Paura e meraviglia nell’occidente medioevale

di Paolo Repetto, 30 maggio 2010

Paura e meraviglia nell'occidente medioevaleGli studi che ho raccolto in questa pubblicazione sono comparsi quasi quarant’anni fa come capitoli separati di un’opera collettanea, la Storia d’Italia e d’Europa, edita dalla casa editrice Jaka Book. Li ho rielaborati integrando pezzi inediti e inserendo alcune pagine di raccordo, ma lasciando sostanzialmente invariati sia la forma che i contenuti. Ho soltanto cercato di far emergere quel filo logico di continuità che nella stesura originaria viaggiava molto sotterraneo.

A distanza di tanto tempo, nel corso del quale è fiorita una cospicua letteratura su tematiche che allora apparivano lontanissime dallo spirito e dagli interessi correnti, la trattazione potrà risultare decisamente povera e datata: ma il mio intento non era all’epoca e meno che mai vuole essere oggi quello di fornire materiali o idee originali al dibattito e alla ricerca. Volevo semplicemente raccontare da un’angolatura prospettica poco frequentata un mondo, un’epoca, una società che tanto remoti oggi appaiono, ma che sono alla radice del nostro modo d’essere e di pensare. Ciò che avevo in mente era una serie di bozzetti ispirati alle opere di Brueghel, di Bosch, di Dürer. Nella consapevolezza dei miei limiti, naturalmente, che al cospetto di tanta grandezza risultano ancora più evidenti.

 

Dedico questo lavoro ai miei studenti, a quel migliaio di ragazzi coi quali ho condiviso per tantissimi anni la gran parte delle giornate, e ai quali spero di avere trasmesso il un po’ del mio entusiasmo e della mia curiosità.

 

Una parte di questo saggio è stata pubblicata, come capitolo a se stante, col titolo Aspetti quotidiani della mentalità(cap. XIV) in AAVV – Storia d’Italia e d’Europa, vol. 2 (Apogeo e crisi del Medioevo, 1978), edito a Milano da Jaka Book.

I contributi interamente nuovi sono costituiti dal capitolo iniziale e da quello centrale (cap. 8). Il resto è rimasto invariato, salve alcune integrazioni nel capitolo 2. La bibliografia, all’epoca della pubblicazione estremamente povera, è stata aggiornata.

Aspetti della mentalità medioevale

Dal mito al logos

Illuminazione ed esperienza

Il dualismo

La percezione dello spazio e del tempo

Incubi, sogni e fobie

Medicina e malattia

La lebbra

La fame

Povertà e miseria

Dai poveri di Cristo ai miserabili

Mostri e portenti

Il diavolo in agguato

L’anticristo

Altre presenze

La percezione del diverso nella mentalità medioevale

Gli Ungari

I Vichinghi

L’Islam

I Mongoli

Presenze inquietanti: i pazzi

Presenze invisibili: gli schiavi

Presenze itineranti: i pellegrini

Presenze odiate: gli Ebrei

Nuove inquietanti presenze: gli zingari

I sogni di liberazione:  viaggi e paesi immaginari

Le conoscenze geografiche

Bibliografia essenziale

Aspetti della mentalità medioevale

Nell’età classica e in quella medioevale gli uomini dell’Occidente vivono in un universo angusto, chiuso verso l’esterno da un’ermetica volta celeste e per la gran parte incognito anche all’interno: ma entro quel guscio di noce le esperienze possibili sono davvero infinite, perché non esiste un preciso confine tra il naturale e il soprannaturale, tra il reale e il fantastico. I limiti delle conoscenze scientifiche, naturalistiche e geografiche fanno sì che al di là del ristretto spazio conosciuto si apra un mondo nel quale ogni portento ed ogni mostruosità hanno legittima cittadinanza, e che la paura e la meraviglia non si esprimano soltanto nei confronti del remoto, ma possano abitare ogni attimo e ogni aspetto della quotidianità. Ciò non significa che quegli uomini vivano un costante stato di incertezza: le loro esperienze si compongono infatti nel quadro di un “incanto” nel quale tutto trova spiegazione, compreso il male.

C’è differenza però tra i modi in cui la “composizione” avviene nel mondo antico e in quello medioevale: nel primo prevale una disposizione conoscitiva “aperta”, coerente con un processo espansionistico rivolto all’esterno; nel secondo, almeno fino al XII secolo, si afferma piuttosto la ricerca di una coesione difensiva: una resistenza nei confronti dell’incognito, in luogo della curiosità. Mentre i greci prima e i romani poi mirano al dominio politico ed economico, ma lasciano libero corso alle credenze, il modello medioevale contempla la coabitazione dei popoli ma non quella delle idee. Il processo di inclusione in quella che sarà l’identità “europea” passa attraverso un allineamento delle credenze, e provoca automaticamente delle esclusioni: ciò che era prima avvertito come differenza diventa ora diversità.

L’estroversione occidentale, che era stata inaugurata dalla scienza e dalla filosofia antica e si era poi assopita durante il medioevo, riesplode alla fine di quest’ultimo: questa volta però l’originaria “composizione” nell’incanto si frantuma e il quadro viene ricomposto secondo regole geometriche e matematiche. Vengono tracciate delle linee là dove prima i confini erano incerti (nella scienza, con la definizione del metodo e con l’adozione di unità di misura universali, che non hanno più nulla a che vedere con una natura e un territorio specifici, vedi la geografia, con confini che non sono più naturali o antropologici, ma politici, ecc…). Quando si tracciano delle linee, però, si escludono degli spazi e si creano gli interstizi della storia. Proprio il variegato popolo di entità e di persone che riempie questi spazi marginali sarà l’oggetto del nostro racconto.

 

 

Dal mito al logos

Per capire come l’uomo medioevale viva il suo rapporto con tutto ciò che, vero o fantastico, costituisce l’oggetto del suo immaginario quotidiano (le paure e le speranze, la natura e il corpo, il senso del tempo e dello spazio), è necessario prendere le mosse dall’atteggiamento conoscitivo che aveva caratterizzato l’età precedente. Nell’occidente classico infatti, a partire almeno dal V secolo a.C., alla religione politeistica diffusa a livello popolare si era affiancata, ed entro certi limiti contrapposta, nelle classi colte un’attitudine “scientifica” e laica, che aveva dirottato l’attenzione dalle nebbie dell’Olimpo alla realtà naturale e all’esistenza terrena. Questa laicità, oltre a costituire una disposizione inedita di per sé, introduceva un elemento, la coesistenza appunto e la contrapposizione di vie e finalità diverse alla conoscenza, che era del tutto assente nel resto del mondo antico. La religiosità orientale, anche nelle versioni “riformate” quali il buddismo o il confucianesimo, e compreso, a dispetto delle apparenze, l’ebraismo, teorizzava infatti la fuga dal mondo, il rifiuto della materialità e della esteriorità e la concentrazione sulla sintonia interiore: e questo valeva sia per le formulazioni religiose più semplici che ai livelli speculativi più complessi. In modi e con esiti naturalmente differenti, perseguiva la via alla salvezza attraverso il recupero dell’interiorità e a discapito della conoscenza esterna, laddove nell’area mediterranea occidentale il superamento razionalistico dell’apparenza era invece mirato ad arrivare direttamente alla “cosa in sé”, alla conquista cioè della “verità”.

La divaricazione occidentale si attua dunque tra una religione mitologica, che proietta i problemi e le loro spiegazioni in una dimensione sovraumana, e un pensiero logico, che formula gli uni e ricerca le altre all’interno di un ambito naturale: ma il secondo consegue dalla prima, o meglio, dalla stessa peculiare esperienza di vita. Il politeismo ellenico originario aveva infatti tradotto il fondamento naturalistico comune ad ogni sentire religioso in un pantheon antropomorfo. Era stato orientato in questo senso dalle caratteristiche di un territorio nel quale la vita, il raccolto, le comunicazioni non dipendono essenzialmente dal regime di un fiume o da qualche altra forza naturale, ma dalla volontà umana di intervenire sulla natura e dalla sua capacità di addomesticarla con la tecnica. Probabilmente aveva concorso a questo sviluppo peculiare anche l’insediamento recente di popolazioni non originarie dell’Ellade, quindi meno vincolate ad un rapporto sacrale con i luoghi. La concezione del divino che caratterizza il politeismo occidentale non contempla dunque una trascendenza, ma semplicemente un potenziamento delle caratteristiche umane: gli dei sono un po’ più forti, abitano un po’ più in alto, hanno poteri particolari, ma in definitiva vivono sulla terra, hanno sembiante umano e condividono con gli uomini limiti, passioni, vizi e difetti. Sono divinità accessibili, e possono essere invocate ma anche sfidate, giocando sulle giuste alleanze e sui loro contrasti interni, e qualche volte sconfitte o ingannate.

I filosofi presocratici avevano liquidata per un verso tutta la componente mitopoietica di questo sentire religioso, ma dall’altro ne avevano spinti alle estreme conseguenze i presupposti naturalistici. Se la natura non è sacra la si può indagare e conoscere, e una volta conosciuta la si può manipolare e asservire. Non a caso la nuova interpretazione laica del mondo era stata sviluppata originariamente nell’ambiente delle colonie greche, ed era promossa da persone sradicate dalla patria originaria, dalle tradizioni, dalla religio loci. Questa nuova attitudine razionalista era stata poi orientata all’indagine interiore da Socrate (e percepita come rivoluzionaria, come dimostrano gli attacchi di Aristofane e la fine stessa del filosofo), mentre il discepolo di quest’ultimo, Platone, ne aveva tentata una sistematizzazione. A Platone stavano a cuore essenzialmente i comportamenti etici e politici, ma doveva farli conseguire da un grande quadro cosmologico e da un modello conoscitivo alternativo. E per fare questo (ed evitare la fine di Socrate) doveva mediare, far rientrare in qualche modo dalla finestra, anche se in altro sembiante, ciò che era stato buttato fuori dalla porta, ovvero la dimensione metafisica. Platone aveva mantenuto la desacralizzazione del mondo sul terreno ambiguo di una razionalità mitologizzante, nella quale l’illuminazione (attraverso il riconoscimento) ha ancora la meglio sul graduale percorso induttivo che passa attraverso l’esperienza. Solo con Aristotele il logos si emancipa, a dispetto di tutte le professioni di fede, e diventa la torcia che illumina il cammino dell’esperienza: con lo stagirita si approda ad un atteggiamento conoscitivo fondato eminentemente su una legge di natura, la legge di causalità, e su una dote comune a tutti (o quasi) gli uomini, la razionalità. E questo finisce di scavare il solco che separa da ogni presunzione di causalità soprannaturale. In sostanza, mentre l’aristocratico atteggiamento di Platone, per il quale il sapere (sotto forma di riconoscimento o di illuminazione) è in fondo riservato a pochi, lascia comunque spazio ad un terreno comune con il sentire popolare, in quanto intravede una realtà che sta al di là di quella sensibile, quello più aperto di Aristotele, che parrebbe consonante con quello popolare nel momento in cui dice che il mondo è quel che si vede e si tocca e si sente, traccia invece un confine ben preciso. Elimina ogni causa che non sia quella naturale, e quindi ogni possibilità di lettura alternativa del mondo fenomenico.

Ora, il razionalismo classico, anche a voler prescindere dal livello culturale che esige come precondizione, non ha nulla che possa attrarre i ceti popolari: non comporta una ricaduta evidente e tangibile in termini di scienza e di tecnologia, e nemmeno induce una critica sociale che possa coinvolgere le classi più basse (come accadrà ad esempio per l’Illuminismo). Quale che sia la modalità conoscitiva cui ci si affida, a lavorare sono sempre gli schiavi e i contadini, i servi e gli artigiani: non ci sono macchine che allevino la fatica umana, non c’è ricambio o riscatto sociale. È naturale che rimanga appannaggio dei ceti colti e ricchi. E tuttavia la distanza tra i due modelli di pensiero risulta meno marcata di quanto parrebbe, perché è in parte colmata proprio dal basso, nel segno di una laica praticità quotidiana. Il politeismo popolare non è una religiosità assolutizzante: lascia spazio ad una enorme discrezionalità nel culto e nelle devozioni, e soprattutto è aperto ad ogni innesto. Il sincretismo che caratterizza l’epoca imperiale è già implicito, prima ancora che avvenga l’incontro con i culti e le fedi provenienti dall’oriente, in una religiosità che da un lato non prevede una separazione netta tra il divino e l’umano e dall’altro confina le divinità in una dimensione più marginale che inaccessibile. Anche quando sacrificano agli dei, i greci e i romani, qualche sia la loro condizione sociale, sanno di dover fare affidamento solo su se stessi.

Illuminazione ed esperienza

L’occidente medievale non eredita quell’atteggiamento conoscitivo “laico” che aveva costituito il fondamento ed insieme l’esito del pensiero antico. Dà spazio invece a forme di sensibilità e di percezione del mondo radicalmente diverse, nelle quali le sopravvivenze di una mitologia primordiale sono rivestite di nuovi significati dalla cristianizzazione e dall’affermarsi, a livello di speculazione filosofica, del neoplatonismo.

Nelle sue formulazioni più tarde il neoplatonismo è ancora impegnato a conciliare il carattere totalmente mistico dell’illuminazione (che per Giambico e per la scuola siriaca si risolveva in teurgia) con il razionalismo idealistico. Con un piccolo scarto, tirando al proprio mulino gli argomenti della concorrenza e sostituendo alla soggettività della conquista l’oggettività della rivelazione, anche la patristica greca fa suo lo sforzo di suffragare con le evidenze del pensiero la verità rivelata. Ma al momento del crollo politico e culturale della società antica è la componente non razionalistica originaria del cristianesimo a prevalere. Lo stesso Agostino, mentre teorizza da un lato la perfetta sintonia tra le due modalità di conoscenza, declassa in realtà la ragione ad un ruolo subordinato: la ragione può solo confermare ciò che l’illuminazione divina ci rivela. Nel V secolo, quando la tradizione speculativa occidentale entra in uno stallo destinato a durare secoli, ogni forma di approccio alla divinità, e quindi platonicamente all’essere, su base logica o scientifica è definitivamente rifiutata. Non rimane che rifugiarsi nell’intuizione mistica.

È in quest’ultima versione che il neoplatonismo influenza tutto l’alto medioevo. E lo fa, paradossalmente, anche quando della matrice neoplatonica è ormai lontana la memoria e si torna ad interpretazioni razionalistiche delle Scritture, come nel caso di Scoto Eriugena, o successivamente, nella prima fase del dibattito scolastico. Ma più importante, forse, e senza dubbio più decisivo, è l’influsso che la nuova disposizione conoscitiva viene ad esercitare a un livello culturale inferiore, tra le masse, delle quali coglie e soddisfa più immediatamente le istanze, ed alle quali offre speranze più vive e risposte meno intellettualistiche. L’ascetismo, il misticismo e, a partire dal XII secolo, i movimenti ereticali, sono l’espressione “popolare” dell’indirizzo platonizzante che informa religione e cultura nel primo Medioevo: ne portano alle estreme conseguenze le premesse intuizionistiche e finiscono per determinare la ribellione a quei residuati logici e concettuali che il pensiero scolastico manteneva in vita. Quando, nel XIII secolo, i mutamenti del quadro istituzionale, economico e sociale trovano nell’aristotelismo il loro supporto teoretico, il suggello all’ascesa del nuovo spirito pragmatico e delle prassi che lo personificano, la radicalizzazione delle forme intuizionistiche si configura come la disperata difesa di uno spazio culturale illimitato e accessibile liberamente a tutti. Ed anche se gestito ufficialmente dalla Chiesa, che provvede a popolarlo di simboli e a limitarne l’estensione, questo spazio rimarrà ancora, per tutto il Basso Medio Evo ed oltre, il fondamento del sentire più quotidiano e diffuso.

Non è azzardato quindi affermare che almeno la prima parte del medioevo conosce una singolare coincidenza, sia pure su piani distinti, tra la forma mentis della classe pensante e la disposizione percettiva delle masse popolari. Tale coincidenza è sconosciuta in altre epoche e non va riferita semplicemente ad una vacanza dell’impegno speculativo. Le motivazioni sono ben altre, ben più complesse, definibili solo attraverso l’analisi di una peculiare modalità d’essere nel mondo, e conseguentemente di conoscerlo e valutarlo.

Nel Medioevo la realtà non è più esperita sulla traccia di un logos, di una chiave interpretativa presente al soggetto e inerente l’oggetto, che media la comprensione in termini universalizzati, ma nel contempo ne sancisce i limiti. Nella nuova disposizione eidetica al soggetto è riservato un ruolo passivo, compensato però dalla regressione all’infinito degli orizzonti del conoscibile: il senso dell’esistente gli si offre, gli si impone anzi prepotentemente, trascendendo ogni archetipo logico e rimuovendo di conseguenza le frontiere razionalistiche della oggettività. Il dilatarsi della problematicità, che torna ad investire il mondo nella sua essenza, inficia anche quell’atteggiamento caratteristico dell’ellenismo che aveva spostata la speculazione dai principi fondamentali agli aspetti particolari, introducendo il concetto della specializzazione scientifica e suffragando l’individualismo soggettivistico. Ciò che l’uomo medioevale vuole conoscere è ancora una volta il significato ultimo, la ragione del proprio esistere, soffrire, morire, e la relazione che lo lega alla realtà circostante. In questa direzione egli procede ripartendo dal dato che con maggiore immediatezza e continuità gli è consentito rilevare, quello del movimento, della dialettica intrinseca al reale, e assumendolo a fondamento della propria ricerca e della propria interpretazione. La complessità dell’esistente viene pertanto iscritta e riassunta in un antagonismo ancestrale, in un dualismo cosmogonico sotteso al tutto. L’insieme del mondo, e nella fattispecie la condizione umana, sono intesi come reificazione della bipolarità essenziale del creatore e della creatura e l’angoscia e l’inquietudine che travagliano quest’ultima riflettono la tensione al ricongiungimento, al risanamento della frattura operatasi all’atto creativo.

Alla radice di questa sensibilità ontologica e della disposizione che ne consegue si trova indubbiamente l’eredità di cosmogonie e mitologie arcaiche, nelle quali il reale e l’umano sono esperiti in una patente sistematicità di opposizioni e di tensioni. Nella sua forma primordiale una simile ermeneutica dell’esistente ha costituito un patrimonio comune dell’umanità, in correlazione soprattutto allo sviluppo delle società agro-pastorali, presso le quali la scansione temporale asseconda i ritmi cosmici. Il susseguirsi oppositivo di giorno e notte, di vita e morte, di estate e inverno prefigura una superiore ricorrenza ciclica, alla quale si conforma la periodizzazione umana del tempo. Fino a quando si dedica ad attività sincronizzate sul pulsare cosmico l’uomo può cogliere la necessità dell’avvicendamento; la sua attività e il suo riposo coincidono con l’attività e con il riposo della natura, la sua vita e la sua morte si confondono nella rotazione universale. La sensibilità arcaica, pre-storica, avverte quindi la dualità come esigenza diversificatrice e motrice del reale, al di là di ogni problematizzazione, e l’accetta, anche quando la traduce in chiave mitologica nell’antagonismo di entità superiori.

La ruralizzazione di ritorno del mondo medioevale e il sopraggiungere delle popolazioni barbariche ridanno attualità a queste forme elementari del sentire, confinate dal pensiero classico nelle campagne più povere e remote, e favoriscono la loro adozione, in termini e in misura diversi, a tutti i livelli culturali. Questo recupero viene però mediato da nuovi fattori, che ne stravolgono in sostanza il significato etico e ontologico. Intanto il medioevo occidentale è cristiano, e se pure vede nell’antitesi la peculiare manifestazione dell’esistente ha tratto dal messaggio evangelico quel senso della storia che la ricorrenza dei cicli sembrava negare. Anziché uniformarsi alla successione oppositiva esso mira a cogliere gli strumenti per il suo superamento e per la realizzazione di un’indistinta e immobile totalità finale. Avvertire la struttura bidimensionale del reale implica quindi da un lato l’adeguamento ai suoi ritmi, ma dall’altro lo sforzo di annullare la distanza che intercorre tra le due dimensioni.

Nella formulazione medioevale, inoltre, i residuati indigeni del mito cosmogonico vanno a fondersi con le reminiscenze di dottrine dualistiche importate dall’oriente in epoca tardo imperiale. Il culto misterico di Mitra, ad esempio, ma soprattutto, a partire dal terzo secolo, il manicheismo, con la contrapposizione tra i domini della luce e delle tenebre, del bene e del male. Ciò comporta una radicalizzazione dell’antitesi che viene poco alla volta ad escludere ogni ipotesi di coesistenza bipolare. Si trapassa cioè da una rappresentazione non univoca della creazione, nella quale Dio non è protagonista assoluto, ad un vero e proprio dualismo metafisico. Le ascendenze asiatiche che erano filtrate attraverso l’ebraismo nella mitologia e nella demonologia paleocristiana finiscono in tal modo per essere caricate di significati completamente estranei alle loro valenze originali. Mentre infatti nella mistica orientale le coppie di opposti sono intese come complementari, passibili di mediazione, e la loro distinzione non comporta un giudizio di valore (positivo-negativo), l’ottica dell’occidente medievale mette in rilievo la partecipazione antagonistica del negativo, che si articola fino all’identificazione con il creato stesso, nella sua qualità di “altro da Dio”. Nelle formulazioni più radicali, com’è il caso del Bogomilismo, il mondo è addirittura concepito come opera del genio malefico, alla quale Dio ha prestato soltanto il suo soffio vitale.

La rimozione della divinità creatrice dal reale svaluta automaticamente quest’ultimo, e si pone all’origine di una tensione esistenziale che si concretizza in volontà di fuga dal mondo, nel ripudio della vita e nell’anelito ad una rinascita celeste. L’uomo del medioevo vive in maniera particolarmente drammatica la crisi immanente il suo essere finito, in quanto rapporta il proprio operare e vivere nella relatività al parametro di una presenza illimitata, insistentemente avvertita, anche se mai colta nella sua interezza. Nell’essere stato concepito “a immagine e somiglianza” di Dio egli coglie il segno del proprio destino, l’indizio di una potenzialità di attuazione demandatagli dal creatore. La coscienza del limite non vale affatto a soffocare l’anelito alla trascendenza, ma funge al contrario da stimolo, determinando il rifiuto della condizione terrena e la ricerca di vie e di mediazioni al suo superamento.

Il dualismo

Il processo di riconoscimento del dualismo primordiale interessa con continuità tutta quanta l’epoca medioevale, fino ad offrire da ultimo una lettura degli eventi che trascende l’immediatezza del loro accadere. La risultante finale è quella di un “senso” storico che travalica la “coincidentia oppositorum” e infrange i ritmi ciclici naturali. Tutto ciò che separa da Dio e dalla fenomenologia divina (le tenebre che nascondono il sole, ad esempio) viene ripudiato. La successione oppositiva propria del cosmo naturale, l’immanente armonia dialettica del divenire e del fluire delle cose che costituiva il modello interpretativo del mondo arcaico diviene simulacro di una lotta sovrastorica. La linearizzazione teleologica intervenuta nell’esperienza della storia, nella misura in cui sacrifica alla prospettiva esoterica il significato autonomo degli eventi, si pone a fondamento del carattere antagonistico del dualismo.

Naturalmente, presentando il medioevo tutti i caratteri di una società a cultura agraria, humus ideale per la germinazione o per l’innesto del sentire dualistico, ma al tempo stessa interiormente conscia del ruolo vitale della contrapposizione, un simile processo ha uno sviluppo lentissimo e spesso assai limitato.

Ad ostacolare la ricezione di un senso della vita e del reale dilatabile storicamente interviene anche la trasformazione che investe il regime della proprietà terriera. I piccoli contadini sono progressivamente esclusi dal possesso e reintegrati nel rapporto con la terra in qualità di semplici affidatari dal potere feudale o dall’autorità collettiva del villaggio. In queste condizioni non ha più significato per essi l’aprirsi a prospettive che superino la scadenza stagionale e storicizzino in qualche modo, trascendendo la ripetizione uniforme, il decorso temporale. L’adattamento alla pulsazione naturale non si attua però, come si è detto, all’insegna del consenso e della mediazione dei termini: nel medioevo la normalità è il conflitto. La traslazione del positivo, sotto le specie del divino, nel confino celeste impone una drammatizzazione in termini di conflittualità simbolica della ricorrenza degli opposti. Sulle polarità che appaiono in immediato e palese contrasto con le esigenze primarie si addensa un cumulo di significati negativi indotti. Il ritmo stagionale, ad esempio, in un’ottica rurale e in una economia di sopravvivenza comporta una sensibile variazione periodica del livello, per non dire della possibilità stessa, di vita.. L’alimentazione ed il potere d’acquisto sono strettamente legati, oltre che alle fasi della coltivazione, alla disponibilità di frutta da raccolta, alla possibilità di esercizio della caccia e della pesca, ecc… Il ritmo quotidiano inoltre ripropone la carenza notturna di luce e di calore. Il livello tecnologico dell’epoca non è assolutamente in grado di neutralizzare l’opposizione: per la gran parte degli uomini del medioevo la notte è freddo e insicurezza, l’inverno freddo e fame. Ma la stretta dipendenza dalla ciclicità si estende anche alle altre attività, tutte in qualche modo legate ai ritmi della terra. L’artigianato è in relazione con il fabbisogno strumentale per le lavorazioni agricole, e molto spesso non ha i tratti di un impegno specialistico e continuativo, ma è solo un’alternativa stagionale ai lavori agricoli stessi. Il commercio necessita di vie libere (dal fango) e sicure (dai banditi notturni); le attività belliche coprono soltanto il semestre centrale dell’anno, in ragione della mobilità e delle possibilità di vettovagliamento egli eserciti. Per tutti l’opposizione estate inverno e giorno-notte implica un ribaltamento dell’attitudine.

Anche nella sfera religiosa il rapporto con l’ambito rurale e con la sua precipua cultura ha una rilevanza pregante. Le maggiori ricorrenze liturgiche vanno infatti a sovrapporsi e a sostituire festività pagane preesistenti, legate alla raccolta delle messi, alla fertilità, ecc…, che per rispondere ad esigenze pratiche della collettività assecondano nel loro succedersi il ritmo dei lavori agricoli, così da cadere per la quasi totalità nei periodi di minore urgenza e impegno. Assolvono inoltre ad una concreta funzione economica, proponendosi come momento di incontro e di relazioni che eccedono la cerchia parrocchiale dei fedeli, aperto ai ritorni e alla partecipazione esterna, e creando le condizioni per lo sviluppo degli scambi. Questo sovraccarico di esigenze profane impone alla festività di corrispondere a particolari congiunture relative ad una buona viabilità, all’esistenza di eccedenze da permutare, alla vacanza da impegni agricoli pressanti, congiunture strettamente legate alla datazione stagionale.

Infine, la variabilità stessa delle condizioni di vita della popolazione rurale determina l’adeguamento dei tempi liturgici più caratteristici alla successione e a significati intrinseci stagionali. La quaresima, ad esempio, che cade alla fine dell’inverno, sottolinea e al tempo stesso generalizza la critica situazione che si ripete annualmente in questo periodo, per l’esaurimento delle scorte e la carenza di prodotti di transizione al raccolto delle messi. Il progressivo conformarsi allo status pratico della ruralità ha un naturale riscontro a livello teologico: ciò che porta ad accogliere e sostanziare nella spiritualità cristiana il dualismo cosmogonico del paganesimo primordiale. La nozione di contrasto e di opposizione, già immanente alla teologia cristiana per le sue ascendenze orientali, viene colta a fondamento della morale e dell’etica medioevali. La dimensione spirituale è totalmente caratterizzata dal duello: fra il Bene e il Male, la virtù e i vizi, l’anima e il corpo, l’ombra e la luce, ecc… A livello cosmogonico si materializza nella lotta tra Dio e satana. Nella prassi e nella fantasia quotidiana il Bene si identifica nei credenti, nei normali, nei cavalieri, il Male negli infedeli, nei diversi, nei mostri. “[…] Tutto il pensiero, tutto il comportamento degli uomini del medioevo sono dominati da un manicheismo più o meno cosciente, più o meno sommario. Per loro da una parte c’è Dio, dall’altra il Diavolo: questa grande divisione domina la vita morale, la vita sociale, la vita politica.” (Le Goff)

La paura del Male è dunque il tratto caratterizzante l’umanità medioevale. Essa si esprime tanto nel rifiuto quanto nell’aspettativa; rifiuto di particolari manifestazioni dell’esistente, che per ragioni concrete o per trasposizioni fantastiche vengono accomunate nella matrice satanica; aspettativa che eccede il contenuto soteriologico a lungo termine dell’ortodossia religiosa, e postula una prossimità temporale o spaziale della liberazione.

La percezione dello spazio e del tempo

Abbiamo già accennato a come, dal momento che il “senso” va ricercato in una dimensione metastorica dell’essere, tutte le categorie che si riferiscono al trascorrere e al localizzarsi dell’essere stesso perdono valore. In quanto facente parte del creato, funzione della materia, finalizzato all’esistere di questa e alla limitazione ad essa intrinseca, l’ordinamento spazio-temporale costituisce a sua volta un limite, che preclude l’accesso alla dimensione superiore, quella che attinge al divino. Già in Agostino sono superate le istanze del razionalismo greco e del suo fondamento, la concezione ciclica primordiale, che postulavano una creazione eterna del mondo, e quindi un tempo proiettato e annullato nell’infinito. Questa dilatazione era ancora presente nel cristianesimo primitivo, anche se l’irruzione della componente escatologica veniva ad imprimere alla storia una direzione di movimento che presupponeva la “fine dei tempi”. Per Agostino invece la creazione non è avvenuta nel tempo, ha dato luogo essa stessa al tempo. La temporalità non è un predicato divino, ma fa parte di una strumentario conoscitivo dell’animo umano, che coglie l’essenza come mutamento e la ordina spazialmente e cronologicamente. Una simile insignificanza nei confronti di Dio, eterno ed immutabile presente, è tanto più consona alla mentalità medioevale in quanto la prospettiva in cui l’uomo inserisce la sua storia è ancora focalizzata sul passato. La temporalità come modo d’essere o di interpretazione del mondo ha conosciuto infatti il suo culmine nell’incarnazione di Cristo: e defluisce ora, sia pure arricchita del significato primo venuto a sostanziarla, a partire da quella. La riappropriazione della materia da parte di Dio è in definitiva già avvenuta: l’agire umano si conforma a questo dato. Ancorando la salvezza alla conservazione di uno status eccezionale, di un rapporto diretto con Dio prodottosi dopo una lunga latitanza, l’uomo del medioevo deve sconfiggere la sensazione di una nuova esclusione, di un regresso inarrestabile che lo separa dall’accadimento significante, dall’apice della storia. Nel carattere iterativo che domina ogni espressione quotidiana, nel trionfo della ritualità, è implicita la volontà di conservare ed attualizzare l’evento, di evocarlo, o meglio, di rievocarlo. Tutto va inteso come simbolo di un’unica realtà ed essenza, tutto è quindi contemporaneo ed omologo. Gli istituti (feudalesimo, monachesimo, ecc…) e i termini istituzionali (consolato, ecc…), gli atti ufficiali (la proclamazione del Sacro romano impero, ad esempio) e i fondamenti della ritualità ecclesiastica (consacrazione, eucaristia, …), ogni manifestazione rilevante della cultura e della vita spirituale e materiale sottolinea nel suo anacronismo, nel suo sforzo di sottrarsi al trascorrere del tempo e delle condizioni oggettive, come il medioevo punti a proteggere, a mantenere in vita il passato, piuttosto che a programmare il futuro.

La chiesa stessa esercita una funzione frenante sul processo di storicizzazione dell’escatologia. In esso, giustamente, vede racchiusi i germi di una contestazione futura della propria funzione. In quanto depositaria di ciò che è stato, della salvazione già attuata, non può accettare di spostare quest’ultima nel futuro, affidandola ad eventi nuovi, e quindi al proprio superamento. In questo senso le eresie che si sviluppano sul finire della prima parte del medioevo, e che sembrano volte al recupero di valori teologici ed etici primitivi, costituiscono al contrario i prodomi di una nuova disposizione spirituale che, proprio attraverso la riabilitazione dell’essenza del tempo, aprirà la strada alla nascita del mondo e del pensiero moderno.

L’aspettazione della fine, la predicazione apocalittica, la soteriologia millenaristica, che pure procedono dall’ansia comune di partecipare all’evento determinante, se non altro ipotizzandone una ripetizione non semplicemente simbolica, si situano in una prospettiva radicalmente innovatrice. La temporalità viene in questo modo liberata dalla connotazione regressiva, non è più misura della decadenza umana, della separazione dal divino, ma piuttosto luogo della realizzazione di una rinascita futura. La rivelazione torna ad essere processo in fieri, attuabile soltanto col concorso attivo di una umanità che cresce storicamente. Il mutamento indotto dalla “linearizzazione” del tempo per il momento spinge verso l’al di là: ma una volta secolarizzato spingerà verso il futuro.

