandosi in pieno splendore, bisognerà avere il coraggio e l’obiettività di ripensare alla propria vita.

Ed il viaggio continuerà, certo che continuerà, con altre modalità, con i ricordi, riordinando gli appunti di viaggio, le foto, i racconti ai giovani che viaggiano on-line con le immagini dei social.

Perché il viaggio, il vero viaggio, non è un hobby a tempo perso, ma è qualcosa che si ha dentro di sé e fa parte della propria vita, non è un elemento di contorno, non è qualcosa che si affronta solo se non si è troppo stanchi, solo se si “scende” in alberghi di lusso, solo se ci sono garanzie totali di confort di buon esito a priori. È una dimensione dello spirito.

Le motivazioni di un viaggio (5)

Viaggiare significa consumare le piastrelle dei terrazzi di casa durante il lock-down per la COVID, significa guardare fuori dalla finestra se sei immobilizzato a letto per un intervento chirurgico, per esplorare le strade sotto casa e scoprire qualcosa di nuovo sui marciapiedi e nei giardinetti di fronte.

Significa guardare Google Maps per ripercorrere percorsi alpinistici in Himalaya, sulle Ande, sulle nostre Alpi, e percorrerne di nuovi con la fantasia, ma quella fantasia che stringe con rabbia il sogno e la speranza di poterli percorrere davvero.

Significa, ogni volta che sopravviene un problema fisico, di salute, un’intolleranza alimentare o quant’altro, affannarsi a programmare un viaggio che sia compatibile con questi problemi, senza rinunciare a farlo, semmai studiando tutte le contromisure necessarie.

Significa essere sempre pronti a preparare i bagagli, a tenere a portata di mano i borsoni, a verificare periodicamente i passaporti, le attrezzature per i trekking, i vestiti, il materiale fotografico. Anche nelle giornate in cui magari non riesci nemmeno ad uscire da casa.

Significa non arrendersi, prendere ad esempio i sempre più frequenti modelli di comportamento delle persone che con disabilità importanti portano a termine imprese meravigliose, sportive o “semplicemente” turistiche.

Significa ostinarsi a studiare le lingue, anche quando sembra un’impresa disperata se non lo hai fatto da giovane studente, significa imparare quattro frasi di nepalese e inorgoglirsi di stupire uno sherpa che d’estate lavora in un nostro rifugio di montagna, salutandolo nella sua lingua.

Significa rimettersi in gioco ogni volta, alimentare nuovi sogni, rinnovare l’entusiasmo, la curiosità e l’ingenuità del bambino che è in noi, quella curiosità che è probabilmente, aldilà della fortuna di non avere problemi seri di salute, il miglior antidoto all’invecchiamento psico-fisico.

Significa rimpiangere quella stanzetta senza armadi, senza termosifone, senza bagno, senza arredi, con un materasso su una rete, a 4500 metri di altitudine in Bolivia, il giorno prima di salire su un vulcano di 6000 metri per poi ridiscendere facendo in tempo a mangiare una pastasciutta al ragù preparata a metà pomeriggio dai padroni di casa.

Significa ricordare l’espressione di due ragazzini di 14 anni che dopo una settimana passata a dormire in tenda in mezzo alla savana, in Botswana, fra leoni ed elefanti che ci passavano vicino, alla prima notte di civiltà in un buon albergo, confortevole, ci supplicavano di riportarli in mezzo alla savana, e chissenefrega se non c’era la doccia con l’acqua calda, se non ci si lavava, ma si pasteggiava alle sei di pomeriggio con gin-tonic e noccioline in barba a quel che avrebbero potuto pensare i genitori che ce li avevano affidati…

Significa che, ogni volta che sull’autostrada Voltri-Gravellona, al bivio dopo Casale, si svolta per andare verso Santhià e la valle d’Aosta, si prova un desiderio incontrollabile di tirare diritto per andare verso Malpensa e provare a vedere se riesce ad imbarcarsi per qualche destinazione … e l’alternativa non è un campo di prigionia, ma la nostra casa di montagna, unica passione che rivaleggia con quella per i viaggi, dicotomia che si può risolvere solo, come abbiamo fatto tante volte, organizzando un viaggio che preveda anche un trekking e/o una salita su una montagna.

Viaggiare è vivere, arricchendosi di conoscenza, come disse il sommo Poeta. Vivere è viaggiare.

Dall'Appennino alle Ande (31)

Namaste

Nepal e Tibet

di Stefano Gandolfi, 8 gennaio 2021, vedi l’Album 

​ PARTE PRIMA – KATHMANDU

​ Namaste!

​ Overdose di emozioni

​ Pashupatinath

​ Bodhanat

​ PARTE SECONDA – LE MONTAGNE

​ Prossima fermata: Indiana Jones City

​ L’inizio di un trekking

​ Big foot ai piedi dell’Everest

​ Round Annapurna Trekking, relazione tecnica ed esperienza umana

​ PARTE TERZA – IL TIBET

​ Un medico a 4500 metri di quota

​ Vent’anni dopo

​ Tibet, ultima frontiera

N.d.A.: per una mia scelta personale, ho deciso di non mettere didascalie alle fotografie, per sottolineare la sensazione che abbiamo ripetutamente provato di conoscere, attraversare e amare luoghi senza tempo, senza spazi fisici, quasi privi di una dimensione materiale definita; infine magari anche per indurre un po’ di curiosità che sarò ben felice di soddisfare! 

PARTE PRIMA – KATHMANDU

Namaste!

Buon risveglio, se così si può definire il graduale passaggio da quel fastidioso e precario stato di dormiveglia che ha caratterizzato le lunghe ore del viaggio aereo in Nepal alla riacquisizione della consapevolezza della realtà.

La realtà di un non-luogo quale è questa scatola volante sospesa a 10,500 metri sul livello del mare, dove i tempi e la vita sono scanditi dai campanelli per chiamare le hostess, dai pianti dei bambini inconsolabili dalle loro madri, dal passaggio del carrello con i suoi acri e fastidiosi aromi che preannunciano l’arrivo della colazione plastificata e iperlipemica. Se state arrivando per la via più breve, direttamente dall’Europa e dalla penisola arabica, avrete la fortuna, se il cielo non è immerso nelle nuvole, di vedere alla vostra sinistra l’Annapurna e il Dhaulagiri, i primi due “ottomila” himalayani, e questa visione, mentre starete spalmando un po’ di burro su una fetta di pane scongelato e sulle vostre arterie, vi libererà una scarica di adrenalina pura, perché vi verranno in mente i miei racconti, le storie dei nostri meravigliosi viaggi sospesi fra sogno e realtà nelle terre che sfidano il cielo, dove tutto appare incredibile e allo stesso tempo plausibile. Mentre berrete un po’ di caffè sintetico ed un orange-juice ipersaturo di conservanti nell’inutile tentativo di scrollarvi di dosso l’apatia delle quattordici ore di immobilità forzata, mentre farete la coda per andare in bagno prima che il 747 cominci a scendere inchiodandovi alle cinture di sicurezza, mentre respirerete ancora un po’ l’aria viziata e depressurizzata (grossolano surrogato dell’aria sottile che vi ripulirà i polmoni nel lungo trekking nella valle del Khumbu) vi staranno tornando in mente tutti i motivi per cui avete intrapreso questa avventura.

E quando scenderete le scalette del Boeing e toccherete il suolo del vecchio e decrepito “Tribhuvan International Airport”, (N.d.A.: attualmente, nel 2020, ristrutturato e moderno!) e sarete accolti da un pugno nello stomaco di afa e malessere da fuso orario, intruppati nella ressa per il check insieme a decine di trekkers, alpinisti e turisti di ogni dove, per prima cosa cercherete disperatamente traccia di quella spiritualità che nei giorni successivi cambierà definitivamente i vostri cuori, perché se vi ho fatto venire fin qui, e se ora vi sto aspettando fuori dai cancelli, l’ho fatto nella sicurezza che dopo questo viaggio nulla sarà più come prima. E allora mettetevi con tranquillità in coda ai banconi, fidatevi di me, tenete a portata di mano i vostri passaporti e cinquanta dollari per il visto, ne varrà la pena…

E allora “welcome in Kathamandu, good morning, namaste!”

“Namaste”. Quante volte lo sentirete …

… e altrettante volte lo ripeterete. All’inizio vi sembrerà un po’ forzato, forse anche ridicolo, vi sembrerà di scimmiottare i locali per sembrare integrati all’atmosfera e alle loro usanze, poi pian piano diventerà naturale, non solo la parola, ma tutti i significati che nascondono queste sette lettere, ciao, buongiorno, benvenuto, ma anche, scendendo in profondità, “saluto la scintilla che è in te”, e allora già questo vi farà capire da un saluto qualcosa di chi vi starà di fronte, di chi come una meteora vi sfiorerà nel lungo cammino, magari con la schiena piegata da un carico di fascine o da assi di legno, con la testa bassa in segno di rassegnazione per il peso della vita, ma anche di rispetto per l’ospite che incontra, questo strano personaggio venuto da un altro mondo per cercare di capire dalla loro misera vita come si può vivere meglio nel loro mondo. Un mondo dove mai nessuno si sognerebbe di camminare per le strade del centro di Milano vestito di stracci spingendo un carretto pieno di legna, un mondo dove a quarant’anni si è nel pieno della vitalità e non già al termine di una breve, faticosa esistenza. Eppure noi vogliamo andare a casa loro a cercare risposte: che assurdità, vero?

I soliti occidentali benestanti, annoiati dalla vita, che perseguono il richiamo del misticismo orientale alla ricerca del santone che li porti al traguardo della spiritualità, possibilmente in quindici giorni perché poi bisogna tornare al lavoro? No, ne sono già passati tanti, hanno preso le loro pillole di saggezza, hanno fumato le loro canne, hanno portato a casa i sandali e le tuniche arancioni, adesso ben nascoste in qualche armadio, hanno “cambiato vita” senza cambiare nulla, hanno ripreso i loro ritmi, le loro usanze, i loro riti.

Non li condanno, non è facile fare la rivoluzione, fuori e dentro di sé, tutt’al più riesci a fare un po’ di casino, a cambiare look, a passare qualche serata con gli amici con un CD di musica misticheggiante e con un po’ di erba di quella buona, e poi al lunedì ricominci a produrre!

 

Ma allora …? È tutto inutile? Siamo venuti qui per nulla? Non ci sono risposte?

Ci sono, ci sono, non è facile trovarle, questo no… ma le cose facili… che gusto c’è? Ci sono un po’ di ostacoli da superare, robetta… soltanto mille luoghi comuni, la spiritualità il misticismo, il mito del “buon selvaggio” applicato genericamente a tutti i popoli del terzo e quarto mondo, la fretta e la superficialità della nostra cultura e del nostro stile di vita, la lingua, la comprensione della loro religione… la nostra sempre minore attitudine ai rapporti umani (anche fisici..) che ci rende goffi e impacciati anche nelle espressioni più semplici di relazione con gli altri, mettiamoci anche un po’ (tanta..) repulsione iniziale alla sporcizia, agli odori, a tutto ciò che è intenso per gli occhi, le orecchie, il naso e la pelle.. un po’ di fatica fisica all’inizio della marcia, la necessità di abituarsi al loro cibo.

Vabbe’, che sarà mai? Ci facciamo intimorire?

No! Credetemi, ne varrà la pena… se è una sfida, non vediamo l’ora di metterci alla prova, vero? Le risposte ci sono, basta solo avere gli occhi e il cuore per cercarle. E allora cerchiamole, dove cominciamo?

OK, avete passato i cancelli dell’aeroporto, decine di folcloristici (e un po’ molesti) ragazzini vogliono impossessarsi del vostro bagaglio per indirizzarlo al taxi o alla jeep del loro cugino/fratello/amico… non preoccupatevi, c’è uno scassatissimo pulmino coreano che ci aspetta con il mio amico Paisang che ci porterà nel cuore dell’inferno, entreremo, fisicamente e metaforicamente, nell’anima della città, questo straccio lacero e sanguinante che pulsa di una vita inimmaginabile.

Non lasciatevi prendere dai pregiudizi o dall’angoscia, inizia un viaggio dentro le strade di Kathmandu, ma soprattutto un viaggio dentro noi stessi, senza GPS!!

Capitolo primo

Overdose di emozioni

(N.d.A.: attualmente, nel 2020, molte cose sono cambiate; a Thamel, il centro urbano di Kathmandu, vige la zona pedonale e alla sera non c’’è più traffico motorizzato, dopo il terremoto si sono fatti molti sforzi per modificare gli aspetti più drammatici dell’inquinamento e per ammodernare le infrastrutture).

Cosa andiamo a cercare in questa moltitudine di stradine con gli scarichi a cielo aperto, con lo sterrato al posto dell’asfalto anche in pieno centro, con le migliaia di moto giapponesi che ti passano anche sui piedi, se non sei pronto a scansarti, ma sempre con estrema cortesia ed un sorriso stampato sugli occhi del folle guidatore, con i micro-taxi coreani incolonnati in un assurdo serpentone, con l’autista che dispone di almeno quattro mani perché due sono sul volante, una sul cambio e una perennemente impegnata a suonare il clacson (N.d.A.: dal 2017 è stato vietato per legge il suono del clacson, forse qualcosa sta cambiando), non si capisce bene se per abitudine, per noia, per salutare gli altri guidatori, per intimorire i pedoni o semplicemente perché c’è (il clacson!), con il codice stradale sfidato, sbeffeggiato, interpretato, ma con un numero di incidenti, tamponamenti e scontri incredibilmente basso rispetto a quanto sarebbe lecito aspettarsi, con lo sbiadito ricordo dell’austero regolamento inglese, con la guida a sinistra che non disdegna traiettorie anche al centro, a destra, sui marciapiedi, ovunque cioè vi sia spazio fisico per conquistare strada e continuare a spingersi avanti, non si sa bene dove e perché, ma comunque sempre avanti..

E poi cosa cerchiamo quando finalmente, frastornati, con gli occhi e le narici già impastati dalla polvere, riusciamo ad entrare in una stradina così stretta da non permettere l’ingresso delle auto o dei camion (ma loro ci tentano lo stesso, con effetti devastanti sulle fiancate dei mezzi!) e scopriamo che è ancora più pericoloso di prima perché il fondo stradale è totalmente ricoperto di frutta e verdure marcite cadute dalle bancarelle, che si vanno a mischiare con il perenne strato di unto che ricopre il selciato, nonché con gli avanzi dei cibi mangiati e consumati per strada a qualunque ora del giorno e della sera dagli abitanti di Kathmandu.

Forse andiamo a cercare lezioni di stili di vita? Vogliamo vedere se mangiano più sano di noi? O se sono più adattati di noi a sopravvivere a smog, inquinamento, fogne a cielo aperto, germi, virus, parassiti, spore, muffe, tutto ciò che basterebbe a sterminare in un giorno un esercito di igienisti, infettivologi e brave persone rispettose dell’igiene e delle buone e vecchie regole del buon senso insegnateci dalla nonna?

Fermiamoci un attimo, respiriamo, smettiamo di pensare, sì, perché da quando abbiamo fatto i primi metri fuori dall’aeroporto non avremo smesso nemmeno per un secondo di andare fuori giri coi neuroni; non dite di no, è inevitabile, succede a tutti: cominciano a venire in mente i racconti degli amici che sono stati in India e nel sud-est asiatico, in Africa o in qualunque altro paese del terzo o quarto mondo, tutte le letture di viaggio e di avventura, i film, i video in rete o sui canali di National Geographic. Un po’ pensiamo di esserci abituati, ma la prima regola del viaggiatore dice che nulla di ciò che ci è stato raccontato, descritto, fatto vedere, può anche solo lontanamente reggere il peso della realtà e del contatto diretto con essa: questo vale per la natura, per gli animali nei safari, per i capolavori dell’uomo (vuoi mettere un Monet visto dal vero o su un libro d’arte?), c’è troppo di più: il contatto fisico, il caldo, il freddo, l’afa, gli odori.

Gli odori… non potrei pensare di essere stato veramente in Tibet se non mi portassi dentro per sempre il ricordo dell’odore del burro di yak rancido che ti prende alla gola e poi al cervello, come un crack, quando entri in un monastero buddhista: lo senti, non lo vedi, ma è appiccicato alle pareti, è dentro gli enormi bracieri dove alimenta le fiammelle dei lumini votivi, è sui pavimenti unti i e lisciati da migliaia di passi dove rischi di scivolare e farti male, è nelle mense dei monaci dove costituisce l’alimento più abbondante e calorico della loro alimentazione, è addosso ai vestiti ed all’epidermide dei pellegrini, da decenni in perenne movimento sulle strade della loro fede.. è mescolato al loro sudore, alla polvere, alla loro stessa vita, inscindibile…

Signori scienziati, maestri della tecnologia, avete costruito meravigliose macchine fotografiche e videocamere, quando riuscirete ad inventare qualcosa che catturi gli odori? Che ci permettano di non impazzire quando, nel gelo del nostro inverno climatico e mentale, guardando le foto ed i video full HD con gli amici, cercheremo inutilmente di spiegare a loro, e di ricordare a noi stessi, quegli acri, fastidiosi, asfissianti, nauseabondi, eppure meravigliosi, vitali, stimolanti odori? Senza i quali ci sembrerà di essere dei ciechi che vogliono ricordare i colori di un temporale sulla steppa tibetana o dei sordi che tentano di far risuonare nella mente i mantra dei monaci buddhisti. Sì, fermiamoci un attimo e fermiamo i pensieri, i giudizi: non si può adesso, adesso si può solo vedere, sentire, immagazzinare dati; non creiamo un conflitto con le nostre menti, con la nostra cultura, con i nostri pregiudizi; poi, forse, verrà il momento della sintesi e dell’elaborazione. È troppo presto, adesso, per cominciare a entrare nel conflitto fra il bene ed il male, fra la povertà ed il benessere, fra l’igiene e la sporcizia, fra lo spreco della ricchezza e la frugalità obbligata della miseria, fra le malattie dell’eccesso e le malattie della privazione: è inutile arrovellarsi per i classici sensi di colpa alla vista dei primi bambini poveri che chiedono l’elemosina (ma non sempre..) e che sguazzano nel rudo in mezzo alla strada (sempre!): è inutile andarsi a ripassare velocemente il capitolo della Lonely Planet dove ti spiega se è meglio dare degli spiccioli agli scugnizzi piuttosto che delle biro; la cioccolata e le caramelle no (fanno venire la carie), i quaderni senz’altro sì, i cappellini e le magliette sì ma senza esagerare (poi si convincono che tutto gli è dovuto..): accidenti, se parti a 200 all’ora tutto diventa subito complicatissimo, anche fare del bene, e allora? Allora imbottiamoci di una adeguata dose di cinismo, mettiamoci una corazza per i primi giorni, non facciamoci sopraffare dai sensi di colpa (non salviamo nessun bambino con i nostri sensi di colpa…) e rimandiamo ogni nostra partecipazione attiva a quando perlomeno ci saremo abituati ad ogni marciapiede che calpestiamo ed alla vista di ogni suo occupante.

Capitolo secondo

Pashupatinath

Un vecchio autobus di linea indiano arranca tra le moto giapponesi e i taxi coreani in un continuo slalom fra bancarelle di ogni genere disseminate fra strade e marciapiedi, il mantra ossessivo del clacson pigiato nell’inutile tentativo di disciplinare le colonne di pedoni che un po’ camminano, apparentemente senza meta, un po’ si fermano a curiosare fra i carretti degli ambulanti e le botteghe seminascoste dalle loro stesse masserizie che occupano quasi tutto lo spazio della porta d’ingresso; i bambini giocano nella polvere, vacche sacre pitturate di sgargianti colori per una delle molteplici feste induiste stazionano indifferenti a tutto questo spettacolo di varia umanità; l’odore acre della vita che ricomincia ostinatamente ogni mattina, l’odore acre dei cibi piccanti che danno ristoro alla gente fin dalle prime ore del giorno; un senso profondo di inquietudine alla visione di questa sporcizia quasi ostentata e comunque accettata; un santone avvolto in una tunica giallo-arancione, con le unghie grottescamente lunghe e la barba incolta, accovacciato nella classica posizione di meditazione a gambe incrociate, dispensa ipotetiche formule di saggezza nei punti nevralgici del traffico dei turisti; chiede poche rupie per una fotografia, uno scatto rubato e non pagato è sufficiente per smascherare la sua apparente imperturbabilità.

Donne di origini indiane, dai lineamenti nobili, austere e senza età, indossano i loro bellissimi “sari” rossi con il portamento fiero di una modella occidentale; mentre attraversiamo il ponte sul Baghmati che ci conduce nel cuore di Pashupatinat, una bellissima ragazza di non più di vent’anni, appoggiata sulla balaustra con lo sguardo perso sulle torbide acque marroni, ci mostra lo splendore dei tratti genetici del suo miscuglio di cromosomi indiani, cinesi, mongoli e chissà quale sangue ancora. Giovani madri lavano i panni nelle acque del fiume, indifferenti alle molitudini di topi e scimmie che sguazzano liberamente sulle rive; altre donne sciacquano pentole e stoviglie; nugoli di bambini si tuffano, riemergono, nuotano e sputano via l’acqua dalla bocca, uomini di ogni età praticano nelle acque sacre del fiume le loro rituali abluzioni purificatorie. Poco oltre, la riva del fiume si apre su un largo piazzale con acciottolato di pietra, sul quale a distanza regolare di poche decine di metri l’una dall’altra sorgono numerose piattaforme di pietra di un metro e mezzo d’altezza; molte di esse sono seminascoste da una fitta cortina di fumo ed emanano uno strano odore agro-dolce, potrebbero sembrare, ad un osservatore superficiale o semplicemente disorientato, le ennesime bancarelle di cibi fritti cucinati all’istante; molte persone si affaccendano intorno ad esse, sembrano serene, metodiche nell’allestimento di questo strano “banchetto”, chiacchierano, adulti, vecchi, i bambini stranamente tranquilli; gli uomini del gruppo accatastano fascine di legna ed alimentano la fiamma con oli profumati e grassi opportunamente spalmati sui corpi inanimati dei loro familiari; il funerale rituale induista sta per avere inizio, le pire si infiammano ed i corpi bruciano lentamente, al termine verranno adagiati su cataste di legna ed affidati alle correnti del fiume; la vita finisce e ricomincia così, senza domande sul senso delle cose: non ci si pone domande su questioni prive di risposta, si accetta quanto tramanda la tradizione e quanto insegnano i saggi.

Per noi tutto questo non è sufficiente, non accettiamo passivamente l’ineluttabile, dobbiamo ostinarci a dare una spiegazione, non solo, ma cerchiamo anche con tutta la potenza della scienza di contrastare il destino; forse vogliamo esorcizzare la morte, forse vogliamo dimostrare quanto la tecnologia può interferire con il corso naturale delle cose, forse semplicemente non ci rassegniamo a perdere tutto quanto l’uomo, il “padrone” del pianeta, ritiene di possedere per diritto naturale o per diritto divino.

Capitolo terzo

Bodhanat

La prima cosa che percepisci, ancora prima di varcare i cancelli sempre aperti dell’ingresso principale, è quella nenia continua; all’inizio, quando sei sul marciapiede della strada, nel centro di Kathmandu, è ancora confusa con il rumore del traffico, poi, varcata la soglia, ti entra nella testa e sovrasta il brusio dei pellegrini, l’allegro vociare dei bottegai che cercano di richiamare la tua attenzione, i commenti emozionati dei tuoi compagni di viaggio di fronte all’improvviso cambiamento psicologico della situazione.. alla fine domina su tutto e diventerà, non solo per oggi ma anche per tutto il resto del viaggio, la colonna sonora della nostra permanenza in Himalaya. “om mani padme hum”: decine di musicassette e di CD suonano incessantemente il mantra, in ossequio allo stupa più sacro in territorio nepalese, ovvero il più importante tempio del buddhismo tibetano al di fuori dal Tibet, meta di pellegrini e di turisti da tutto il mondo; “om mani padme hum”: ovviamente c’è anche una precisa motivazione commerciale finalizzata alla vendita dei CD di musica sacra e tradizionale e di tutti i souvenir tipici del luogo; il sacro e il profano si mischiano con pacifica accettazione e tutto questo non sembra nemmeno stonare eccessivamente, forse la compenetrazione fra la religione e la vita quotidiana rende più plausibile un atteggiamento che altrimenti sarebbe francamente fastidioso: per la popolazione locale non vi è nessun contrasto fra la spiritualità ed il commercio, perché sono due espressioni dello stesso modo di essere, sono due aspetti altrettanto importanti e necessari per la loro sopravvivenza. “om mani padme hum”. Saluto il gioiello nel fiore di loto. Una frase il cui significato simbolico va ben al di là della traduzione letterale. Inizialmente per le nostre menti laiche e razionaliste sembra tutto un po’ ridicolo e stonato, tutt’al più lo accettiamo come elemento folcloristico e interessante dal punto di vista antropologico, ovvero tentiamo subito di riportare il fatto alla dimensione “scientifica” tralasciando quella spirituale. Dopo un po’ di tempo diventa fin quasi fastidioso, ossessivo nella sua ripetitività; sicuramente è ipnotizzante e ti obbliga ad entrare in sintonia con la moltitudine che cammina, sempre rigorosamente in senso orario, attorno al grande tempio circolare; attorno all’anello pedonale sono disposte, lungo tutta la circonferenza, le botteghe dei mercanti di ricordi, mescolati ai quali, magari più discretamente ai piani superiori, si trovano anche venditori di materiale più pregiato, dai “thangka”, i tipici dipinti su tela con i simboli della religione buddhista, a pregevoli pezzi di antiquariato che dopo azzardate transazioni commerciali vengono spediti direttamente a domicilio, in tutto il mondo.

Una pausa, anche mentale, con riso e verdure, Coca-Cola e birra San Miguel (N.d.A.: adesso, nel 2020, si può bere la birra Everest, di gran lunga migliore), comodamente seduti sulla terrazza panoramica di qualche ristorantino, con la spettacolare veduta dei tetti della case al di là del recinto sacro, della cupola dello stupa con le file di bandierine di preghiera e con le mattonelle bianche immacolate verniciate di giallo dalle colate di zafferano che vengono buttate giù a secchiate in coincidenza di qualche solennità religiosa. Alcuni giovani monaci si riposano e meditano, in una mano la ruota di preghiera, in un’altra il telefonino, innocente concessione alla modernità. Sotto di noi, l’incessante pellegrinaggio, e centinaia di mani che fanno girare i grandi cilindri di preghiera posizionati sulle pareti dello stupa; i sottili rotoli di carta avvolti attorno ad un rullo di legno dentro il cilindro di rame, quando questo viene mosso, fanno salire nel cielo le preghiere scritte in minuscoli caratteri; e in questo modo non mancherà mai, in alcun istante, una preghiera che silenziosamente verrà trasportata dal vento nell’aria sottile degli altipiani himalayani. Poi si ritorna giù e si ricomincia a girare attorno al tempio, con le note del mantra che oramai sono entrate nelle sinapsi nervose come in un corto circuito mentale che non riesci più a disinnescare; ma forse, tutto sommato, non ti dispiace nemmeno… Ti costa quasi fatica ammetterlo, ma sei soggiogato da questa atmosfera allo stesso tempo mistica e materiale, da questo “non-luogo” a pochi metri di distanza dalle strade della città teatro della quotidiana lotta per la sopravvivenza; vorresti fermarti a lungo e lasciare libera la mente, rilassarti fuori dal flusso della vita. “Om mani padme hum”, è quasi una droga; in fin dei conti ci vuole ben poco, per il viaggiatore occidentale, spesso in fuga da se stesso, a farsi catturare da qualcosa che lo riporti in un’altra dimensione spirituale; confusamente, superficialmente, ma comunque anni-luce dal suo vissuto quotidiano. Non ti stupisci del fatto che Kathmandu sia stata per decenni un approdo per migliaia di giovani (e meno giovani), alla ricerca di qualcosa che non sapevano bene cosa fosse e sicuramente non l’hanno mai trovata, anzi si sono fatti trovare ben facilmente da altre sirene più insidiose, spesso mortali, sotto forma di pipe e di siringhe. Al tardo pomeriggio sei ancora lì, ai piedi dello stupa, la luce calda del tramonto incendia i colori della fede, gli occhi del Buddha dipinti di bianco, rosso e blu sulla cupola, le bandierine di preghiera gialle, verdi, azzurre, ocra, le tuniche amaranto dei monaci, i logori vestiti variopinti delle pellegrine, i thangka nelle vetrine dei negozi… “Om mani padme hum”. Esci da Bodhanat, ti volti indietro un’ultima volta, sulla città comincia a fare buio, il mondo è tutto sulla strada, indifferente ad ogni cosa. Decidi di non salire sul pulmino per tornare in albergo, vuoi camminare un po’ da solo con i tuoi pensieri, conosci bene Kathmandu, ci sei già stato tante volte, fai un po’ di stradine secondarie, fuori dal flusso turistico; non ci sono più negozi di souvenir, solo squallide case fatiscenti, botteghe di alimentari per i locali, venditori ambulanti che raccolgono le mercanzie, cumuli di rifiuti.

Sul marciapiede un gruppo di bambini di non più di 7-8 anni, riversi per terra, sniffano colle e vernici. Non hanno i soldi per permettersi le droghe dei ricchi. Hai qualche difficoltà a scavalcarli per non inciampare nell’immondizia.

Hai qualche difficoltà a capire il senso della vita.

Kathmandu, Nepal, 2001, 2004, 2008, 2016, 2017, 2018

 

PARTE SECONDA – LE MONTAGNE

Capitolo quarto

Prossima fermata: Indiana Jones City

In ogni viaggio impegnativo, in ogni trekking in montagne selvagge, in qualunque situazione al di fuori della cosiddetta civiltà tecnologica, ci sono alcune circostanze che sembrano create ad arte dal tour operator di turno per poter stupire gli amici al ritorno raccontando di avventure mirabolanti, di rischi pazzeschi, di pericoli oggettivi che ti hanno posto, magari solo per qualche istante, a diretto contatto con la possibilità di morire.

Sono quelle situazioni che, se sciaguratamente finiscono male, tutti i mass-media, i presenzialisti di salotti-TV alla Bruno Vespa, bollano come “gratuita ricerca del brivido” da parte di turisti ricchi, snob, annoiati, o peggio ancora frustrati dalla vita di tutti i giorni e che cercano riscatto nella facile avventura per fare colpo sui colleghi dell’ufficio, sugli amici e sui parenti nella rituale serata di diapositive o di videoproiezione.

Invece nessuno si rende conto che certe situazioni non te le vai a cercare e ti si presentano davanti all’improvviso quando nulla lo fa presagire, magari quando sei seduto su un pulmino in Nepal, dopo la deviazione dalla “statale” Kathmandu-Pokhara, sulla strada secondaria che ti porta all’inizio del trekking e tutt’al più sei un po’ impensierito perché domani inizierà un’impresa sportiva molto impegnativa: 14 giorni a piedi su sentieri ad alta quota fra il Manaslu, l’Annapurna e il Daulaghiri, le tre grandi cime da 8000 metri dell’Himalaya occidentale, la salita alpinistica su ghiacciaio ad una cima di 6100 metri di altitudine, l’attraversamento di un colle a 5400 metri percorso da non più di dieci persone all’anno…

Magari in quel momento pensi di essere inadeguato, che i tuoi compagni sono super-allenati e hanno già percorso tutte le montagne del mondo, la guida alpina è un tipo che è salito sul K2 scendendone vivo nell’estate tragica del 1986. quando grandi alpinisti di ogni nazionalità sono rimasti sepolti sotto i ghiacciai nella tormenta di neve, pensi che un altro del gruppo è salito sul Mutzagh Ata a 7500 metri, pensi che non ce la farai a stare al passo degli altri, che magari soffrirai la quota e sarai l’unico a fallire… Dunque tutt’al più hai questo tipo di preoccupazioni, quando all’improvviso senti le urla dei tuoi compagni cha hanno “la sfiga” di essere seduti sulla fila di sedili del lato destro del pulmino, e per l’ennesima volta hanno visto le ruote posteriori slittare sul pietrisco al bordo della strada in bilico sopra un pendio ripido di almeno quaranta metri: tu stai seduto a sinistra e non hai la percezione di quello che succede, al di là del disagio per il caldo, per il pulmino anni ’50 pieno all’inverosimile di quattordici trekkers, la guida, almeno venti portatori, qualcuno seduto sul tetto, come vedi abitualmente per le strade sulle corriere di linea, qualcuno in precario equilibrio sugli scalini delle porte di salita e discesa; lo zaino sulle ginocchia a ridurre ulteriormente lo spazio vitale, odori indescrivibili di sudore, sporcizia, umanità….. ma a parte tutto ciò, e a parte i sobbalzi bestiali sulla cosiddetta “strada” per Besisahar e Bhulbhule (alcune guide la definiscono una buona strada carrozzabile, alcune più realisticamente esortano a diffidarne..), una infame sterrata percorsa a 3-4 chilometri orari, a parte questo, dunque, tutto sembra andare abbastanza bene, poi gli amici del lato di destra ancora urlano, letteralmente, che vogliono scendere e fare gli ultimi chilometri a piedi, anche se ormai è quasi buio nel tardo pomeriggio, vedi i loro sguardi e capisci che sono spaventati e incazzati neri, che in quel momento non stanno pensando alla bella avventura da raccontare agli amici, le videocamere sono spente e non hanno nessuna voglia di immortalare con immagini l’epico “raid” fuoristradistico!

