Rapporto con l’antichità, impegno civile e ricchezza nel pensiero umanistico
L’uomo, la natura, la libertà nella ripresa neoplatonica
Artisti, scienziati e pensatori: l’intreccio dei saperi nell’estetica rinascimentale
Gli apporti del Rinascimento: l’irruzione della pratica
Dall’esperienza all’esperimento: nuove interpretazioni della natura
Dall’organismo all’organizzazione: nuove interpretazioni della società
Premessa
Oggetto di questa serie di conversazioni è la Rivoluzione Scientifica, ovvero quel radicale cambiamento nel modo di pensare la natura e di operare nei suoi confronti che si verifica in Europa tra il XV e il XVII secolo, e che dà avvio non soltanto alla scienza moderna, ma in sostanza a tutto ciò che chiamiamo oggi, noi “post-moderni”, la modernità.
Semplificando al massimo, per offrire un quadro di riferimento cronologico sia pure sommario, potrei dire che la vera e propria rivoluzione scientifica, quella che produce nuove teorie e nuove forme di conoscenza, ha luogo tra la metà del XVI e la fine del XVII secolo; che nel secolo e mezzo precedente è stata preparata dal concorso di svariati fattori, dall’Umanesimo alla Riforma, dall’invenzione della stampa alle esplorazioni geografiche, ecc …; e che nel secolo XVIII essa troverà i suoi sbocchi nell’Illuminismo da un lato e nella rivoluzione industriale dall’altro.
All’interno di questo quadro la parte che vorrei mettere a fuoco è quella relativa alle premesse, alle condizioni che hanno reso possibile tale cambiamento. Pertanto la rivoluzione scientifica rimarrà per il momento solo sullo sfondo, come approdo, bacino centrale che raccoglie le acque di innumerevoli affluenti: la navigazione sul corso principale è riservata alle prossime conversazioni.
La scelta degli affluenti da seguire, dei fenomeni da focalizzare, è motivata fondamentalmente da due assunti, che costituiscono il vero argomento della conversazione odierna. Il primo è benissimo espresso nelle parole di uno dei massimi storici della rivoluzione scientifica, Alexander Koyré: “La nascita e lo sviluppo delle scienze sperimentali non furono la causa bensì, al contrario, l’effetto del nuovo atteggiamento teoretico, cioè del nuovo atteggiamento metafisico nei confronti della natura”. Vedremo poi come questa asserzione sia tutt’altro che banale, come non si tratti di stabilire se venga prima l’uovo o la gallina, ma di capire la natura stessa della mentalità scientifica, della scienza moderna nei suoi rapporti con la filosofia.
Il secondo assunto è che la rivoluzione scientifica non si pone come momento di rottura nei confronti della tradizione di pensiero cristiana, ma ne è anzi una logica e conseguente derivazione. Ciò può sembrare paradossale, se si pensa alle resistenze che la Chiesa ha attivato, alle disavventure di alcuni degli esponenti principali del nuovo modello di pensiero, da Pico a Bruno, a Galilei, ecc… Ma lo appare molto meno se si va a leggere ad esempio ciò che afferma il filosofo che meglio ci sembra interpretare ed esplicitare il nuovo modello di pensiero e che ho scelto proprio nella titolazione di questo incontro come referente finale, in quanto primo compiuto interprete e profeta della rinnovata attitudine gnoseologica: Francesco Bacone. “In seguito al peccato originale l’uomo decadde dal suo stato di innocenza, e dal suo dominio sulle cose create. Ma entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte in questa vita. La prima mediante la religione e la fede, la seconda mediante le tecniche e le scienze. In seguito alla maledizione divina il creato non è diventato interamente e per sempre ribelle: in virtù di quella massima “guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte” attraverso molte fatiche (non certo con le dispute e con le cerimonie oziose della magia) finalmente è costretto a dare il pane all’uomo e cioè è costretto agli usi della vita umana”. Come a dire, le tecniche e le scienze come strumento di redenzione, o almeno supporto alla redenzione; come esecutrici di un programma divino, e mezzi efficaci per l’attuazione di un compito morale.
Potrei aggiungere anche un terzo assunto, che in realtà è però solo una puntualizzazione del secondo. Quando parlo di continuità con la tradizione di pensiero cristiana mi riferisco sia al fatto che le istanze escatologiche giudaico-cristiane vengono genericamente secolarizzate e trasferite a partire da un certo periodo alla scienza, sia all’esistenza di un legame più specifico, anche se sotterraneo e indiretto, con correnti filosoficoreligiose che solo in parte, e con funzione antagonistica, sono riconducibili nell’ambito di questa tradizione: la scuola gnostica e la qabbalah ebraica. Quest’ultimo assunto conduce tuttavia su un terreno estremamente complesso e incerto (anche se già battuto da grandi filosofi della storia) che può prestarsi ad interpretazioni forzate. Mi limiterò pertanto ad accenni piuttosto cauti.
Sto anticipando quelle che in una corretta argomentazione dovrebbero essere le conclusioni per un motivo ben preciso, e cioè per definire (e per giustificare) i limiti di campo della mia indagine. Mi spiego. L’intento di questa conversazione sarebbe quella di ripercorrere la linea di continuità che dagli umanisti neoplatonici conduce sino a Bacone, ovvero a quella che è considerata la prima formulazione esplicita e compiuta del nuovo atteggiamento filosofico nei confronti della scienza: linea peraltro già arcinota nel suo tracciato più evidente, ma che viaggia anche per sentieri collaterali, meno battuti ma non per questo meno interessanti e determinanti. Ora, tale continuità riguarda un particolare sviluppo, una particolare direzione intrapresa dal pensiero, e nel rintracciarla dovremo forzatamente dare per supposti e noti tutta una serie di fattori di trasformazione di altra natura, ad esempio economici, sociali, politici, di costume, ecc… Questi fattori sono innumerevoli, agiscono e si intrecciano negli ambiti più diversi. Potrei citarne una quantità, anche solo restando ai primi che mi vengono in mente, dalla crisi dei poteri tradizionali all’affermarsi dei nuovi istituti statali, dalla perdita di autorevolezza della chiesa al trionfo della borghesia mercantile, dall’avvento delle armi da fuoco alla loro azione disgregatrice della società feudale, dai viaggi di scoperta alla messa in crisi di tutte le conoscenze e le convinzioni geografiche, astronomiche, antropologiche preesistenti, per arrivare alle trasformazioni nell’agricoltura, nei sistemi di proprietà, nelle pratiche commerciali, ecc …; ma solo per dirvi che non se ne parlerà in questa sede. C’è un sacco di letteratura storica su questi temi. Per farla breve: questa conversazione concerne la storia delle idee, ed è su questo piano che cercherò di muovermi.
Due (o più) visioni del mondo
Per essere coerente con la mia mancanza di sistematicità esordisco con una domanda. Anche questa forse avrebbe dovuto essere posta alla fine, ma in realtà mi serve proprio per riassumere in qualche modo gli antefatti ed entrare nel cuore dell’argomento. La domanda è: perché questa rivoluzione del pensiero, la nascita cioè di un pensiero scientifico, caratterizzato dalla assunzione nel proprio ambito, in toto, della tecnica, e nel proprio protocollo di veridicità del paradigma dell’efficacia, della praticità, avviene solo a partire dal 1400 e non in epoche precedenti, ad esempio nell’età ellenistica, che sembrano presentare a tutta prima un livello pari, e in qualche caso superiore, sul piano delle conoscenze matematiche e scientifiche? Non è una domanda oziosa, se la sono posti molti storici della scienza. Le risposte che abbozzo sono senz’altro semplicistiche e riduttive, ma qualche elemento di comprensione, ai fini soprattutto del nostro assunto, lo possono fornire.
Io penso che ciò sia avvenuto:
- per motivi economici. Ad esempio, l’economia dell’età ellenistica, pur prevedendo livelli di scambio già molto estesi, è in fondo ancora basata (tra le altre cose) sul lavoro schiavile. I rapporti di produzione sono ancora tali da non esigere e non incoraggiare l’investimento in nuove tecnologie che aumentino la produttività e riducano i costi. È quel che accade anche in altre epoche e in altre aree del globo, ad esempio in Cina, dove conoscenze scientifico-tecnologiche come quelle relative alla polvere da sparo, alla stampa, all’orologio meccanico, non vengono potenziate e sfruttate per motivi di ordine sociale e politico.
- per l’oggettiva mancanza di un adeguato supporto tecnico-artigianale È vero che ci sono giunte progettazioni di meccanismi funzionanti con la forza del vapore, o di congegni meccanici particolarmente complessi (la macchina di Antichytera). Ma si tratta sempre di strumenti finalizzati allo spettacolo, al gioco, non alla produzione, la cui complessità è quantitativa, piuttosto che qualitativa, e che non si prestano una semplificazione e ad un uso pratico.
- e questo mi sembra davvero fondamentale, per la diversa disposizione nei confronti della natura e del tempo che informava il pensiero classico. Qui è necessario andare un po’ più in profondità, perché l’argomento è determinante per la comprensione di tutto quanto il percorso successivo.
Partiamo dall’atteggiamento nei confronti della natura proprio dei Greci e poi dei latini, di quelle civiltà e culture insomma che definiamo “classiche”. È la posizione di rispetto riverente, e anche un po’ timoroso, di chi è affascinato dall’ordinamento visibile del cosmo, e vede nella successione degli eventi astronomici, nel moto apparente degli astri, nel decorso delle stagioni, nell’alternarsi del giorno e della notte, l’applicazione di una legge cosmica. Questa legge, incarnata nel movimento regolare della volta celeste, detta anche il modello e i criteri generali del sentire, per cui l’aspettativa, per gli uomini del mondo classico, non è mai quella del cambiamento, ma quella della regolare ripetizione: “rivoluzione” significa per essi il movimento compiuto lungo un’orbita circolare naturale, non certo una rottura radicale e progressiva. In questa visione del mondo, insomma, l’universo è eterno, non ha avuto origine e non avrà fine: tutto si muove secondo un ricorso costante, il cui risultato finale si riconnette al suo principio. Come dice Eraclito “Questo cosmo, che è di fronte a noi e che è lo stesso per tutti, non lo fece nessuno degli dei né degli uomini, ma fu sempre, ed è e sarà fuoco sempre vivente […] Tutto ciò che è per natura da essa nasce e ad essa ritorna […]”. È una concezione naturalistica che congiunge la coscienza di un continuo divenire con quella di una periodica regolarità, scandita lungo uno spettro ampio e diversificato di frequenze, da quelle circadiane a quelle epocali. La percezione degli eventi è atemporale, astorica, e non consente l’idea di una progressione.
La forma del sentire greco e latino è dunque ciclica, periodica e non progressiva; dove tutto è concepito come immutabile, o assoggettato all’eterno ritorno, che è la stessa cosa, non può nascere un’idea di storia intesa come progresso. Esiste un qualche accenno ad una concezione lineare del tempo, ma questa riguarda un orientamento inverso, rivolto all’indietro, e in base ad esso la vicenda umana è vista come un percorso di decadenza da una perfezione originaria (il mito dell’età dell’oro). In qualche misura questo tema verrà riproposto dalla visione giudeo-cristiana del paradiso terrestre, ma in una visione specularmente ribaltata, che prevede l’attesa, la speranza del ritorno, con l’aiuto di Dio, alla condizione d’origine, e orienta quindi lo sguardo verso il futuro.
Anche nella cosmologia filosofica, nella sua espressione più “scientifica”, che è quella del sistema aristotelico, l’universo è statico: sono il movimento, la rottura dell’equilibrio a creare problemi e a dover essere eventualmente spiegati. In questo orizzonte l’agire umano si iscrive nell’ordine immutabile della natura, un ordine che l’uomo non può né dominare né cambiare, ma solo svelare. Nell’azione dell’uomo non può esserci una finalità, perché la finalità si proietta in un futuro, anzi, mira a determinare il futuro; e questo futuro diverso dal presente nello sfondo cosmologico classico non c’è. Quindi l’agire può essere teso solo a portare a compimento, a dare forma a ciò che è già in atto nella natura: solo in questo senso, ed entro questo limite, si può parlare di “finalizzazione”
Ma come agisce l’uomo? Lo strumento della sua praxis è la tecnica, cioè la capacità di manipolare la materia (o gli spiriti, nel caso della politica) finalizzata ad uno scopo. L’uomo deve ricorrere ad essa perché è un animale biologicamente imperfetto, e quindi necessitato ad adattare l’ambiente a sé, dal momento che non è in grado di adattare sé all’ambiente. Ma la tecnica ha per i classici una natura ambigua: da un lato emancipa l’uomo dalla necessità e dalla tirannia delle condizioni naturali, dall’altro, in quanto sapere strumentale, finalizzato all’efficacia, gli dà solo la capacità di commisurare i mezzi ai fini, non quella di scegliere i fini. O meglio, gli consente solo di scegliere questi ultimi in funzione della sua capacità tecnologica di realizzarli. Crea in definitiva l’hybris, il peccato di presunzione e di ribellione alla divinità, ovvero alle leggi di natura. Per questo Prometeo, l’eroe mitico, colui che fornisce agli uomini il fuoco e la tecnica, finisce incatenato, prigioniero di quelle catene che sono appunto un prodotto della tecnica; e non per cattiveria divina, sia secondo Eschilo che per Platone, ma semplicemente per giustizia. In definitiva, nel pensiero classico la tecnica è condizione costitutiva della natura umana, ma deve rimanere iscritta nel registro della verità: non deve essere strumento di dominio sulla natura, ma di conoscenza, di svelamento della stessa per meglio ad essa conformarsi.
Una concezione così vincolante del ruolo e dei margini d’azione concessi all’uomo non può che assegnare alla scienza, che nel mondo classico coincide con la filosofia, uno statuto contemplativo. Questa attitudine permarrà invariata lungo tutto il medioevo, malgrado gli enzimi della trasformazione siano già attivi a partire dall’affermazione del Cristianesimo, e siano appunto quelli introdotti da una concezione nuova del rapporto con la natura, quella che già sopra ho chiamato giudeo-cristiana o biblico-cristiana.
La visione biblica del mondo ribalta completamente il ruolo dell’uomo, la percezione che questi ha di sé e di ciò che lo circonda, la dimensione temporale del suo agire e quella spaziale del suo essere. In pratica stacca l’uomo dal mondo, priva quest’ultimo di un senso proprio e lo riduce a materia manipolabile. Vediamo come esordisce la Bibbia. “In principio Dio creò la terra e il cielo. La terra era un caos informe e vuoto, le tenebre ricoprivano l’abisso e sulle acque aleggiava lo spirito di Dio. Iddio disse: “sia la luce: e la luce fu: Vide Iddio che la luce era buona e la separò dalle tenebre, e chiamò la luce “giorno, e le tenebre notte. Così fu sera, poi fu mattina, primo giorno.” Tutto si apre con un atto di volontà e con una precisa distinzione, tra il Dio creatore e l’universo creato, evocato dal nulla. L’atto creativo suppone una distanza tra il soggetto e l’oggetto, e quindi anche un diverso modo di relazionarsi da parte dell’uomo nei confronti dell’uno e dell’altro (religioso nei confronti del primo, profano verso il secondo).
Inoltre, la creazione non è un atto istantaneo, unico e definitivo, ma procede nel tempo (i sette giorni) da un caos informe e vuoto ad uno stato di ordine. Dio mette ordine nella sua stessa creazione, come non gli fosse venuta bene al primo colpo, “nominando” le cose (sia la luce), e trasformando così il caos in cosmo. Tutto avviene dunque secondo una sequenza temporale, progressiva, attraverso la scansione dei giorni. Nell’ultimo giorno avviene il passaggio delle consegne. Dio crea l’uomo a propria immagine, e gli affida la sua opera, affinché la governi, conferendogli espressamente il dominio su tutti gli altri animali, sui pesci, sugli uccelli, ecc… E ribadisce il concetto nella benedizione impartita alla coppia primigenia, quando dice “Prolificate, moltiplicatevi e riempite il mondo, assoggettatelo e dominate sopra i pesci del mare e su tutti gli uccelli del cielo e sopra tutti gli animali che si muovono sulla terra.”
È il primo capitolo della Genesi, e c’è già tutto. In questa visione il mondo non ha senso per sé, come lo aveva presso i greci, ma per l’uomo. Dio porta tutti gli animali da Adamo perché li nomini, ed il nome che Adamo dà, quello sarà il loro nome. È in fondo ciò che gli uomini hanno continuato a fare sino ad oggi. Investiti di questo ruolo fiduciario, hanno continuato a nominare le cose in funzione delle proprie finalità e delle proprie capacità di dominarle, fino a convincersi ad un certo punto di poter portare a compimento una creazione lasciata imperfetta, un’opera aperta ad ogni modifica e miglioramento. Questo compito, e questa separazione dal mondo, che si attua nel rapporto di dominio anziché di partecipazione, è sancito definitivamente dalla condizione umana successiva alla cacciata, allorché il mondo diventa il luogo dell’espiazione, abitato dall’uomo in attesa della redenzione (Antico Testamento) o come partecipe della stessa (Nuovo Testamento), e immerso comunque in un ambito storico-temporale.
Nella stessa misura in cui assegna all’uomo il ruolo di protagonista, anziché di coreuta, sullo scenario del mondo, la visione giudaico-cristiana lo porta anche ad esperire diversamente lo scorrere del tempo. A paradigma di questa esperienza vengono assunti gli eventi biologici che riguardano un’esistenza percepita come singola, irripetibile. In un contesto cosmico il processo di nascita, crescita, invecchiamento e morte può anche essere iscritto in una superiore ciclicità (il ritorno di tutto alla natura), ma in una concezione storico-soteriologica non può che essere vissuto come individuale. E l’andamento del tempo, quando è una vita singola a rappresentarlo, risulta lineare, procede in una direzione precisa, dalla nascita verso la morte. Fino a quando guarda e cerca senso fuori di sé l’uomo riconosce un percorso perfettamente circolare; quando guarda e cerca senso in se stesso coglie la linearità dell’esistenza singola, e la adotta a misura e rappresentazione del senso dell’universo.
Gli stessi temi, quello della percezione del tempo e quello della autorappresentazione umana, sono centrali anche in quei particolari modelli di pensiero che ho indicato più sopra come gnostico e qabbalistico. Nel riferirmi allo gnosticismo prescindo naturalmente dalla varietà e dalla complessità delle dottrine raccolte sotto questa denominazione; riassumo soltanto i concetti originari che stanno alla base di un pensiero religiosi diffuso nei primi secoli della nuova era e comune a diverse sette. L’attitudine gnostica nasce da quell’interrogativo di fronte alla presenza del male dal quale ha origine in fondo ogni speculazione umana. Il fatto stesso di interrogarsi sull’esistenza del male e di volersi ad esso opporre testimonia per gli gnostici l’appartenenza (beninteso, solo per chi questa coscienza ce l’ha) al bene perfetto che ne costituisce l’opposto. La presenza del male viene spiegata come frutto della accidentale caduta di elementi superiori in un cosmo materiale, nel quale essi si trovano imprigionati e dispersi. La dissoluzione della mescolanza assurda di male e bene potrà essere attuata solo quando essi recupereranno la conoscenza perfetta (la gnosi). Questa conoscenza è già patrimonio, sotto forma di intuizione immediata, di alcuni eletti (gli “pneumatici”, la cui natura è spirito) per i quali è quindi già realizzata la salvezza: ma essa può essere trasmessa sotto forma di sapienza rigeneratrice ad una parte dell’umanità (gli psichici, quelli che possiedono un’anima ma niente spirito). Il resto degli umani (gli “ilici”, solo carnali) è destinato alla scomparsa quando si arriverà alla distruzione finale dell’universo materiale e sarà ricomposta l’armonia di quello superiore. Le cose sono in verità un po’ più complesse, così come è particolarmente intricata la questione delle ascendenze dello gnosticismo (mitologia iranica, dottrine platoniche, giudaismo apocrifo e apocalittico); ma credo che per questa sede basti ed avanzi.