Alla dominante concezione di una cronologia che tende a contrarsi nella simultaneità, di un tempo inteso non come durata e distensione continuativa ma piuttosto come la somma di durate omogenee ed iterazione, va contrapponendosi quindi, proprio nel medioevo, l’insorgenza di prospettive escatologiche di segno mutato. Nel contempo si fa impellente anche la necessità di una misurazione e scansione del tempo più consona ai nuovi impulsi economici e politici. Louis Munford vede nel monastero il simbolo dell’acquisizione cristiana alla religione della natura, all’accordo con i suoi tempio e con i suoi ritmi, cogliendo nel lavoro fisico ed intellettuale il tramite della continuità. Ma sottolinea anche come il monastero induca ordine e regolarità nel tempo e nello spazio, e come dalla standardizzazione e dalla regolarità dei movimenti e delle attività tragga origine il fondamento del moderno modo di produzione.

Per Le Goff, invece, è attraverso la mercatura che il tempo misurato, orientato e prevedibile si sottrae al condizionamento atmosferico e stagionale, al quale dovevano soggiacere, al contrario, le attività agricole di semina, raccolto, ecc… Il guadagno diviene proporzionale al tempo impiegato in un viaggio, ad esempio: nello scambio il tempo di produzione si razionalizza in un costo, in valore, conseguendo una sua autonoma e deificante valutazione, che informa a nuovi ritmi e cadenze la vita e l’economia cittadina.

Come il tempo è somma di durate, così lo spazio è per l’uomo medioevale somma di luoghi. La spazialità non è intesa come relazione tra i luoghi stessi, condizione interiore ed esteriore della localizzazione, ma semplicemente come coacervo o repertorio delle manifestazioni naturali e soprannaturali. In questo senso i suoi caratteri fondamentali risultano essere nell’ambito naturale la vacuità e l’indeterminatezza, mentre nella dimensione sovraterrena regna un ordine che tutto permea ed include, nonché una fantastica ricchezza di presenze.

Nella visione neoplatonica filtrata attraverso lo pseudo-Aeropagita lo spazio è abitato dalla divinità immanente, quindi in certo qual modo è già annullato in una sorta di omogeneità positiva. Ma poco alla volta esso è fatto oggetto di una svalutazione che consegue alla rimozione del divino dal creato. Si riduce pertanto, nella sua valenza naturale, a spazio vuoto, privo di interesse, tranne quando intervenga a consacrarlo la ierofania, il miracolo, la presenza taumaturgica; quando cioè la divinità rimossa torni in qualche modo ad abitarlo. Ciò comporta un’esperienza dello spazio non subordinata alla sua realtà connettiva, ma piuttosto ad una interpretazione e suddivisione di matrice emozionale. Abbiamo quindi spazi sacri, che accolgono le epifanie del divino e il loro ricordo, oppure sono popolati da entità demoniache (si pensi solo alla suggestione esercitata sull’uomo medioevale dalla foresta, ricettacolo di mostri e fantasmi), e spazi profani, insignificanti, amorfi, destrutturati.

Una simile suddivisione sembra non avere alcun rapporto col reale, ma nasce appunto dalla carenza di relazioni e di oggettivi orizzonti spaziali propria della realtà medioevale. Manca infatti tra i vari nuclei una rete di rapporti economici, politici e sociali; mancano le strade, le vie di comunicazione; mancano i legami statali, l’inclusione in confini stabili e/o precisi. E l’individuo stesso non eredita orizzonti familiari alla sua stirpe, immutabili, legati alla proprietà, ad un insediamento definitivo e sicuro (paradossalmente, perché siamo nel periodo della servitù della gleba). Nella coscienza collettiva ed individuale dell’occidente medioevale una spazialità non posseduta, mai gestita autonomamente, percorsa in lungo e in largo da popolazioni devastatrici, da predoni, da fiere e da epidemie, non può essere strutturata sulla base di punti fermi, ed offrire in relazione a questi prospettive di movimento.

Del carattere eminentemente soggettivo della percezione testimonia anche la varietà dei valori in uso per la misurazione dello spazio, che rispondono ad esigenze e consuetudini proprie delle singole località, e la cui diversificazione si accentua nella vacanza di relazioni commerciali ed amministrative con l’esterno. Pur rimanendo in vigore il sistema di misurazione ufficiale romano, col piede come unità fondamentale (leggermente maggiorato, per l’Italia, in epoca longobarda: piede liutprando), nella realtà quotidiana viene utilizzata una metrologia indigena, spesso ascendente al periodo arcaico e mai definitivamente accantonata, talvolta di conio più recente e connaturata al nuovo carattere degli insediamenti. Quale che ne sia l’origine, gli archetipi di questi valori stanno nell’uomo, nelle dimensioni e nelle potenzialità delle sue membra. Il piede, il palmo, il braccio sono l’usuale strumentario per le misurazioni minute, nel commercio e nell’edificazione. Per le misure di superficie si fa ricorso ad una commistione spazio-temporale che interpreta lo spazio sulla scala dei bisogni e dell’attività umana: la giornata, ad esempio, è l’estensione arabile in un giorno. Anche quando insorga il bisogno di determinare in maniera meno opinabile le unità di riferimento, la natura umana non viene abbandonata: semplicemente, essa viene rapportata ad un modello ideale (il corpo di Cristo, più spesso, ma anche il piede, il palmo o il braccio attribuito ad un santo o ad un martire) e confortata dai riscontri testamentari (ad es., Apocalisse XXI, 15. 17)

Un primo tentativo di unificare le misure su tutto il territorio imperiale è operato da Carlo Magno. Malgrado lo scarso successo ottenuto, è significativo che il primo grosso progetto politico medioevale si fondi anche sulla tendenza ad imbrigliare lo spazio in una esperienza quantitativa oggettivata ed indipendente dai caratteri individuali o locali della sensibilità.

La razionalizzazione dello spazio nei termini dell’unità di luogo aristotelica è però un portato del tardo medioevo, della civiltà cittadina e mercantile, della costituzione degli stati nazionali. L’unità di luogo comporta l’omogeneizzazione dello spazio, rivalutato dal rapporto di possesso effettivo che può essere instaurato nei suoi confronti. Anche se apparentemente non viene operata nessuna desacralizzazione (i luoghi santi convogliano una enorme parte della mobilità anche nel basso medioevo: Terra Santa, santuari, monasteri, ecc…) all’atto pratico sparisce l’idea dello spazio vuoto, privo di significato: la proprietà o il dominio effettivamente esercitati conferiscono importanza alle distanze, così come significative esse diventano nell’ambito di una economia commerciale o di una politica non più vincolata all’utopia dell’imperium universale.

 

Incubi, sogni e fobie

Incubi del corpo

Il medioevo si apre con una terribile pestilenza polmonare, nel VI secolo, e si chiude con la peste nera del XIV. Nel corso di quasi mille anni, in una sequenza impressionante, epidemie di ogni sorta vengono periodicamente a decimare la cristianità, lasciandosi ogni volta alle spalle stragi di proporzioni indicibili e una situazione disastrosa per i sopravvissuti. Quasi ad accreditare le apocalittiche interpretazioni di chi ci legge lo scatenamento della collera divina, non appena il mondo medioevale manifesta sintomi di ripresa economica una nuova esiziale ondata epidemica torna a sconvolgerlo.

Anche se in forme isolate e transitorie, la peste nera appare più volte nel continente: nuovi focolai di infezione continueranno a manifestarsi nei territori di confine, soprattutto in concomitanza con la comparsa di popolazioni nomadi provenienti dall’oriente o con congiunture economiche negative.

Nel 1348 la grande peste coglie ancora una volta l’Europa in un momento difficile. Il susseguirsi di cattive annate agricole ha dato origine ad una carestia spaventosa, alimentando il rincaro dei prezzi ed il disagio delle popolazioni, ormai fortemente inurbate. L’epidemia si diffonde a partire dal 1347, e si estende per tutto il continente in una serie di ricorsi quasi decennali: 1363, 1374, 1383, 1389, 1410. Nata nell’Asia centrale, essa penetra nell’Europa occidentale attraverso i porti del Mediterraneo e di li si allarga seguendo le vie commerciali. Le sue conseguenze sono enormi in tutti i campi. Nella sola prima fase, quella a cavallo della metà del trecento, stermina oltre il trenta per cento della popolazione europea. Nel cinquantennio successivo contribuisce a mantenere depressionaria la situazione economica e si accompagna a disordini sociali e politici, determinati dall’impoverimento crescente e dallo sconvolgimento psicologico. L’impotenza della medicina nel curare la malattia o nel prevenire il contagio, e la sua incapacità di determinarne le cause, fanno nascere il sospetto di una diabolica congiura. Ebrei, lebbrosi e mendicanti vengono accusati di avvelenare le acque e di diffondere il germe omicida: le folle si scatenano in pogrom feroci, che aggiungono distruzione e morte alla sciagura imperversante.

 

Medicina e malattia

L’impressione lasciata da questi eventi catastrofici è facilmente riscontrabile nelle testimonianze letterarie ed iconografiche del tempo. Ma il Medioevo conosce altri aspetti della malattia, meno violenti ed appariscenti, quindi più raramente colti dalla sensibilità artistica, e tuttavia non meno funesti. La malattia incide sulla vita sociale medioevale soprattutto nelle sue forme endemiche. Tubercolosi, vaiolo, eczemi, scabbie, ulcere, febbri tifoidi, malaria, lebbra, hanno facilmente ragione di una resistenza fisica minata dalla malnutrizione. La mortalità infantile raggiunge tassi incredibili: nell’epoca carolingia i due terzi dei fanciulli muoiono prima dei 10 anni, e il fenomeno non tocca soltanto le classi più povere. Le malattie di carenza e le malformazioni, frutto degli stenti e delle guerre, sono frequentissime: gli affreschi e le novelle dell’epoca pullulano di ciechi, storpi, gobbi, paralitici, rachitici. La durata media della vita non tocca i cinquant’anni e la vecchiaia divora precocemente i corpi debilitati.

All’origine di una situazione sanitaria tanto negativa è senza dubbio l’instabile equilibrio alimentare. In una sorta di circolo vizioso le carenze economiche danno esca all’espandersi della malattia, e lo spopolamento e l’indebolimento conseguenti si ripercuotono sull’andamento produttivo. Questa catena viene raramente spezzata, e bastano una carestia o un’epidemia improvvisa a riannodarla.

Ma esistono anche altre motivazioni, igieniche, psicologiche e sociali. L’igiene domestica e quella collettiva sono condizionate alla miseria ed alla arretratezza. Si vive in promiscuità con gli animali, in mezzo a pulci, pidocchi, zecche e parassiti d’ogni sorta, vettori di infezioni e di bacilli. Le case sono prive di aria e di ossigeno per la mancanza assoluta o la scarsità di finestre, e costantemente invase dal fumo: nella quasi totalità non hanno pavimentazione, e diventano facilmente ricettacolo di topi, insetti, scorpioni e scarafaggi. Manca naturalmente l’acqua, che viene attinta ai pozzi o alle fontane cittadine, e spesso è tutt’altro che potabile. In queste condizioni epidemie e malattie endemiche trovano un fertile terreno per la propagazione. L’insalubrità ambientale è poi notevolmente più grave nei centri urbani, ove a tutti gli inconvenienti già elencati si aggiungono l’usanza delle inumazioni nelle chiese o comunque entro le mura, la mancanza di una rete fognaria, il traffico di mercanti, saltimbanchi, pellegrini e vagabondi spesso portatori di morbi, e la facilità di trasmissione che deriva dal frequente contatto nei commerci, nelle processioni e nelle assemblee.

In un ambiente così malsano e predisposto alla diffusione e all’endemizzazione della malattia, l’assistenza che la medicina può offrire è assolutamente inadeguata ed arretrata. La conoscenza del corpo umano rimane ancorata, fino al XIII secolo, al livello raggiunto dai classici, quando non regredisce vistosamente. Mancano da un lato le strutture e i mezzi per svilupparla, dall’altro un interesse specifico per il mondo fisico. La medicina appare espressione della volontà di conservazione della vita terrena, e mal si accorda con l’anelito al sopramondano. In questo senso essa diventa sospetta di alterare il corso naturale guidato da Dio, perché la malattia è prima di tutto espiazione e punizione. Tuttavia, qualora si consideri il corpo come strumento dell’anima, una certa sollecitudine nei suoi confronti non è deprecabile. È quanto pensa già sant’Agostino, che distinguendo tra disciplina (ciò che fa bene all’anima) e medicina (ciò che giova al corpo), comprende in quest’ultima ogni cosa che conservi o ridoni la salute: e quindi non soltanto ciò che appartiene all’arte medica vera e propria, ma anche l’assistenza alimentare, il ricovero, la protezione igienica.

L’attenzione della Chiesa privilegia questa funzione: dar ricovero agli infermi e nutrire gli affamati rientra nella prassi della carità cristiana, e non costituisce atto di superbia e di artificiosa opposizione al volere divino. Anche la farmacopea è tenuta a rispondere a questo postulato: essa deve fondarsi su basi esclusivamente empiriche e naturali, e la sua efficacia va condizionata ad una sana predisposizione spirituale. Il IV Concilio Lateranense proibisce al medico di curare il malato sino a che costui non abbia confessati i propri peccati.

Rimedi e medicamenti hanno talora una certa efficacia, in presenza di affezioni meno gravi e note da tempo, ma si rivelano assolutamente impotenti di fronte all’esplodere di morbi nuovi, e non di rado sono soltanto frutto di ciarlataneria e superstizione. Si tratta soprattutto di una medicina curativa e lenitiva; salassi operati indiscriminatamente, infusi da bersi per espellere le infezioni, cataplasmi e cauteri da applicare sulle piaghe, e persino spugne soporifere imbevute d’oppio, da usare contro gli attacchi più violenti del male o durante le operazioni chirurgiche. La prevenzione è invece affidata ad amuleti, talismani, solitari, reliquie sacre da portare addosso, o a formule semi-magiche, a pratiche devote e a santi protettori, nella logica della connessione tra malattia e presenza del male e della colpa. Le qualità taumaturgiche di cui sono accreditati alcuni santi, e che vengono trasferite poi alle loro reliquie, danno origine ad una devozione (e ad un mercato) particolarmente sentita; basti pensare alla frequenza con cui ricorrono nelle borgate italiane le chiese dedicate a sant’Antonio, a san Rocco, a san Sebastiano ecc…

Ma non sono solo i santi a difendere la salute. Il potere laico non può demandare in toto alla Chiesa un aspetto tanto importante del rapporto con la popolazione. Là dove esso è più forte, in Francia e in Inghilterra, e mira ad acquisire assieme alla fisionomia unitaria una legittimazione sacrale, le guarigioni miracolose sono operate anche dai sovrani. La taumaturgia è un attributo che aveva caratterizzato il potere monarchico già in epoca pre-cristiana. Ora essa diventa il sigillo dell’investitura divina agli occhi della massa: segna la traslazione del potere in una dimensione sovramondana ed ineccepibile, e al tempo stesso gli conferisce un ulteriore legame con le concrete necessità del popolo.

La sovrapposizione dei due ambiti, umano e spirituale, ed il prevalere di quest’ultimo, eccedono spesso, però, i limiti tollerati dalla chiesa. Praticoni ed ammalati sono spinti alla violazione del campo naturale e sconfinano nella stregoneria. A volte si tratta soltanto di una forzatura della pratica devota, ingenuamente particolarizzata, quasi a destare l’attenzione del santo protettore e ad accaparrarsene in esclusiva il favore. Altre volte si ricorre invece direttamente alla sollecitazione della potenza malefica, del padrone del male: se il male è operato e governato dal diavolo, occorre affidarsi al diavolo per scongiurarlo. In taluni casi, infine, è un vero e proprio tentativo di scienza sperimentale quello che impegna medici e uomini di scienza nella manipolazione della natura e dei corpi, al fine di evidenziarne le potenzialità e le deficienze: la moderna farmacologia scientifica nasce appunto in quest’ambito.

Il pericolo indistintamente comportato da queste pratiche non sfugge alle autorità ecclesiastiche, che impongono restrizioni ed alimentano tabù già appartenuti all’epoca classica, come quello del sangue. Il medico non può essere anche chirurgo, pena l’impurità; questa mansione sarà svolta per quasi tutto il medioevo da appositi praticanti, e nelle piccole borgate rurali da sarti o tonsori. Tutta quanta l’arte medica, del resto, proprio per il sospetto di superbia e tentazione cui è coniugata, rimane lungamente soggetta a discriminazioni morali. Come l’usura, è esercitata prevalentemente dagli Ebrei, per i quali diventa anzi una delle poche professioni consentite. L’ottima qualità della medicina ebraica, che porta alcuni esponenti di questo gruppo emarginato fino ad esercitare alla corte pontificia, si basa su una tradizione igienico-sanitaria di cui si ha già testimonianza nel Levitico, e che non ha conosciuto attraverso i secoli e nelle vicende della diaspora alcuna soluzione di continuità. Già nella Roma imperiale gli ebrei godevano come medici di uno speciale apprezzamento: ma è soprattutto il rapporto costante col mondo e con la scienza islamica a porli in condizione, nel medioevo occidentale, di sfruttare i risultati raggiunti dalla medicina tardo-ellenistica e orientale.

Il quadro generale della situazione sanitaria, di cui si è tentato un abbozzo, può apparire a questo punto estremamente negativo: e per certi versi è senz’altro tale. Ma occorre anche ricordare che proprio al medioevo risale la socializzazione del problema della salute. L’etica cristiana comporta una coscienza civica del prossimo di cui non si aveva sentore nel mondo classico. I concetti di carità ed assistenza si fondano su una compartecipazione al sacrificio della natura umana del Cristo, che cancella la dimensione individuale in cui ogni alterità era chiusa.

Una embrionale organizzazione sanitaria prende corpo già nell’alto medioevo, ed è proprio la chiesa ad accollarsene la gestione. Si tratta, come già visto, di una funzione assistenziale piuttosto che sanitaria. A quest’ultima provvedono per un certo periodo i monasteri, nei quali vengono ricercate e coltivate le erbe medicamentose, e i malati ricevono gratuitamente le cure necessarie. San Bernardo contempla nella sua regola la cura degli infermi, e a lui stesso vengono attribuiti interventi miracolosi tramite l’imposizione delle mani. Poco alla volta i monaci saranno portati ad uscire dai limiti del chiostro e a visitare i bisognosi direttamente nelle loro case, provocando la reazione delle autorità ecclesiastiche e l’interdizione canonica della medicina monastica.

L’assistenza generalizzata è invece opera, almeno inizialmente, dei vescovi, ai quali spetta l’utilizzazione delle beneficenze e dei lasciti dei fedeli. I primi ospedali appaiono nel V secolo e l’istituzione fiorisce poi in quelli seguenti, con qualche rallentamento nel IX e nel X. Essi sono destinati ad accogliere non solo i malati, ma i pellegrini, i viaggiatori, i poveri, i vecchi, e si trovano generalmente alle porte della città o su una importante via di comunicazione. Il potere statale o signorile inizia ad interessarsi del problema in modo diretto solo molto più tardi: per il momento si limita a concedere particolari privilegi o sovvenzioni, o a donare il terreno per l’edificazione degli stabilimenti. Con il diffondersi della lebbra le comunità sono poi indotte a provvedersi di opportuni ricoveri o reclusori, generalmente riservati ai soli abitanti della città o dei villaggi della zona

Sotto il profilo assistenziale, la società medioevale arriva a disporre di una organizzazione notevole, superiore senza dubbio a quella di epoche più avanzate tecnicamente e scientificamente. Villani testimonia della presenza in Firenze, nel ‘200, di trenta ospedali, con più di mille posti letto, per una popolazione di novantamila anime. La nascita di entità politiche cittadine di un certo rilievo porta anche, nel basso medioevo, ai primi tentativi di disciplinare sanitariamente la vita collettiva. All’espulsione dei lebbrosi si affiancano i divieti di discarica delle immondizie e dei rifiuti negli stagni e nei fiumi, la costruzione di canali di scolo, la ricomparsa dei bagni pubblici, già presenti nell’antichità, le prime condutture per il trasporto dell’acqua potabile alle fontane pubbliche: e inoltre la quarantena, una misura preventiva di indubbia efficacia.

Nel campo propriamente medico i progressi sono legati in gran parte all’incontro con la cultura araba. Soprattutto nel meridione italiano, sotto l’egida dei sovrani svevi, ha luogo una felice sintesi delle conoscenze mediche più avanzate dell’epoca, e la scuola di Salerno ne diviene l’espressione più alta. Sulla scorta di questo rinnovamento e della dignità scientifica acquisita la medicina torna a godere dal XIII secolo di una notevole considerazione a livello culturale; assieme alla teologia ed al diritto è l’unica scienza universitaria per la quale si consegua il dottorato. Ruggero Bacone la considera lo strumento chiave per il suo progetto di trasformazione del mondo e della vita umana; “da essa si desumono i mezzi per prolungare la vita umana, e i rimedi contro ogni infermità” (Opus Tertium).

Anche le remore e le proibizioni morali vengono progressivamente superate: a Salerno e a Montpellier riprende voga la pratica della dissezione, che pure era stata violentemente attaccata nel concilio di Tours (1163). Guglielmo di Saliceto pubblica nel 1225 il primo trattato di anatomia topografica, mentre nella seconda metà del secolo Mondino dei Liuzzi espone le sue esperienze sulla dissezione in un’opera che farà testo per tutto il medioevo. La chirurgia, che mantiene peraltro in uso la dicotomia tra medico e barbiere-cerusico, trova un maestro in Iugero da Salerno.

Quanto alla farmacologia, una delle scoperte più notevoli riguarda le proprietà terapeutiche dell’alcool, distillato dal vino e dalla birra: esse vengono studiate e messe in rilievo già a partire dal XII secolo. L’alcool diventa l’ingrediente fondamentale nella fabbricazione di liquori digestivi, tonici e lenitivi, nella quale eccellono soprattutto i monasteri. Queste ricerche sono ancora fortemente sospette agli occhi dell’autorità ecclesiastica, che interviene più volte a proibire ai monaci l’uso di strumenti per la distillazione: l’alcool è infatti ritenuto una sostanza alchemica, in grado di rivitalizzare la sostanza depauperata e di favorire la trasmutazione dei metalli. Ma proprio fondandosi su queste proprietà Raimondo Lullo accentua l’aspetto medico dell’alchimia, dando impulso alla ricerca di essenze medicamentose capaci di sollecitare la reattività degli organismi. E Bacone assegna all’alchimia un ruolo fondamentale: “I segreti dell’alchimia sono i più grandi. Infatti non solo servono a produrre abbondanza di ogni cosa in modo che sia sufficiente ai bisogni del mondo, ma possono operare più potentemente ed efficacemente per il prolungamento della vita umana, nella misura necessaria all’uomo” (Opus Tertium).

Infine, dopo una lotta secolare contro il concetto di malattia come stato morboso del corpo indipendente da fattori epidemiologici esterni, diviene corrente anche il concetto di contagio. Ciò valorizza la funzione preventiva dell’isolamento, e fa sì che sul finire dell’epoca medioevale i grossi fenomeni di infezione collettiva, a carattere sia episodico (esplosioni pestilenziali) che permanente (lebbra, vaiolo) subiscano un notevole ridimensionamento. Una diversa attenzione, inoltre, è riscontrabile nei confronti delle condizioni ambientali e individuali di salubrità: sempre dalla scuola salernitana ci viene un trattato igienico-dietetico, il Regimen Sanitatis, ricco di intelligenti osservazioni e destinato a porre le basi dell’igiene moderna.

La lebbra

Gregorio Magno attribuisce ai Longobardi l’importazione della lebbra sul suolo italiano. È un’accusa dettata dalla foga polemica, perché in realtà l’occidente conosce la lebbra fin dall’epoca classica: ma occorre tener presente che un primo intervento legislativo nei confronti dei lebbrosi lo troviamo proprio nell’Editto di Rotari, che al comma 176 impone la cacciata dei lebbrosi dalle città e sancisce l’inalienabilità dei loro beni. Soltanto nel basso medioevo, comunque, la malattia, propagatasi in pochi secoli per tutto il continente, arriva a costituire un problema sociale di rilievo. Essendo i focolai maggiori di contagio localizzati nel vicino Oriente, la lebbra trova nei pellegrinaggi e soprattutto nelle Crociate un veicolo di penetrazione massiccia. La sua diffusione ha in effetti un’impennata a partire dal XII secolo, e proprio a questo periodo risalgono i provvedimenti segregativi adottati dai pubblici poteri e dai concili, e la costruzione dei primi lebbrosari. Le cifre di cui, con una certa approssimazione, siamo in possesso, ci offrono un quadro impressionante. Nel XIV secolo il mondo cristiano conta circa ventimila lebbrosari, con punte particolarmente alte nei pressi delle grandi città e nelle zone a più diretto contatto con i focolai d’infezione (la sola Parigi ne conta quarantatré, e in tutta la Francia sono quasi duemila nel 1266: mentre in Inghilterra, alla fine del XII secolo, sono duecento). La recrudescenza del flagello rimane legata anche all’espansione economica del XIII e della prima metà del XIV secolo: mentre sul finire di quest’ultimo, grazie anche alle misure di internamento e di segregazione, assistiamo ad una notevole regressione.

Il lebbroso costituisce un pericolo per la comunità, e la costruzione dei lebbrosari mira piuttosto a salvaguardare i sani che ad assistere i malati. Ma la sua emarginazione non risolve automaticamente il problema di una presenza tanto inquietante e dolorosa. I vangeli presentano Cristo più volte a contatto con lebbrosi, e i santi della povertà e della sofferenza si faranno un dovere di mescolarsi ad essi e di assisterli fraternamente. D’altro canto, quest’aura di sacralità di cui la lebbra si trova rivestita non può far dimenticare il suo aspetto pericoloso per la pubblica salute. Viene quindi sacramentalizzata l’esclusione. Il lebbroso, a livello sociale, è considerato un morto: a livello religioso un penitente del Purgatorio. A sancire questa condizione viene celebrato in sua presenza l’ufficio funebre, ed egli esce dalla chiesa a ritroso: non rientra nel mondo. A volte si dà luogo persino ad una inumazione simulata col malato che scende simbolicamente nella fossa. Sul suo giaciglio si sparge terra del cimitero, con la formula: “Sis mortuus mundo, vivus iterum Deo”. Fino al XII secolo, al quale risale la costruzione dei primi lebbrosari, è tenuto a vivere in una capanna poco lontana dal villaggio o dalla città, davanti alla quale viene posta una croce, simbolo ad un tempo di sacralità e segnalazione per i viandanti e gli stranieri. Deve vestire in modo particolare, portare i guanti e dare avviso della propria presenza con un campanello. Non può accostarsi all’abitato, lavarsi in rivi o fontane, toccare le funi dei pozzi: non può parlare con i sani, anche a distanza, se non tenendosi controvento: né passare per strettoie e passerelle che possano favorire contatti. Ma in alcuni luoghi può entrare nei paesi in periodo pasquale, in occasione e quasi a vivente testimonianza della resurrezione dei morti. Questo atteggiamento, per il quale l’esistente trova un suo significato e viene accettato mediante il trasferimento ad una dimensione immanente ma sovrareale, risponde in pieno alle istanze della sensibilità romanica. La compresenza dei due mondi e l’annullamento del terreno nel celeste fa sì che l’esclusione del lebbroso sia tale, almeno moralmente, soltanto in parte, ed acquisti anzi il carattere di un privilegio.

Ma alla fine del dodicesimo secolo, quando con il tramite delle crociate il fenomeno diventa endemico e l’espansione economica infittisce i rapporti e gli scambi, la disposizione nei confronti del lebbroso è profondamente mutata. La rivalutazione dell’esperienza terrena porta a connotare negativamente l’infermità. Chi è impedito a vivere come gli altri non è più il prescelto, ma il punito: il male fisico è rappresentazione di quello morale, interiore; l’espiazione non avvicina al Paradiso, ma anticipa l’Inferno. Impossibilitato a lavorare e a svolgere un ruolo nel mondo, vincolato alla carità e alla benevolenza dei sani, il lebbroso crea problemi sociali, sanitari e psicologici. Anche se recluso e isolato, esso continua a pesare sulla coscienza e sulle casse della comunità. La ripulsa collettiva si traduce dapprima in una diminuzione delle beneficenze e degli aiuti, che mette in difficoltà parecchi lebbrosari e spinge i ricoverati a trasgredire il divieto per cercare aiuti in città: ed in seguito arriva a radicalizzarsi in esplosioni di rabbia e di furore, nelle quali vengono convogliate le frustrazioni, i disagi e le sofferenze in occasione di calamità o di carestie. L’ascrizione della malattia a una matrice diabolica induce a collegare il lebbroso al manifestarsi del Male, quale partecipe ed esecutore di un piano di sterminio del genere umano, assieme ad ebrei, stregoni, invasati ed eretici. Nel corso del XIV secolo più volte vengono istruiti processi contro lebbrosi, rei in definitiva soltanto di essere tali, e molti di essi salgono il rogo.

La fame

All’uomo medioevale non mancano, come si è visto, motivi occasionali e continuativi d’angoscia. Epidemie, invasioni, guerre, mostri, sono soltanto i moventi più clamorosi della paura e del turbamento. Ma c’è un’ossessione che al di sopra di ogni altra lo accompagna lungo i secoli: quella della fame. Il problema della sottoalimentazione torna costantemente, connesso alla malattia, alla povertà, al ristagno economico. La fame sottolinea drammaticamente il rapporto con una realtà terrena che si vorrebbe ripudiare e dimenticare. Segna la rivincita del corpo sullo spirito, e arriva a determinare la scala dei valori spirituali e materiali che stanno alla base del sentire medioevale. Il Paradiso è il regno della luce e della grazia, ma anche dell’abbondanza: mentre la carestia è opera diabolica, o punizione divina. La rappresentazione sociale, l’appartenenza ad uno status privilegiato, si misura sull’ostentazione del lusso alimentare. La denutrizione acquista una valenza morale negativa: nei timpani delle cattedrali romaniche i diavoli sono scheletrici ed emaciati. La liberazione onirica ed utopica si realizza nel paese di Cuccagna o di Bengodi, che ribalta la condizione esistenziale nella soddisfazione della fame senza bisogno del lavoro. La moltiplicazione del cibo viene a costituire, assieme alla guarigione dalle malattie, un momento ricorrente nei curriculum miracolistici dei santi. Nella volgarizzazione popolare lo stupore per il prodigio si accompagna alla speranza in un suo ripetersi. Narrare il miracolo implica allargare lo spazio di probabilità dell’avverarsi di una simile evenienza.

Elemento base della nutrizione nel medioevo è senz’altro il pane: pane di crusca, qualche volta mista ad altri cereali, se non addirittura alla terra, per le classi più povere: di farina bianca per nobili e benestanti. Nelle aree più povere e meno fertili in luogo del frumento, o associata ad esso, viene impiegata per la panificazione anche la segale, graminacea più resistente del grano: questo però crea grossi rischi di intossicazione, perché la segale è facilmente attaccata da un fungo (segale cornuta) che rende velenosa la farina e provoca gravissimi avvelenamenti collettivi.

Il pane è comunque l’oggetto di quasi tutti i miracoli a sfondo alimentare. Costituisce anche la moneta di riferimento per i salari in natura, e spesso per gli scambi diretti. Le razioni giornaliere variano alquanto, a seconda delle zone, dei ceti sociali e delle stagioni. Al pane si accompagnano, quando ci sono, legumi secchi, rape, cavoli, formaggio, miele, grassi, e qualche volta lardo e carne. I proventi della venagione e della pesca incidono relativamente, essendo queste attività privilegio della classe signorile. Anche nei periodi di abbondanza la dieta appare molto ricca quantitativamente (razioni quotidiane di due chilogrammi di pane risultano negli ordinamenti interni di alcuni monasteri) ma scarsamente equilibrata, difettando di vitamine e di proteine. Ciò potrebbe spiegare la frequenza dell’obesità, o della gotta, testimoniata dall’iconografia, in un’epoca così toccata dal problema alimentare.

Ma i periodi di abbondanza non sono molto frequenti. Più spesso capita che i cattivi raccolti o altre calamità portino ad una estrema indigenza. Anche quando non intervengono fattori meteorologici o naturali eccezionali, come siccità, inondazioni, tempeste di grandine, invasioni di insetti, il ciclo della produzione frumentaria conosce delle annate negative nell’arco della rotazione quadriennale. Le conseguenze, in una società priva di organizzazione alimentare come quella medioevale, sono immediatamente disastrose. La possibilità di programmazione delle scorte è d’altro canto molto limitata: le tecniche in uso non consentono una lunga conservazione delle provvigioni, e d’altro canto presso le classi più povere non si registrano normalmente delle eccedenze. Lo spettro della fame continua pertanto ad aleggiare, anche quando si arrivi ad un momentaneo e relativo equilibrio alimentare, proiettato nell’incertezza del futuro.