Per un attimo consideri anche che non sono dei pivellini, dei “tipi da spiaggia”, sono tutta gente che ha girato il mondo e in circostanze sempre da viaggiatori veri, non inclini alle crisi isteriche gratuite di fronte alla minima avversità… e allora scendi anche tu, un po’ per solidarietà, ma anche perché nel frattempo le ruote hanno slittato altre due-tre volte… e dopo che sei sceso e che il pulmino ti passa lentamente davanti, ti rendi conto ancora di più di come vengano clamorosamente sfidate le leggi della fisica e della gravità da parte di quella primordiale unità uomo-macchina costituita dall’autista, imperturbabile ad ogni protesta, e dall’inverosimile pulmino e dalle sue ruote di destra costantemente sull’orlo del baratro!

Arrivi finalmente al lodge al buio, il solito casino bestiale, i borsoni da trekking maltrattati e sbattuti giù dal tetto del pulmino a riempirsi di polvere, zaini, portatori, polli, maiali, cani, odore di cibo non ben definibile, frasi incomprensibili in anglo-italico-nepalese, la ricerca delle lampade frontali per capire dove sei finito e cercare la tua sistemazione… Entri nella tua stanzetta e vedi sulla parete appena sopra il cuscino un ragno di circa 18 centimetri di diametro, stai per ammazzarlo quando Daniele, forte arrampicatore friulano e vero viaggiatore, ti ferma e ti dice, serio: ”aspetta, magari tiene famiglia”, al che lo infila delicatamente in un sacchetto di plastica, lo porta fuori e lo getta nel prato davanti al lodge…

A quel punto scoppi a ridere, perché il trekking, la fatica, l’ipossia, le notti insonni, non sono ancora cominciate, siamo solo ai preliminari, e quando gli amici del lato destro del pulmino si sono tranquillizzati e ricominciano a sorridere, alla fine ti viene quel famoso pensiero in mente: “QUESTA È DAVVERO UNA BELLA AVVENTURA DA RACCONTARE AGLI AMICI!”

Pokhara, Nepal, 2008

Capitolo quinto

L’inizio di un trekking

Inizia il cammino, siamo a bassa quota, 840 metri sul livello del mare, e appena spunta il sole fa un caldo bestiale, c’è afa e sudi solo a respirare, la visione del Manaslu appena dopo aver girato dietro al lodge ti fa per un attimo trascurare quel leggero fastidio che ti prende all’inizio di ogni trekking.

I giorni precedenti ti hanno allentato la tensione e comunque ti hanno consumato energie per il fuso orario, i bioritmi sballati, le venti ore di aereo passando da Bangkok per poi ripiegare su Kathmandu…

La cremazione dei cadaveri sulle rive del Bagmati a Pashupatinat secondo le tradizioni induiste, nonostante già vissuta in precedenti viaggi, rimane uno spettacolo impressionante e ti brucia molte energie psichiche, perché il mestiere del viaggiatore è molto differente da quello dell’alpinista o del trekker, e la cosa migliore sarebbe poter fare il “turista” al termine dell’impresa sportiva, quando ti puoi rilassare, mangiare quintali di bistecche di yak per ripristinare le masse muscolari, scattare centinaia di foto, bere litri di birra e scherzare con gli amici… ma a Kathmandu devi sempre fermarti almeno un giorno per organizzare la logistica, il trasporto fino a Pokhara, i portatori, comprare l’attrezzatura mancante e farti l’ultima doccia… Poi entri in un’altra dimensione.

Ma che czz… Siamo venuti per andare in alto e ci ritroviamo a camminare così bassi che nemmeno sull’appennino ligure, abbiamo fatto colazione all’aperto e al primo raggio di sole abbiamo subito cominciato a sudare, da fermi; gli zaini sembrano pesantissimi, anche se la maggior parte del bagaglio è trasportato in spalla dai portatori, contenuto nei sacconi da viaggio, e noi ci portiamo solo le cose della giornata, un ricambio, il guscio anti pioggia e vento, bottiglie dell’acqua, reflex e videocamera.

Non si riesce a trovare il ritmo, il passo giusto, ma soprattutto non ci siamo ancora con la testa, ieri mattina ci siamo svegliati spossati nell’afa di Kathmandu, poi sono successe mille cose che già riempirebbero un viaggio: il pulmino per uscire dallo stretto cancello d’ingresso dell’albergo ha dovuto fare una curva ad angolo retto per immettersi nella stretta stradella del Thamel, il quartiere centrale, e solo per questa manovra sono passati tre quarti d’ora, poi altre tre ore per arrivare alla periferia occidentale della città, imbottigliati in un traffico demenziale che ci ha fatto capire come la vita si svolge totalmente nelle strade, senza regole e senza controllo; la strada per Pokhara correva sinuosa in un meraviglioso paesaggio verde e lussureggiante nella fascia di mezzo del Nepal, ricca di coltivazioni e di foreste, ma il contrappasso erano le infinite curve cieche lungo le quali, ostinatamente, tutti i conducenti, compreso il nostro, gareggiavano a sorpassarsi con gimkane al limite continuo dello scontro frontale.

La pausa per il pranzo in un paesino lungo la strada, poche casupole lungo la “main street”, un piazzale di sosta per pullman di linea, camion carichi di ogni genere di merce, rare auto private; tutti dentro un povero locale con una decina di tavoli di legno, una ventola inutilmente accesa in mezzo al soffitto, un arredo molto minimalista! La cucina a ridosso dei cessi con qualche difficoltà a distinguere i due locali, per lo meno dal punto di vista igienico… le solite fisime di noi occidentali, schizzinosi e fragili nel nostro stile di vita tecnologico, il pranzo non era peggio di tanti altri, riso e verdure, un po’ di stufato, tante spezie piccanti (e, si sperava, disinfettanti per l’intestino..), Coca-Cola a volontà, poi via, di nuovo in viaggio per staccarci dopo un’ora dalla strada principale ed avvicinarci alle montagne; la deviazione per immetterci nella strada secondaria è stata anch’essa un capolavoro di ingegno umano nel trovare un varco fra le colonne interminabili di mezzi lunghi e pesanti nei cui confronti noi dovevamo apparire invisibili, tanto poco si degnavano di lasciarci passare; tanto siamo stati fermi in mezzo alla strada che un ragazzino di non più di dieci anni è riuscito a salire sul nostro pulmino con un rudimentale strumento musicale di legno con tre corde, che pizzicava con un piccolo archetto suonando in modo peraltro molto delicato un tipico ritornello religioso buddista; ci ha allietato per qualche chilometro, poi, dopo aver raccolto qualche spicciolo, con il suo sguardo malinconico e distante, silenzioso come quando è salito, è saltato giù sparendo nella polvere della strada… infine, l’avventura raccontata poco fa, insomma una giornata tranquilla nella quale abbiamo raccolto energie per l’inizio del trekking!

Dunque un inizio lento, attraversando villaggi di una povertà dignitosa, sicuramente toccati da un modesto benessere (per i loro parametri) legato alla elevata frequentazione dei turisti: si tratta di una delle due zone di trekking di gran lunga più rinomate e frequentate del Nepal, insieme alla valle del Khumbu che porta al cospetto dell’Everest, e il ricordo di questa nostra prima avventura vissuta quattro anni prima, ci ha fatto accendere la scintilla per superare l’apatia della prima giornata di cammino.

La prima sosta per pranzare, con uova sode, cosce di pollo fredde, un pezzo di formaggio e una mela, la facciamo davanti ad una pozza d’acqua ai piedi di una cascatella, ben in ombra e con un fresco piacevolissimo; si riparte e si scopre una regola ferrea di tutte le guide locali, che neanche il nostro accompagnatore, prestigioso alpinista di fama mondiale, riesce a contrastare: per motivi del tutto inspiegabili, le soste pranzo vengono sempre effettuate ai piedi di una salita, in genere molto ripida e rigorosamente esposta al sole del primo pomeriggio, e la perfidia ancora maggiore è che ti fanno fermare alla curva immediatamente prima, in un tratto pianeggiante, di modo che non hai nemmeno la possibilità di accorgertene e di protestare… cosi che, alla ripresa della marcia con lo stomaco ben pieno, si rischia la sincope, dopo pochi minuti il cuore batte a 140 pulsazioni al minuto e viene un affanno che nemmeno al colle sud dell’Everest. I motivi? Incomprensibili, perlomeno a noi; tutto questo sia che si tratti di pranzo al sacco, sia che i portatori ed il cuoco lo preparino loro nella cucina di un lodge lungo il percorso; se chiedi perché c’è una vaga risposta legata all’ora, al diritto sindacale di riposarsi, all’opportunità di introdurre calorie prima dello sforzo impegnativo della salita… E qui ci si mette a ridere pensando a quanta attenzione poniamo, nelle nostre salite sulle Alpi, a non toccare cibo (salvo barrette energetiche e un po’ di cioccolato), fino a quando non si è rigorosamente arrivati in vetta e non si ha più neanche un metro di dislivello in salita… Alla fine accettiamo il fatto, anche questo fa parte del gioco, ci adeguiamo alle usanze locali e dopo una decina di giorni siamo allenatissimi a ripartire in salita con la digestione in atto.

Nei primi giorni di marcia dormiamo nei lodge, finché non ci stacchiamo dal percorso del trekking dell’Annapurna non ci sono difficoltà a trovarne; alcuni sono molto spartani e fanno rimpiangere le tende nelle quali staremo senz’altro più comodi nelle tappe successive in alta quota; altri sono gradevoli, con un po’ d’acqua calda nelle docce e talvolta anche con l’energia elettrica fino a tarda sera; nelle prime tappe, fino a tremila metri di quota si sente ancora il caldo e di notte si abbandona ben presto il sacco pelo di piuma e si dorme scoperti, seminudi; siamo a venti gradi di latitudine nord, molto più a sud rispetto alle nostre alpi, per cui, come già nella valle del Khumbu, continuiamo a lungo ad attraversare paesaggi verdi, piacevoli e rilassanti; ed il clima, in autunno inoltrato, è quello della piena estate da noi; le grandi montagne sono ancora distanti, le cime da 4000-5000 metri che ci sovrastano nella marcia sembrano modeste collinette. Dopo l’apparizione del Manaslu al primo giorno, dobbiamo aspettare cinque giorni prima di vedere l’estremità orientale dell’Annapurna Range: le distanze sono enormi, gli spazi sembrano richiedere una quarta dimensione per poter essere giustificati e compresi, le differenze dalle nostre montagne sono tante, ma una cosa appare subito in tutta la sua evidenza: l’enormità delle dimensioni. Forse solo i massicci del Monte Bianco e del Rosa possono, parzialmente, avvicinarsi a questa misura, ma in un contesto molto più antropizzato e addomesticato. Non a caso Leslie Stephen già nel diciannovesimo secolo lo aveva definito il terreno di gioco dell’Europa; in Himalaya, (perlomeno fino a che non arriveranno i capitali cinesi con cui costruire alberghi a cinque stelle al campo base dell’Everest ed autostrade a quattro corsie per arrivarci comodamente in jeep), tutto è enormemente più vasto e primordiale, appena ci si allontana dai percorsi dei trekking (dove si è ancora lontani dalla vera alta montagna), si percepisce, psicologicamente e materialmente, la distanza dalla civiltà.

Qui non si tratta di rinnegare che sia un fatto positivo la graduale introduzione del soccorso con l’elicottero che lentamente si sta organizzando anche in Nepal, grazie al Soccorso Alpino Svizzero e a virtuosi singoli personaggi come Simone Moro, però è un dato di fatto che per ancora molto tempo, nella stragrande maggioranza dei casi, bisogna essere autonomi ed autosufficienti anche per un’esperienza tutto sommato scarsamente pericolosa ed impegnativa come un trekking di questo tipo, fra i 5000-6000 metri di quota e con pochi, banali passaggi su nevai e ghiacciai.

Quando ci saranno i soccorsi di routine come da noi, tutto sarà più rassicurante, però sarebbe un gravissimo errore pensare che si possano trascurare i rischi oggettivi, tanto poi col telefono satellitare si risolve tutto. Nel frattempo, come dicono sempre le vecchie generazioni a quelle più giovani, le esperienze maturate prima da qualcun’altro, sono irripetibili (nel bene e nel male..), proprio perché le circostanze mutano talmente in fretta che anche il viaggio dello scorso anno può già essere irrimediabilmente diverso da quello di oggi e tutto ciò che si ha avuto il privilegio di vivere in prima persona può sparire per sempre: per qualcuno può essere un vantaggio ed un segno di progresso, per altri una perdita, difficile totalmente inutile dire chi ha ragione: forse la vera tragedia è non poter vivere mai esperienze di questo tipo, né prima né poi…. e quindi rimane un grande privilegio averle vissute ancora in un certo modo, e soprattutto di poterle ancora raccontare!

Pokhara, Nepal, 2008

Capitolo sesto

Big foot ai piedi dell’Everest

Gli Sherpa della regione nepalese del Khumbu, la valle più famosa della regione himalayana, ai piedi di sua maestà il Sagarmatha (il nome nepalese dell’Everest), sono per costituzione mediamente più piccoli e più bassi rispetto agli indoeuropei; ciò non costituisce di certo un problema per loro, da secoli abituati e perfettamente adattati alle quote estreme, all’ipossia e a condizioni di vita inimmaginabili per noi occidentali; hanno ovviamente anche i piedi più piccoli e più corti dei nostri, ma il mio unico lettore starà pensando che anche questa non sembra una notizia memorabile, esisteranno senz’altro connotazioni più interessanti e degne di nota in merito a questo straordinario popolo di montagna… perché parlare del numero di scarpe?

Effettivamente non varrebbe la pena parlarne, se non fosse per il curioso inconveniente che alla fine del trekking del Khumbu ha rischiato di farmi imbarcare all’aeroporto di Lukla per tornare a Kathmandu calzando solo un paio di logori (per non dire altro…) calzettoni da montagna!

Uno dei molteplici motivi per cui un trekking in Himalaya è un’esperienza unica, è sicuramente costituito dalla possibilità di conoscere e instaurare un rapporto di amicizia e di stima con gli sherpa; definirli dei semplici portatori è riduttivo e quasi offensivo, da molti decenni ormai si sono trasformati da semplici “manovali” della montagna, utili per il loro adattamento all’alta quota, la tolleranza allo sforzo e lo straordinario allenamento naturale di cui sono dotati, a dei veri e propri accompagnatori di alta montagna, l’equivalente delle nostre guide alpine, e molti di loro sono paragonabili, in termini di capacità tecnica alpinistica, ai più famosi e celebrati fuoriclasse europei, americani ed asiatici; certo, magari non in alcuni ambiti specifici quali l’arrampicata sportiva sui gradi estremi o il drytooling (arrampicata su terreno misto di ghiaccio e roccia con ramponi e piccozze), ma sicuramente si nel contesto dell’alpinismo tradizionale di altissima quota.

Una consolidata e virtuosa abitudine fra coloro che fanno alpinismo o trekking in Himalaya è quella di lasciare in omaggio, alla fine della spedizione, indumenti, scarpe, attrezzatura di montagna: qualunque oggetto è ben apprezzato e non c’è nemmeno motivo di offendersi se il regalo non viene indossato o utilizzato: per loro è talmente prezioso che spesso, anziché usarlo essi stessi, preferiscono a loro volta venderlo innescando un micro-commercio locale vantaggioso per tutti: in questa logica il regalo non va interpretato in modo personale come da noi perché in ogni caso, chiunque ne sia il destinatario finale, l’oggetto donato sarà utilizzato e sfruttato fino a sfiancamento e distruzione totale… a prescindere dal numero di persone a cui sarà passato per mano.

Si era quindi deciso, come sempre, di portare magliette, pantaloni, pile, giacche a vento già usati ma (specialmente per i loro standards) ancora perfettamente validi; io e Augusta avevamo deciso di lasciare anche le scarpe, cosa che oltretutto ci avrebbe permesso al ritorno di avere più spazio e meno peso nel borsone da viaggio, per poterlo quindi riempire con oggetti e regali comprati in loco; l’unico problema poteva essere il mio piede, certamente più grosso del loro, ma, come mi spiegò subito la guida, questo piccolo dettaglio si superava agevolmente con due o tre paia di calze, quindi potevo stare sicuro che non avrei avuto difficoltà a trovare uno sherpa interessato al dono, cosa che effettivamente avvenne al primo giorno e alla prima ora di trekking, tanto che il prescelto per due settimane non distolse mai lo sguardo dal futuro oggetto di possesso…

Io d’altra parte sarei tornato da Lukla a Kathmandu col paio di scarpette leggere che mi portavo dietro come scarpe da riposo e per camminare nei tratti meno impegnativi a bassa quota; senonché sulla via del ritorno scoprii che le scarpette erano scomparse dal borsone: superfluo chiedersi come mai, qualunque fosse il motivo non potevo certo ritrovarle; potevo averle perse durante una delle tante soste in cui aprivo il bagaglio, scaricandolo dal dorso dello yak addetto al trasporto, magari quando dovevo prendere il borsino di primo soccorso per curare, in itinere, qualche sherpa o qualche abitante dei villaggi attraversati che soffriva di congiuntivite e aveva bisogno di un collirio, o per qualche problema di febbre o infezione da trattare con antibiotici e antiinfiammatori, o per qualche portatore che si procurava vaste abrasioni se non addirittura piaghe da decubito alle spalle ed alla schiena a cause delle cinghie utilizzate per sistemarsi il carico addosso. Può darsi che avessi perso le scarpe tirandole fuori in una di quelle occasioni; può darsi che me le abbiano rubate, e la cosa non mi scandalizza più di tanto perché viste le circostanze ed i luoghi sarebbe stato comunque un regalo con altre modalità!

Fatto sta che all’ultimo giorno di trekking, ritornati a Lukla, quando avremmo dovuto reimbarcarci sull’aereo per Kathmandu e quindi dire addio agli sherpa lasciando a loro i regali preventivati, io ero senza scarpe perché puntualmente il beneficiario dei miei scarponi aveva riscosso quanto promesso, lasciandomi metaforicamente in mutande, ovvero con i soli calzettoni ai piedi (se fosse dipeso da lui si sarebbe presi anche quelli, senza troppe remore per lo stato di pulizia e di conservazione, ma viste le circostanze, me li tenni stretti ai piedi!).

Nelle due ore di attesa della partenza dell’aereo, provai a girare per i tanti negozietti che vendevano materiale da montagna alla ricerca di un paio di scarpette da ginnastica, ma ben presto capii che la mia taglia (fra il 44 e il 45) non era facile da trovarsi; provai a chiedere anche a tutti i venditori improvvisati dei mercatini e delle bancarelle sulla strada principale (o per meglio dire, l’unica) di Lukla, ma non saltò fuori nulla; il mio problema cominciava però a destare una certa curiosità nella popolazione locale, per cui si cominciò a formare un piccolo corteo di persone che mi seguivano passo a passo, discutendo animatamente sulla lunghezza dei miei piedi e sull’inadeguatezza delle scarpe che mi venivano proposte; la mia situazione suscitava umana simpatia ma anche un certo interesse economico perché tutti sembravano ambire a diventare i fortunati venditori del modello giusto; il dibattito e la processione, nel frattempo sempre più consistente, proseguirono fino al piccolo piazzale davanti all’ingresso del minuscolo aeroporto di Lukla, demenziale struttura, unica al mondo, con una pista di 200 metri costruita in pendenza su un ripido pendio in modo tale che gli aerei decollano in discesa per poter prendere velocità ed atterrano in salita per poter frenare senza distruggere le case, i negozi e gli alberghetti costruiti a ridosso della pista stessa… Dunque, davanti a questo prodigio dell’aeronautica, stavo perdendo le ultime speranze di tornare alla civiltà con qualcosa di solido ai piedi, quando nella calca ormai formatasi per seguire l’evento, spuntò fuori un ragazzino di forse undici-dodici anni che timidamente mi chiese in anglo-nepalese che numero di scarpa portassi:

“forty-four, forty-five… it’s the same….” “wait a moment, wait a mo-ment, sir… ” e sparì nella folla; dopo circa dieci minuti tornò trionfante con una scatola dalla quale tirò fuori, incredibilmente un paio di Adidas taroccate di una lunghezza spropositata, che probabilmente giacevano da anni nella cantina di casa…

Perfette, incredibile, nemmeno me le avesse fatte su misura un calzaturificio veneto!! La folla esplose in grida di giubilo e grandi applausi, il ragazzino saltò dalla gioia, sicuramente quella sera a casa avrebbe avuto doppia razione di stufato di yak con patate, tutti si dispersero orgogliosi perché il piccolo paese di Lukla aveva risolto il problema del turista occidentale, io salii sull’aereo con le scarpette più pulite che avessero mai calcato i sentieri della valle del Khumbu: più tardi, in volo, durante gli innumerevoli “vuoti d’aria” con inevitabili acrobatiche evoluzioni del pilota che più volte sfiorò i crinali delle valli sorvolate a non più di trenta metri di quota dai tetti delle case e dalle teste dei contadini, pensai con sollievo che se l’aereo si fosse sfracellato, almeno mi avrebbero riportato in Italia con un paio di scarpe nuove ai piedi…

Lukla, Khumbu Valley, Nepal, novembre 2004

(nella foto la pista di atterraggio in salita del piccolo aeroporto, unico al mondo nel suo genere!)

Appendice

Round Annapurna Trekking, relazione tecnica ed esperienza umana

In Italia abbiamo montagne bellissime, fin quasi superfluo citarle, le Dolomiti ove io e Augusta abbiamo percorso i nostri primi sentieri lasciandoci il cuore, la più vicina Valle d’Aosta che è diventata, anche per motivi di maggior vicinanza, la nostra seconda casa, dapprima solo in senso metaforico, poi anche letterale; l’appennino ligure appena girato l’angolo per veloci sgroppate di allenamento fra terra, cielo e mare; poi appena fuori, le amatissime Alpi Slovene conosciute grazie a cari amici triestini, e ancora l’Oberland Bernese, l’Ecrin, i Pirenei…

Eppure, negli spiriti irrequieti, forse un po’ romantici, forse vagabondi nella mente prima ancora che sul mappamondo, il richiamo dell’Himalaya prima o poi attira come un vortice al quale non si può sfuggire, se le circostanze permettono di assecondarlo; ed ecco perché, dopo un lontano viaggio esplorativo in Tibet e Nepal, dopo il primo trekking nella valle del Khumbu con la salita al Kala-Pattar al cospetto di sua maestà il Sagarmatha (il nome nepalese dell’Everest), dopo una divagazione extra-himalayana in vetta al Kilimanjaro con la stranissima emozione di camminare in mezzo ai penitentes sull’orlo del cratere di un vulcano spento a quasi 6000 metri con l’Africa ai tuoi piedi, ecco che nel 2008 siamo tornati in Nepal per una terza grande avventura: il trekking attorno all’Annapurna con due varianti tutt’altro che banali, ovvero la salita a una vetta di 6060 metri nel gruppo del Manang Himal e, sulla via del ritorno, una selvaggia variante al classico colle di Thorung, con il periplo del Tilicho Lake e l’attraversamento di due colli glaciali a più di 5300 metri di quota, una variante percorsa pressoché da nessuno (e si capisce anche il motivo!), ma che permette di camminare per due giorni a ridosso della maestosa Grande Muraille, con la suggestione di ripercorrere a ritroso il percorso inesplorato ed erroneo di Maurice Herzog e compagni, nel 1950, nell’infruttuoso tentativo di scoprire la via di salita all’Annapurna che poi in realtà era da tutt’altra parte (ma ci misero un bel po’ a scoprirlo!).

Eccoci dunque, di nuovo, a Kathmandu, con Giorgio e Annalisa, i due cari amici di Padova con cui abbiamo condiviso numerose esperienze di viaggio e di montagna, altri dieci compagni italiani conosciuti sul momento, con la guida di Martino Moretti dell’agenzia Lyskamm 4000 di Alagna Valsesia, prestigioso alpinista con al suo attivo, fra le altre cose, anche il K2 senza ossigeno nel 1986. Sbrigate le pratiche di rito, dopo il rituale tuffo nelle molteplici facce della città, che vale da sola un viaggio per tutti i suoi aspetti sportivo-alpinistici, religiosi, artistici e umani, ci si sposta con un pullman di linea verso ovest in direzione Pokhara, fino a quando si abbandona la strada principale per puntare decisamente a nord, con una stradella tortuosa e sempre più accidentata, percorsa su di un pulmino ancora più piccolo e sgangherato del primo, finché non si arriva finalmente a Bhulbule, 840m s.l.m., ove ha inizio il trekking. Si comincia quindi a camminare a una quota inverosimilmente bassa, in mezzo a un paesaggio dolce, verdissimo, fertile, ricco di acqua nel profondo solco glaciale della Marsyangdi Khola; si cammina sudando, quasi nell’afa, (nemmeno si salisse sul Tobbio d’estate!), attraversando villaggi non ricchi, ma ove si respira già un diverso livello di “benessere”, per le popolazioni locali, derivante dai guadagni correlati ai trekking; la stessa sensazione che si prova, lì ancora più evidente, nella valle del Khumbu; non a caso sono le due regioni di massimo afflusso escursionistico e alpinistico del Nepal, e già si vedono in entrambe, purtroppo, i primi segni di esagerazione in termini di sovrabbondanza di infrastrutture, di offerte sempre più comode e turistiche, di compromessi legati più al business che non che alla stringente necessità di comfort. Ma va bene così, perché noi veniamo dalle montagne più antropizzate del mondo e tutto ci sembra comunque più primordiale, selvaggio, immenso: gli spazi, il cielo, i ghiacciai ancora lontani.

In tre giorni si arriva a 2600 m s.l.m., si prende il passo, si respira, ci si assesta gli zaini sulle spalle, ci si libera dalle tossine della civiltà, ci si commuove vedendo i bambini, sporchi, miseri, sani e felici; qualcuno gli regala biro e matite, quaderni, qualcuno palloncini da gonfiare, nessuno caramelle e cioccolato perché provocano la carie; poi piano piano cambia qualcosa, si fa una gigantesca curva “a sinistra”, un po’ come quando in Val d’Aosta a Chatillon si va a ovest verso il Monte Bianco, si lascia ad est il massiccio del Manaslu, visione quasi irreale, seminascosto nell’afa e nelle nuvole, e si comincia a intravedere la colossale catena degli Annapurna, con almeno quattro cime secondarie sopra i 7500 metri, si entra nel cuore della Marsyangdi Khola, enormi pareti lisciate dal ghiaccio, valle ad “U” glaciale da manuale di geologia; si comincia a rimanere storditi, non tanto per l’aria sottile, che pure di notte a qualcuno dà fastidio, sopra i 3000, ma soprattutto per le dimensioni: enormi, lasciano increduli, te lo aspetti ma comunque non sei preparato alla vastità fisica e spirituale dei luoghi; a occhi puntati in alto ti annichiliscono le montagne, a occhi bassi respiri la filosofia di vita di queste popolazioni, di gran lunga in prevalenza buddiste, qui al confine con il Tibet; a ogni paesino un tempietto di ingresso con simboli e rituali di benvenuto; sulla “main street” lunghi muretti nel mezzo della strada con i cilindri di preghiera, da girare in senso rigorosamente orario per far salire in cielo le preghiere scritte a caratteri minuscoli su sottili rotoli di carta avvolti dentro ai cilindri stessi; mai preghiera appare più “laica”, adatta ad ogni spirito pellegrino a prescindere dalla religione d’origine, senza imposizioni né regole da rispettare se non quelle universali dell’umanità e della tolleranza.

Al quinto giorno a Humde (3300m) si abbandona il percorso principale del trekking e si punta decisamente a nord, con ripida, costante salita in avvicinamento alla catena del Chulu, ove si cela la nostra meta; vegetazione sempre più rada, scarna, non più afa, bensì vento, freddo di notte nelle tende che finalmente si montano abbandonando i lodge più o meno confortevoli che finora si trovavano sul percorso; si fa fatica, si va in montagna, ti prende un po’ di inquietudine, sei isolato, conti solo su te stesso, sugli sherpa, sui compagni, su Martino: ecco la vera differenza, a due soli giorni dal flusso continuo dei trekkers, al di là delle difficoltà tecniche che pure sono minime. Primo campo a 3990 m, al giorno 6° campo a 4800m, ancora sull’asciutto, pietraie moreniche aride, poca vegetazione tipo steppa, molto sottozero di notte, finalmente i sacchi a pelo “himalayani” comprati dall’amico Chicco cominciano a fare il loro lavoro! Un amico del gruppo sta male, cefalea, vertigini, sbandamento nella marcia: sintomi pericolosi, lo dico a Martino, che si fa? Se lo dici tu che sei medico, lo mandiamo giù senza esitazione, con uno sherpa, è la decisione migliore, starà male ancora 48 ore, poi tutto OK e potrà riprendere il cammino.

Arriva il settimo giorno ma non ci si riposa, finalmente si tocca la neve, il primo ghiacciaio, le scarpette si mettono nei sacchi e si calzano gli scarponi veri, ma poi ti guardi indietro e vedi gli sherpa che hanno ancora ai piedi le infradito e ti chiedi se loro sono dei marziani oppure tu un pigro e rammollito figlio del benessere: entrambe le cose ovviamente, un po’ ti vergogni, un po’ vorresti essere San Francesco e abbandonare il mondo occidentale, un po’ semplicemente li invidi e vorresti riuscire a resistere come loro alle intemperie… tanti pensieri confusi, bisognerebbe scrivere un libro solo su questo, e passare nottate intere a parlarne con gli amici più cari e con i compagni di montagna. Qui non si tratta più solo di salire su una montagna, qui c’è di mezzo la vita, quella vera. La tua e la loro. Ci pensi, ci pensi e ci ripensi. E intanto sali.

Campo a 5300 sul ghiaccio. Notte tremenda: una compagna del gruppo sta male, un problema serio, affanno, rantoli, per me la diagnosi è facile, edema polmonare in fase iniziale. Sono medico, appassionato di montagna, studio da anni la fisiopatologia d’alta quota e sono socio della Società Italiana di Medicina di Montagna; non sono il medico della spedizione, solo un privato partecipante, ma ovviamente non fa differenza; ho con me i farmaci che servono. Desametazone endovena e intramuscolo, gocce di nifedipina sotto la lingua; purtroppo non basta, continua a star male, per fortuna l’organizzazione nepalese ha nel budget la sacca di Gamow, la camera iperbarica portatile. La ficchiamo dentro, pompiamo aria, si riporta dentro alla sacca una pressione atmosferica equivalente a 2500m circa; avanti due ore a pompare, poi fra la sacca ed i farmaci sta un po’ meglio, quel tanto che basta ad aspettare l’alba e non essere costretti a farla portare giù in piena notte sulle spalle di due portatori. Altri due hanno cefalea, nausea e vertigini, nonostante l’acclimatazione la quota picchia: cerco di fare qualcosa anche per loro, tutta la notte dentro fuori la mia tenda e la loro, Augusta mi aiuta. Mi passa i farmaci, mi prepara le iniezioni, nella concitazione una distrazione fatale: lasciamo i suoi scarponi nell’abside della tenda, si congelano.