Più importante è invece vedere dove porta questa concezione. Intanto nega la dottrina della creazione a favore di quella di una “emanazione”, e cioè della appartenenza dell’uomo alla sfera del divino (esattamente il contrario dell’appartenenza classica alla sfera del naturale: tutto ciò che è naturale e materiale viene ripudiato). Introiettare il divino, sentirsi parte della divinità e aspirare attivamente al ricongiungimento significa rifiutare sia la sudditanza greco-classica nei confronti del Fato e della ciclicità che la posizione di attesa cristiano-giudaica, e pensare in termini di auto-redenzione. La salvezza per gli gnostici la si guadagna col tramite di una sapienza individuale riconquistata, non attraverso la fede in una rivelazione divina (anche se una rivelazione c’è, ma concerne il metodo per tornare ad una verità di cui si è parte, e non dei contenuti che ci trascendono). La divinità superiore è lontana, immota ed immutabile, totalmente assente dalla scena nella quale si svolge il dramma della liberazione dello spirito. È contemplato anche un atto finale, collettivo, della salvezza dell’umanità, che consiste nella discesa fino agli inferi di una potenza della luce: ma questa luce, il logos, la gnosi, è già presente nell’umanità stessa, si tratta solo di risvegliarla. Questo è un gioco nel quale hanno parte come antagoniste le entità negative e come protagonista l’uomo. La natura della conoscenza cui quest’ultimo deve accedere risulta quindi decisamente operativa. Essendo finalizzata ad un risultato, l’esorcizzazione della materia, essa induce da un lato uno sforzo di autocoscienza (in direzione individualistica) e dall’altro l’elaborazione di uno strumentario, speculativo, rituale o magico, segretamente trasmesso e finalizzato al dominio sulle forze materiali.
Questa attitudine, che interiorizza la redenzione e trasferisce la speranza dall’aldilà al futuro, parrebbe la più prossima a quelle concezioni dell’individuo, della storia e del progresso che stanno alla base della modernità. Esistono in effetti interpretazioni che, andando ben oltre l’individuazione di un retaggio gnostico nelle diverse dottrine moderne del progresso, leggono lo gnosticismo come un fenomeno carsico, periodicamente riaffiorante sotto rinnovati travestimenti ideologici o filosofici, al quale andrebbero ascritte le esperienze più radicali della moderna interpretazione del mondo. Per quanto mi concerne la ritengo una lettura esasperata: ma sono anche convinto che si sia effettivamente dipanato lungo la storia dell’occidente il filo più o meno sotterraneo di una tradizione dualistica di matrice gnostica, e che questo abbia ispirato da un lato escatologie ereticali, messianismi, utopie secolari, tutti accomunati da una concezione apocalittica del tempo (la fine del tempo), dall’altro un forte impulso alla conoscenza operativa, dapprima magica e alchemica, e successivamente razionale e scientifica.
Fortemente intrisa di reminiscenze gnostiche è la vicenda della qabbalah. Nata come raccolta di tutto ciò che non rientrava nella legge ebraica codificata (la Torah), come sentenze profetiche, racconti agiografici ed esperienze mistiche, col tempo la qabbalah (che significa tradizione) si era trasformata in una sorta di percorso interpretativo parallelo del verbo testamentario, non soggetto ai vincoli della normativa ortodossa e aperto quindi al confronto e alle suggestioni provenienti da altre dottrine, prima tra tutte lo gnosticismo. Essa aveva assunto una crescente importanza presso le comunità della diaspora occidentale, quelle più lontane dal centro di irradiazione dell’ebraismo e più soggette alla pressione del cristianesimo, dalle quali veniva interpretata come una conoscenza esoterica risalente all’insegnamento morale di Mosè o dello stesso Adamo e alle quali offriva ad un tempo uno strumento di difesa dall’assimilazione e un motivo di speranza in una possibilità di intervenire sulla storia della salvezza e di accelerarla. Nella sostanza si trattava di un metodo di interpretazione della Bibbia basato su procedimenti matematici (un valore numerico viene assegnato ad ogni lettera dell’alfabeto ebraico), sulla ricostruzione anagrammatica o sulla lettura acrostica, che aveva perso per strada la sua originaria funzione esegetica per puntare, giocando sul potere evocativo attribuito alle parole, al dominio sulle forze dell’universo. Questo utilizzo sconfinava naturalmente nella dimensione magica e apriva spazi ad ogni forma di contaminazione. Sotto il profilo dottrinale, infatti, la versione occidentale della qabbalah è fortemente debitrice della tradizione gnostica, dalla quale riprende non solo la dottrina dell’emanazione, che nega l’atto creativo e concepisce l’uomo come parte del divino, ma anche tutta la struttura simbolica e cosmologica, sia pure opportunamente rifondata su basi testamentarie. Nella sostanza comunque la lettura biblica ortodossa è completamente stravolta: con le sue sole forze l’uomo può ripercorrere la via segreta che lo ricondurrà al tutto indifferenziato dal quale l’emanazione lo aveva allontanato, attraverso un itinerario mistico, fatto di conoscenze, quindi di interpretazioni della legge religiosa, e di azioni rituali, che si trasformano in pratiche magiche e vengono trasmesse in forma iniziatica.
Anche se fortemente osteggiato dalla classe rabbinica, per ovvi motivi di ruolo e di potere, questo atteggiamento mistico ebbe una grande diffusione soprattutto tra le classi più diseredate, quelle che si sentivano escluse da una partecipazione o da un protagonismo nell’azione storica collettiva. Ora, l’esperienza mistica è comune a tutte le religioni di ceppo testamentario, dal cristianesimo allo gnosticismo all’islamismo, e il suo valore si fonda sulla possibilità di verificare e ripetere più volte l’esperienza stessa (il che, per inciso, prefigura il moderno approccio della scienza sperimentale, l’experimentum): ma nel caso dell’ebraismo essa assume un valore particolare. Se per i cristiani infatti questa esperienza riveste un valore prettamente individuale, in quanto la redenzione collettiva che sta alle spalle ha reso possibile una via singolare alla salvezza, per i mistici ebraici, per i quali la redenzione deve ancora essere attuata, le esperienze mistiche sono solo un modo per inserire l’uomo in una realtà superiore e farlo agire di conseguenza. Non essendo prioritaria per l’ebraismo la salvezza individuale, tale esperienza diventa interessante solo come strumento per l’azione ultima, quella che dovrà portare la salvezza collettiva al popolo d’Israele. Questo spiega perché, a differenza di quanto accade nel cristianesimo, nel quale il misticismo rimane esperienza individuale, nell’ebraismo si fondi una vera e propria tradizione, basata su rituali magico-liturgici e su metodologie interpretative, che si sviluppa parallelamente alla tradizione ufficiale.
Una volta filtrate in occidente e reinterpretate in chiave filosofico-scientifica, queste dottrine finiranno per dare un impulso fondamentale ad una nuova attitudine nella percezione del tempo, nella valorizzazione dell’individualità e nella elaborazione del mito del progresso. Ma c’è un altro aspetto della storia della mistica ebraica che mi sembra determinante in questo senso. In quanto tentativo di trovare una scorciatoia per la salvezza, il misticismo finisce inevitabilmente per creare, soprattutto tra gli ebrei dell’Europa centrale o del vicino Oriente, un clima favorevole alle aspettative messianiche a breve termine, che in qualche caso assumono anche la dimensione di movimenti di massa (ad esempio il movimento sabbatiano raccontato da Gerhsom Scholem ne Le grandi correnti della mistica ebraica). Il risultato è una lunga catena di fallimenti e di delusioni, che mette a durava la fiducia nella promessa divina e induce a reinterpretarla: l’esilio comincia pertanto ad essere letto non più in chiave di punizione, ma nell’ottica di una missione. Persa la speranza in una specificazione di riscatto volta soltanto al proprio popolo, le frange meno ortodosse dell’ebraismo tendono a laicizzarsi e a sentirsi partecipi di un più vasto movimento di emancipazione di tutta l’umanità: trasferendo da giudaismo alla secolarità il loro retaggio messianico diverranno una presenza rivoluzionaria e progressista diffusa.
La gestazione medioevale
Quella che ho tratteggiato è dunque la storia della concezione occidentale del rapporto con la natura, e quindi con la scienza e con la tecnica, prima della rivoluzione scientifica. Questo rapporto nel sentire pagano è di soggezione, ma anche di intrinsecità, si limita alla separazione nella concezione prettamente ebraica (quella in cui l’attesa riguarda una redenzione che deve arrivare da Dio), diventa di dominio esterno, meccanico in quella cristiana (che prevede una partecipazione attiva, o meglio ancora un inveramento della Redenzione da parte dell’uomo), e sfocerà nella manipolazione, nella trasformazione della composizione chimica, della natura intima delle cose in quella post-cristiana secolarizzata (quando la redenzione diverrà compito del solo uomo, da realizzarsi su questa terra).
Non resta ora che indagare come quando le diverse visioni sono venute a confronto, e se è poi così vero che l’una abbia prevalso sull’altra, o se si sia invece giunti ad una ibridazione, e infine attraverso quale processo la risultante sia stata tradotta nella dottrina del progresso e nella nuova religione scientifica.
La lunga incubazione della nuova disposizione gnoseologica, giudaico-cristiana o gnostica che si voglia, protrattasi per oltre un millennio, è legata proprio alla resistenza che la mentalità pagana oppone. Questa resistenza è naturalmente agevolata dai più disparati fattori, ed io mi limito a citare quelli che mi sembrano più significativi ai fini del nostro discorso. C’è ad esempio la contrazione degli scambi che caratterizza l’economia alto-medioevale, in termini di volume ma anche di ambiti e di spazi coinvolti, che determina a sua volta un rallentamento nei fenomeni di diffusione culturale. Il cristianesimo stesso comincia a radicarsi nelle campagne solo ben oltre il X secolo, e a prezzo di innumerevoli contaminazioni (si pensi solo alla necessità di recuperare in qualche modo tutto il pantheon delle divinità rurali attraverso l’introduzione del culto dei santi). C’è poi la pressione esercitata sull’occidente per sei-sette secoli da tutti i lati, in ondate successive, cosa che non favorisce un’attitudine ottimistica e induce piuttosto a guardare indietro (le vestigia della grandezza del passato sono lì a testimoniare della decadenza) e a concepire una possibile redenzione solo in forma millenaristica, per intervento diretto divino.
C’è infine il ruolo ambiguo che la chiesa svolge nella conservazione di questa mentalità. Da un lato infatti, con la concezione della penitenza, del Purgatorio, inaugura una contabilità della pena che prelude al nuovo spirito matematico-capitalistico (e lo stesso vale per l’adozione di un’idea nuova del tempo, se è vero che i primi orologi sono proprio quelli conventuali), e in questo senso la caccia agli eretici si configura come repressione di chi vuole il ritorno all’antico; dall’altro cerca nella concezione aristotelica e in generale nel pensiero classico, opportunamente rivisto, interpretato ed addomesticato, le pezze d’appoggio filosofiche che giustifichino il proprio ruolo di mediatrice unica, ruolo che ha un senso solo se rimane prevalente la preoccupazione escatologica, il sistema della salvezza, e se quindi si mantiene concentrata l’attenzione sull’al di là, attraverso un rifiuto dell’agire nel saeculum. L’opera di mediazione con la cultura tradizionale porta anche la Chiesa a privilegiare un primato della memoria, ad appropriarsi del tempo col tramite di una scansione liturgica. In qualche modo l’eterno ritorno della liturgia annuale, la quale trasformava in tempo circolare la memoria della vita terrena di Cristo (e che veniva rafforzata dalla calendarizzazione dei giorni “feriali” come giorni onomastici dei santi) cozzava contro l’elaborazione di un tempo lineare procedente dalla creazione e poi dall’incarnazione verso la fine dei tempi.
È anche vero, d’altro canto, che la storia escatologica della salvezza non offre di per sé una interpretazione progressiva della storia del mondo. Per i primi cristiani, così come per gli gnostici, la storia di questo mondo era in realtà giunta alla fine: la venuta di Cristo non segnava l’inizio di una nuova epoca, ma il principio della fine. Anche nel modello testamentario lo schema del processo storico è circolare: l’uomo pecca contro la volontà di Dio, Dio vuole redimere l’uomo e ripristinare il rapporto. Il regno di Dio non si realizza secondo un processo evolutivo, ma in un movimento progressivo dall’alienazione alla “riconciliazione”, un grande giro alla fine del quale ci si riconnette col principio. Ora, mentre per gli ebrei l’evento decisivo appartiene ancora al futuro, e l’attesa del Messia divide tutto il tempo in un’epoca presente e in un’epoca futura, per il cristiano la linea di divisione della storia è l’avvento già compiuto, e in funzione di questo avvenimento il tempo viene calcolato tanto in avanti quanto indietro. In questa luce gli eventi secolari prima e dopo Cristo non costituiscono in effetti una successione continua di eventi significativi, ma soltanto la cornice esterna della storia della salvezza. Solo nel mondo post-cristiano il saeculum si è tradotto in svolgimento secolare, in pretesa di trasformare il mondo attraverso un processo percepito come “progressivo” di azioni umane.
Il pensiero storico cristiano delle origini era lontano dall’ideale di dominio della natura, immune dalla concezione di progresso quanto quello greco. Ma, a differenza di quest’ultimo, non conformava alla natura e ai suoi ritmi ciclici l’agire umano: sanciva quel distacco dal mondo (da un mondo prossimo a finire, per sempre) che è il presupposto per la sua oggettivazione, nel senso letterale di riduzione ad oggetto, per la sua desacralizzazione e conseguentemente per la sua profanazione. Quando affermo pertanto che la moderna coscienza storica (e quindi la moderna attitudine scientifico-tecnologica nei confronti del mondo) deriva dalla concezione biblico-cristiana, intendo dire che l’escatologia testamentaria ha aperto una prospettiva verso un compimento futuro, che questo compimento in origine era inteso come trascendente e più tardi è stato letto come immanente, e che la teoria secolare del progresso, dopo essersi emancipata dalle limitazioni originarie della cosmologia classica e della teologia cristiana, mantiene fermi tuttavia i presupposti di quest’ultima, la concezione del passato come preparazione e del futuro come compimento.
In sostanza: al problema della necessità e del dolore il mondo occidentale ha dato due differenti risposte. Una è il mito di Prometeo, l’altra la fede nel crocifisso. Né il paganesimo né il cristianesimo hanno ceduto, in verità, all’illusione moderna che la storia costituisca uno sviluppo progressivo, che risolve il problema del male e del dolore con la graduale eliminazione della fatica e della sofferenza. Ma mentre il primo ha incatenato per sempre il redentore alle rocce del Caucaso, il secondo lo ha proiettato in gloria nell’alto dei cieli, esempio e promessa provvidenziale per il riscatto futuro degli umani. Quando l’attesa ha cominciato a farsi lunga questi ultimi hanno sostituita la fede nella provvidenza divina con quella nella propria intraprendenza ed hanno rifondata scientificamente la prospettiva escatologica, trasferendo la necessità dalla salvezza al progresso, cioè alla trasformazione del mondo a loro immagine ed uso.
Il processo che caratterizza la modernità è dunque già in nuce nello stesso lento affermarsi della concezione biblico-cristiana: ma paradossalmente il suo approdo secolare passa proprio attraverso una serie di istanze ereticali o eterodosse, che culmineranno poi nell’Umanesimo e nella Riforma. Attraverso cioè la estremizzazione del rifiuto di un ruolo intermediario, quello della Chiesa, e l’assunzione individuale e storica della responsabilità della salvezza.
In questo senso possiamo tornare a parlare degli influssi dello gnosticismo. Nel mondo mediterraneo e in genere nell’occidente le sette gnostiche spariscono entro il IV secolo, liquidate con una serrata campagna dagli apologeti cristiani. Non scompaiono invece del tutto le reminiscenze dualistiche, un po’ per la naturale presa che esercitano sul sentire popolare, un po’ per la circolazione più o meno clandestina di testi iniziatici, opportunamente camuffati o epurati degli elementi dottrinali più estremistici. Reviviscenze dell’antico dualismo orientale si hanno nelle dottrine dei bogomili, dei catari, degli albigesi e di tutti i movimenti millenaristici che infiammano periodicamente sia l’Alto che il Basso Medioevo, anche se una derivazione diretta dallo gnosticismo non è facilmente dimostrabile. È certo, invece, è che lungo tutto questo periodo prosegue, soprattutto nelle aree a dominazione islamica, dove il respiro lasciato ai culti e alle sette alternative è maggiore, il processo di contaminazione tra elementi dello gnosticismo, del manicheismo, del neoplatonismo, delle dottrine ermetiche e degli studi cabalistici. Il filtro della filosofia araba, nella quale in larga parte questo processo va a confluire, allarga ancora maggiormente la sfera delle influenze, che attinge anche alle dottrine indiane o alla tradizione persiana.
I frutti di queste ibridazioni arrivano in occidente dapprima timidamente, facendo il giro per la penisola iberica, poi in maniera decisa e massiccia nel periodo umanistico, accompagnandosi alla diaspora degli eruditi bizantini prima a quella degli ebrei sefarditi dopo. Il tramite principale attraverso il quale questo singolare sincretismo si tramanda durante il medioevo e si diffonde poi in età rinascimentale è quello della letteratura alchimistica e astrologica, che conosce una rigogliosa fioritura nella Spagna islamica e alla quale attingono senza troppi pregiudizi gli studiosi cristiani più aperti, da Pietro Lullo ad Alberto Magno, fino a Ruggero Bacone. Concetti come quello dell’uomo microcosmo o simboli di perfezione gnostica come l’androgino ricorrono in piena età medioevale in testi che si spingono al limite dell’ortodossia, e non di rado vanno oltre.