Povertà e miseria

Il discorso sulla povertà potrebbe apparire marginale, se non addirittura estraneo, rispetto alle tematiche che stiamo trattando. Senza dubbio meriterebbe di essere affrontato a parte. Ma nell’ottica di esplorare i fattori di disagio e di paura che caratterizzano la mentalità medioevale credo non si possa ignorare quanto il peso della miseria e la sua percezione siano stati condizionanti nel forgiare le categorie interpretative dei rapporti con Dio e tra gli uomini. Il disagio e la paura nei confronti della miseria esistevano senz’altro, e si esprimevano in diverse maniere: da un lato, da parte dei potentes, nel timore di uno scatenamento dell’invidia, e quindi della ribellione; dall’altro, da parte dei poveri, nell’incubo costante di diventare ancora più poveri.

Il cristianesimo antico si proponeva come “religione degli umili”, anche se l’ambito originario della sua diffusione non è stato esattamente, o comunque non sempre e non dovunque, quello degli strati sociali più indigenti. A partire da san Paolo (“Voi conoscete la liberalità di nostro signore Gesù Cristo, come da ricco si è fatto povero per voi, per arricchirvi attraverso la sua povertà” Corinzi, II, VIII) tutta la letteratura patristica ha esaltato la povertà come valore spirituale prioritario: ma il termine pauper era utilizzato nel contesto dell’esegesi scritturale come sinonimo di humilis, e questa interpretazione spiega l’attitudine ambigua che il mondo cristiano manterrà per molto tempo, almeno fino al XVII secolo, nei confronti dei poveri. La povertà elogiata da san Paolo e dai padri della Chiesa è infatti quella volontaria, che applica alla lettera l’insegnamento di Cristo: “Se vuoi raggiungere la perfezione, vendi tutto quanto hai e dallo ai poveri” (Matteo, XIX, 21): ma è soprattutto una condizione spirituale, che può essere in fondo attinta indifferentemente in condizioni di ricchezza o di miseria. L’attenzione nei confronti della povertà “passiva”, di quella cioè subita e non cercata, che pure rientra tra gli obblighi fondanti dell’etica sociale cristiana (dallo ai poveri), non implica un’automatica valorizzazione dei diseredasti: anche quando vengono assunti ad immagine di Cristo essi rimangono l’oggetto verso il quale può esercitarsi l’opera di conforto, l’occasione offerta all’anima pia per acquisire meriti. Lo stesso costante richiamo alle condizioni materiali che normalmente connotano l’indigenza, l’essenzialità dell’abbigliamento, la scarsa alimentazione, la mancanza di proprietà o di una dimora, va letto in chiave essenzialmente metaforica, come metaforico era l’insegnamento evangelico cui fa riferimento. Il povero entra quindi nella letteratura cristiana come simbolo di una rinuncia, che presuppone l’avere qualcosa cui rinunciare, piuttosto che come presenza reale e concreta, ulteriormente impoverita dalla non volontarietà. Questo va tenuto presente per comprendere l’ambiguità cui si faceva riferimento sopra, anche se è incontestabile che i cristiani si sono assunti da subito sul piano pratico un ruolo “caritativo”, destinato a crescere in importanza mano a mano che da minoranza perseguitata si trasformeranno in gruppo dominante.

Il percorso non è stato però lineare. Anzi, le interpretazioni del significato e dei limiti da porre all’azione caritativa sono cambiate decisamente a seconda dei tempi e dei contesti. Si potrebbe schematizzare l’andamento altalenante della quotazione morale della povertà in quattro o cinque fasi successive. Il precetto evangelico originario parlava, al di là di ogni metafora, di un atteggiamento “misericordioso” nei confronti dei poveri: anche se, sempre nella seconda lettera ai Corinzi, san Paolo chiariva che: “non si tratta, per soccorrere gli altri, di ridurvi alla miseria (2, VIII, 13)”. La povertà materiale rappresentava per i primi cristiani ancora uno scandalo: non aveva giustificazione teologica, era semmai testimonianza dell’ingiustizia regnante nel mondo pagano, che la parola di Cristo era venuta a sanare. Esisteva solo in attesa del riscatto. Come prosegue Paolo: “Ci vuole l’uguaglianza”.

Il parziale assorbimento del patrimonio etico dell’antichità, così come la fusione con i costumi delle culture “barbariche”, ma soprattutto il permanere o addirittura l’aggravarsi di una condizione generalizzata di indigenza, a dispetto dell’ormai evidente affermazione del cristianesimo in tutta l’area latina, indussero ben presto i primi distinguo. Agostino era piuttosto reticente sul tema del pauperismo volontario, che si prestava facilmente a derive ereticali, mentre per quanto concerne l’atteggiamento nei confronti dei poveri la legislazione di Giustiniano distingueva tra i veri e propri inabili e gli idonei al lavoro, questi ultimi naturalmente da escludere dal soccorso della Chiesa e tanto più da quello civile. Decisamente negativa era poi la considerazione della povertà, a prescindere dalle sue cause, nella società merovingia, come si desume ad esempio dagli scritti di Gregorio di Tours. Un mondo nel quale l’adesione al cristianesimo era più spesso imposta dalla forza che dettata dalla convinzione non poteva che rimanere estraneo al concetto di carità, e più ancora a quello di un qualsivoglia valore interiore della povertà. In linea di massima, comunque, quando parlavano della povertà “materiale” quasi tutti gli intellettuali e gli uomini di chiesa dei primi secoli del Medioevo tendevano a scorgervi il segno di una sorta di maledizione divina, come se il povero si trovasse a scontare una punizione tangibile e meritata.

L’immagine rimanda al Vecchio Testamento, piuttosto che al nuovo: appartiene ad un cristianesimo vissuto soprattutto come nuova forma o giustificazione del potere e come scrigno di una verità teologica, che non induce a porsi il problema in altri termini. Era una società tutt’altro che egualitaria, nella quale cominciava a farsi strada piuttosto l’idea che l’ordine sociale del mondo fosse voluto direttamente da Dio, e non andasse sovvertito. La ricchezza non era condannata di per sé, a meno di essere stata malamente acquisita. E comunque, laddove esistesse la ricchezza non era mai opulenza, mai tale da riuscire scandalosa al confronto con l’indigenza dei più. Più che dai beni era rappresentata dal potere, dalla condizione di libertà, in contrapposizione a quella di servaggio delle masse. Il sostantivato pauperes era d’altro canto riferibile in quel mondo ad una condizione talmente diffusa nel quotidiano da risultare normale, quindi non percepibile se non come termine di raffronto per leggervi una propria particolare elezione: ma assumeva una valenza morale negativa quando stava ad indicare la vera e propria indigenza, la mancanza assoluta di mezzi di sussistenza, condizione quest’ultima tutt’altro che infrequente, ma avvertita comunque come eccezionale, e affrontata pertanto con una differente disposizione d’animo. Alla povertà veniva in questo caso associata un’immagine quasi subumana, nella quale si assommavano l’ignavia, l’ignoranza e soprattutto, particolarmente pericolosa, l’invidia. All’epoca il confine tra la povertà e l’indigenza era assai precario, per cui il passaggio dall’una all’altra condizione poteva avvenire più volte nel corso di una singola vita, in seguito a periodi di carestia, di annate di raccolti andati a male, o semplicemente, nel corso di un anno, in base alle stagioni. E questo implicava che neppure tra i poveri ci fosse una particolare coscienza della propria condizione, se non quella dettata dalle immediate difficoltà di sopravvivenza.

La coscienza della povertà, intesa come percezione problematica, dal basso e dall’alto, di una differenza di condizione che contrasta con l’idea della giustizia, cambia già a partire tra il IX e il X secolo, peraltro in concomitanza con un effettivo impoverimento generale, causato, oltre che dalle incursioni dei saraceni e degli Ungari, da una serie di catastrofi atmosferiche che modificano radicalmente il clima. Si passa da quattrocento anni circa di clima caldo e secco ad una fase di umido-freddo, che sconvolge i ritmi e le tradizioni della coltivazione. Se quello materiale peggiora, migliora invece, sia pur di poco, il clima spirituale nei confronti dei poveri. Il nuovo assetto politico carolingio comporta anche un riequilibrio ed una definizione più netta dei rapporti sociali, e di conseguenza anche dei doveri morali che competono ai ceti dominanti. Nella gerarchizzazione feudale la ricchezza rappresenta il corrispettivo visibile e concreto del livello di potere esercitato, e si spoglia ulteriormente dei connotati negativi di evangelica memoria per diventare un attributo gratificante agli occhi del cielo e del mondo. Rimane per contro ferma la considerazione non nobilitante della povertà, in quanto spetta alla grazia di Dio conferire ricchezze oppure condannare alla povertà: ma si ritorna almeno a riconoscere nel prossimo bisognoso d’aiuto il Cristo sofferente, e soprattutto l’opportunità di acquisire meriti per la propria salvezza. Rabano Mauro scrive che: “In ciascun povero noi nutriamo il Cristo affamato, diamo sollievo al Cristo assetato, accogliamo il Cristo ospite in casa, vestiamo il Cristo ignudo, visitiamo il Cristo ammalato”.

Questa immagine viene sviluppata dal rinnovamento religioso che passa per Cluny e per la riforma del monachesimo benedettino, e che porta ad una diversa lettura del dettame evangelico, orientata su Dio, e più ancora sul Figlio misericordioso. Talvolta è il benefattore stesso ad identificarsi con Cristo, che si è privato delle sue ricchezze divine per offrirsi agli uomini sotto le spoglie più umili. In entrambi i casi, comunque, la povertà è investita di una funzione attiva, diventa tramite con l’ideale primario della rinuncia ai beni terreni o di una loro equa valorizzazione e distribuzione. Il rapporto rimane a lungo improntato allo scambio: una donazione materiale per un bene spirituale, la preghiera del povero che ricambia l’assistenza del ricco. In un contesto socio-economico tanto instabile e indefinito questo rapporto dà luogo ad una vera e propria divisione dei ruoli, che conserverà un certo valore anche nell’epoca della rinascita economica e della rivalutazione morale delle attività remunerative.

Dalla seconda metà del X secolo si assiste comunque ad una inversione di tendenza nella situazione economica, che comincia a presentare saldi attivi nella demografia ed una sia pur timida crescita produttiva. Si crea in questo contesto un nuovo ceto, intermedio tra i potentes e i pauperes, caratterizzato almeno da una certa continuità nella sicurezza della sopravvivenza, da elementari garanzie consuetudinarie nel rapporto con il potere, da un minimo di possedimenti personali, terrieri o strumentali, e non da ultimo da una certa considerazione di sé, che lo fa uscire dal novero degli humiles. È semplicemente una povertà meno evidente, soprattutto quella dei piccoli proprietari contadini, o degli artigiani: ma è sufficiente a marcare una linea di confine per l’uscita dalla miseria, più prossima ed accessibile, e quindi accettata con minore rassegnazione.

Ciò non significa naturalmente che la povertà tenda a scomparire. Semmai, si tenta di nasconderla, di rimuoverla. Le strade continuano però ad essere affollate di vagabondi, pellegrini, minorati fisici, contadini in fuga, disadattati, erranti talvolta per scelta volontaria, più sovente per sottrarsi alle prepotenze padronali o all’incubo della fame. Con ogni probabilità, anzi, tra il X e l’XI secolo il numero di questi sradicati aumenta, proprio in ragione delle trasformazioni economiche e politiche che stanno determinando la rinascita.

Come abbiamo già visto, il mondo cristiano aveva precocemente avvertito l’esigenza di non limitarsi ad una sensibilizzazione delle coscienze, ma di dar vita ad un concreto sforzo assistenziale, sollecitando le elemosine e ridistribuendole tra gli indigenti. La gestione delle opere di carità compete ai vescovi, responsabili su di un piano anche materiale dei loro diocesani e dei rapporti interni alla comunità religiosa. L’impegno assistenziale è affrontato con risorse non indifferenti, grazie ai particolari privilegi di cui godono i cespiti ecclesiastici, tra cui la totale esenzione fiscale, ed alla riscossione di una elemosina istituzionalizzata in forma di imposta proporzionale (la decima). Tuttavia, l’oggettiva difficoltà di mantenere rapporti continuativi, sia economici che politici, anche all’interno di zone omogenee rende necessaria un’organizzazione più capillare e decentrata degli interventi. Sono quindi le parrocchie a farsi carico in concreto di questa funzione, e pur continuando a dipendere formalmente dall’autorità vescovile danno luogo a un circuito interno di mutuo soccorso. Proprio nell’ambito parrocchiale ha origine la “matricola” dei poveri, una sorta di elenco dei bisognosi ai cui iscritti vanno i proventi della carità pubblica. L’istituto conosce una certa diffusione soprattutto in Italia ed in Francia, fino al IX secolo, spesso favorendo il costituirsi in mezzo alla massa degli indigenti di una cerchia di privilegiati, che godono della priorità, se non dell’esclusiva, delle sovvenzioni: ma già in epoca carolingia la sua importanza va notevolmente scemando. La “matricola” si basa infatti sulla redistribuzione di un quarto delle decime incamerate e sull’usufrutto dei beni ecclesiastici. Essa prospera fino a quando il potere imperiale non interviene ad attingere a questo patrimonio, e in modo particolare ai beni immobili, per elargire donazioni alla nuova aristocrazia. Ai beni immobili era precipuamente legata la vita degli immatricolati: e la loro progressiva alienazione induce la Chiesa a restringere l’ambito dell’assistenza, soccorrendo soltanto i più bisognosi, primi tra tutti i vecchi e gli ammalati.

I poveri sono pertanto costretti a muoversi, ad abbandonare i propri villaggi e le zone d’origine, a una mendicità itinerante che raggiunge le proporzioni di uno spostamento di massa nei periodi più neri delle carestie. Una volta usciti dalla cerchia dei conoscenti e dei compaesani essi diventano oggetto di una percezione ben diversa, sulla quale pesa la trasformazione del sentire sociale che consegue dal consolidamento degli istituti di potere. L’immagine stessa del Cristo vicino agli umili, ai sofferenti e agli oppressi è sostituita da quella del monarca, del signore che sta al vertice di una gerarchia avente le sue propaggini e le sua immagine sulla terra. Lo strato più basso della popolazione, quello che ne raccoglie la quasi totalità, è accomunato in una condizione generalizzata di servaggio. A tutti coloro che sono validi fisicamente è imposta una attività produttiva, e si riduce in tal modo drasticamente il ricorso alla carità pubblica. D’altra parte, il rapporto che intercorre tra il signore e i suoi soggetti impegna il primo a intervenire in soccorso di coloro che sono sotto la sua responsabilità, prima ancora che sotto l’autorità.

Nei confronti di questo pauperismo itinerante sono i monasteri a svolgere una primaria funzione di soccorso. La regola benedettina impone di accogliere “col bacio della pace” i mendicanti e i pellegrini che si presentino alle porte, di rifocillarli, di offrire loro un ricovero per la notte. Una formula pressoché simile si trova nella carta di fondazione di Cluny: “Ordiniamo che questo monastero sia per sempre un rifugio per i poveri che, uscendo dal secolo, non portano alla loro religione che la loro buona volontà, e vogliamo che il nostro superfluo diventi la loro abbondanza”. Le foresterie monasteriali diventano una tappa obbligata, l’unico riferimento sicuro per gli sbandati che brulicano nelle campagne europee. Almeno un terzo delle rendite di Cluny è devoluto all’assistenza dei viandanti, dei pellegrini e dei diseredati. Non bisogna comunque dimenticare che l’obbligo di assistenza e ricovero, con un trattamento adeguato al rango, esisteva anche nei confronti di ospiti di alto lignaggio, o comunque non bisognosi.

Il dinamismo socio-economico del XII secolo produce un ulteriore mutamento, relativo sia alle condizioni materiali che alla considerazione morale goduta dai poveri. La crescita della città ripropone il problema della mendicità urbana, di un pauperismo non più legato all’andamento delle annate agricole, ma ormai endemico, che arriva in alcuni casi addirittura ad organizzarsi professionalmente. La ripresa economica si accompagna, paradossalmente, ad una straordinaria proliferazione dei poveri, in quanto allarga l’ambito dell’esclusione a tutti coloro che non possiedono e che debbono sopravvivere prestandosi a lavori saltuari e sottopagati, impediti ad inserirsi stabilmente nell’economia urbana dal carattere chiuso delle corporazioni artigianali.

Contemporaneamente, però, il risveglio religioso porta alla fondazione dei nuovi ordini mendicanti, diffondendo un radicalismo evangelico che riscopre il positivo valore intrinseco alla povertà. I1 francescanesimo interpreta la mendicità come mezzo di redenzione, ma non contrappone violentemente questa scelta allo sviluppo dell’economia mercantile. «Nei testi, la parola “povero” assume un significato religioso e spirituale: il povero è colui che rinuncia alle sue ricchezze […]. I mendicanti fanno proseliti in tutte le classi sociali: si rivolgono tanto ai ricchi quanto ai poveri desiderosi di sentir predicare il vangelo e la penitenza. Tra i ricchi pieni di rimorsi e i poveri che vogliono sperare i Mendicanti, accettando le donazioni caritatevoli degli ambienti mercantili, li gratificano, perché giustificano le loro ricchezze, le loro forme di carità e le loro pratiche commerciali in tutte le città dell’occidente medioevale» (Goglin).

Come espressione dei dubbi e dei rimorsi suscitati nella comunità medioevale dal nuovo indirizzo produttivo e dai suoi risvolti etici, il pauperismo volontario esercita un grosso ascendente e conosce una rapida diffusione, ma è destinato altrettanto rapidamente a divenire oggetto di una reazione decisa. Le autorità religiose, che da subito avevano guardato con sospetto all’endemizzarsi di una simile disposizione, intervengono con mano pesante per stroncarne gli esiti ereticali o riformatori. D’altro canto la spinta eversiva latente nel pauperismo, quando questo si arricchisca di sfumature egualitarie e comunque di istanze antiautoritarie, mette in allarme anche il potere laico. L’alone mistico creato attorno alla povertà dalle grandi figure duecentesche si dissolve nel sospetto morale e sociale. I miserabili, i vagabondi, i mendicanti, non soltanto tornano ad essere bollati dal discredito riservato ad uno strato palesemente parassitario, inviso agli occhi di un Dio che sovrintende alle attività umane ed alla loro ripartizione sociale secondo lo schema delle tre funzioni complementari, preghiera, guerra e lavoro, ma si configurano come attentatori potenziali all’istituto riabilitato della proprietà, sovvertitori dell’ordinamento razionale cui la società si sta conformando, peso morto gravante sullo sviluppo economico.

L’identificazione tra povertà e banditismo diviene pressoché automatica nel XIV secolo, confortata dallo sviluppo di formazioni criminali spesso di notevole entità, operanti soprattutto nelle città. Nelle campagne sono piuttosto bande di militari o di cavalieri senza fortuna ad esercitare il brigantaggio e a taglieggiare sistematicamente i contadini e gli abitanti dei piccoli villaggi. I registri criminali evidenziano un rilevante aumento in percentuale dei delitti contro la proprietà, accreditabili nella stragrande maggioranza dei casi a sbandati senza dimora né occupazione. La repressione è durissima, la pena normalmente prevista per i ladri è la morte. Ma le misure repressive non sono considerate sufficienti. In periodi particolarmente critici, durante pesti, carestie o congiunture belliche sfavorevoli, si emettono ordinanze che impongono agli uomini validi di trovarsi una occupazione o di lasciare la città: il soggiorno è interdetto ai vagabondi, il ricovero presso gli organismi assistenziali è limitato, la questua è perseguita alla stregua di un’azione criminale. Poco alla volta quelli che erano provvedimenti eccezionali diventano la regola, vanno a far parte di una normativa che inasprisce le condizioni dei destinatari, e naturalmente non vale affatto a modificare la situazione.

In sostanza, fino al XIII secolo l’immagine della povertà rimane generica: può essere di spirito, di condizione, di mezzi … E può essere riferita in fondo a chiunque. Quando però il metro di misura diventa la ricchezza in beni materiali, e questa ricchezza è sempre più visibile e misurabile, e non è più una qualità sociale, ma una quantità, allora la povertà diventa per antonomasia indigenza, risulta anch’essa più visibile. E, naturalmente, più ingombrante, tanto moralmente che concretamente. Per questo al povero, sia che viva alla ventura oppure rimanga nel suo quartiere o nel suo villaggio, è sempre più sottratta anche l’unica sua ricchezza, quella della libertà.

 

Dai poveri di Cristo ai miserabili

A testimoniare il mutamento intervenuto nella percezione del problema del pauperismo c’è, oltre all’azione legislativa e repressiva, lo sviluppo di nuove forme di attività caritativa. Nella seconda metà del ‘400, a partire dalle terre pontificie dell’Italia centrale, soprattutto dall’Umbria, dalle Marche e dalla Toscana, centri tradizionali dell’attività francescana, si diffonde verso il nord un istituto caratteristico, il Monte di Pietà. Iniziative analoghe erano già state tentate dalle autorità ecclesiastiche o cittadine in altre zone d’Europa, dalla Francia all’Inghilterra. Ma è in Italia che l’istituto si consolida, sotto la spinta appunto della predicazione francescana e a dispetto di una iniziale decisa opposizione dei domenicani.

Si tratta di un fondo di denaro o di altri beni che vengono raccolti per l’assistenza ai poveri e concessi loro sotto forma di prestito, dietro garanzia di un pegno. L’istituzione nasce per impedire che i poveri in momenti di grave difficoltà economica (che può configurarsi anche come mancanza di sementi, come abbiamo già visto) finiscano nelle mani degli usurai locali, che tanto nelle città come nelle campagne prestano ad alto tasso di interesse. Questi usurai sono solo in parte ebrei, molto spesso sono lombardi o toscani, e in alcuni casi gli ebrei erano anzi stati invitati a svolgere la loro attività di prestatori in piccole città e in villaggi, proprio per abbassare i tassi eccessivi richiesti dagli usurai locali. Pure, i Monti di Pietà sono sostenuti da una ideologia fortemente antiebraica, e hanno il fine proclamato di offrire al popolo cristiano un’alternativa reale che lo sottragga alle grinfie degli ebrei. In questa direzione va soprattutto la predicazione di personaggi che torneranno più avanti nel nostro racconto in relazione all’antisemitismo, come Bernardino da Feltre.

In cambio del prestito (che può essere in moneta, ma anche in granaglie) è di regola richiesto un interesse. Questo in genere è estremamente moderato, comunque molto inferiore a quello imposto da altri prestatori, ma pone lo stesso una grave questione di principio: quella appunto della liceità di un interesse. Vengono fatti anche tentativi, per la verità di breve durata e con esiti poco lusinghieri, di prestito senza interesse, sostenuti da frati di stretta osservanza della regola francescana, come Michele d’Acqui, ma alla fine è proprio un capitolo francescano, nel 1498, a stabilire che non solo è lecito, ma assolutamente doveroso chiedere un tasso d’interesse, perché gli esperimenti fatti dimostrano che in altro modo i Monti potrebbero sopravvivere, e verrebbe meno un servizio essenziale per la comunità.

Ai Monti di Pietà si affiancano sul finire del Medioevo altre istituzioni caritative. Intanto, molte confraternite trasformano la propria fisionomia accentuando, anziché la dimensione interna e di preghiera, quella dell’assistenza e dell’impegno sociale; si comincia magari con l’erogarla ai propri associati e la si estende poi poco alla volta agli esterni. Per la cura dei malati, ad esempio, riprende vigore e muta la finalità un’istituzione antica, quella degli ospedali. Il fine originario dell’ospedale medioevale era in effetti quello dell’accoglienza e dell’ospitalità ai pellegrini; di cura d’anime, cioè, prima e piuttosto che di corpi. Questa funzione in qualche misura viene mantenuta, ma si accentua sempre più quella di assistenza agli infermi. Inoltre, in alcuni casi si assiste alla concentrazione in un unico corpo dei vari ospedali della città. Così a Milano nel 1448 viene fondato l’ospedale Maggiore (in conformità alle tendenze di accentramento dei Visconti) mentre a Genova e a Venezia gli ospedali generali nascono alla fine del ‘400.

Al secolo successivo appartengono invece i primi interventi sistematici dei poteri pubblici attraverso una legislazione sociale: ne è toccata tutta l’Europa, la Germania negli anni ‘20, l’Olanda dal 1524-25, la Francia negli anni ‘30, la Spagna dal 1540, l’Inghilterra con una grande fioritura in epoca elisabettiana, In Italia troviamo Venezia che legifera per reagire ai disagi della grande carestia del 1529, mentre a Roma una legislazione organica compare solo sul finire del secolo.

Pur nelle differenze, le leggi sui poveri avevano tutte alcuni criteri in comune: la distinzione tra povero inabile ed abile al lavoro, l’ordine di priorità nella distribuzione degli aiuti in modo che questi fossero utilizzati nel modo più efficace possibile; il progetto di mettere al lavoro gli abili sotto pena di espulsioni e punizioni; l’educazione al lavoro dei bambini mendicanti; togliere gli inabili dalle strade e dalle chiese e metterli negli ospedali, dove ricevevano automaticamente la loro elemosina; lasciare la possibilità di mendicare solo a determinate condizioni, e previo certificato; ridurre l’elemosina spontanea, individuale, volontaria; finanziare l’opera con sistemi di tassazione generali più o meno spontanei; deputare lo svolgimento dell’opera a funzionari scelti dalle comunità locali.

Nell’Inghilterra elisabettiana il povero che possieda meno di 40 scellini non può emigrare fuori della sua parrocchia senza certificato, e deve continuare a vivere nel mestiere nel quale era stato allevato; se è disoccupato gli può facilmente capitare di finire nelle work-houses, vere, terribili prigioni; se è privo di casa può, o meglio deve, alloggiare nelle alm-houses, non meno orribili, numerose nelle città e nei villaggi. A Parigi e Lione può ricevere aiuto da istituzioni create per soccorrere i gueux che, morenti di fame, giungono a folle negli anni di carestia, ma gli può anche capitare di essere cacciato dagli chasse-coquins, una forza poliziesca che ha il compito di combattere la mendicità illecita. In genere il vagabondo se è in grado di lavorare viene imprigionato o è costretto a trovar lavoro entro tre giorni, pena l’espulsione. Da ogni lato, con ogni mezzo, la povertà è braccata: nella nuova società postfeudale non ha più nemmeno il titolo di specchio dell’umiltà di spirito e di occasione per l’acquisto di meriti da parte dei potenti. Eppure, anziché essere risolto, nel passaggio dall’età medioevale a quella moderna paradossalmente il problema delle differenze sociali si aggrava. Il medioevo conosceva bene la povertà e la miseria: ma i poveri erano rimasti nel complesso un fenomeno numericamente marginale, e trovavano facilmente aiuto, soprattutto perché il principio era che il povero fosse mantenuto dal suo villaggio, dalla sua comunità, dal suo signore. Soprattutto, la sua presenza rientrava necessariamente nello schema dell’interpretazione cristiana della vita: costituiva un monito, era l’incarnazione vivente del Cristo, esemplificava un’alternativa santificante. Ora invece viene a cadere ogni giustificazione morale della povertà: se prima veniva accostata sempre più frequentemente al delitto, ora diventa essa stessa un delitto.

Essere povero significa innanzitutto, nell’età moderna, vivere in una compagnia troppo affollata. L’Inghilterra conosce dalla fine del ‘400 un incremento rilevante di mendicanti e vagabondi, dovuto sia allo sviluppo delle recinzioni sia al degrado generale della proprietà contadina (come osserva Tawney, “finisce il villanaggio e comincia la Poor Law”). Nei censimenti borgognoni cresce il numero delle famiglie considerate povere, e nei documenti spesso si aggiunge una terza categoria, quella di mendicante, o “mendicante e vagabondo”. La stessa situazione troviamo a Digione, in Normandia, nel Brabante, dove il numero totale delle famiglie povere aumenta. Non è possibile dire in che misura il fenomeno sia generalizzabile a tutta l’Europa, né quanto la sua incidenza sia da attribuire a congiunture sfavorevoli e quanto invece indichi una tendenza di lungo periodo. È certo però che esiste e viene percepita con crescente disagio una massa enorme di diseredati, di esclusi dal nuovo ordine economico e dalla immagine che vuole dare di sé.

Siamo in presenza di una povertà più avvertita nell’esperienza quotidiana, di una spaccatura nel tessuto sociale più tangibile ad ogni passo della giornata e della vita degli uomini del tempo, proprio per la diffusione e l’esternalizzazione di una ricchezza maggiore, di un livello superiore del benessere per alcuni ceti, che è possibile constatare nel rifiorire dell’arte e dell’architettura, ma che si manifesta anche nella quotidianità del vestire, dell’abitare, dell’alimentazione.

In concreto, essere povero significa appunto essere privo di tutto quanto è accessibile al ricco. Significa muoversi a piedi per strade, soprattutto le vie cittadine, generalmente maltenute e fangose, e non solo per le piogge ma anche perché è lì che si scaricano rifiuti ed escrementi; abitare nei quartieri più soggetti ad inondazioni, incendi ed epidemie, in catapecchie malsane e fatiscenti; vestire sempre lo stesso essenziale abbigliamento; non avere mai un soldo in tasca in un’epoca nella quale ormai il baratto è stato sostituito dallo scambio monetario, e dipendere così dagli usurai per ottenere gli spiccioli per qualche urgente necessità (o il grano da seminare, se per sopravvivere si è stati costretti a mangiare le scorte riservate alla semina).

Il povero viene descritto come brutto, rozzo, puzzolente, grossolano; è sufficiente seguire la parabola della sua rappresentazione pittorica, dal Giotto della cappella dei Bardi o della chiesa inferiore di Assisi, che raffigura le nozze allegoriche di san Francesco con una Povertà in vesti dimesse, ma composte, fino al Brueghel de I Mendicanti, per cogliere nei volti, negli atteggiamenti e nell’abbigliamento una caduta verticale della dignità.

Ma la povertà significa ancora, e soprattutto, esposizione alla fame. Non stupisce quindi che sia la fame il tema principale del primo romanzo picaresco, il Lazarillo de Tormes (1550 c.a.), né che la fame ritmi il sogno del povero: il paese di Cuccagna, come ce lo racconta Brueghel, ha le torte che cadono dai tetti, aiuole fatte di salsicce, maiali già arrostiti pronti per esser mangiati.

Alla povertà ed alla fame si può reagire in vari modi. Per la donna, una delle vie maestre per garantirsi la vita è la prostituzione. In epoca rinascimentale nelle città il numero delle prostitute cresce considerevolmente, specie nei grandi centri di commercio come Venezia, o nei centri cui affluiscono stranieri, come Roma. Sono rimaste famose le grandi cortigiane rinascimentali, che partecipavano ai fasti della vita dei ricchi e venivano eternate nelle tele di Tiziano, ma non le altre, molto più numerose, che più miserabilmente si guadagnavano la vita. Del resto, sul finire del Rinascimento anche questa contiguità comincia a pesare sull’aristocrazia, ed inizia la politica di segregare le prostitute in un quartiere della città.

Oppure, uomo o donna, si può entrare in quel mondo degli erranti e dei vagabondi che percorre le campagne e si ammassa nelle città, che mendica, ozia, gioca e scommette, rubacchia, qualche volta si dà al banditismo. Li troviamo equamente sparsi e sempre più puntigliosamente censiti in tutta Europa: in Spagna, a Venezia, a Palermo, a Roma, in Francia (Rouen nel 1534 censisce come impotenti e mendicanti il 15% della popolazione), in Inghilterra.

Il sorgere nel ‘500 di iniziative pubbliche di assistenza, accanto alle confraternite e all’elemosina privata e a margine dei primi interventi di legislazione sociale, costituisce un fatto nuovo, carico di implicazioni teoriche e sociali. Allorché comincia ad essere adottata sempre più sistematicamente una legislazione sui poveri, che intende organizzare l’assistenza e sopprimere la mendicità, si apre infatti nella società cristiana un acceso dibattito. Da un lato c’è chi giustifica l’intervento legislativo sostenendo che stimola il bene comune, e di conseguenza promuove indirettamente il bene di ogni membro della comunità. Dall’altro chi ritiene che mendicare costituisca una libertà fondamentale, della quale nessuno può essere privato, a meno che non si tratti di un delinquente. L’aiuto dato al povero è quindi un’azione individuale, sia per parte del povero che del benefattore, ed opera nell’interesse del bene spirituale di entrambi. Tra i primi troviamo, accanto ad umanisti come Juan Luis Vives, fior di teologi delle migliori università europee, mentre contro si schierano una parte del clero cattolico e gli ordini mendicanti, che contestano i fondamenti teologici e pratici delle leggi sui poveri. In sostanza, questi ultimi caldeggiano una carità personale, irregolare, spontanea, gli altri una carità più impersonale, semiprofessionale, nell’assunto che un’assistenza regolare degradi il povero meno dell’elemosina.

In prospettiva il dibattito è importante per quanto svela della trasformazione della sensibilità e dei nuovi elementi che in questa si stanno facendo luce. Esso verte principalmente sulla natura della misericordia e sul suo rapporto con la giustizia. La misericordia può cancellare i peccati, e mantenere nello stato di grazia: la giustizia significa semplicemente dare ad ognuno il suo. Le leggi sui poveri riducono la misericordia ad atto di giustizia (sempre che, vietando di mendicare, le autorità si facciano carico del mantenimento del povero) e cancellano le relazioni personali tra il povero e il suo benefattore: il povero rinchiuso in un ospedale, che ha rapporti con l’istituzione e non con le persone, diventa un numero, e quand’anche sia assistito è già un dimenticato. Inoltre con la misericordia si accompagna la compassione, un sentimento dell’animo che nessuno può provare se non incontra direttamente il povero. Per questo la carità non può essere delegata ad un comitato di funzionari.