Alle cinque di mattina si decide: il bollettino medico è più rassicurante; chi sta male scende con gli sherpa o è già sceso, chi sta bene parte per la vetta; siamo già in ritardo di un’ora e mezza, dai; freddo, vento, siamo stanchi, io, Augusta e Martino ovviamente abbiamo passato tutta la notte svegli e in piedi; Augusta paga la sua generosità con gli scarponi ed i piedi freddissimi a causa degli eventi descritti, dopo un’ora torna, teme un congelamento; che rabbia, lei sta benissimo e salirebbe in cima di corsa! Si va un po’ troppo veloci, a strappi, non si riesce a tenere un ritmo armonico, qualcun altro deve tornare indietro perché non si riesce a trovare il passo giusto. Tre pendii ghiacciati ripidi successivi, pendenza fino a 43-45°. Io, Martino e altri quattro “superstiti” arriviamo in vetta al CHULU FAR EAST, 6059m s.l.m. Davanti, dietro, a sinistra, a destra, solo Himalaya. A ovest il Mustang, a est il Manaslu, a nord il Tibet, a sud un rettangolino dietro l’Annapurna Range, riguardando le foto lo identifico come la cima vera dell’Annapurna, fino ad allora ancora invisibile.

Foto di vetta, un abbraccio. Sono salito su una cima himalayana insieme ad un uomo che è stato sul K2: scendendo mi ha ringraziato per il lavoro che ho fatto nella notte con chi stava male. Questa è la montagna, la sua follia, la sua bellezza.

Mi spiace per Augusta e per gli amici che non ce l’hanno fatta. Se la notte passava tranquilla, arrivavamo tutti in cima. In compenso tutti sono tornati giù, e per come si sono messe le cose, questa è stata la vera conquista della vetta. Rimangono una manciata di foto, uno sguardo sul mondo, una piccozza lasciata in cima da un compagno di Udine in memoria dell’amico morto in montagna. Le cose che leggiamo sempre sui libri, che vediamo nei film, che sentiamo raccontare alle serate dei nostri eroi. Ma questa volta vissute davvero, in prima persona. Ti lasciano il segno. BERG HEIL.

Si scende molto velocemente al campo a 4800m, la mattina dopo colazione all’aperto, si guada un torrentello semi-ghiacciato e quasi di corsa, si scende ancora fino al fondo valle: fine della giornata? Macché, per arrivare a Manang, praticamente su sentiero sempre in piano, ci mettiamo due ore (sempre la solita storia delle grandi distanze himalayane…); una bottiglia di Coca-Cola ghiacciata comprata sulla strada da un bambino vale più di uno champagne d’annata!

Manang, 3500 m s.l.m. L’ultimo paradiso degli hyppies e dei giramondo stile anni ’60, in fuga da una Kathmandu non più tanto tollerante; si mescolano bene ai trekkers che passano un giorno di completo relax: chi si lava gli indumenti, chi si taglia la barba, chi cerca di accaparrarsi un turno di acqua calda sotto la doccia del lodge, chi dorme tutto il giorno, chi gira a caccia di foto e di atmosfere. Alla sera tutti cercano di mangiare più carne di yak possibile dal menù del cuoco, che in realtà sembra sempre molto parsimonioso.

Per fortuna c’è anche un’ottima pasticceria tedesca molto apprezzata!

La compagna che è stata male non si è ancora ripresa e, in accordo con i medici americani dell’ambulatorio per i disturbi d’alta quota, non prosegue il trekking e scende a dorso di cavallo con uno sherpa fino a Bhulbule, da lì fino a Pokhara in bus, dove la ritroveremo in buona salute. Noi ripartiamo. Alla fine del paese, in un vicoletto, due cartelli per le due direzioni possibili: uno è per la via “normale” del giro dell’Annapurna, per il passo di Thorung; l’altro è per la via più difficile, percorsa solo fino al lago di Tilicho ove però quasi tutti tornano indietro; noi invece proseguiremo, per valicare ancora in alta quota e scendere a Jomosom in totale solitudine. Sarà un’avventura. Si parte rilassati, con un panorama piacevolissimo, la Marsyangdi Khola nella sua parte centrale, più aperta e con visioni bellissime sul gruppo dell’Annapurna, ma in realtà si capisce ben presto che sarà dura; si deve arrivare al Tilicho Base Camp, teoricamente 600m di dislivello, in realtà sono 900 a causa di saliscendi interminabili, lungo un vallone secondario sempre più chiuso fra pareti dirupanti di detriti e sfasciumi franosi, sembra quasi di essere in Dolomiti ma anche sulle Grigne, con guglie, torri, pinnacoli dalle forme bizzarre e dai colori rossicci, calcare eroso dai millenni, dal ghiaccio e dal vento. Un piccolo monastero, isolato e solitario a 4000m, è commovente con il suo unico custode. Si arriva al lodge tardi, il sole è già scomparso dietro la Grande Muraille, freddo glaciale a 4150metri. Ai lodge non si prenota, speravamo di trovare posti, ma un gruppo di francesi ci ha preceduto: domani andranno al lago e poi torneranno a Manang; allora si montano le tende, e viste le condizioni del lodge tutto sommato è meglio così, a parte il freddo e l’umidità. Si riparte all’alba di una giornata meravigliosa, si sale a lungo su pendii morenici e finalmente si arriva su un pianoro ghiacciato a 4800m, la Grande Muraille si tocca quasi con le mani! Poi, dopo un’altra ora, finalmente il Tilicho Lake, 4950metri, uno dei più alti laghi naturali del mondo, 3,5 km di lunghezza e 1,5 di larghezza nel punto più largo, acque blu cristalline, due chilometri più in alto incombe il Tilicho Peak con la sua parete nord-est, verticale sopra il lago. La bellezza del luogo è indescrivibile, nessuno riesce a parlare, e non solo per l’aria sottile. Questo è l’Hiamalaya, bellezza! I trekkers tornano indietro, noi cominciamo ad aggirare il lago sulla destra, su ripidi pendii ghiacciati; qualcuno calza i ramponi, diamo le piccozze ai portatori i quali, incredibile, ma vero, camminano ancora con ai piedi le infradito o tutt’al più con qualcosa di simile alle Superga da basket in tela (in versione nepalese, ovviamente). II lago è poco più giù, una scivolata nelle sue acque sarebbe fatale per lo shock termico. Si supera l’Eastern Pass a 5340m (in totale 1200m di dislivello nella giornata) con ripidi passaggi su roccia sporca e friabile, si devono usare le mani per l’equilibrio, ora bisogna solo andare giù eppure impieghiamo tutto il pomeriggio per ridiscendere fino a un pianoro sopra l’estremità opposta del lago ove, a 5200m, dormiremo. Arriviamo al buio e sotto la neve, montiamo con grande fatica le tende, si mangia poco e contro voglia nella tenda-mensa, più che altro per scaldarsi un po’, poi si cerca di dormire, ma per tutta la notte ogni due ore si dovrà buttare giù la neve dal tetto della tendina per non rimanerne schiacciati (mi sembra anche questa di averla già letta da qualche parte!). Alba a meno 15 gradi, un incredibile cielo blu che sembra finto, sole, la Grande Muraille scintillante e ghiacciata: una foto, un ricordo, un’emozione indelebile che compensa la notte poco riposata, basterebbe da solo questo momento per giustificare il viaggio. Colazione all’aperto mentre gli sherpa smontano il campo, la tazza bollente serve a scaldare le mani prima che lo stomaco. Un momento di estasi, ma solo un momento, si riparte, c’è qualche incertezza sulla direzione, la neve ha sparigliato le carte ed i punti di riferimento; Martino decide di non fare il Mesokanto La, ma di puntare a nord verso il New Tilicho western Pass (o Tilicho tourist La), lo ha già percorso alcuni anni addietro; gli sherpa non sono di grande aiuto, per cui si affida alla memoria. La neve è pesante, la traiettoria è diretta e quindi anche decisamente ripida, ancora ramponi e piccozze per arrivare finalmente al passo a 5480metri. Alla nostra sinistra, a sud-ovest, l’elegante gruppo del Nilgiris; ancora oltre fa capolino il triangolo sommitale dell’Annapurna, ma a un certo punto compare in tutta la sua maestosità il Daulaghiri con il suo versante nord-est: il terzo ottomila del trekking, il più vicino, il più impressionante, non ci abbandonerà più fino all’ultimo giorno. Se fossimo in un museo, ci sarebbe da temere la sindrome di Stendhal. Qui, in più, c’è anche l’ipossia!

Si scende ancora su pendii ripidi ghiacciati, dopo un’ora, come un sogno, si comincia a toccare la roccia e a calpestare qualche rado arbusto. Ci si spoglia al sole, la temperatura è salita di almeno 20 gradi. Si scende al campo successivo a 4215 metri, ma bisogna guadagnarselo anche questo, con i soliti terribili saliscendi insensati e interminabili e con ultimo salitino spacca gambe. Ma si dorme in tenda all’asciutto, comodi e rilassati come dei re. Il tredicesimo e ultimo giorno di trekking si dovrebbe “solo” scendere fino a Jomosom. Cento metri di dislivello in salita e 1600 in discesa; arriviamo sull’ultimo spuntone roccioso da cui si domina il paesino poco (?) più sotto, alla sua destra il magico Mustang: è fatta, emozione, rilassatezza, si pregustano birre e Coca-Cola, ma tutto questo ben di Dio ci sarà concesso dopo le ultime due interminabili ore di discesa che avrebbero dovuto essere non più di trenta minuti; l’ultimo ricordo “fisico” delle dimensioni himalayane! Il resto è una doccia calda, una cena fra quattro mura coi sandali ai piedi, una atroce torta a forma di montagna preparata dal cuoco, volenteroso ma solo quello!, il solito rituale, commovente, delle mance ai portatori con una lotteria per tutti i vestiti e capi tecnici che si lasciano in regalo, come sempre alla fine di una spedizione o di un trekking, l’ansia di riuscire a prendere il volo per Pokhara la mattina successiva, dopo tre ore di attesa in cui ci sono passati davanti centinaia di trekkers sui dieci aerei precedenti, il nostro è l’undicesimo e ultimo, rischia di non atterrare (e non ripartire) per il vento, ma il pilota, pazzo e bravissimo, vuole mangiare a casa con la famiglia e non ha nessuna intenzione di farsi turbare dalle raffiche (noi invece sì, ma che importa?). Il resto è, ancora, una monumentale bistecca di yak con una montagna di patate fritte e un po’ di birre ghiacciate, un po’ di relax a Pokhara, un’alzataccia all’alba per farsi portare dalle barche al centro del Phewa Lake per vedere i primi raggi di sole illuminare il versante sud del gruppo dell’Annapurna e, soprattutto, il Machapuchare, incredibile piramide che incombe sulla città. Forse uno dei più belli e famosi fra i tanti “Cervini” sparsi in giro per il mondo.

E poi il ritorno a Kathmandu, e in Europa. Voglia di ritornare e di non dimenticare.

Nepal, novembre 2008

PARTE TERZA – IL TIBET

Un medico a 4500 metri di quota

(Una storia vera sotto forma di racconto)

Steve viaggiò molto, dentro e fuori se stesso, nel mondo e nel proprio caos interiore.

Non viaggiò tanto come i viaggiatori di professione, come i cacciatori di visti sul passaporto, come i collezionisti di dogane e frontiere. Le vere frontiere da superare forse si riesce una sola volta nella vita a varcarle veramente, ed ancora più difficile risulta il non tornare più indietro. Viaggiò comunque a sufficienza da stampare nel proprio DNA emozioni e ricordi che solo la dissoluzione della mente, l’Alzheimer o la morte potranno sottrargli.

Si trovò anche ad attraversare, in momenti e circostanze che ancora adesso oscillano fra sogno e realtà, i maestosi altipiani tibetani in un lungo raid su fuoristrada da Lhasa a Kathmandu, sempre al limite tra terra e cielo, a quote che a casa nostra sono dominio delle nevi e dei ghiacci.

Conobbe strani e meravigliosi personaggi che gli spiegarono in una lingua sconosciuta ma perfettamente comprensibile come sia possibile avvicinarsi alle risposte cercate invano per tutta la vita, ammesso che qualcuno abbia dentro di sé almeno ancora la volontà di porsi certe domande.

Conobbe la saggezza in volti devastati dall’ipossia, dalla fame, dalla brutalità dell’invasione cinese: in quegli occhi vide ostinatamente, spudoratamente la gioia, la serenità, l’accettazione del proprio destino, la consapevolezza che nel fluire del tempo e della vita il singolo individuo è un frammento insignificante che non può e non deve sprecare energie per cercare di cambiare ciò che è infinitamente superiore al più forte degli esseri umani: ovvero il significato del proprio viaggio che fin dalla nascita corre su binari prefissati e con una meta sconosciuta ma scritta nel codice genetico prima ancora di iniziare la fatica di vivere.

Ovviamente non poté assolutamente capire né accettare queste risposte, tanto erano estranee al modo di vivere al quale era stato educato e cresciuto e dal quale cercava di fuggire, ma senza avere gli strumenti per poterlo fare veramente.

Conobbe le montagne straordinarie dell’Himalaya, che toccò con mano, calpestò fin dove le circostanze del viaggio gli permisero di fare. Le vide dall’aereo di linea nel volo dal Nepal al Tibet, le vide dalle polverose piste sterrate della trans-himalayana, dai finestrini delle Toyota Land Cruiser che viaggiavano indifferenti fra valichi a 5300 metri di quota ed altipiani infiniti e misteriosi, tra cime maestose e senza nome perché non aveva senso dare loro un nome, salvo che per gli alpinisti cinesi ed europei, americani e giapponesi accomunati dalla frenesia di poter scalare vette ancora vergini e prestigiose per il proprio curriculum.

Le vide da un piccolo aereo turistico pilotato da un folle aviatore nepalese che lo portò così vicino al suo amato Everest da fargli temere per un attimo di atterrare in modo poco convenzionale al colle Sud ad ottomila metri di quota: ma una virata incredibile a 180 gradi quando erano ormai a non più di due chilometri in linea d’aria dalla parete sud gli permise di imprimersi in modo irreversibile nella mente l’immagine della “sua” montagna e di tornare incolume all’aeroporto di Kathmandu.

Vide le limacciose, sacre acque del Bhagmati, affluente del Bramhaputra, attraversare il quartiere induista di Kathmandu per raccogliere le ceneri dei cadaveri bruciati su cataste di legna e poi affidati al fiume nel loro ultimo viaggio; e vide la gente lavarsi nel fiume e raccogliere l’acqua per bere e per cucinare, la vide fare bucato nel fiume accanto alle pire fumanti.

Vide i bambini degli altipiani, figli delle tribù di nomadi e pastori, giocare con gli yak e con palle di stracci; indossavano maglie, felpe, pantaloni di incredibili e sgargianti colori con scritte occidentali, regali dei turisti che gli portavano gli abiti dei loro figli.

Li vide con la pelle scura, perché non avevano mai conosciuto il sapone. Ma erano sani e sembravano felici. Li vide aspettare in disparte, silenziosi, che alla fine dei pic-nic dei turisti si offrisse loro qualcosa da mangiare: e Steve si adattò a mangiare sotto il loro sguardo discreto, educato ed incuriosito dallo strano cibo degli occidentali, dal grana padano e dallo speck portato di scorta nel caso che il cibo locale non fosse di troppo gradimento.

Vide i templi ed i monasteri buddisti, distrutti dai bombardamenti cinesi e ricostruiti ostinatamente pietra su pietra dai monaci e dalle popolazioni dei villaggi vicini. Calpestò i loro pavimenti di legno, scivolosi e lisciati dal passaggio di migliaia di pellegrini, respirò l’odore del burro di yak, utilizzato per ogni scopo, come fondamento della loro alimentazione e come combustibile da bruciare nelle lampade votive: enormi recipienti di rame accoglievano centinaia di lumini che creavano un irreale, tenue illuminazione in ambienti privi di finestre e di corrente elettrica, e sullo sfondo le enormi statue delle divinità buddiste troneggiavano con quei sorrisi rassicuranti ma al tempo stesso inquietanti e così difficili da comprendere nel loro significato simbolico.

Vide i cieli incredibilmente azzurri come si possono vedere solo dove l’aria è estremamente rarefatta ed i colori sono così saturi, intensi da sembrare artificiali.

Vide i cilindri di preghiera, e Steve non si stancò mai di farli girare perché così anche lui contribuiva a far salire in cielo le preghiere contenute dentro di essi.

Vide il Potala, la residenza del Dalai Lama fino al giorno in cui dovette fuggire in India per proseguire in modo libero ad esercitare la sua influenza morale sul popolo tibetano. E rimase come tutti sgomento e senza fiato davanti alla maestosità dell’edificio: aveva paura di un impatto emotivo indebolito dalle centinaia di foto e di filmati visti e rivisti sul palazzo e su Lhasa, ma si rese conto subito che esserci veramente davanti annulla ogni immagine vista a casa ed ogni descrizione letta a tavolino. La stessa sensazione che aveva avuto in Perù visitando Machu-Picchu: pensava di conoscere ogni singola pietra del villaggio Inca e di non potersi emozionare più di tanto a vederlo dal vivo, invece l’impatto fu straordinario. Questo fa la differenza fra il viaggiare con la fantasia ed esserci davvero.

Vide i militari cinesi pattugliare armati la piazza del Jokhang, e comprese che lì, davanti al tempio più sacro del buddismo, avvennero fatti molto più sanguinosi che a Tien-an-Men, ma praticamente nessuno al mondo se ne accorse o volle accorgersene. Su quella piazza, a distanza di anni dal tentativo di resistenza tardivo, quasi patetico del popolo tibetano ma soffocato con violenza inaudita dai “liberatori”, ancora adesso era vietato “radunarsi” in gruppi di più di tre-quattro persone, pena il materializzarsi di una guardia del popolo a far cessare subito l’adunata sediziosa.

Vide molte altre cose e tante persone, ognuna delle quali meriterebbe un racconto ed una citazione, ma tutto ciò rimane indelebilmente nella sua memoria e questa è cosa più importante: “ricordati tutto ciò che hai visto, perché tutto ciò che dimentichi ritorna a volare nel vento” disse un saggio apache.

Al termine di un’ennesima lunga, faticosa e straordinaria giornata consumata su piste sterrate al limite dell’impraticabilità, dopo il guado di diversi torrenti ed infinite deviazioni per visitare un minuscolo monastero in uno dei villaggi più solitari e suggestivi dell’altipiano tibetano, la piccola carovana di Land Cruiser arrivò, come mai più in quel viaggio, vicina all’Everest.

Steve riuscì a convincere i compagni di viaggio a cambiare destinazione per la notte, d’accordo con la guida, e sul tardo pomeriggio arrivarono a Tingri. Villaggio di poche decine di case, a 4500 metri di altitudine, esattamente di fronte alla parete ovest dell’Everest. Il destino volle che della grande montagna non si vedesse nulla: nuvole basse coprivano completamente l’orizzonte e non si dissolsero né per il tramonto né la mattina dopo. Ma non aveva importanza: tutti sapevano che essa era là davanti a loro, non si poteva, forse, pretendere di averla a disposizione così facilmente. E forse l’averla sognata così intensamente ha lasciato nell’immaginazione di tutti un ricordo ancora più nitido e vivo che se la si fosse potuta vedere veramente.

Un piccolo “lodge”, una via di mezzo fra un rifugio alpino in stile tibetano ed un bed &breakfast molto spartano, diede ospitalità a Steve, a sua moglie Augusta ed ai loro compagni. Piccole stanze, tutte al piano terreno, disposte su tre lati di una corte quadrata, rigorosamente senza luce elettrica e con un unico bagno comune che difficilmente svanirà dal ricordo degli ospiti: praticamente cinque-sei latrine separate da murettini alti si e no mezzo metro; l’ultima, più appartata, era più larga per esigenze specifiche il che creava anche il rischio di caderci dentro se di notte, al buio, con una lampada frontale in testa e con una feroce emicrania da ipossiemia il coraggioso fruitore non stava ben attento a divaricare adeguatamente le gambe…

Dentro alle stanze, una candela accesa: una sfida all’intelligenza degli occidentali poco acclimatati; perché non si capì subito che anche il poco ossigeno consumato dalla candela era meglio conservarlo per irrorare il cervello. Un lavabo stile nostre campagne del secolo scorso ed un grosso recipiente termico per conservare l’acqua calda (riscaldata dall’enorme stufa della cucina) completavano l’arredo delle stanze: tutto l’essenziale, nulla di superfluo. Il pagliericcio non era neanche poi scomodo.

Ad un’estremità della corte, la grande stanza con la cucina, un’enorme stufa in mezzo ed il locale comune per mangiare, proprietari ed ospiti tutti insieme. Niente sedie; tappeti e cuscini per terra tutt’attorno a un lungo tavolo quasi al livello del pavimento; così che si finiva per mangiare comodamente e mollemente coricati in posizione orizzontale. Acqua e birra tibetana, cibo a volontà e probabilmente in quello sperduto lodge ad altissima quota Steve e soci mangiarono meglio che in qualunque albergo di standard di lusso per i parametri cinesi, con un’ospitalità che andava ben oltre i doveri dei gestori di un locale a pagamento. Ma prima di mangiare, una ben strana esperienza toccò Steve nel cuore.

Entrando nella grande sala, già con la mente un po’ annebbiata dall’ipossia, dalla stanchezza della giornata passata sui fuoristrada e dalle birre tibetane bevute poco prima, Steve venne accolto da Pino, il ragazzo di Torino che accompagnò il gruppo per tutto il viaggio.

Pino era un personaggio eccezionale, amava il Tibet, la filosofia buddista in modo totale ed era riuscito nel non facile obiettivo di coniugare la grande passione della sua vita con il lavoro, diventando accompagnatore turistico nella regione himalayana per conto di un importante tour operator italiano: da dieci anni passava almeno sei mesi all’anno fra Nepal e Tibet.

Conosceva perfettamente la lingua nepalese e tibetana, parlava con i monaci e si permetteva il lusso di spiegare loro alcuni aspetti della dottrina religiosa che essi stessi non conoscevano. Recitava i “mantra” insieme ai pellegrini che continuamente si incontravano nei villaggi e nei monasteri e spesso ne insegnava loro di nuovi. Era amico personale del Dalai Lama e più volte gli fece da interprete nelle sue visite in Italia. Aveva proposto a Steve un trekking intorno al Kailash, la montagna sacra dei tibetani, per vivere un’esperienza mistica e sportiva allo stesso tempo. Visitare quei luoghi con Pino era un privilegio che trasformava un viaggio turistico in una full-immersion nella più straordinaria filosofia di vita che Steve avesse mai conosciuto.

Dunque Pino aspettava Steve nella grande sala da pranzo, e gli chiese, quasi con imbarazzo, se non voleva fare qualcosa per la figlia più piccola dei proprietari: era malata, e i loro genitori sarebbero stati onorati se un medico venuto da così lontano avesse avuto la compiacenza di visitare la loro bambina.

Steve rimase sgomento: un medico occidentale, con tutto il suo bagaglio di grandi conoscenze scientifiche ma privo di ogni strumento, per non parlare della possibilità di effettuare o prescrivere esami, si sente istintivamente inadeguato nel suo compito e si trova di fronte, quasi con violenza, alla povertà spirituale della propria condizione, basata su presupposti fondamentalmente tecnologici. E quando ti ritrovi a disporre solo delle tue mani, degli occhi, della mente e forse del cuore, un grande disagio ti pervade.

Anche perché, Steve lo capì subito, per i suoi interlocutori lui era più di un medico, era un marziano, qualcuno venuto da un altro pianeta, probabilmente alla stregua di un dio, tanta era la differenza culturale, psicologica, tecnologica fra questi due mondi che si incontravano davanti alla grande madre di tutte le montagne: e la differenza non significava assolutamente inferiorità di qualcuno o superiorità di qualcun altro, significava semplicemente due modi totalmente diversi di vivere.

E mentre Steve masticava faticosamente questi concetti, si ritrovò davanti a tutta la famiglia riunita in cucina: la mamma teneva in braccio una bambina spaventatissima; poteva avere sei o sette anni, era visibilmente denutrita, aveva un aspetto sofferente, il colore della pelle era grigio, impossibile dedurre dalla cute o dagli occhi segni di itterizia o di anemia.

La bambina doveva essere visitata in braccio alla mamma, se no avrebbe pianto istantaneamente alla vista di questo stregone venuto da un altro mondo. E Steve, nei limiti del possibile, le toccò la pancia, le mise un orecchio sul cuore e sul torace, le guardò le sclere, cercò di valutare il tono muscolare e dei riflessi articolari, cercando di immaginare cosa avrebbe fatto un suo collega dell’ottocento, quali ragionamenti avrebbe sviluppato in una situazione forse normale per l’epoca…

La pancia era gonfia: “potrebbe avere un problema al fegato, chissà quale infezione intestinale, una malattia del sangue, un disturbo congenito del cuore.” disse a Pino affinché traducesse, ma più che altro per spezzare la tensione, per dire qualcosa, per non sembrare completamente impotente. Perché effettivamente così era.

“Bisognerebbe portarla al più presto a Shigatze, la città più vicina, perché possa effettuare degli esami in un ospedale cinese” aggiunse Steve (almeno a qualcosa si rendano utili, gli invasori, disse dentro di sé): Pino riferì e la risposta fu sconcertante: “fra cinque-sei mesi, quando sarà finito l’inverno e andranno in città per fare acquisti ai mercati, di cibo e di ogni altra cosa, porteranno la bambina all’ospedale”.

“Se sarà ancora viva…” Steve lo pensò solamente, ma era evidente la perplessità nei suoi occhi.

“Non giudicarli male – replicò subito Pino – so cosa stai pensando, ma devi capire cos’è il loro mondo e il loro modo di vivere: da secoli in queste terre si nasce, si vive, si muore nella totale indifferenza dell’umanità e nessun fattore esterno può influenzare, se non in male, la loro esistenza. Invasioni di popoli stranieri, dominazioni che cambiavano solo nella lingua e nell’aspetto dei nemici, istinto di sopravvivenza radicato ma anche realismo ed accettazione del proprio destino. Nessuno ti regala nulla né offre alcuna possibilità di cambiare la tua vita. Questi genitori amano sicuramente la loro bambina più di se stessi, ma sono perfettamente consapevoli che non possono modificare il suo destino. La loro vita è scandita da comportamenti, abitudini, eventi immutabili da molto prima che nascessero loro e i loro genitori, e che rimarranno tali anche dopo la loro morte.

Per loro andare nella grande città al di fuori del tempo previsto e dei motivi abituali costituisce non solo uno sforzo economico al di fuori delle loro possibilità, ma anche un cambiamento psicologico nelle loro tradizioni inconcepibile. Lo so che per noi occidentali tutto questo è inaccettabile, ma non possiamo neanche permetterci di venire qui per due-tre settimane e pensare di cambiare il loro modo di essere né tanto meno di giudicare le loro azioni.

Ti sono infinitamente riconoscenti per aver visitato la loro bambina, tu rimarrai impresso nei loro ricordi per tutta la vita per avergli concesso questo onore, ma loro con i soldi che spenderebbero per portare la bambina a Shigatze a farla curare dai cinesi garantiranno per almeno un anno la sopravvivenza agli altri figli, la possibilità di farli studiare e di dargli una chance di migliorare la loro vita.

Ma ora dobbiamo onorare i cibi che hanno preparato per noi: per loro sono l’equivalente di un banchetto nuziale, di una cerimonia straordinaria, non dobbiamo deluderli”.

Steve non disse nulla, ma meditò a lungo sulla concezione della vita nel suo mondo: si arrivano a spendere cifre incredibili per salvare la vita ad ultraottantenni affetti da almeno cinque-sei malattie croniche degenerative, la maggior parte delle quali correlate allo stile di vita di una società ricca che si può permettere il lusso di rovinarsi la salute per il troppo mangiare, la sedentarietà, il fumo, l’obesità e l’opulenza, bisogna sprecare risorse per curare gli eccessi e non le carenze. Poi capiti dall’altra parte del mondo e resti indignato se una bambina è destinata a morire nell’indifferenza e nell’accettazione di un destino che non è mai stato né mai sarà benigno. Quella sera bevve molta birra tibetana prima di riuscire a tornare in sintonia con i suoi compagni, poi cominciò ad immergersi nel personaggio che doveva interpretare e raccontò, come tutti si aspettavano, la storia della conquista dell’Everest. Steve era un narratore affascinante e catturò a lungo l’attenzione di tutti con la struggente ed eroica sfida di George Mallory a quel pezzo di roccia proteso verso il cielo.

Alla fine della cena le donne del gruppo presero da parte le figlie più grandi della famiglia e valorizzarono la loro bellezza utilizzando tutte le armi della cosmesi occidentale. Per la prima volta, e forse unica nella loro vita, poterono truccarsi e non credettero ai loro occhi quando si specchiarono e si guardarono fra di loro. Le risate di tutti risuonarono fino a tardi e la felicità pervase la grande sala da cucina in questo strano connubio tra due mondi. Nessuno vide più né seppe più nulla di quella bambina.

La vita riprese il suo corso ordinario, dopo gli strani eventi di quella sera passati a tentare di vedere l’Everest in mezzo alle nuvole ed a cercare il senso della vita stando attenti a non sprofondare in una latrina tibetana pagando il dazio alle troppe birre bevute.

La mattina dopo, all’alba, con l’Everest sempre sdegnosamente nascosto, i potenti motori dei Land Cruiser portarono lontano gli occidentali, a toccare il cielo sui valichi più alti del mondo, fra centinaia di file di bandierine di preghiera e di sciarpe di seta bianca lasciate in segno di devozione là dove la terra compie un ultimo sforzo per avvicinarsi agli dei prima di ripiegarsi verso il basso per buttarsi a capofitto verso le foreste nepalesi, verso il confine fra due mondi, verso la mitica incredibile frontiera fra il Tibet, ovvero la Cina, ed il Nepal, ovvero l’avamposto della società occidentale a ridosso della grande potenza orientale.

I cinesi, come tutti i dominatori, si permettono anche un distorto senso dell’ironia. E così hanno deciso di chiamare “ponte dell’amicizia” quello stretto precario nastro di cemento sospeso sopra la gola del Dude-Khosi che in realtà separa fisicamente e militarmente due universi.

Il paesaggio sembrava assecondare, con i suoi cambiamenti, quella crescente inquietudine che pervadeva l’animo dei viaggiatori man mano che ci si avvicinava a Zangmu, paese di frontiera, avamposto del nulla, monumento all’assurdità della condizione umana: se Francis Ford Coppola avesse avuto bisogno di qualche ulteriore fonte di ispirazione, oltre al “Cuore di tenebra” di Conrad, per ambientare il suo “Apocalipse Now”, sicuramente poteva attingere a piene mani a Zangmu, alla sua popolazione, alla sua atmosfera.

Dopo il dissolversi nel nulla della cortina di ferro e lo smantellamento del muro di Berlino, nessuno può capire cos’è una frontiera se non passa da Zangmu e dal Ponte dell’Amicizia. (N.d.A.: dopo il terremoto del 2015 il valico di Zangmu è tuttora impraticabile e l’unico percorso via terra fra Tibet e Nepal è il valico di Kirong, che noi abbiamo percorso nel 2018, ancora più accidentato e sconnesso di quello di Zangmu).

Dopo giorni interi sui grandi altipiani, dove l’orizzonte ed i pensieri del viaggiatore corrono verso l’infinito, quasi all’improvviso la terra si ripiega su se stessa aprendosi in una selvaggia profonda ferita provocata dallo scorrere delle acque del Dude-Khosi: un’enorme gola, con le pareti che cadono a picco, quasi verticali, verso il fiume che a malapena si riesce a distinguere centinaia di metri più in basso. Sul lato orientale della gola, i cinesi ed i nepalesi hanno costruito un’arditissima pista sterrata (chiamarla strada è decisamente esagerato) che con infiniti tornanti perde quota scendendo verso le foreste a sud dello spartiacque himalayano.