La versione del qabbalismo che si diffonde in occidente è invece in larga parte autoctona, nel senso che viene codificata nella Francia meridionale attorno al XII secolo. In essa rimane centrale la ricerca dei significati criptici del testo sacro, attraverso una complessa manipolazione dell’alfabeto ebraico, ma assumono una sempre maggiore importanza gli elementi di derivazione magico-alchemica, cioè quelli pertinenti la dimensione concretamente operativa dello studio cabalistico. In questa veste viene appresa da Pico della Mirandola, il quale peraltro è attento soprattutto alle implicazioni matematico-combinatorie, che la introduce nei circoli neoplatonici fiorentini e la integra, in forma cristianizzata, con l’ermetismo di Marsilio Ficino. Nella sua diffusione italiana la qabbalah avrà un’influenza notevole, nel senso che orienterà il neoplatonismo in senso religioso, ma più determinante ancora sarà per il rinnovamento della cultura religiosa in Germania, dove i testi di divulgazione cabalistica di Johann Reuchlin aprono alla fine del ‘400 la strada ad una rilettura filologica della Bibbia, e in prospettiva alla Riforma. Per quanto concerne la dimensione magico-alchemica, invece, quella privilegiata da personaggi come Cornelio Agrippa o Paracelso, essa darà una forte spinta alla concezione dell’uomo come mago, come cioè capace di penetrare i segreti più remoti della natura e di manipolare e trasmutare la materia: e in questo senso preluderà all’avvento della concezione scientifica.
Rapporto con l’antichità, impegno civile e ricchezza nel pensiero umanistico
Il passaggio del testimone tra le due concezioni del mondo che ho illustrato ha luogo definitivamente con l’Umanesimo. Lungo tutto il Medioevo, come ho già detto, esse in qualche modo convivono, perché in fondo il patrimonio della conoscenza e del sapere è per i cristiani un lascito di tempi passati, delle scritture testamentarie ma anche dei grandi filosofi pagani, e perché la stragrande maggioranza della popolazione, quella che ignora i classici ma abita le campagne, continua a regolarsi sui ritmi della natura. Comincia a farsi strada, anche abbastanza precocemente, l’idea che questo lascito possa essere rimpinguato con nuove conoscenze (la metafora dei nani sulle spalle dei giganti): ma di fatto poi queste conoscenze nuove non ci sono, o non risultano significative e determinanti. È solo a partire dal quindicesimo secolo che la situazione cambia. Si afferma un nuovo atteggiamento teoretico nei confronti del mondo, ma questo atteggiamento non è rivoluzionario, o almeno non è percepito come tale dai suoi fautori: semplicemente, porta alle estreme conseguenze il dualismo uomo-natura inaugurato dalla Bibbia.
Spesso si tende a cogliere come carattere fondamentale dell’Umanesimo la laicizzazione del sapere. Ciò è vero se per laicizzazione si intende lo sganciamento dalla dottrina, dall’autorità indiscussa della chiesa. Ma non lo è se si intende invece un abbandono della dimensione religiosa. Anzi, l’umanesimo è profondamente intriso di religiosità, e nasce proprio da un’esigenza profondamente religiosa, quella della “restauratio” di un modello di vita e di pensiero autenticamente cristiano. Nasce in reazione alla crisi di credibilità attraversata dal papato con le vicende avignonesi e con lo scandalo degli scismi, e interpreta in maniera nuova quella esigenza di purificazione dei costumi, primi tra tutti quelli ecclesiastici, che aveva costituito l’istanza prima di tutti i movimenti ereticali, e che doveva fungere da premessa e da impulso acceleratore alla riconciliazione con Dio. La interpreta in maniera nuova perché avverte l’esigenza, di fronte alla palude nominalistica in cui era andata ad impantanarsi la scolastica medioevale, di rivedere e ripristinare anche i fondamenti filosofici del Cristianesimo. Gli elementi di novità che intervengono ad ampliare gli orizzonti dell’umanesimo, primo tra tutti la rivalutazione della cultura e del sentire classico, non contraddicono affatto la dominante preoccupazione per la salvezza. L’aspirazione di fondo, soprattutto di quella prima generazione umanistica che pure si caratterizza per l’attenzione rivolta all’operato civile, rimane quella medievale di conciliare fede e ragione, religione e filosofia. Se si escludono poche figure e circoli particolari (i pomponiani, Pietro Pomponazzi e qualche altro), il pensiero umanistico non deborda in genere oltre i confini dell’ortodossia. Persino gli spiriti più originali e spregiudicati si muovono all’interno di una cultura i cui connotati fondamentali sono metafisico-religiosi. Lo stesso Lorenzo Valla, che approda ad un moderno epicureismo ottimistico e da queste posizioni si oppone alle costrizioni della morale ascetica, oltre a criticare coraggiosamente le falsificazioni storiche prodotte dalla chiesa, si esprime così: “È nella fede che troviamo saldezza, e non nella conoscenza puramente possibile che ci viene dalla ragione. Contribuisce forse il sapere a rinsaldare la fede?”
Gli umanisti, anche coloro che fanno ricorso al pensiero di Platone per un rinnovamento dell’indirizzo speculativo, continuano a pensare all’interno dello schema medievale di un universo possibile di unità, nel quale è reperibile una soluzione unitaria alle contraddizioni ed ai contrasti che si sperimentano. Questa visione in fondo privilegia un’attitudine contemplativa, un recupero sempre più letterale dei significato classico della filosofia come “conoscenza pura”.
Tuttavia, l’umanesimo ha in gestazione la grande svolta spirituale cinquecentesca, nonché il rivoluzionamento gnoseologico che sta alle origini del pensiero moderno. La demolizione degli schemi antichi è lenta e graduale, ed anche dolorosa. Le auctoritates cui l’umanesimo deve sottrarsi, prima di volgersi a nuovi indirizzi conoscitivi ed operativi, sono molteplici, e nel conto vanno messe anche quelle che lo stesso pensiero umanistico di volta involta si impone. D’altro canto la critica all’impostazione gnoseologica della scolastica non concerne il presupposto metafisico, non ne investe gli obiettivi, ma la metodologia, e all’interno di questa l’uso scorretto delle categorie della rappresentazione. Essa passa pertanto per una fase erudita di indagine filologica (con le corrispettive riscoperte di antichi testi e creazione di biblioteche), volta da un lato ad una esatta ricostruzione dell’universo spirituale degli antichi, dei padri della chiesa e del vangelo, che consenta di recuperarne appieno gli stimoli e gli insegnamenti, dall’altro ad evidenziare la confusione medievale tra simbolo e realtà, tra concetto e parola, che ha prodotto un inaridimento sia semantico che concettuale. “Creazioni verbali come ecceitas, quidditas, entitas, sulle quali l’erudizione umanistica ironizza in modo così acuto e calzante, denotano chiaramente l’indole del pensiero da cui sono prodotte: il predominio dei sostantivi astratti è caratteristico di una concezione della natura e dello spirito per cui tutte le proprietà e attività si tramutano in sostanze reali” (Cassirer). Il ripristino di un giusto rapporto tra le cose ed i segni appare imprescindibile, per evitare di ricadere nelle assurdità della dialettica scolastica, che si è ridotta a una vuota disquisizione nominalística. Esso sarà alla base dell’interesse crescente per il “concreto”, dell’indagine metodica condotta con spirito ed apparati critici adeguati in tutti i campi, ed avrà esiti veramente rivoluzionari quando dalla sfera culturale (grammatica, storia, archeologia, diritto) si allargherà a quella naturale. Gli studi filologici operano però anche al di là della strumentalità critica immediata. In primo luogo inducono una consuetudine non inficiata da censure e da sospetti coi testi della classicità, e quindi con idealità etiche e morali di stampo diverso. Di qui l’incontro ed il recupero di attitudini gnoseologiche come lo scetticismo, lo stoicismo e persino l’epicureismo, che giocano un ruolo notevole nella ridefinizione del pensiero e nello spostamento del centro d’interesse, nonché del punto di vista, in direzione umana. A lungo termine, poi, la cura e l’assiduità filologica determinano un rapporto più spigliato, meno reverenziale coi padri dei pensiero: consentono di padroneggiarne le argomentazioni, e quindi di superarle allorché i grandi sistemi classici risulteranno troppo costringenti.
Il risultato più immediato, specie nell’esperienza italiana, è costituito dal recupero della dimensione “civile”. Esso si attua, come già abbiamo rilevato, all’interno di una concezione dell’esistere umano che privilegia i significati metafisici, e viene subordinato a fini che eccedono ogni realizzazione terrena. Tuttavia è sintomo di una disposizione più dinamica, di un attivismo che per il momento si convoglia e si esaurisce nell’ambito limitato delle relazioni umane, ma che in seguito informerà anche il rapporto più generale con la natura. Riletti fuori delle costrizioni e degli adattamenti teologici medievali, gli antichi appaiono soprattutto maestri di vita sociale. Essi propugnano un responsabile impegno per il buon funzionamento delle strutture civili; il loro insegnamento trova attento e consenziente un uditorio di studiosi che sono in buona parte anche uomini di governo, o comunque partecipi della vita politica. Ed è alla luce di questa condizione che vanno colte le implicazioni sociali del fenomeno umanistico.
La cultura umanistica nasce e si sviluppa in una cerchia aristocratica, al consolidamento della quale essa stessa concorre. È una nuova aristocrazia a produrre gli ideali della renovatio quattrocentesca: aristocrazia non più della spada o del nomen, ma del denaro, e del potere ad esso legato. Essa abbisogna di strumenti adeguati alle nuove necessità del dominio, di una preparazione specifica nell’arte del governare che consenta di accentuare le distanze nei confronti delle classi soggette. L’umanesimo del primo ‘400, quello ad esempio di Leonardo Bruni o di Lorenzo Valla, e con sfumature diverse e anticipatrici quello di Poggio Braccíolini o di Leon Battista Alberti, è coerentemente ed attivamente compreso di questa funzione. Non a caso, nel recupero della sapienza antica l’interesse più spiccato va agli ordinamenti giuridici, alle strutture amministrative, ai protagonisti dell’agone politico classico, Cicerone primo tra tutti, dei quali viene apprezzato lo spirito ma anche, e soprattutto, lo stile, vale a dire la capacità di utilizzare le armi “civili” della persuasione. In questo senso è facile comprendere come la retorica possa essere innalzata da Lorenzo Valla a scienza sovrana. “La retorica, che esige l’impegno dell’intera personalità dell’autore, che vuole influire sempre sull’uomo concreto e quindi presuppone l’esatta conoscenza psicologica della totalità di tutte le sue espressioni di vita, sta al di sopra dell’arida, schematica classificazione a cui la dialettica sottopone la materia che costituisce il sapere” (Cassirer).
Con la retorica e le proporzioni, l’antichità trasmette all’umanesimo anche l’ideale eroico. L’immagine dell’uomo grande, che si illustra con le proprie azioni (possono essere vittorie militari, mecenatismo, costruzione di opere d’arte, ardite elaborazioni di pensiero) si innalza al di sopra dei comuni mortali, raggiunge la gloria ed entra nella sfera del mito, è tipica del rinascimento. La gloria dà in un certo senso la divinità e l’immortalità qui su questa terra. Scrive Leon Battista Alberti: “Innalziamo grandi edifici per apparire grandi e potenti alla posterità”. L’umanista, ma anche il politico, il condottiero, l’artista ed funzionario rinascimentali percepiscono un desiderio di gloria, e la Fama, antica figura della classicità romana, torna di nuovo in auge.
Del resto, e come sempre, non è solo questione di astrazioni. La classe dei nuovi governanti si trova ad esercitare il potere in un contesto storico difficile, nel quale sopravvive la memoria di una consuetudine di attiva partigianeria maturata nell’età medievale, e più ancora quella dei fermenti popolari del tardo ‘300. Il tentativo di cristallizzare il quadro istituzionale e sociale non può fare riferimento alle vecchie strutture feudali e ai loro fondamenti teoretici. Di qui il recupero del diritto romano, che viene a sostituirsi gradualmente, come referente normativo ideale, a quello germanico, più consono ad una società militarizzata. A questa posizione di dominio va anche ascritto il carattere pedagogicamente elitario della cultura umanistica: essa rimane patrimonio di pochi, circola in cerchie ridottissime, eleva barriere (ad esempio linguistiche, con la reintroduzione del latino classico) contro ogni facile accessibilità.
Conseguentemente viene sviluppato anche il tema della ricchezza e del denaro. Umanisti raffinati come Poggio Bracciolini e Leon Battista Alberti ratificano la crescita delle fortune finanziarie come risultante di un’attitudine “naturale” dell’uomo.
“Tutto quello che si fa tra i mortali — dice Poggio nel De Avaricia – qualunque rischio si corra, mira a questo, a ricavarne oro e argento. il che non mi sembra menomamente degno di biasimo. Infatti il denaro è molto utile ai bisogni comuni e alla vita civile, ed Aristotele afferma che fu necessario adottarlo perché potessero aver luogo i commerci e gli scambi tra gli uomini. Se incrimini il desiderio che ne abbiamo, incrimini anche gli altri appetiti che la natura stessa ci ha dato: infatti, perché è meno lecito desiderare l’oro e l’argento che non le bevande e i cibi o le altre cose con cui ci manteniamo in vita?”. E conclude: “Ei continenti, gli stati, le province, i regni, che altro sono, se ben guardi se non una fucina di pubblica avarizia? la quale essendo esercitata per comune decisione trae la propria legalità dal pubblico consenso?”
Se le argomentazioni di Bracciolini hanno il tono polemico e paradossale del retore, e quindi lasciano trasparire una strumentalità persuasoria un po’ astratta, da esercitazione letteraria e di pensiero fine a se stessa, nell’Alberti il discorso si fa molto più concreto e aderente alla realtà socio-economica del tempo. Alberti intanto usa il volgare, sceglie quindi di rivolgersi non ad una cerchia ristretta di intellettuali, ma a tutta quella classe alto-borghese di cui si fa portavoce. Non si abbandona ad alcuna astratta teorizzazione né persegue intenti apologetici: dà per scontata l’assunzione della ricchezza a paradigma primario dei valori sociali, e fa riferimento ad un concetto monetizzato del lavoro. Le idealità che permeano i suoi tre Libri della Famiglia sono quelle più recenti della borghesia fiorentina, la quale, arricchitasi nei traffici mercantili e finanziari, si dedica con cura crescente ad amministrare e a difendere il capitale accumulato investendo ad esempio nelle proprietà terriere, alla ricerca non più dei grossi guadagni, ma della stabilità economica.
Alberti non rinnega lo spirito commerciale quale determinante per l’accumulo della ricchezza; ritiene anzi che la mercatura sia l’unica strada per far denaro. La giustificazione del guadagno è nella qualità di “servizio” attribuita all’operato del mercante. “In questo modo adunque vendi non la roba, ma la fatica tua: per la roba rimane a te commutato il danaio: per la fatica ricevi il soprapagato”. La fatica non è quella puramente inerente la transazione, ma piuttosto quella relativa ad una lunga ed accurata preparazione personale all’esercizio mercantile e all’organizzazione dello stesso. I patrimoni non sono offerti dalla fortuna: ad ogni accumulo è sotteso un preciso disegno, e sono necessari strumenti intellettuali e materiali da acquisirsi prima di tutto attraverso le “humanae litterae”. Come già affermava Leonardo Bruni, chi è in grado di darsi questa disciplina mentale è senz’altro in grado di farsi carico anche della cosa pubblica (e qui l’Alberti ha sott’occhio la rapida fortuna economica e politica dei Medici). Ma le condizioni politiche dell’epoca sembrano sconsigliare gli interessi civili e spingere ad una egoistica cura del proprio particolare; il buon andamento di questo non può d’altro canto che giovare al pubblico benessere.
Un’altra intuizione, sia pure appena accennata, ci fa cogliere lo spirito nuovo dell’epoca: è quella relativa alla duplice equazione valore=lavoro e valore=tempo, e quindi al guadagno implicito nella capacità di sfruttamento del tempo-lavoro altrui.
“Avere imperio sopra di alcuno credo sia non altro che fruttare l’opere sue” dice l’Albertí; e altrove: “[…] è perderanno tempo se quello quale può fare uno, ivi saranno infaccendati due o più; e se dove bisogna due o più, ivi sudi uno solo; e se a uno o più sarà data faccenda alla quale ci sia inutile o disadatto… A questo modo non si lasciono perdere tempo, comandisi a ciascuno cosa quale sappi e possa fare”.
L’assunzione di un tempo-valore diviene ancor più significativa se assommata ad altre modificazioni dell’abito mentale caratteristiche dell’epoca, puntualmente fatte proprie dall’Alberti, come ad esempio quella relativa ai vantaggi di una contabilità regolare e minuziosa: “Il mercante deve sempre avere le mani tinte d’inchiostro… scrivere ogni cosa, ogni contratto, ogni entrata ed uscita fuori di bottega […]”. O ancora, la distinzione tra la semplice attività “meccanica” manuale e le attività imprenditoriali: distinzione che si fonda non sull’uso o meno del corpo, ma sulla destinazione dei guadagni connessi al lavoro: “Poi in quello ove s’adopera il corpo, perché ogni opera del corpo si può quasi chiamare servitù, non è servitù a mio credere altro che stare sotto imperio altrui”.
L’uomo, la natura, la libertà nella ripresa neoplatonica
Una rottura più decisa degli schemi tradizionali di interpretazione della realtà si delinea però solo nella seconda metà del XV secolo, paradossalmente in concomitanza col crescente disimpegno civile degli umanisti italiani e col loro ripiegamento su se stessi come soggetti ed oggetti del conoscere. L’avvento della signoria non consente più di riconoscere la dignità dell’uomo nella sua partecipazione attiva alla vita pubblica, come propugnavano un Bracciolini e un Manetti. D’altro canto, questa sfera d’interesse civile costituiva l’unica accettabile esplicazione terrena per un ceto intellettuale alieno nella quasi totalità da rapporti o contaminazioni con la prassi. Malgrado le anticipazioni del Valla, che riconosceva alla natura un ruolo positivo ai fini dell’umana felicità, la prima generazione umanistica si era trovata a disagio nei confronti di un ambito non partecipe della razionalità attiva e cosciente. Nelle realizzazioni politiche, culturali ed economiche non era difficile cogliere il segno delle potenzialità dell’uomo, della sua libertà e creatività; ma di fronte ad una natura tutt’altro che docile ed asservita la sensazione era ben diversa. Si preferiva quindi rimuovere il problema, cercando rifugio nel disdegno per la bruta materialità. Ora, venuta meno la dialettica sociale, l’ingegno umano non riconosce nella sfera sublunare campi d’azione in cui dispiegarsi ed approfondisce quindi il proprio interesse metafisico, alla ricerca di nuovi indirizzi e fondamenta che sostituiscano quelli ormai screditati della scolastica.