A ciò i difensori delle leggi obiettano che la vera misericordia implica il porre rimedio a delle situazioni, e che rimediare è gesto più meritorio che sovvenire temporaneamente. Come esempio principe di rimedio radicale viene citato addirittura quello di Cristo, che toglieva ai mendicanti la ragione di mendicare dando loro la salute, così che essi potevano guadagnare senza la vergogna della mendicità.

Nella sostanza la posizione dei difensori delle leggi sui poveri prefigura le prospettive e i percorsi di politica sociale che si svilupperanno nei secoli successivi, da quelli minimalisti del liberismo più democratico a quelli assistenziali della social-democrazia, fino a quello “liquidatorio” del comunismo, e che avranno un unico chiaro obiettivo: togliere alla società il peso economico e potenzialmente destabilizzante del povero. Quella dei pauperisti, anche se dettata dalla vecchia interpretazione caritativa del rapporto di scambio tra bene materiale e bene spirituale, del reciproco soccorso tra benefattore e beneficato, prelude invece, se declinata in una versione secolare, piuttosto ad un liberalismo integralista, che può essere estremizzato fino all’anarchismo più individualistico.

Il paradosso è che a cinquecento anni di distanza il dibattito prosegue quasi negli stessi termini. La materia del contendere non manca: i due terzi dell’umanità continuano a morire di fame o a vivere al di sotto della soglia della dignità. Le differenze stanno nello scenario cui si fa riferimento, che è ormai il mondo intero, e nelle cause di volta in volta tirate in ballo per dare ragione del fenomeno, che non concernono più il volere divino, ma a seconda dei tempi e delle scuole di pensiero l’ambiente, il colonialismo, la razza, i cromosomi, il capitalismo, ecc…; e ancora, nel fatto che la scelta tra l’intervento “di sistema” e quello lasciato allo spontaneismo non riguarda più singoli individui, ma interi popoli. A non variare è comunque il risultato: da un lato si sprecano i summit delle nazioni più ricche, che si impegnano solennemente ogni sei mesi a spazzare via la povertà dal mondo con giganteschi e articolati piani di intervento, dall’altro impazzano elemosine popolari telepilotate su ogni catastrofe che abbia i requisiti per un buon impatto mediatico (l’occasione offerta a tutti per fare del bene a buon mercato, guadagnarsi meriti per eventuali purgatori e mettersi in pace la coscienza di fronte all’ingiustizia del mondo) o agenzie di volontariato (il moderno pauperismo) che operano in un ambiguo miscuglio di interessi e di generosità sincera. In mezzo, miliardi di disperati, più che mai dissonanti rispetto all’immagine di moderna “città di Dio” alla quale la società dello sviluppo infinito ambisce, ma anche più che mai necessari, come serbatoio di forza lavoro a costo zero, a garantire di questo sviluppo almeno una temporanea continuità.

 

Incubi dello spirito

La mentalità medioevale è frutto di un’interpretazione fenomenica dell’esistente, che cancella il confine tra l’oggettività del mondo e la soggettività dell’esperienza. Ogni evento viene letto come proiezione terrena di una vicenda che lo trascende e lo inscrive in una superiore storia della salvezza. Paradossalmente, però, nel momento stesso in cui all’attività dei sensi è negato ogni valore autonomo il suo campo d’azione e i suoi poteri sono dilatati all’infinito. Ciò che viene esperito come “realtà” è infatti soltanto una superficiale manifestazione di dinamiche più ampie, e come tale non esclude alcuna presenza straordinaria e mostruosa. Una volta assunti il paradiso e l’inferno quali orizzonti del proprio mondo, l’uomo medievale non è tenuto a delineare i contorni di quanto in esso può oggettivamente esistere, ma piuttosto a leggere ed interpretare in prospettiva ogni percezione, trasfigurandone la portata e il senso. Di qui la proliferazione di “visioni”, che la paura e la speranza alimentano incessantemente: di qui soprattutto la ressa di presenze fantastiche, demoni, spiriti, folletti, mostri, che vanno ad affollare la vita quotidiana dell’individuo e della comunità.

Queste presenze rispondono ad un bisogno psicologico profondo. In assenza di una prospettiva storica, o più semplicemente di una proiezione temporale del suo esistere, l’uomo del medioevo vi scorge la confortante riprova di un suo attivo e personale coinvolgimento in quanto avviene a livelli ultraterreni. I santi che lo proteggono, i mostri e i diavoli che lo terrorizzano e lo tentano, fanno di lui un attore della grande vicenda, e gli danno ragione di un’esistenza che diversamente sfugge alla sua comprensione. D’altra parte, la traumatica esperienza quotidiana del male (morte, malattia, fame, miseria, violenza), cui si assommano quelle vissute dalle generazioni precedenti, genera nell’animo “romanico” la necessità di rappresentarne sensibilmente le forme, quasi che un’oggettivazione ed una individuazione in aspetti concreti facilitino la lotta e concorrano al tempo stesso ad esorcizzarlo. La copiosa elaborazione di immagini fantastiche, la deformazione sistematica del reale, che viene traslato in una dimensione onirica, nella quale piante, animali, uomini ed avvenimenti acquistano significato simbolico, sono funzioni di un anelito incessante al riconoscimento, allo smascheramento, all’interpretazione. Nella misura in cui il mondo è un’allegoria, la sua lettura deve essere criptica, e le chiavi sono offerte soltanto da un sentire enfatizzato.

 

 

Mostri e portenti

Le raffigurazioni mostruose ed orrifiche sono perfettamente congeniali ad una sensibilità per il negativo così acuta. L’iconografia dell’epoca ne è ricchissima, ma probabilmente rispecchia solo in minima parte quello che doveva essere l’universo fantastico medievale. I regni della natura sono arricchiti di specie e di individui partoriti o ibridati da un’ossessione visiva incredibilmente feconda, e ogni occasione è buona per tradurre in immagine lo scatenamento della fantasia. Non è necessaria neppure l’intenzionalità specifica della deterrenza o dell’edificazione. Le lettere dell’Alfabeto di Giovannino de’ Grassi, ricavate storcendo e ricombinando corpi umani ed animali, hanno una funzione puramente decorativa, al pari di tutta una produzione miniaturistica e dello sterminato repertorio di “grilli” che va a insaporire il lavoro degli amanuensi; testimoniano una serializzazione compiaciuta della negatività portentosa.

Le caratteristiche più ributtanti e grottesche di uomini, animali e piante vengono accentuate, scorporate, distorte e infine riunite in esseri dalla natura ambigua, ma dall’effetto indubitabilmente raccapricciante. Dai timpani delle cattedrali, dai giudizi universali, dalle innumerevoli “tentazioni”, dalle incisioni su legno degli incunaboli fuoriesce una fauna composita e stravagante, frutto di un’immaginazione artistica senz’altro fervida, ma anche dell’esasperazione collettiva espressa in forme allucinate. È’ un turbinio di esseri indefinibili e malefici, che si accalcano ad infierire sui dannati e a tramare contro i virtuosi, in un’orgia fantastica in cui riesce difficile tracciare un confine tra l’ingenuità e la consapevole deformazione. Sono grifoni dal capo di tapiro, maiali con testa d’istrice e code di serpente, batraci enfiati in maniera inverosimile, rettili alati e crestati, demoni caudati dalle zampe caprine, con teste di cane, orecchie d’asino e ali di pipistrello, manticore umanoidi dal corpo leonino e con code di scorpioni; e poi insetti enormi, a metà tra il maggiolino e la testuggine, e pesci dal corpo peloso, con enormi orecchie e zanne di cinghiale; e infinite altre incarnazioni di draghi, diavoli, basilischi, e mostri d’ogni sorta, a tenere desta l’attenzione per un mondo latente ed oscuro, ma altrettanto reale, nella fantasia sbrigliatasi dai limiti dell’oggettivo, di quello quotidiano e tangibile della natura.

Naturalmente, una natura parallela così turgida e complessa non germina spontaneamente dall’humus della fantasia medievale: vi trova piuttosto l’ambiente ideale per una proliferazione abnorme e per l’autonomizzazione dei significati simbolici. Le sue radici vanno scavate nell’eredità biblica, classica e orientale, giunta al mondo romanico attraverso le mediazioni del cristianesimo, dell’islamismo e dell’iconografia bizantina. La novità risiede proprio nel progressivo emanciparsi dall’accezione simbolico-formale e nell’entrare a far parte in concreto di una realtà onnicomprensiva, nella quale trovano spazio le più disparate forme di esperienza. È così che creazioni fantastiche della classicità, come la medusa, la sirena e il centauro, vengono accolte ed utilizzate nella loro valenza simbolica originale, magari sovraccaricata e riadattata, ma allo stesso tempo compaiono nei bestiari e nei trattati zoologici, ad arricchire la fauna semifavolosa dei rinoceronti, degli elefanti e delle pantere. E ad esse si aggiungono dragoni e serpenti di ascendenza orientale, e liocorni e grifi bizantineggianti. Dalle scritture ebraiche la fantasia medioevale attinge invece la caratterizzazione, in negativo o in positivo, delle specie esistenti: agnelli e lupi, asini e pesci, bruchi, cavallette ecc…, che si ritrovano in tal modo coinvolti nello scontro soprannaturale, e ne diventano agenti e strumento.

Accade anche che assieme ai tratti dell’animale fiabesco venga recuperato ed adattato l’intero tema mitologico che lo concerne: ad esempio, la leggenda del combattimento contro il dragone. Il mito, di origine orientale, vede protagonisti nella più nota delle versioni classiche l’eroe Perseo, a cavallo di Pegaso alato, la fanciulla Andromeda ed il serpente marino al quale la giovane è offerta in sacrificio. In epoca medievale è assunto a simbolo visivo della contrapposizione dualistica, e conosce pertanto una grossa fortuna iconografica: mosaici, affreschi, vetrate narrano alle masse il drammatico duello, sostituendo il drago al mostro del mare e procurando a san Giorgio, l’equivalente cristiano di Perseo, una notevole popolarità. Proprio la sterminata reiterazione del soggetto lungo i secoli consente di cogliere nelle trasformazioni subite dai protagonisti, e particolarmente in quelle del drago, il mutamento della sensibilità rispetto alla percezione e alla raffigurazione del male. C’è una notevole differenza tra il pathos col quale è raccontato lo scontro negli affreschi di Simone Martini o del Pisanello, e l’aura fiabesca nella quale lo immerge Paolo Uccello: qui, in una scenografia che pare di cartapesta il povero drago, tenuto addirittura al guinzaglio da una fanciulla per nulla intimorita, suscita più tenerezza che pena. È la differenza che corre tra un mondo ancora in preda ad una visione tragica ed antagonistica dell’esistenza ed uno che si apre a nuovi modelli di conoscenza, e rimette miti, leggende, santi e mostri al loro posto, nel teatrino consapevole della fantasia. Ma meno di un secolo dopo, in una situazione tornata drammatica per l’esplosione del protestantesimo da un lato e per l’incombere dei Turchi dall’altro, Vittore Carpaccio torna ad ambientare il duello in un’atmosfera macabra.

La lettura allegorica rende quasi canonici gli elementi della rappresentazione: il cavaliere trafigge il mostro conficcandogli la lancia in bocca, la scena si svolge di fronte alla caverna disseminata dei resti delle prede sventurate. Nel drago sono da riconoscersi, a seconda del periodo o dell’opera, il paganesimo, l’idolatria, il male nella sua incarnazione demoniaca, fuoruscito dagli antri infernali: e san Giorgio personifica la cristianità, o il suo braccio secolare, mentre la dama è ora la fede, ora la chiesa di Roma.

La natura del dragone è straordinariamente composita: uccello, serpente, felino e pesce al tempo stesso, ricorda a volte il coccodrillo, a volte l’iguana, a volte lo pterodattilo o il raptosauro preistorici: e pur essendo alato sembra strisciare, di modo che anche il cavallo dell’eroe può contribuire alla sua neutralizzazione, calpestandolo. Il cavallo è un altro elemento determinante dello scontro e della rappresentazione. Chi sconfigge il drago è un cavaliere, in possesso di capacità fisiche e morali e di uno strumentario bellico particolare: appartiene ad una casta superiore, la cui esistenza è giustificata appunto dalla lotta fisica contro il male. E ciò fa sì che san Giorgio sia assunto a patrono della cavalleria. Agli occhi del popolo, però, di chi non può identificarsi nel cavaliere, ha probabilmente maggior risalto la figura del drago: è quanto di meno verosimile ci si possa attendere dall’esperienza quotidiana, ma proprio per questo è l’espressione più completa di una paura e di una inquietudine che non hanno oggetto né confini precisi.

Ma i mostri che turbano i sogni e le visioni dell’umanità medievale non sono sempre e soltanto un’eredità culturale. Spesso è la realtà di un pericolo incombente ad essere trasfigurata nella dimensione onirica: l’impotenza nei suoi confronti non trova alternativa di sfogo all’iscrizione in un contesto diabolico o magico, ove le ragioni dell’istinto e della sopravvivenza lasciano il posto al disegno distruttivo del maligno. È il caso del lupo mannaro, inquietante figura che ricorre nelle mitologie primordiali di iniziazione e di fondazione, e che conosce in epoca medioevale una rielaborazione in chiave malefica. Il lupo è la belva per eccellenza della foresta medievale: la sua presenza è uno spauracchio per il viandante, per i pastori, per gli abitanti dei piccoli borghi rurali. È un nemico mortale dell’uomo, che non si limita a depredare, ma attacca direttamente e ferocemente. Non a caso nel repertorio miracolistico dei santi l’ammansimento del lupo è uno dei topoi più ricorrenti. Eccolo quindi apparire nei timpani delle cattedrali, intento alla sua attività di predone: e poco alla volta eccolo perdere la sua connotazione animalesca per assumere sembiante antropomorfico e diabolico. Anche in questo caso si tratta di un processo di ibridazione fantastica, che rimane però strettamente legato alla realtà del pericolo. Perché la selva non nasconde soltanto i lupi: un pericolo altrettanto vivo è costituito dalle bande di briganti che operano in branco, appunto come i lupi, e non sono meno feroci. O ancora, essa fa da sfondo ad un fenomeno come la licantropia, che nella suggestione popolare diventa specchio tangibile della lotta intrinseca alla natura umana.

L’esigenza di smascherare e controllare il negativo delineandone visivamente i contorni non basta comunque a spiegare i caratteri della rappresentazione orrifica nel medioevo. In realtà la letteratura e l’iconografia demonologiche sono investite in questo periodo di una funzione eminentemente didascalica, e trasmettono alla massa dei fedeli, attraverso la sequenza narrativa naturalistica o la simbologia, l’interpretazione cristiana delle vicende terrene: in particolare mirando a sottolineare i pericoli che la condizione umana comporta e la presenza del disegno satanico.

Il diavolo in agguato

  1. L’oggettivazione del male: la demonologia

*Differenza tra daimon e diabolus. L’uso negativo del primo termine introdotto dalla traduzione della Bibbia dei Settanta.

** Il culto in occidente è direzionato verso il positivo. È demone ciò che si frappone tra l’uomo e Dio, e in quanto tale è ciò che è estraneo a questo rapporto. La qualità malefica sta appunto in questa estraneità.

1° fase – la demonologia precristiana

Culture primitive: è sempre presente (Asia e America settentrionale) una figura che interviene a disturbare o a guastare l’opera del creatore: è estranea alla creazione, ma in qualche modo ne è anche partecipe.

Mondo ellenico: ci sono figure orrifiche, la Gorgone, la Chimera, l’Idra, ecc., ma non hanno il valore di una potenza oppositiva. Così come le erinni, sono in genere sopravvivenze di una cultura arcaica. Allo stesso modo le immagini dell’Erebo o della stessa Thanatos, la morte, rimangono in una dimensione che non è quella di una volontà malefica, ma di una necessità naturale. Il daimon è per i greci soprattutto una questione interna (vedi Socrate), legata alla colpevolezza o all’ignoranza dell’uomo.

Vicino oriente: nel mazdeismo e nel manicheismo (Asia minore) la figura negativa ha valenza divina. In Egitto solo entità inferiori, con attributi animaleschi (coccodrilli, serpenti). Ma c’è anche il mostro divoratore che mangia le anime di coloro che sono giudicati colpevoli (nel libro dei Morti). In Mesopotamia figure femminili [Lamatsu (la febbre, raffigurata con testa di leone e con serpenti nelle mani, o dita serpentate) e Lilith (la lussuria. Corpo di donna e zampe di uccello rapace)].

Estremo oriente: sia nell’induismo che nelle religioni giapponese e cinese non esiste la figura del daimon negativo. Le immagini terrifiche hanno invece una funzione protettiva. Anche l’immagine del drago in Cina è simbolo del verbo creatore, al contrario che in Occidente).

Mondo ebraico: qui i simboli del male si sprecano, animali e mostri del deserto. Il demone meridiano, che porta la malattia, e la Morte, nel cui regno dimorano i mostri dell’elemento liquido (Leviathan) e dell’abisso. Tuttavia non c’è l’identificazione con una entità generale, per la preoccupazione di evitare ogni dualismo. Esistono tuttavia gli angeli caduti. Satana (sathan significa il calunniatore) non è mai il capo delle forze del male, ma si associa ad esse.

Mondo preromano: nella cultura etrusca molte entità con attributi orridi e animaleschi, ma associate non tanto all’idea del male quanto al mistero e alla tristezza della morte.

Islam: ci sono anche qui figure del male (i ginn), che hanno aspetto animalesco (leone, serpente) o sembiante femminile.

  1. La rappresentazione del male

Le prime rappresentazioni sono di ispirazione biblica: la figura del serpente attorcigliato attorno all’albero del bene e del male, ma anche il leone (come dalle parole di Pietro: il diavolo, vostro avversario, si aggira come leone ruggente in cerca di divorare – prima lettera).

Fino al IX secolo. In una prima fase è il Cristo militante a schiacciare sotto i piedi i simboli del male, il serpente e il leone. Ci si rifà a simboli antichi, biblici o pagani (questo è simbolo positivo se attorniato dai quattro evangelisti, negativo anche nella Bibbia – vedi Sansone). Il demonio appare soprattutto nelle raffigurazioni di esorcismi e poi in quelle delle tentazioni di Cristo.

Nei secoli successivi sia gli episodi di possessione che quelli di tentazione coinvolgeranno non più Cristo, ma i santi (ad esempio, S. Francesco o Sant’Antonio Abate).

In sant’Apollinare Nuovo la prima raffigurazione dell’angelo malvagio, che si distingue da quelli buoni solo per il colore scuro della veste. Il tema viene sviluppato nelle innumerevoli cadute degli angeli ribelli, che dapprima li raffigurano ancora come angeli (a ribadire che il Male non esiste di per sé, ma poi cominciano a raffigurarli già come demoni). Comunque, si tratta ancora di una pluralità di figure, nessuna delle quali detiene ancora il primato del male.

Poco alla volta invece il discorso si focalizza su una figura centrale, quella di Lucifero (vedi anche Dante).

Altro tema ricorrente quello del patto col diavolo, anche nella variante del diavolo istigatore (ad esempio alle spalle di Erode). Comincia ad essere qui evidente la corresponsabilità dei malvagi nell’azione demoniaca (che passa dai carnefici di Cristo ai nemici esterni e poi a quelli interni, come gli eretici)

La crescita di importanza della figura diabolica si nota nelle rappresentazioni dell’anastasi, la resurrezione finale, nella quale si contrappone a Dio, o della psicostasia, pesatura delle anime, nella quale si contrappone all’angelo (tema di derivazione orientale, e prima ancora egizia)

Di qui si passa alle rappresentazioni del Giudizio Universale, con una quasi equivalenza nello spazio dato alle due figure. Rappresentazioni del Diavolo assiso in un trono che riunisce tutti i simboli del male, che ha tre teste (anche qui derivazione orientale ed etrusca, ma chiaro riferimento parodistico e ingannatore alla trinità), corna, zoccoli, artigli, volto nel ventre, sesso indistinto.

Quasi sempre il Diavolo viene presentato con l’Anticristo in grembo.

Il processo di costruzione dell’immagine mostruosa

  1. È voluto e guidato soprattutto dalle classi dominanti, dal potere. La Chiesa deve portare a compimento l’opera di cristianizzazione delle campagne, recuperando parte del patrimonio pagano (le feste, il pantheon dei santi, la figura della Madonna) e demonizzando il restante. La paura di quel patrimonio non è diffusa tra le classi popolari, che ancora lo sentono proprio.
  2. È accentuato dai monaci, che recuperano il patrimonio orrifico della tradizione pagana.
  3. In questa direzione va anche la diffusione delle sacre rappresentazioni, che offrono il teatro ideale per mettere in scena le forme più orrende e bizzarre, ma anche per contrabbandare divinità o entità pagane (vedere l’aggancio con le processioni del giovedì santo, che danno luogo allo scatenamento).
  4. La nascita del Purgatorio comporta anche la necessità di un chiarimento sull’esistenza e la consistenza dell’Inferno.
  5. La predicazione degli ordini mendicanti.
  6. Enfatizzato nel corso della lotta contro le eresie, che propone il tema del diavolo ingannatore.
  7. Nell’Umanesimo e nel Rinascimento si diffondono immagini del male che non sono più riferibili ad una potenza satanica unica, ma ad una distorsione diffusa e capillarmente presente nella quotidianità. Sono i demoni della nostra coscienza, frutto della diffusione del senso di colpa individuale che porterà al protestantesimo. C’è anche l’idea negativa della naturalità (Bosch e Bruegel).
  8. Con la controriforma si affermano immagini seducenti del male, soprattutto sotto spoglie femminili.

La raffigurazione del male nella sua più specifica incarnazione, quella demoniaca, si afferma in epoca relativamente tarda, a partire cioè dall’XI secolo. Nell’alto medioevo l’idea di una forza reale e indipendente che si contrappone al bene non è affatto diffusa: il male è piuttosto interpretato, alla maniera agostiniana, quale non-essere, un venir meno delle ragioni d’esistenza poste dalla divinità; e la lotta è un recupero di queste ragioni, si svolge nell’interiorità dell’uomo e non già contro un’essenza estranea e concreta.

L’autonomizzazione del male si lega invece agli elementi tendenzialmente manichei che sono presenti nel nuovo sentire cristiano, una volta esaurita la spinta missionaria e realizzata l’uniformazione religiosa dei popoli europei. L’ortodossia maturatasi nelle vicende della crescita e dell’espansione è costruita in modo tale che comporta l’individuazione, sia all’interno che all’esterno, di una estraneità concreta. L’esistenza del nemico esterno a sé diviene per la chiesa un dato imprescindibile, e va sottolineato costantemente, suscitando nell’animo dei fedeli un salutare terrore. A questo scopo, occorre lasciare i livelli metafisici e connotare il pericolo in termini recepibili anche da una sensibilità immediata come quella medievale: e nulla vale meglio, in funzione del riconoscimento, della rappresentazione antropomorfa.

Nelle testimonianze figurative più remote, la negatività mantiene comunque il sembiante dell’umanità stravolta, portata all’eccesso della sua valenza simbolica. I diavoli che popolano i bassorilievi romanici hanno volti ferini, teste e code di animali. Quelli che tormentano Giuda in un capitello di Saint Lazare, ad Autun, hanno il volto deformato da un’enorme bocca, ed è questo l’elemento che maggiormente colpisce, mentre le ali e la coda sono solo timidamente accennate. I demoni dei portali di Santiago di Compostela hanno invece musi scimmieschi e zampe d’uccello. Nelle innumerevoli raffigurazioni del Giudizio troviamo al centro, fulcro e motore della composizione, l’immagine divina, mentre i demoni sono relegati in spazi laterali e marginali, semplici esecutori della sua giustizia. A Torcello sono caratterizzati, oltre che dalle ali, anche dal colore scuro: ma in questo caso è stranamente nera è anche la figura di Dio. È dominante, nella raffigurazione del male, l’idea della regressione, della mancata attuazione delle potenzialità spirituali insite nell’uomo: il correlativo della bestialità rimane l’impotenza, che si esprime nel moto convulso e confuso, nella contorsione e nella difformità contrapposti alla serena ed immutabile compostezza del bene.

In epoca più tarda la reificazione terrena dell’essenza demoniaca conosce un salto qualitativo. La rappresentazione poco alla volta si complica, con l’intervento di connotazioni simboliche o puramente esornative che tendono al superamento non soltanto della dimensione animale, ma degli stessi caratteri umani. Da essenza subumana, quale risulta nelle prime rappresentazioni, attraverso l’insistenza sulle deformazioni anatomiche, sui difetti di proporzione, sugli atteggiamenti belluini, il diavolo è quindi poco alla volta elevato al rango della sopraumanità. Il ribaltamento si attua, paradossalmente, forzando oltre ogni limite la deformazione e lo snaturamento

La crescente considerazione sul piano del potere e della pericolosità si traduce visivamente in attributi che sottendono l’ingigantirsi della minaccia. Dal demone semi-umanoide, quasi strisciante sotto il peso del castigo, vincolato alla dimora sotterranea dell’inferno, si passa nel corso del XIII secolo a possenti mostri alati, che contendono gli spazi terreni e ultraterreni alle forze del bene. Le ali appaiono dapprima rigide, applicate, quasi a sottolineare un artificio malefico; i goffi volatili pelosi, un misto di uomo, cane ed uccello, che svolazzano sul cielo di Arezzo nella giottesca “Cacciata dei Diavoli” sembrano più impacciati che sorretti per aria dalle loro appendici posticce. Ma queste ultime entrano in seguito a far parte integrante della raffigurazione diabolica. Sono ali di pipistrello, un animale particolarmente ripugnante alla sensibilità medievale per la sua natura duplice e per la sua appartenenza al mondo notturno, e contribuiscono, proprio nella conformazione meccanica, nell’ossatura a telaio, a determinare il carattere di ambiguità e di falsità dell’intera figura, e a sottolinearne l’iscrizione al regno delle tenebre. Altri attributi essenziali vanno poco alla volta ad arricchire la patologia diabolica: un secondo volto, localizzato in genere nel ventre, ma spesso anche posteriormente, con ogni probabilità inteso ad evidenziare il dominio dei bassi istinti; seni femminili molli e cascanti, o addirittura in figura di musi animali, che accentuano la ripugnanza per una essenza indefinita e distorta; la cresta dentata, che diviene tipica anche di tutti i draghi e i mostri dell’ossessione visiva, e poi le corna caprine, la coda, gli artigli, le squame.

Ma anche al culmine della sua potenza Satana non è inteso come partecipe della divinità, e rimane ancorato ad un ordine inferiore. Per questa ragione Dio non appare mai direttamente impegnato nella lotta, che delega alle schiere angeliche ed ai vicari terreni. L’antagonista naturale del demonio parrebbe l’angelo, chi si trova cioè in una posizione intermedia tra l’umano e il divino; ma anche a questo livello le armi demoniache risultano costantemente spuntate. Le forze del male hanno quindi speranza di successo soltanto nei confronti dell’uomo: l’imperfezione congenita alla natura umana offre lo spiraglio attraverso il quale può esercitarsi la tentazione. I1 mondo diventa pertanto il campo di battaglia sul quale si confrontano i due sovrani della luce e delle tenebre: ma mentre il primo combatte per interposto agente, l’altro si cimenta direttamente, in quanto la materialità gli è consona, è il suo elemento naturale.

Gli resiste soltanto chi dalla materia sa svincolarsi, mortificando gli aspetti della carne e disdegnando i subdoli allettamenti del mondo, vale a dire il santo. Anche i caratteri della santità si adeguano all’acuirsi del disagio per una presenza malefica diffusa ed ossessiva. L’ascesi aveva costituito per secoli, tanto nella comune prassi monastica come nelle espressioni più radicali dell’anacoretismo, un mezzo di avvicinamento a Dio. Ma poco alla volta essa viene trasformandosi in pratica immunologica, difensiva, e come tale si stabilizza in atteggiamento necessario e costante nei confronti del mondo. Il santo è l’obbiettivo principale delle tentazioni diaboliche, perché con la sua vita si costituisce a roccaforte del bene nel mondo. Egli ha la forza di resistere, spesso martoriando la propria carne, o perlomeno di pentirsi della debolezza e dell’ingenuità dimostrate. Ma la pratica penitenziale gli conferisce anche poteri superiori, per cui può smascherare ed esorcizzare il maligno nascosto, quando addirittura non lo umilia: sant’Antonio può permettersi di sputargli in faccia, san Lupo di rinchiuderlo in una brocca d’acqua.

All’esperienza sensitiva il demonio si offre nei più bizzarri travestimenti: genio della difformità e della fraudolenta creazione di immagini, esso cela la propria natura sotto spoglie piacenti e rassicuranti, abbagliando con la bellezza e con la ricchezza, con la potenza e con il sapere. Predilige in modo particolare gli abiti femminili, conoscendo la vulnerabilità della carne: lo testimoniano le vite di eremiti, pellegrini, fuorusciti dal secolo, nelle quali compare puntualmente la giovinetta insidiatrice. Il santo sfugge all’insidia tramite la macerazione (san Gerolamo che si percuote il petto con un sasso, san Benedetto che si avvoltola nelle ortiche), la preghiera e la forza d’animo: ed anche quando cade, sa espiare duramente le sue colpe.

Tuttavia, a dispetto del ruolo negativo cui il genere femminile sembra votato, non mancano gli esempi di santità e resistenza alle blandizie demoniache anche tra le donne. Santa Maria Egiziaca subisce nel deserto le più spossanti tentazioni, ma riscatta una gioventù corrotta con la fermezza nell’ascesi. Santa Giuliana non soltanto resiste al demonio, ma arriva ad incatenarlo e a percuoterlo. E diverse altre sante fanno virtuosamente fronte agli assalti del maligno che assume le sembianze fascinose di giovani cavalieri.

La tentazione conosce, oltre quella sessuale, le vie più svariate. Spesso si tratta di dubbi insinuati, di confusioni create ad arte, di allettamenti, di paure. Salimbene Adami cita nella sua Cronica un tal Pietro da Cori, minore francescano, che insidiato dal demonio finisce per rendersi inviso ai suoi compagni ed alle autorità religiose. Sotto le spoglie di un indemoniato il maligno profetizza: “Potrà fuggire, ma non sfuggirmi; perché lo circuirò e lo ridurrò a tal punto che chiunque ne abbia sentito parlare ne avrà il tintinnio in entrambe le orecchie”. San Macario, eremita, reprime l’«ambizione» di recarsi a Roma per curare i poveri caricandosi sulle spalle un cestello di sabbia e percorrendo così il deserto. Ad un confratello che si offre di aiutarlo risponde: “È così che io tormento chi mi tormenta”. Più sfumato è il riferimento alle tentazioni pecuniarie: per un san Guido tentato dalla mercatura, sia pure al fine di disporre di maggiori introiti per le elemosine, e punito dall’intervento divino, ci sono gli esempi di sant’Omobono, di san Giacomo della Marca, che legittimano il guadagno, quando sia onesto, ed il prestito, quando abbia fin di bene.

L’insidia demoniaca è però soprattutto deformazione, buffoneria rivoltante, stravolgimento delle forme e della natura. Sant’Onofrio è assalito da mostruose allucinazioni, da forme ributtanti che paiono soffocarlo. Sant’Antonio abate, il santo per eccellenza della tentazione, viene mostrato di norma con le carni straziate, tirato per la barba e tormentato dagli incubi, oltre che da donne procaci. Nella tavola dell’altare di Isenheim dipinta da Grunewald è circondato da esseri grotteschi, ibridi inverosimili con teste di rapace o di maiale, in una visione che sembra partorita sotto l’effetto di allucinogeni. Nel Trittico delle Tentazioni di Bosch la mostruosità si combina coi simbolismi alchemici, a sottolineare che anche la pratica occultistica è opera demoniaca. Jeronimus Bosch è naturalmente colui che meglio riassume, sia pure in peno tramonto del medioevo, l’immaginario mostruoso partorito dall’occidente. Nel Trittico del Giudizio e nell’Inferno musicale (del Trittico delle delizie) è raccolto il repertorio più sconcertante, inverosimile e ripugnante di deformazioni e di ibridazioni che mai mente umana abbia concepito. Qui la mescolanza delle forme non si limita al mondo animato, ma si estende all’inanimato e ai prodotti della tecnica umana, abbattendo ogni frontiera e ogni limite, ed estendendo al di là del pensabile il dominio del demoniaco.

Oltre che all’immagine orrifica ed ingannevole, la percezione della presenza diabolica è associata nel medioevo ad una serie di costanti fenomenologiche: il sudiciume, i cattivi odori, i colori scuri, le pratiche immonde. L’immaginazione rozza e corposa dell’epoca immerge il male in esalazioni sulfuree, in miasmi fecali, in sconci rumori: gli conferisce potere sulle tenebre, e ne accentua nel metabolismo allegorizzato i connotati bestiali. Il diavolo divoratore (e defecatore) di anime campeggia nei mosaici, nei timpani e nella simbologia letteraria. Il Lucifero dantesco, il Belzebù friggitore di Giacomino da Verona, il demone antropofago di Coppo di Marcovaldo, tutta l’iconografia che traduce in termini grossolanamente realistici il problema del male, esprimono il bisogno di dar corpo visivamente alla negatività.