I cinquanta chilometri da percorrere in territorio cinese sono degni di un Camel Trophy: la parete della montagna frana continuamente e la pista, già di per sé stretta, spesso si riduce a permettere a malapena il passaggio di un veicolo con la ruote sull’orlo del baratro, zigzagando fra cumuli di detriti ammucchiati ai bordi della strada; diventò ben presto un’abitudine non vedere altro che il vuoto dai finestrini per i passeggeri seduti sul lato destro dei Land Cruiser; rivoli d’acqua che scendevano dalla parete non di rado si trasformavano in vere e proprie cascate ed il massimo divertimento dei piloti era di fermarsi proprio sotto questi diluvi per lavare i fuoristrada dalla polvere e dalla sabbia accumulati nel viaggio. Ma la cosa più straordinaria era il fatto che la pista, ovviamente, non era a senso unico, costituendo l’unica arteria stradale fra il Nepal e la Cina: di conseguenza ogni dieci-quindici metri si verificava un incrocio fra fuoristrada, camion, pulmini, mezzi militari e rare automobili civili che percorrevano ininterrottamente la strada dai due lati.

Un fluire lento, quasi immobile ma ostinatamente in movimento di veicoli che sfidava ogni legge della fisica e del buon senso. Vedere due enormi camion carichi all’inverosimile di masserizie, generi alimentari e quant’altro affiancarsi là dove lo sterrato accennava appena ad allargarsi, salire letteralmente sul fianco della montagna con due ruote, al limite del ribaltamento ed incrociarsi con le lamiere che stridevano toccandosi fu uno spettacolo indimenticabile che proseguì per ore, perché in queste circostanze si percorrevano a malapena dieci-quindici chilometri orari.

All’improvviso cominciarono ad apparire sui bordi della strada le prime case di Zangmu, abbarbicate alla parete della montagna lungo gli interminabili tornanti che tagliavano il fianco della gola. Quando la densità delle costruzioni aumentò, la pista sterrata diventò sempre più stretta, trasformandosi in un rivolo melmoso che raccoglieva a cielo aperto gli scarichi delle abitazioni e dove al caos del traffico di veicoli si sovrapponeva la costante presenza di bambini, polli, maiali, cani, uomini e donne indaffaratissimi e del tutto indifferenti agli inutili, continui, disperati suoni di clacson effettuati più per abitudine che per la speranza di ottenere strada.

Alberghetti di infimo livello, ristorantini per tutte le tasche, scambiatori di valuta clandestini ma che lavoravano tranquillamente sotto gli occhi di tutti, prostitute sulla soglia delle case, sui marciapiedi, venditori ambulanti di qualunque cosa in mezzo alla strada: questa la fotografia che ci si portava a casa da Zangmu.

Ma il vero capolavoro dell’assurdo si raggiungeva solo all’inizio della “no man’s land”: la cosiddetta terra di nessuno, un poco plausibile territorio neutro, non più cinese ma non ancora nepalese ove i fuoristrada tibetani erano obbligati a fermarsi ed a scaricare repentinamente gli stralunati viaggiatori con tutti i loro bagagli nel caos più totale.

Frotte di bambini e ragazzini erano pronti a precipitarsi sulle valigie e sugli zaini per trasportare il tutto, ovviamente a pagamento, fino alla dogana cinese, distante due-tre chilometri. Ed ogni turista od escursionista doveva stare attento a non perdere di vista il proprio “facchino” per evitare brutte sorprese ai bagagli, mentre si faceva largo nella melma fra polli, maiali ed umanità varia.

La dogana cinese incuteva timore e si percepiva la vera dimensione politica della situazione: pur facendo parte di un viaggio organizzato il minimo disguido, un documento mancante, un cavillo interpretato male dai funzionari poteva in un istante creare problemi inimmaginabili e bloccare per ore l’intero gruppo in quella bolgia dantesca.

Per fortuna Pino, ben addentro ai meccanismi burocratici, riuscì a gestire bene il controllo dei passaporti e dei visti e finalmente Steve e compagni attraversarono, a piedi, il “ponte dell’amicizia”. Sul versante nepalese della “no man’s land” rivissero una situazione quasi speculare, anche se con minor tensione; purtuttavia i doganieri nepalesi, per non essere da meno dei colleghi cinesi, fecero di tutto per esasperare ogni dettaglio ed esaminare al microscopio ogni documento.

Dopo due ore finirono i controlli doganali e nuovamente furono tre chilometri da percorrere a piedi con i propri bagagli passati in una staffetta dai bambini cinesi a quelli nepalesi. Solo allora Steve comprese la vera dimensione del traffico commerciale fra i due paesi: una fiumana ininterrotta, per chilometri, di camion carichi di qualunque genere di alimenti, vestiti, elettrodomestici attendevano forse da giorni il sospirato visto per transitare verso la Cina. Decine di modestissime locande davano ospitalità a chi poteva permettersi il privilegio di non dormire nella cabina del camion; gli sguardi rassegnati ed annoiati degli autisti accompagnarono il percorso dei viaggiatori fino ai pulmini che li attendevano più a valle per iniziare la discesa verso Kathmandu.

E fu, all’improvviso, la foresta sub-tropicale monsonica, verde, esuberante, inquietante dopo le pietraie desolate ed infinite degli altipiani tibetani.

E fu all’improvviso la guida a sinistra sulle strade nepalesi, retaggio della colonizzazione britannica: sempre dominazione straniera, diversa, ma dominazione.

E furono tredici ore passate a percorrere centocinquanta chilometri, ma potevano essere anche i cinque anni-luce per raggiungere Alpha-Centauri.

E fu, alla sera, una doccia calda in un lussuosissimo (o sembrava tale?) lodge nepalese poco a nord di Kathmandu.

E fu, per pochi, interminabili ed indimenticabili secondi, il più stupefacente tramonto rosso fuoco sulla catena himalayana che turista od alpinista potesse mai aver visto nella sua vita.

E il Tibet, già era diventato un sogno.

Tibet-Nepal, ottobre 2001

Vent’anni dopo

(lo aveva già detto Dumas?)

Dopo quasi vent’anni (19 per la precisione) siamo tornati in Tibet, per rivederlo dopo l’esperienza del 2001 e dopo il mancato viaggio del 2015 quando, in conseguenza del rovinoso terremoto in Nepal cinque giorni prima della nostra partenza, era ovviamente impossibile spostarsi in Tibet; siamo tornati per visitare alcune zone che non avevamo potuto esplorare (le remote regioni occidentali) per andare al monastero di Rongbuk e al campo base nord dell’Everest, per valutare, con molta apprensione, come era cambiato dopo tanti anni di ulteriore dominazione cinese, nella speranza che i cambiamenti seppure inevitabili non alterassero completamente la memoria di quanto avevamo visto e conosciuto. Già in condizioni normali dopo vent’anni una nazione cambia per effetto del tempo, ovunque, a maggior ragione se i mutamenti sono forzati, imposti da un’autorità e non corrispondono al “fisiologico” progredire dello sviluppo compatibile con la cultura e le tradizioni del popolo che ci vive. Ma la bellezza, la “grande bellezza” di un paese e di un popolo, rimane e compensa tutto il resto. Ne valeva la pena. Tuttavia chi vuole visitarlo ci vada in fretta: ogni giorno, settimana, mese (non parliamo nemmeno di anni) che passa, irrimediabilmente si perde qualcosa, per sempre.

Tibet, ultima frontiera

Anche questo forse non è un titolo molto originale, ma rispecchia bene le molteplici chiavi di lettura di questa nazione e di questo popolo straordinari.

FRONTIERA POLITICA: uno dei posti più ardui al mondo da raggiungere, impossibile o quasi andarci da soli, e anche con viaggio organizzato è obbligatorio avere guida, autista e un dettagliato e rigido piano di viaggio da rispettare e non sgarrare. Il confine con il Nepal è tutt’ora un’avventura da vivere con la sensazione che non sia solo un gioco, un’emozione che richiama i film anni ’70 da spy-story, ma una esperienza vera molto seria, specialmente se qualcosa gira male in termini di permessi e visti, o semplicemente per la luna storta o lo zelo di qualche guardia frontaliera. E se anche tutto è in regola ti ritrovi in una “no man’s land”, una terra di nessuno di 1-2 chilometri dove non è più Cina ma non ancora Nepal, dove le auto e le guide non ti possono più accompagnare, e dove ti ritrovi su un ponte di 200-300 metri con zaini e bagagli a mano, devastati dai controlli e richiusi alla meglio, da trascinare fino all’altra parte dove per altre tre o quattro volte nel giro di pochi chilometri subiranno altrettante riaperture e devastazioni da parte di guardie che non si fidano dal controllo precedente e dei loro colleghi di pochi passi più indietro. E poi anche le strade di accesso sono da ultima frontiera, soprattutto in Nepal, dove dal confine di Kirong a Kathmandu per percorrere 130 km di una sterrata ai limiti dell’impraticabilità anche per un fuoristrada, soprattutto nella parte alta, abbiamo impiegato dieci ore al netto delle soste: e siamo stati ancora fortunati, perché potevano essere quattordici o quindici.

FRONTIERA SPIRITUALE: è uno dei confini più evidenti e tangibili fra un popolo e un paese che anelano alla propria libertà religiosa e spirituale e l’invadenza di un regime politico che fa uso indiscriminato della bandiera dell’ateismo e del materialismo storico per soggiogare sei milioni di persone. È un confine simbolico e materiale non solo con la Cina, ma anche con un mondo occidentale sempre più impoverito da uno stile di vita improntato alla ricchezza economica e al benessere materiale e un altro mondo che propone modelli di comportamento interiore e di vita che sempre di più noi cerchiamo di scoprire e di recuperare.

FRONTIERA FISICA, GEOGRAFICA, SCIENTIFICA: è una nazione al limite delle altitudini estreme, con le montagne più alte del mondo, con gli altipiani costantemente sopra i 4000 metri stabilmente abitati, analogamente alle alte terre andine del Perù e della Bolivia, ma a differenza di queste, con una straordinaria capacità genetica, sviluppatasi nei millenni, di adattarsi in modo vantaggioso all’alta quota e all’ipossia, cosa che da anni viene studiata a livello scientifico chiedendosi perché solo i tibetani sono riusciti a modificare il loro DNA, a differenza dei popoli sudamericani delle Ande. E ancora frontiera meteorologica, fra gli aridi altipiani quasi desertici con scarsissime precipitazioni a nord per lo sbarramento della catena himalayana, e la rigogliosa foresta pluviale del Nepal appena a sud e oltre il confine; due mondi, in tutti i sensi, a poche decine di chilometri di distanza.

E INFINE ANCHE UNA FRONTIERA TEMPORALE: chi va in Tibet può simultaneamente compiere un viaggio nel tempo sia nel passato che nel futuro: chi va per la prima volta viaggia nel passato, perché prevalgono le testimonianze di una vita che può essere, in molte regioni, ancora paragonabile a quella di due o tre secoli fa, ma chi come noi ritorna dopo precedenti viaggi, è catapultato drammaticamente nel futuro, dovendo prendere atto dei colossali cambiamenti tecnologici, ambientali e infrastrutturali apportati dai cinesi; cambiamenti che non sono del tutto negativi, ma che certamente non sono stati effettuati a vantaggio dei tibetani, o perlomeno non principalmente a questo scopo. Si potrebbe parlare a lungo della questione sino-tibetana, sicuramente non è questa la sede adatta, sicuramente non si può generalizzare su quanto viene fatto dai cinesi che, come è doveroso dire, apportano anche sviluppi positivi, come quelli relativi alla piantumazione nelle steppe erose dalla siccità e dal vento al fine di prevenire la desertificazione, come l’impulso all’utilizzo di moto e di auto elettriche per prevenire quell’inquinamento che peraltro è molto più drammatico in Cina che non nel Tibet, enorme e poco antropizzato rispetto alla repubblica popolare cinese. Hanno fatto costruzioni incredibili, la ferrovia Pechino-Lhasa che passa a 5000m di quota e con un vagone-infermeria dotato di bombole di ossigeno per chi soffre di mal di montagna, gallerie di chilometri scavate nelle montagne himalayane, ponti, strade a due o quattro corsie perfettamente asfaltate che corrono su passi di montagna a 5300 metri di quota, dove d’inverno le temperature scendono anche a -15/ -20 gradi. Poi magari tutto questo serve al trasporto di truppe e mezzi militari dell’esercito per espandere il proprio controllo anche nelle zone più remote del paese. Sicuramente giova ai turisti e ai viaggiatori che possono percorrere tratte molto più lunghe in minor tempo, come abbiamo fatto noi, che nel 2001 ci spostavamo a 30-40km orari mentre ora potevamo viaggiare anche a 100km/h fino alla soglia dei 4500metri. Nel viaggio di andata verso il “far west” abbiamo rallentato per lunghi tratti di lavori in corso nei quali erano impegnati centinaia di operai e di mezzi meccanici, pale, escavatori, bulldozer e quanto necessario con spiegamenti di macchine e di lavoratori straordinari; dopo una settimana, ritornando sulla stessa strada, dove sette giorni prima c’erano decine di chilometri di lavori in corso, era tutto miracolosamente costruito ed asfaltato. Da questo punto di vista i cinesi sono insuperabili!

Purtroppo hanno fatto molte altre cose i cinesi: abbiamo visto interi villaggi rasi al suolo, abitanti sradicati dalle loro tradizionali abitazioni semipermanenti, tipo le yurta mongole, e costretti a vivere in condomini di 4-5 piani, parallelepipedi di cemento dotati di W.C., antenna per la TV ma totalmente estranei alla loro vita seminomade; abbiamo visto Lhasa, la capitale, sempre più dominata da grattacieli e megacondomini per la popolazione cinese immigrata, sempre più preponderante, con il centro storico e sacro della capitale sempre più piccolo, circoscritto e pressoché assediato dalla nuova città cinese; abbiamo visto il Pothala, una delle grandi meraviglie del pianeta, l’antica residenza del Dalai Lama, trasformata in una specie di attrazione turistica per i turisti cinesi, con bar, ristoranti, enoteca, ma con il divieto per i tibetani di poterne visitare più del 50%, ovvero tutte le stanze più sacre e con le divinità più rappresentative; il tutto con la ciliegina sulla torta della bandiera cinese che troneggia sui tetti dell’edificio. Abbiamo visto i monasteri, quasi tutti distrutti da MaoTseTung e dai suoi successori, ricostruiti per permettere ai visitatori occidentali di visitarli, ma sotto un controllo strettissimo delle Guardie Rosse, con i monaci ed i loro superiori totalmente soggiogati all’autorità cinese. Abbiamo visto al monastero di Rongbuk, a 5000 metri al cospetto dell’Everest, una camionetta della Polizia sbarrare con soldati armati la prosecuzione del cammino verso il campo base nord dell’Everest, percorribile solo da chi ha il visto di 6000 euro per la scalata in vetta, rimanendo con il rimpianto di non vedere una località di grande valore simbolico per gli appassionati di montagna e di alpinismo.

Ma abbiamo visto anche molto altro: gli altipiani aridi, desolati, semi-desertici, battuti incessantemente dal vento, pervasi da un’atmosfera quasi surreale dove sensazioni fisiche e psichiche si alternavano e mescolavano, ora prevalendo la fatica cronica della respirazione a causa dell’ipossia, ora l’eco non reale, quasi allucinatorio, di tutte le preghiere buddiste lanciate nell’aria dalle bandierine e dai cilindri di preghiera dei pellegrini incontrati per strada. Abbiamo visto mandrie di yak ed i cow-boy tibetani, con i loro cappelli a tese larghe identici a quelli dei cow-boy texani, altrettanto bravi come i loro omologhi dei film western. Abbiamo visto cieli e montagne dai colori psichedelici, senza il filtro dell’atmosfera delle quote basse, abbiamo visto vestigia e rovine monumentali di antichi reami religiosi e militari, nel lontano e ancora adesso poco accessibile “far west” tibetano, al confine con il Ladakh indiano. Abbiamo visto cime da 7000 e 8000 metri, quelle famosissime e quelle sconosciute e forse anche senza nome, perlomeno finché non gliene danno uno gli alpinisti occidentali o cinesi. Abbiamo sentito raccontare dalla nostra guida quanto gli piacerebbe uscire dal Tibet, venire in Europa sulle nostre alpi, ma di non poterlo fare perché il governo cinese non concede il passaporto ai tibetani fino al compimento del 60° anno di età. Abbiamo incontrato pochi viaggiatori europei coi quali si è subito creata quella affinità e familiarità fatta di racconti di viaggio di posti lontani, esotici e quasi immaginari se non nella realtà di chi li ha visitati.

Abbiamo camminato alle pendici del monte Kailash, la montagna sacra di quattro religioni: buddismo, induismo, giainismo e Bon, la montagna nei cui paraggi, ai quattro punti cardinali, nascono quattro dei più grandi fiumi dell’Asia: il Bramaputra, il Gange, la Sutley ed il Karnali. Abbiamo visto i pellegrini buddisti percorrere il periplo completo della montagna secondo il rigoroso rituale della prostrazione, che prevede tre passi in piedi e poi di inginocchiarsi e prostrarsi completamente faccia braccia e tronco per terra, per poi rialzarsi: tutto questo per cinquantadue km, da 4500 a 5700m di altitudine, in un tempo variabile dai 10 ai 15 giorni. Per arrivare al punto culminante di tutto il pellegrinaggio, il passo di Drolma, a 5650m, dove si entra in nuova vita lasciandosi alle spalle la precedente. Abbiamo ammirato il versante nord-ovest dell’Everest, quello dei mitici primi tentativi di salita da parte di George Mallory e dei suoi coraggiosi ed incoscienti compagni, vestiti, nel 1922 e 24, come in una scampagnata sulle montagne scozzesi, con giacche di gabardine, pantaloni alla zuava di fustagno con giri di bende attorno alle gambe per isolarle dal freddo, e con giri di sciarpa di lana grezza intorno al collo e alla testa: riuscendo, in queste condizioni e con bombole di ossigeno non funzionanti, se non del tutto privi di queste, ad arrivare fino a 8600 metri e forse, ma questo non lo si saprà mai, addirittura in vetta senza più tornarne vivi. Siamo arrivati, su una strada con un manto di asfalto liscio come un circuito di Formula 1, fino a 5300 metri davanti allo Shishapangma, l’unico 8000 in territorio completamente tibetano, meta affascinante per noi alpinisti in quanto di relativa difficoltà tecnica ed ambientale, salvo il permesso da richiedere al governo cinese.

Abbiamo bevuto fiumi di the, mangiato monotoni piatti di noodles con verdure cotte al vapore ed insipide se non con l’aggiunta di salse piccantissime, abbiamo avuto i piatti inondati da quintali di riso servito come companatico universale per ogni portata si richiedesse. Abbiamo ascoltato e meccanicamente recitato anche noi i mantra buddisti, “Om mane padme hum” che diventava un ritornello che ci girava ormai inconsciamente nelle circonvoluzioni sottocorticali.

Questo e molto altro, che ogni tanto affiora dai ricordi e nei dettagli delle immagini portate a casa.

Prima di arrivare in Tibet abbiamo fatto scalo a Chengdu, la sesta metropoli più grande della Cina con oltre cinque milioni di abitanti, dove si percepisce la dimensione dei problemi ambientali della nazione: inquinamento e smog a livelli altissimi, tutta la popolazione che indossa mascherine sul volto per proteggersi dalle polveri, un esercito di moto elettriche prodotte e vendute a prezzi accessibili per limitare l’uso dei carburanti; grandi problemi e grandi tentativi per risolverli: una caratteristica peculiare di questa nazione. Volevamo fermarci una notte a Chengdu perché, a 10 chilometri dalla città, volevamo visitare il centro per le ricerche e per la protezione dei panda giganti: un’oasi di natura ai limiti della megalopoli ove vivono, sono monitorati e accuditi circa 200 esemplari di questi cugini degli orsi, a grave rischio di estinzione. Non è uno zoo cittadino né uno zoo-safari, è un’area naturale protetta e recintata con grandi spazi per gli animali e la possibilità per i milioni di visitatori che entrano ogni anno di osservarli da vicino. Sono animali straordinari che passano il loro tempo a dormire, giocare e mangiare enormi quantità di canne di bambù. Anche questo un esempio di cosa possono fare i cinesi se mettono la loro tecnologia al servizio di obiettivi virtuosi.

Al rientro in Nepal via terra, dopo la terribile stradaccia di centotrenta chilometri dal confine col Tibet, il consueto caos di Kathmandu, come sempre bellissima, straziante per la povertà, l’inquinamento, i postumi del terremoto seppur con molte opere di ricostruzione avviate, la baraonda infernale di mezzi motorizzati di ogni tipo e la solita umanità che vive per strada ad ogni ora del giorno e della notte. Una città rivisitata per la settima volta con la stessa identica passione e lo stupore sempre immutato. Una città che si ama o si odia ma non lascia mai indifferenti, che può essere vissuta e interpretata a seconda dei momenti in chiave artistica, spirituale, sportiva essendo il centro nevralgico per i trekking e l’alpinismo di altissima quota; una città dove ci si sente a casa e dove ti capita di uscire dall’albergo e dopo pochi minuti ritrovarti fianco a fianco a bere un caffè con un grande alpinista, a salutare una guida con cui hai viaggiato anni addietro, a mangiare una pizza e bere innumerevoli birre fino a notte fonda con un italiano che vive e lavora in Nepal da oltre trent’anni e ti racconta aneddoti e storie incredibili ma vere di quanto successo in tutto questo tempo; dove ti sembra ancora di respirare ciò che rimane dei fiumi di marijuana consumati dagli hippies degli anni sessanta e settanta in cerca di risposte a domande che probabilmente non si erano mai nemmeno posti o che nel frattempo si erano già dimenticati. Una città dove ti senti libero e al di fuori dal tempo e dallo spazio nei quali si vive a casa nostra, insoddisfatti e alla continua ricerca utopistica di una alternativa. Una città dove puoi anche darti da fare per aiutare altra gente, come facciamo noi da quattro anni con la nostra attività di volontariato. E questo sarà un ottimo spunto per i prossimi racconti.

Tibet, Nepal, maggio 2018

Vita e avventure di un mondo perduto

Vita e avventure di un mondo perdutoa cura di Paolo Repetto, 23 maggio 2018

Le origini di un impero tra storia e leggende

Sven Hedin e i misteri del lago errante

Carlo Piaggia, vagabondo del Nilo

Cercando l’Australia

Alexander von Humboldt

L’ultimo lago

Il viaggio al Tibet

Il milanese che valicò le Ande

l mito americano della Natura

Humboldt e l’alba dell’ecologia

La poesia di Wystan Hugh Auden

Donne con la  bussola

Ida Pfeiffer, la viaggiatrice solitaria

Le origini di un impero tra storia e leggende

di Paolo Novaresio

Dal 1960 il Mali è una Repubblica, ma la memoria popolare è tuttora rivolta ai secoli splendidi in cui era un vasto e potente impero.

Le interminabili genealogie dei re, tramandate dai canti e racconti epici fino ai nostri giorni, non sono sterili elencazioni ma storia viva e presente in cui spesso si intrecciano elementi magici e leggendari dovuti alla scarsità di documentazione scritta. La tradizione africana, infatti, viene tramandata soprattutto oralmente e tutto questo non fa che aumentare il fascino di questo Paese, della sua gente frazionata in decine di etnie diverse.

Zoumana Traoré dice di avere sessant’anni, abita a Gao ed è di origine Songhai, popolo che fondò il regno del Mali. Ai bei tempi faceva il meccanico per l’Air Mali e si arrangiava a portare a spasso i turisti nella zona. Ora Gao è isolata, irraggiungibile e pericolosa: di aerei neppure l’ombra, di turisti non ne parliamo.

Zoumana è ovviamente disoccupato, senza troppe ansie per il futuro, sopravvive al presente. Mentre sorseggia con metodo una birra mi racconta della storia di Gao, o almeno la sua personale versione, tramandata attraverso una serie di eventi simbolici che parlano di battaglie, re, eroi e magia: «Quando in Mali c’erano i francesi circolava una barzelletta. Si studiava la storia di Francia, quindi di conseguenza i nostri antenati erano i Galli – nos ancêtres les Gaulois – così si leggeva sui libri. Per un Songhai una discendenza piuttosto strana, non trovi?».

La tendenza a considerare l’Africa un continente senza storia, un esotico relitto dell’Eden, è un vizio duro a morire, anche se di origini recenti. In realtà solo da un paio di secoli gli Europei vedono l’Africa come un continente selvaggio. Per i Romani e per gli uomini del Medioevo e del Rinascimento, l’Africa evocava immagini di regni sontuosi e ricchezze straordinarie. Era la culla della sapienza e della civiltà. A Gao le tracce di questo illustre passato sono ben visibili.

Da ciò che resta del famoso Hotel Atlantide, con una breve passeggiata (due chilometri, fatali senza un cappello) si arriva di fronte alla tomba degli Askia, la dinastia che portò Gao al rango di capitale del vastissimo Impero Songhai.

La tomba è un mausoleo in terra cruda, in puro stile sudanese. Pare che l’iniziatore di questo stile sia stato un architetto e poeta andaluso che raggiunse il fiume Niger dal Cairo, al seguito della corte di Kankan Musa. Il mansa (re) del Mali era di ritorno da uno dei suoi famosi pellegrinaggi alla Mecca. Era l’anno 1325.

Oggi nei manuali in uso alle scuole secondarie di Bamako non si parla più di Galli e cerimonie druidiche, ma di imperi sudanesi. La loro storia passa attraverso interminabili genealogie di re e sovrani mitici: dal nostro punto di vista possono apparire sterili elencazioni ma per gli africani, discendenze e parentele tramandate dai canti e dai racconti epici, sono storia viva e presente. Tant’è che nel marzo del 1957, il dottor Kwame Nkrumah nella qualità di primo Presidente si prese una “licenza storica” e dette all’antica Costa d’Oro il nome di Ghana, il cui impero e sfera d’influenza erano in realtà situati assai più a nord.

Le rovine della presunta capitale del regno, Koumbi Saleh, si trovano addirittura nel territorio dell’odierna Mauritania.

In compenso, per rimescolare ulteriormente le carte nel discutere le modalità dell’indipendenza per l’Africa occidentale francese, i rappresentanti della Costituente di Dakar scelsero per i territori lungo il corso del Niger il nome di Mali, inoltrandosi in un pellegrinaggio ideale alle più profonde radici della storia della regione.

Non a caso Timbuktu, Gao, Djenné e le grandi città mercato del delta interno, conservano nel semplice svolgersi della vita, nelle caratteristiche della pianta urbana, nel carattere degli abitanti, la luminosa eredità dell’antico Mali.

L’odierna Repubblica del Mali copre una vasta frazione dei bacini dei due grandi fiumi dell’Africa occidentale, il Senegal e soprattutto il Niger.

Quest’ultimo attraversa il Mali per 1800 chilometri, asse privilegiato di comunicazione e insediamento, con la grande ansa verso nord che attraversa le sabbie del Sahara.

Il paragone col Nilo è d’obbligo: come il “padre dei fiumi”, il Niger scorre nel deserto, si impaluda in un grande delta interno ed è agitato da rapide fin quasi alla foce.

Come il Nilo, il Niger è stato via di penetrazione commerciale e militare e testimone di grandi civiltà. Dai tempi remoti che videro sorgere il regno di Ghana fino all’epoca attuale, il traffico di genti e merci non ha mai smesso di solcare il fiume. Il Niger riassume in sé la continuità della storia del Mali, dagli splendori passati alle speranze di oggi.

Il Paese può essere sommariamente diviso in tre grandi regioni naturali che corrispondono, in concreto, a due zone climatiche: quella sahariano-saheliana e quella sudanese.

La regione che costeggia il deserto appariva alle carovane che venivano dal Nord come la riva dell’oceano, da cui il nome Sahel (in arabo, letteralmente “sponda”). Una distesa piatta, uniforme, sabbiosa, con precipitazioni torrenziali e irregolari, vegetazione limitata a ciuffi di arbusti spinosi e a qualche acacia. È la terra dei pastori nomadi.

Più a sud, dopo aver lasciato Timbuktu, il Niger si allarga in un immenso delta interno. Un fitto reticolo di canali, affluenti e stagni è quel che resta di un vasto lago, prosciugatosi alcune migliaia di anni fa. La vegetazione è più rigogliosa, la terra fertile: gli arabi chiamarono questa regione, dall’Atlantico al Nilo, Bilad el-Sudan, la Terra dei Neri.

Il Sudan, sufficientemente irrorato dalle piogge, è adatto all’agricoltura e l’abbondanza dei raccolti permise l’insediamento sedentario di popolazioni urbane numerose e attive.

Fu proprio nelle città del delta interno che si sviluppò una nuova e originale dimensione di civiltà, legata a doppio filo al grande commercio carovaniero attraverso il Sahara.

L’oggetto principale di questo traffico era l’oro, estratto in notevoli quantità nelle regioni di Bouré e Bambouk e scambiato con sale, tessuti e rame. Il monopolio del commercio dell’oro fu uno dei fondamenti dello sviluppo dei regni di Ghana, Mali e Songhai.

I documenti commerciali, fortunosamente conservati negli archivi del Cairo, ci danno prova di come le monarchie lungo il Niger fossero inserite nel gigantesco sistema commerciale che, facendo perno sull’Egitto, si estese dopo l’anno Mille dalla Spagna alla Cina.

A riprova di questa tesi, ecco cosa scrive un mercante egiziano dell’ epoca a un suo socio e corrispondente al Cairo.

Sono appena giunto da Almeria in Spagna. Il vostro collega in affari della marocchina Fez mi ha mandato qui un lingotto d’oro, certamente proveniente dal Sudan, per comprare seta spagnola per voi. Ma non credo sia una buona idea, e vi mando invece l’oro. Al tempo stesso un amico del vostro collega d’affari mi ha consegnato una certa quantità di ambra grigia che vi mando sempre per questo mezzo. Vuole che gli mandiate cinque fiaschi di muschio per lo stesso valore. Vendete per piacere l’ambra grigia e comprate il muschio perché devo spedirlo subito.

Questa piccola operazione commerciale amichevole riguardava ambra grigia dall’Africa tropicale, muschio dall’Asia e oro proveniente dai mercati di Djenné e Timbuktu.

I compartimenti in cui si svilupparono i regni sudanesi non erano poi così stagni come si tende a credere. Le mappe commerciali dell’epoca danno forma a un quadro di viaggi sicuri e regolari, un commercio continuativo che faceva largo uso del credito a lunga scadenza e la cui rete garantiva la costante distribuzione di merci su distanze incredibili per l’epoca.

Ma che tipo di civiltà esprimevano questi sistemi monarchici? Quale potere rappresentavano i mansa del Mali? Nonostante le frequenti guerre di conquista, l’ordine sociale e politico non era mantenuto con la forza delle armi. L’autorità del re era rituale, di diritto e non di fatto. La figura del mansa garantiva l’armonia della società con le tradizioni e gli antenati, incarnava il bene materiale e spirituale del proprio popolo. La letteratura araba del tempo formicola di aneddoti e descrizioni ma poco ci dice sulla natura di questi regni e sulla loro origine.

Le prime tracce di un’istituzione di governo, facente capo a una dinastia, possono ravvisarsi già nel regno di Ghana, dalla metà del primo millennio della nostra epoca.

In pratica, la nascita delle monarchie nell’Africa occidentale subsahariana segue una cronologia parallela a quella dell’Europa anglosassone e francese. La penetrazione commerciale e culturale dell’islam a sud del Sahara, contribuì ad accelerare e modellare la trasformazione della discendenza in dinastia, del consiglio degli anziani in governo.

Il controllo del traffico commerciale, il grande volume e valore delle merci che affluivano ai mercati, la crescente domanda di oro, esigevano apparati di gestione più complessi e articolati. Il commercio inoltre stimolò una produzione di beni voluttuari, o comunque superiori alla stretta necessità, e si formarono nuove caste di artigiani e mediatori.

Nasce a questo punto la necessità di un controllo centralizzato che garantisca la sicurezza, diriga le specializzazioni e protegga l’integrità della stirpe nel contatto con nuove civiltà.