Il carattere di questo approccio è decisamente antiascetico: dopo aver esaltato il vigore creativo e la capacità di perfezionamento dell’uomo non si è più disposti a coglierne la miseria terrena come attributo determinante. La riscoperta e la traduzione integrale di Platone, rese possibili dall’afflusso in Italia intorno alla metà del secolo degli studiosi greci, favoriscono il rilancio dell’idealismo e soprattutto una sua interpretazione più genuina. Nel medioevo al platonismo, o meglio al neoplatonismo filtrato attraverso lo pseudo-Dionigi ed Agostino, avevano fatto capo le istanze mistiche ed ascetiche, il ripudio della condizione umana, l’anelito al suo superamento. Ora invece dalla rilettura filologica di Platone scaturisce la visione dell’uomo come espressione non mortificata dello spirito, immagine di Dio, partecipe a pieno titolo del grande disegno divino. In un certo senso il processo è inverso, poiché la ripresa dell’idealismo platonico anziché allontanare dal mondo dà nuove energie per interessarsene, sia pure in chiave eminentemente filosofica ed estetica. Ma in un altro senso l’effetto del platonismo sul pensiero quattrocentesco è simile a quello avuto sul pensiero medievale: rompe schemi stabiliti, ripudia la formalità, scuote i funzionamenti meccanici, rilancia un’immagine dinamica dell’uomo e del suo agire. Secondo l’elaborazione neoplatonica quattrocentesca, nell’insieme organico governato dal rapporto d’amore tra la divinità e il mondo la duplice essenza umana costituisce il livello massimo di mediazione del rapporto stesso. Per riconoscere la dignità dell’uomo non è più necessario isolare ed enfatizzare i momenti del suo puro operato razionale, libero dall’impaccio del confronto con la materialità. Non si tratta più quindi di una dignità rosicchiata allo schiacciante determiniamo del sistema, commisurata ai limiti dello status umano, ma di un valore assoluto, affermato nel rapporto con l’intero universo.
La centralità dell’uomo teorizzata dal neoplatonismo ha però pochi riferimenti al concreto quotidiano esistere nella natura: è piuttosto ipotizzata in relazione ad un’immagine ideale, armonica ed eticamente equilibrata, della comunità umana, ad un mondo non corrotto dalla servitù dei bisogno, della sopravvivenza, della malattia, né da invidie o inimicizie civili. I neoplatonici privilegiano la priorità delle idee, ove tutto risponde ad un ordine razionale. Il mondo è il carcere, la prigione dove l’ideale si trova racchiuso e il compito dell’uomo è favorirne la liberazione, il dramma dell’esistenza e della storia è in questo processo di disvelamento dell’ideale nascosto nella realtà storica corrente. Questo disvelamento è difficile e faticoso, è percepibile tramite simbologie complesse, richiede comunque un alto grado di astrazione. Ne risultano cerchie intellettuali esclusive e feconde di nobili spiriti, come quella fiorentina raccolta attorno a Marsilio Ficino, dove l’ingegno attinge a vette altissime ma, tranne in pochissimi casi, si nega alla percezione degli indizi e dei fermenti di novità che vengono dal secolo.
Lo sviluppo dell’interesse per le discipline magiche, alchemiche ed astrologiche rimane subordinato nel pensiero umanistico alla concezione di un’armonia, di un ritmo segreto percorrente l’intero universo, col quale l’agire umano deve entrare in sintonia. L’ipotesi di fondo, così come i caratteri e gli scopi della pratica magica, non differiscono da quelli riscontrabili già in Ruggero Bacone. Ciò che cambia, invece, e le assicura un’accettazione ed una considerazione del tutto diversa, è il clima filosofico-teologico. “Tra la filosofia medioevale, che è una teologia dell’ordine stabile, cristallizzata ad un certo momento nell’aristotelismo, e la magia, non poteva esserci accordo. La teologia preferisce la razionalità composta e sicura, che annulla storia e libertà, alla libertà che rimette di continuo in gioco le strutture dell’universo. In perfetta coerenza con questa posizione della teologia, magia e astrologia furono nel medioevo il dominio del demoniaco, e si mossero sotto il limite dell’ordine razionale” (Garin). Ma nel secondo ‘400 la sovrana uniformità che regnava nelle sfere aristoteliche è ormai infranta. La strutturazione gerarchica dell’universo, rigida ed immutabile, già entrata in crisi nel suo ricalco civile con la decadenza degli istituti feudali, appare sempre meno adeguata ad appagare la rivendicazione dell’uomo ad un ruolo attivo e responsabile. S’impone una concezione più aperta, dinamica, che offra spazi più ampi all’azione conoscitiva ed operativa.
Il neoplatonismo risponde a questa esigenza ipotizzando un insieme organico, unitario, fitto di relazioni, di legami, di comunicazioni più o meno sotterranee, che ne costituiscono l’elemento vivificante, e delle quali l’uomo non soltanto è partecipe, ma rispecchia minutamente la trama. Anche negli ambienti intellettuali e filosofici salgono quindi in onore le arti che perseguono il riconoscimento di queste corrispondenze occulte. L’assunzione nella sfera ufficiale del sapere comporta naturalmente un processo di valorizzazione scientifica. Innanzi tutto si opera una distinzione tra gli impieghi positivi della magia e le deviazioni negromantiche (magia cerimoniale) di cui è stata fatta oggetto nel medioevo. Gli scritti di Marsilio Ficino (De Vita, Apologia) intendono appunto riscattare le arti magiche da una secolare condanna, fondata sulla loro pretesa rispondenza ad un disegno diabolico. Si insiste pertanto sul concetto di “operazioni naturali”, in contrapposizione all’immagine di maligna artificiosità che nel medioevo le aveva bollate. Dal canto suo, la riabilitazione di queste discipline presuppone un’ottica profondamente umana nella quale proiettare i fenomeni naturali e cosmologici: il senso della realtà viene colto nel palpito di simpatie, negli effetti di attrazioni e repulsioni. Le varie parti del creato appaiono corrispondenti ed interagenti allo stesso modo delle membra umane: è un enorme corpo vivente, una natura passionale, emotiva, quella cui l’interpretazione magico-astrologica fa riferimento. Un macrocosmo che riflette analogicamente i criteri comportamentali dell’uomo. Di qui la possibilità di “vincere le stelle”, nel senso di prevederne le reazioni e di attutirne e sfruttarne gli effetti.
Tuttavia, anche se affondano il loro sguardo nella natura, le discipline magiche degli umanisti non presuppongono ancora un atteggiamento scientifico di separazione dalla natura. Esse riflettono un’attitudine eminentemente partecipativa nei confronti del sistema universale. La rivendicazione di un margine operativo all’uomo ha in questo i suoi limiti: l’azione magica “supplisce”, laddove non si sia realizzato per un qualche motivo il naturale equilibrio tra gli elementi.
L’uomo-microcosmo dei neoplatonici quindi, a prescindere dalle intuizioni e dai contenuti in altro senso che il concetto presenta, si muove ancora all’interno di un a-priori, vive e sperimenta la forza di una oggettività. È sì specchio della totalità, in grado di cogliere questa sua specularità e di utilizzarla come propedeutica ad uno sforzo gnoseologico rivolto a sfere superiori, ma rimane un interprete, mediatore cosciente ma non arbitro del drammatico rapporto tra spirito e materia, o del flusso vitale indistinto che percorre il cosmo intero.
Giovanni Pico della Mirandola (1463-94) ha una profonda coscienza della dignità che alla condizione umana discende dalla visione umanistica: ma, soprattutto, egli sente in maniera nuova e feconda la responsabilità operativa inerente questo status, e ciò lo distingue dagli altri pensatori della cerchia neoplatonica, facendone il prototipo dell’atteggiamento speculativo rinascimentale. La sua formazione platonica, maturata alla scuola del Ficino, si combina alla consuetudine con ambienti averroisti, nonché allo studio della Qabbalah e delle scienze ebraiche. Egli integra pertanto la visione organicistica dell’universo da un lato con una particolare sensibilità per le valenze magiche della natura, dall’altro con un rigore scientifico e sistematico che ai neoplatonici generalmente difettava. Non limitandosi ad accettare passivamente i significati innovatori del platonismo, vuole dedurne un’etica ed un indirizzo rivoluzionario all’indagine. Nelle Conclusiones afferma che i sistemi filosofici di Platone e l’insegnamento di Pitagora sono perfettamente compatibili con la fede cristiana, che attraverso i numeri si può procedere all’indagine e alla comprensione di ogni realtà conoscibile, e che le conclusioni matematiche confermano quelle cabalistiche. Il suo interesse per la Qabbalah è stimolato dai valori numerici attribuiti alle lettere dell’alfabeto ebraico, e quindi dall’approccio numerologico al mondo che lo studio cabalistico incoraggia. Quando si parte dal presupposto che il mondo sia stato creato attraverso il verbo, è naturale approdare all’idea che l’alfabeto ebraico contenga il mondo: tanto più se questo è confermato dal pitagorismo platonico divulgato da Nicola Cusano e dalla tradizione ermetica.
Per Pico la terra è la “casa mondana della divinità”, nella quale l’uomo è stato posto “perché alcuno ci fosse il quale di tanta opera i tendesse la ragione, ne amasse la bellezza, ne ammirasse la grandiosità”. Affinché questa intelligenza e questo amore siano possibili, l’uomo deve partecipare intimamente di ogni aspetto del creato: “Statuì alfine l’ottimo artefice che a quello cui non poteva essere dato nulla di proprio, fosse comune tutto ciò che alle singole creature era stato dato in particolare”. Questi sono i temi propri della visione neoplatonica. Ma in Pico c’è qualcosa di più. “T’ho collocato nel mezzo del mondo perché d’intorno più comodamente tu vegga quello che esiste nel creato. Non ti facemmo né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché tu stesso, quasi libero e sovrano artefice del tuo destino, ti scolpissi in quella forma che avrai preferito. Potrai degenerare in quelle inferiori, che sono brute; potrai, per decisione dell’animo tuo, rigenerarti nelle superiori che sono divine” (De celsitudine et dignitate hominis). È il superamento della condizione di spettatore e di specchio del creato in nome di un attributo che trova qui la sua prima, vera. realizzazione: il libero arbitrio.
Altri (Valla, ad esempio) avevano già posto tale prerogativa a fondamento della dignità umana, senza però desumerne aperture operative nei confronti della sfera naturale. Pico ritiene invece che questa libertà abbia un senso soltanto quando si esprime nello sforzo pratico di intervento sul mondo: essa non può andare disgiunta dalla coscienza che il rapporto tra gli uomini e le cose è mutevole, e che sul mutamento incide proprio la volontà umana. Per questo egli dà credito alla magia, sottolineandone la funzione conoscitiva. L’arte magica “non tanto fa miracoli, quanto segue con assiduità la natura che ne compie”. E per la stessa ragione avversa invece l’astrologia divinatrice, fondata sulla pretesa dipendenza dei fatti umani dagli influssi celesti, e quindi sulla negazione di ogni effettiva libertà decisionale per l’uomo. Da essa Pico distingue l’astrologia matematica, che si limita alla misurazione dei movimenti e delle masse dei corpi celesti, e a ricavarne leggi scientifiche. “Al posto dell’arbitraria desunzione analogica, per cui una condizione che si riscontra in una parte della realtà viene trasferita immediatamente su altri remoti elementi dell’essere, ecco che ora subentra l’esigenza di comprendere la sequenza dell’accadere secondo il suo evidente e continuo nesso causale” (Cassirer). Questa concezione di una causalità che presiede ai moti naturali, per cui ogni fatto è spiegabile nella sua essenza singola, unita al senso della padronanza del proprio destino da parte dell’uomo, è il presupposto del nuovo modello e ideale di conoscenza che trionferà nel Rinascimento. Pico ne anticipa i contenuti teorici: gli accadimenti politici, le scoperte, le invenzioni, i mutamenti economici e i rivolgimenti sociali offriranno il campo pratico di ricerca e di applicazione.
Artisti, scienziati e pensatori: l’intreccio dei saperi nell’estetica rinascimentale
Credo che gli esempi più significativi e tangibili del processo di trasformazione della mentalità che ho cercato sin qui di delineare possano, come sempre, essere tratti dai linguaggi dell’arte. Sia in Italia che in Germania si sviluppano nella prima metà del ‘400 rapporti nuovi tra le arti figurative e la matematica, e uno dei frutti di questo avvicinamento è l’uso della prospettiva per rappresentare sul piano oggetti disposti in uno spazio tridimensionale. Uno dei primi a dedicare particolare attenzione a questo campo d’indagine è Filippo Brunelleschi, ma la prima formulazione di problemi e di soluzioni prospettiche la si trova nel De Pictura (1435) di Leon Battista Alberti. L’Alberti suggerisce un metodo per rappresentare sul piano verticale (quello del dipinto) dei quadrati disposti su un piano orizzontale (quello del pavimento), si limita cioè a far ruotare il piano, conservando l’effetto visivo attraverso la trasformazione dei quadrati in trapezi. Ma l’operazione comporta l’adozione di un punto di veduta esterno rispetto al dipinto (ovvero all’oggetto da rappresentare) e legato invece allo spazio nel quale la rappresentazione avviene col tramite di una linea ideale, nonché di un punto di fuga sul quale appunto converge la visione e di una linea di fuga che è la linea dell’orizzonte: ci sono già tutti gli elementi essenziali per modificare la visione e la rappresentazione del mondo. Quarant’anni dopo Piero della Francesca fa un ulteriore passo avanti, affrontando nel De perspectiva pingendi (1478) il problema più complesso di rappresentare sul piano oggetti tridimensionali così come essi vengono percepiti da un dato punto di vista. Ma al di là delle brillanti soluzioni teoriche sono i risultati pratici della sua pittura ad intrigarci, perché i volumi da lui collocati nello spazio ideale della prospettiva sono corpi geometrizzati, figure solide ideali (i cinque solidi platonici: il cubo, l’ottaedro e il tetraedro regolare, l’icosaedro e il pentagonododecaedro, dei quali tratta nei De quinque corporibus regolaribus), rispondenti ad una “divina proportione” nella quale non è difficile rintracciare l’idea platonica. (Coincidenza significativa: Piero muore il 12 ottobre 1492, lo stesso giorno in cui Colombo sbarca in America. Nel momento in cui la scoperta di un nuovo continente sposta in avanti la linea dell’orizzonte e induce una inedita profondità nella visione del mondo, la rivoluzione prospettica è già stata compiuta: l’America viene ora ad avvalorarla) Lo stesso Leonardo scriverà in seguito un’opera non pervenutaci sulla prospettiva, il cui approccio doveva essere meno idealistico, a giudicare dall’applicazione nell’opera pittorica, ma non meno platonicamente devoto alla matematica, a giudicare da quanto premette al Trattato della pittura: “Non mi legga chi non è matematico, nelli mia principi”.
Il fatto che sia l’Alberti ad aprire la strada verso la visione prospettica non può meravigliare. Abbiamo già visto come sia lo stesso multiforme artista-economista-filosofo a sottolineare e a matematizzare il valore del tempo: e la concezione del tempo è strettamente connessa al problema della prospettiva. L’idea che noi occidentali abbiamo del tempo dipende, oltre che dall’assunzione a modello percettivo del ritmo biologico, della linearità della vita individuale, dal modo di vedere lo spazio. “L’età moderna inaugura l’immagine dello spazio prospettico, che rompe con lo spazio piano, qualitativamente differenziato, che caratterizzava la cultura classica. Inaugura cioè la “prospettiva” come continuum infinito, omogeneo, matematico, che riceve rappresentazione grazie alla convergenza in un punto. Si tratta di una convergenza ideale, anche se realmente identificata nell’immagine dalle linee di fuga. L’impiego della tecnica prospettica contiene pertanto un’implicazione decisiva: l’idea di una integrazione della realtà oggettiva – di una vera e propria costruzione dell’oggettività – a partire da un criterio di selettività coordinato al punto di vista.” (Marramao) In altre parole, la costruzione di una oggettività – di una natura – nuova comporta, oltre ad un nuovo metodo di conoscenza (mettersi in un punto preciso fuori dal quadro – il punto di vista), l’adozione di criteri di scelta delle direzioni da percorrere e di progetti di realizzazione, quantificabili questi ultimi in tempi, costi e risultati, in rapporto sempre più stretto gli uni con gli altri. Queste direzioni, i progetti, le prospettive e le aspettative sono altrettanti atti di volontà di un soggetto che si è separato dall’oggetto della sua conoscenza e della sua prassi, negando implicitamente quell’organicità indifferenziata di cui egli stesso era parte, e che lo va riordinando nella profondità di uno spazio “aperto” secondo sequenze geometriche e matematiche. All’interno di questo spazio creato dalla prospettiva l’oggetto non risulta più statico, ma diventa passibile di spostamento. Alla fissità della statica subentra il primato della dinamica; lo studio e la riproduzione dei meccanismi del movimento gettano le fondamenta della moderna meccanica. Ma l’unico modo nel quale si possa attraversare lo spazio è il tempo, e lo spazio prospettico matematizzato ha quindi riscontro in una prospettiva temporale nella quale l’uomo comincia ad iscrivere il proprio agire, e che sancisce in fondo la vittoria definitiva dell’idea biblico-cristiana della linearità del tempo, introducendo in più quella della fuga in avanti.
Tutt’altro che pago degli studi teorici sulla prospettiva, prima del volgere del XV secolo Leonardo sale sulla cima del Mon Boso, nel gruppo del Rosa, per godere di una prospettiva reale. Sceglie un punto di vista che gli consenta di verificare quanto l’altitudine allarghi il campo visivo e quali effetti cromatici produca l’aria rarefatta sulla percezione di paesaggi lontani, nonché di studiare il sistema delle nervature orografiche e idrografiche e di raffrontarlo a quello del corpo umano. Sotto il profilo alpinistico non è una grande ascensione, ma è l’indizio di un rapporto decisamente mutato con la montagna, confermato dagli innumerevoli studi di vedute montane lasciati dall’artista e dal progressivo prevalere nelle sue opere più tarde dello sfondo paesaggistico sul soggetto. Leonardo non è un pioniere, almeno per quanto concerne la scelta di godere di un punto di vista elevato: è stato preceduto a metà del Trecento da Petrarca, che con la lettera del 1336 sull’ascensione al Monte Ventoso inaugura la letteratura dell’alpinismo. Anche la salita al Ventoso non costituisce naturalmente un exploit inedito: è lo spirito col quale viene compiuta, che senz’altro da sempre aveva motivato innumerevoli altre ascensioni ma che per la prima volta è apertamente dichiarato, a rappresentare la novità. “Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione.” Subito dopo, quasi a giustificare un gesto tanto irrazionale, il poeta tira in ballo le suggestioni derivanti da Tito Livio e da Pomponio Mela; ma la verità è già sfuggita alla sua penna, ed è la stessa della celebre risposta di George Mallory a chi gli chiedeva perché mai volesse scalare l’Everest: “Perché è lì!”. Tra Petrarca e Leonardo, che motiva la sua salita con gli interessi artistici e scientifici, si consuma l’esorcizzazione delle vette, con un percorso che esemplifica perfettamente, in tutte le sue fasi, il divenire di un nuovo atteggiamento nei confronti della natura.