 

 

L’anticristo

Il mito cristiano medievale dell’anticristo, il nemico storico che causa uno “sconvolgimento finale”, preludio all’avvento definitivo del regno di Dio, ha la sua primaria radice nella tarda fantasia escatologica dell’ebraismo. Dal preciso contesto storico cui la profezia, da Daniele a Baruch, faceva riferimento (prima il seleucide Antioco IV Epifane, poi l’impero romano), i contorni della presenza malefica e tirannica degli ultimi giorni gradatamente si sfumano, fino ad adattarsi, nella seconda epistola di Paolo ai tessalonicesi, alla figura molto vaga dello pseudo-messia.

Col tempo, nella mutata prospettiva salvifica, che si riferisce ad una redenzione già in atto e che non coinvolge più un unico popolo, il malefico incombere della bestia apocalittica si riveste di significati nuovi e di gran lunga più drammatici. La volontà sottesa al male è ora infatti totalmente altra da Dio, e contrappone al suo disegno di salvezza dell’umanità una presenza ed una potenza sovrannaturali; non si tratta più di forze terrene in lotta col popolo di Dio, ma di un duello cosmico tra il bene e il male.

L’anticristo diventa per l’occidente cristiano un incubo, ed è oggetto di un’aspettazione ossessiva, nella quale si mescolano la paura e la speranza, il timore del male e la fede nel trionfo finale del bene. Le vicende medievali si prestano in modo particolare a fornire segni per l’identificazione. L’avvento dell’anticristo è connesso nella tradizione ad una straordinaria concomitanza di guerre, stragi, carestie, oppressioni, ed il riscontro non è difficile per le popolazioni dell’epoca. La straordinaria ferocia e il potere distruttivo dei nemici esterni assume per l’uomo medievale un’origine infernale. L’anticristo non è più soltanto il nemico che verrà, ma costituisce una concreta presenza ostile: la tensione dell’attesa lascia il posto alla paura del confronto.

D’altra parte il male, la negatività, non si limitano a queste manifestazioni esterne e comunque temporanee; la loro concreta presenza induce a sfocare i connotati demoniaci puri, quali possono cogliersi, per il mondo medievale, nel diverso colore della pelle o nei costumi anomali o contrari alla morale cristiana, per insistere sul motivo dell’incarnazione subdola. È questo un motivo destinato a diventare ricorrente col progressivo consolidarsi della nuova struttura politico-religiosa europea, che sdrammatizzando la consistenza del pericolo esterno indirizza l’attenzione occidentale sul problema dei contrasti e delle diversità.

Nell’alto medioevo la credenza relativa all’avvento dell’anticristo, in connessione con i temi della Gerusalemme celeste e dell’imperatore degli ultimi giorni, diviene il nucleo fondamentale di una escatologia popolare figliata dalle dure esperienze dell’epoca. I segni appaiono inequivocabili. Invasioni dei barbari, carestie, epidemie pestilenziali si susseguono in un catastrofico ricorso: un disegno diabolico sembra averne coordinato lo scatenamento. Filtrata attraverso la particolare disposizione chiliastica del cristianesimo l’aspettazione dell’antitesi ultima, precedente la fusione del cosmo nel divino, risponde perfettamente ad una sensibilità maturatasi in queste condizioni. Essa si esprime in interpretazioni successive ed in un interesse costante per il mito del nemico finale, del quale si diffondono figurazioni inquietanti e polimorfe, e nell’accentuazione dei caratteri di prossimità e storicità dell’evento.

Nell’VIII secolo a Saint Germain des Prés il monaco siriano Pietro traduce dal greco in latino un opuscolo, da lui attribuito a Metodio di Patara, vescovo del IV secolo, ma risalente in realtà alla fine del VII. Si tratta di una grandiosa visione apocalittica, dettata dal bisogno di rinsaldare la resistenza sempre più difficile delle comunità cristiane di Siria alle pressioni religiose dei dominatori musulmani. Una serie di sconvolgimenti di terribile entità attende il mondo cristiano: l’avanzata dell’Islam, il cui prepotere parrà irreversibile, l’insorgere di un grande imperatore, già creduto morto, che sconfiggerà gli infedeli, lo scatenamento delle orde di Gog e Magog e la loro distruzione ad opera delle milizie celesti, l’apparizione dell’anticristo che instaura il suo regno nefasto sulla terra, e da ultimo il ritorno del figlio di Dio, trionfatore sul male e banditore del giudizio finale. Al di là dell’occasione motivante, che incentra in un’ottica particolare sia gli avvenimenti che i protagonisti, gli elementi contenuti nella profezia sono già quelli destinati a caratterizzare l’immagine medievale dell’anticristo. Le varianti saranno di volta in volta dettate dalla contingenza politica, dalla finalità dell’interpretazione e dalla temperie socio-religiosa dei credenti.

Nella prima metà del X secolo Adsone, abate di Montier en Der conforma nel suo Libellus de Antichristo la tradizione ebraica e sibillina alle aspettative messianiche del compimento dei tempi sviluppatesi nell’ambiente carolingio ed incentrate sulla figura dell’imperatore franco che precederà l’avvento dell’anticristo. Lo stesso trattatello sarà in seguito più volte ripreso ed interpolato al fine di ridare sostanza ed attualità al vaticinio. Ancora nel X secolo l’abate Oddone di Cluny, e poi nel XII Gerhoh di Reichersberg col De investigatione Antichristi, Ottone di Frisinga con le Gesta Federici I imperatori, santa Ildegarda di Bingen in una delle sue visioni (la XI), l’eremita Albuino nella Epistula ad Heribertunz Coloniensem Archiepiscopum arricchiscono il mito di interpretazioni e di connotazioni figurative. Ma al di là di questo interesse specifico, che coglie principalmente il simbolismo allegorico e profetico dell’evento, ogni qualvolta si manifestino forze ostili di eccezionale potenza l’occidente è indotto a sentire prossimo lo scontro finale. Alvaro di Cordova (XI secolo) nel suo Indiculus luminosus vede in Maometto la bestia dell’Apocalisse; Pietro il Venerabile, abate di Cluny e corrispondente di san Bernardo (XII secolo), lo colloca in posizione subordinata nella sua gerarchia malefica, ma comunque prossimo per malvagità ed intenti all’anticristo. E saranno poi di volta in volta gli ungari, e quindi i mongoli (particolarmente con Ruggero Bacone) l’oggetto di questa identificazione. Nel XIII secolo ritroviamo ancora nella versione millenaristica di Gioacchino da Fiore l’orrore generato dall’Islam, l’annunciata Bestia con sette teste e dieci corna che sale dal mare (Expositio in Apocalipsim, XIII), più volte sconfitta e ferita ma sempre risorgente. Maometto è il precursore dell’anticristo, destinato a preparare le condizioni per il suo avvento.

La connessione del mito dell’anticristo con quello dell’imperatore degli ultimi giorni dà anche origine ad una fioritura eccezionale di leggende sul “sonno” e sul “risveglio” di un grande monarca, in attesa dello scontro con le forze del male. Quasi tutti i maggiori sovrani, a partire da Carlo Magno per arrivare al Barbarossa, a Baldovino di Fiandra, allo stesso Federico II, sono investiti dalla leggenda postuma di questa missione: ed è frequente l’insorgere di predicatori, eremiti e mendicanti che affermano di incarnarne lo spirito, e si trascinano appresso masse di fedeli anelanti all’“ultima crociata”.

La chiesa, dal canto suo, si avvale frequentemente della denuncia e dello smascheramento dell’attività diabolica nei confronti degli eretici o di sovrani particolarmente ostili e riottosi. La qualifica di anticristo diviene strumento corrente nella lotta politico-religiosa dei secoli XIII, XIV e XV, e spesso rimbalza fino a coinvolgere gli stessi pontefici. La presenza dell’anticristo sul soglio di Pietro sarà l’ossessione costante dei movimenti ereticali e riformistici, fino al Savonarola, e più oltre ancora, alla frattura protestante. A volte invece saranno gli interessi del partito laico e imperiale a fomentare il pronunciamento anti-papale con questa motivazione, sfruttando una prassi creata a loro discapito.

Nella mentalità popolare comunque l’anticristo non può abdicare da quei connotati mostruosi che lo pongono in una dimensione intermedia, tra l’umano e il divino. Spesso la sua immagine è confusa con quella del Leviatano, nelle cui fauci viene stritolata la folla dei dannati. Santa Ildegarda lo vede come una bestia orribile, con occhi infuocati, zanne metalliche e orecchie asinine (ed è da notare come l’ultimo particolare torni nella descrizione del Papsetel, mostro ripugnante simbolo del papato, descritto da Melantone). Nella Bibbia moralizzata (1226) gli viene attribuita una triplice maschera, riferimento in negativo alla trinità divina; e lo stesso motivo si ritrova tre secoli dopo in un disegno di Grunewald (1523 o 1524).

L’accezione medievale della figura dell’anticristo è quindi caratterizzata da una notevole ambiguità, cui concorrono da un lato la manipolazione strumentale e dall’altro il bisogno di concretizzare, da parte della popolazione, ciò che nella formulazione ufficiale rimane sempre inattingibile. Alle caratteristiche demoniache si unisce e si sovrappone, all’atto dell’incarnazione, una natura eminentemente umana: il che vale nello stesso tempo ad esorcizzare parzialmente il pericolo ed a giustificarne la sconfitta finale, sottolineando il carattere imbastardito dell’entità malvagia e la sua impotenza nei confronti di Dio.

Questa ambiguità è più che mai palese nella iconografia popolare, che si sbizzarrisce a mostrare gli aspetti mostruosi, il vero volto del nemico che nasconde sotto spoglie umane i suoi connotati diabolici, ma che più spesso insiste sulle caratteristiche umane (prima tra le quali proprio l’impotenza) e sulla funzione di strumento del maligno. Le illustrazioni della Storia dell’Anticristo contenuta nel Liber Cronicarum di Hartmann Schledel lo mostrano intento a predicare, su ispirazione del demonio dai tratti caprini, in effigie umana e particolarmente accattivante: oppure mentre cerca di volare, per ingannare i credenti con la sua falsa soprannaturalità, sostenuto da diabolici mostri. Ma già gli angeli si apprestano ad abbatterlo, e i veri profeti a confonderlo.

Se quindi in Satana si identifica il male come potere, come organizzazione del negativo che si manifesta nella sua pienezza e che agisce comunque dall’esterno contro la cristianità (e che qualora si incarni, come nel caso degli indemoniati, altera la natura umana riuscendo facilmente identificabile), o perlomeno ha spoglie ben note ed inequivocabili (la diversità, il vizio ecc.), l’anticristo finisce per incarnare il male come tradimento, come perfidia che si insinua nascostamente nel corpo della cristianità per condurla all’errore.

 

Altre presenze

La percezione del diverso nella mentalità medioevale

Nella mentalità classica le categorie di civiltà e di barbarie fanno riferimento ad un parametro culturale (ovvero ad un metro di valutazione che concerne i comportamenti morali e politici) piuttosto che etnico o “razziale”. Qualunque sia la spiegazione che si dà delle differenze esistenti tra i popoli (può essere l’ambiente per Erodoto, oppure il clima per Ippocrate e per Platone), queste vengono ascritte a fattori “esterni”, che condizionano tanto lo stile di vita quanto l’aspetto fisico, senza tuttavia mettere in discussione l’essenzialità umana. Unica eccezione può essere considerata quella di Aristotele, che fondando la sua tassonomia antropologica su un carattere innato e permanente delle differenze arriva a negare sulla base del genere (le donne) o della condizione (gli schiavi) la pienezza della qualità umana.

In sostanza, Greci e Romani concepiscono rispettivamente i propri popoli come modelli di civiltà, e giudicano “barbari” gli altri secondo una scala che misura la distanza dai valori assunti a paradigma della civilizzazione (il grado di “libertà politica” presso i greci, il livello giuridico-istituzionale per i romani). Il pregiudizio etnocentrico non l’hanno certo inventato loro: lo si ritrova presso ogni popolo e ogni civiltà, più o meno accentuato, e si traduce in atteggiamenti diversi a seconda della contingenze e delle modalità del confronto con gli “altri”. Nel caso dei Greci è alimentato soprattutto da una costante conflittualità con le popolazioni orientali, che va dalle guerre di Troia a quelle persiane, serve a giustificare un istituto, quello della schiavitù, sul quale paradossalmente si basa la possibilità di una “libertà politica” per i “cittadini”, e assume una valenza che potremmo definire “difensiva”; nel caso dei Romani è invece la straordinaria vicenda di successi militari e di espansione in tutte le direzioni a fare volano e a conferire al pregiudizio una valenza “offensiva”. Per gli uni e per gli altri le motivazioni sono dunque di ordine politico, ma in riferimento a situazioni e a rapporti di forza diversi, dai quali consegue nel tempo una sostanziale differenza di atteggiamento. Proprio nella “Politica” Aristotele dice: “I popoli che abitano nelle regioni fredde e quelli d’Europa sono pieni di coraggio, ma difettano un po’ di intelligenza e di capacità nelle arti, per cui vivono sì liberi, ma non hanno organismi politici e non sono in grado di dominare i loro vicini; i popoli d’Asia al contrario, hanno natura intelligente e capacità nelle arti, ma sono privi di coraggio per cui vivono continuamente soggetti e in servitù; la stirpe degli Elleni, a sua volta, come geograficamente occupa la posizione centrale, così partecipa del carattere di entrambi, perché, in realtà ha coraggio e intelligenza, quindi vive continuamente libera, ha le migliori istituzioni politiche e la possibilità di dominare tutti, qualora raggiunga l’unità costituzionale”(Politica, VII, 7). Tradotto in pillole, le differenze ci sono, sono costitutive e avvalorano una presunzione di dominio, la cui realizzazione dipende solo dalla volontà degli Elleni di mettere fine una buona volta alle lotte intestine.

Per i Romani le cose sono diverse: i rapporti con le popolazioni europee, soprattutto con quelle dell’area occidentale, sono sì conflittuali, ma nel segno di un maggiore rispetto per gli avversari, nella embrionale coscienza di una comune appartenenza, sia pure a gradi diversi di sviluppo. È significativo che Cesare sottolinei la bontà di alcune istituzioni politiche dei Galli (anche se è evidente il calcolo autocelebrativo che sta sotto questo riconoscimento), ma lo è ancor più il fatto che non nasconda la sua ammirazione per usi e istituzioni dei Germani, popolo che invece non è riuscito a sottomettere. È la spia di un atteggiamento che va facendosi sempre più diffuso negli storici successivi, e segnatamente in Tacito: le popolazioni germaniche sono depositarie per quest’ultimo di quelle virtù guerriere, ma più in generale civiche, che i romani hanno dimenticato. Non si tratta solo di una laudatio temporis acti, o della esaltazione delle virtù altrui per criticare i vizi di casa. Dietro le sue considerazioni antropologiche ci sono problemi concreti. Si sta profilando la necessità di allargare anche ad altri popoli la cittadinanza, per poter controllare militarmente e amministrativamente un impero diventato ormai troppo grande per il solo popolo dell’urbe. E al riconoscimento della parità politica e giuridica deve preludere quello della dignità morale. Nella stessa direzione stanno peraltro muovendosi, sia pure partendo da assunti e mirando a scopi totalmente diversi, lo stoicismo e il cristianesimo: l’eguaglianza tra tutti gli uomini cancella, o meglio, assorbe tutte le differenze.

In sostanza, forzando parecchio l’uso delle sfumature linguistiche, possiamo dire che un conto è cogliere e valutare, magari solo in negativo, le differenze; un altro conto è avvertire e temere, e in sostanza non accettare, le diversità. La differenza attiene ad un ordine quantitativo, misura la distanza maggiore o minore da uno standard; la diversità attiene invece ad un ordine qualitativo, marca una non appartenenza, la non commensurabilità di due valori. Danno luogo a due atteggiamenti distinti, anche se entrambe sono funzione dell’esistenza di un parametro identitario. Ed è proprio il tipo di identità l’elemento discriminante. Se l’identità è di tipo politico ha origine dalla volontà umana, si basa su istituti, usi, leggi, rapporti di reciprocità voluti e governati dagli uomini. Quindi è passibile di adeguamenti, può essere adattata a consentire nuovi ingressi o ristretta per escludere componenti non più gradite, può essere superata o fusa in un modello identitario superiore, e in definitiva persino rifiutata o abbandonata. Esiste insomma una permeabilità che consente di non considerare irrecuperabile anche chi entro quella identità al momento non può essere accolto. Se l’identità ha invece un fondamento religioso, non può esserci alcuno spazio di mediazione. L’origine divina di leggi, usi, riti e credenze li sottrae a qualsiasi possibilismo, non concede margini di compromesso (almeno in teoria). Lo scontro con altre identità similmente fondate è inevitabile.

Ora, mentre come abbiamo visto i greci e i Romani mantengono il controllo sulla differenza, nel senso che così come la sottolineano, e al limite la disprezzano, possono anche quando si dia il caso ignorarla, gli uomini dell’occidente medioevale, dei quali ci accingiamo a parlare, temono la diversità, e l’hanno in odio proprio perché, nella misura in cui è ascritta ad una dimensione “esterna”, risulta incontrollabile. Cambia in sostanza il punto di vista, per cui la diversità, proprio perché percepita da dietro quel muro difensivo eretto nel corso di mezzo millennio col cemento della cristianizzazione, è identificata automaticamente col pericolo, fisico, spirituale o sociale

A partire dal V secolo, con la sparizione definitiva dell’impero e con l’affermazione del cristianesimo, si fa infatti strada il concetto di una etnia continentale, geograficamente localizzata e culturalmente unificata dalla omogeneità religiosa. Venuti meno tutti altri possibili referenti istituzionali, ridotta a nostalgia anacronistica la postuma ammirazione per la romanità, l’Europa riceve il primo impulso realmente unitario alla coesione e alla reazione contro le pressioni esterne proprio dai tratti accomunanti del cristianesimo. Popoli che erano rimasti per millenni nell’anticamera della “civiltà” sono definitivamente inglobati nella nascente nuova identità, sia pure dopo un primo momento di scontro, mentre altri ne vengono definitivamente esclusi. E all’interno di questo processo gioca anche un ruolo determinante il secolare contrasto tra Oriente e Occidente che vede protagonisti prima i due imperi, poi le due chiese.

La nuova situazione impone agli occidentali di riconsiderare il problema della “diversità” e dei pericoli a questa connessi alla luce di nuove discriminanti, attente piuttosto ai valori etnici e religiosi che non a quelli politico-organizzativi, ed adattabili di volta involta alla peculiarità della situazione e delle presenze aliene. Il disprezzo (e il timore) per l’eteronomia sono sostituiti dalla diffidenza verso l’eterogeneità.

Il passaggio a questa nuova ottica è naturalmente graduale e complesso. Ancora nel V secolo, di fronte all’agonia dell’impero e con un cristianesimo lontano dalla definitiva affermazione, la cifra di lettura permane confusa e ambigua. Per Agostino e Salviano l’arrivo dei barbari (Unni e Visigoti) è da interpretarsi come una punizione divina inflitta all’impero, che acquista un significato nettamente positivo in quanto contribuisce a fare della cristianità il nuovo nucleo attorno al quale si coagula la vita sociale. Il rispetto mostrato dalle popolazioni barbariche per i templi cristiani durante il sacco di Roma (410) ha offerto uno spiraglio al popolo latino in cerca d’asilo, aprendogli gli occhi sul soprannaturale potere della nuova religione. La valutazione degli eventi rientra ancora in un’ottica da “diversi”, e la diversità, anziché una colpa, costituisce una scusante.

Due secoli dopo, però, la situazione è completamente mutata. I popoli coinvolti nella prima grande ondata migratoria cominciano a mettere radici nelle nuove sedi e mostrano una notevole permeabilità religiosa. Il passaggio dal nomadismo alla stanzialità e la rapida adozione del cristianesimo determinano da ambe le parti una diversa attitudine all’integrazione. Già in Gregorio Magno riscontriamo infatti la consapevolezza di una fisionomia pienamente abbozzata da difendere, sia in senso religioso, contro le tendenze ereticali dell’oriente bizantino, sia in senso civile e politico contro il pericolo costituito dalle nuove invasioni (gli Avari).

La definitiva composizione della dicotomia tra romanità e barbarie in una superiore ecumene religiosa si attua però solo con i Franchi. Essi diventano ad un tempo i depositari della tradizione imperiale latina e i difensori della cristianità contro gli assalti dei pagani (da nord e dall’oriente) e dell’Islam. La rifondazione dell’impero porta poi a compimento la rottura con l’Oriente, e sancisce una ormai acquisita autonomia della civiltà continentale. Da questo momento, anche se per alcuni secoli la disposizione verso l’esterno permarrà difensiva ed ogni atto ufficiale sarà inteso restaurare l’ordine antico, va facendosi luce la coscienza dei tratti originali emersi dal magma delle invasioni e felicemente sposatisi col cristianesimo. Staccando le proprie sorti da quelle di Bisanzio, sia pure in nome dell’eredità e della continuità storica col mondo latino, l’Europa si candida al ruolo egemonico correlato alla speranza del trionfo religioso. Nel contempo, il ripiegamento su se stessa le consente di ricucire quella rete interna di rapporti economico-politici che si era sfaldata insieme all’impero, e che comunque aveva conosciuti livelli molto precari di sviluppo, per la preferenza costantemente accordata da Roma alle relazioni con l’Oriente. Le vicende religiose, dinastiche, militari e di colonizzazione creano tra i popoli occidentali una stretta interdipendenza, mentre il rarefarsi della consuetudine pacifica con etnie e culture extra-continentali si traduce in una forte caratterizzazione “europeistica” e “cristiana” della normalità. Gli stessi modelli politici, infine, dal feudalesimo agli stati nazionali, che vanno imponendosi nel corso del Medioevo come conseguenza e supporto del nuovo indirizzo economico, allargano la frattura con un mondo che mantiene invece sostanzialmente invariate le sue strutture portanti.

Inizialmente i confini della nuova comunità continentale sono alquanto ristretti, non arrivando a comprendere interamente l’Europa occidentale per la presenza musulmana in Spagna. Ma sarà proprio la situazione di accerchiamento e di precarietà in cui essa viene a trovarsi nei primi quattro secoli della sua esistenza a cementarne l’unione e a favorirne l’ampliamento. Il bisogno di opporre baluardi alle ondate di invasione nordasiatiche integra, seppure in una condizione subordinata di frangiflutto, un numero sempre crescente di popolazioni stanziate nella regione danubiana e ad est dell’Elba. In molti casi si tratta degli stessi invasori che, una volta respinti e costretti ad un insediamento stabile, assolvono alla funzione di barriera, e andranno progressivamente assimilandosi, prima nella religione e poi nei costumi politico-sociali, alla civiltà occidentale.

Gli altri, fuori

Gli Ungari

Per quasi un secolo, dalla fine del IX alla seconda metà del X, nelle chiese, nei monasteri, nelle preghiere quotidiane dell’Occidente risuona particolarmente accorata e pressante un’invocazione: “A sagittis Hungarorum libera nos Domine”. Gli Ungari arrivano in Europa sotto la spinta di popolazioni turche, e subentrano nella regione danubiana agli Avari, che erano stati distrutti dalle forze carolinge. Alcuni sovrani europei li assoldano come forza d’urto o come ausiliari nelle beghe intestine, aprendo loro la strada per l’infiltrazione in occidente; e alla fine del IX secolo Simeone di Bulgaria ne assalta la sede stanziale, e fa strage di una popolazione inerme di donne, vecchi e bambini. È una lezione di barbarie della quale gli Ungari non avevano bisogno, e lo dimostrano nel cinquantennio successivo mettendo a ferro e fuoco in una sequenza ininterrotta di scorrerie metà del continente. La loro ferocia diventa proverbiale, così come la loro capacità di cavalcare a pelo e l’abilità nell’uso dell’arco. Con queste qualità hanno facilmente ragione degli eserciti cristiani, composti quasi per intero da truppe appiedate. Agli occidentali non resta che la difesa passiva, essendo gli Ungari perfettamente per lo scontro campale ma poco attrezzati e propensi ala guerra di logoramento; risalgono a questo periodo innumerevoli concessioni regali e imperiali di “licenze” di fortificazione per le città o per le zone alte del contado.

Meta delle incursioni sono principalmente l’Italia nord-orientale e la Germania meridionale: ma i Magiari si spingono anche nel cuore della Francia e nel meridione italiano, imponendo salatissime contribuzioni alle popolazioni che non oppongono resistenza e massacrando sistematicamente le altre. A partire dalla metà del X secolo, però, la loro spinta si è ormai esaurita. Nel 955, dopo aver già conosciute alcune disastrose sconfitte in Germania ad opera di Enrico l’Uccellatore, vengono definitivamente battuti a Lechfeld dal nuovo sovrano Ottone, grazie ad una riorganizzazione dell’esercito imperiale basata su un impiego più ampio e tatticamente più efficace della cavalleria.

Si volgono allora contro l’impero bizantino, ma battuti ancora una volta ad Adrianopoli sono costretti ad abbandonare le abitudini predatorie e a convertirsi alla stanzialità e all’agricoltura. La definitiva consacrazione di questo mutamento, che li eleva a rango di popolo europeo, si ha nel 972 con l’adozione del cristianesimo: anche se a lungo la nuova religione dovrà convivere con le ataviche credenze di stampo animistico, e il costume morale e civile conserverà tracce manifeste dell’origine nomade e asiatica.

Le incursioni degli Ungari risvegliano nell’Occidente il penoso ricordo del V secolo, degli Unni e dei Visigoti, della loro ferocia ed inarrestabilità.: il raffronto corre soprattutto ai primi, dei quali i nuovi invasori possiedono le doti di cavalieri ed arcieri infallibili. Alcuni cronisti addirittura li confondono con i primi. Ma agli occhi della cristianità gli Ungari costituiscono un flagello ancor più terribile, perché non conoscono neppure il rispetto o il timore mostrato dai loro predecessori nei confronti della religione cristiana, dei suoi ministri e dei suoi luoghi di culto. Nel solo sacco di Pavia incendiano quarantaquattro chiese, e si imprimono nell’immaginario popolare come irriverenti profanatori di reliquie e sterminatori spietati del clero. Lo sgomento creato dalle loro scorrerie è tale da far pensare al popolo di Gog e Magog, predetto dalle Scritture come antecessore della fine del mondo. Per lo storico Liutprando, vescovo di Cremona (Historiarum Libri, I, 5) esse apportano “vedovanze alle mogli, lutti ai padri, violenza alle vergini, schiavitù ai ministri e ai popoli di Dio, distruzione delle chiese, solitudine e desolazione alle contrade”. Come gli Avari, gli Ungari sono un popolo di predatori, particolarmente avidi di metalli preziosi e di bottino comunque trasferibile, e di schiavi. Questa loro cupidigia balza immediatamente agli occhi degli occidentali: ancora Liutprando: “[…] Gli Ungheri sono avidi, audaci, non conoscono il Dio onnipotente, ma sono maestri in ogni genere di scellerataggine, sono dediti soltanto alle stragi e ai saccheggi”. È tanto più esecrabile in quanto viene ad esercitarsi su popolazioni che vivono in uno stato endemico di miseria, e trova compenso principalmente nel saccheggio di chiese e monasteri. La larga presenza di schiavi deportati nel corso delle incursioni creerà inoltre non poche difficoltà alla accettazione del cristianesimo.

Quella degli Ungari è una parentesi ben nefasta per le popolazioni cristiane del X secolo, che aggrava la condizione di estrema precarietà già determinata dalla pressione dei Vichinghi e dei Saraceni: ma è per l’appunto una parentesi, rapidamente risolta e conclusa con l’assimilazione del corpo estraneo. Dal momento che non sono portatori di valori antitetici in campo religioso, gli Ungari differiscono in fondo assai poco dalle popolazioni contro le quali si scatenano, molte delle quali hanno abbandonato il costume nomade soltanto da un paio di secoli, e sono accomunate per il momento solo dalla religione. Nei loro confronti, pertanto, la percezione della diversità è limitata nel tempo ed esprime uno lo sgomento momentaneo che precede una valutazione meno negativa.

I Vichinghi

Le regioni costiere settentrionali del continente conoscono le scorrerie navali dei popoli nordici già in epoca tardo-imperiale. Intorno al 290 compaiono sulle coste della Gallia gli Eruli, ai quali si affiancano ben presto anche gli Angli e i Frisoni, e nei tre secoli seguenti la striscia litoranea che corre tra il Baltico e il golfo di Guascogna è fatta segno a rapidi e violenti raids. Dei “Dani” fa menzione, tra i primi, Gregorio di Tours, accennando ad una incursione compiuta intorno al 520 sulle coste della Frigia. Essi ricompaiono più volte durante il VI secolo, fino a quando non subiscono, assieme ai sassoni e agli Juti, una cocente sconfitta in Frisia, nel 574. Da allora per più di duecento anni scompaiono dalla scena continentale, e soltanto verso la fine dell’VIII secolo tornano a frequentare le rotte del Sud. Nel frattempo gli storici tardo antichi fanno discendere dalle fredde terre del Nord molte delle popolazioni che percorrono l’Europa in cerca di nuovi insediamenti, come i Goti e i Longobardi.

La ripresa delle scorrerie nordiche si attua all’insegna del terrore e dell’irresistibilità. Le prime ad essere investite sono le isole occidentali, Inghilterra ed Irlanda, e la notizia del saccheggio e della strage compiuti nel monastero di Lindisfarne, in Scozia, nel 793, suscita una grossa impressione anche nel continente. Il monaco Alcuino testimonia della sorpresa e dello sgomento che l’incursione ha creato nell’ambiente carolingio: “mai prima d’ora in Britannia era apparso un tale terrore, quale quello che abbiamo sofferto per mano dei pagani”, ma riesce ancora in qualche modo a scorgere in essa la mano vendicatrice di Dio.

Quando però le incursioni dei predoni del nord cominciano a ripetersi ad un ritmo impressionante, il loro calamitoso apparire scioglie ogni dubbio sulla matrice malefica del pericolo. Dopo le isole è la volta delle città della Gallia (Dorestad nell’834, Rouen nell’841, Nantes nell’842, Parigi nell’845, per citare soltanto i saccheggi più celebri) e quelle che erano state inizialmente delle semplici scorrerie litoranee prendono il carattere di incursioni in profondità, con temporanei stanziamenti invernali pagati a caro prezzo dalle popolazioni delle zone occupate.

In Irlanda già dall’840 i norvegesi, affamati di terre coltivabili, si insediano sotto la guida di Turgeis. Nell’865 i danesi danno inizio al primo tentativo di conquista dell’Inghilterra, nel 911 vedono sancita la loro ormai stabile presenza in Francia con l’investitura concessa a Rollone. Durante questo mezzo secolo la fama della loro crudeltà, ma anche del loro del coraggio, ha corso le regioni d’Europa. Agli occhi della cristianità risalta in modo particolare l’accanimento nei confronti dei luoghi santi e dei ministri del culto, e il rischio della reintroduzione del culto pagano. Una parte della popolazione irlandese, i celti Stranieri, tornano al politeismo e combattono a fianco dei norvegesi. Nelle zone devastate ed occupate riappaiono gli antichi riti sacrificali, e sembrano ritrovare spazio le mitologie germaniche. Questi fatti turbano profondamente una coscienza religiosa che sembrava aver conosciuto nell’impero di Carlo Magno una consacrazione unitaria. I Vichinghi personificano un inatteso sussulto del paganesimo, che si credeva ormai definitivamente liquidato, e al tempo stesso mettono duramente alla prova la consistenza delle recenti conversioni, spesso volute e imposte dall’alto, e per motivazioni non soltanto religiose.

Diversamente dagli Arabi, i Vichinghi non sono latori di una religiosità, o comunque di una cultura spirituale nuova, seppur antagonistica: in essi è piuttosto identificabile la negatività allo stato puro, lo scatenamento delle forze del male e per qualcuno sono anche il braccio vendicatore delle antiche divinità ripudiate. A conferma di questa impressione si adduce la preferenza accordata, nei saccheggi e nelle stragi, ai monasteri e alle chiese, preferenza dovuta in realtà alla certezza di un bottino sempre abbondante e di una resistenza minima. Ma anche altre consuetudini, talora rispondenti a verità, più spesso falsamente attribuite o perlomeno esagerate, come la poligamia, la tortura dei prigionieri, la violenza alle donne, l’assoluta mancanza di lealtà, vengono a disegnare dei Vichinghi un’immagine demoniaca e paurosa. Ancora nell’XI secolo, ad integrazione pressoché avvenuta, Adamo di Brema spiega la loro spinta all’emigrazione col sovrappopolamento della Scandinavia provocato dalla poligamia, e gli attacchi al regno dei Franchi con l’odio pagano per la cristianità.