Le origini del regno del Mali hanno a che fare più con la leggenda che con la storia. L’accentrarsi del potere nelle mani del clan Keita, dietro l’aneddotica e la magia, è l’esempio storico di questo processo. Nel 1076 il regno di Ghana, saccheggiato dagli Almoravidi, dissolveva la sua fragile identità in un mosaico di domini locali. Tra questi il Sosso, che sotto la guida di Sumanguru, riuscì a conquistare il predominio. Ma il piccolo regno Keita non tardò a reagire e la sua riscossa ebbe in Sundiata un mitico protagonista.

Dopo un lungo periodo di guerra, la battaglia finale tra Sundiata e Sumanguru ebbe luogo sulle rive del Niger, fra le terre dei Sosso e quelle dei Malinké. La vittoria di Sundiata, risultato dei suoi poteri magici, aprì ai successori le porte di un dominio vastissimo: nasceva l’Impero del Mali, la cui struttura doveva essere in qualche modo simile al modello feudale europeo, dove i rapporti di vassallaggio implicavano le relazioni tra i vari lignaggi.

Tra i grandi re del Mali la storia ricorda soprattutto mansa Kankan Musa, autore di un famoso pellegrinaggio alla Mecca. In quell’occasione la quantità di oro immessa sul mercato del Cairo dal re e dal suo seguito fu tale che il prezzo crollò verticalmente e per 12 anni non si ristabilì un indice corretto. Sotto Kankan Musa, il Mali raggiunse il massimo dello splendore. Dal Cairo e da Alessandria una nutrita schiera di poeti, architetti, letterati e medici venne a stabilirsi alle corti di Timbuktu e Djenné. Le grandi città universitarie lungo il Niger divennero poli di attrazione della cultura del tempo, una cultura originale e viva il cui rapporto con l’islam non fu mai di dipendenza, bensì un fecondo scambio di dottrine.

La ricchezza del mansa era favoleggiata come immensa. Il geografo arabo Ibn Battuta soggiornò lungamente alla corte di un successore di Kankan Musa ed ebbe a osservare con stizza che a tanta ricchezza non corrispondeva uguale munificenza.

Accompagnato nei suoi alloggiamenti, in luogo di oro e seta trovò “tre focacce, un pezzo di bue fritto in olio locale e una zucca di latte cagliato acido”. Per un re che governava una terra di “quattro mesi di viaggio in lunghezza e altrettanti in larghezza” era decisamente un po’ poco. Al deluso Ibn Battuta che sognava doni e appannaggi principeschi, sembrò più l’accoglienza tradizionale di un capo tribale che di un principe islamico. Non aveva torto, in effetti in Africa occidentale l’islam fu interpretato in forma del tutto particolare. Di fronte a una classe di notabili e mercanti che osservavano, pur superficialmente, i dettami dell’ortodossia, stava il mondo rurale, tenacemente chiuso nelle sue credenze animiste.

Il declino del Mali fu lento e irreversibile. Le incursioni di Tuareg, Mossi e Fulani si moltiplicarono. Nel 1435 i Tuareg saccheggiarono Timbuktu. A est il nascente impero Songhai conquistò Gao e vi pose la capitale. Il Mali si smembrò in una quantità di piccoli regni e l’egemonia che il regno di Mali aveva esercitato per oltre due secoli sul Sudan si trasferì naturalmente all’impero Songhai. Poi, nel 1594 un corpo di spedizione calò dal Nord e giunse a saccheggiare Gao. Un migliaio di mercenari marocchini e spagnoli, armati di cannoni e fucili, bastarono a sbaragliare le forze del Songhai.

Al posto di quelli che erano stati i grandi imperi dell’Africa occidentale rimase un gruppo di popoli frazionati e divisi, pronti a vendersi l’un l’altro. Il traffico degli schiavi verso le Americhe – nei 250 anni che seguirono – svuotò letteralmente il Sudan del potenziale umano necessario a costituire una società civile. Il clima di terrore e di insicurezza degradò profondamente le strutture sociali e all’autorità legittima si sostituì il potere. Le linee di sviluppo della storia africana furono tagliate alle radici. La schiavitù distrusse la cultura e la civiltà dell’Africa. La ricostruzione di una variante moderna delle grandi civiltà perdute è il grande enigma del futuro africano.

Sven Hedin e i misteri del lago errante

di Paolo Novaresio

 “Da un anno intero io non ho potuto ridere per colpa tua, perché tu mi hai mentito, io non ho avuto nessuna gioia da te, le mie lacrime sono scorse come un fiume. Dio non ha voluto che fossimo amici. Le tue pupille e le tue ciglia sono fra le più belle che esistano”. Sven Anders Hedin

La monotona melodia risuonava da più di un secolo sulle labbra degli abitanti del Lop Nor, il lago errante perduto nel cuore dell’Asia. Sven Hedin, o He-Dani come lo chiamavano gli indigeni, la trascrisse puntualmente nel suo giornale di viaggio. Era l’undici giugno del 1899 e la breve estate continentale concedeva notti tiepide e cieli limpidi.  Hedin era partito un anno prima da Stoccolma per la sua seconda grande spedizione in Asia centrale.

Nel primo viaggio l’esploratore svedese si era addentrato nelle sconosciute distese desertiche del Taklamakan, nel cuore del Turkestan orientale. Inesperto e quasi privo di mezzi, aveva rischiato di morire di sete nel deserto, com’era successo a gran parte dei suoi compagni.

Questa volta invece il suo bagaglio era proporzionato all’impresa: 1130 kg di attrezzature eccellenti, ripartite in ventitré casse e contenenti un letto smontabile, un battello in tela di fabbricazione inglese (pieghevole e così leggero da poter essere trasportato da un uomo solo), quattro macchine fotografiche e un’intera biblioteca. Le due spedizioni compiute da Sven Hedin alla fine dell’Ottocento attraversando i deserti del Taklamakan e di Gobi e l’altopiano del Tibet

Non mancavano gli occhiali da ghiaccio: Hedin ne aveva con sé ben cinquantotto paia. Le scorte di cibo sarebbero state sufficienti per due anni.

Il ricco corredo di strumenti di misurazione dimostrava che il salto di qualità dal tipo di esplorazione classica a quella moderna era ormai un fatto compiuto. Il nuovo esploratore partiva, infatti, con uno scopo ben preciso, volto alla ricerca scientifica: raccogliere e analizzare dati sui territori attraversati.

Il 19 febbraio 1901 Hedin festeggiava il suo trentaseiesimo compleanno in una zona inesplorata del deserto di Gobi. Il giorno prima una tremenda bufera di sabbia aveva cancellato ogni traccia e confuso l’orizzonte delle dune.

Gli uomini esausti vagavano alla ricerca di una sorgente, un punto imprecisato, sperduto chissà dove nel micidiale mare di sabbia.

Ancora un giorno, forse poche ore, e i cammelli, da dodici giorni senz’acqua, avrebbero cominciato a morire l’uno dopo l’altro. E gli uomini non avrebbero tardato a seguire la medesima sorte. Tuttavia quel giorno Hedin ebbe il più bel regalo di compleanno che a suo dire gli fosse mai capitato: improvvisamente uno dei suoi uomini scivolò per caso su un grande ammasso di ghiaccio.

Era la sorgente, gelata dalle temperature polari di fine inverno, che durante la notte raggiungevano i venti gradi sotto zero. Hedin distribuì il ghiaccio triturato ai cammelli e ai cavalli sfiniti: i loro occhi, disse, brillavano di contentezza. Placata la sete, gli uomini scavarono grandi buche che, riempite di brace ardente, vennero poi ricoperte di sabbia. Sdraiandosi sulla terra calda, era possibile strappare qualche ora di sonno al gelo della notte. Su quella antica via carovaniera si era probabilmente avventurato, quasi seicento anni prima, Marco Polo.

Ormai l’oasi di Altimisch Bulak era a poche decine di chilometri ma Hedin piegò verso sud, in direzione dell’antico bacino prosciugato del Lop Nor. Pochi mesi prima, vagando a tentoni in una tempesta di sabbia, uno dei membri della spedizione aveva scoperto per caso le rovine di un antico insediamento urbano. Hedin presumeva che il fortunoso ritrovamento fosse la chiave per svelare i segreti dell’antica città di Loulan, in passato fiorente centro carovaniero sulle sponde del gran lago.

Ben presto gli scavi diedero i primi risultati: monete cinesi, una lampada in rame, un frammento di legno scolpito a forma di pesce (ciò che testimoniava la passata esistenza dell’acqua). Ma non bastava, Hedin era testardo: “Queste rovine io voglio costringerle a parlare e non intendo partirmi di qui a mani vuote”, scrisse nel suo diario. Dalla sabbia emersero i resti di un tempio dedicato a Budda e, infine, la grande scoperta. In una casupola d’argilla, a sessanta centimetri di profondità, Hedin trovò 200 manoscritti e molti bastoncini coperti di caratteri cinesi. Quei pezzetti di carta consumata dal tempo contenevano la spiegazione del mistero del Lop Nor.

I sinologi russi e tedeschi che in seguito li decifrarono, confermarono che l’intuizione di di Hedin era esatta: la città di Loulan era davvero situata sulle sponde del lago. Prima della sua distruzione a causa di un’inondazione, nel IV secolo, la città era un importante centro commerciale dell’impero cinese, in cui confluivano le merci (soprattutto grano) che venivano distribuite per tutta la regione. Hedin si imbatté anche in una ruota, che faceva supporre l’esistenza di una rete carrozzabile. La scoperta era importante non solo dal punto di vista storico, ma anche da quello geofisico, poiché dimostrava le migrazioni del lago errante, il Lop Nor. Hedin fece accurate livellazioni della regione, che era assolutamente piatta: misurato su una distanza di trentadue chilometri, il dislivello non era che 11 centimetri.

Proseguendo l’esplorazione Hedin si trovò ben presto in un vero e proprio labirinto di acque. Il paesaggio era mutato drasticamente, nell’arco di una sola settimana: un nuovo lago di circa 50.000 metri quadrati si era formato per infiltrazione, quasi sotto gli occhi dell’esterrefatto esploratore.

In certi punti l’acqua zampillava fino a un metro di altezza, mista a grosse bolle d’aria. Il lago si stava progressivamente spostando verso nord.

A sud la sponda si prolungava in depositi di fango, sabbia e piante in putrefazione, mentre a nord il forte vento scavava le superfici asciutte, preparando al lago un nuovo letto. Così la vegetazione, la vita animale e gli abitanti seguivano il Lop-Nor in queste sue peregrinazioni periodiche.

“In avvenire sarà possibile determinare la lunghezza del periodo di queste oscillazioni; per ora non sappiamo altro di certo che nell’anno 265, ultimo anno di regno dell’imperatore Yuan Tis, il Lop Nor si trovava nella parte settentrionale del deserto”. Con queste parole Hedin sapeva di aver trasformato una leggenda in una serie di dati scientifici, commensurabili e in certa misura prevedibili. Gli antichi segreti del Lop Nor erano finalmente stati svelati.

L’ultimo saluto del grande lago fu un vero e proprio uragano di sabbia, il temuto kara-buran. Per due giorni Hedin fu costretto a rimanere rinchiuso nella sua yurt, la grande tenda mongola adibita a quartier generale.

Alla tremula luce di una lampada cinese l’esploratore aggiornò il suo diario di viaggio con le nuove eccitanti scoperte. Poi cominciò a organizzare la parte più problematica del viaggio: raggiungere l’altopiano tibetano e penetrare nella misteriosa città santa di Lhasa, preclusa agli stranieri.

Per entrare a Lhasa, Hedin meditava di travestirsi da pellegrino mongolo, con l’aiuto di un autentico Lama incontrato nella città di Urga, che acconsentì ad accompagnare la carovana lungo il pericoloso itinerario. Hedin tentava intanto di imparare il mongolo.

La spedizione lasciò la regione del Lop nel maggio del 1901, in assoluto incognito. Ma Hedin, nonostante la voluminosa pelliccia gialla e le scarpe a punta rialzata, non riuscì a ingannare le sentinelle tibetane.

Fu fermato e rimandato indietro per ordine personale del Dalai Lama.

La marcia per sottrarsi all’autorità tibetana, verso ovest e il Ladak, fu lunga e piena di patimenti. L’esploratore scrisse nei suoi appunti: “Quando verso il tramonto il cielo comincia ad offuscarsi ad oriente, mi pare che la notte voglia stendere il suo velo sopra il paese del Dalai Lama e proteggere con le sue tenebre i misteri che racchiude…”

Nel maggio del 1902 la spedizione arrivò a Kashgar, con la primavera al massimo splendore. Poco più di un mese dopo Hedin rivedeva le coste svedesi. Le sue peregrinazioni erano durate tre anni e tre giorni.

I granelli di sabbia del Gobi, annotò, “ancor oggi cascano dal mio giornale di viaggio”.

Carlo Piaggia, vagabondo del Nilo

di Paolo Novaresio

Chi era Carlo Piaggia? Un esploratore, un cacciatore, un mercante? Certo, tutto questo e anche qualcosa in più. È difficile inquadrare la sua personalità nell’affollata platea degli esploratori del bacino del Nilo.

Sicuramente, come molti altri, Piaggia era spinto da una curiosità divorante per il nuovo, e agitato da un’irrequietezza di fondo che lo trascinava a fuggire dal quotidiano. L’Africa fu per lui la grande occasione di un’esistenza diversa. La semplice e sincera confessione di Joseph Thomson, il viaggiatore scozzese che attraversò le steppe dei Masai fino alla regione dei Grandi Laghi equatoriali, sembra attagliarsi perfettamente alla sua figura: “Sono destinato a essere nomade. Non sono un fondatore di imperi, né un missionario, e neanche un vero scienziato. Voglio solo tornare in Africa per continuare i miei vagabondaggi”.

Carlo Piaggia partì per l’Africa nel 1851, all’età di ventiquattro anni.

Proveniva da una famiglia di contadini di Lucca: era sprovvisto di cultura accademica e scientifica ma in compenso dimostrava un’incredibile versatilità negli affari pratici, che gli consentiva di imparare qualunque lavoro in poco tempo. Nell’ambiente vivace e cosmopolita di Alessandria d’Egitto, Piaggia si trovò perfettamente a suo agio: fece il pescatore di conchiglie nel mar Rosso, il legatore di libri, il cappellaio, il verniciatore, l’armaiolo e altri mestieri diversi.

L’itinerario seguito da Carlo Piaggia per raggiungere da Khartoum le immense regioni del Bahr al-Ghazal dove abitavano i temuti Azande, detti “niam-niam”.

Nel 1856 lo troviamo a Khartoum, in compagnia di un gruppo di mercanti bolognesi e francesi, intento alla caccia dei marabù (le cui piume erano allora esportate in Europa come articolo di lusso). Fu allora che Piaggia scoprì la sua indole di viaggiatore. Lasciò Khartoum e si mise a risalire il corso del Nilo, attraversando le grandi paludi che il fiume forma alla confluenza con il Sobat, e giungendo fino all’avamposto di Gondokoro, dove erano sorte le prime missioni cattoliche. Piaggia vagabondò per ben tre anni su e giù per il fiume, a caccia di elefanti, entrando in diretto contatto con la sordida realtà del traffico degli schiavi.

A ovest del Nilo si estendevano le immense regioni del Bahr al-Ghazal, il Fiume delle Gazzelle, soglia di accesso all’impenetrabile cuore del continente, allora completamente sconosciuto all’Europa (ma non ai mercanti di schiavi musulmani). Le notizie che giungevano ai villaggi lungo il Nilo parlavano di animali misteriosi e popolazioni di cannibali con la coda.

Dai tempi di Erodoto la conoscenza di quelle terre non era progredita di un solo passo. Piaggia tornò in Italia, ma non vi restò a lungo.

Il demone della scoperta lo aveva ormai catturato.

Qualche tempo dopo rieccolo a Khartoum, che allora funzionava come trampolino di lancio per le spedizioni dirette verso l’interno del continente.

Dopo lunghe trattative riuscì ad aggregarsi a una carovana di mercanti di avorio: in cambio della sua guida, una scorta armata lo avrebbe accompagnato fino ai primi villaggi dei temuti Azande, detti “niam-niam” e considerati cannibali (ne abbiamo parlato in Cannibali, leggende e verità).

Prima di partire, in un paio di settimane, aveva raccolto materiale e provviste. Ben poca roba, a quanto risulta: cinquanta chili di biscotti, un po’ di riso, zucchero, caffè, fiammiferi, candele, pochi metri di tela di cotone bianco, filo da cucire e “una piccola tenda da viaggio, una cassetta di ferri per la riparazione delle armi da fuoco, cento libbre di piombo da caccia, palle, un migliaio di capsule, una trentina di scatole di polvere da caccia, i ferri da falegname, un cannocchiale, un termometro e una bussoletta tascabile”.

Il bagaglio di un artigiano più che di un esploratore di terre ignote.

Le popolazioni locali ostacolarono duramente la marcia della colonna, che si salvò a stento da un incendio appiccato dagli indigeni alle erbe della savana. Dopo un mese la carovana arrivò ai limiti del territorio dei famigerati Niam-Niam.

Il comandante dei soldati fece firmare a Piaggia un documentò che lo scaricava di ogni responsabilità e tornò immediatamente indietro.

Piaggia rimase solo e ben presto fu avvicinato dal capo di un vicino villaggio, che lo accolse amichevolmente. Fu alloggiato in una capanna costruita apposta per lui e per le mogli che senz’altro, nella sua posizione, sarebbe stato suo diritto avere.

Piaggia restò fra i “niamniarri”, come li chiamava lui, per più di un anno e mezzo. All’inizio aveva una gran paura di essere mangiato dai suoi ospiti (vedeva ovunque inquietanti segni di antropofagia), poi si tranquillizzò e si tuffò con zelo nella nuova vita. Per ingannare il tempo andava a caccia di uccelli rari per le sue collezioni, discuteva con i fabbri del luogo sui metodi più pratici per lavorare il ferro e costruì con mezzi di fortuna un mulino per macinare le sementi. La novità destò grande entusiasmo nel villaggio, ma pochi giorni dopo il re ordinò di distruggere il macchinario, in quanto invenzione foriera di inquietanti novità, poiché “le donne non sanno più cosa fare, invece di restare nelle capanne vanno nei boschi… e  la donna quando non lavora va in cerca dell’uomo”.

Nel frattempo gli abiti e gli stivali di Piaggia erano andati a brandelli e l’esploratore dovette  adattarsi a vestire di pelli e a camminare con sandali di cuoio di bufalo da lui stesso confezionati. Intanto, giorno dopo giorno, Piaggia annotava sul suo taccuino tutto ciò che vedeva, disegnando come gli riusciva sagome di capanne, pipe, scudi e utensili. Forse le sue descrizioni dei Niam-Niam appaiono oggi ingenue e imprecise, prive di metodo scientifico, ma restano comunque una testimonianza importante per l’atteggiamento di rispetto e simpatia che ne guida lo stile.

Era la prima volta che un viaggiatore bianco si adattava per così lungo tempo, in totale isolamento dal mondo esterno, ad affrontare la vita quotidiana e i problemi di un popolo considerato primitivo. Gli appunti di Piaggia furono largamente sfruttati dall’esploratore baltico Schweinfurth, che si recò pochi anni dopo in quelle regioni. L’opera di Schweinfurth, intitolata “Nel cuore dell’Africa”, ebbe un grande e immediato successo editoriale.

Invece Carlo Piaggia, poco istruito e incapace di bella letteratura, non riuscì mai a far pubblicare i suoi voluminosi manoscritti.

Eppure Piaggia fu, più di altri, cronista attento e acuto: dei Niam-Niam annotò le tecniche dì estrazione del ferro e di fusione del minerale in forni di terra cruda, le usanze alimentari, le relazioni sociali e le pratiche religiose, descrivendo anche la fauna della zona e le caratteristiche del territorio (la definizione “foresta a galleria” è di sua invenzione). I suoi rapporti con gli africani furono sempre ottimi.

Il ritorno con la carovana dei mercanti fu un disastro: i soldati razziavano e uccidevano uomini, donne e bambini, lasciandosi dietro terra bruciata.

Infine, sulla via di Khartoum, la barca di Piaggia naufragò nel Nilo: alcuni uomini furono divorati dai coccodrilli e molte delle collezioni ornitologiche e parte degli appunti andarono irrimediabilmente perduti.

Dopo un breve soggiorno in Italia, Piaggia tornò per l’ultima volta in Africa, deciso a proseguire i suoi viaggi nell’interno. Poche cose colpiscono il viaggiatore africano come il baobab, che con la sua mole gigantesca e contorta si erge ìn mezzo alle distese di erba gialla che· si prolungano all’infinito verso l’orizzonte. Sotto uno di quegli alberi maestosi, chissà dove, giace ancor oggi Carlo Piaggia, morto di febbri sulla pista che dalle pianure del Sudan meridionale corre verso le montagne etiopiche e le gole del Nilo Azzurro.

Cercando l’Australia

di Paolo Novaresio

 «Vi è ragione di ritenere che un continente molto esteso possa trovarsi a sud della rotta seguita recentemente dal capitano Wallis…». Il messaggio, tradotto in linguaggio burocratico, era scritto su un plico sigillato, che fu consegnato in via riservata al capitano Cook. L’Australia. Tra i pochi grandi miti geografici scampati al razionalismo tagliente dell’età dei Lumi, la Terra Australis conservava un posto di prestigio.

James Cook, nato in Inghilterra nel 1728, animato da una prepotente vocazione per gli oceani inesplorati, partì per il primo dei suoi tre viaggi di scoperta nel 1768, finanziato dalla Royal Geographic Society.

A sua disposizione: cento tra marinai e soldati di equipaggio, un gruppo di astronomi per studiare il passaggio di Venere sul disco solare previsto a Tahiti, due botanici, pittori e cartografi per rilevare le eventuali nuove terre scoperte, destinate a popolare le cartine geografiche dell’epoca.

La nave si chiamava  “Endeavour”, cioè Tentativo, ed era una carboniera di 368 tonnellate di stazza, ristrutturata e perfettamente attrezzata per le attività di ricerca ed esplorazione. Il compito di Cook era racchiuso nelle sommarie indicazioni che il capitano aveva ricevuto dall’Ammiragliato: navigare verso sud, fino al 40° parallelo, poi puntare a ovest.

E tenere gli occhi aperti, perché laggiù, forse, si sarebbe trovata l’Australia.

La prima tappa di Cook fu Tahiti, allora tappa d’obbligo per i navigatori del Pacifico. Grossa isola dagli attracchi sicuri, benedetta dalla natura e sognata dall’Europa esotizzante, che amava il “buon selvaggio” e leggeva avidamente Rousseau.

Tahiti fu circumnavigata in barca e battuta palmo a palmo a piedi da Cook e dai suoi uomini, che con centinaia di schizzi e acquerelli ne disegnarono l’intero profilo, la costa e i porti naturali. Ogni aspetto della vita dei tahitiani fu accuratamente studiato, secondo i canoni puntigliosi dettati dagli scienziati illuministi e con tutto il rispetto che l’Europa del settecento poteva garantire a una cultura non europea.

Joseph Banks, il futuro presidente della Royal Geographic Society, che aveva voluto a tutti i costi partecipare all’impresa, annotò meticolose descrizioni del regime alimentare delle popolazioni locali, che mangiavano frutti dell’albero del pane, pesce, qualche maiale, banane, frutti selvatici e cucinavano la carne di cane in rudimentali forni di pietra: “Il cane del mare del Sud”, annotò impassibile Banks, “ha un gusto buono quasi quanto quello dell’agnello inglese; e a suo vantaggio si deve dire che vive quasi interamente di verdure; probabilmente i nostri cani non avrebbero un sapore così buono”. A Tahiti c’erano anche oche e tacchini, probabile eredità della spedizione inglese di un anno prima.

Mentre Banks si occupava della gastronomia locale, Cook spendeva le proprie energie nel tentativo di rendere meno traumatica e invadente possibile la sua presenza sull’isola. Tanto per cominciare, vietò immediatamente al suo equipaggio di barattare con gli indigeni oggetti di ferro.

La nave di Wallis, infatti, durante la precedente sosta a Tahiti, aveva rischiato di affondare perché in un mese i marinai avevano clandestinamente estratto tanti chiodi di ferro da compromettere lo scafo: dato che a Tahiti bastava un chiodo per ottenere qualunque cosa, comprese le ragazze dell’isola, la minaccia era più che reale.

Cook cercò anche di premunirsi contrò i furti, per i quali i tahitiani mostravano un’insistente inclinazione e un’abilità tale “da coprire di vergogna il miglior tagliaborse d’Europa”.

Nel frattempo il gruppo di scienziati a bordo non perdeva tempo: furono studiate le canoe, le lenze da pesca e le stoffe degli indigeni, ricavate da fibre vegetali con risultati giudicati da tutti sorprendenti.

Cook fece incetta di grandi scorte di viveri freschi, per variare la dieta dei marinai durante la navigazione.

Prima di lasciare l’Inghilterra, con singolare lungimiranza per l’epoca, alla carne salata e ai biscotti, il capitano aveva aggiunto crauti e minestra in tavolette, senza esitare a ricorrere a punizioni corporali per chi rifiutava le razioni.

In virtù di questa saggia politica alimentare, a differenza di quasi tutti gli equipaggi impegnati in lunghe traversate marine, gli uomini non si ammalarono di scorbuto. In compenso, metà di loro prese la sifilide mentre la nave era ferma a Tahiti.

Come il capitano ebbe cura di precisare, la malattia era stata portata sull’isola da spedizioni precedenti.  Il paradiso in Terra aveva subito la prima, fatale corruzione.

L’Endeavour lasciò Tahiti dopo qualche mese di esplorazioni e di osservazioni astronomiche, avventurandosi verso la costa ovest della Nuova Zelanda.

I paradisi polinesiani erano ormai un altro mondo: in Nuova Zelanda la spedizione fu accolta dalle canoe da guerra degli indigeni maori, da cui dovette difendersi facendo uso delle armi da fuoco.

I rilevamenti si fecero difficili e pericolosi, ma Cook riuscì a circumnavigare interamente la nuova terra, dimostrando che si trattava di due isole e non di una sola, come si credeva.

Il momento cruciale era giunto. Non restava che eseguire gli ordini segreti dell’Ammiragliato. Cook si inoltrò nell’oceano verso occidente.

Senza saperlo, stava per entrare in uno dei tratti di mare più pericolosi del mondo: il labirinto di secche e bassifondi della Grande Barriera corallina australiana. L’Endeavour si incagliò nelle rocce madreporiche, rischiando di affondare.

Il capitano la pilotò faticosamente fino alla sconosciuta costa orientale dell’Australia, poco più a sud di dove oggi si trova Sydney.

La costa est del nuovo continente fu rilevata con una precisione senza precedenti, collezionando una serie di osservazioni e dati che sono ancora oggi validi.

Riparata la nave e ripreso il mare, dopo due mesi di navigazione Cook riuscì a raggiungere il possedimento olandese di Batavia (Giava).

E infine, dopo più di tre anni di viaggio, a missione compiuta, l’Endeavour giunse in vista delle coste inglesi.

James Cook sarebbe salpato ancora due volte, per circumnavigare l’Antartide e poi per esplorare le coste dell’America Settentrionale fino allo stretto di Bering. Non furono i rischi e gli imprevisti della navigazione a sorprenderlo. Per uno strano gioco del destino, morì proprio per mano di quei “buoni selvaggi” che tanto amava e rispettava: fu ucciso alle isole Hawaii il 14 febbraio del 1779.

Alexander von Humboldt

di Paolo Novaresio

L‘uomo bianco faceva sempre domande, qualunque cosa vedesse. Raccoglieva testimonianze e scriveva, scriveva. Al ritorno avrebbe svelato all’Europa i segreti affascinanti della natura equatoriale del Nuovo Mondo. Quella notte, però, il 6 aprile 1800, vinse lo stupore. La luna illuminava la sommità di Tepu-Mereme, la “roccia dipinta”, rivestendola di un’aurea surreale. Chi mai aveva potuto tracciare quei segni sui massi di granito che emergono dal fitto della vegetazione soffocante dell’alto Orinoco? Figure di corpi celesti, serpenti e coccodrilli erano scolpiti su strapiombi irraggiungibili. Furono gli indios Tamanac a spiegare sorridendo allo straniero bianco che all’epoca delle Grandi Acque i loro padri arrivavano fino a quell’altezza in canoa. Lo straniero si chiamava Friedrich Heinrich Alexander, barone von Humboldt.

Nato a Berlino, età anni 28, altezza metri 1.70, capelli bruno-chiari, occhi grigi, grande naso, fronte aperta segnata da cicatrici di vaiolo… viaggia per acquisizione di sapienza”. Così recita e lo descrive il passaporto francese, ottenuto pochi anni prima a Parigi, capitale scientifica e intellettuale del tempo e sua patria d’adozione.

Oggi il mondo ha quasi dimenticato la grande opera di Humboldt, il progetto di sistemazione organica del sapere geografico, basata su una strategia generale dello studio della natura. Ma allora, al ritorno dal grande viaggio nel Nuovo Mondo, Humboldt era uno degli uomini più famosi e stimati d’Europa. Moltissimi i luoghi che portano tutt’oggi il suo nome: più di quelli dedicati a qualunque altro scienziato ed esploratore. Quattordici città negli Stati Uniti, una in Canada. Montagne in Australia, Antartide, Nuova Zelanda. La grande corrente fredda al largo delle coste peruviane. Il più esteso ghiacciaio della Groenlandia e uno dei mari sulla superficie della luna.

Neppure un monumento, invece, a Cumaná, la sonnolenta cittadina del Venezuela dove Humboldt sbarcò insieme al botanico Aimé Bonpland per intraprendere il più grande viaggio privato della storia. Eppure Cumaná, dove avvenne il primo incontro di Humboldt con la natura equatoriale lungamente sognata, fu forse il più amato dallo scienziato prussiano, che non scordò mai quel luogo: “Cumaná e la sua terra polverosa si riaffacciano ancor oggi nella mia mente, più sovente di tutti i meravigliosi scenari delle Cordigliere”.

Dopo sei anni di studio e di preparazione, e molti tentativi infruttuosi, il giovane scienziato poteva finalmente contemplare il cielo tropicale, ricco di meteore e stelle cadenti: per gli indios nient’altro che i riflessi delle pietre d’argento del leggendario lago Parima. Da Cumaná la spedizione si addentrò nei llanos, le desolate praterie che si stendono tra la costa e l’Orinoco.

Il caldo torrido, con temperature fino ai 50° (Humboldt riempì il cappello di foglie per avere un po’ di sollievo), l’orizzonte infinito e polveroso, confuso dai miraggi, misero a dura prova la resistenza dei viaggiatori. Dopo la stagione delle piogge, che trasformavano i llanos in un immenso acquitrino, erano rimaste grandi pozze fangose. Qui Humboldt ebbe modo di studiare una delle più stupefacenti creature del Nuovo Mondo, l’anguilla elettrica dell’Amazzoni, che può dare scosse fino a 650 volt, sufficienti a stordire e uccidere un uomo. Per catturarle vive senza pericolo gli indios fecero entrare a forza un branco di cavalli nell’acqua. Alcuni, terrorizzati e storditi dalle scosse elettriche, annegarono, ma cinque grosse anguille furono catturate vive. Humboldt le studiò accuratamente, sperimentando suo malgrado la loro potenza elettrogena.

Superati i llanos, la spedizione raggiunse il Rio Apure, uno dei primi affluenti dell’Orinoco. La guida di Humboldt, nel dedalo di corsi d’acqua della foresta amazzonia, fu un frate francescano spagnolo, abituato da anni alla vita nella giungla. Padre Bernardo Zea condusse i due scienziati a una delle poche spiagge dell’Orinoco dove deponevano le uova le grandi tartarughe note in loco come arrau. Dalle uova, mediante bollitura, gli indios ricavavano un olio limpido e di ottimo sapore. Humboldt calcolò che su quella sola spiaggia si radunavano a deporre le uova almeno 330.000 tartarughe.