Nelle cosmologie pre-cristiane le montagne avevano goduto di una considerazione religiosa particolare; erano intese come vere e proprie divinità (civiltà mesopotamiche e dell’estremo oriente) o come dimora delle divinità (civiltà mediterranee, taoismo, ecc….), nell’uno e nell’altro caso accreditate comunque di una intrinseca sacralità. Nella tradizione giudaica, cristiana e mussulmana esse hanno perduta invece la loro connotazione sacra, a dispetto delle epifanie e delle trasfigurazioni di cui sono teatro, per ridursi a possibili luoghi di santità, ma anche di presenza demoniaca. Non a caso l’unico punto dal quale Gesù gode di una prospettiva totale sui regni del mondo è la montagna sulla quale viene trasportato dal demonio tentatore. Il raffronto tra le diverse iconografie è particolarmente rivelatore; mentre la pittura orientale minimizza la presenza umana, sacrificandola al cospetto delle imponenti masse montuose, quella occidentale, dai mosaici bizantini fino a Giotto ed oltre, presenta figure di santi e di redentori che giganteggiano rispetto a rilievi sproporzionatamente modesti. Persino il Purgatorio dantesco non è in sé luogo “sacro”, malgrado ospiti sulla vetta il paradiso terrestre: è un luogo di espiazione e di penitenza, al quale si può in fondo accedere con le sole forze umane, con la sola ragione. Il sacro, la trascendenza sono altrove, sono preclusi alla presenza umana e possono essere esperiti soltanto con il volo mistico. E comunque le immagini che più frequentemente vengono associate alle altitudini selvagge, nei miti e nelle superstizioni della cultura popolare come nelle dotte compilazioni geografiche, sono quelle di draghi e mostri e uomini selvatici e demoni, spesso trasposizioni in chiave cristiana di antiche leggende pagane.
L’Umanesimo, a partire proprio da Petrarca, induce una percezione del paesaggio alpino decisamente diversa. Sulla vetta del Ventoso l’aretino è combattuto tra l’abbandono all’ebbrezza dei sensi, al godimento visivo della magnificenza del paesaggio e alla presunzione intellettuale indotta della conoscenza dei luoghi da un nuovo punto di vista (quello dall’alto, quello – quasi – divino), e il richiamo alla introspezione e alla modestia. Risolve il conflitto da par suo: proprio da quell’ascensione, non solo per la possibilità di ammirare di lassù, in una prospettiva più ampia, la grandezza della creazione divina, ma per la coscienza di uno sforzo prodotto “per accostare solo di un poco il mio corpo al cielo”, riceverà lo stimolo decisivo a volgersi totalmente a Dio. E con questo la montagna, e la voglia di salirla, sono liberate dai loro demoni, addomesticate e riammesse nell’orizzonte della teoria e della prassi salvifiche.
Attorno alla metà del ‘400 il recupero delle dottrine cosmologiche platoniche da un lato, per le quali tutta la natura si divinizza e, di converso, il divino tende a naturalizzarsi, e la riscoperta dei testi classici di storia naturale (Plinio in particolare) dall’altro, portano a compimento questa ricollocazione dell’uomo nei confronti del mondo della natura. La contemplazione del creato è un modo per venerare e celebrare il creatore, tanto più efficace quanto più sistematica e accurata risulta l’indagine, che deve volgersi a tutte le varietà e le forme della terra, ivi comprese, e più che mai, quelle meno esplorate e conosciute. A fine secolo, nello stesso anno dell’approdo di Colombo in America e quasi contemporaneamente alla salita di Leonardo, si registra la prima performance esplicitamente alpinistica, la conquista del Mont Inaccessible (poi ribattezzato Aiguille), violato per pura volontà di sfida. Antoine de Ville, il salitore, racconterà poi di aver trovato sulla vetta una sorta di paradiso terrestre (come Colombo, d’altronde), e tra l’altro non potrà essere smentito da nessuno per tre secoli e mezzo (la prima ripetizione della salita sarà effettuata solo a metà ottocento); ma il significato emblematico di questa ascensione rimane in effetti quello di una definitiva de-sacralizzazione del mondo, di una profanazione che va ad aprire al dominio dell’uomo anche i luoghi più remoti, inaccessibili e privi di un visibile interesse economico.
Un altro mezzo secolo e Conrad van Gessner, un naturalista svizzero, salirà il monte Pilatus con lo scopo dichiarato di sfatare un’antica leggenda di fantasmi, sfidando tra l’altro un editto trecentesco che ne vietava l’accesso, pena la morte. Anche lui fa un resoconto entusiastico dei luoghi, ma non parla più di Eden; il paesaggio non è più ombra di idee o di verità eterne, la sua descrizione non ha più alcun tratto del “riconoscimento” mentale, platonico o cristiano che sia: è una fedele rappresentazione della natura, disincantata, indagata e conosciuta con il solo ausilio dei sensi.
Tra Petrarca e Van Gessner ci sono per l’appunto le sanguigne e le riflessioni di Leonardo, riassuntive di tutte le contraddizioni, gli stimoli, le intuizioni per i quali passa la nuova disposizione nei confronti del mondo naturale. L’interesse di Leonardo per la morfologia della terra e per la sua natura geologica, quello che lo spinge a ripetute ascensioni per contemplare dall’alto la mappa del creato, è legato alla convinzione che nelle montagne, nelle rocce sia racchiuso il segreto dell’antichità del mondo, e che nelle loro viscere si compia nascostamente quell’eterna dialettica cosmica che lega attraverso l’acqua la terra e il cielo. L’artista-scienziato ritiene che la terra sia un grande vivente (“Nessuna cosa nasce in loco, dove non vi sia vita sensitiva, vegetativa e razionale; […] nascono l’erbe sopra i prati e le foglie sopra li alberi, e ogni anno in gran parte si rinnovano; adunque potremo dire, la terra avere anima vegetativa, e che la sua carne sia la terra, li sua ossi siano li ordini delle collegazioni dei sassi, di che si compongono le montagne, il suo tenerume sono li tufi, il suo sangue sono le vene delle acque….”) e cresca, come un qualsivoglia altro organismo, attraverso il sedimentarsi di ciò stesso che essa produce: per cui studiare le stratificazioni della terra significa penetrarne la storia, e la verticalità delle montagne è più che una metafora della verticalità e della profondità del tempo. Ne nascono intuizioni frammentarie ma geniali, come quelle relative all’origine dei fossili e, conseguentemente, alla tettonica e alle stratificazioni delle falde, che appaiono sconvolgenti per la portata anticipatrice (verranno riprese, in chiave razionalistica, solo dall’Illuminismo) ma sono comunque sempre il frutto del nuovo modo di interpretare i fenomeni dell’universo e le metamorfosi della natura che andava facendosi strada nella mentalità tardo-umanistica. Nel caso di Leonardo siamo naturalmente di fronte ad un originale sincretismo filosofico, ad un pensiero naturalistico nel quale si mescolano elementi del neoplatonismo con interpretazioni molto personali della fisica aristotelica e con la suggestione di origine stoica delle rationes seminales, le entità vitali che presiedono alle metamorfosi del mondo (suggestione a suo tempo diffusa nell’ambiente fiorentino dall’immancabile Leon Battista Alberti). Ritorna, in altra chiave, e viene anche concretamente trasposto ed esemplificato nell’opera pittorica, nel convergere e attivamente coesistere delle dimensioni del tempo e dello spazio, il tema di un mondo dissacrato proprio dalla sua divinizzazione, sottratto a Dio e aperto alla conoscenza dell’uomo proprio dal rapporto simpatetico che quest’ultimo ritiene di percepire e vuole restaurare con la natura.
Gli apporti del Rinascimento: l’irruzione della pratica
Mentre gli umanisti dibattono i grandi sistemi ontologici, cercando ora di conciliarli, ora di superarli, quello che sarà il volto nuovo del sapere rinascimentale va lentamente definendosi nelle officine degli artigiani, nelle stamperie, nelle botteghe dei cerusici, nei laboratori degli alchimisti, nonché sulle navi che traversano gli oceani e negli uffici di contabilità mercantile e finanziaria. Le istanze e gli indirizzi concretamente innovatori, destinati a promuovere quella che sarà chiamata la “rivoluzione scientifica”, muovono dalle esperienze e dalle necessità quotidiane del mondo del lavoro. A questo ambito sono connaturate esigenze che ripugnavano agli interessi metafisici della cultura scolastica medievale, e che rimangono inevase in seno all’astratta speculazione degli umanisti: prima tra tutte quella di un sapere utile, tecnicamente funzionale, trasferibile immediatamente nella prassi ed aperto ad un’ampia fruizione. La finalizzazione pratica implica tutta una serie di assunti che ancora debbono entrare a far parte del corredo gnoseologico della cultura ufficiale: la necessità di fondare ogni conoscenza sulla concreta sperimentazione; la valutazione dell’importanza e veridicità di ogni dato conoscitivo sulla base dei suoi esiti pratici; l’importanza di diffondere, di compartecipare il più possibile i risultati delle singole sperimentazioni, in modo da ottenere attraverso l’apporto congiunto di molti una continua progressione tecnica.
In questo senso assumono particolare importanza tutte quelle attività o arti che forniscono strumenti materiali o teorici sempre più adeguati ai bisogni operativi, dalla meccanica all’ottica, all’ingegneria, alla medicina. L’artigianato di precisione, così come il pensiero e la teorizzazione tecnica, sono stimolati dai nuovi orizzonti della navigazione, che per tentare gli oceani necessita di uno strumentario complesso di rilevazione astronomica (astrolabio, bussole perfezionate, carte nautiche), dall’imporsi a livello sia economico che sociale di ritmi artificiali, e quindi della misurazione del tempo (orologi meccanici da torre, orologi portatili a bilanciere, orologi suppellettile, spesso incredibilmente complicati e preziosi), dalle innovazioni nelle lavorazioni artigianali, agricole, e soprattutto dai problemi creati dall’estrazione mineraria (macchine utensili, pompe per irrigazione o per il prosciugamento delle miniere). Per non parlare poi dello sviluppo di altri settori, come quello dell’ottica (lenti, occhiali), dell’editoria (torchi tipografici), degli armamenti. Anche il consolidamento delle monarchie nazionali ed i! loro sforzo per rinnovare ed accrescere il potenziale bellico, sia offensivo che difensivo, incentiva la ricerca nelle direzioni più svariate, dalla metallurgia. alla balistica, sino all’architettura delle fortificazioni. Così come l’aumento dei traffici e l’urbanizzazione crescente impongono interventi ingegneristici per la costruzione di ponti, di canali, di chiuse, di acquedotti.
Chi eccelle per precisione, per inventiva o per eclettismo in qualcuno di questi settori non ha difficoltà ad acquistarsi fama e a far fruttare anche sul piano economico il proprio ingegno. Borghesi e sovrani sono prontissimi ad accaparrarsi i suoi servigi e a garantirgli il finanziamento e la protezione della ricerca, sempre che, naturalmente, vi intravedano sbocchi pratici di interesse economico o militare. L’artigiano “superiore”, quello cioè che opera nel campo dell’alta precisione, della costruzione di strumenti o della progettazione ingegneristica, acquista coscienza di un proprio status artistico o scientifico, e mentre lavora in stretta collaborazione con la bottega, col mondo dell’attività puramente meccanica, esecutiva, artigianale, se ne stacca sempre più decisamente sul piano della valutazione sociale.
Per il ‘400 non è possibile comunque parlare di realizzazione della sintesi tra speculazione scientifica e prassi tecnica. Anche se in casi sporadici l’attenzione di qualche studioso è attratta da quanto avviene nel mondo artigianale e nel campo delle applicazioni tecniche, l’atteggiamento di massima del ceto intellettuale è ancora improntato al disdegno più assoluto di ogni coinvolgimento nella sfera “meccanica”.
Le cose mutano nel secolo successivo. Il cambiamento di attitudine è graduale, ma è avvertibile fin dai primi decenni del ‘500. Sono maturate nuove condizioni e potenzialità, e non solo sul piano economico, politico e sociale, ma anche su quello speculativo. La rottura dei secolari confini oceanici del mondo ha incrinato anche il guscio nel quale il pensiero occidentale si era racchiuso da un millennio. Affiorano i limiti dell’ontologia aristotelica e platonica, ma soprattutto quelli di una disposizione euristica avulsa dalle esigenze operative e dal rapporto con la realtà. La riscoperta e la diffusione dei testi scientifici dell’antichità, e quindi di una varietà di interpretazioni dei fenomeni naturali, favorisce il formarsi di una epistemologia critica e spinge a cercare conferme empiriche nell’osservazione diretta e nella sperimentazione. Il concetto di autorità non può reggere ai colpi che le esperienze e le ricerche gli infliggono. Accanto alle traduzioni dei classici, rigorosamente ricostruiti e commentati, appaiono opere nuove, non condizionate dalla riverenza e dall’ossequio alla tradizione. “Fino a qualche anno fa non avrei osato discostarmi di un capello da Galeno” scriverà Vesalio nel De bumani corporis fabrica. Ma ciò che egli stesso ha potuto constatare e che si impone come naturale dato di fatto non può più essere respinto da una biologia che guarda con interesse crescente alle applicazioni mediche. Leonardo sostiene la superiorità dell’occhio sulla mente, e propone quale testo fondamentale il grande libro della natura, in luogo delle scritture e delle opere di filosofi e scienziati del passato.
Gli ambienti della cultura ufficiale, che durante il ‘400 erano rimasti chiusi alla messe di osservazioni, di correzioni, di invenzioni provenienti dal mondo della tecnica e dell’artigianato, sembrano accorgersi all’improvviso di questo fervore di creazione e di crescita. La degnazione non tarda a lasciare il posto alla sorpresa, e talvolta all’entusiasmo. Luis Vives, umanista in contatto con Erasmo e con Tommaso Moro, invita i dotti ad entrare “nelle officine e nelle fattorie, ponendo delle domande agli artigiani e cercando di rendersi conto dei dettagli della loro opera”. Contrappone questa seria attenzione per i problemi dello sviluppo tecnico alle sterili discussioni universitarie: “Vi sono innumerevoli persone che discutono, senza giungere a nessuna conclusione, ciò che non può presentarsi di per se stesso in natura”. Ritiene perciò che “agricoltori e artigiani conoscano (la natura) meglio di così grandi filosofi”. Altrove le posizioni sono più sfumate, ma l’importanza di dare basi più fondate e intenti più costruttivi alle scienze è entrata ormai nell’abito mentale degli studiosi cinquecenteschi.
Dal canto loro, artigiani superiori e tecnici si sentono stimolati a comporre i risultati delle loro esperienze applicative in sintesi teoriche. Se Leonardo si limita a lasciare appunti relativi alle sue innumerevoli curiosità, che non si preoccupa di divulgare, Albrecht Diirer scrive invece trattati sulle proporzioni, sulle fortificazioni e sull’uso del compasso, mettendo la sua esperienza al servizio di coloro che lo seguiranno e dell’idea progressiva del sapere: coloro che li leggeranno “non soltanto avranno una buona iniziazione in queste scienze, ma conseguiranno una migliore comprensione di esse attraverso la pratica quotidiana; essi cercheranno più in là, e troveranno molto più di quello che io mostro loro”. Non solo; Durer applica anche la sua arte alla minuziosa descrizione della realtà, sia negli studi anatomici che nei disegni – la famosa lepre “alla quale non manca neppure un pelo”. Le trattazioni a carattere tecnico si moltiplicano in quest’epoca, abbracciando tutti i campi delle arti operative e realizzando una prima forma di incontro tra sapere scientifico e sapere tecnico artigianale. Questo connubio si attua naturalmente nelle varie discipline in modi e in tempi diversi. È precoce, ad esempio, nel campo propriamente artistico, che vede nel ‘400 le attività pittoriche, plastiche e architettoniche assurgere a dignità di “arti liberali”. È molto tardo invece in altri settori, come quello dell’astronomia, dove il metodo di osservazione e di sperimentazione non ha ancora conosciuto un grosso incremento tecnico-strumentale.
L’orientamento pratico del pensiero rinascimentale si riflette anche sui presupposti teorici. Diventa imprescindibile il riferimento a grandezze, a valori, ad elementi “concreti ed oggettivi” inquadrabili in strutture spazio-temporali universalmente accette e riconoscibili. E ciò implica che il polo dell’attenzione e degli interessi del pensiero rinascimentale si esteriorizzi, si sottragga all’indeterminazione che caratterizzava l’impostazione medievale del problema gnoseologico. Implica anche, d’altronde, la definitiva abdicazione ad ogni speranza di penetrare l’infinito, l’assoluto, e di realizzare in quell’ambito una convergenza “oggettiva” delle singole esperienze conoscitive. È venuto meno il tessuto emozionale e simpatico che legava nella cultura come nella quotidianità medievale gli uomini e le cose. Di conseguenza debbono essere individuati valori e strutture sostitutivi, attorno ai quali possa coagularsi il conoscere umano e riorganizzarsi la comunicazione e la convivenza. Questi valori sono l’insieme di leggi, norme, canoni, proporzioni, che il bisogno di universalità impone come oggettivi, immanenti la natura stessa, da essa palesati e deducibili. Queste strutture sono uno spazio ed un tempo diversi, segmentati, matematizzati, atti cioè a consentire e a convalidare la commensurabilità, la classificazione, l’esercizio razionalizzato del rapporto. Gli uni e le altre riflettono la dissociazione del sentire, la distinzione operativa che si impone tra essenza e fenomeno, e la scelta di quest’ultimo come oggetto e campo della indagine e della prassi. Leon Battista Albertí afferma che l’artista deve occuparsi soltanto di ciò che si vede, e non di quanto possa eventualmente celarsi dietro la sostanza. L’evidenza ha già intrinseco un suo significato afferrabile, riproducibile, governabile attraverso la ragione. “La bellezza consiste in un certo accordo ed armonia delle parti in un’unità secondo un numero, una proporzione ed un ordine stabiliti, così come esige la concinnitas, cioè la suprema ed assoluta legge di natura”.
Numero, ordine, proporzione: questi elementi permettono di recuperare il fenomeno, di inquadrarlo e classificarlo, di ovviare alla disintegrazione delle “certezze” conoscitive rivelate, sostituendo ad esse una strutturazione logica dell’esperienza. Sono elementi propri delle scienze matematiche. La matematica è il paradigma gnoseologico per eccellenza del rinascimento: artisti e scienziati, dall’Alberti stesso a Leonardo da Vinci, la pongono al primo posto in ogni campo di attività intellettuale.
Il risveglio di interesse per le scienze matematiche trae impulso da un insieme di fattori, quasi concomitanti, che rivoluzionano il pensiero occidentale nel XV secolo. È connesso ad esempio alla diaspora verso l’Europa dei dotti bizantini, in seguito alla caduta di Costantinopoli. Costoro provvedono a divulgare il patrimonio scientifico classico in traduzioni di prima mano, mentre per tutto il medioevo ci si era dovuti affidare alle versioni arabe o alle tarde sintesi latine. Molte opere fondamentali del pensiero ellenico costituiscono addirittura una novità per gli europei. Questi testi, così come quelli dei pensatori rinascimentali, circolano e si diffondono velocemente grazie alla stampa: nella stampa trovano anche una garanzia di uniformità ben diversa da quella offerta dagli amanuensi medioevali, che consente il confronto a distanza e lo sviluppo comparato in questo campo. Altrettanto importante e fecondo si rivela, come vedremo, l’incontro con la tradizione mistica ebraica, che alimenta una applicazione “magica” della matematica.