E tuttavia, trascorso questo secolo dell’impatto violento e sanguinoso, i popoli del Nord si integrano velocemente nel contesto della civiltà europea, dapprima per amore o per forza, in seguito come veri e propri protagonisti della rinascita militare e culturale del continente. Senza dubbio una così rapida assimilazione è propiziata dalla permeabilità religiosa dei Vichinghi, che una volta stanziatisi non tardano a dimettere la ferocia anticristiana e ad allinearsi alla cultura spirituale dominante. Le conversioni hanno sovente un preciso significato politico (Rollone viene battezzato nel 912, un anno dopo la sua investitura a signore della Normandia, e legittima in questo modo un atto del sovrano che poteva creare perplessità e scontento nella comunità cristiana), e almeno inizialmente incidono in misura limitata sul costume nordico: le restrizioni monogamiche, ad esempio, e la pietà nei confronti dei vinti e dei prigionieri stentano ad attecchire nell’humus barbarico. Ma il disinvolto atteggiarsi dei Vichinghi nei confronti della novità va ben oltre il campo religioso. Con facilità estrema questo popolo di marinai mutua dai Franchi l’arte militare della cavalleria, ed arriva a eguagliare o addirittura a superare i maestri. Altrettanto egregiamente adatta l’avidità, la tendenza all’accumulazione, la natura avventurosa ed irrequieta che aveva innescata la migrazione predatoria al nuovo indirizzo politico-economico cui l’Europa si sta aprendo; e a questa intrapresa fornisce, oltre che le energie di un popolo in espansione, un sentire egoistico ed individualistico non più costretto nei vincoli della morale evangelica, ma addirittura inteso come valore fondamentale dell’esistenza.

Tanta disponibilità, assieme naturalmente allo spirito di iniziativa e alla capacità di imporre la propria presenza, fa si che i nordici non durino molta fatica ad integrarsi felicemente con le popolazioni delle più disparate zone dell’Europa e a cancellare il ricordo delle scorrerie, dei saccheggi e dei massacri. Dalla grande paura dei diavoli biondi il continente esce rafforzato ed allargato, e trae anzi l’impulso per contrastare attivamente le pressioni da oriente.

L’Islam

 

Diversamente da quanto avviene nel rapporto con altre diversità, il confronto dell’occidente medioevale con l’Islam non conosce una composizione finale: non si esaurisce né in una assimilazione, come accade con i Vichinghi e con gli Ungari, né in una accettazione di fatto, sia pure discriminatoria nel senso di un subordine culturale, come nel caso dei Mongoli. Si cristallizza invece in una disposizione rigidamente antagonistica, che permane pressoché immutata nei secoli a dispetto degli scambi economici e culturali maturati nella contiguità costante, e sulla quale pesa principalmente la contrapposizione religiosa. Anche in seguito, quando a quest’ultima andranno affiancandosi motivazioni più pratiche, legate alla rinnovata spinta espansionistica dell’Europa, il carattere dominante nel confronto sarà quello di una intolleranza e di una ostilità che eccedono le ragioni concrete dello scontro.

In realtà i due mondi si fronteggiano per secoli sul piede di una collocazione geografica speculare, di una spartizione pressoché paritaria delle terre conosciute, di un’interiore coesione fideistica tale da escludere ogni coesistenza o patteggiamento: tutto insomma concorre ad alimentare l’antitesi e la reciproca impermeabilità. Per l’Europa cristiana l’Islam non rappresenta semplicemente una minaccia militare: esso attenta in primo luogo alla identità religiosa del continente: non è nemico soltanto ai popoli, ma al Dio stesso dei popoli. Tuttavia, anche nell’ambito di una contrapposizione che non conosce soluzioni di continuità, l’atteggiamento occidentale dà luogo ad interpretazioni variamente sfumate, riconducibili da un lato ai concreti mutamenti dell’assetto politico ed economico, dall’altro a più complesse variazioni della sensibilità etico-religiosa.

Per oltre tre secoli, dall’VIII all’XI, l’iniziativa espansionistica rimane nelle mani degli Arabi, che costringono l’Occidente ad una contrazione sia geografica che commerciale. La prima fase dell’espansione ha un carattere propriamente militare, mira alla conquista di nuove terre e a sottomettere e convertire le popolazioni. Essa si esaurisce ad ovest con la conquista della Spagna, in seguito all’impatto con la nascente potenza franca e ai dissensi dinastici interni che minano lo spirito e le energie della “guerra santa”. L’ultima regione europea ad essere assoggettata, nel corso di oltre ottant’anni, è la Sicilia La seconda fase, successiva all’assestamento territoriale, ha un aspetto totalmente diverso. La supremazia viene concretizzandosi nel dominio sui mari e nella possibilità di costeggiare con relativa tranquillità il litorale mediterraneo europeo, portando attacchi di sorpresa alle città costiere e spesso operando rapide incursioni nell’entroterra. Cambiano anche i protagonisti, che non sono più gli arabi, ma i “saraceni”, popolazioni nordafricane islamizzate.

Venuto meno l’obiettivo dell’espansione territoriale e religiosa, i mussulmani puntano più immediatamente e limitatamente al bottino e alla cattura di schiavi europei, molto richiesti sui mercati orientali. Nella nuova veste di predone e saccheggiatore il guerriero saraceno infierisce direttamente sulla popolazione inerme e impreparata alla difesa. Non si tratta più dello scontro tra eserciti, nel quale la crudeltà reciproca entra nella logica del combattimento, ma di allarmi improvvisi, che turbano ed impediscono lo svolgersi di una vita normale e operosa, conferendo agli assalitori una fisionomia inquietante e malefica. A questo periodo, quindi, piuttosto che al precedente, va ascritta la fobia antislamica delle popolazioni cristiane. L’impatto con gli infedeli avviene in condizioni drammatiche, accentuate dall’impotenza e dalla disorganizzazione pressoché totale manifestata dagli istituti difensivi. Quella che nel settimo e nell’VIII secolo si era configurata come una minaccia possente ma remota, confinata al di là del mare e dei Pirenei, e quindi parzialmente esorcizzata dall’ostacolo naturale e dalla fiducia nell’eredità militare latina, si manifesta nei due secoli successivi in tutta la sua distruttività. Nell’847 i Saraceni sbarcano sul litorale laziale e saccheggiano Roma, compresa la basilica di san Pietro. È uno schiaffo portato direttamente al cuore della cristianità, che deve limitarsi ad assistere sbigottita. Le maggiori città marittime, Genova (934), Pisa (935 e 1004), Barcellona (985) vengono prese e saccheggiate; la Puglia, la Provenza e la Sardegna ospitano a lungo delle basi stabili per i raid litoranei e sono teatro di una dura lotta a fasi alterne per la riconquista cristiana. Dalla formidabile base di La Garde-Fresnet partono a più riprese spedizioni verso l’interno, che valicando le Alpi giungono a saccheggiare le città dell’entroterra. Gli obiettivi preferiti sono le grandi e ricche abbazie, come Novalesa, San Gallo e Furfa, la cui distruzione unisce lo scopo religioso alla sicura consistenza del bottino. L’insidia repentina e incontenibile della mezzaluna diventa un incubo costante soprattutto per le popolazioni rivierasche e va ad alimentare e sostanziare concretamente l’interpretazione apocalittica già in qualche modo elaborata a livello ecclesiastico. In una lettera del pontefice Giovanni VIII, scritta tra attorno all’882, si garantisce la salvezza eterna a chi muoia combattendo contro gli infedeli: siamo già nell’ottica della lotta contro il Male, che monda da ogni peccato.

In Maometto si riconosce la bestia dell’Apocalisse, il precursore di un Anticristo saraceno per il quale sono ormai maturi i tempi. Al di là comunque di questo antagonismo escatologicamente trasfigurato, fino all’XI secolo la disposizione nei confronti del mondo mussulmano conserva una certa ambiguità. La coscienza, non confessata ma diffusa negli occidentali, di una oggettiva superiorità in campo militare, amministrativo, economico e soprattutto culturale; la presenza, a livello religioso, di elementi accomunanti, dal monoteismo all’accettazione islamica della figura di Cristo; la sostanziale innocuità teologica della dottrina cranica, affatto inadatta alla creazione di fratture deviazioni e interpretazioni ereticali nel mondo cristiano; l’innegabile superiorità emergente dal confronto con gli altri popoli che operano pressioni dall’Est o dal Nord, rimasti allo stadio primordiale del paganesimo: tutti questi fattori, cui va aggiunto il rispetto per i luoghi santi e la libertà concessa ai pellegrini cristiani di accedere ad essi, giustificano una valutazione più cauta e articolata.

A partire però dall’XI secolo prende avvio un processo di inversione del rapporto di forza, che culmina infine con un sostanziale equilibrio, e nel contempo si definisce il consolidamento della presenza mussulmana in una dimensione più statica e continuativa, riconducibile a strutture statali organizzate. L’Europa può tirare un sospiro di sollievo e riconsiderare alla luce di una nuova sicurezza la natura dell’avversario. Se in precedenza la giustificazione allo scontro era costituita da esigenze immediate di difesa e di sopravvivenza, con le Crociate diventa necessario superare il dato concreto del pericolo e trasporre la lotta nell’ambito di un antagonismo religioso primordiale. Per gli infedeli vengono definitivamente sussunte origini, funzioni e finalità di matrice diabolica: si inizia a definirli, tanto nei bandi di convocazione delle Crociate quanto nelle epopee popolari, come “pagani”, negando in questo modo le attenuanti che in precedenza venivano riconosciute allo stadio teologico monoteista. Archetipo del comportamento cristiano diviene il duello col Saraceno, che si iscrive nell’etica del confronto continuo col male. La figura del combattente moresco diventa intercambiabile con quella del mostro, e spesso nell’iconografia i due concetti sono confusi in un’entità ibrida, dai tratti luciferini. Nella scala dei valori, sia pure negativi, una volta dissociato dall’urgenza del pericolo il mussulmano subisce un declassamento. Mentre fino alle crociate (e molto raramente anche dopo: ad esempio in san Bernardo) era prevalente l’idea di un confronto in atto con le schiere dell’Anticristo, preludio ad una soluzione finale che solo l’intervento celeste (stante la realtà della situazione) può volgere in positivo, con la riscossa cristiana lo scontro decisivo viene posticipato. Urbano II sottolinea il dovere di annientare i mussulmani per favorire la venuta dell’Anticristo, e quindi dei tempi ultimi, secondo le profezie bibliche. Essi si trovano pertanto ridotti al rango di ostacolo da rimuovere, sia pure di natura infernale. Le ragioni stesse che ne avevano promossa in un primo tempo un’immagine meno aliena si ritorcono progressivamente in connotazioni negative di una alterità irrecuperabile. Il livello superiore di civiltà religiosa, politica e militare attinto ne fa i rappresentanti più qualificati del disegno satanico, per i quali non valgono speranze di conversione e di recupero. Nella volgarizzazione di origine predicatoria del sacrificio evangelico non si tarda ad accomunarli agli ebrei quali corresponsabili del deicidio, e l’iconografia medioevale della passione li vede spesso protagonisti ai piedi della croce.

Un simile svilimento qualitativo e quantitativo della considerazione morale si riflette naturalmente, per il bisogno popolare di concretizzare figurativamente il dato spirituale, nella elaborazione di una tipologia immaginifica dell’infedele a livelli sub-umani: tutti gli attributi morali della negatività medioevale (viltà, efferatezza, falsità e schiavitù del vizio) così come quelli fisici (debolezza, bruttezza, negritudine, ecc…) si condensano in questa figura. Il mussulmano entra a far parte sotto spoglie caricaturali della favolistica, dell’epos e dello spettacolo di piazza, come antagonista infido e fellone della virtù.

Tuttavia a questa attitudine repulsiva e sprezzante che caratterizzerà nei secoli il sentire popolare, trasferendosi pressoché immutata sugli spauracchi di volta in volta emergenti (Mongoli, turchi), si contrappone già nel XIII secolo una disposizione più sfumata da parte dei ceti superiori, politici, religiosi e intellettuali. Il fallimento delle spedizioni nel levante e il ritorno alla situazione di stallo smorzano gli entusiasmi espansionistici e rendono preferibile il negoziato allo scontro (Federico II). I nuovi strati intravedono nel rapporto privilegiato con l’Islam un’occasione di grossi vantaggi strategici ed economici: l’esempio di Venezia fa scuola a sovrani e mercanti di tutto il continente. La Chiesa stessa, preoccupata di espellere i corpi estranei che cominciano a fermentare al suo interno, rimanda a più felici congiunture il sogno di cristianizzazione universale. La fiducia nell’imminenza del trionfo è incrinata, probabilmente, anche dalla comparsa dei Mongoli; al di là delle speranze immediatamente suscitate, infatti, essi vengono a testimoniare dell’esistenza di altre popolazioni, oltre a quella islamica, immerse nell’ignoranza della vera fede e nel paganesimo. Ai guerrieri si sostituiscono i predicatori: san Francesco va a predicare di fronte al Sultano.

La diffusione della dottrina aristotelica nel commento di Averroè dà il colpo di grazia: il concetto razionalistico della relatività spaziale e temporale comincia ad essere applicato dai filosofi più spregiudicati anche al mondo e alla dottrina cristiana, così come i pensatori arabi avevano fatto con l’islamismo. Il debito contratto con la cultura araba crea agli alti livelli intellettuali una solidarietà ed un rispetto reciproco che si sostanziano della critica comune al dogmatismo religioso.

Dal canto loro le classi mercantili non hanno atteso giustificazioni culturali per trovare un modus vivendi con gli islamici: nell’espressione letteraria più famosa della mentalità mercantile del trecento, il Decameron, nulla distingue l’infedele dal cristiano: scaltrezza, vitalità, senso dell’onore, amore per il bello e per il godimento sono egualmente presenti ed apprezzati dai due mondi.

Ma è soltanto una tregua, mai avvallata ufficialmente anche se tacitamente rispettata. Alle spalle della chiesa premono i movimenti millenaristici, che non abdicano al progetto di evangelizzazione universale e contestano la passività del mondo cristiano. La riconquista spagnola tiene desto l’antagonismo militare, mentre anche i rapporti culturali vanno rarefacendosi con il tramonto della rinascenza araba e con la ripresa di una speculazione originale dell’occidente.

Quando i Turchi si affacciano al Mediterraneo l’Europa è spiritualmente pronta a respingerli, con una disposizione d’animo che poggia ormai sulla inattaccabile coscienza del proprio destino storico.

 

I Mongoli

Agli inizi del XIII secolo giungono in occidente le avvisaglie di grandi sconvolgimenti in corso nella steppa asiatica. Le tribù mongoliche hanno mosso dalla regione compresa tra l’Amur e il lago Bajkal, dando vita ad un formidabile quanto rapida epopea, che raggiunge il suo apice sotto la guida intelligente e spietata di Temujin (Gengis Khan è la versione occidentalizzata di Cingiz Qan, “sovrano oceanico, il cui potere si estende fino ai quattro oceani”). In una decina d’anni il sovrano dei Mongoli si impadronisce di tutta l’Asia Superiore, giocando sulle rivalità tra le diverse etnie, dosando con spregiudicatezza le alleanze e i tradimenti, ma soprattutto utilizzando in modo sistematico il terrore come strumento di dominio. Nel 1211 investe l’impero cinese, e a partire dal 1221 si affaccia ai confini dell’occidente, compiendo incursioni in Georgia e sbaragliando un primo esercito caucasico. Saranno però i suoi successori a sferrare l’attacco vero e proprio all’Europa e a perseguire il disegno di unificazione dell’intera Eurasia. Il regno dei Bulgari del Volga è occupato nel 1237, nei tre anni successivi tocca alla Russia, nel 1241 vengono invase Polonia ed Ungheria. Le orde mongoliche appaiono inarrestabili ed arrivano sino alle coste dalmate: ma la scomparsa di Gengis Khan ha dato la stura alle rivalità e alle lotte intestine, e così rapidamente come si era costituito lo smisurato impero si frantuma. Alla morte di Ogodei, figlio di Gengis, nel 1241, la spinta espansionistica si esaurisce e l’Europa può trarre un sospiro di sollievo.

Al di là della concreta incidenza militare e politica, che in effetti con l’eccezione della Russia fu limitata nel tempo e negli esiti, l’invasione mongolica suscita nella cristianità medioevale un’altalena contraddittoria di speranze e di paure. Al primo loro apparire i mongoli ravvivano la memoria, mai sopita, delle invasioni e delle scorrerie altomedioevali, e la paura viene tanto più alimentata ed amplificata da una circolazione delle notizie più veloce e tempestiva. Le notizie che giungono dall’oriente attraverso mercanti e viaggiatori allarmano l’intero continente. Nel terzo decennio del secolo il domenicano ungherese fra Giuliano si spinge sin oltre il Volga, per farsi un quadro preciso della situazione e per verificare le voci insistenti di una diffusione del cristianesimo tra le tribù mongoliche. Ma è costretto a tornare velocemente indietro proprio sotto l’incalzare delle stesse, e giudica opportuno mettere in guardia il pontefice nei confronti del pericolo incombente. Bela IV d’Ungheria, impressionato dai resoconti sempre più inquietanti, sollecita la creazione di un fronte unico della cristianità, ma non viene ascoltato. Solo dopo la sconfitta (1241) di un esercito unitario di Polacchi, Cechi e Teutoni, che apre le porte all’invasione dell’Ungheria, i sovrani europei prendono una posizione più decisa: Federico II e Luigi IX si dispongono infatti a coalizzare le loro forze. Ma il confronto non ha luogo, per l’esaurirsi improvviso dell’espansione. Gli europei sono liberati da una terribile incombenza, ma rimane l’interrogativo sulla portata reale del rischio corso: e questo non vale affatto a tranquillizzare gli animi.

Ci sono comunque altri dubbi che turbano la coscienza occidentale, anche molto tempo dopo la cessazione dell’allarme. Si è accennato, più sopra, alla credenza in una evangelizzazione delle popolazioni centro-asiatiche, e questo determina una disposizione ambigua da parte della cristianità. La credenza si basa su notizie nebulose relative alla presenza di nuclei nestoriani nell’Estremo Oriente, filtrate in Europa attraverso i contatti mercantili e le crociate, e trova facile esca in un ambiente fervido di aspettative per l’intervento “decisivo” che porterà alla resa dei conti con l’Islam. La speranza di saldare in un unico blocco cristiano l’oriente e l’occidente, e di stringere quindi i mussulmani in una morsa fatale, induce i pontefici e i sovrani europei a cercare con insistenza i contatti. Le missioni di Giovanni da Pian del Carpine (1245-1247), di Nicola Ascelin (1246), di Guy e Jean de Carcassonne (1247) e di Guglielmo di Rubruk (1253-1256) hanno precisamente questo scopo, e il loro fallimento non è sufficiente a sfatare del tutto la leggenda. Nei decenni successivi i Mongoli stessi contribuiscono a tenerla in vita. Dopo il 1260 infatti, la situazione militare nell’Asia centrale si evolve per l’inasprirsi della lotta dinastica e per il prevalere delle popolazioni turche, ed il Khan deve assicurarsi le spalle minacciate dall’Islam. Al loro ritorno in Europa i Polo sono latori di un’ambasceria di Qubilai, il quale lascia intravedere la possibilità di grosse conversioni, e si mostra interessato personalmente alla nuova religione (per la divulgazione della quale chiede l’invio di cento sapienti). Fino a tutta la prima metà del Trecento diverse spedizioni raggiungono Pechino (tra le principali, quelle di Giovanni da Montecorvino (1291), di Odorico da Pordenone (1314-1330) e di Giovanni da Marignolle (1338-1353) e mantengono vivi i rapporti. Ma l’avanzata dei Turchi, l’esplosione della peste nera e la fine del dominio mongolo sulla Cina liquidano definitivamente le speranze e il mito.

D’altra parte, come si è detto, questo atteggiamento non era mai andato esente da dubbi e da inquietudini, e aveva anzi lasciato il posto alla paura nei momenti di maggiore tensione. I più atterriti dall’avanzata mongola sono naturalmente i popoli dell’Europa orientale. Nella cronaca dell’armeno Kiracos, che pure non considera i Mongoli come nemici della chiesa e della croce, le orde mongoliche sono messe in relazione con le schiere dell’anticristo. La cronaca russa di Lorenzo le mostra invece come flagello divino: “E con queste punizioni Dio ci visita mediante le irruzioni dei pagani, giacché questi sono la sua frusta, affinché noi torniamo in senno e abbandoniamo la nostra trista vita”. Il nome stesso col quale sono noti agli europei (erroneamente, in quanto i Tatar erano une delle prime popolazioni soggiogate da Gengis Khan) si presta a facili assonanze, rimandando alla denominazione classica dell’Inferno. Nell’appello a Federico II (1241) si dice: “Speriamo che i Tartari venuti dal Tartaro siano in esso ricacciati. Essi sono stati spinti da Satana stesso. E quando tutti i popoli vorranno inviare di buon accordo i loro soldati, questi non dovranno combattere contro uomini, ma contro diavoli”.

Anche nei resoconti dei missionari non mancano gli accenni alla natura demoniaca e il riferimento alle predicazioni apocalittiche. Rubruk vede in essi la “folle nazione” delle scritture. Giovani da Pian del Carpine è più benevolo, ma non manca di sottolineare i costumi bestiali e inumani: “Sono frodolenti e ingannatori, e sempre che possono lo fanno ad ognuno. Sono anche sudici, sia nella maniera di mangiare, si in tutte le alte azioni… mangiano tutto ciò appena si può mangiare: carne di cani, di lupi, di volpi, di cavalli e in caso di necessità anche di uomini.” Rinaldo da Montecroce li identifica con le tribù di Israele confinate dietro il monte Caspio, Marco Polo stesso contribuisce alla caratterizzazione demoniaca del nome, parlando dei popoli di Ung e Mungul (i biblici Gog e Magog).

Ma il vate dell’avvento di un anticristo mongolo è soprattutto Ruggero Bacone. Nell’ Opus Maius e nel Compendium Philosophiae raccoglie gli indizi che testimoniano la venuta del tempo fatidico, e colleziona le più svariate profezie, dalle scritture a Gioacchino da Fiore, e ne deduce l’imminenza della fine del mondo. La fine della lunga “inclusione” dei Tartari, che hanno superato le “porte di ferro” del Caucaso, ne è la chiara conferma.

L’ambiguità della disposizione cristiana nei confronti dei Mongoli ha la sua radice probabilmente nella politica religiosa di questi ultimi. Diversamente dagli Ungari e dai Vichinghi, che da predatori esperti avevano individuato nelle chiese e nei monasteri le prede più facili e fruttuose, e dai Mussulmani, le cui conquiste si fondano sul fanatismo religioso, i Mongoli praticano in campo confessionale una assoluta tolleranza (“come Dio ha dato alle mani varie dita, così ha dato agli uomini diverse vie”, dice a Rubruk il Khan Mangu) e mostrano rispetto per i simboli e le istituzioni religiose altrui. Nella Russia dell’Orda d’Oro, ad esempio, solo il clero è esentato dall’imposta personale, e il patrimonio della chiesa è salvaguardato. Lo stesso Khan si raccomanda alle preghiere del clero, affinché il dio cristiano sia ben disposto nei suoi confronti. Un simile atteggiamento lascia senza dubbio sconcertati gli occidentali, che nelle controversie ereticali e nelle lotte contro pagani ed infedeli hanno maturato uno spirito ferocemente intollerante. La speranza in una possibile conversione, astutamente alimentata dagli stessi sovrani mongoli, attenua la ripugnanza creata dai costumi, dall’indole e dalla diversità razziale.

Va tenuta presente comunque anche un’altra motivazione, oltre naturalmente al legame ideale creato da un nemico comune. I Mongoli vengono a costituire per l’occidente un pericolo potenziale, quanto mai terribile, ma tuttavia non esperito concretamente. Le popolazioni investite appartengono all’est europeo, ad una zona cioè non ancora assunta paritariamente nel contesto politico della cristianità: e comunque l’impatto copre l’arco di una sola generazione. Il nuovo nemico non ha il tempo di attentare all’integrità del continente, e neppure deve essere esorcizzato con una lotta cruenta o con l’assimilazione. Troppo forti per essere sconfitti e troppo diversi per integrarsi nella nuova civiltà continentale, i Mongoli provvedono da soli a ripassare quelle “porte di ferro” che parevano essersi dischiuse sull’apocalisse. Proprio questo contribuisce ad aumentare lo sbigottimento degli europei, e a caricarne di curiosità e leggenda il timore.

Gli altri, dentro

La spiccata sensibilità medioevale per il pericolo, vero o presunto, si fonda sul postulato che l’itinerario da percorrere alla ricerca di dio e della salvezza deve essere comune. La redenzione non è un problema del singolo, investe l’umanità nel suo complesso, attraverso la mediazione della Chiesa. Essa è quindi legata anche al livello dei meriti acquisiti collettivamente, e responsabilizza l’individuo nei confronti del suo prossimo, della sua comunità di appartenenza. Questo convincimento si concretizza nella formulazione di una normativa religiosa e civile cui tutti debbono attenersi. Il comportamento eterodosso, a livello sia dottrinale che etico e sociale, viene ad interferire nella possibilità di successo dello sforzo collettivo e procrastina la vittoria sul male, suscitando dubbi, incertezze, deviazioni. Il timore e la reazione nei confronti della diversità non vanno quindi ad investire soltanto gli eretici, ma si allargano a focalizzare e a ripudiare ogni aspetto non assimilabile al sentire comune.

Vagabondi, giullari, pazzi, ebrei, lebbrosi, e persino pellegrini, chierici, goliardi e mercanti, costituiscono un elemento di disturbo di instabilità, un’immagine per niente speculare di quel mondo d’ordine e di coesione in cui la cristianità vuole arrivare a riconoscersi. Sono venuti meno i criteri di onnicomprensività sottesi al grande progetto imperiale romano. Il travaglio di cinque secoli di invasioni ha connotato paurosamente le manifestazioni aliene, inculcando nelle popolazioni europee il sentore di una stretta interdipendenza tra omogeneità e sicurezza. La società medioevale si è ripiegata su se stessa, è divenuta fortemente inclusiva e per ciò stesso invadente nel rapporto con i singoli. A differenza di quanto avverrà successivamente, con la nascita dello stato assoluto e borghese, l’esclusione e il rifiuto non costituiscono una misura offensiva, ma sono eminentemente un’arma di difesa.

L’alto medioevo sembra essere paradossalmente caratterizzato, sotto questo aspetto, da una maggiore apertura, o da una minore diffidenza, nei confronti dell’eteronomia. A dispetto del mito dell’arroccamento, la mobilità in quest’epoca è eccezionale. Gli stanziamenti sono infatti ancora precari. Quando non intervengono guerre, morbi e carestie è il progressivo inaridimento dei terreni a spingere le popolazioni, dedite ad una economia agro-pastorale, alla migrazione. Sono anche frequenti gli spostamenti stagionali al seguito di greggi o mandrie, o semplicemente alla ricerca di una attività stagionale di sopravvivenza.

Nel contesto di questa realtà in movimento nella quale la terra e la famiglia non costituiscono affatto per la maggioranza un appiglio stabile e la vacanza di una normativa o di un potere comune lascia indefiniti i confini della legalità, profughi, viandanti e vagabondi si inseriscono a pieno diritto. Soltanto più tardi, quando gli insediamenti avranno acquisito stabilità e sicurezza e si reggeranno su una razionalizzazione della vita quotidiana, queste presenze saranno avvertite come dissonanti.

Presenze inquietanti: i pazzi

La follia ha una sua vicenda particolare nell’ambito dell’esclusione medioevale. Anche in questo caso occorre distinguere tra alto e basso medioevo, tra un periodo di ruralizzazione e atomizzazione delle strutture politiche e civili, e uno di rinascita della vita urbana e di forme amministrative e societarie più complesse. L’irrazionalismo che caratterizza il primo di questi periodi comporta un sentire ambiguo ma, in definitiva, tollerane nei confronti degli alienati. Pur essendo avvertita la diversità dei pazzi dà luogo a dubbi, viene problematizzata: e riesce difficile, in un’ottica fondata sul trionfo del soggettivo, rapportarla ad una condizione standard di normalità dai limiti concordemente accettati. D’altro canto, nei confronti di una società i cui ordinamenti sono pochi ed essenziali e la cui vita è giocata sul filo continuo dell’insicurezza, la pazzia non costituisce un pericolo, o perlomeno, è quello meno grave. Può mutarsi addirittura in un fattore liberatorio per la piccola comunità rurale, facendosi portavoce delle istanze più represse e diventando la coscienza aperta del gruppo. Il pazzo è al di sopra di ogni sospetto, ciò che dice è istintivo e genuino, in quanto si lega ad interessi da difendere. Anche sul piano religioso il suo straniamento dalla realtà e dai suoi problemi è pienamente conforme all’etica del misticismo. La povertà di spirito è stata indicata nello stesso messaggio evangelico come condizione della beatitudine. Naturalmente, le sue forme più esasperate e violente inducono anche il sospetto di una matrice infernale. Invasati ed ossessi costituiscono il volto diabolico della follia. Appartenendo all’ordine del soprannaturale e del magico essa non può essere combattuta se non con i mezzi pertinenti a questa dimensione: sortilegi, esorcismi, fonti miracolose e purificatrici. Soprattutto queste ultime sembrano possedere miracolosi poteri taumaturgici: e non è improbabile che la terapia d’urto dell’immersione abbia sortito qualche effetto su forme nevrotiche meno avanzate. L’acqua appare per sua stessa natura l’antidoto più indicato contro il “riscaldamento” cerebrale originato dalla follia. Attinta da fonti sacre, essa costruisce un repellente formidabile m nei confronti delle forze infernali. Diffuso è anche il ricorso ai santi e alle loro reliquie: san Guido per gli agitati, san Valentino per gli epilettici, san Leonardo per gli affetti da convulsioni ed altri minori, il cui culto ha radici locali. La farmacopea si adegua alla dimensione magica nella quale si trova ad operare. Carne di lupo per gli allucinati, tisane di mandragora e collane di trifoglio contro l’invasamento, incantesimi e formule numeriche contro l’epilessia, ecc…

Nel basso Medioevo le cose cambiano, in peggio, per i malati di mente. Gli accessi di follia a carattere religioso diventano più frequenti nell’XI e nel XII secolo, in concomitanza col clima delle crociate e col nuovo fervore espansionistico del cristianesimo: e cominciano anche a destare preoccupazione nelle autorità, che temono il contagio dell’eccesso. In una situazione politica e sociale mutata il pazzo rompe l’equilibrio, già precario, del mondo circostante, si contrappone ad esso e ne mette in luce le carenze e la fragilità. Il suo rifiuto dei valori materiali della vita viene a contrastare con la rivalutazione degli stessi che la società tardo medioevale sta operando. La partecipazione demoniaca è vista come una costante dello stato di alienazione, e risponde ad una disposizione malvagia da parte dell’invasato. La tollerante benevolenza mostrata in precedenza viene meno di fronte all’idea della colpa, della responsabilità diretta. I pazzi cominciano ad essere espulsi ed allontanati dalla città, condannati ad una odissea interminabile e allucinante. Oppure vengono rinchiusi, sottratti alle strade e al contatto con la “normalità”, o addirittura, in qualche caso, salgono al rogo, condannati come complici del demonio e detentori di facoltà occulte (spesso sono utili capri espiatori) quando se ne voglia tentare il recupero su basi mediche, la situazione per gli alienati non è migliore: oltre alle immersioni in acque gelide, fino ai limiti dell’annegamento o dell’asfissia, si diffonde un largo uso del cauterio: si ritiene infatti che la pazzia sia originata da una congestione dei vasi sanguigni della testa, e che la bruciatura del cuoio capelluto abbia un effetto liberatorio. L’internamento e lo shock terapeutico si legheranno da questo momento alla storia della follia. Anche quando la scienza sembrerà aver esorcizzati gli influssi demoniaci, la diversità del pazzo continuerà ad essere scomoda ed inquietante per la coscienza e per l’ordine sociale.

Presenze invisibili: gli schiavi

C’è un’altra componente del quotidiano sociale dell’epoca che merita un cenno. Si tratta degli schiavi. Si dà in genere per scontato che l’istituto della schiavitù sia scomparso in Europa, sia pure in maniera graduale, contestualmente all’affermarsi del cristianesimo. Le cose non stanno proprio così, anche se già negli ultimi secoli dell’impero romano un attacco congiunto allo schiavismo arriva dalla filosofia stoica e dal messaggio cristiano; a questo si sommano peraltro motivazioni molto più prosaiche, prime tra tutte la crisi del latifondo e l’esaurirsi della spinta espansionistica, con la conseguente assunzione di una nuova attitudine difensiva che porta ad accettare come alleati o ad assoldare come mercenari quegli stessi popoli che in precedenza sarebbero stati tratti in schiavitù.

L’atteggiamento dei primi cristiani è in fondo di “tolleranza” nei confronti della schiavitù, dal momento che quest’ultima tocca solo il corpo dell’uomo e non la sua natura spirituale. Anche se la Chiesa cerca di mitigarne gli eccessi, chiamando i padroni responsabili del trattamento inflitto ai servi, la letteratura patristica riesce a scovarne una legittimazione, interpretandola come punizione per il peccato originale. Con perfetta coerenza Gregorio Magno la ritiene illegittima solo per coloro che già sono battezzati.