Il viaggio procedeva verso l’interno, lungo il corso dell’Orinoco. La navigazione era resa penosa dal crudele tormento degli insetti, soprattutto sciami di zanzare, le cui punture provocavano ferite dolorose e infezioni. Poco più avanti si stendevano le pericolose rapide di Maypures e Atures, lunghe più di quaranta miglia. Un labirinto di acque spumeggianti fra i massi di granito. Per superare l’ostacolo fu approntata una canoa più piccola, sulla quale fu stipato tutto il materiale scientifico, i bagagli, gli erbari e le gabbie con le scimmie e gli uccelli. “Oltre le Grandi Cateratte inizia una terra sconosciuta”, scrisse Humboldt, “il paese delle favole e delle visioni fantastiche”. E aldilà delle montagne la tradizione poneva i miti dell’Eldorado e del lago di Parima. Dopo tre secoli dalla scoperta la conoscenza geografica della regione non era quasi per nulla progredita.

A un certo punto Humboldt lasciò l’Orinoco per un piccolo affluente che seguì fino a trovarsi a dieci miglia dal Rio Negro, il più grande tributario del Rio delle Amazzoni. La canoa e i bagagli furono trascinati a braccia attraverso la foresta fino al fiume. Le acque del Rio Negro erano limpide e fresche. In pochi giorni la spedizione raggiunse il Casiquiare, un canale naturale che collega i due grandi sistemi fluviali dell’Amazzonia, il bacino dell’Orinoco e quello dell’Amazzoni.

 Le due settimane di navigazione sul Casiquiare, il cui corso era praticamente inesplorato, furono le peggiori di tutto il viaggio. Il cielo era sempre coperto di nuvole, notte e giorno. La foresta, alta e impenetrabile, chiudeva il fiume in una morsa verde. I due scienziati erano costretti a dormire sulla piroga, già carica all’inverosimile. È difficile immaginare la difficoltà di procedere in quell’ambiente ostile trascinandosi dietro bagagli, attrezzature, il carico di campioni botanici e 14 uccelli e 11 mammiferi vivi,  con un equipaggio di nove persone stipato in uno spazio ristretto. La foresta era tanto umida da rendere impossibile accendere un fuoco. E non offriva cibo: Humboldt fu costretto a mangiare semi di cacao crudi e, una volta, un ignobile pasticcio di formiche. Una notte un giaguaro si portò via, senza il minimo rumore, il grosso mastino che faceva la guardia al centro del campo. Infine la biforcazione dell’Orinoco fu raggiunta.

Dalle carte geografiche spariva il lago Parima ed entrava, accuratamente rilevato, il Casiquiare. Il villaggio semiabbandonato di Esmeralda era l’unico luogo abitato della regione. Qui Humboldt vide preparare il curaro, il letale veleno estratto dalla corteccia della liana Strychnos. Un uomo colpito da una freccia avvelenata moriva in poco più di dieci minuti. Da Esmeralda la spedizione decise di tornare indietro fino a Cumaná.

Il viaggio però non era ancora terminato. Humboldt si recò di nuovo a Cuba, poi attraversò la Cordigliera andina dalla Colombia al Perù. Da Lima, passando per il Messico, fece ritorno in Europa nel 1804, dopo cinque anni di assenza.

 

L’ultimo lago

di Paolo Novaresio

Il conte Teleki von Szeck era un nobile asburgico di rango: bon vivant, piuttosto bene in carne (gli africani lo chiamavano Bwana Tumbo, il “Signor Pancia”), di carattere socievole e buon conversatore. Celibe fino alla fine dei suoi giorni, spese la propria vita tra occasioni mondane, impegni politici, battute di caccia e viaggi. Era immensamente ricco. Benché buon scrittore, come testimoniano le sue lettere al principe Rodolfo, non scrisse una sola riga sul viaggio che lo rese famoso, probabilmente per pura indolenza.

La molla che fece scattare il desiderio di un viaggio in Africa non fu certo spinta dalla brama di gloria: Teleki era restio ad assumersi impegni troppo gravosi e voleva semplicemente divertirsi, collezionando trofei di caccia. La regione del lago Tanganyka, sua prima meta, era già selvaggia a sufficienza per i suoi scopi.

Fu quasi a malincuore che cedette ai consigli del suo illustre amico, il principe Rodolfo d’Asburgo: trasformare una battuta di caccia in un viaggio di scoperta verso terre ancora sconosciute. Come compagno di viaggio e suo luogotenente il conte scelse Ludwig von Hönhel, uno sconosciuto ufficiale di marina.

Teleki era l’aristocratico e lo sponsor, di carattere brillante e determinato, ai limiti della testardaggine. Von Hönhel aveva origini modeste, era un appassionato lettore di libri di viaggio e sognava da sempre l’avventura africana: Teleki gli stava offrendo la più grande occasione della sua vita.

Nonostante le differenze di estrazione sociale e di carattere, i due divennero amici: in ogni caso il loro accordo fu sempre perfetto, poiché la gerarchia imponeva a von Hönhel il ruolo di subalterno. Il loro viaggio, concluso con la scoperta del grande lago battezzato Rodolfo (oggi Lago Turkana), segna il distacco tra la grande epoca dell’esplorazione africana e la modernità.

IL VIAGGIO

Nell’ottobre del 1886 von Honel giunse a Zanzibar per predisporre la logistica e assumere le famose guide locali Jumbe Kimemeta e Qualla Idris. Teleki partì da Pangani, sulla costa dell’odierna Tanzania. La spedizione, equipaggiata con circa trecento armi da fuoco, contava oltre 670 effettivi ed era così composta: 450 portatori, 200 Zanzibariti (con compiti più specializzati), 9 guide, 9 soldati e 7 asinai. Inoltre seguivano il corteo 25 asini, una mandria di 21 vacche e 60 tra pecore e capre.

Per trovare i fondi per l’impresa Teleki vendette una grossa proprietà terriera e un diamante di grande valore storico, già appartenuto ai suoi antenati.

Le spese complessive ammontarono a 130.000 Corone, equivalenti in valore a 40 chilogrammi d’oro (ovvero, alla quotazione attuale, 1.600.000 Euro).

IL MATERIALE

Oltre al materiale da campo, agli effetti personali e alle scorte di viveri, nel bagaglio della classica spedizione ottocentesca in Africa figuravano stoffe, fili metallici, perline di vetro a altri articoli usati come doni e merci di scambio durante il percorso. Teleki ne acquistò quantità inverosimili, tanto che questa voce costituiva oltre la metà del carico al seguito della spedizione.

Ecco una lista sommaria degli articoli destinati ad accattivarsi la simpatia degli indigeni:

600 pezze di cotone bianco merikani (circa 18 chilometri di stoffa)

250 pezze di cotonina indiana blu scuro (7 metri l’una per un totale di 1750 metri)

100 pezze di tessuto rosso vivo bendera assilia (28 metri l’una per un totale di 2800 metri) varie pezze di tessuto di prima e seconda qualità di manifattura araba

perline maasai (da 1/12 a 1/8 di pollice di diametro) di colore rosso, blu, bianco, 2285 kg.

perline Parigi del diametro di un pisello

perline bianche comuni

anelli di vetro (murtinarok) verde, blu, marrone chiaro, circa 1/2  pollice

perline rosso chiaro e blu turchese per la gente del Kilimanjaro

una quantità di grosse perline assortite (mboro)

perline marrone chiaro, blu, bianche (dette perline orientali, introdotte da poco nel commercio dalla casa Filonardi)

filo di ferro (1/5 di pollice), circa 3500 chili

filo d’ottone e rame robusto, 525 chili

406 chili di polvere da sparo (in piccole casse da 11 libbre l’una)

molte migliaia di capsule per fucili ad avancarica

stagno

piombo

filo di ferro fine

conchiglie cauri (Cyprae moneta)

coltelli

occhiali

libri illustrati

marionette

filo dorato

braccialetti e anelli

pugnali

sciabole da marina e cavalleria

vari altri articoli.

Qualche giorno dopo la partenza gli esploratori cercarono di stilare un inventario, assegnando ad ogni portatore il suo fardello, pari a circa 35 chilogrammi.

Dal diario di Ludwig von Hönhel:

“Allora iniziammo ad occuparci della revisione dell’equipaggiamento della spedizione, accatastato in un mucchio talmente consistente nel mezzo dell’accampamento da impedire l’accesso alle nostre tende.

Avevamo:

  • tende, tavoli, sedie, letti, valige piene di vestiti, strumenti, etc.: 65 ca richi
  • armi e munizioni: 35 carichi
  • articoli di uso quotidiano (sapone, tabacco, zucchero, tè, caffè, etc.): 44 carichi
  • equipaggiamento per guadare fiumi e paludi (cavi robusti): 2 carichi
  • medicine, bendaggi, filtri: 3 carichi
  • razzi ed esplosivi: 2 carichi
  • alcool: 1 carico
  • materiale per illuminazione: 3 carichi
  • seghe da legna, pale, asce: 4 carichi
  • utensili, ricambi, corde: 3 carichi
  • lubrificanti per fucili, etc.: 1 carico
  • riso: 5 carichi
  • cognac, vino, aceto: 4 carichi
  • imballaggi: 2 carichi
  • stoffe: 90 carichi
  • fili metallici: 80 carichi
  • cauri, catenelle di metallo, etc.: 5 carichi
  • moneta di rame(per la zona costiera): 3 carichi
  • battello smontabile in 6 parti di metallo, battello smontabile in 2 parti di tela: 22 carichi

Totale  470 carichi

Teleki e von Hönhel raggiunsero il lago Turkana il 5 marzo del 1888, un anno dopo la partenza da Zanzibar. Durante il percorso la spedizione perse oltre i due terzi dei componenti, fuggiti col proprio carico o uccisi in combattimento con tribù ostili. Teleki perse nel viaggio circa 30 chili del proprio peso.

Sulle carte geografiche dell’Africa scompare l’ultimo Ignoto.

Comincia la spartizione coloniale del continente.

 

Il viaggio al Tibet di Padre Cassiano Beligatti

di David P. Gelman

1738-1745. Portavano la parola e l’evangelo del Cristo in capo al mondo, patendo umiliazioni, difficoltà, soprusi. Non hanno avuto troppo successo visto che si sono trovati dinanzi la diffidenza e poi l’aperta ostilità dei religiosi di Lhasa.

Trecendo anni fa i monaci cappuccini giunsero in Tibet, impegnati nella paziente quanto indefessa opera di diffusione del cattolicesimo, senza tuttavia tentare di imporlo o di prevaricare.Tra loro padre Cassiano Beligatti.

Il suo Viaggio al Tibet, pubblicato da Edizioni Il Polifilo (www.ilpolifilo.it) ci appare oggi come  un autentico viaggio nel tempo, caratterizzato da un’insolita franchezza e modestia. Lo sguardo di padre Beligatti è privo di supponenza e pregiudizi: lo spirito di osservazione è quello del vero reporter.

Il suo giornale di viaggio coglie l’essenziale, portandoci alle soglie di un luogo in cui la spiritualità e la divinità ordinano e presiedono il mondo. Per questo il Viaggio al Tibet è un libro importante e ancora attuale.

Noi, profani e improvvisati viaggiatori, non possiamo che avvertire un’eco lontana, seppur consistente, di quel mondo. Anche noi ci siamo recati in quei luoghi, pur senza raggiungere Lhasa, la meta finale. Ci siamo andati assai più comodamente, atterrando sulla coda di un monsone, all’aeroporto di Katmandu. E non abbiamo animo di chiamare la nostra: avventura, se paragonata con quella di padre Beligatti. Trecento anni fa i monaci cappuccini, e oggi noi. Cos’è cambiato in quei luoghi? Tutto e niente.

L’uomo moderno ha il privilegio di entrare e uscire da quel mondo misterioso, che la leggenda narrava abitato da giganteschi serpenti. Un mondo in cui tutto parla di pace, armonia, tolleranza. L’atmosfera che immediatamente avvolge il viaggiatore è preludio a percorsi dello spirito che possono segnare l’esistenza. O più semplicemente rendersi indimenticabili.

In quei luoghi, per ciò che abbiamo visto e avvertito, curiosando fra templi, statue di pietra e divinità di ogni sorta, aleggia una spiritualità diffusa, percepibile, autentica e condivisa dalla gente. Il medioevo asiatico laggiù è ancora di casa.

Ma torniamo al Viaggio al Tibet e al suo autore. Chi era padre Beligatti? In verità della sua vita si hanno scarse notizie. Nacque e morì a Macerata (1708-1785)  e nel 1725 vestì l’abito religioso. Nel 1738 partì per la missione in Tibet e vi rimase due anni, quindi passò in Nepal e nel Bengala. Operoso e modesto, autore di fondamentali opere storiche ed etnografiche riguardanti gli usi, i costumi e le religioni dei territori che lo videro missionario, Beligatti scrisse anche un Alphabetum Tibetanum e due grammatiche: una della lingua indostana, l’altra dell’idioma sanscrito in caratteri malabarici. Diverse altre sue opere, in parte ancora inedite, si conservano nella Biblioteca comunale Mozzi Borgetti di Macerata.

Dell’indimenticabile reportage di padre Beligatti, riportiamo, senza commentarli, alcuni brani.

A pagina 18

… Provvisti dell’occorrente i missionari partirono, e dopo un lungo e dificile viaggio arrivarono a Lhasa nel gennaio del 1741. Fu lor fatta buona accoglienza, specialmente dal re, e, dopo aver appresa la lingua del paese, si dettero a predicare, ma con frutti piuttosto scarsi. Ben presto poi i religiosi tibetani cominciarono a veder di malocchio il favore che i missionari godevano presso il re. Nacque fermento che andò man mano crescendo finché un bel giorno parecchie centinaia, di preti buddhisti, raccoltisi dai vari conventi di Lhasa e dei dintorni, invasero il palazzo reale, e rimproverarono al re il suo contegno. Questi, atterrito, temendo di fare la fine dei suoi tre predecessori, uccisi appunto per odio dei lama, dichiarò ipso facto i padri decaduti dalla sua grazia; impose loro di non predicare nel Tibet se non ai mercanti venuti di fuori…

A pagina 23

… I missionari… si posero in cammino alla spicciolata per raccogliersi poi tutti al porto di Lorient, che doveva essere il luogo d’imbarco… il viaggio attraverso la Francia. Compiuto sempre a piedi, fu assai molesto e malagevole; i frati patirono spesso la fame, e dovettero perlopiù adattarsi a dormire nelle stalle, perché ben di rado i conventi li ospitavano, ma con mille pretesti li mandavano altrove, ed essi erano sempre scherniti, insultati e fatti segno a mille scherzi grossolani…

A pagina 31

… Traversato il fiume Bagmati entrarono in Nepal, e valicata un’alta montagna trovarono il fiume Kakokù, che dovettero passare a guado 9 volte, e viaggiando in mezzo a foreste di pini e d’ippocastani, dopo essre passati per il castello di Kuà giunsero il 6 febbario a Bahagdaon, capitale del regno del medesimo nome, dove da qualche tempo i cappuccini avevano un ospizio. Furono bene accolti dal re e trattati con somma famigliarità, e il Beligatti s’intrattiene a parlare delle prove ricevute della benevolenza regale…

A pagina 33

… La città di Bhagdaon numera 12.000 famiglie. Le genti sono cortesi e affabili: la religione dominante è quella dei brahmani; …La città di Kathmandu conta 18.000 famiglie, e la città di Patan ne conta 24.000…  

A pagina 48

… Il satu non è altro che la farina dell’orzo mondo alquanto abbrustolito prima di macinarlo nelle macinette a mano. La carne è molto abbondante nel Tibet avendo quantità di montoni voltati, e macellando ancora lo yak, specie di bove selvatico; ma fuori dei benestanti non ne fanno grand’uso, per mancanza di legna per cuocerla, la qual mancanza sia stata la cagione dell’uso ch’anno gli tibetani di mangiare la carne cruda…

A pagina 73

… Il giorno del Santo Natale, avemmo la consolazione di dire una messa per ciascuno… che ci recò singolare consolazione. Questo stesso giorno il padre prefetto volle regalarci una pozione, che sogliono fare gli religiosi del Tibet nei tempi più freddi, qual pozione chiamano condè; è composta di decozione di tè, di birra, di zucchero, latte, e un poco di butirro insieme lungamente bollito; lo bevemmo più per compiacere il buon vecchio, che per inclinazione, ma sia lui che la più parte di noi, ne trovammo l’utile di scaricare gli nostri stomachi delle flemme ammassatevi nel viaggio. Dopo il mezzogiorno fummo rammaricati per un accidente che accorse. Gli mulattieri lasciarono alla campagna tutte le loro bestie,quali entrarono a pascolare in un prato riserbato, per lo che furono tutte confiscate…

A pagina 76

… Due giorni prima che noi arrivassimo al lago, la lamessa era partita per Lhasa. Gli tibetani hanno per questa lamessa la stessa venerazione che hanno per il Gran Lama, credendola informata da uno spirito di Cianciub…. Quando esce va sempre sotto baldacchino e è preceduta da due incensieri fermati sopra due muli ne quali gli religiosi brugiano continuamente profumi. Vive celibe facendo voto di castità; ciononostante circa 5 anni prima del nostro arrivo sortì da essa una lamessina, quale per quante diligenze che usarono, pure non poterono impedire che non si rendesse pubblica, lo che raffreddò un poco la venerazione…

Il milanese che valicò le Ande

Vita di Antonio Raimondi,  l’esploratore e cartografo ottocentesco divenuto eroe in Perù

di Marco Boscolo

 Un paese che si libera dal peso del colonizzatore straniero ha la necessità di scrivere la propria storia e di celebrare i costruttori del nuovo Stato. Servono a questo le liturgie pubbliche, i libri e i monumenti. Come le tombe di pietra e marmo che dall’inizio dell’Ottocento raccontano la storia della Repubblica peruviana nel cimitero intitolato al Presbítero Matías Maestro di Lima. Tra i 766 mausolei ce n’è uno che colpisce il visitatore italiano più attento. È quello dove riposa un milanese che ha lasciato l’Italia del Risorgimento per esplorare un “paradiso tropicale” ancora sostanzialmente ignoto e diventare il primo cartografo del nuovo Perù. Il suo nome è Antonio Raimondi e per capire perché oggi è celebrato come un eroe nazionale, con scuole intitolate a suo nome in ogni angolo della cordigliera peruviana, non c’è occasione migliore della mostra che il Museo delle Culture di Milano gli ha dedicato.

La storia di Antonio Raimondi comincia veramente a due passi dalla madunina. Nasce infatti il 19 settembre 1824 in Corsia del Duomo, lo slargo direttamente a nord del Duomo che oggi è parte integrante della sistemazione a piazza dell’area. In età avanzata scriverà di essere “nato con una precisa inclinazione ai viaggi e allo studio delle scienze naturali” e di sognare “dalla prima fanciullezza le splendide regioni della zona torrida”. Sostiene che all’età di tredici anni ha preferito impiegare i soldi ricevuti dalla madre per comprarsi la Storia naturale di Georges-Louis Leclerc de Buffon, punto di riferimento per i naturalisti d’Europa all’epoca. Legge avidamente i resoconti di viaggio di scienziati del Settecento, come Alexander von Humboldt e Louis Antoine de Bougainville, ma anche di esploratori, come James Cook e Cristoforo Colombo. “Nelle mie letture seguivo sulla carta gli itinerari percorsi da quegl’illustri viaggiatori e mi pareva di visitare con essi le numerose isole dell’Oceania le vaste selve dell’America tropicale, apparendomi allo sguardo come in uno specchio i più bei panorami, così pieni di vita, come offre soltanto la zona del nostro globo compresa fra i tropici”. A Pavia, mentre assiste ai corsi sui banchi dell’Università (senza laurearsi), o mentre si sofferma sulle collezioni dell’Orto Botanico di Brera, il suo pensiero è già fissamente altrove.

È la politica a trattenerlo dal prendere il mare verso l’America Latina. Siamo in pieno fervore risorgimentale, con un’Italia divisa, oppressa a nord dall’occupazione austriaca, bloccata dal potere clericale al centro e guidata paternalisticamente dai Borboni nel Meridione. Nel 1848, l’anno in cui, per usare l’immagine di Alexis de Tocqueville, il vulcano della rivoluzione erutta in tutt’Europa, Antonio Raimondi è sulle barricate della sua Milano durante le Cinque Giornate. Ha 24 anni e, come molti suoi coetanei, è percorso da ideali liberali: scacciare lo straniero è la giusta causa da combattere. Il fallimento della liberazione può forse farlo vacillare, ma non lo abbatte. L’anno successivo, infatti, è tra le fila garibaldine a combattere per la Repubblica Romana nata con il ritiro di papa Pio IX dalla città eterna. È solo quando anche quest’atto eroico si infrange contro le armi dell’esercito francese – giunto in aiuto alla Chiesa – che Antonio Raimondi si decide per la partenza. A bordo del brigantino L’Industria salpa da Genova alla volta del Perù: non farà più ritorno in patria.

È un’epoca caratterizzata dallo spirito enciclopedico della scienza: in Italia e in Europa si gettano le basi di alcune delle più importanti collezioni etno-antropologiche.

Raimondi arriva al porto del Callao, nei pressi di Lima, il 28 luglio del 1850. Ha con sé la Storia Naturale di Buffon – un po’ come Charles Darwin vent’anni prima era sbarcato alle Galapagos con la Teoria della Terra di James Hutton –, qualche strumento scientifico da campo e una volontà di ferro. A parte questo però, Raimondi, anche se di buona famiglia, deve trovarsi di che vivere. L’occasione si presenta quasi subito grazie a Cayetano Heredia. Il Perù è indipendente da poco meno di trent’anni e deve ricostruire tutte le istituzioni pubbliche necessarie allo sviluppo e alla gestione del nuovo Stato. Heredia, grazie alla sua fama di medico eccellente, è incaricato dal governo per dirigere il Colegio de la Indipendencia, la futura Facoltà di Medicina di San Fernando di Lima. Intuendo nel giovane italiano le doti del naturalista di razza, gli affida il compito di ordinare la collezione mineralogica: è l’inizio di un’amicizia e della carriera accademica di Raimondi, che presto comincia a insegnare Storia Naturale.

Con lo stipendio che gli garantisce di che vivere, Raimondi può cominciare realizzare il suo vero sogno: esplorare ogni angolo del Perù. La scelta del paese non è stata casuale, perché, come scrisse più tardi esagerando un pochino, “la sua proverbiale ricchezza, il suo vasto territorio, che sembra riunire in sé gli arenili della costa, gli aridi deserti dell’Africa, i vasti altipiani, le monotone steppe dell’Asia, le alte vette della cordigliera, le fredde regioni polari, gli intricati boschi di montagna e la lussureggiante vegetazione, mi spinsero a preferire il Perù come campo di esplorazione e studio”. Dal 1851, per quasi vent’anni, non perde occasione di allargare le sue conoscenze del territorio. Nel corso delle sue 19 campagne esplorative, Raimondi si comporta come il perfetto naturalista dell’epoca, abbracciando tutte le discipline scientifiche. Le sue raccolte parlano da sole: 3.000 minerali e rocce, 4.000 insetti, 400 esemplari di mammiferi e rettili, 1.265 uccelli, 2.000 fossili, 2.000 molluschi, 72 teschi umani, 300 reperti etnografici, 500 semi, 20.000 piante e 2.000 tra conchiglie, denti e uova fossili. Numeri che dicono dello spirito enciclopedico della scienza dell’epoca, quando in Italia e in Europa si costituiscono alcuni dei grandi musei di Storia naturale moderni e si gettano le basi di alcune delle più importanti collezioni etno-antropologiche.

I viaggi oltre la cordigliera delle Ande, nelle aree più remote dell’Amazzonia come negli aridi deserti o lungo la costa pacifica appagano la sete di conoscenza di Raimondi. Nel corso della sua vita raccoglie note in 195 taccuini, alcuni dei quali dedicati a temi specifici, tutti impreziositi dai suoi splendidi acquerelli. Vi annota tutto quello che gli strumenti e il suo occhio attento gli permettono di catturare. A tratti sembra un lavoro maniacale, come quello che farà qualche decennio dopo Alexandre Yersin, lo scopritore del bacillo della peste, che sceglie anche lui i tropici preferendoli all’instabilità politica della Francia. Così, per mano di un italiano con lo spirito d’avventura, il Perù indipendente comincia a fare la conoscenza di se stesso e delle sue ricchezze. L’idea di scienza che ha Raimondi, infatti, è enciclopedica alla maniera illuminista, sempre intesa come strumento per un futuro fatto di progresso e miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità. Nei suoi rilievi cartografici, quindi, non mancano mai riferimenti precisi alle risorse naturali: giacimenti di metalli preziosi sì, ma soprattutto di carbone, salnitro e guano, risorse indispensabili per lo sviluppo del paese. Grazie alla conoscenza del territorio che acquisisce viaggiando, Raimondi diventa una specie di consulente tuttologo per il governo. Ogni volta che c’è da progettare un ponte o una ferrovia viene consultato in qualità di esperto. La sua perizia anche negli aspetti che oggi diremmo ingegneristici è testimoniata dai disegni tecnici che ha realizzato, come quelli che riguardano un progetto di una fabbrica per la fusione dei metalli del 1875.

Dal 1862 i viaggi di Raimondi assumono un nuovo significato. Viene incaricato ufficialmente dal governo di realizzare un progetto grandioso: un’esplorazione sistematica per la realizzazione della prima carta geografica completa del Perù. Sarà composta di 38 fogli pubblicati tra il 1887 e il 1897 dall’editore parigino Erhard e, come sottolineato da una mostra sull’esplorazione peruviana tenuta a Lima nel 2015, è la “radice della cartografia nazionale” del Perù. Oltre all’importanza dello strumento in sé per lo sviluppo del paese, la grande mappa ha anche un’altra funzione nella storia peruviana: riallacciare i fili della storia con il passato pre-coloniale. Raimondi, infatti, non solo applica tutta la sua maniacale precisione nell’indicare emergenze fisiche, geologiche e quant’altro ci si aspetti da una carta di questo tipo, ma vi segnala anche i toponimi indigeni come origine dei nomi attuali delle principali città e dei villaggi. Per esempio, dà la stessa importanza a Lima e Cuzco, in quanto capitali del paese in due diversi momenti storici. Dagli appunti dei 195 taccuini di campo, inoltre, Raimondi comincia a preparare, con l’aiuto di una vera e propria redazione multidisciplinare, un’opera finanziata dal governo e intitolata semplicemente El Perù che avrebbe dovuto essere una grandiosa enciclopedia del paese indipendente.

La mappa di Raimondi tornò utile a Hiram Bingham, soprattutto il 24 luglio del 1911, il giorno della scoperta di un sito archeologico di straordinaria importanza: Machu Picchu.

Un altro aspetto delle esplorazioni di Raimondi è quello legato all’antropologia e all’archeologia. Nell’incontrare le popolazioni indigene ne annota usi e costumi, raccoglie esempi di artigianato e di abbigliamento come parte integrante del grande affresco del Perù che sta cercando di dipingere. In questo ambito, pur rimanendo un uomo dell’Ottocento, convinto della superiorità della civilizzazione di stampo europeo, non ha mai sentimenti di esclusione per le diverse popolazioni indigene, ma le reputa parte integrante della complessità e della varietà del Perù suo contemporaneo. Quando visita Cuzco avviene un cortocircuito tra ciò che vede e quello che ricorda dell’Italia: “Alla fine sono arrivato nella Roma d’America, in questa grande città di memorie che ci chiama Cuzco, dove non si può fare un passo senza imbattersi in una testimonianza della sua antica civiltà”. Raimondi, forse spinto dalla sua profonda fede nel progresso, vede una continuità tra i fasti dell’antico impero Tahuantisuyo (Inca, in lingua quechua) e le potenzialità di sviluppo del Perù in cui vive.

Purtroppo il futuro dorato immaginato da Raimondi non si realizzerà. Il paese indipendente fatica a trovare un equilibrio interno e i rapporti esteri sono ruvidi. Già nel 1864, c’è una scaramuccia con la Spagna per il controllo delle isole Chincha, un enorme deposito di guano al largo della città di Pisco, a sud di Lima. Ma è la Guerra del Pacifico (1879 – 1883) a giocare un ruolo determinante. Nello scontro con il Cile, il Perù perde il dipartimento di Tarapacá, una regione esplorata ovviamente anche da Raimondi e ricca di giacimenti di salnitro e minerali. Con essa se ne va una grossa fetta delle risorse del paese e il Perù, sfiancato e sull’orlo della bancarotta, deve rivedere i piani per il proprio futuro, compresa la pubblicazione dell’opera di Raimondi, che si blocca la terzo tomo del 1880. L’esploratore milanese, intanto, comincia a sentire il peso degli anni e la responsabilità di provvedere alla propria famiglia (si è sposato solo nel 1869, al termine dei suoi viaggi, e ha avuto tre figli). Continua il suo lavoro di insegnante, finché una lunga malattia non se lo porta via il 26 ottobre 1890. Di tutta l’eredità scientifica che ha lasciato, probabilmente a Raimondi sarebbe piaciuto sapere che la sua grande carta geografica tornò utile all’archeologo americano Hiram Bingham, soprattutto il 24 luglio del 1911, il giorno della scoperta di un sito archeologico di straordinaria importanza: Machu Picchu.

 

l mito americano della Natura

Raccontata come un Eden, l’America prima di Colombo era molto diversa da come la immaginiamo.

di Matteo Cossu

Il mito della natura incontaminata, della ‘Great American wilderness’, è profondamente radicato nella cultura occidentale. Il continente americano pre-colombiano è spesso dipinto come un luogo selvaggio, scarsamente popolato: un mondo dove la presenza umana era appena percepibile. L’attrazione per questo mito pervade molta della letteratura statunitense del XIX secolo. Le descrizioni di natura incontaminata fanno da sfondo al mito eroico del pioniere. Basti pensare a un libro come Walden e alle altri odi alla natura di Thoreau. Thoreau cantava di una natura intonsa, selvaggia, sconfinata, e la immaginava ancora più primordiale nei secoli precedenti alla venuta degli occidentali.

L’idea della grande America selvatica non ha solo giocato un ruolo rilevante nella percezione culturale della natura, ma ha anche influenzato generazioni di studiosi e attivisti ambientali. Nel 1950, John Bakeles in The Eyes of Discovery, parlava della sua opera come di un libro ‘che presentava le visioni, i suoni e gli odori di un’America in uno stato inalterato. Quarant’anni esatti più tardi, Kirkpatrick Sale pubblicava Conquest of Paradise dove affermava che erano stati gli europei a cambiare l’ambiente, trasformando la natura sulla scia di Colombo e dei conquistadores. Similmente, un anno dopo, Shetler (in un libro pubblicato dallo Smithsonian) sosteneva che:

L’America pre-colombiana era ancora un Eden, un regno naturale integro. I nativi erano trasparenti rispetto all’ambiente, vivendo come elementi naturali dell’ecosfera. Il loro mondo, quello che Colombo chiamò il Nuovo Mondo, era di impercettibile disturbo umano.

Ma era davvero così? L’impatto delle popolazioni native sull’ambiente era stato così trascurabile? Oggi sappiamo che la popolazione sia nel nord che nel sud America raggiungeva cifre paragonabili e, per alcuni studiosi, persino superiori a quelle raggiunte in Europa.

Il dibattito demografico

Quando l’Ammiraglio John Smith esplorò le coste del Massachussets nel 1614, i suoi rapporti descrivevano una terra “così rigogliosa di giardini e campi di mais, diffusamente abitata da gente forte e ben proporzionata”. Ma appena sei anni dopo, quando i pellegrini del Mayflower sbarcarono sulle stesse coste, trovarono solo miseria e morte. Thomas Morton, un commerciante inglese, scrive della sua visita nel 1622: “gli Indiani morivano in massa dentro le loro case, i teschi e le ossa sparsi in diversi posti delle loro abitazioni erano uno spettacolo [degno di] una nuova Golgota”.