D’altro canto, i viaggi e le scoperte incentivano l’immediata traduzione pratica di questo sapere ritrovato e rinnovato. La matematica diviene fondamentale per la determinazione di distanze e di coordinate geografiche, nonché per l’uso degli strumenti della navigazione astronomica, come l’astrolabio. È soprattutto il commercio, però, a stimolare lo sviluppo del calcolo, per ovviare ai problemi di contabilità che le nuove dimensioni e qualità dei traffici impongono: calcolo monetario, calcolo degli interessi, fino alla monetizzazione dei tempi economici e delle distanze stesse.
Ciò spiega, almeno in parte, l’interesse prevalente accordato in questo periodo all’aritmetica. Il problema di fondo della matematica classica, rimasto insoluto, era stato quello dell’applicazione alla geometria di un’aritmetica basata sull’uso delle lettere nella loro successione alfabetica. Ciò arrivava a costituire, ad un certo punto, un ostacolo non indifferente, poiché equivalendo le lettere a numeri concreti riusciva impossibile l’espressione di numeri generici, e quindi una concezione algebrica. La speculazione geometrica fu spinta pertanto ad astrarsi sempre più dai problemi concreti, per inoltrarsi nell’indagine di strutture e di rapporti “ideali” (in senso platonico). Ora, con l’adozione della numerazione araba, i pensatori del Rinascimento possono agevolmente superare l’antica difficoltà, sviluppare il calcolo algebrico sino allo stadio simbolico ed applicare le formule trigonometriche. Abbiamo visto come l’Alberti subordini la percezione estetica alla concinnitas, o suprema legge naturale. In effetti per tutto il Rinascimento si insiste sulla specularità del processo logico nei confronti dell’essere: la conoscenza è intesa come penetrazione e riconoscimento di strutture e di rapporti naturali dati. La caratterizzazione matematica del conoscere appare quindi ai pensatori di quest’epoca come imposta dalla realtà, dalla sua segmentazione e insieme dalle sue concordanze ed interrelazioni. Come insegnava il Timeo di Platone, la matematica funge da intermediaria tra idee e materia, e Dio è l’artefice del mondo “numero, pondere et mensura”. Sicché il geometrizzare della mente umana trae la sua verità dall’essere il corrispettivo del geometrizzare della mente divina. Cusano ne fa “l’appropriato, unico vero e ‘preciso’ simbolo del pensiero speculativo e della visione speculativa che ricollega le opposizioni. Nihil certi babemus in nostra scientia nisi nostra matbematicam: dove vien meno il linguaggio della matematica, là, per lo spirito umano, non vi è più nulla di concepibile e di conoscibile”(Cassirer). Affermazione tanto più vera quando questo conoscibile sarà vincolato ad una interpretazione meccanicistica, sequenziale, progressiva dell’universo.
Proprio col concetto di coincidenza degli opposti (trasformazione del finito in infinito, e dell’infinito nel finito) esemplificato dal Cusano nel cerchio di grandezza (o di piccolezza) infinita coincidente con la retta, e con l’altro, contemporaneo e divergente, della funzione (passaggio dall’essere al divenire e viceversa), il sapere matematico di quest’epoca si candida a dominatore onnicomprensivo dello spazio e dei tempo.
L’approdo rinascimentale alla capacità di padroneggiare le grandezze e le forme in situazioni spazio-temporali mutevoli, è connesso, nella pratica, all’adozione della scrittura tipografica, che diventa il veicolo primario ad una disposizione e ad una abitudine mentale dai caratteri assolutamente nuovi. Già di per sé la stampa comporta tutta una serie di vantaggi e di trasformazioni culturali: i caratteri stampati sono di più agevole lettura, la diffusione aumenta in maniera esplosiva, e tutto questo facilita l’accesso alla cultura scritta di nuovi lettori, nonché di autori, e di argomenti cui la tradizione amanuense non poteva offrire spazio. Valga l’esempio della repentina proliferazione di trattati a carattere tecnico-descrittivo.
Al di là comunque della sua portata divulgativa, è importante rilevare gli influssi della nuova tecnica sulla qualità stessa del sapere. “L’invenzione della tipografia confermò ed estese la nuova accentuazione visiva della conoscenza applicata, fornendo così la prima merce ripetibile uniformemente, la prima catena di montaggio e la prima produzione di massa” (Mc Luhan). La scrittura tipografica spersonalizza ed uniforma l’espressione del pensiero, rendendola rispondente a quei modelli paradigmatici, oggettivi, che la cultura rinascimentale persegue in ogni campo del conoscere; riflette così nella forma quella che è la sostanza, o perlomeno l’anelito, del nuovo sapere. Scompare dal testo quel margine di interpretazione visiva o vocale che era concesso dal manoscritto al lettore. La lettura diventa più veloce e, soprattutto, silenziosa: l’unità primaria entro la quale i segni vanno raccolti non è più la parola singola, ma il periodo, il concetto; vien meno la necessità della trascrizione, quindi di un intervento spesso non soltanto riproduttivo sul testo. La parola stampata rinuncia alle inflessioni e al carico di significati, anche magici, che le sono propri nella dimensione vocale, e che in qualche misura la tradizione amanuense conservava, ma acquista in credibilità scientifica, in oggettività, e appare atta ad esprimere dati di fatto, piuttosto che opinioni.
La stampa tipografica promuove o favorisce un rivoluzionamento anche nel campo linguistico: essa induce infatti l’affermazione dei volgari come strumenti espressivi anche nella cultura scritta, e la codificazione degli stessi in strutture ortografiche, grammaticali e sintattiche. Le nuove destinazioni e finalità dei testi impongono l’uso di un linguaggio largamente accessibile. D’altro canto sovente è la materia stessa, soprattutto nei trattati a carattere tecnico, a non trovare riscontro espressivo nelle forme auliche del latino umanistico: oppure gli autori, provenienti ora anche dalla sfera tecnico-artigianale, non sono affatto padroni della lingua scientifica ufficiale.
La valorizzazione del volgare come linguaggio letterario-scientifico comporta automaticamente la tendenza ad ingabbiarlo entro canoni uniformanti, definendone gli schemi e ripudiandone le caratterizzazioni dialettali. Ciò implica anche il disconoscimento delle inflessioni fonetiche, che tanta parte avevano nel suo uso e nella sua vitalità quotidiana, a favore di una asettica omogeneità visiva. Una volta fissata tipograficamente la grafia delle lettere e delle parole, e regolamentate le combinazioni sintattiche, il volgare diventa strumento per eccellenza dell’irreggimentazione, a cominciare da quella statale. “La stampa, nel trasformare i vari volgari in mezzi di comunicazione di massa, cioè in sistemi chiusi, creò le forze uniformi e centralizzatrici del moderno nazionalismo” (Mc Luhan).
Dall’esperienza all’esperimento: nuove interpretazioni della natura
Come ho fatto per gli studi sulla prospettiva del ‘400, vorrei ora cercare di esemplificare attraverso altri due percorsi particolari la commistione straordinaria di impulsi e di apporti, a volte contraddittori o apparentemente regressivi, che conduce alla nascita di una mentalità e di una filosofia scientifiche. Il primo percorso prende le mosse dalla difesa della magia operata da Pico della Mirandola, passa per la filosofia della natura e di lì approda poi a Bacone. Ho già trattato della riabilitazione umanistica delle “scienze occulte”, combattute e costrette alla clandestinità dalla teologia scolastica e riemerse nel ‘400 alla luce del giorno in una versione filosoficamente e teologicamente “corretta”. Questa riemersione prosegue per tutto il Cinquecento, ma in un’atmosfera che va poco alla volta mutando, segnatamente nella seconda metà del secolo. Le aspirazioni concorrenziali della chiesa tridentina e dei nascenti stati moderni ad assumere il pieno controllo su ogni espressione culturale limitano od eliminano drasticamente i margini conquistati nel periodo umanistico dai saperi alternativi.
Per affrontare il tema della magia rinascimentale occorre in primo luogo ribadire che lo spirito di quest’epoca, come già quello del periodo umanistico, non può essere ancora definito scientifico. La strada verso una razionalizzazione pura delle conoscenze non procede automaticamente né dalla spinta del platonismo ad una percezione “matematica” della realtà, né dalla sistematicità esplicativa dell’aristotelismo. Lo spazio lasciato ad una indagine mistico-magica è ancora enorme: “Proprio per aver distrutto l’ontologia medioevale, per aver distrutto l’ontologia aristotelica il Rinascimento si è trovato ricacciato, o ricondotto, verso un’ontologia magica di cui si trova ovunque l’ispirazione.”(Koyré). La demarcazione tra scienza e magia rimane molto incerta non soltanto nella coscienza popolare, ma anche negli ambienti colti: e lo dimostrano gli incredibili garbugli dai quali hanno origine le teorie che fondano la scienza moderna, da Copernico a Newton, attraverso Keplero e Gilbert e mille altri, nei quali si mescolano l’astrologia della tradizione ermetica, il misticismo neopitagorico, l’interesse per gli studi alchemici, la credenza nell’animazione universale, ecc. Questo intreccio viaggia naturalmente in una duplice direzione: nel senso che se la scienza del ‘500 è ancora profondamente intrisa di atteggiamenti e presupposti magici, la magia cinquecentesca è a sua volta gravida di potenzialità, e di esiti, scientifici. Nel momento in cui è arrivata ad affermare – assieme all’astrologia e all’alchimia – il concetto di una natura soggetta a leggi proprie e necessarie, in contrasto attivo con la trascendenza, con lo spiritualismo religioso, è divenuta anche magia naturalis, che non si vale di incantesimi e sortilegi, ma cerca di dominare le cose valendosi della conoscenza delle loro facoltà interne. Ciò è espresso chiaramente da Agrippa di Nettesheim:
“La conoscenza della dipendenza delle cose nella loro successione è il fondamento di ogni effetto miracoloso, ed è errato credere che un avvenimento superi la natura, e sia in contrasto con essa, mentre può risultare solo da essa” ed è ribadito nella Magia naturalis dal Della Porta: “Per comprendere i segreti della natura, il mago dovrà essere versatissimo nella filosofia naturale. Egli dovrà ricercare le cause e i primi elementi delle cose, porre in luce le meravigliose ricchezze che ne derivano, indicare i legami reciproci, trovare il punto di congiunzione degli elementi, risalire alla sorgente delle cause, scrutare il mistero della fine delle cose”.
È un programma che potrebbe essere sottoscritto da qualsiasi scienziato contemporaneo, anche se per certi versi abbastanza sibillino da lasciare spazio all’esercizio della fantasia magica. Ed è un manifesto che pone l’accento sull’efficacia, sulla dimensione operativa della pratica magica, accomunando in questa direzione tutti i grandi nomi della magia rinascimentale, da Paracelso a Fracastoro a Cardano, oltre al già citato Agrippa.
Ma se spostiamo l’attenzione dalle finalità di questo sapere ai suoi fondamenti, le cose cambiano. I presupposti ontologici sottesi a questo programma non hanno infatti nulla a che vedere con quelli della moderna mentalità scientifica: la dottrina naturalistica che attraversa tutto il Rinascimento, alla quale Telesio conferisce dignità filosofica e della quale Bruno elabora l’espressione più radicale ed appassionata, procede da una concezione animistica e vitalistica della natura, dall’idea di una animazione universale del mondo, ed è fondata sulla convinzione antropomorfica che tra l’uomo e la natura ci sia una sostanziale affinità. In base a questa concezione tutto è vivo, animato, mobile, plastico, e l’impeto vitale è insieme forma e materia dell’universo, e al tempo stesso possibilità liberata dai confini, dalle essenze definite. La natura è dunque aperta anche a processi sovvertitori delle realtà conosciute, delle strutture ordinate e solidificate: in sostanza, è aperta al dominio dell’uomo. Ma a un dominio che passa attraverso l’integrazione e la solidarietà col mondo naturale. Questo è in fondo l’estremo esito dell’ideale ermetico, per il quale l’opera, l’azione dell’uomo si dispiegano entro un’infinita unità vivente, un’apertura senza confini, e la conoscenza è la riscoperta di questa unità, di quella “simpatia” universale che consente di partecipare della potenza creatrice, di piegare ogni forza, di servirsi di ogni energia, di vincere ogni destino.
Il discrimine sta proprio qui: non è costituito tanto dalla commistione di credenze magico-alchemiche e di conoscenze scientifiche, che perdura sino a Newton e oltre, quanto dall’arroccamento su un protocollo conoscitivo eminentemente analogico e simpatetico. In ragione di questo tutti i grandi spiriti del ‘500 sostano ancora al di qua, sul versante magico e animistico, anche quando le loro intuizioni superano il crinale e aprono strade per l’ingresso nella modernità. Si può citare a caso. Prendiamo ad esempio gli attacchi di Paracelso alla farmacopea tradizionale. Fino al ‘500 (e nella medicina popolare sino al secolo scorso) questa era basata quasi esclusivamente sulle piante medicinali, alle quali veniva attribuita una continuità analogico-funzionale con la vita animale. Paracelso prepara invece le sue pozioni medicamentose ricorrendo a processi alchemici e utilizzando componenti inorganici, nella convinzione che in questo stato della materia siano rintracciabili nella loro purezza i principi attivi “ultimi”. Così facendo muove i primi passi verso la iatrochimica, in sintonia con l’affermarsi di una visione “meccanicistica” della circolazione del sangue e di tutte le altre funzioni organiche (quella visione che farà tra l’altro sparire, nel corso del ‘600, dai testi di anatomia ogni riferimento ai punti sensibili, alle “porte d’ingresso” degli influssi astrali, rientrati poi per la finestra nel secolo scorso con la riscoperta della medicina orientale e con la pratica dell’agopuntura, e relegherà l’erborizzazione a pratica superstiziosa). In questo senso, nel metodo e nelle risultanze operative Paracelso è un precursore: ma, mentre da un lato insiste sull’attenzione da porre nella preparazione dei farmaci e detta una precisa metodologia, dall’altro attribuisce il merito dei suoi arcana, o medicamenti segreti, alla ricomposizione di un’armonia celeste tra un astrum intimamente insito nell’uomo e un corpo celeste. La sua medicina vuole essere realistica, ma l’arcanum è spirituale. “Non è il medico che controlla e padroneggia la malattia, ma il cielo, per mezzo delle stelle, e perciò il medicamento deve essere somministrato in mezzo aeriforme, in maniera che esso possa essere indirizzato dalle stelle” scrive nel Paragrano. Il criterio rimane quello analogico, e si fonda sulla dottrina delle corrispondenze e degli influssi, della continuità e specularità tra macrocosmo e microcosmo.
Ciò si verifica anche quando entrano in gioco elementi di apparente novità gnoseologica, come nel caso di Campanella, per il quale il principio della autocoscienza è fondamento di ogni sapere scientifico. L’autocoscienza cui si riferisce il monaco calabrese è infatti “sensibile”, non razionale: è condivisa, in misura diversa e crescente, con tutti gli altri esseri materiali, e proprio per questo diventa tramite di interrelazione, di partecipazione e quindi di conoscenza. È una cosa ben diversa dall’autocoscienza di pensiero di Cartesio, che segnerà la cesura definitiva tra il soggetto pensante e la natura esterna, oggetto non partecipe del conoscere.
La posizione più emblematica rimane comunque quella di Giordano Bruno. Bruno propone una visione completamente nuova dell’universo, che non è però desunta da osservazioni astronomiche o da calcoli matematici, quanto piuttosto da un coacervo di suggestioni e di conoscenze diverse. È affascinato dalla teoria copernicana, ma ne apprezza piuttosto le dirompenti implicazioni filosofiche che il reale portato di metodo e di merito astronomico (ed è anzi decisamente insofferente dei suoi limiti, perché in fondo Copernico non intacca la concezione di un universo chiuso). La integra con suggestioni derivanti da Lucrezio (riscoperto soltanto nel 1414) e dagli epicurei, pesca da Nicola Cusano, che a sua volta aveva azzardato l’idea di un universo infinito, fermandosi però spaventato sulla soglia, e infine attinge al neoplatonismo e alla cabalistica. Da un simile impasto sortisce una concezione cosmologica che nelle linee di massima prefigura quella della scienza attuale, talmente moderna che nemmeno i più spregiudicati e rivoluzionari tra i suoi contemporanei, da Keplero a Galilei, si azzardano a farla propria. Ma questa concezione è frutto di un atto intuitivo, non di procedimento deduttivo, e non è avvalorata da alcun supporto scientifico.
La stessa considerazione vale per altri aspetti del pensiero di Bruno, magari meno eclatanti ma non meno significativi, che vanno nella direzione di un nuovo modello di pensiero. Uno riguarda l’omogeneità, e quindi la geometrizzazione dell’universo. Negando ogni differenza qualitativa, ogni scala gerarchica tra le varie sfere e i diversi mondi, Bruno rende tutto commisurabile. È un percorso tutto particolare, e anche contraddittorio, perché il filosofo ribadisce a più riprese il suo dissenso nei confronti della ragione calculatoria, ma approda infine agli stessi risultati cui perverrà il nuovo pensiero scientifico. Un altro concerne invece l’etica, che per Bruno è quella attivistica del lavoro, dell’ingegnosità. Il lavoro assoggetta la materia all’intelligenza e fonda l’unicità della nostra specie. L’homo faber è l’artefice reale della redenzione dell’umanità. Anche questo è un passo decisivo verso il superamento della speculazione scientifica fine a se stessa, paga della contemplazione: e dopo Bruno non ci sarà più ritorno (anche se forse sarebbe auspicabile un ritorno almeno a Bruno stesso). E tuttavia, nessuna di queste suggestioni può essere pienamente ascritta al nuovo pensiero scientifico. Bruno non è sorretto da un metodo, ma spinto da un raptus “eroico”, con ascendenza etimologica ad eros: la conoscenza globale cui dà letteralmente l’assalto si configura come una sorta di congiunzione erotica con la natura e con l’universo tutto. E anche quando si realizza, magari attraverso una tecnica miracolosa che dilata la potenza cognitiva traducendo la realtà in numeri (“l’arte della memoria”), ad essere applicata non è la matematica, ma la simbologia numerica di derivazione pitagorica e cabalistica.