L’istituzione schiavile è comunque largamente diffusa anche nel mondo germanico, dove gli schiavi vengono impiegati nei lavori agricoli. A partire dal X secolo, dopo che l’imperatore Ottone ha condotto una feroce campagna sui confini orientali, provengono soprattutto dal mondo slavo, e saranno tanti da giustificare l’adozione del nome ad indicare tutta la categoria di sventurati. In Inghilterra avrà invece maggior peso, a fianco di una limitata presenza di prigionieri di guerra, una sorta di servaggio per debiti a tempo determinato, non meno duro per quanto concerne il trattamento ma riscattabile dopo un certo periodo, ad estinzione della cifra o del servizio dovuti. Alla fine del XII secolo, comunque, quasi un decimo della popolazione inglese era ancora ufficialmente considerata in condizione schiavile.

Tra il X e il XIII, quando si diffondono nel mondo agricolo i rapporti di colonato e di manenza, o la servitù della gleba, il numero degli schiavi nel continente subisce una contrazione, mentre assistiamo ad un nuovo aumento dopo il periodo delle crociate, quando più intensa si fa la contrapposizione col mondo mussulmano, e torna valida nei confronti degli “infedeli” per eccellenza la giustificazione allo sfruttamento. Cambia però l’ambito di utilizzo, che non è più quello agricolo ma diventa principalmente quello domestico. Questa forma di schiavitù interessa soprattutto, ma non solo, le donne: e spesso si tratta anche di giovani cristiane, vendute dalle loro stesse famiglie.

Gli schiavi arrivano tramite Genova e Venezia, sono procurati dai Turchi e passano spesso attraverso l’intermediazione di trafficanti ebrei. Si tratta di Armeni, Siriaci, Circassi e Tatari della regione del Mar Nero, ortodossi greci o balcanici. Cominciano ad affluire anche i neri, dall’Africa settentrionale attraverso i mercanti arabi e i pirati saraceni, o direttamente dalla Guinea, nel XV secolo, con i Portoghesi. Lo stesso papa Nicola I ordina nel 1452 ai portoghesi di ridurre in schiavitù i mussulmani, e Ferdinando il Cattolico invierà molti schiavi neri ad Innocenzo VIII. Non si tratta di piccoli numeri. A Lisbona nel XVI secolo la popolazione nera è più numerosa di quella bianca. Il fenomeno è facilmente spiegabile: quando si infittiscono le lotte per l’egemonia navale nel Mediterraneo, sono proprio gli schiavi a garantire l’energia indispensabile per l’utilizzo delle galee.

La persistenza della schiavitù non è certamente fonte di paura nel Medioevo. Non ci sono, e non sarebbero possibili, stanti le contenute dimensioni e le limitate tipologie del fenomeno, rivolte spartachiste. Il problema è che non viene percepita nemmeno con meraviglia, o condannata con sdegno. Gli schiavi sono semplicemente invisibili, non se ne trova traccia nella letteratura e nell’iconografia, sono così perfettamente mimetizzati che persino la storiografia contemporanea stenta a ricordarsi della loro esistenza. Eppure, come abbiamo visto, anche se non è così significativo come nell’antichità, o come lo sarà nell’era moderna, il fenomeno esiste. La sua mancata percezione dipende probabilmente, oltre che dalla relativa esiguità, dal fatto che la condizione di schiavo non era poi così diversa da quella del servo della gleba o della gran parte degli uomini liberi.

Ma non è tutto qui. Ci sono anche fattori nuovi, che spiegano come si possa tranquillamente convivere con qualcosa che si dà ufficialmente per inaccettabile e inesistente nella società cristiana, e che preparano il terreno al ritorno ad una mentalità schiavistica tra il XVII e il XIX secolo: sono l’odio religioso e il pregiudizio razziale. Dell’uno abbiamo già ampiamente parlato, dell’altro avremo modo di parlare altrove.

Presenze itineranti: i pellegrini

Il termine “peregrini” ha per Dante una “larga significatione”: “chè peregrini si possono intendere in due modi, uno in largo e uno in stretto in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori della sua patria: in modo stretto non si intende peregrino se non chi va verso la chiesa di San Jacopo, o riede”. (Vita Nova) Nel corso del Medioevo è il senso stretto del termine a prevalere, quello cioè di un atto particolare di devozione, o comunque iscrivibile nell’ambito e nella mentalità religiosa, che dà luogo ad un diffuso nomadismo penitenziale.

Il pellegrinaggio traduce la disposizione etica ed ontologica di fondo del cristianesimo in una esperienza immediata e terrena. La sua radice più remota è nell’assenza di una strutturazione reale dello spazio e del tempo, in ragione della quale si coglie soltanto una reiterazione non finalizzata degli eventi. Esso è paradigma del valore puramente transitorio della vita materiale, da intendersi come viaggio o ritorno ad una essenza originariamente perduta: e al tempo stesso esaspera il rifiuto dei vincoli della materialità, e si realizza in ricerca dell’epifania divina. Spesso, infine, assomma a questi valori un significato espiativo, anch’esso nell’ottica dell’avvicinamento alla salvezza.

In quanto così profondamente connaturato all’atteggiamento cristiano nei confronti del mondo, di cui offre l’esemplificazione più tangibile, il fenomeno del pellegrinaggio conosce un forte sviluppo già dai primi secoli della nuova era. La pulsione decisiva allo spostamento non viene però, almeno inizialmente, dalla ricerca itinerante della manifestazione di Dio, quanto piuttosto dalla volontà missionaria di diffondere il verbo: il che comporta una disposizione attiva, che è destinata a venire meno in seguito. Nell’alto medioevo infatti questa spinta evangelizzatrice, pur senza esaurirsi, è ridimensionata dalla contrazione stesa del mondo occidentale: e il pellegrino diviene sempre più unicamente uno sradicato, che rifiuta il legame con tutto ciò che è terreno. Le parole del Vangelo: “Chi avrà lasciata la casa o i fratelli o le sorelle o il padre o la madre per causa mia possiederà il centuplo” (Marco, 29-30) sono intese come un’esortazione ad anticipare il distacco dalla materialità, trasferendo la liberazione alla vita terrena. Il pellegrinaggio altomedioevale in genere non ha meta: è una condizione permanente d’esistenza che risponde d’altra parte, al di là ei valori etico-religiosi sottesi, alla situazione di instabilità e di insicurezza comune a tutta quanta la società.

La vera e propria esplosione del fenomeno è comunque più tarda: essa ha luogo a partire dal XII secolo, sull’onda di quei grossi pellegrinaggi armati che furono le crociate, e si lega ai profondi mutamenti intervenuti sia a livello motivazionale che nelle modalità della prassi. Nel Trecento ci troviamo di fronte ad un vero e proprio pellegrinaggio di massa. Sulla matrice spirituale sono andati innestandosi fattori di ordine diverso, come la rinnovata sicurezza degli itinerari e l’organizzazione della mobilità che consegue all’espansione dei commerci; ma ciò che maggiormente incide sulla diffusione di questo costume è il ridimensionamento e lo stravolgimento del suo significato, la trasformazione da rinuncia definitiva e globale a manifestazione devozionale temporanea, assimilabile alle comuni pratiche penitenziali promosse e controllate dall’autorità ecclesiastica. La chiesa recupera gradualmente la gestione dello spostamento pellegrinale costringendolo entro una regolamentazione ben precisa, incanalandolo verso mete specifiche, ed accentua la diffidenza nei confronti delle iniziative che si sottraggono al controllo. Questa istituzionalizzazione si attua in primo luogo convogliando i fedeli verso mete ben precise: il santuario di san Jacopo di Compostela, Roma, il Santo Sepolcro, per citare solo i principali, sono meta lungo tutto il medioevo di un incessante avvicendamento di fedeli provenienti da tutte le contrade cristiane. Gli itinerari diventano in qualche modo obbligati, costellati come sono di punti d’assistenza e di conforto materiale e spirituale: mentre le difficoltà relative al transito per paesi stranieri vengono appianate da speciali salvacondotti, tramite i quali si può ottenere anche protezione contro il brigantaggio di strada. Lo stesso potere laico è infatti fortemente intrigato in questo processo organizzativo che consente di normalizzare senza contrasti la mobilità, combattendo il vagabondaggio e il nomadismo irregolare. Si diffonde inoltre la pratica di imporre il pellegrinaggio in espiazione di peccati contro la morale o la religione, il che dà modo all’autorità di liberarsi per un certo periodo degli individui indesiderabili. A dare atto del compimento della penitenza i principali santuari rilasciano delle “lettere testimoniali”, che comprovano la presenza del pellegrino per un determinato periodo. L’attestazione ufficiale, richiesta inizialmente per i soli pellegrini coatti, acquista col tempo il valore di una capitalizzazione di credito morale acquisito nei confronti della società.

Nei caratteri del pellegrinaggio istituzionalizzato rientra anche la finalizzazione immediata, la ricerca del miracolo non soltanto come manifestazione divina ma come intervento taumaturgico. Schiere di storpi, ciechi, paralitici, malati e malformati di ogni genere si trascinano coi mezzi più fortunosi da un santuario all’altro, sempre inseguendo le voci di guarigioni miracolose, di acque risanatrici, di reliquie dagli straordinari poteri.

Tutto concorre a spogliare il movimento penitenziale di quelle caratteristiche che possano dare adito a sospetti di eterodossia, e a caricarlo invece di valenze coagulanti, in direzione tanto religiosa che sociale. L’apoteosi di questa codificazione si ritrova nelle grandi manifestazioni di concorso pellegrinale indette periodicamente dall’autorità pontificia, in modo particolare nei giubilei. Essi rispondono all’esigenza immediata di rafforzare, attraverso la testimonianza collettiva, la coscienza individuale e l’immagine politica della fede; ma al tempo stesso sottendono la volontà di ribadire la funzione vicaria a tutti gli effetti dell’istituto ecclesiale (concessione delle indulgenze), sostituendo alla ricerca mistica della ierofania l’affidamento ad una presenza concreta e continuativa, garante del rapporto con Dio. L’operazione di arginamento e canalizzazione del pellegrinaggio non è priva di significato anche sul piano prettamente religioso. Il pellegrinaggio è inteso infatti nel Medioevo come strumento di salvazione eccezionale, itinerario verso la divinità che si disvela. Nel più celebre resoconto di una peregrinazione, sia pure interiore, lasciatoci dall’epoca, questo significato è espresso in maniera esemplare. La Divina Commedia allegorizza i tormenti che spingono ad intraprendere il cammino, le difficoltà e le pene del viaggio, la gioia della verità ritrovata. Ma non sempre tutto questo avviene sotto l’egida della Chiesa: è in agguato la tentazione di farne un mezzo per accedere direttamente a Dio, là dove Dio si manifesti, e pertanto di mettere in discussione la necessità e l’autorità di un vicariato terreno. Di qui la preoccupazione di subordinare il movimento ad una stretta dipendenza dall’organizzazione e dall’assistenza.

Va comunque sottolineato come la sollecitudine e la sensibilità nei confronti dello spostamento penitenziale non sia soltanto frutto di una necessità di razionalizzazione. Il pellegrino viaggia a piedi, con bastone (il bordone, di forma particolare, con un nodo centrale) e bisaccia, molto spesso senza denaro, per evitare aggressioni e rapine. Vive quindi della carità altrui, il che testimonia dell’esistenza di uno spirito abbastanza generalizzato di solidarietà. La stessa legislazione sociale tiene conto di questa realtà: nelle città e nei borghi maggiori, ad esempio, dove mancano stalle e fienili per il ricovero notturno, i proprietari delle costruzioni che si affacciano sulla via principale devono destinare uno spazio a porticato, sotto il quale i viandanti trovino riparo. Nei confronti del pellegrino è sospesa inoltre ogni forma di ostilità politica o militare. Il penitente è rispettato e tutelato per l’intera durata del suo viaggio anche dagli avversari; la sua sicurezza è garantita, almeno formalmente, al punto che gli è tassativamente vietato di portare con sé armi.

In che senso allora il pellegrinaggio rientra nell’ambito dell’emarginazione? La simpatia e il rispetto che il penitente suscita nei suoi contemporanei non può far dimenticare l’ostilità che spesso lo circonda negli ambienti più legati all’ortodossia. Lo spostamento non finalizzato alle attività economiche o amministrative, individuale e collettivo, anche quando si attui entro schemi preordinati e controllabili costituisce un elemento di disturbo, e va a rallentare lo sforzo di riorganizzazione sociale tardo-medioevale. Ma è soprattutto la disposizione spirituale ad esso sottesa, fondata su una tensione ultraterrena insofferente di mediazioni, a renderlo sospetto. E non senza ragione. Soffocato nell’inquadramento dottrinale e rituale imposto dall’autorità, l’aspirazione ad un rapporto più diretto col sacro esploderà nei secoli successivi in forme di dissidenza aperta, da quelle ereticali alla riforma.

Presenze odiate: gli Ebrei

Nell’accezione corrente di violenza genocida e di messa al bando fisica e morale di un’intera etnia culturale, l’antisemitismo è un portato del medioevo. Fino al X secolo l’odio per gli ebrei, che pure esiste e sfocia talvolta anche in persecuzione, non esce dai limiti di un generalizzato sentire xenofobo, anche viene progressivamente acuito da una pesante pregiudiziale religiosa. Gli ebrei costituiscono ovunque una minoranza discriminata, taglieggiata e priva diritti, ma ancora entro una condizione che appartiene al destino comune delle minoranze.

Le testimonianze di una loro presenza a Roma risalgono alla metà del II secolo a.C., e già dicono di una presenza problematica (nel 139 a.C. vengono cacciati). Successivamente, ogni turbolenza in Palestina provoca un nuovo afflusso di schiavi, seguiti da mercanti o da profughi in cerca di lavoro. Ma mentre gli altri si integrano, gli Ebrei stanno per conto proprio, e sono schiavi scomodi, perché non intendono assolutamente rinunciare ai precetti della loro fede (sull’alimentazione, sul riposo sabbatico). Spesso vengono riscattati dai loro correligionari, stante la coesione della comunità, ma molti si fermano anche dopo essere stati emancipati. All’epoca di Claudio a Roma sono oltre cinquantamila, e al termine della guerra giudaica ne arrivano come prigionieri quasi centomila. Nonostante la loro intransigenza religiosa e razziale, che le porta all’autoisolamento e al rifiuto dell’osmosi culturale con l’esterno, nel periodo repubblicano e nel primo secolo dell’impero le comunità ebraiche vengono benignamente tollerate, e addirittura privilegiate per ciò che riguarda le concessioni al loro monoteismo.

Dallo stesso Giulio Cesare hanno ottenuta la dispensa da ogni pubblico dovere contrastante con la loro religione. Caligola e Claudio intervengono per difenderli in occasione di manifestazioni di ostilità nei loro confronti. Ma la classe dirigente romana, contraria per sua natura ad ogni forma di fondamentalismo, non tarda a mutare indirizzo quando si trova a dovere gestire le sempre più frequenti contese nelle quali gli Ebrei si trovano coinvolti, in Palestina, nell’area greca e in Roma stessa. Dopo la guerra giudaica e la distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito e in particolare dopo la repressione dell’ultima grande insurrezione ebraica sotto Adriano (135 d.c.), con conseguente divieto per gli ebrei di risiedere nella città ricostruita, l’atmosfera cambia: nella parte orientale dell’impero si susseguono violente e sanguinose agitazioni antigiudaiche e anche a Roma i rapporti sociali ed economici con i gentili, fino ad allora improntati ad una certa armonia, si incrinano. Gli ebrei infatti non aspirano a godere della cittadinanza romana, proprio per gli impegni pubblici e religiosi che essa comporta: e ciò non li rende certamente popolari presso le classi sociali più abbienti, che devono invece sobbarcarsi tali oneri (mantenimento e costruzione dei templi, allestimento dei giochi e del cerimoniale, ecc…).

Nel II e nel III secolo, pertanto, anche sotto la pressione della crescente presenza socio-politica cristiana, la legislazione relativa alle minoranze ebraiche diviene molto più rigida. Sulla base del godimento della cittadinanza, estesa da Caracalla agli Ebrei insieme ad altri gruppi minoritari nel 212, i possidenti sono costretti a partecipare alle pubbliche spese: a partire dal IV secolo, poi, è ostacolato in ogni modo, anche con disposizioni di legge, il loro proselitismo, mentre poco alla volta, ad evitare ogni possibilità di influenza sui cristiani, sono esclusi da occupazioni e corporazioni e dai pubblici impieghi, e subiscono limitazioni nella vita privata e nel culto. Con il riconoscimento del cristianesimo a religione di stato (editto di Teodosio) hanno inizio le pressioni dal basso, fomentate, soprattutto in Oriente, dalla predicazione monastica: le sinagoghe cominciano a diventare l’obiettivo del furore popolare e l’autorità politica non è in grado di mettere un freno alle manifestazioni antigiudaiche. E tuttavia non siamo ancora in presenza di un odio esacerbato e capillarmente diffuso: persino autorevoli rappresentanti del cristianesimo, con le eccezioni che vedremo, se da un lato insistono sulla responsabilità ebraica nel deicidio, dall’altro intervengono più volte a sottolineare la necessità di una conversione non violenta e di un rispetto dei diritti garantiti dalla legge. Siconio Apollinare sostiene che l’ebreo sconterà il suo errore dopo la morte, e che non lo si può condannare per il suo credo finché vive: si può “impugnare” la perfidia religiosa, ma si deve difendere (propugnare) l’uomo. Molto meno tollerante si mostra Tertulliano, che nell’Adversus Judaeos li accusa di essere delatori e istigatori delle persecuzioni anticristiane.

Le fasi successive della diaspora disperdono gli Ebrei lungo tutta la fascia mediterranea. Di qui le comunità ebraiche penetrano nell’Europa interiore, soprattutto in Francia e lungo il Reno. Si stanziano in genere nelle città, per scelta economica, essendo di norma dediti alla mercatura, ma anche per necessità spirituali. “Gli ebrei furono coloni del progresso. Da quando contribuirono a diffondere, come mercanti, la civiltà romana nell’Europa pagana, furono sempre, in armonia con la religione patriarcale, gli esponenti di rapporti cittadini, borghesi e finalmente industriali.” (Adorno) In effetti il carattere fortemente coesivo della religiosità ebraica porta a privilegiare gli stanziamenti urbani, che facilitano i contatti interni e il mantenimento dell’identità religiosa.

Con la crisi dell’impero e la sua definitiva caduta la situazione peggiora, perché viene meno il senso giuridico romano e gli ebrei si trovano in balia delle diverse disposizioni dei nuovi dominatori barbarici nei loro confronti. In Spagna, ad esempio, dopo la conversione del loro re Recaredo i Visigoti attuano una politica fortemente discriminatoria e repressiva, che spingerà le comunità ebraiche a dare, dopo la conquista, il loro appoggio incondizionato al potere mussulmano. Il concilio di Toledo del 589 nega la possibilità di matrimoni misti e vieta agli ebrei di avere servi o chiavi cristiani; mentre nel 633 si delibera di togliere agli ebrei i figli per impartire a questi ultimi una educazione cristiana. Nella Francia dei Merovingi le cose non vanno meglio: successivi concili vietano loro di mostrarsi in pubblico durante le festività cristiane, o impongono la conversione forzata (Concilio di Parigi, 614), e religiosi come san Agobardo incitano i cristiani all’assoluta intransigenza. In Italia, al contrario, Teodorico si fa garante della loro autonomia religiosa e della loro incolumità. Un atteggiamento abbastanza simile verrà mantenuto in linea generale, e malgrado qualche inasprimento, anche dai sovrani longobardi

Di un rispetto considerevole l’ebraismo gode invece nel mondo mussulmano: si determina uno stretto collegamento tra l’espansione militare dell’Islam e quella economica della mercatura ebraica, e le maggiori città del nuovo impero vedono fiorire una splendida cultura cui partecipano con un apporto di rilevo gli intellettuali ebrei. Soprattutto in Spagna e nell’Africa settentrionale la presenza ebraica manifesta una vitalità intellettuale ed economica straordinaria: la possibilità di coprire un grosso ambito geografico per l’esistenza di relazioni costanti anche tra le comunità più lontane, e la concomitante recessione economico-geografica dell’Europa, conferiscono al commercio ebraico una posizione di preminenza, legata anche al ruolo di tramite tra due mondi militarmente e spiritualmente contrapposti.

Sul finire dell’VIIII secolo la nascita dell’impero carolingio trova gli Ebrei in espansione numerica, a dispetto delle restrizioni di culto cui sono soggetti; la loro rete commerciale marittima e terrestre copre tutta quanta l’Europa e la loro presenza è ancora accettata con relativa tranquillità dalle masse popolari, anche se i rapporti tra le due comunità si limitano al campo economico. L’avvento della nuova socialità germanica determina però il precipitare della situazione. La burrascosa sovrapposizione etnica durata quattro secoli volge al termine, e il nuovo assetto impone alle popolazioni risultanti di riconoscersi in una identità culturale superiore, che non può non essere il cristianesimo. Refrattaria all’assimilazione, la minoranza ebraica viene immediatamente avvertita come corpo estraneo, non organico ad alcuna delle entità politico-religioso-sociali che si vanno aggregando entro i nuovi confini. La conseguenza immediata è per gli ebrei la perdita di ogni diritto di cittadinanza, della parità giuridica e sociale con i cristiani. Carlo Magno fa divieto agli abati di commerciare con i “negotiatores judaei”, mentre gli ecclesiastici del suo entourage considerano perfettamente valide le conversioni estorte con la forza.

Gli Ebrei vengono sottoposti, molto spesso dietro loro specifica richiesta, onde compensare in qualche modo la mancanza di uno status giuridico che li lascia in balia di qualsiasi forma di potere, ad un regime particolare di “protezione”. Divengono cioè “proprietà” del protettore, ed assumono impegni particolari (di ordine eminentemente finanziario) nei suoi confronti. D’altra parte, questa garanzia non può superare all’atto pratico i confini reali del potere garante, ragion per cui gli spostamenti diventano per gli ebrei oltremodo pericolosi. La mercatura ebraica itinerante smarrisce in questo modo, poco alla volta, la sua vitalità, soprattutto nelle zone interne dell’Europa, mentre comincia a delinearsi per il popolo giudaico un nuovo ruolo sociale: quello finanziario.

La perdita dell’entità giuridica, come individui e come collettività, pur con le garanzie di sopravvivenza che l’accompagnano, contribuisce a bollare negativamente gli Ebrei anche sul piano morale. Una nuova disposizione si va facendo strada nei loro confronti. Essa cresce in sintonia con lo sviluppo di una interpretazione dualistica dell’esistente, e soprattutto con l’esasperazione dei motivi antagonistici che a questa sono sottesi. Nel tentativo di ricomposizione dell’armonia, la particolare persistenza ed impermeabilità di questa isola differenziale si riveste di una luce sinistra. La nuova speranza escatologica, connessa al cristianesimo e alimentata dall’ormai secolare convivenza con una realtà di fame, di distruzioni e di imbarbarimento, presuppone un’umanità omogenea, rieducata ad un sentire etico e religioso che nella sua superiorità non lascia margine al dissenso e all’eteronomia: l’esistenza di queste dimensioni non può avere che origine infernale, e come tale va combattuta.

I presupposti di questo atteggiamento sono già rintracciabili nella fase embrionale di elaborazione della dottrina cristiana. Gli stessi evangelisti contrappongono costantemente alla figura del Cristo i depositari della tradizione religiosa ebraica, scribi e farisei, e suggellano la condanna del popolo ebraico con l’accusa di deicidio (soprattutto nel vangelo di Giovanni). Gli apologeti della chiesa primitiva riprendono le accuse evangeliche e nel vivo della polemica le caricano di valenze che travalicano il contrasto dottrinale. “L’ebreo è l’assassino dei profeti, l’assassino di Cristo, l’assassino di dio. L’ebreo venera il demonio. Gli ebrei sono ubriaconi, sporcaccioni, criminali.” (Giovanni Crisostomo). Toni non dissimili usano anche il vescovo Ambrogio e Gregorio Magno. Tuttavia, almeno sino al IX secolo rimane forte la coscienza del legame particolare esistente tra le due fedi nella matrice del Vecchio testamento, che pur se diversamente interpretato costituisce un notevole spazio di condivisione: e ciò lascia aperta in qualche modo la speranza in una conversione volontaria e in un sincero ravvedimento. Inoltre, la presenza di insidie ben più formidabili per l’integrità del mondo cristiano relega in secondo piano il “pericolo” ebraico, e induce a identificare altrove l’incarnazione satanica.

Con le crociate però, e nel clima di riscossa millenaristica in cui esse maturano, l’inasprimento sino ad allora solo quantitativo dell’intolleranza diventa qualitativo: subentra l’identificazione automatica dell’ebreo con la negatività. I primi massacri, compiuti all’insegna dello sterminio degli “assassini di Cristo”, sono opera di bande di esaltati che percorrono il nord della Francia e della Germania. Quasi mai ad essi partecipano i “vicini” e gli abitanti delle città nelle quali hanno luogo, e le autorità religiose e civili intervengono spesso in difesa dei ghetti. Ciononostante intere comunità vengono distrutte, e al tempo della terza crociata sono gli stessi Filippo Augusto in Francia e Riccardo Cuor di Leone in Inghilterra a dare il via a persecuzioni e violenze che sfoceranno poi nelle espulsioni di massa (dall’Inghilterra nel 1290, dalla Francia già nel 1181 e poi nuovamente nel 1306).

Anche la disposizione della Chiesa è mutata. Di fronte alla comparsa sempre più frequente e alla diffusione preoccupante dell’eresia, nel XIII secolo le alte sfere ecclesiastiche irrigidiscono la loro posizione. Nel 1215 Innocenzo III impone la “rotella”, un disco giallo da portare sulla veste. Nel momento in cui l’autorità religiosa viene messa in forse dal dilagare dell’eresia la diversità ebraica appare pericolosa, perché è ritenuta capace di esercitare nefasti influssi dottrinali e soprattutto perché potrebbe risultare attraente per chi è alla ricerca di una religiosità non compromessa col potere temporale.

Gli ordini sorti in funzione della predicazione antiereticale fanno propria l’insofferenza del basso clero, che nel contatto quotidiano col problema aveva da tempo sviluppata una particolare idiosincrasia, e contribuiscono a trasmetterla, con i mezzi loro consentiti dalla facoltà inquisitoria, alla popolazione. Si fondono in questo processo la latente disposizione manichea che da sempre ha caratterizzato gli strati autonomi o marginali del clero, determinandone le scelte ascetiche o missionarie, con una rinnovata sensibilità di matrice rurale per la contrapposizione antagonistica delle polarità cosmiche.

L’iscrizione dell’eteronomia ebraica nell’ordine del negativo è immediata: non rimane che suffragarla concretamente con la trasposizione della colpa storica su un piano di nefandezza quotidiana, mettendo allo scoperto le responsabilità dirette e le collusioni col demonio. Sono soprattutto i francescani, come Giovanni da Capistrano in Spagna e Bernardino da Feltre in Italia, e i domenicani, come Vincente Ferrer, a dedicarsi con fanatica determinazione all’opera di arginamento e di estirpazione dell’”insidia” giudaica. Lo zelo penitenziale dei primi e la difesa implacabile dell’ortodossia degli altri scatenano campagne eccezionalmente violente, spesso subite o apertamente avversate dalle alte sfere ecclesiastiche, che si ripetono periodicamente lungo tre secoli.

Per commuovere le popolazioni e spingerle ad un’azione immediata e drastica non si fa più ricorso alla consueta denuncia fondata sul contrasto teologico o sulla macchia secolare, ma piuttosto allo smascheramento di una presunta criminalità rituale esercitata in concreto e direttamente nei confronti della comunità sociale e religiosa. Enorme valore viene attribuito alle rivelazioni dei convertiti, particolarmente feroci contro gli antichi correligionari per la necessità di cancellare il sospetto che non cessa di avvolgerli, ed alle autoaccuse (in alcuni casi le denunce sono frutto però di faide interne alle varie correnti dell’ebraismo stesso). Le rivelazioni più terribili vengono infatti estorte agli apostati del giudaismo: e il fatto che il più delle volte siano ottenute con la tortura e con la persecuzione più spietata non basta ad inficiare la loro credibilità (tra l’altro, in un mondo nel quale la tortura è considerata un legittimo ed efficace strumento inquisitorio).

Al sospetto, alla paura e al disprezzo che in questo modo si stanno diffondendo va poi sovente a sommarsi il movente economico. Impossibilitati a continuare nell’attività commerciale proprio dalla carenza di diritti e di salvaguardie, gli Ebrei hanno infatti dovuto dedicarsi con sempre maggior frequenza all’attività creditizia, che non impone loro pericolosi spostamenti e non li mette in contatto e in concorrenza troppo stretti con i cristiani. È comunque da sottolineare come il ruolo da essi ricoperto nella circolazione finanziaria medioevale, a lungo sopravvalutato, sia stato in realtà limitato e transitorio. Se è vero che l’interdizione imposta dalla Chiesa all’esercizio dell’usura e della mercatura da parte dei cristiani “penetrò a fondo nelle strutture di quel mondo, e occorsero lunghi secoli perché gli uomini… accettassero senza molte riserve mentali la legittimità dei profitti del commercio, del reimpiego del capitale e del prestito ad interesse” (Pirenne), è anche vero che non appena queste attività cominciano a ritrovare uno spazio reale in una economia in espansione i cristiani non tardano ad ignorare con estrema disinvoltura il divieto. Il prestito ebraico, d’altra parte, è scarsamente tutelato contro l’insolvenza: da un lato il particolare rapporto con il potere, a tutti i livelli, lo trasforma spesso in una contribuzione forzosa; dall’altro è difficile per gli Ebrei far valere le ipoteche sui beni immobiliari e fondiari di una certa entità, o utilizzare in proprio gli stessi, dal momento che quasi ovunque è fatto loro divieto di possedere case e terre. Soggetti inoltre, nella loro qualità di “proprietà diretta”, al fiscalismo pesantissimo ed affatto arbitrario dei governanti, essi non possono sviluppare un’attività finanziaria ad alto livello, che in effetti rimane appannaggio dei grossi gruppi cristiani italiani e tedeschi. Devono quindi operare nel campo della piccola usura, trattando direttamente con gli strati più bassi della popolazione, e attirando su se stessi e su tutta la comunità ebraica la conseguente malevolenza. I massacri di massa spesso sono l’epilogo di furiosi saccheggi, durante i quali vengono sistematicamente bruciate e distrutte le carte dei debiti.

L’odio fanatico e la paura, sia pure rinfocolati per secoli da un tradizione che identificava negli Ebrei i carnefici materiali di Cristo, si spiegano tuttavia principalmente con lo scatenarsi delle accuse orribili che a partire dal XII secolo vengono mosse loro. Queste accuse non concernono più il deicidio, remoto ormai nel tempo, espiato a caro prezzo e comunque parzialmente giustificato dalla volontarietà e dalla necessità del sacrificio: con esse viene attaccato direttamente l’operato quotidiano degli ebrei nella società medioevale, viene deformato e stravolto il significato dei loro rituali, viene personalizzato un odio che fino a questo momento li colpiva come comunità e come popolo. I pretesti per gli attacchi e per i massacri sono svariati: quelli che ricorrono più frequentemente hanno per comune denominatore il motivo della congiura, dell’organizzazione segreta mondiale al servizio del male. Tutto ciò che gli ebrei fanno viene ad essere interpretato in termini di ritualità misterica e satanica. Di qui le accuse di “omicidio rituale”, che quand’anche prendano le mosse da ipotetici episodi criminali (rientranti comunque nell’ordinaria amministrazione) hanno però il potere di collettivizzare la responsabilità del delitto. L’omicidio avrebbe il fine di fornire sangue cristiano per usi magici, o riproporrebbe in termini parodistici la crocifissione. Persino la preparazione del pane azimo comporta, secondo l’interpretazione superstiziosa, l’impasto col sangue dei “gentili”. L’impressione orrenda dell’accusa viene aumentata dalla credenza che le vittime prescelte siano normalmente bambini o giovinetti, onde ottenere un sangue più puro, dalle doti magiche particolari.

Le prime accuse di rapimenti di bambini a scopo di sacrificio partono dall’Inghilterra attorno alla metà del XII secolo, probabilmente lanciate proprio da un apostata, Teobaldo di Cambridge e si diffondono rapidamente nell’area settentrionale del continente, con conseguenze tragiche. A Norwich, a Blois, a Fulda e in altre città tedesche decine e decine di ebrei vengono frettolosamente inquisiti e mandati al rogo. A poco serve la condanna delle autorità civili (Federico II per i fatti di Fulda) e religiosa (Innocenzo IV con una bolla del 1247). Nell’animo popolare queste fabulazioni hanno una rapida presa, e a ciò non è forse estraneo il ricordo di un fiorente commercio di schiavi per l’Oriente esercitato secoli prima dai mercanti ebrei. Sempre in riferimento a questa ritualità cruenta conosce larga diffusione, dopo che il quarto concilio Lateranense (1215) aveva ufficialmente sancita la realtà della transustanziazione eucaristica, il sospetto di un uso sacrilego dell’ostia consacrata. Su di essa gli Ebrei ripeterebbero la tortura e l’assassinio di Cristo (omicidio rituale) traendo vendetta della di maledizione che li ha condannati alla diaspora e alla sofferenza. Non può mancare in questo catalogo di misfatti l’interpretazione in chiave misterica degli elementi concreti del rituale: all’uso magici del sangue viene ricondotta la circoncisione, mentre le cerimonie religiose si deformano nella fantasia popolare in sabba disgustosi e violenti, in sedute di magia nera e di pratiche oscene.