L’incongruenza delle fonti, generò ben presto un dibattito antropologico che continua al giorno d’oggi. Le stime demografiche pre-colombiane erano molto difficili da ottenere, e i primi studiosi essenzialmente tirarono ad indovinare. Nel 1910, l’antropologo James Mooney incrociò fonti di esploratori e primi coloni con studi sulla capacità agricola delle popolazioni indigene, e concluse che in tutto il Nord America, viveva appena un milione persone. Mooney era rispettatissimo all’epoca e per molti anni le sue conclusioni non vennero mai messe in discussione. Per questo ci volle un periodo di grande fermento culturale come la fine degli anni Sessanta per rivisitare questa stima. E infatti nel 1966, alla luce del suo lavoro a stretto contatto con molte comunità di nativi americani, l’etnografo-storico Henry Dobyns, pubblicò stime decisamente più alte: al tempo del primo contatto europeo, a nord del Rio Grande vi sarebbero state tra le dieci e le dodici milioni di persone. Dobyns ricevette durissime critiche, ma anziché ricredersi, circa 20 anni dopo ripubblicò ulteriori ricerche e aumentò il limite superiore fino a diciotto milioni.

Dobyns (assieme ad altri antropologi come Alfred Crosby), rivelò così l’esistenza di dinamiche ignote fino ad allora. Secondo le sue stime, negli anni direttamente successivi ai primi contatti europei, si consumò la più grande epidemia della storia, direttamente responsabile di una decimazione delle popolazioni pari a oltre il 90%. Ai tempi, negli anni tra i ‘60 e gli ‘80, non esistevano metodi scientifici che potessero confermare le ipotesi degli antropologi, ma qualche mese fa un gruppo di ricercatori dell’università di Adelaide, ha pubblicato un articolo su Science Advances, sul DNA di 92 mummie e scheletri pre-colombiani, tutte datate tra i 500 e gli 8600 anni fa. Lo studio ha dimostrato l’estinzione pressoché totale, nella popolazione odierna, delle linee genealogiche individuate nelle mummie. Uno scenario concordante con le teorie di Dobyns.

Danni involontari

La suscettibilità delle popolazioni native americane alle malattie europee era dovuta a diversi fattori. Uno dei più importanti era l’assenza di diffuse pratiche di allevamento. Per la maggior parte, le comunità native in America si sostenevano con l’agricoltura e con la caccia. D’altra parte invece, in Europa, l’allevamento aviario, di suini, bovini, e ovini era praticato da millenni, e aveva portato alla diffusione, e alla conseguente immunizzazione, da diverse malattie zoonotiche, malattie cioè che ‘saltavano’ di specie per aggredire l’uomo: praticamente tutte le grandi epidemie, dal vaiolo al morbillo hanno questa origine.

Nel maggio del 1539, Hernando de Soto sbarca nella baia di Tampa con nove navi, più di 600 uomini e 220 cavalli. Secondo le ricostruzioni di Charles Hudson, un antropologo che ha dedicato la sua carriera a ricostruire il percorso di de Soto, la spedizione incontrò in quello che è oggi l’Arkansas, “città ben popolate” e “insediamenti così ravvicinati da potersi scorgere tutti insieme, tutti difesi da colline artificiali, fossati e schiere di arcieri”. De Soto passò anche attraverso a estesi campi di mais, zucche e fagioli.

Lo spagnolo morì nel 1542, e nessun europeo visitò quei luoghi per oltre un secolo. Nel 1682, quando Réné-Robert Cavelier, Sieur de la Salle esplorò le stesse zone, trovò condizioni ben diverse. Dei cinquanta insediamenti visitati dallo spagnolo, ne descrisse solo dieci, forse ri-occupati da nuove tribú.

La missione di de  Soto non era certo pacifica. Nei quattro anni passati tra quello che oggi è il sud degli Stati Uniti e le aree intorno al Mississippi, la compagnia distrusse, uccise e derubò tutto ciò che incontrò sul suo cammino. Ma il peggior danno causato dall’hidalgo avvenne a sua completa insaputa: de Soto si accompagnava a un gruppo che lo avrebbe dovuto aiutare contro ogni avversità: guide, mercenari, ingegneri, e… maiali. Recenti analisi di antico DNA mitocondriale hanno stabilito che i maiali domestici arrivarono in Europa al seguito dei primi agricoltori provenienti dal Vicino Oriente circa 7500 anni fa. Con gli animali, arrivarono anche le malattie: da solo, il maiale è responsabile di antrace, brucellosi, leptospirosi, teniasi, trichinosi e tubercolosi. Se si considera la loro vorticosa riproduzione e la possibilità di trasmettere malattie a tacchini selvatici e cervi (due specie centrali nell’alimentazione dei nativi), i maiali di de Soto erano, a tutti gli effetti, delle armi biologiche.

La natura indigena

La deforestazione e l’agricoltura intensiva sono due dei principali fattori dell’impatto antropogenico sull’ambiente. Prima del contatto colombiano, in America entrambe queste attività venivano compiute attraverso l’appiccamento regolare di fuochi controllati. In diverse misure, i nativi americani usavano il fuoco per creare terreni coltivabili, per mantenere ‘aperte’ le foreste, e per favorire la crescita di nuovi germogli attraendo quindi le specie da cacciare. Lo dimostra il fatto che diversi studiosi hanno trovato tracce di incendi controllati dalle zone sub-artiche fino al deserto di Sonora. Le caratteristiche e gli impatti di questi incendi dolosi variavano a seconda delle regioni e localmente dipendevano da fattori demografici e ambientali, ma in ogni caso avevano impatti non trascurabili addirittura su scale continentali.

In Nord America, gli incendi delle popolazioni native non solo plasmarono le foreste creando praterie, ma cambiarono attivamente la composizione degli ecosistemi forestali, creando condizioni favorevoli a specie utili alle comunità. Fragole, mirtilli, lamponi e altre bacche, ma anche varie specie di pino, e querce, sono quasi certamente un subclimax ecologico di origine antropogenica, create (e mantenute) attraverso il fuoco. Già nel 1958, il padre fondatore del concetto di “cultural landscape” Carl O. Sauer, da studi sulle precipitazioni medie e composizione dei suoli, concluse che la maggioranza dei biomi a bassa vegetazione del Nuovo Mondo erano di origine antropogenica.

La piccola era glaciale

Tra circa la metà del 1500 e per i 250 anni successivi, il mondo si ritrovò in un ciclo climatico di temperature significativamente più basse. Le conseguenze furono globali, e l’Europa non fu da meno. Si ghiacciò il Tamigi, il Corno d’Oro e parte del Bosforo. Interi villaggi alpini furono spazzati via dall’avanzata dei ghiacciai. Nel 2003, un paleo-climatologo e biologo marino, William Ruddiman, pubblicò un articolo in cui argomentava essenzialmente che l’impatto dell’uomo non è mai stato trascurabile, e che molte delle anomalie climatiche possono trovare spiegazione in eventi legati agli uomini. La piccola era glaciale non fa eccezione, e Ruddiman ipotizzava che fosse correlata al cambio d’uso della terra avvenuto dopo il contatto colombiano sia nel nord che nel sud America. In breve, il declino delle popolazioni americane portò a una riforestazione, da lì a una minore emissione di CO2 e quindi alla conseguente diminuzione dell’effetto serra e all’abbassamento delle temperature globali.

L’impatto umano sull’ambiente non è semplicemente un processo di degrado o cambiamento in risposta a un aumento di popolazione o di fattori industriali, agricoli o economici. Anche piccole popolazioni possono avere conseguenze drammatiche nel tempo. L’impatto umano è interrotto da periodi di inversione, riabilitazione ecologica e diversificazione di linee temporali, con l’insorgenza di nuove condizioni aumentano, diminuiscono o in certi casi addirittura si evolvono nuove specie. L’impatto può essere costruttivo, benigno o degenerativo, ma è bene notare che questi termini, e quindi la naturalità di un sistema, sono tutti concetti soggettivi.

Hernando de Soto si aggirò in Nord America per quattro anni e in nessun racconto del suo viaggio descrisse mai la specie che la nostra cultura associa maggiormente alle grandi praterie: il bisonte. Un secolo dopo, mentre attraversava gli stessi territori di de Soto, La Salle descrisse invece abbondanti mandrie di bisonti al pascolo nelle terre circostanti i fiumi. Considerando il repentino crollo della presenza umana e osservando il problema da un punto di vista ecologico, si può spiegare questa discordanza solo individuando nei nativi la specie chiave. In ogni ecosistema, le specie chiave esercitano una grande influenza stabilizzante su tutta una comunità ecologica, nonostante la loro relativamente piccola abbondanza numerica. Esercitando la caccia, è possibile quindi che i nativi americani limitassero le popolazioni di molte specie, favorendone altre. Questa dinamica era comune sia ai bisonti, che a diverse specie di cervi. Da studi di strati archeologici, si evince per esempio che il numero di cervi nell’America del nord aumentò drasticamente circa 500 anni fa in contemporanea con l’arrivo degli europei e il tracollo dei nativi. Il piccione migratore, una specie estinta che per anni fu usata come esempio della distruzione degli ecosistemi da parte dell’uomo, era praticamente una rarità prima del contatto colombiano. A man a mano che la frontiera dei coloni si spostava verso Ovest, essa veniva anticipata da un’ondata microbiologica e virale che, sterminando gli indigeni, causava un conseguente rimescolamento e riequilibrio degli ecosistemi, che andava a tutti gli effetti adattandosi a un impatto umano significativamente minore che in precedenza.

Longfellow inneggiava alla ‘forest primeval’ nel suo poema epico Evangeline: A Tale of Acadie. Se con quel termine intendeva boschi liberi da presenze umane, allora – come si è visto dalle ultime ipotesi di scienziati, antropologi che abbiamo riassunto in questo articolo – è possibile che lo fossero maggiormente nel 1800 che non nel 1500.

Humboldt e l’alba dell’ecologia

di Federico Nejrotti

Alexander von Humboldt, fratello minore del filosofo Wilhelm von Humboldt, nasce a Tegel nel 1769 da una ricca famiglia prussiana che gli assicura un’ottima educazione. Dopo la morte del padre rimane in balia di una madre iperprotettiva, che non manifesta particolare sensibilità per la passione per il viaggio di Alexander e gli permette di visitare solo i grandi centri culturali europei. Proprio per questo motivo, quando nel 1796 la madre muore, Alexander non perde un attimo di tempo e comincia a organizzare la sua prima spedizione: non senza intoppi, si imbarca per il Venezuela insieme al botanico Aimé Bonpland.

Viaggia per due anni, percorre il corso del fiume Orinoco, lotta ferocemente con delle anguille elettriche e nel novembre del 1800, ancora assieme a Bonpland, parte per Cuba ed esplora le Ande. Un giorno viene a sapere che la spedizione del capitano Nicolas Baudin, partita da Nantes e finita per dirigersi in Australia, sarebbe passata tra Guayaquil, in Ecuador, e Lima, in Perù. Senza esitazioni decide di aprirsi un varco nella foresta amazzonica per riuscire ad arrivare esattamente in tempo per imbarcarsi. Giunta a Quito, in Ecuador, nel gennaio del 1802, la compagnia viene a sapere che le notizie sulla spedizione di Baudin erano tutte sbagliate: il capitano si stava dirigendo verso Capo di Buona Speranza. Colto clamorosamente in fallo, Humboldt non si perde d’animo e decide di passare i mesi successivi a scalare tutti i vulcani della zona. Non contento, cinque mesi dopo si dirige cento miglia a sud di Quito e con tipico aplomb prussiano scala il Chimborazo, la cima più distante dal centro della Terra.

Sarebbe ingenuo cercare di sbrigare le tappe di Alexander von Humboldt in così poche righe: d’altronde dopo le Ande ha esplorato il Messico, gli Stati Uniti, si è fatto di nuovo un giro in Europa e infine ha toccato gli estremi orientali della Russia. Persino Andrea Wulf, con la sua straordinaria biografia The Invention of Nature, è riuscita appena a sfiorare la vastità delle terre calpestate da Humboldt nonostante avesse a disposizione trecentocinquanta pagine. Ma la cosa che più conta è come tutti quei viaggi abbiano permesso ad Humboldt di ottenere una visione totalizzante della natura, e di intuire una astrusa e misteriosa armonia globale che lega ogni singola manifestazione di vita sulla Terra. Proprio per questo non stupisce che sia stato Humboldt uno dei primi grandi personaggi a chiedersi se l’uomo, in pieno impeto pre-industriale, non stesse rischiando di interferire con il naturale corso di questa armonia.

Quando le foreste vengono distrutte

Le traversate amazzoniche di Humboldt non gli hanno permesso soltanto di raccogliere un inventario botanico invidiabile, ma soprattutto di acquisire una singolare consapevolezza di violenza, pervasività e ingordigia dell’imperialismo coloniale europeo. Così scrive in Personal Narrative:

Quando le foreste vengono distrutte, come succede ovunque in America a causa della fretta imprudente dei coltivatori europei, le sorgenti vengono interamente prosciugate, o diminuiscono drasticamente di numero. I letti dei fiumi, rimanendo asciutti per parte dell’anno, diventano torrenti ogni volta che la pioggia cade abbondante. Le praterie e i muschi scompaiono sotto i rami accatastati ai lati delle montagne, l’acqua che scende sotto forma di pioggia non trova impedimento al suo passaggio: e invece che aumentare progressivamente il livello dei fiumi attraverso filtrazioni costanti, scava violenta ai lati delle colline, portando con sé il terreno smosso e formando queste inondazioni improvvise, che devastano le pianure.

Nel 1804, concluso il suo tour del sud America, Humboldt decide, insieme ad Aimé Bonpland, di fare una tappa a Washington per conoscere Thomas Jefferson, presidente degli Stati Uniti e scienziato. Accolto calorosamente, trascorrerà con lui una settimana in cui il principale tema di dibattito sarà l’intersezione tra natura e politica: per Jefferson l’unico modo per ottenere felicità e indipendenza è attraverso un repubblicanesimo agrario, una totale concentrazione sui valori della terra, così profonda e sentita da convincere Jefferson che i veri membri del Congresso dovrebbero essere proprio i contadini, “veri rappresentanti degli interessi americani”. Le discussioni tra i due riguarderanno spesso temi legati all’America del colonialismo spagnolo e alle politiche estere degli Stati Uniti. A questo riguardo Humboldt non ha dubbi: oltre che per l’enorme stima nei confronti di Jefferson, è in nome di una scienza libera che decide di fornire al presidente tutte le informazioni raccolte durante i suoi viaggi: credeva infatti che la crescita della comunità scientifica internazionale dovesse trascendere gli interessi nazionali.

Durante la settimana a Washington, Humboldt approfondisce assieme a Jefferson le assurdità perpetrate dagli imperialismi coloniali. Gli racconta della “insaziabile avarizia” spagnola per oro e legname: il vero carburante dell’era coloniale, così ambito che, nel 1664, in Sylva, a Discourse of Forest Trees, John Evelyn scrive: “sarà meglio finire l’oro prima del legname”, con riferimento alle innumerevoli industrie messe in moto dalla sua lavorazione.

Di passaggio dal Lago Valencia, in Venezuela, Humboldt per esempio studia il progressivo prosciugamento del lago, attribuito dai locali a un misterioso “buco sotterraneo”. Analizzando le sabbie rinvenute nella zona e paragonando i ritmi di evaporazione a quelli europei, la conclusione di Humboldt è lapalissiana: la deforestazione della zona da parte degli europei ha privato il lago di un fattore preziosissimo per il proprio fragile ecosistema. Poco distante, nella valle di Aragua, troverà intere popolazioni ridotte alla fame perché obbligate a sostituire le coltivazioni per il sostentamento agricolo con quelle di indigofera tinctoria, una pianta da cui viene estratta una tinta blu particolarmente ambita dai commercianti europei. Queste coltivazioni, nota Humboldt, avevano rapidamente prosciugato la fertilità del terreno e reso inospitale l’intero territorio.

Che si trattasse di pratiche agricole o di interventi infrastrutturali – come le dighe piazzate nella rete fluviale senza cognizione di causa – Humboldt intuì per primo l’impatto dell’uomo sull’armonia della natura e cominciò a sospettare, e a scrivere, che l’incoscienza di quegli anni avrebbe potuto causare danni irreparabili per le generazioni future. Nel successivo lavoro di rielaborazione dei dati raccolti, Humboldt cominciò a unire i puntini per scoprire – o meglio, accorgersi – che le stesse pratiche sfruttate dai coloni spagnoli erano state replicate in Europa, e avevano allo stesso modo disturbato l’ecosistema. Si trattava dei primi studi sul cambiamento climatico antropogenico.

Naturgemälde: la natura è un tutt’uno vivente Qualche tempo prima di formulare questi pensieri, ancora immerso nella foresta amazzonica, Humboldt vive la sua epifania: sulla vetta del Chimborazo, infatti, vive un momento quasi estatico, in cui con un “singolo sguardo” riesce a comprendere la natura nella sua interezza, da un punto di vista fisico, ma anche spirituale. Tornato all’altezza del mare, Humboldt dipinge il Naturgemälde, una mappa del vulcano corredata di informazioni sulla distribuzione geografica delle piante, un “dipinto della natura come insieme” che corrisponde a una vera rivoluzione copernicana per la scienza naturale: gli ecosistemi non sono composti di compartimenti stagni, ma sono parte di un insieme vivente su scala globale. Gli equilibri sono fragili e strettamente interdipendenti. Dall’insetto più piccolo fino alla vetta più alta, ogni elemento contribuisce alla conservazione della natura, e ogni interferenza è un duro colpo a questo innato e costante sforzo.

Nel mondo i disastri ambientali si moltiplicano ogni anno, tra fenomeni di intensa siccità e violente inondazioni, e sta cominciando a prendere paurosamente piede la definizione di “rifugiato ambientale”.

È proprio nella visione unificata del Naturgemälde che Humboldt inizia a concepire il progetto delle isoterme, le linee metereologiche che uniscono i punti della terra e del mare che hanno la stessa temperatura, e che unite ai dati raccolti da Humboldt durante le sue spedizioni non fanno che confermare la sua teoria: la natura è un vero e proprio organismo vivente, non una risorsa inerte alle azioni dell’uomo. Queste riflessioni e scoperte non sono altro che l’inizio di un percorso molto più grande di Humboldt, quasi si trattasse di una presa di coscienza umana, più che individuale, e che nei secoli successivi finirà per influenzare tutto il mondo della scienza, e non solo. Nelle decadi seguenti John Muir, padre del movimento ambientalista americano, sarà mosso dalle stesse aspirazioni di Humboldt per la preservazione di una natura in quanto tutt’uno. Muir si batterà per la conservazione di intere foreste e contribuirà alla protezione delle sequoie americane inaugurando parchi e riserve naturali, come quelle dello Yosemite National Park.

Due secoli dopo, a cavallo del nuovo millennio, la missione di Humboldt è in seria difficoltà: il sistema Terra sta passando i suoi anni più caldi da quando abbiamo cominciato a registrare la sua temperatura e le calotte polari, proprio in questi giorni, stanno registrando ritmi di scioglimento inspiegabilmente anomali. Il 2016 è stato anche l’anno del superamento definitivo dei limiti di carbonio per l’atmosfera terrestre, che ha toccato le quattrocento parti per milione: una soglia sotto la quale, probabilmente, non scenderà mai più. Nel mondo i disastri ambientali si moltiplicano ogni anno, tra fenomeni di intensa siccità e violente inondazioni, e sta cominciando a prendere paurosamente piede la definizione di “rifugiato ambientale,” ovvero colui costretto a migrare dalle condizioni estreme imposte dal riscaldamento globale e dal cambiamento climatico.

Le istituzioni di tutto il mondo stanno lentamente prendendo parte a un processo di cambiamento che sarà ancora lungo e faticoso: il Trattato Climatico di Parigi, firmato da oltre centonovanta nazioni del mondo e ratificato da più di cento, mira a contenere l’innalzamento delle temperature globale a 1.5C° sopra i livelli pre-industriali. La brutta notizia è che non rispettare questi accordi potrebbe, questa volta definitivamente, significare conseguenze irreparabili per l’intera umanità, senza distinzione di razza, sesso, religione o classe sociale. Quella peggiore è che Donald Trump, il nuovo Presidente della prima economia del mondo sembra non credere a nulla di tutto questo.

  

La poesia di Wystan Hugh Auden

Un ricordo di quella che Brodskij definì “la più grande mente del ventesimo secolo”

di Flavio Santi

Quando si pensa alla più grande mente del ventesimo secolo, i primi nomi che si affacciano sono quelli di scienziati (Einstein, Heisenberg), statisti (Gandhi, Churcill), magari pittori (Picasso), musicisti (Stravinskij), architetti (Le Corbusier), financo filosofi (Simone Weil). Difficilmente si pensa a un poeta. Ma proprio in questi termini (“la più grande mente del ventesimo secolo”) parla di Wystan Hugh Auden il poeta russo Iosif Brodskij nel saggio “Per compiacere un’ombra”, tratto da Fuga da Bisanzio e opportunamente posto sulla soglia della recente edizione Adelphi delle Poesie scelte di Auden, nella versione di due maestri della traduzione, Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica.

“La più grande mente del ventesimo secolo”. Che un ingegno acuto come Brodskij – premio Nobel per la letteratura nel 1987, forse il più grande poeta russo della seconda metà del Novecento – si spinga a tanto avrà un significato, una spiegazione, un punto d’appoggio. Non sarà il semplice frutto di un commosso omaggio amicale. Chi conosce i saggi di Brodskij sa che il russo pratica un profondo scavo critico, mai arreso a slogan o a facili soluzioni. E dunque? Che un poeta sia la più grande mente del ventesimo secolo è una bella rivincita per chi crede nella poesia. Auden non è il semplice “cronista” che intravide Eugenio Montale (un’entrata a gamba tesa che complicò, tra l’altro, la fortuna del poeta in Italia), ma ben altro.

Nel testo originale l’aggettivo è greatest: la greatness è fatta di intuito e buon senso, visione e retroguardia, acribia e cialtroneria, fango e arcobaleno. La più “grande” mente non significa la più intelligente. Né la più geniale. Questa grandezza poi non deriva romanticamente dalla pura e semplice conduzione di vita di Auden. Che fece quel che doveva fare, senza strafare per altro: non visse molto, in fondo, appena sessantasei anni (1907-1973), fu inglese nell’accezione più classica e blasonata (fu oxoniense), e poi americano, ma anche austriaco (d’estate, a Kirchstetten, in un cottage seminascosto ai passanti, in fondo a una via ribattezzata “Audenstrasse”); vide la Guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale; viaggiò in Germania, Cina, Islanda, Italia; bevve molto whiskey e fumò molte sigarette.

La grandezza, naturalmente, risiede nelle poesie. Le poesie di Auden formano un mondo a sé, autonomo, dotato di gravità propria e proprio ossigeno. Come in ogni mondo, c’è tutto. Referti epocali:

Dall’Archeologia

è dato trarre almeno una morale:

cioè che tutti i nostri libri

di scuola mentono.

Di quella che chiamano Storia

non c’è da menar vanto,

fatta com’è di quanto

c’è in noi di criminale;

la bontà è senza tempo.

Preveggenze brucianti come in questo “Blues del profugo”:

Questa città avrà, mettiamo, dieci milioni di anime,

C’è chi vive in palazzi e chi in topaie,

Ma per noi non c’è posto, mia cara, no non c’è.

Avevamo una patria, e ci pareva bella,

Se guardi sull’atlante è sempre quella:

Adesso non ci andremo, cara, no, non andremo là.

Scalpellature epigrammatiche:

Ora che i porci son rifatti uomini

Ed è propizio il cielo e quieto il mare,

Tutti a casa possiamo ritornare.

Slanci fulminanti:

Vai, macchinista, accelera e vai

Dove splende il sole sulla Springfield Line.

Vola come un aereo e non frenare;

Non prima di New York, Stazione Centrale.

Campiture mozzafiato:

Oh la valle d’estate dove col mio John

Presso il fiume profondo camminavamo tanto

Mentre i fiori dal basso e gli uccelli lassù

Parlavan con debolezza di amore ricambiato.

Mi chinai sulla sua spalla: “Oh Johnny, giochiamo”;

Ma scuro in volto come il tuono se n’è andato.

L’Orazio anglosassone, si è detto. Del poeta latino Auden possiede la caratteristica, insieme banale e lussureggiante, di essere uomo e umanità, singolarità e sintesi, uno e folla. Wystan (Wystan era il nome di un principe medievale venerato come santo dalla Chiesa anglicana) Hugh Auden è ora una delle (tante) carrozze di un lungo, forse interminabile convoglio, ora la locomotrice di testa; ora l’apprendista, ora il mago. Tutto ciò risalta ancora meglio nella tensione di una partitura quasi sussurrata:

Splendi: che nessuno stanotte

Di soprassalto desto

Solo nel letto al buio pesto

Si senta augurare con furore

La morte al suo amore.

Amore e morte. Cosa c’è di più universale e, al tempo stesso, unico?

Anche qui la cognizione della morte

Le dà un amore struggente.

Fa breccia il fervore dell’amante:

Che hai in mente piccioncino, coniglietto;

Come le piume crescono i pensieri, impasse della vita;

Di far l’amore o di contare soldi,

O d’arraffare gioie, piani degni d’un ladro?

Così come il suo speculare, lo strazio:

Ah, ma di che tarlo di colpevolezza,

Di che dubbio maligno

Sono vittima?

Perché tu poi, sfrontato

Facesti ciò che mai avrei voluto

Confessando un altro amore;

E io sentendomi indesiderato

A testa bassa me ne andai?

Fino a coagularsi nella poesia forse più celebre (per via del film Quattro matrimoni e un funerale), “Funeral Blues”, che riportiamo per intero:

Fermate gli orologi, staccate il telefono,

Zittite il cane con un osso succulento,

Tacciano i pianoforti e tra tamburi afoni

Esca la bara, vengano i dolenti.

Gemano sorvolando gli aeroplani,

Scribàcchino il messaggio Lui È Morto,

Mettete crespo al collo dei piccioni

Guanti neri di cotone i vigili ora portino.

Lui era il mio Nord, Sud, Ovest, Est,

I giorni di lavoro e i dì di festa,

Meriggio e mezzanotte, voce e canto;

Credevo amore eterno ma s’è infranto.

Le stelle ormai inservibili, spegnete una a una,

Smantellate il sole e imballate la luna,

Spazzate il bosco e svuotate il mare;

Nulla di buono ormai c’è da sperare.

Poesia in cui, non a caso, tornano insieme amore e morte. Ora, la morte ha vari modi di camuffarsi per presentarsi a noi senza farci impazzire. Uno di questi è sub specie temporis, sotto forma di tempo (“Il Tempo che non puoi debellare”). Le poesie di Auden sono piene di tempo. Percepito, misurato, pensato, subìto, meteorologico, astrale, epocale. Come si è visto, “Funeral blues” comincia con gli orologi. “In memoria di W.B. Yeats” attacca con una gelata invernale:

È scomparso nel cuore dell’inverno:

Gelati i ruscelli, gli aeroporti quasi deserti,

La neve sfigurava i monumenti;

Sprofondava il mercurio in bocca al giorno moribondo.

Ecco, secondo tutti gli strumenti

Il giorno in cui morì era un giorno buio e freddo.

Altri travestimenti della morte sono più ameni (ma sempre toccati da un soffio rabbrividente):

Ormai cresciuti, ricordiamo sere come questa

A zonzo insieme nel frutteto senza vento

Dove il torrente corre sulla ghiaia, lontano dal ghiacciaio.

[…]

A qualcuno i rumori dell’alba

Daranno libertà; non questa pace che nessun uccello

Può contraddire: breve ma sufficiente per qualcosa

Di compiuto è già quest’ora, di amato o di subìto.

Contro la morte ci sono soluzioni praticabili? Per evitarla no di certo, come sappiamo tutti noi. Ma si può renderla tollerabile, quasi amichevole, se non amica. Come? Con il buon senso, il senso comune. Anche qua la scintilla scaturisce dal saggio di Brodskij, da un teatralissimo scambio di battute: “Il migliore scrittore russo è Cechov”. “Perché?”. “È l’unico […] che abbia un briciolo di senso comune”. È il senso comune – inesauribile risorsa – che fa pronunciare ad Auden parole come queste:

Facile è fare la domanda difficile;

Domandare all’incontro

Con una semplice occhiata d’intesa

Questi dove vanno

E come stanno questi:

Facile è fare la domanda difficile,

Semplice atto di volontà confusa.

Oppure riflessioni come questa, al limite dell’idiot savant:

Se noi, caro, sappiamo di non saperne più

Di loro sulla legge,

Se io non più di te

So quello che si deve e non si deve

Salvo che ognuno conviene

Con gioia o dispiacere

Che la legge è

E che tutti lo sanno.

O confezionare autoritratti, come qua dove Yeats visita la tomba di Yeats ed è come se stesse parlando davanti a uno specchio (basta sostituire l’Irlanda dell’originale con Inghilterra):

“Eri sciocco come noi: il tuo talento sopravvisse a tutto;

Alla congrega delle donne ricche; al fisico degrado;

A te stesso; la folle Irlanda t’inferse la poesia.

Ora l’Irlanda ha sempre il suo clima e la follia

Perché la poesia non fa accadere niente; sopravvive

Nella valle del suo dire ove il burocrate

Mai metterebbe becco; sbocca a sud

Dalle tenute dell’isolamento e dagli assidui crucci,

Scabre città in cui si crede e muore; sopravvive,

Un modo di accadere, una bocca.

Chiudiamo con le parole finali del saggio di Brodskij perché tutto è già stato detto lì, inno bifronte al sublime e al senso comune: “lo vidi l’ultima volta a Londra nel luglio 1973, a una cena da Stephen Spender. Wystan, seduto a tavola con una sigaretta nella destra e un bicchiere nella sinistra, dissertava sul tema del salmone freddo. Poiché la sedia era troppo bassa, la padrona di casa provvide a infilargli sotto la persona due squinternati volumi dell’Oxford English Dictionary. Pensai allora che davanti ai miei occhi stava l’unico uomo che avesse il diritto di usare quei volumi come sedile.”

Donne con la  bussola

di Paola Rinaldi

Viaggio è maschile o maschilista? Seppure non siano poche le donne che hanno contribuito alla cartografia, alla geografia e all’esplorazione, le storie dei piedi rosa che hanno stretto i lacci e camminato per il mondo sono rimaste nell’ombra per secoli. Da Freya Stark a Louise Arner Boyd, da Léonie d’Aunet a Ida Pfeiffer, sono state centinaia le donne che hanno avuto il coraggio di rovesciare gli stereotipi ed esplorare luoghi lontani.

«La storia di Ulisse e Penelope descrive sotto forma di metafora quanto tramandato dalla notte dei tempi: l’uomo fatto per il movimento, l’avventura, e la donna per la stanzialità», spiega la professoressa Luisa Rossi, docente di Storia della geografia e delle esplorazioni presso l’università di Parma e autrice del libro L’altra mappa. Esploratrici, viaggiatrici, geografe.

«Nomi femminili si incontrano nella storia della letteratura, della medicina, della pittura e di molte altre discipline culturali, mentre la geografia, sapere territoriale e strategico, è rimasta a lungo appannaggio di chi governava o faceva le guerre, e dunque degli uomini».

Nonostante tutto, le donne si sono fatte largo tra i pregiudizi. Geografe da tavolino o viaggiatrici?

Sarebbe stato più “logico” il primo ruolo, proprio perché sedentario, ma per rivestirlo occorrevano competenze di preparazione scientifica, come il latino, che le donne non possedevano. Un tempo, alle figlie venivano insegnati il ricamo e i mestieri legati alla vita domestica piuttosto che le discipline tecnico-scientifiche. Per questo motivo, l’unico modo a disposizione di una donna interessata a conoscere il mondo era partire. Nelle motivazioni del partire risiede la prima differenza tra il viaggio maschile e quello femminile: il primo era commissionato dai governi o dalle compagnie commerciali, il secondo era spontaneo e generalmente dettato da una sete di sapere personale.

La diversità si riflette anche nel bagaglio?

Certo. Basti pensare all’orientalista Giuseppe Tucci, grande viaggiatore e studioso italiano che – scopriamo dai suoi diari – era partito per il Tibet con una ricca attrezzatura, mentre nello stesso periodo Alexandra David-Néel raggiunge Lhasa con un fagottino.

Chi erano le esploratrici?