Il dominio sulla materia continua pertanto a configurarsi come opera magica, come controllo delle corrispondenze simpatiche e come empatia o identificazione con la natura, fino a quando il vitalismo universale non lascia il posto ad un modello interpretativo del mondo di tipo matematico-meccanicistico, alla concezione dell’universo-macchina o dell’universo-orologio. Solo a questo punto il paradigma conoscitivo analogico viene definitivamente abbandonato. Ciò accade nel corso della prima metà del ‘600. Galilei (Il Saggiatore), Bacone (la critica agli idola teatri) e Pascal (le Provinciali) rifiutano il criterio della somiglianza come fonte prima e fondamentale del sapere e gli sostituiscono l’atto del confronto. Il quale confronto può avvenire solo in termini di misura e di ordine, cioè di forme calcolabili dell’identità e della differenza. Il passaggio è già nettamente delineato nel metodo galileiano: il momento induttivo, quello dell’osservazione dei fenomeni (e in definitiva quello a cui rimanevano fermi maghi e “naturalisti” del ‘500) è inteso solo alla formulazione di ipotesi, e già questa avviene non a partire da empatetiche corrispondenze, ma sulla scorta di una misurazione matematica dei dati. L’atto decisivo, quello che conduce alla formulazione delle leggi, passa infine attraverso la verifica sperimentale (il cimento). L’esperienza della natura esterna è quindi già filtrata da una matematizzazione che risolve il mondo in immagine di ripetitiva regolarità, la purifica di quella imprevedibilità e di quel disordine che la pura percezione sensoriale ci trasmette. E la legge non è “disvelata” penetrando nell’intimo della natura, ma dettata, formulata convenzionalmente a seguito di necessarie dimostrazioni, ovvero ragionamenti matematici, e convalidata attraverso la verifica sperimentale, ovvero la riproduzione artificiale del fenomeno.
In questo quadro l’ordine assume un carattere che non è più quello dell’oggettività, dell’ordinamento del mondo, bensì quello della soggettività: è l’ordine del pensiero, e quindi quello della convenzionalità e della razionalità. Nel nuovo modello di conoscenza l’uomo diventa soggetto, nel senso di sostrato, fondamento, e la sua razionalità produce le astrazioni nelle quali costringere e disciplinare la natura e gli strumenti per dominarla e ri-crearla. L’experimentum è una prerogativa assoluta della misurazione e del calcolo, degli strumenti e dei numeri, ed è già una pratica di domesticazione. Dalla osservazione passiva del fenomeno si passa al suo pieno e attivo controllo.
È Bacone, però, più di Galilei e prima di Cartesio, a dare del nuovo metodo scientifico una configurazione organica. “Ordinare i fenomeni” nell’accezione baconiana significa in fondo decidere a priori quel che si vuole tenere in considerazione, cosa vedere e cosa non vedere; significa per l’uomo diventare, da spettatore, regista. Ma su questo torneremo.
Per il momento mi concedo invece una breve digressione in un ambito che ho sin qui trascurato, quello letterario. I sensori della letteratura per le mutazioni del gusto e dell’attitudine di pensiero sono altrettanto tempestivi e rivelatori di quelli dell’arte. In qualche modo, e in alcuni particolari autori, sono addirittura più precoci. Penso al caso di Ariosto, che potrebbe essere assunto a corrispettivo letterario di Leonardo. Nella sua opera, come in quella di ogni genio letterario, non è solo rispecchiato l’esistente, ma si prefigura quello che sarà. L’opportunità di riscontrarlo ci è offerta proprio dal tema della magia, e magari anche dal confronto tra l’atteggiamento assunto al riguardo dal ferrarese e quello del Tasso. Nello stesso periodo in cui tra i tardi umanisti fiorentini circola l’entusiasmo per la rinascenza magica, sia pure interpretata in chiave filosofica e non superstiziosa, Arioso irride nel Negromante la stolta credulità sulla quale campano maghi e ciarlatani. Riprende poi il tema nell’Orlando Furioso, liquidando i sortilegi di Atlante e Alcina come “magiche sciocchezze”: l’anello di Angelica che annulla gli incantesimi non è altro che il sano buon senso, quello che dovrebbe portare gli uomini a non inseguire costantemente vane chimere. Poeta del disincanto, della rinuncia consapevole a molte delle illusioni della civiltà rinascimentale, Ariosto usa il magico come puro espediente letterario, funzionale allo scorrimento della vicenda e a sciogliere gli intrecci più complicati: ma ne esibisce e sottolinea sempre il carattere artificioso e ingannevole. Strizza l’occhio al lettore, ne cerca la complicità e sembra dirgli: noi ci intendiamo, sai che è un gioco e lo prendi come tale. La distanza che frappone tra sé e l’argomento gli consente persino di essere laicamente benevolo: Atlante spogliato dell’incantesimo è un patetico vecchietto, Alcina un’orrida megera, meritevole più di compassione che di ribrezzo.
Ben diverso è l’atteggiamento di Tasso. Nella Gerusalemme Liberata l’arte magica è presa tremendamente sul serio, è negromanzia nel senso letterale, lunga mano delle potenze infernali. Non è sufficiente il sarcasmo a combatterla: sono necessarie arti analogiche e contrarie, quelle dell’esorcismo, delle quali è ministra e detentrice unica la chiesa. Nel mezzo secolo che corre tra il Furioso e la Gerusalemme sono accadute un sacco di cose, e nel poema del Tasso si ritrovano gli echi della riforma, delle guerre di religione, del concilio tridentino, della battaglia di Lepanto, quindi la preoccupazione che il sistema ecclesiale, tanto quello cattolico come quello protestante, prova nei confronti di tutte le forme di “devianza”, religiosa, parareligiosa o ereticale. Ma sono adombrate anche altre istanze, quelle di istituzioni nascenti, lo stato moderno e la cultura scientifica, determinate ad estendere il controllo su ogni manifestazione del pensiero. Quella che viene in qualche modo prefigurata nell’opera del Tasso, pur tra le mille ambiguità legate al carattere tormentato dell’autore, è una operazione di bonifica su larga scala, di repressione della cultura popolare, di uniformazione e normalizzazione dei saperi, che condurrà alla inquisizione e alla caccia alle streghe secentesca. Il paradosso sta nel fatto che gli atteggiamenti antitetico dei due autori conducono allo stesso esito: ridicolizzate o represse, le credenze nelle arti magiche sono comunque liquidate nel segno del pensiero unico, prima religioso e poi razionale.
Ma c’è dell’altro. Anche prescindendo dalla scettica irrisione della magia, credo che il rapporto stesso di Ariosto con la propria opera sia significativo del radicale mutamento di sensibilità in atto. Il suo disincanto, la sua ironia, sono già in qualche modo metafora dell’atteggiamento scientifico del ‘600. Fino ad Ariosto, in maggiore o in minor misura erano comunque l’oggetto, la vicenda, magari l’urgenza del sentimento personale, l’idealità o l’indignazione, a dominare l’autore, a ispirarlo. Il poeta era la voce di volta in volta di Dio, della storia, dei sentimenti. Era un posseduto. Con Ariosto si cambia registro. Ciò che viene narrato è creazione autonoma della sua intelligenza. Le trame, gli intrecci sono perfettamente controllati e gestiti; la vicenda può essere interrotta in qualunque momento, e massime in quelli cruciali, ad arbitrio dell’autore, per far posto ad altri episodi e protagonisti o ai suoi ammiccamenti; e con questo egli sottolinea costantemente la natura di finzione e di artificio, mirabile quanto si vuole, ma razionalmente dominato, della sua scrittura. Da amanuense a regista, appunto, e sperimentatore. E in fondo è tutta la letteratura di questo secolo, sia pure con una consapevolezza diversa da quella presente nell’Ariosto, a denunciare la propria convenzionalità, nel momento in cui si assoggetta alla classificazione rigida in “generi”. Una materia magmatica, disordinata, irregolare e incontrollabile per antonomasia come quella della fantasia viene disciplinata in canoni razionali, precisi e vincolanti, allineata nell’ordine uniforme dei caratteri di stampa, oggettivata in merce dalla nascita dell’industria culturale e dal riconoscimento dei diritti d’autore.
Dall’organismo all’organizzazione: nuove interpretazioni della società
Tra i generi letterari nei quali la cultura rinascimentale viene irreggimentata c’è anche la letteratura utopistica. Non si tratta solo della risultante di una classificazione: l’utopismo nasce nel Rinascimento anche come specifica modalità del pensiero filosofico-politico. L’atteggiamento utopico prende infatti le mosse dalla percezione dei rapporti dell’uomo con Dio, con la natura e con i suoi simili che è decisamente mutata, e a motivarlo non è tanto l’evidenza quotidiana del male, sotto le specie del disordine, dello sfruttamento e della miseria, quanto piuttosto il venire meno di quelle giustificazioni di ordine soprannaturale o terreno che nel passato lo avevano fatto apparire accettabile, o quanto meno ineluttabile. Questa diversa percezione ha da un lato delle matrici filosofiche, quelle che in qualche modo ho cercato di mettere in luce (è significativo che Raffaele Idloteo, il primo moderno “inviato” in un mondo utopico, dichiari di aver abbandonato Aristotele e di essersi accostato direttamente, tramite la conoscenza del greco, al platonismo. Racconta altresì di aver visitato i nuovi mondi appena scoperti: ed è proprio questa nuova presenza che in qualche modo invera, dall’altra parte del globo, la possibilità di rigenerazione sociale); dall’altro è indotta dalle trasformazioni che investono particolari settori dell’economia e della società occidentale (in particolare di quella inglese) agli inizi del XVI secolo. Non a caso nell’opera che inaugura la letteratura utopica, l’Utopia di Tommaso Moro, la descrizione della società perfetta è preceduta da una accorata denuncia dei guasti e dell’immiserimento prodotti dall’introduzione nelle campagne inglesi delle enclosures.
L’utopismo è comunque una reazione di fuga, in quanto rifiuta di mettere mano alla realtà di quei rapporti economici e sociali che implicitamente o esplicitamente sottopone a critica, e prescinde anche da una considerazione realistica della natura umana, per sviluppare invece “possibilità” collaterali o alternative, nell’ipotesi di organizzare la realtà in un ordine diverso. Non è tuttavia assimilabile al mito classico della “età dell’oro”, che nasce all’interno di una concezione teologica ed esprime la nostalgia per un tempo pre-storico, precedente il declino e la caduta, e per un mondo di perfezione che la divinità aveva offerto all’uomo e che è stato irrimediabilmente perduto con la trasgressione. Nemmeno deve essere confuso con il millenarismo, che alla nostalgia sostituisce l’attesa, più o meno attiva, di una riconciliazione, la quale può venire comunque solo da Dio e solo col suo intervento. La comparsa dell’utopismo sancisce invece la fine della dipendenza dell’uomo dal rapporto con Dio, rapporto condizionato dalla colpa originaria, e inaugura un atteggiamento laico nei confronti della realtà sociale e della natura, in base al quale il riscatto e la felicità possono essere perseguiti con le sole forze terrene. Lo sguardo, nell’utopia, non è più rivolto indietro, al paradiso perduto, e nemmeno è teso a cogliere nel futuro i segni di un nuovo avvento: punta avanti, ma ad alzo d’uomo, nel convincimento di una possibile redenzione umana del mondo.
La laicizzazione di questo convincimento, e il suo evolvere in un senso spiccatamente scientifico-tecnicistico, hanno costituito il filo conduttore della nostra conversazione. A sua volta la connotazione particolare che l’utopismo assume ci fornisce un’ulteriore chiave di lettura delle trasformazioni che caratterizzano il pensiero rinascimentale. Per evidenziare di questo percorso credo possano tornare utili le date. L’Utopia di Tommaso Moro viene edita nel 1516, tre anni dopo il Principe di Machiavelli e trent’anni dopo la prima stesura dell’Arcadia di Sannazaro (la prima edizione a stampa di quest’opera compare però solo nel 1501) e mezzo secolo dopo la comparsa del Trattato di Architettura del Filarete. La città del sole di Campanella è composta nella versione in lingua italiana nel 1602 (ma viene pubblicata, in latino, nel 1615), mentre nel 1626 comincia a circolare, incompleta, la Nuova Atlantide di Bacone. Tra l’opera di Moro e quella di Bacone vedono la luce innumerevoli altri progetti o descrizioni di società alternative, tra le quali quelle di Anton Francesco Doni, di Francesco Patrizi, di Ludovico Agostini, e la Cristianopoli di Joan Valentin Andreae. Una fioritura impressionante, che esplode in una miriade di scelte contraddittorie, quasi fosse stata data via libera ad una urgenza critica e ad una fantasia costruttiva imbavagliate per secoli.
Ho esteso il raffronto cronologico all’Arcadia di Sannazaro perché, pur non rientrando assolutamente nella dimensione dell’utopismo, quest’opera mi sembra comunque introdurre uno stacco, una novità rispetto ai paesi di Cuccagna o ai mondi alla rovescia nei quali questa urgenza e questa fantasia erano state costrette nell’età medievale. L’Arcadia è un’altra possibile risposta, alternativa a quella dell’Utopia e altrettanto irrealistica, alla coscienza della inaccettabilità del mondo così com’è risvegliata dall’umanesimo. L’idealizzazione di una bucolicità pastorale e pre-agricola rappresenta, al di là dello stereotipo letterario e della scenografia posticcia, una resistenza all’obbligo performativo che caratterizza la rinascente cultura occidentale. Non soltanto: è la scelta per un eterno presente, svincolato da progetti e proiezioni nel domani, nel quale l’individuo è sovrano del suo tempo e della sua attività. In sostanza, possiamo leggere il filone arcadico, che ha una tradizione antichissima ma che nella cultura occidentale post-classica viene rinverdito solo alla fine del ‘400 (e che conosce lungo tutto il cinquecento ed oltre un notevole successo; al di là delle riprese che ne fanno Tasso e Guarino, l’Arcadia di Sannazaro conosce prima della fine del secolo ben sessantasei edizioni!), come l’altro esito della critica radicale intrinseca al pensiero umanistico, quello meno ottimista, che non si indirizza al futuro e non inneggia alla scienza, ma rifiuta la cultura del lavoro e la civiltà urbana, ovvero quei presupposti della organizzazione sociale ed economica attorno ai quali ruota ogni progetto utopico.
Ben diversi sono invece i legami dell’utopismo con l’opera del Filerete, proprio perché la città è l’immagine che meglio si presta, in termini concreti, ad esprimere i limiti estremi ai quali può essere spinto “l’essere sociale” integrale. Una componente utopistica è implicita in ogni progetto di organizzazione urbanistica, e la si può rintracciare sin dai primordi della cultura occidentale. Gli urbanisti non hanno atteso il Rinascimento per immaginare un dominio, un’organizzazione dello spazio che sottragga quest’ultimo all’arbitrio naturale. Già Ippodamo di Mileto progettava alla fine del IV secolo a.C. città dimensionate per un numero ideale di abitanti (diecimila), tracciate su un impianto ad assi ortogonali e suddivise in aree a destinazione specifica (sacre, pubbliche, private, commerciali o produttive), in alcune delle quali era esclusa la proprietà privata. In questo modo infrangeva una tradizione urbanistica comune alla Grecia arcaica, alle grandi metropoli asiatiche e oggi ancora alle città nordafricane, meno soggetta al calcolo che a motivi organici. Nelle città tradizionali le vie si adattavano alle necessità del luogo, la linea retta era sconosciuta e prevaleva la curva, in sintonia con un sentire in cui dominante era l’elemento femminile, la Gea, la terra. Ippodamo non ha introdotto la linea o l’angolo retto, ma ne ha cambiato la funzione, trasferendoli dall’architettura all’urbanistica, sottomettendo alla legge geometrica non più un tempio o un monumento, ma il disegno stesso della città, le strade, le piazze, le abitazioni e gli abitanti. O più precisamente, nei suoi progetti la linea e gli angoli, che già erano presenti anche in città orientali, invece di partecipare di un simbolismo religioso hanno la funzione contraria: quella di imporre l’ordine profano della razionalità alla dimora degli uomini. Una volta desacralizzato l’angolo cambia statuto, organizza la città in sistema: stabilisce la residenza umana su una terra nuova, quella delle matematiche.
Il Filerete raccoglie il testimone da Ippodamo e dai suoi epigoni di età ellenistica per rilanciare il progetto di città ideale. La sua Sforzinda è debitrice senz’altro, anche se non mancano le ascendenze cosmologiche medioevali (la sovrapposizione di due quadrati con rotazione dei vertici, per ottenere lo schema stellare e moltiplicare il numero dei lati, in una tensione verso la forma perfetta, senza principio e senza fine – quella circolare – all’interno della quale possa essere iscritto un tracciato a scacchiera), delle idee innovative di Leon Battista Alberti e del Brunelleschi, delle spinte autentiche cioè delle idealità civili che si respirano a Firenze nella prima metà del ‘400, ma anche del ripiegamento del pensiero verso la costruzione teorica delle società-città quando viene meno la concretezza di un impegno attuale. E proprio questa è la caratteristica che maggiormente lega il suo progetto alla futura letteratura utopica.
Le teorizzazioni e le immagini della città ideale si moltiplicano nel corso della Rinascenza. Ma quanto più avanza il progetto di razionalizzazione architettonica, tanto più queste città sembrano spopolarsi, fino alla perfezione silenzio assoluto della Città Ideale del palazzo ducale di Urbino. Il gusto per la città perfetta può sfociare in quello per il deserto. E qui sta invece la distanza tra l’utopia cinquecentesca e i modelli urbanistici ideali dell’umanesimo.
Ho inserito nel percorso di approssimazione al genere utopico anche il nome e l’opera di Machiavelli. Non credo sia una forzatura. Pur essendo stato interpretato in chiave di “realismo politico” il cancelliere fiorentino non è poi così lontano dai progettisti di città ideali. Machiavelli e Moro rappresentano infatti due diverse facce di una stessa idea della politica. Intanto ereditano entrambi dal secolo precedente la convinzione che sia l’uomo, e non la volontà divina, a organizzare e decidere i rapporti interumani. Machiavelli ufficializza questo convincimento sottolineando l’autonomia della politica dalla morale. Moro non sembra avere ancora scisso il legame, ma in sostanza, proprio opponendo alla realtà di fatto un non-luogo si prende tutta la libertà e la distanza possibile. Entrambi poi mettono in campo degli esperimenti politico-sociali. L’uno calato in una sorta di realtà metafisica, nella quale il Principe, il popolo, sono idee, figure geometriche alla Piero della Francesca, rivestite di attributi “realistici”; l’altro spostato in una meta-realtà, anch’essa peraltro immobile e geometricamente strutturata. In Moro abbiamo infatti già il laboratorio vero e proprio, nel quale vengono riprodotte artificialmente le condizioni ideali e tutto è matematicamente ordinato. Machiavelli fa invece della realtà un laboratorio, riconducendola a leggi e schemi di interpretazione fondati sulla fissità delle “naturali tendenze”. Ciò che accomuna insomma i due cancellieri è l’idea di stato come entità “artificiale”, convenzionale: e anche in Machiavelli, per quanto in contraddizione ciò possa apparire con il modello ciclico della storia da lui assunto, questo artificio costituisce l’elemento “virtuoso”, il margine nuovo di libertà da organizzare e contrapporre al determinismo della Fortuna.
Come l’Italia del Principe, il mondo di Utopia rivelato da Tommaso Moro è quanto di più lontano si possa immaginare dal paesaggio bucolico e mansuetamente selvaggio di Arcadia, ma non è nemmeno del tutto prossimo a quello di Sforzinda. Le cinquantaquattro città dell’isola sono perfettamente identiche, edificate sulla base dello stesso progetto urbanistico. L’economia è essenzialmente agricola, non esiste proprietà privata ed è assente il denaro, gli scambi riguardano solo i beni primari e avvengono in natura, tra una città e l’altra. Tutto funziona secondo regole minuziose, e il governo controlla ogni aspetto della vita economica, sociale e culturale, nonché di quella famigliare e privata, dalle scelte di accoppiamento al numero dei figli, dall’abbigliamento all’eutanasia. È una perfetta esemplificazione del passaggio dalla comunità organica alla società organizzata, nella quale già compaiono gli elementi portanti della società moderna: pianificazione della produzione, religione del lavoro, organizzazione del tempo libero. Si tratta naturalmente di un modello di transizione, che nasce tra l’altro da una reazione alla novità, al dinamismo economico, e al quale non sono affatto sottesi il culto della scienza e della tecnica e l’ideologia del progresso. Il rifiuto della proprietà privata non è ispirato da suggestioni comunistiche, ma da recriminazioni comunitarie: la privatizzazione delle campagne inglesi e la cancellazione dei diritti e degli usi comunitari erano ritenuti da Moro responsabili dello sfascio economico e morale della sua epoca.
Più che un mondo nuovo Utopia è un mondo immobile, cristallizzato in una dimensione ibrida tra il rurale e l’urbano, e chiuso ai cambiamenti. Non solo è in nessun luogo, ma è sbalzato fuori del tempo. Anche il lavoro manuale, che pure viene esteso a tutti (o quasi: ne sono esonerati coloro che mostrano particolare inclinazione agli studi) e per ciò stesso assunto a nuova dignità, è in fondo subìto come necessario, anziché come realizzante, e imposto dalla pressione sociale (“l’essere sotto gli occhi di tutti genera la necessità di dedicarsi al lavoro consueto”). Tuttavia questo mondo appare già radicalmente diverso da quello che con ogni probabilità ha costituito il suo modello, l’Atlantide platonica. Là tutto nasceva da un superiore ideale di Giustizia ed era mirato alla sua reificazione: le istituzioni e gli individui erano pensati e plasmati per agire all’interno di un contesto organicistico e in funzione di esso, lo stato non era uno strumento per la felicità dei cittadini ma il fine stesso del loro esistere, una superiore entità divinizzata. Utopia invece, pur proponendo una soluzione antistorica, nasce dalla considerazione dei bisogni reali degli uomini, delle storture vere della società. Quello che propone è una sorta di “programma minimo” per l’estensione universale di una “dignità umana” che l’umanesimo riteneva di avere riscoperta, ma che in realtà aveva rifondata su un assunto completamente nuovo: l’emancipazione di tutta l’umanità dal bisogno. Confrontata a quello di Platone, e rapportata alla situazione di degrado alla quale vuole porsi in alternativa, lo repubblica utopiana sembra addirittura già rappresentare un modello liberale, a dispetto della minuziosità dei regolamenti e del controllo esteso ad ogni aspetto della vita sociale
Per Moro la liberazione degli uomini dalla necessità è soprattutto questione di giustizia sociale. L’abolizione della proprietà privata e l’obbligo del lavoro riequilibrano anche i rapporti di potere, rendono impossibile ogni forma di sopraffazione e di dominio e consentono la maturazione di una libera coscienza (in Utopia è concessa la più ampia libertà di professione religiosa e di opinione). La sua è una società che garantisce una sopravvivenza appunto dignitosa, distribuendo più equamente sia la fatica che i suoi prodotti. Ma è un quadro nel quale hanno poco spazio gli entusiasmi e l’innovazione, e che appare dettato piuttosto da una statica praticità
Tutt’altra aria si respira invece nelle visioni utopiche di Tommaso Campanella e di Francesco Bacone. A distanza di un secolo che ha visto di tutto, viaggi intorno al globo e rivoluzioni astronomiche, rivolte contadine e riforme religiose, esplosioni di creatività artistica e abissi di intolleranza, ma che fondamentalmente ha assistito alla dissoluzione di un mondo di certezze senza che un altro sia venuto a sostituirlo, i progetti ideali sono quanto mai di attualità: e a differenza, o almeno in anticipo sulla società reale, appaiono animati, nella loro varietà, da un’identica fiducia nel sapere scientifico e soprattutto nelle sue applicazioni pratiche. (Per inciso, anche in un pensatore come Bruno, non direttamente coinvolto nella letteratura utopistica, la concezione di altri mondi possibili, magari più belli e più giusti e più ordinati del nostro, ha un forte legame con la spinta ad immaginare utopie).
Campanella, come Moro, ha come obiettivo prioritario l’abolizione della disuguaglianza: la sua società è anzi più radicalmente egualitaria di quella degli utopiani, e assai meno libera. In luogo della pacatezza e del distacco dell’umanista qui ferve però l’entusiasmo del mistico e del rivoluzionario, nutrito di sogni messianici, di cristianesimo platonizzante e di superstizione cabalistica ma anche, ed è questo che a noi interessa, di una fede incondizionata nella conoscenza come fonte di progresso. Per poter ri-organizzare dalle fondamenta la società Campanella elimina anche l’ultimo baluardo della comunità organica medievale, quell’istituto familiare che in Utopia costituiva ancora la base della struttura economica e politica. Poi procede a ricostruire, con rigore davvero scientifico. Le leggi sono poche e chiare, la dissidenza e la delinquenza non hanno spazio; per chi non si conforma c’è la pena di morte, mentre non esistono prigioni (la Città del Sole è scritto durante una carcerazione protrattasi per ventisette anni). La popolazione è ripartita per gruppi decimali, decurie, centurie ecc …, il che significa aggregazione numerica e non affettiva, e vive secondo i principi di un rigido comunismo: liquidato con la proprietà l’amor proprio, resta solo l’interesse comune. Non esistono differenze di casta o disparità di sesso, e niente è lasciato alla discrezione dei singoli, meno che mai il matrimonio e la procreazione, subordinati ad un preciso programma eugenetico. L’economia è prevalentemente agricola, il denaro non serve, il lavoro è obbligatorio per tutti, ma ridotto a quattro ore giornaliere. Tutto funziona come un perfetto meccanismo, in virtù soprattutto dell’eccezionale livello generalizzato dell’istruzione.
Per Campanella l’essere è associato al sapere, e il sapere è relativo alla natura. La scienza lo affascina. I Solariani, come gli abitanti di Utopia, ignorano la Rivelazione, ma la loro conoscenza delle leggi naturali li porta ad approssimarsi comunque alla vera fede, perché la legge divina si identifica con la legge di natura. La città è una vetrina della scienza, al tempo stesso museo, planetario, enciclopedia. Le mura che la circondano sono coperte di diagrammi, di scritte e di graffiti didattici: i Solariani possono così apprendere mentre camminano, abbinando l’esercizio fisico a quello mentale. Ma soprattutto possono acquisire competenze tecniche, che si traducono poi in invenzioni e strumenti per il progresso collettivo. Per la città circolano carri o aratri a vela, battelli a pale, macchine volanti. Tutti debbono studiare di tutto e apprendere tutti i mestieri, in modo da poter poi scegliere l’attività più congeniale e contribuire nella maniera più proficua ed appagante al benessere comune. Il lavoro e lo studio diventano professione di fede e di socialità: siamo di fronte all’estremo tentativo rinascimentale di conciliare religione e cultura scientifica, attribuendo a quest’ultima una valenza metafisica, assumendola ad attributo divino. Campanella è l’ultimo a crederlo e a provarci. Dopo di lui maturerà, sia pure lentamente, il divorzio: la scienza diverrà un attributo essenzialmente umano, una verità seconda con l’ambizione sempre più esplicita di diventare la prima e l’unica, e a costituirsi in dimensione metafisica autonoma.
In Campanella è presente comunque anche un’altra dicotomia: quella tra utopismo e concezione vitalistica della natura. La credenza in una natura animata e senziente, al pari dell’uomo, sia pure ad un diverso livello di sensibilità, lo porta infatti a fondare la vera sapienza sul consenso che lega tra loro tutti gli elementi naturali, e che rende possibili le operazioni magiche. Sono i sensi i tramiti della conoscenza, e con i sensi si coglie la diversità, l’individualità, la corruttibilità delle cose, anche se poi tutto viene assunto nel fine unico che le dirige. Questo atteggiamento gnoseologico non solo mantiene Campanella ai margini della “modernità”, in una terra di nessuno che ancora non contempla l’idea di dominio sulla natura, ma conferisce al suo utopismo tratti ancora medioevali. Per gli utopisti moderni, infatti, non è più la natura terrestre il riferimento. Questa è insieme caso e fatalità, armonia e disordine, protezione e violenza. Per essere compatibile coi progetti matematizzanti degli utopisti essa deve presentarsi invece come perfetta e inalterabile, ignorare la morte, la decadenza e la decrepitezza. La perfezione che ad essa si attribuisce è quella delle equazioni, e non ha alcun rapporto con lo spettacolo che il mondo offre.
Il modello di natura degli utopisti non è dunque più quello della terra, ma piuttosto quello del cielo. Le configurazioni del cielo si presentano senza cambiamenti attraverso i secoli, la sfera celeste è quella in cui regnano la necessità, la legge, il numero e la regolarità. In quella sublunare gli avvenimenti sono invece assurdi e il futuro è imprevedibile, regnano il caos e la libertà, o almeno leggi così nascoste, numerose e contraddittorie che non si riesce a venirne a capo. Ora la scelta è di sottomettersi a leggi che non sono più quelle della vita sublunare, ma quelle dettate dall’uomo stesso, ricalcandole dal cosmo. E di conseguenza il cosmo, che prima era dimora inviolabile degli dei, diventa materia di scienza. Se si può prevedere il passaggio dei corpi celesti, calcolare le loro rivoluzioni e relazioni, si può arrivare a comprendere la legge del destino, il che consente di sottrarsi a quest’ultimo e governare lo spazio della libertà.
Questa concezione caratterizza un’altra storia, che è la storia della modernità, della quale fa già parte Francesco Bacone. Se possiamo idealmente assumere Bruno e Campanella come punti d’arrivo, come il concentrato di tutte le potenzialità aperte dal Rinascimento e dischiuse ad ogni tipo di scelta gnoseologica e operativa, Bacone è invece un punto di partenza, e personifica in qualche modo la scelta già attuata, quella in direzione di un primato in qualche maniera nuovamente metafisico della scienza, e del passaggio della tecnica da mezzo a fine, da corollario a natura stessa ultima del pensiero.
La differenza che corre tra l’Utopia di Moro e la Bensalem di Bacone è già evidente nella diversa struttura compositiva delle due opere. Laddove il primo premetteva alla descrizione di Utopia quella di una campagna inglese immiserita dalle recinzioni, Bacone stacca dal suo mondo e dal suo tempo e ci fa approdare a Bensalem attraverso le peripezie e le meraviglie di un lungo viaggio marittimo. Non si tratta soltanto un espediente letterario, nato dalla suggestione dei racconti delle grandi esplorazioni oceaniche e destinato ad una grande fortuna nella letteratura utopica: è l’indizio di una mentalità avventurosa e avida di novità. Queste novità non concernono in apparenza l’assetto politico e sociale: la società bensalemita è strutturata gerarchicamente, governata da una monarchia, fondata sull’istituto famigliare e sulla proprietà privata, organizzata economicamente sulla circolazione monetaria e attorno ad un equilibrato sviluppo di agricoltura, commercio e industria. Nulla di strano e di originale, non fosse che siamo agli inizi del Seicento, e questa è l’immagine di una società sette-ottocentesca.
Al contrario di Utopia e della Città del Sole, Bensalem conosce il cristianesimo, che addirittura è religione di Stato; ma questo sembra più un modo per liquidare il problema religioso che per porlo. Esiste infatti sull’isola una notevole tolleranza in materia, che alla luce del quadro complessivo finisce per apparire persino indifferenza; come a dire che il problema religioso in quanto professione di una particolare fede è già superato, appartiene all’ambito delle coscienze individuali e non ha incidenza sociale. La religiosità di Bacone si manifesta in una dimensione totalmente diversa: nel culto della scienza e della tecnica. Tutta la sua costruzione utopica non è in fondo che un pretesto, una cornice nella quale incastonare la Casa di Salomone, fiera delle meraviglie tecnologiche e centro nevralgico del paese. È qui che Bacone arriva ad una sorta di rapimento mistico, in una elencazione entusiasta dei progressi scientifici compiuti dai bensalemiti: forze della natura imbrigliate per produrre energia e per azionare macchinari, laboratori sperimentali dove si praticano gli studi anatomici (compresa la vivisezione) e l’ingegneria genetica e si riproducono i fenomeni naturali, camere sotterranee refrigeranti e torri di osservazione meteorologica alte mezzo miglio, dissalatori marini e camere iperbariche, fucine per la combinazione di nuove leghe artificiali. Le ricaduta tecnologica è una vera delirante apoteosi: velivoli, sottomarini, realtà virtuale, apparecchi acustici ed ottici raffinatissimi, laser, riproduttori di suoni. Siamo in presenza di un raptus di creatività che va letto come una vera e propria sfida alla creazione originaria. “Alla natura si comanda solo obbedendole”, recita il motto baconiano: ma intanto quella che vediamo prefigurata in Bensalem è già la natura seconda, artificiale, che non si limita ad assecondare i fenomeni ma li imita, li riproduce, li controlla, li amplifica e, soprattutto, ne crea di assolutamente nuovi.
In un elenco annesso al testo della Nuova Atlantide e intitolato Magnalia Naturae praecipue quad usus humanos Bacone contrappone espressamente quelle che chiama “grandi opere della natura” ai Magnalia dei citati nel Nuovo e nell’Antico testamento: dove per natura si intende ormai automaticamente la conoscenza delle forme della natura (quella che per Bacone è l’unica, vera scienza), e per estensione la sua ricaduta performativa (quello che per Bacone è l’unico vero fine della scienza, la tecnica). È sufficiente scorrere l’elenco, una tabella dei fini e delle priorità future della scienza, per capire dove andrà a parare questa sovrapposizione: tra le grandi conquiste che saranno rese possibili dalla (seconda) natura troviamo il prolungamento della vita, la restituzione della giovinezza, la cura delle malattie incurabili, la farmacologia antidolorifica, la modificazione dell’aspetto fisico, della magrezza e della grassezza, la modificazione della statura e dei caratteri somatici, l’accrescimento delle facoltà intellettuali, la modificazione di corpi in corpi differenti, la fabbricazione di nuove specie e il trapianto di una specie in un’altra, le modificazioni dell’atmosfera e del clima, ecc… Sembra di leggere uno di quei testi della tradizione magico-alchemica, come il De occulta philosophia di Agrippa, contro i quali Bacone violentemente polemizzava: ma sembra anche di leggere un resoconto degli interessi, dei campi di attività e dei risultati, qualche volta indesiderati, della scienza contemporanea. È l’una e l’altra cosa, perché riassume ed invera i concetti del sapere come potenza e della scienza come ministra della natura, comuni ad entrambe le dimensioni. In qualche modo può essere considerato come un passaggio di consegne, una trasmissione degli stessi compiti da un mondo chiuso e intriso di religiosità, vitalistica o trascendente, ad uno desacralizzato e aperto alla profanazione.
Con Bacone possiamo considerare finalmente esaurito il nostro percorso. Uno degli assunti che mi ero proposto di verificare postulava l’iscrizione della nuova mentalità scientifica in una continuità di fatto con la sostanza del pensiero biblico-cristiano. Il filosofo inglese ce ne offre tutte le conferme desiderabili. Nel “De dignitate et augmentis scientiarum” spara a zero su tutta la filosofia antica, accomunando Aristotele e Platone (e quest’ultimo più del primo) in un giudizio ferocemente negativo. Le motivazioni di questo attacco non sono precisamente scientifiche: l’accusa rivolta alla speculazione platonico-aristotelica è quella di aver presunto troppo dalla mente umana, e quindi di aver promosso una conoscenza deduttiva della natura, in luogo di una induzione che umilmente proceda a scoprire l’impronta di Dio nelle cose. La pretesa di leggere il creato con le pure risorse della nostra mente ha prodotto solo sterilità, non soltanto perché infondata, ma soprattutto perché ha finito inevitabilmente per staccarsi dai bisogni e dalle sofferenze umane, alle quali invece la reale conoscenza deve dare risposte.
Il progetto tecnico-scientifico col quale Bacone inaugura l’età moderna passa proprio per questo anelito di riscatto, per questo rifiuto dell’accettazione della condizione dell’uomo conseguente il peccato originale. Di qui il rifiuto della speculazione puramente teoretica, del vedere contemplativo, in nome di un fare operativo che parte dalla scoperta delle leggi di natura per una riscossa escatologica già possibile su questa terra, per un ritorno “almeno” al paradiso terrestre. Ed è questo il punto cruciale, lo snodo che conduce alla laicizzazione della scienza ed insieme alla sua autonoma consacrazione. Nella Nuova Atlantide si prefigurano in fondo i primi passi verso questa redenzione terrena: e la novità consiste nel proiettare la redenzione non più nella trascendenza, ma in un futuro immanente, che non è da attendere ma da realizzare, e che può essere realizzato se ci si prefiggono scopi attuabili a breve scadenza, compatibili con le potenzialità acquisite. La subordinazione del sapere al potere significa proprio questo: conoscere in funzione di una progettualità, di un qualcosa che si deve far accadere, di una manipolazione della natura che diventa compito religioso. Ma progettare in funzione di un principio operativistico altro non significa che abbracciare l’idea di un progresso possibile, di un cammino che sposta costantemente in avanti l’orizzonte al quale si guarda, di una fuga prospettica che rompe la finitezza dello spazio e l’immobilità del tempo.
Per ricreare un proprio mondo e un proprio tempo, per dominare cioè la natura, l’uomo ha però necessità di liberarsi dalla presunzione di padroneggiarne le energie primordiali, di penetrarne i segreti organico-vitalistici. Questo era l’errore delle visioni mistico-magiche, alle quali peraltro Bacone riconosce il merito di aver spezzato l’immobilismo e la passività della speculazione classica. Dopo averla sottratta all’esclusivo controllo divino la natura andava anche devitalizzata, oggettivata, per poter essere affrontata con metodi d’indagine nuovi, che riescano anche strumenti efficaci per la prassi. Va assoggettata già all’atto conoscitivo ad una concezione quantitativa, matematica, ingabbiata in linee, punti, forze e misure: la ricerca sulla natura ha la sua migliore attuazione quando il dato fisico si conclude in quello matematico. Quindi una concezione meccanicistica, che traduce l’ordine qualitativo in una sequenza quantitativa, e abbandona la sterile ricerca delle cause prime per una più umile, ma ben diversamente efficace, ricerca delle cause seconde, quelle empiricamente e sperimentalmente verificabili. “Fine della nostra istituzione è la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose per allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo” dice il Padre della casa di Salomone. Fine dell’istituzione è la conoscenza, ma fine ultimo della conoscenza è la realizzazione. Non di ogni obiettivo lecito, secondo una qualche morale, divina o naturale, eteronomamente applicata alla scienza, ma di ogni obiettivo possibile, secondo una finalità che diventa autonoma e intrinseca alla scienza stessa. Ma qui la parola passa a Galileo e a Cartesio, che saranno i protagonisti delle prossime conversazioni.
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