Erano donne come altre, forse con un pizzico di coraggio in più, con uno spiccato desiderio di conoscenza che le spingeva ad abbandonare tutto e scoprire il mondo. Alcune intraprendevano un viaggio religioso, perché era più semplice giustificarlo agli occhi della famiglia, per poi appassionarsi e diversificare le mete. Solitamente, appartenevano a un ceto medio-alto con una discreta istruzione, anche se non manca qualche operaia. Molte viaggiavano con il marito, ma sono tante anche quelle che hanno viaggiato da sole, in condizioni difficilissime.

Mary Montagu ha scritto: “Il mondo raccontato dagli uomini è vero solo a metà”. C’è differenza tra sguardo maschile e femminile?

Sicuramente i resoconti di viaggio sono molto diversi.

Quelli redatti dagli uomini sono più tecnici, quelli scritti dalle donne sono più particolaristici e maggiormente attenti alla dimensione sociale.

Mary Montagu era una viaggiatrice inglese, che nel primo Settecento ha raggiunto Costantinopoli insieme al marito ambasciatore. È la prima ad accorgersi che le donne turche praticavano l’inoculazione del vaiolo ai loro figli, pratica che lei descrive minuziosamente e porta in Inghilterra.

Nessun viaggiatore prima di lei lo aveva notato. Gli uomini hanno sicuramente scoperto il mondo, ma le donne hanno arricchito questa conoscenza con dettagli che prima non erano emersi.

Questo è stato apprezzato?

Sì, anche se forse le donne sono state più stimate come scrittrici che come geografe. Ancora oggi è più facile trovare una donna impegnata nei servizi sociali piuttosto che nell’urbanistica all’interno di un’amministrazione pubblica: la conoscenza e la gestione del territorio è ancora questione di potere, e pertanto in larga misura nelle mani degli uomini. Ma il cammino femminile, anche se lento, sicuramente continua.

 

Ida Pfeiffer, la viaggiatrice solitaria

di Paola Rinaldi

Se il viaggio avesse il volto di una donna, probabilmente l’ovale di Ida Pfeiffer sarebbe quello che gli somiglia di più.

Nata a Vienna nel 1797, sin da piccola, Ida divorava libri che parlavano di evasione, irrequietezza, cambiamento, viaggio come uscire “fuori” dal quotidiano. Quinta di sei fratelli, a soli 9 anni si ritrova ad affrontare il dolore per la morte prematura del padre e, a 22 anni, viene costretta dalla madre a unirsi in matrimonio per convenienza con un vedovo, molto più anziano di lei, dal quale ha due figli e dal quale si separa. Nel frattempo, in lei cresce il desiderio di conoscere il mondo: studia le lingue, le mappe geografiche, le piante, gli usi e i costumi dei popoli.

Intorno al 1842, ormai quarantacinquenne e madre di due figli diventati adulti, inizia a girare il mondo per soddisfare la sua curiosità e allontanarsi dalla limitata realtà femminile viennese. Siccome in quell’epoca l’unico pellegrinaggio consentito alle donne era quello in Terra Santa, Ida sceglie Gerusalemme, ma in circa nove mesi tocca anche Egitto e Malta. Da quel momento, il suo amore per i viaggi è siglato per sempre: la viaggiatrice solitaria percorre oltre 140 mila miglia marine e 20 mila miglia inglesi via terra.

Tra le regioni visitate c’è anche l’Oriente: Ida decide di andare controcorrente e visita di persona quella terra di sogni e spiritualità che aveva conosciuto solo attraverso la lettura. “In quella mischia ero davvero sola e confidavo solo in Dio e nelle mie forze. Nessuna anima gentile mi si avvicinò”, scrive nel suo diario di viaggio.

Da Smyrna il viaggio continua via mare per Rodi, Cipro e Beirut.

Donna coraggiosa e tenace, Ida intraprende cinque lunghi viaggi nella sua vita. In Egitto, visita le Piramidi di Giza e impara a cavalcare un dromedario; in Islanda preleva campioni di piante e rocce che, secondo alcuni racconti, ha successivamente venduto ad alcuni musei; in Brasile, visita la foresta pluviale per conoscere le condizioni di vita degli indigeni, usando i loro mezzi di trasporto. I suoi pellegrinaggi la portano dappertutto e le permettono di scrivere tredici diari, tradotti in sette lingue, ricavati dagli appunti che ogni notte scriveva a matita per raccontare la giornata appena trascorsa.

Muore a Vienna, poco tempo dopo essere rientrata dal suo ultimo viaggio in Madagascar.

Quello di Ida Pfeiffer ricorre più di ogni altro nome femminile nella documentazione ufficiale della geografia ottocentesca, persino in pubblicazioni sino ad allora “antifemministe” come quelle della Società geografica di Parigi e di Londra. In uno dei suoi due lungi giri intorno al mondo (uno intrapreso nel maggio 1846 per due anni e sette mesi, il secondo effettuato tra il marzo 1851 e il maggio 1855), riesce a entrare in un noto villaggio di cacciatori di teste del Borneo, raccontato in maniera dettagliata nei suoi resoconti.

Ida dimostra una grande maturità culturale, perché – se per chiunque sarebbe stato difficile giudicare con freddezza il rituale di quei popoli – lei ha la freddezza di asserire: “Ci meravigliamo tanto di questa pratica, ma quante teste sono appese nei saloni di Versailles?”. Come dire: “Quante guerre e quanti morti sono costati i nostri palazzi e i nostri agi?”.

Un medico a 4500 metri di quota

Una storia vera sotto forma di racconto

di Stefano Gandolfi, marzo 2018 (Tibet-Nepal, ottobre 2001), da sguardistorti n. 02 – aprile 2018

Steve viaggiò molto, dentro e fuori se stesso, nel mondo e nel proprio caos interiore.

Non viaggiò tanto come i viaggiatori di professione, come i cacciatori di visti sul passaporto, come i collezionisti di dogane e frontiere. Le vere frontiere da superare forse si riesce una sola volta nella vita a varcarle veramente, ed ancora più difficile risulta il non tornare più indietro.

Viaggiò comunque a sufficienza da stampare nel proprio DNA emozioni e ricordi che solo la dissoluzione della mente, l’Alzheimer o la morte potranno sottrargli.

 

Si trovò anche ad attraversare, in momenti e circostanze che ancora adesso oscillano fra sogno e realtà, i maestosi altipiani tibetani in una lungo raid su fuoristrada da Lhasa a Kathmandu, sempre al limite tra terra e cielo, a quote che a casa nostra sono dominio delle nevi e dei ghiacci. Conobbe strani e meravigliosi personaggi che gli spiegarono in una lingua sconosciuta ma perfettamente comprensibile come sia possibile avvicinarsi alle risposte cercate invano per tutta la vita, ammesso che qualcuno abbia dentro di se almeno ancora la volontà di porsi certe domande.

Conobbe la saggezza in volti devastati dall’ipossia, dalla fame, dalla brutalità dell’invasione cinese: in quegli occhi vide ostinatamente, spudoratamente la gioia, la serenità, l’accettazione del proprio destino, la consapevolezza che nel fluire del tempo e della vita il singolo individuo è un frammento insignificante che non può e non deve sprecare energie per cercare di cambiare ciò che è infinitamente superiore al più forte degli esseri umani: ovvero il significato del proprio viaggio che fin dalla nascita corre su binari prefissati e con una meta sconosciuta ma scritta nel codice genetico prima ancora di iniziare la fatica di vivere.

Ovviamente non poté assolutamente capire né accettare queste risposte, tanto erano estranee al modo di vivere al quale era stato educato e cresciuto e dal quale cercava di fuggire, ma senza avere gli strumenti per poterlo fare veramente.

Conobbe le montagne straordinarie dell’Himalaya, che toccò con mano, calpestò fin dove le circostanze del viaggio gli permisero di fare. Le vide dall’aereo di linea nel volo dal Nepal al Tibet, le vide dalle polverose piste sterrate della trans-himalayana, dai finestrini delle Toyota Land Cruiser che viaggiavano indifferenti fra valichi a 5300 metri di quota ed altipiani infiniti e misteriosi, tra cime maestose e senza nome perché non aveva senso dare loro un nome, salvo che per gli alpinisti cinesi ed europei, americani e giapponesi accomunati dalla frenesia di poter scalare vette ancora vergini e prestigiose per il proprio curriculum.

Le vide da un piccolo aereo turistico pilotato da un folle aviatore nepalese che lo portò così vicino al suo amato Everest da fargli temere per un attimo di atterrare in modo poco convenzionale al colle Sud ad ottomila metri di quota: ma una virata incredibile a 180 gradi quando erano ormai a non più di due chilometri in linea d’aria dalla parete sud gli permise di imprimersi in modo irreversibile nella mente l’immagine della “sua” montagna e di tornare incolume all’aeroporto di Kathmandu.

 

Vide le limacciose, sacre acque del Bhagmati, affluente del Bramhaputra, attraversare il quartiere induista di Kathmandu per raccogliere le ceneri dei cadaveri bruciati su cataste di legna e poi affidati al fiume nel loro ultimo viaggio; e vide la gente lavarsi nel fiume e raccogliere l’acqua per bere e per cucinare, la vide fare bucato nel fiume accanto alle pire fumanti.

 

Vide i bambini degli altipiani, figli delle tribù di nomadi e pastori, giocare con gli yak e con palle di stracci; indossavano maglie, felpe, pantaloni di incredibili e sgargianti colori con scritte occidentali, regali dei turisti che gli portavano gli abiti dei loro figli.

Li vide con la pelle scura, perché non avevano mai conosciuto il sapone. Ma erano sani e sembravano felici. Li vide aspettare in disparte, silenziosi, che alla fine dei pic-nic dei turisti si offrisse loro qualcosa da mangiare: e Steve si adattò a mangiare sotto il loro sguardo discreto, educato ed incuriosito dallo strano cibo degli occidentali, dal grana padano e dallo speck portato di scorta nel caso che il cibo locale non fosse di troppo gradimento.

Vide i templi ed i monasteri bhuddisti, distrutti dai bombardamenti cinesi e ricostruiti ostinatamente pietra su pietra dai monaci e dalle popolazioni dei villaggi vicini. Calpestò i loro pavimenti di legno, scivolosi e lisciati dal passaggio di migliaia di pellegrini, respirò l’odore del burro di yak, utilizzato per ogni scopo, come fondamento della loro alimentazione e come combustibile da bruciare nelle lampade votive: enormi recipienti di rame accoglievano centinaia di lumini che creavano un irreale, tenue illuminazione in ambienti privi di finestre e di corrente elettrica, e sullo sfondo le enormi statue delle divinità bhuddiste troneggiavano con quei sorrisi rassicuranti ma al tempo stesso inquietanti e così difficili da comprendere nel loro significato simbolico.

Vide i cieli incredibilmente azzurri come si possono vedere solo dove l’aria è estremamente rarefatta ed i colori sono così saturi, intensi da sembrare artificiali.

Vide i cilindri di preghiera, e Steve non si stancò mai di farli girare perché così anche lui contribuiva a far salire in cielo le preghiere contenute dentro di essi.

Vide il Potala, la residenza del Dalai Lama fino al giorno in cui dovette fuggire in India per proseguire in modo libero ad esercitare la sua influenza morale sul popolo tibetano. E rimase come tutti sgomento e senza fiato davanti alla maestosità dell’edificio: aveva paura di un impatto emotivo indebolito dalle centinaia di foto e di filmati visti e rivisti sul palazzo e su Lhasa, ma si rese conto subito che esserci veramente davanti annulla ogni immagine vista a casa ed ogni descrizione letta a tavolino. La stessa sensazione che aveva avuto in Perù visitando Machu-Picchu: pensava di conoscere ogni singola pietra del villaggio Inca e di non potersi emozionare più di tanto a vederlo dal vivo, invece l’impatto fu straordinario. Questo fa la differenza fra il viaggiare con la fantasia ed esserci davvero.

Vide i militari cinesi pattugliare armati la piazza del Jokhang, e comprese che lì, davanti al tempio più sacro del buddismo, avvennero fatti molto più sanguinosi che a Tien-an-Men, ma praticamente nessuno al mondo se ne accorse o volle accorgersene. Su quella piazza, a distanza di anni dal tentativo di resistenza tardivo, quasi patetico del popolo tibetano ma soffocato con violenza inaudita dai “liberatori”, ancora adesso era vietato “radunarsi” in gruppi di più di tre-quattro persone, pena il materializzarsi di una guardia del popolo a far cessare subito l’adunata sediziosa.

Vide molte altre cose e tante persone, ognuna delle quali meriterebbe un racconto ed una citazione, ma tutto ciò rimane indelebilmente nella sua memoria e questa è la cosa più importante: “ricordati tutto ciò che hai visto, perché tutto ciò che dimentichi ritorna a volare nel vento” disse un saggio apache.

Al termine di un ennesima lunga, faticosa e straordinaria giornata consumata su piste sterrate al limite dell’impraticabilità, dopo il guado di diversi torrenti ed infinite deviazioni per visitare un minuscolo monastero in uno dei villaggi più solitari e suggestivi dell’altipiano tibetano, la piccola carovana di Land Cruiser arrivò, come mai più in quel viaggio, vicina all’Everest.

Steve riuscì a convincere i compagni di viaggio a cambiare destinazione per la notte, d’accordo con la guida, e sul tardo pomeriggio arrivarono a Tingri. Villaggio di poche decine di case, a 4500 metri di altitudine, esattamente di fronte alla parete ovest dell’Everest. Il destino volle che della grande montagna non si vedesse nulla: nuvole basse coprivano completamente l’orizzonte e non si dissolsero né per il tramonto né la mattina dopo. Ma non aveva importanza: tutti sapevano che essa era là davanti a loro, non si poteva, forse, pretendere di averla a disposizione così facilmente. E forse l’averla sognata così intensamente ha lasciato nell’immaginazione di tutti un ricordo ancora più nitido e vivo che se la si fosse potuta vedere veramente.

Un piccolo “lodge”, una via di mezzo fra un rifugio alpino in stile tibetano ed un bed &breakfast molto spartano, diede ospitalità a Steve, a sua moglie Augusta ed ai loro compagni. Piccole stanze, tutte al piano terreno, disposte su tre lati di una corte quadrata, rigorosamente senza luce elettrica e con un unico bagno comune che difficilmente svanirà dal ricordo degli ospiti: praticamente cinque-sei latrine separate da murettini alti si e no mezzo metro; l’ultima, più appartata, era più larga per esigenze specifiche il che creava anche il rischio di caderci dentro se di notte, al buio, con una lampada frontale in testa e con una feroce emicrania da ipossiemia il coraggioso fruitore non stava ben attento a divaricare adeguatamente le gambe …

Dentro le stanze una candela accesa: una sfida all’intelligenza degli occidentali poco acclimatati; perché non si capì subito che anche il poco ossigeno consumato dalla candela era meglio conservarlo per irrorare il cervello. Un lavabo stile nostre campagne del secolo scorso ed un grosso recipiente termico per conservare l’acqua calda (riscaldata dall’enorme stufa della cucina) completavano l’arredo delle stanze: tutto l’essenziale, nulla di superfluo. Il pagliericcio non era neanche poi scomodo.

Ad un’estremità della corte, la grande stanza con la cucina, un’enorme stufa in mezzo ed il locale comune per mangiare, proprietari ed ospiti tutti insieme. Niente sedie; tappeti e cuscini per terra tutt’attorno a un lungo tavolo quasi al livello del pavimento; così che si finiva per mangiare comodamente e mollemente coricati in posizione orizzontale. Acqua e birra tibetana, cibo a volontà e probabilmente in quello sperduto lodge al altissima quota Steve e soci mangiarono meglio che in qualunque albergo di standard di lusso per i parametri cinesi, con un ospitalità che andava ben oltre i doveri dei gestori di un locale a pagamento.

Ma prima di mangiare, una ben strana esperienza toccò Steve nel cuore. Entrando nella grande sala, già con la mente un po’ annebbiata dall’ipossia, dalla stanchezza della giornata passata sui fuoristrada e dalle birre tibetane bevute poco prima, Steve venne accolto da Pino, il ragazzo di Torino che accompagnò il gruppo per tutto il viaggio.

Pino era un personaggio eccezionale, amava il Tibet, la filosofia buddista in modo totale ed era riuscito nel non facile obiettivo di coniugare la grande passione della sua vita con il lavoro, diventando accompagnatore turistico nella regione himalayana per conto di un importante tour operator italiano: da dieci anni passava almeno sei mesi all’anno fra Nepal e Tibet.

Conosceva perfettamente la lingua nepalese e tibetana, parlava con i monaci e si permetteva il lusso di spiegare loro alcuni aspetti della dottrina religiosa che essi stessi non conoscevano. Recitava i “mantra” insieme ai pellegrini che continuamente si incontravano nei villaggi e nei monasteri e spesso ne insegnava loro di nuovi. Era amico personale del Dalai Lama e più volte gli fece da interprete nelle sue visite in Italia. Aveva proposto a Steve un trekking intorno al Kailash, la montagna sacra dei tibetani, per vivere un’esperienza mistica e sportiva allo stesso tempo. Visitare quei luoghi con Pino era un privilegio che trasformava un viaggio turistico in una full-immersion nella più straordinaria filosofia di vita che Steve avesse mai conosciuto.

Dunque Pino aspettava Steve nella grande sala da pranzo, e gli chiese, quasi con imbarazzo, se non voleva fare qualcosa per la figlia più piccola dei proprietari: era malata, e i loro genitori sarebbero stati onorati se un medico venuto da così lontano avesse avuto la compiacenza di visitare la loro bambina.

Steve rimase sgomento: un medico occidentale, con tutto il suo bagaglio di grandi conoscenze scientifiche ma privo di ogni strumento, per non parlare della possibilità di effettuare o prescrivere esami, si sente istintivamente inadeguato nel suo compito e si trova di fronte, quasi con violenza, alla povertà spirituale della propria condizione, basata su presupposti fondamentalmente tecnologici. E quando ti ritrovi a disporre solo delle tue mani, degli occhi, della mente e forse del cuore, un grande disagio ti pervade.

Anche perché, Steve lo capì subito, per i suoi interlocutori lui era più di un medico, era un marziano, qualcuno venuto da un altro pianeta, probabilmente alla stregua di un dio, tanta era la differenza culturale, psicologica, tecnologica fra questi due mondi che si incontravano davanti alla grande madre di tutte le montagne: e la differenza non significava assolutamente inferiorità di qualcuno o superiorità di qualcun altro, significava semplicemente due modi totalmente diversi di vivere.

E mentre Steve masticava faticosamente questi concetti, si ritrovò davanti a tutta la famiglia riunita in cucina: la mamma teneva in braccio una bambina spaventatissima; poteva avere sei o sette anni, era visibilmente denutrita, aveva un aspetto sofferente, il colore della pelle era grigio, impossibile dedurre dalla cute o dagli occhi segni di itterizia o di anemia.

La bambina doveva essere visitata in braccio alla mamma, se no avrebbe pianto istantaneamente alla vista di questo stregone venuto da un altro mondo. E Steve, nei limiti del possibile, le toccò la pancia, le mise un orecchio sul cuore e sul torace, le guardò le sclere, cercò di valutare il tono muscolare e dei riflessi articolari, cercando di immaginare cosa avrebbe fatto un suo collega dell’ottocento, quali ragionamenti avrebbe sviluppato in una situazione forse normale per l’epoca …

La pancia era gonfia: “potrebbe avere un problema al fegato, chissà quale infezione intestinale, una malattia del sangue, un disturbo congenito del cuore …” disse a Pino affinché traducesse, ma più che altro per spezzare la tensione, per dire qualcosa, per non sembrare completamente impotente. Perché effettivamente così era.

“Bisognerebbe portarla al più presto a Shi-gatze, la città più vicina, perché possa effettuare degli esami in un ospedale cinese” aggiunse Steve (almeno a qualcosa si rendano utili, gli invasori, disse dentro di sé): Pino riferì e la risposta fu sconcertante: “fra cinque-sei mesi, quando sarà finito l’inverno e andranno in città per fare acquisti ai mercati, di cibo e di ogni altra cosa, porteranno la bambina all’ospedale”.

“Se sarà ancora viva…” Steve lo pensò solamente, ma era evidente la perplessità nei suoi occhi.

 

“Non giudicarli male – mreplicò subito Pino – so cosa stai pensando, ma devi capire cos’è il loro mondo e il loro modo di vivere: da secoli in queste terre si nasce, si vive, si muore nella totale indifferenza dell’umanità e nessun fattore esterno può influenzare, se non in male, la loro esistenza. Invasioni di popoli stranieri, dominazioni che cambiavano solo nella lingua e nell’aspetto dei nemici, istinto di sopravvivenza radicato ma anche realismo ed accettazione del proprio destino. Nessuno ti regala nulla né offre alcuna possibilità di cambiare la tua vita. Questi genitori amano sicuramente la loro bambina più di se stessi, ma sono perfettamente consapevoli che non possono modificare il suo destino. La loro vita è scandita da comportamenti, abitudini, eventi immutabili da molto prima che nascessero loro e i loro genitori, e che rimarranno tali anche dopo la loro morte.

Per loro andare nella grande città al di fuori del tempo previsto e dei motivi abituali costituisce non solo uno sforzo economico al di fuori delle loro possibilità, ma anche un cambiamento psicologico nelle loro tradizioni inconcepibile. Lo so che per noi occidentali tutto questo è inaccettabile, ma non possiamo neanche permetterci di venire qui per due-tre settimane e pensare di cambiare il loro modo di essere né tanto meno di giudicare le loro azioni.

Ti sono infinitamente riconoscenti per aver visitato la loro bambina, tu rimarrai impresso nei loro ricordi per tutta la vita per avergli concesso questo onore, ma loro con i soldi che spenderebbero per portare la bambina a Shi-gatze a farla curare dai cinesi garantiranno per almeno un anno la sopravvivenza agli altri figli, la possibilità di farli studiare e di dargli una chance di migliorare la loro vita …

Ma ora dobbiamo onorare i cibi che hanno preparato per noi: per loro sono l’equivalente di un banchetto nuziale, di una cerimonia straordinaria, non dobbiamo deluderli”.

Steve non disse nulla, ma meditò a lungo sulla concezione della vita nel suo mondo: si arrivano a spendere cifre incredibili per salvare la vita ad ultraottantenni affetti da almeno cinque-sei malattie croniche degenerative, la maggior parte delle quali correlate allo stile di vita di una società ricca che si puo ‘permettere il lusso di rovinarsi la salute per il troppo mangiare, la sedentarietà, il fumo, l’obesità e l’opulenza, bisogna sprecare risorse per curare gli eccessi e non le carenze. Poi capiti dall’altra parte del mondo e resti indignato se una bambina è destinata a morire nell’indifferenza e nell’accettazione di un destino che non è mai stato ne mai sarà benigno. Quella sera bevve molta birra tibetana prima di riuscire a tornare in sintonia con i suoi compagni, poi cominciò ad immergersi nel personaggio che doveva interpretare e raccontò, come tutti si aspettavano, la storia della conquista dell’Everest. Steve era un narratore affascinante e catturò a lungo l’attenzione di tutti con la struggente ed eroica sfida di George Mallory a quel pezzo di roccia proteso verso il cielo.

Se tu hai mai alzato gli occhi
in una fredda notte d’inverno
quando il cielo è terso
e le stelle si mischiano
come in un mare di latte incandescente.
Se un nodo è salito alla tua gola
di fronte a questo universo
assurdamente grande
tu hai nel cuore tutte le risposte
inespresse e impronunciabili.
ANONIMO

Alla fine della cena le donne del gruppo presero da parte le figlie più grandi della famiglia e valorizzarono la loro bellezza utilizzando tutte le armi della cosmesi occidentale. Per la prima volta, e forse unica nella loro vita, poterono truccarsi e non credettero ai loro occhi quando si specchiarono e si guardarono fra di loro. Le risate di tutti risuonarono fino a tardi e la felicità pervase la grande sala da cucina in questo strano connubio tra due mondi.

Nessuno vide più né seppe più nulla di quella bambina.

La vita riprese il suo corso ordinario, dopo gli strani eventi di quella sera passati a tentare di vedere l’Everest in mezzo alle nuvole ed a cercare il senso della vita stando attenti a non sprofondare in una latrina tibetana pagando il dazio alle troppe birre bevute.

La mattina dopo, all’alba, con l’Everest sempre sdegnosamente nascosto, i potenti motori dei Land Cruiser portarono lontano gli occidentali, a toccare il cielo sui valichi più alti del mondo, fra centinaia di file di bandierine di preghiera e di sciarpe di seta bianca lasciate in segno di devozione là dove la terra compie un ultimo sforzo per avvicinarsi agli dei prima di ripiegarsi verso il basso per buttarsi a capofitto verso le foreste nepalesi, verso il confine fra due mondi, verso la mitica incredibile frontiera fra il Tibet, ovvero la Cina, ed il Nepal, ovvero l’avamposto della società occidentale a ridosso della grande potenza orientale.

I cinesi, come tutti i dominatori, si permettono anche un distorto senso dell’ironia.

E così hanno deciso di chiamare “ponte dell’amicizia” quello stretto precario nastro di cemento sospeso sopra la gola del Dude-Khosi che in realtà separa fisicamente e militarmente due universi.

Il paesaggio sembrava assecondare, con i suoi cambiamenti, quella crescente inquietudine che pervadeva l’animo dei viaggiatori man mano che ci si avvicinava a Zangmu, paese di frontiera, avamposto del nulla, monumento all’assurdità della condizione umana: se Francis Ford Coppola avesse avuto bisogno di qualche ulteriore fonte di ispirazione, oltre al “Cuore di tenebra” di Conrad, per ambientare il suo “Apocalipse Now”, sicuramente poteva attingere a piene mani a Zangmu, alla sua popolazione, alla sua atmosfera.

Dopo il dissolversi nel nulla della cortina di ferro e lo smantellamento del muro di Berlino, nessuno può capire cos’è una frontiera se non passa da Zangmu e dal Ponte dell’Amicizia.

Dopo giorni interi sui grandi altipiani, dove l’orizzonte ed i pensieri del viaggiatore corrono verso l’infinito, quasi all’improvviso la terra si ripiega su se stessa aprendosi in una selvaggia profonda ferita provocata dallo scorrere delle acque del Dude-Khosi: un’enorme gola, con le pareti che cadono a picco, quasi verticali, verso il fiume che a malapena si riesce a distinguere centinaia di metri più in basso. Sul lato orientale della gola, i cinesi ed i nepalesi hanno costruito un’arditissima pista sterrata (chiamarla strada è decisamente esagerato) che con infiniti tornanti perde quota scendendo verso le foreste a sud dello spartiacque himalayano.

I cinquanta chilometri da percorrere in territorio cinese sono degni di un Camel Trophy: la parete della montagna frana continuamente e la pista, già di per sé stretta, spesso si riduce a permettere a malapena il passaggio di un veicolo con la ruote sull’orlo del baratro, zigzagando fra cumuli di detriti ammucchiati ai bordi della strada; diventò ben presto un’abitudine non vedere altro che il vuoto dai finestrini per i passeggeri seduti sul lato destro dei Land Cruiser; rivoli d’acqua che scendevano dalla parete non di rado si trasformavano in vere e proprie cascate ed il massimo divertimento dei piloti era di fermarsi proprio sotto questi diluvi per lavare i fuoristrada dalla polvere e dalla sabbia accumulati nel viaggio. Ma la cosa più straordinaria era il fatto che la pista, ovviamente, non era a senso unico, costituendo l’unica arteria stradale fra il Nepal e la Cina: di conseguenza ogni dieci-quindici metri si verificava un incrocio fra fuoristrada, camion, pulmini, mezzi militari e rare automobili civili che percorrevano ininterrottamente la strada dai due lati.

Un fluire lento, quasi immobile ma ostinatamente in movimento di veicoli che sfidava ogni legge della fisica e del buon senso. Vedere due enormi camion carichi all’inverosimile di masserizie, generi alimentari e quant’altro affiancarsi la dove lo sterrato accennava appena ad allargarsi, salire letteralmente sul fianco della montagna con due ruote, al limite del ribaltamento ed incrociarsi con le lamiere che stridevano toccandosi fu uno spettacolo indimenticabile che proseguì per ore, perché in queste circostanze si percorrevano a malapena dieci-quindici chilometri orari.

All’improvviso cominciarono ad apparire sui bordi della strada le prime case di Zangmu, abbarbicate alla parete della montagna lungo gli interminabili tornanti che tagliavano il fianco della gola. Quando la densità delle costruzioni aumentò, la pista sterrata diventò sempre più stretta, trasformandosi in un rivolo melmoso che raccoglieva a cielo aperto gli scarichi delle abitazioni e dove al caos del traffico di veicoli si sovrapponeva la costante presenza di bambini, polli, maiali, cani, uomini e donne indaffaratissimi e del tutto indifferenti agli inutili, continui, disperati suoni di clacson effettuati più per abitudine che per la speranza di ottenere strada.

Alberghetti di infimo livello, ristorantini per tutte le tasche, scambiatori di valuta clandestini ma che lavoravano tranquillamente sotto gli occhi di tutti, prostitute sulla soglia delle case, sui marciapiedi, venditori ambulanti di qualunque cosa in mezzo alla strada: questa la fotografia che ci si portava a casa da Zangmu.

Ma il vero capolavoro dell’assurdo si raggiungeva solo all’inizio della “no man’s land”: la cosiddetta terra di nessuno, un poco plausibile territorio neutro, non più cinese ma non ancora nepalese ove i fuoristrada tibetani erano obbligati a fermarsi ed a scaricare repentinamente gli stralunati viaggiatori con tutti i loro bagagli nel caos più totale. Frotte di bambini e ragazzini erano pronti a precipitarsi sulle valigie e sugli zaini per trasportare il tutto, ovviamente a pagamento, fino alla dogana cinese, distante due-tre chilometri. Ed ogni turista od escursionista doveva stare attento a non perdere di vista il proprio “facchino” per evitare brutte sorprese ai bagagli, mentre si faceva largo nella melma fra polli, maiali ed umanità varia.

La dogana cinese incuteva timore e si percepiva la vera dimensione politica della situazione: pur facendo parte di un viaggio organizzato il minimo disguido, un documento mancante, un cavillo interpretato male dai funzionari poteva in un istante creare problemi inimmaginabili e bloccare per ore l’intero gruppo in quella bolgia dantesca.

Per fortuna Pino, ben addentro ai meccanismi burocratici, riuscì a gestire bene il controllo dei passaporti e dei visti e finalmente Steve e compagni attraversarono, a piedi, il “ponte dell’amicizia”. Sul versante nepalese della “no man’s land” rivissero una situazione quasi speculare, anche se con minor tensione; purtuttavia i doganieri nepalesi, per non essere da meno dei colleghi cinesi, fecero di tutto per esasperare ogni dettaglio ed esaminare al microscopio ogni documento.

Dopo due ore finirono i controlli doganali e nuovamente furono tre chilometri da percorrere a piedi con i propri bagagli passati in una staffetta dai bambini cinesi a quelli nepalesi. Solo allora Steve comprese la vera dimensione del traffico commerciale fra i due paesi: una fiumana ininterrotta, per chilometri, di camion carichi di qualunque genere di alimenti, vestiti, elettrodomestici attendevano forse da giorni il sospirato visto per transitare verso la Cina. Decine di modestissime locande davano ospitalità a chi poteva permettersi il privilegio di non dormire nella cabina del camion; gli sguardi rassegnati ed annoiati degli autisti accompagnarono il percorso dei viaggiatori fino ai pulmini che li attendevano più a valle per iniziare la discesa verso Kathmandu.

E fu, all’improvviso, la foresta sub-tropicale monsonica, verde, esuberante, inquietante dopo le pietraie desolate ed infinite degli altipiani tibetani. E fu all’improvviso la guida a sinistra sulle strade nepalesi, retaggio della colonizzazione britannica: sempre dominazione straniera, diversa, ma dominazione. E furono tredici ore passate a percorrere centocinquanta chilometri, ma potevano essere anche i cinque anni-luce per raggiungere Alpha-Centauri. E fu, alla sera, una doccia calda in un lussuosissimo (o sembrava tale?) lodge nepalese poco a nord di Kathmandu. E fu, per pochi, interminabili ed indimenticabili secondi, il più stupefacente tramonto rosso fuoco sulla catena himalayana che turista od alpinista potesse mai aver visto nella sua vita. E il Tibet, già era diventato un sogno.