L’idea del complotto diventa ossessiva nel XIV secolo e provoca una serie ininterrotta di pogrom, contro i quali nulla può l’intervento stesso delle autorità ecclesiastiche (quando anche ci sia). Gli Ebrei vengono associati ai lebbrosi nel sospetto di un disegno di strage totale dell’umanità cristiana, da attuarsi tramite l’avvelenamento dei pozzi. L’accusa sembra trovare una terribile conferma nel 1348, in occasione della peste nera. Al panico e al terrore provocati dalla impotenza medica si aggiunge la constatazione che gli Ebrei e i lebbrosi sono in percentuale i meno colpiti dall’epidemia. Il fatto, dovuto per i primi ad una pratica dell’igiene personale ed ambientale molto più accurata, dettata da motivazioni religiose, per i secondi dal forzato isolamento in cui vivono, non tarderà ad essere attribuito dalla fantasia popolare a pratiche immunologiche di natura magica. Le stragi conseguenti sono tali da spingere la chiesa ad interventi accorati ed energici, ma pressoché inascoltati. Nell’anno tragico il papa emana due bolle successive (il 4 luglio e il 26 settembre) chiedendo alle autorità ecclesiastiche di diffidare i cristiani, sotto la minaccia di anatema, dalla persecuzione: ma riesce ad ottenere qualche risultato solo nella contea di Avignone.

Anche i pericoli esterni vengono sovente collegati a trame diaboliche ordite nelle sinagoghe: gli Ebrei costituirebbero una quinta colonna capillarmente diffusa pronta a favorire l’avvento degli eserciti del male. Nello “Speculum Historiae” di Vincent di Beauvois e nell’”Itinerarium” di Rinaldo da Monte Croce addirittura le popolazioni mongoliche, nuovo flagello delle genti cristiane, vengono fatte discendere dalle dieci tribù disperse di Israele, confinate dietro il monte Caspio da un miracolo di Alessandro Magno. Lo stesso popolo di Gog e Magog viene spesso ricondotto ad una primitiva matrice ebraica. Quelle che dovevano essere nell’apocalittica primitiva (Commodiano) le schiere ausiliarie per il trionfo del Messia sono ormai divenute nella fobia antisemita le forze del male coadiutrici dell’Anticristo.

L’iconografia popolare (ma anche quella colta) riconosce nell’ebreo i tratti caprini della figura diabolica, sottolineando caratteristiche somatiche e di costume (i tratti adunchi ed afflati, l’usi della barbetta sul mento, ecc…) e completando l’identificazione con elementi della suggestione (corna, coda, ecc…); su questi ultimi influisce anche il tentativo operato dalle autorità ecclesiastiche di costringere gli Ebrei ad indossare copricapi muniti di corna.

Nella simbologia animale è il pipistrello, volatile notturno per eccellenza e quintessenza iconografica dei caratteri demoniaci, a personificare il popolo ebraico, che “odia la luce del giorno, e ama le tenebre”; ma anche altre parvenze animali particolarmente ripugnanti o inquietanti per la sensibilità medioevale, serpi, rospi, vermi, civette, ecc… hanno un largo spazio nelle fantasie sul rituale delle sinagoghe e sulle abiette consuetudini giudaiche.

Lo sviluppo tardo-medioevale dell’antisemitismo non è però riconducibile solo a questa identificazione demoniaca. Ad accentuare la violenza concorrono senza dubbio fattori diversi, estranei alla superstizione e legati invece alla mutata situazione socio-politica. Non si tratta soltanto della sbrigativa soluzione dei debiti ottenuta assassinando il creditore. Come abbiamo visto, nell’Alto Medioevo le comunità ebraiche si erano poco alla volta affidate alla tutela di signori e principi, entrando a far parte dei loro personali possessi, assicurando ad essi una garanzia di liquidità di eccezionale importanza e andando a ricoprire ruoli di intermediazione finanziaria, riscossione di canoni e di tributi particolari particolarmente delicati ed odiosi per la popolazione. Col venir meno della funzione difensiva ed amministrativa della nobiltà feudale si ha un risveglio della coscienza popolare anti-servile e il potere signorile viene attaccato proprio a partire dai suoi punti più deboli. Gli Ebrei offrono il destro per portare dei colpi formidabili alle sempre più precarie finanze dei nobili: e la loro persecuzione trova sempre una giustificazione nel fanatismo religioso. Non a caso la rivolta dei “pastorelli” francesi del 1251, guidata dal Maestro d’Ungheria, esordisce col massacro delle comunità ebraiche per volgersi poi contro la nobiltà e i proprietari terrieri. C’è naturalmente anche un altro aspetto, legato ad un ammorbidimento della posizione della Chiesa sull’esercizio dell’usura da parte dei cristiani, che mette gli Ebrei in una posizione di concorrenza, per eliminare la quale i banchieri e i prestatori “gentili” non badano certo ai mezzi.

La tragedia medioevale delle comunità ebraiche tocca comunque il suo apice nel XV secolo. I sopravvissuti ai pogrom del secolo precedente sono stati ricacciati nelle zone periferiche dell’Europa. Spagna e Boemia sono le ultime terre in cui esistano dei margini di sicurezza per la sopravvivenza. In Italia qualche garanzia viene solo dalla presenza del papato e dalla politica dei Paleologi nel Monferrato. Ma lo sviluppo dell’eresia ussita in Boemia e la riconquista ed unificazione della penisola iberica sono la premessa per un nuovo dramma. Nello sforzo per il ripristino dell’ortodossia germanica gli Ebrei, sospettati al solito di fomentare l’errore e la disobbedienza sono i primi a pagare. In Spagna, ad ogni fase vittoriosa della Reconquista segue una sanguinosa campagna antisemita, fino a quel momento contenuta per motivazioni tattiche. La comunità ebraica è accusata di aver favorito l’insediamento dei mussulmani e di aver goduto durante la dominazione di questi ultimi di favori e di libertà particolari. A Barcellona già nel 1319 i contadini si uniscono al popolo minuto dei marinai e dei pescatori, e tutti assieme marciano tutti sul Calle ebreo, che mettono a fuoco e saccheggiano. I1 movimento si espande anche fuori della città, ma ha conseguenze gravi soprattutto per la Catalogna, dove scompaiono comunità ebraiche organizzate che avevano avuto un peso enorme nella vita economica catalana.

Ancora una volta torna alla ribalta il motivo del diabolico connubio tra gli “infedeli” e gli “assassini di Cristo”: il disegno apocalittico dell’Anticristo passa per le sinagoghe. A Siviglia nel 1391, e poi a Toledo, Valencia, ancora a Barcellona, hanno luogo terribili massacri. Nel 1492, infine dai regni unificati di Castiglia e di Aragona vengono espulsi centocinquantamila ebrei, e nel 1498 la stessa sorte tocca a quelli portoghesi. Anche la Sicilia aragonese, dove pure gli Ebrei vivevano da più di millecinquecento anni, deve essere abbandonata. La Spagna rimane rigida nella politica dell’alternativa: conversione o esilio. Essa tollera nei propri confini solo gli ebrei che accettano la conversione ed il battesimo. Molti si piegano e rimangono, ma quasi altrettanti continuano a giudaizzare, a celebrare segretamente i propri riti. I marranos, gli ebrei convertiti, diventano così una spina nel fianco di una Spagna che si vuole monoliticamente cattolica e che è ossessionata dalla “limpieza de sangre”. L’Inquisizione, costituita nel 1475, troverà nel loro smascheramento uno dei propri compiti.

L’esodo di Ebrei dalla Spagna va inizialmente a vantaggio dei portoghesi, che nel 1496 battezzano con la forza i nuovi venuti, ma hanno l’accortezza di non chiedere loro una rigorosa osservanza religiosa. I “nuovi cristiani” entrano così a far parte della società portoghese, e sapranno inserirsi in molte delle sue prospettive, soprattutto nel traffico delle spezie e nei commerci con il nuovo mondo.

Gli ebrei si trasferiscono anche in Linguadoca e in Provenza, e trovano ospitalità nell’Avignone pontificia. Il rifugio più sicuro è comunque per loro l’impero ottomano, dove sono accolti molto favorevolmente, rinvigoriscono le comunità ebraiche esistenti e ne fanno nascere delle nuove, così che Tessalonica, Istanbul, le terre della Palestina si infittiscono della presenza ebraica. Operano soprattutto nella produzione dei tessuti, nel piccolo e nel grande commercio (specie sulle vie dell’Europa orientale e del mar Nero, sottratte al controllo degli italiani), ed anche nell’amministrazione. Al tempo di Solimano, l’elemento ebraico era rilevante nell’alta burocrazia.

Nell’est europeo, la repubblica di Polonia e Lituania ospita, soprattutto a partire dal XV secolo, una consistente presenza ebraica. Si tratta di una immigrazione da occidente, dell’ebraismo tedesco renano, ma anche, con tutta probabilità, di un’immigrazione da sud-est, di quelle popolazioni chazare che da molti secoli si erano convertite all’ebraismo. Quest’area d’Europa inizia a divenire il centro di un’originale cultura ebraica che durerà molti secoli, creandosi anche una propria lingua particolare, lo yiddish.

La fine del XV secolo vede dunque gli Ebrei cacciati da quasi tutti gli stati d’Europa, con pochissime eccezioni. Nella penisola italiana, dove pure non vengono risparmiate loro le accuse e gli eccidi, due fattori giocano a favore di una tolleranza a livello ufficiale: da un lato l’opportunità per l’autorità papale di prendere le distanze dalle credenze superstiziose nei loro confronti, e quindi la possibilità di un intervento diretto più tempestivo ed energico in loro difesa; dall’altro lo scarso peso che gli Ebrei in effetti hanno nell’ambito e creditizio, essendo piuttosto legati a comunità di antiche tradizioni mercantili. A metà del ‘200 Tommaso d’Aquino affermava infatti, nel “De regime Judaeorum”, che gli Ebrei italiani, a differenza di quelli degli altri paesi, vivono di lavoro e non di prestito. Nel 1419 e nuovamente nel 1422 papa Martino V assume la difesa degli ebrei, vietando ai predicatori di molestarli e di incitare il popolo contro di loro. La loro posizione però subisce un certo peggioramento nella seconda metà del ‘400, con l’infittirsi delle venature antiebraiche nelle predicazioni, soprattutto in quelle dei frati mendicanti (uno dei più accaniti è il solito Bernardino da Feltre). Al momento della cacciata dalla Spagna l’atteggiamento nei loro confronti diventa particolarmente ambiguo. La repubblica di Genova emana nel giro di vent’anni almeno sei decreti di espulsione, che vengono regolarmente aggirati dietro pagamento di una forte cifra da parte della comunità. Lo stesso accade per Venezia e a Roma.

Nella prima età moderna la posizione degli ebrei in Europa conserva l’ambiguità che aveva da tempo, con una tendenza generale però al peggioramento. Da una parte si aggravano e si consolidano fino ad istituzionalizzarsi le tendenze antiebraiche che già si erano manifestate in età medievale, soprattutto a partire dalla prima crociata; dall’altra ci sono trasferimenti di importanti nuclei ebraici, con un incremento e una diffusione delle loro attività.

Nel 1516 i veneziani, dopo l’ennesima predica quaresimale in chiave antiebraica, decidono di confinare gli ebrei in un’area già conosciuta come il Ghetto nuovo, la nuova fonderia. L’anno successivo la segregazione è inasprita dall’obbligo di portare un berretto giallo. Malgrado ciò, nell’Italia dei primi decenni del ‘500 non esiste una posizione spiccatamente antiebraica, anzi, è praticata una certa accoglienza, certamente anche per favorire i traffici col levante. Papa Clemente VII favorisce l’insediamento di marrani portoghesi nel porto di Ancona, e più tardi Cosimo I dei Medici li chiama in Toscana.

Nel paesi dell’Europa occidentale si alternano nei confronti degli Ebrei aperture addirittura amichevoli ad atteggiamenti decisamente ostili e persecutori. Nel 1544 Carlo V concede loro privilegi molto liberali: nessun ebreo può essere privato dei propri beni, né subire attacchi fisici; le accuse di assassinio rituale devono essere sottoposte al personale giudizio dell’imperatore. Ma la mentalità corrente riprende ed aggrava le antiche dicerie antiebraiche: gli ebrei colpevoli della morte di Cristo, gli ebrei che profanavano le ostie consacrate, gli ebrei che nella settimana di Pasqua uccidono fanciulli cristiani per compiere sacrifici rituali. Sono tutte fantasie che passano di bocca in bocca, pronte però a trasformarsi in gesto concreto quando si offra una causa od un pretesto. Accade ad esempio nel 1475 a Trento, territorio imperiale, quando durante la settimana santa viene trovato il corpo di un ragazzo ucciso, e l’assassinio è imputato agli ebrei come omicidio rituale. Ciò comporterà la diffusione di un culto del bambino martirizzato, Simone di Trento, ed un’ondata antiebraica. In generale la commistione, il contatto, la convivenza tra cristiani ed ebrei divenne insopportabile. Per questo l’esempio veneziano, che aveva già avuto qualche precedente nella Polonia del XIII e XIV secolo, nel ‘500 fu seguito un po’ dappertutto, con l’individuazione di aree destinate agli ebrei, vigilate da pubblici funzionari, che dovevano sia impedire alla popolazione esterna di far violenza agli ebrei, sia impedire agli ebrei di uscire durante la notte. Ancora, non si tratta di una tendenza a senso unico, poiché ad esempio l’Italia continuava ad essere punto di transito per gli ebrei che dal nord, dalle Fiandre e dal Portogallo viaggiavano verso l’impero turco, e nella stessa Venezia acquistarono peso crescente gli ebrei levantini, che controllavano il commercio tra la città ed i Balcani.

Verso la metà del secolo l’ostilità antiebraica trova espressione nella bolla di Paolo IV Cumnimis absurdum (1555), rivolta innanzitutto agli stati pontifici. La bolla rileva che gli ebrei, per la tolleranza mostrata dai cristiani nei loro confronti, hanno preso una posizione di vantaggio, come documenta il fatto che vivono tra i cristiani senza alcuna distinzione d’abito, che abitano presso le chiese, comprano case nei quartieri più ricchi e alla moda, e occupano personale domestico cristiano. Poiché la dominazione che essi attuano sui cristiani non è più sopportabile, continua la bolla, occorre che, se non si convertono, il rapporto venga rovesciato, e la loro soggezione ai cristiani trovi espressione visibile e materiale attraverso l’umiliazione fisica dell’ebreo, e la sua segregazione dal cristiano. Vengono quindi prescritti quartieri ebrei separati e segni distintivi per gli ebrei. Inoltre Paolo IV, concordemente con quanto facevano ed avevano fatto altri governi, tenta di limitare l’arco di attività economica degli ebrei al prestito su piccola scala, vietando anche loro di trattare grano, orzo o altre derrate (analogamente Venezia, più preoccupata dei tessuti, aveva vietato loro il commercio di questi prodotti). Tra le conseguenze, anche a Roma fu costituito il ghetto.

La flessibilità e la resistenza di questo vincolo di appartenenza permette agli ebrei di vivere una prospettiva ampia, mai limitata al piccolo paese o alla città marginale dove le vicende li avessero portati a vivere, ma legata a tutti i luoghi dove vivevano parenti, amici, compagni d’affari. Questa dimensione europea trova riscontro nella conoscenza delle lingue, per cui gli ebrei andavano giustamente famosi, ed anche nella rapidità con cui si appropriavano di innovazioni e se ne facevano diffusori, Questo vale soprattutto per il campo culturale: gli ebrei precedettero i tedeschi nella stampa in Portogallo (dove il Pentateuco comparve nel 1487), e portarono la stampa in Turchia. Ed al turco pare anche che abbiano insegnato nuove tecniche, e le arti meccaniche.

Quanto alla loro attività, ormai da tempo hanno abbandonato l’agricoltura: sono artigiani, sarti, tessitori, fabbri, medici, usurai, prestatori, e poi ancora mercanti e finanzieri. A volte sono ricercati a livello locale perché prestino a basso tasso, e sollevino i poveri da tassi usurari; altre volte invece, per questa loro attività, vengono cacciati. Ma sono anche piccoli venditori ambulanti, oppure si occupano della tessitura e della tintura.

È indubbio però che essi hanno un rapporto in un certo senso privilegiato con i grandi affari e la finanza. Non che questa sia tutta nelle loro mani, al contrario; tuttavia, non c’è occasione favorevole dove gli ebrei non si presentino. Si moltiplicano nel Mediterraneo del ‘500, come in seguito si moltiplicheranno nel nord protestante. Del resto, i legami di appartenenza che tenevano uniti tra loro sudditi di principi o regni in aspro contrasto reciproco, li metteva in condizione di garantire comunque la continuità degli scambi.

Al di là delle gigantesche proporzioni e degli immensi danni materiali e morali provocati, la tragica sorte dell’ebraismo nell’Europa medioevale ricalca quella che si ripete ogniqualvolta l’impotenza nei confronti di una situazione drammatica abbisogna di una compensazione immediata e concreta: la diversità diventa sospetta ed ostile, crea inquietudine e risentimento. Ma nel caso degli ebrei la particolare crudezza del dramma e le gigantesche proporzioni dell’odio hanno una spiegazione particolare. Gli ebrei sono sì dei diversi, ma non lo sono in assoluto. Tra i diversi sono coloro che più si avvicinano alla “normalità” europea. I loro tratti orientali sono poco accentuati; la loro fede religiosa ha stretti vincoli di parentela, addirittura di paternità, con quella cristiana; le loro attitudini economiche sono perfettamente consone alle esigenze e al costume europeo. Tutto contribuisce ad attenuare la loro “diversità”, e agli occhi dei gentili questo è letto come una mascheratura. È proprio questo che in fondo risulta inaccettabile per l’europeo e lo induce a sottolineare i particolari distintivi, o a crearli dove non esistano (vesti di determinati colori, simboli da tenere in evidenza, ecc…)

La matrice di un atteggiamento così esacerbatamene ostile è da ricercarsi anche nella presenza costante della diversità ebraica, che una volta avvertita e sottolineata come negativa diviene tanto più insopportabile quanto più è consueta ed incombente. Essa non conserva il fascino, sia pure terrificante, del mistero, e neppure ha il pregio della temporaneità. È qualcosa che si incontra tutti i giorni, ma a cui non ci si abitua, e che sotto lo sprone della diffamazione, delle accuse e dell’isteria collettiva finisce per ossessionare.

Nuove inquietanti presenze: gli zingari

Nel XV secolo compaiono in Europa gli zingari. Gli zingari sono un vero e proprio popolo, anche nel senso strettamente etnico. Provenienti dall’India, organizzati in tribù nomadi, si erano infiltrati in epoca ignota nelle terre continentali ed insulari dell’impero bizantino. Di qui, anche per effetto della pressione turca, avevano ripreso la loro marcia verso occidente. Nei primi decenni del XV secolo li ritroviamo in Boemia e in Ungheria, verso la fine del 1417 attraversano la Germania, nel 1418-19 percorrono la Svizzera, nel 1420 e 1422 i Paesi Bassi; nel 1422 una banda scende in Italia, spingendosi sino alle regioni meridionali. Percorrono poi in lungo e in largo la penisola iberica, e li troviamo nel 1505 in Scozia, nel 1516 in Inghilterra; in Polonia giungono da sud, dai principati rumeni e dall’Ungheria, e da ovest, dalla Germania. Sempre da sud giungono anche fino in Russia (1501).

Al momento della loro comparsa in Europa sono organizzati in clan legati da un comune antenato, e in famiglie. Alla guida di ogni gruppo c’è un capo, che si attribuisce i titoli più vari (duca, conte) presi a prestito dai paesi attraversati e che assicura la compattezza facendo rispettare norme e tradizioni. Arrivano come un elemento del tutto imprevisto e inaspettato, a piccoli gruppi, senza clamori e senza scontri, suscitando sulle prime soprattutto curiosità. Dal punto di vista religioso sono molto permeabili: durante la loro permanenza nelle terre bizantine hanno abbracciato il rito ortodosso, ma non si trovano in difficoltà con il cristianesimo occidentale, anzi, sono attratti da certi suoi aspetti, in primo luogo naturalmente dal pellegrinaggio

Dopo un momento di sconcerto la loro presenza comincia ad essere sentita con inquietudine dalle popolazioni europee. In realtà sono difficili da comprendere, catechizzabili solo superficialmente, sfuggenti, impossibili da tenere sotto controllo, dato il loro nomadismo inarrestabile. In più, svolgono attività che danno adito a sospetti di magia, come la divinazione o la medicina empirica.

In realtà si guadagnano da vivere in vari modi. Le donne raccolgono elemosine, gli uomini eccellono nel commercio dei cavalli, nell’ammaestramento degli animali, soprattutto dei volatili, nella lavorazione dei metalli e nel commercio ambulante. Sono i calderai per eccellenza, e forniscono un servizio sia artigianale che mercantile importantissimo nelle zone rurali, spesso in concorrenza, soprattutto nell’Europa orientale, con gli ambulanti ebrei.

Date queste caratteristiche della loro mentalità e della loro vita, fortemente contraddittorie con il generale assetto di sedentarietà che la popolazione europea sta assumendo, non c’è da stupirsi dell’ostilità crescente che i nomadi suscitano. Le autorità li percepiscono come elementi di perturbamento, e la gente del popolo non sempre sopporta la loro diversità, la loro vita non sostenuta dall’assiduo lavoro della terra. Per questo le accuse nei loro confronti si moltiplicano, spesso mutuate pari pari dalla tradizione antiebraica: sono considerati ladri, truffatori, incendiari, rapitori di bambini (una leggenda questa che sopravvive ancora oggi e crea grande paura nelle campagne), antropofagi.

Così, non diversamente da quanto accade per gli ebrei e i mendicanti, a più riprese e in vari luoghi i pubblici poteri intervengono per scacciarli od obbligarli alla vita sedentaria. Solo nei principati rumeni hanno uno statuto speciale, poiché vengono ridotti in schiavitù alle dipendenze della corona, dei monasteri e dei boiardi.

Le ordinanze di espulsione si moltiplicano tra XVI e XVII secolo: 1506 a Milano, 1547 a Firenze, 1549 a Venezia, 1553 nelle Marche pontificie, 1585 a Napoli (per limitarsi all’Italia, e sono ripetute). Pure, malgrado tutti questi sforzi, il tessuto sociale conserva spazi accoglienti, così che gli zingari, come gli ebrei, continuano a restare una presenza significativa nella vita delle società europee.

Non pretendo certamente di aver esaurito il catalogo delle diversità percepite con sospetto o con paura nel Medioevo. Di lebbrosi, mendicanti e vagabondi si è già parlato nel capitolo sugli incubi del corpo. Rimane tutto un mondo in movimento, composto di giullari, cavalieri, chierici, artigiani, mastri muratori, venditori ambulanti, che proprio per questa caratteristica, quella di non avere terraferma e non essere facilmente controllabili, suscitano diffidenza. Sono loro, assieme ai pellegrini, a diffondere le notizie, a far circolare le idee. Non a caso i più pericolosi in questo senso saranno proprio i religiosi itineranti, in genere legati all’ordine francescano. Non saranno oggetto di questa trattazione, ma per altri versi rientreranno nel racconto quando si andrà a parlare di eretici.

 

I sogni di liberazione:
viaggi e paesi immaginari

Fino all’XI secolo l’Europa appare come paralizzata nei suoi rapporti con l’esterno. La pressione esercitata da sud, da est e da nord si mantiene costante nei secoli, mentre ad ovest l’Atlantico, nella sua ampiezza e violenza, è praticamente inagibile ai livelli di scienza nautica e di tecnica delle costruzioni navali dell’epoca.

Alla forzata immobilità dovuta alle cause esterne si accompagnano all’interno un frazionamento capillare, un ridimensionamento economico ed una profonda crisi demografica. Vengono quindi meno, oltre la concreta possibilità di movimento, le spinte naturali per l’espansione e l’interesse geografico in esse implicito. Conseguentemente, la scienza geografica dell’alto medioevo europeo conosce non soltanto un arresto, ma addirittura un regresso. L’esistenza di località perfettamente note al mondo classico è dimenticata, o al più il ricordo si perpetua al di fuori di una ubicazione precisa, e assume connotati fantastici. È il caso, ad esempio, delle Canarie, dimenticate e poi riscoperte nel XIV secolo, la cui presenza rimane però costante nel ricordo attraverso l’identificazione con le mitiche “isole della Fortuna”.

Gli esiti considerevoli della geografia araba e quelli, maggiormente improntati a finalità economiche e migratorie, dei popoli del nord non hanno in questo periodo effetti significativi sull’assetto generale delle conoscenze geografiche europee. Solo dopo il mille, venuta meno la pressione esterna, i nuovi contatti che si vanno stabilendo fanno conoscere con precisione misurabile i vicini prossimi, e permettono alla fantasia ed all’interesse di spingersi oltre.

I1 mito di un oriente favoloso torna alla ribalta con la diffusione di opere della tarda latinità, che spesso rientrano a far parte del patrimonio della cultura occidentale in versioni largamente contaminate da una ininterrotta diffusione asiatica. È il caso soprattutto dei “romanzi” su Alessandro Magno, che si riallacciano ad una voga tardo-latina ed ellenistica. La fonte più prossima pare essere un romanzo ellenistico del IV secolo, attribuito allo Pseudo-Callistene, che dopo aver conosciuto una notevole fortuna viene ritradotto nel IX secolo dal persiano in greco, e volto poi nel X in latino. Nella sua circolazione asiatica il romanzo si è arricchito di figure mitologiche e di eventi prodigiosi, fino a perdere ogni contatto con la realtà storica spazialmente e temporalmente connotata, assumendo poco alla volta la fisionomia di un eccezionale repertorio della favolistica alto-medievale. La fonte della giovinezza, l’albero secco del sole e della luna, i popoli mostruosi dei pigmei e dei giganti, sono elementi avvertiti come perfettamente consoni ad una impresa che ormai ha soltanto lo spessore del mito, remota com’è nel tempo e dalla potenzialità dell’epoca.

Naturalmente, anche la rinnovata fortuna di opere del genere, pur ravvivando l’interesse per l’oriente non comporta un’automatica inversione di tendenza per ciò che concerne la conoscenza geografica. In effetti, l’Europa non sembra, almeno fino al XIII secolo, particolarmente curiosa nei confronti dei “diversi”. Lo testimoniano i resoconti degli storici delle crociate, che se da un lato prestano attenzione notevole alle vicende e agli accadimenti bellici, non dimostrano poi una eccessiva curiosità geografica ed etnologica. Appare significativa al riguardo appare anche una annotazione del Tresor di Brunetto Latini, dove si fa menzione di scambi commerciali tra i mercanti dei due mondi caratterizzati dal più assoluto mutismo: quasi a difendere, al di là dell’operazione mercantile, la propria identità culturale.

Le conoscenze geografiche

 

Di fatto, fino a tutto il XII secolo la conoscenza geografica non è oggetto di una crescita qualitativa. Nel secolo XI il Baltico stesso è ancora pieno di incognite, se Adamo di Brema può parlare dell’Estonia e della Curlandia come di due isole. Le grandi opere di sistematizzazione geografica dei secoli XII e XIII, anteriori ai viaggi asiatici, offrono un panorama ancora estremamente ridotto, e desunto nella quasi totalità dai classici (Plinio, Pomponio Mela, Strabone, nella riduzione enciclopedica operata da Isidoro di Siviglia). In esse non è ancora confluita la somma di nuovi dati acquisiti dal mondo mercantile e missionario. Nel Mappamondo di Pierre de Beauvais (datato al 1217-18) alla divisione del mondo nei classici tre continenti si accompagna la localizzazione nord-occidentale di un’enorme distesa ghiacciata, un “mare concreto” tale da precludere ogni ulteriore navigazione: eppure da almeno tre secoli i vichinghi avanzavano verso ponente, incontrando sulla loro rotta monasteri di missionari irlandesi risalenti al VI o al VII secolo.

L’Imago Mundi (1240 circa) offre uno spaccato perfetto di quella che a metà del XIII secolo è la conoscenza geografica “ufficiale”. La forma della terra è rotonda, all’insegna della perfezione divina, ma non è possibile la circumnavigazione per l’esistenza di ostacoli della natura più svariata. Solo un quarto del globo è abitato, nella parte appunto corrispondente ad Europa, Asia ed Africa. Al di là dell’Asia, nel vero e proprio oriente, è situato il paradiso terrestre, da cui si dipartono i quattro grandi fiumi delle civiltà: il Gange, il Nilo, il Tigri e 1’Eufrate. Esso è reso inaccessibile da una cortina di fiamme, e le zone più prossime sono inabitabili per la presenza di belve feroci e velenose. La più lontana terra abitata è l’India, con due estati e due inverni annuali, terra dell’oro e delle pietre preziose, dei draghi e dei grifoni, dei pigmei che vivono solo sette anni e dei bramini che si gettano tra le fiamme. A nord dell’India, in una regione aspra e selvaggia, sono confinati i popoli di Gog e Magog, praticanti l’antropofagia, chiusi entro invalicabili montagne da Alessandro Magno; e non molto lontano risiede il popolo delle feroci Amazzoni.

L’India non costituisce in questa descrizione un’entità geografica: non ha confini definiti, e in pratica sembra arrivare a comprendere ogni regione asiatica sino all’Egitto. Essa è piuttosto una localizzazione fantastica del pensiero, in cui vanno a concretizzarsi le fantasie di animali e piante favolose (le sirene, i cinocefali, i ciclopi …). Avanzando verso ovest la puntualizzazione geografica diviene più precisa, pur nella sopravvivenza di connotazioni prodigiose (quale la torre di Babele in Caldea), ma curiosamente l’Italia e la Spagna vengono comprese nell’Africa, limitandosi l’Europa a comprendere le zone a nord delle Alpi e dei Pirenei. La fantasia e il mito tornano a prevalere nella descrizione delle isole e delle terre dell’Atlantico, che comprendono l’Atlantide di memoria platonica, l’isola Perduta scoperta da san Brandano, la mitica Thule dalla vegetazione sempre lussureggiante.

I1 fatto che l’Imago Mundi sia una sorta di manualetto divulgativo dà motivo di pensare che in esso sia riflessa la conoscenza geografica generalizzata dell’epoca. D’altra parte, occorre anche tener presente che il confronto con tutte le altre opere geografiche o comunque scientifiche contemporanee (oltre ai trattati geografici, i lapidari, i bestiari, fino al Tresor di Brunetto Latini) non ci mette certamente in presenza di apparati conoscitivi più concreti o attendibili; il che sembra evidenziare l’inesistenza di più livelli nell’ambito della conoscenza, ovvero di un sapere scientifico specialistico cui si contrapponga una cosmologia fantastica popolare. Lo sviluppo di una differenziazione significativa in questi termini è posteriore, senz’altro successivo all’età dei grandi viaggi commerciali e religiosi nell’Asia. Fino ad allora, in concomitanza con la stagnazione di un sapere geografico scientificamente o empiricamente fondato, ed in diretto rapporto con essa, si sviluppa la tendenza a favoleggiare di mondi ignoti e misteriosi, colmi di meraviglie e di pericoli.

A queste fabulazioni concorrono fattori diversi. In primo luogo, una naturale deformazione enfatica va messa in conto al carattere fortemente mediato delle informazioni, quasi sempre desunte da fonti arabe o nordiche, o comunque non europee, anch’esse spesso di seconda mano. Nel passaggio alla versione europea agisce una più o meno inconscia selezione, che privilegia proprio gli aspetti di “diversità” e di “abnormità”, mentre i dati vengono ingigantiti proporzionalmente alle distanze. Ci troviamo così in presenza di risultati su cui hanno influito più rielaborazioni successive, da ultimo in funzione della sensibilità e delle aspettative del mondo occidentale. Si arriva in questo modo, spesso partendo da realtà culturali che dall’osservatore diretto erano magari state avvertite come perfettamente consone d’ambiente naturale ed umano, o rispondenti alle istanze peculiari di un popolo, ad una interpretazione in termini di eccezionalità; nascono il fantastico ed il mostruoso.

Agisce anche, sia in senso deformante che nel sollecitare in positivo la fantasia, una sorta di transfert dettato dalla primordiale spinta alla sopravvivenza e alla speranza: la miseria quotidiana, la fame, la fatica, i soprusi, l’angoscia, vengono ribaltati in negativo in questa dimensione fantastica, che vive sull’eliminazione del bisogno e della paura, sull’abbondanza e sulla libertà dal lavoro. Allo stesso modo, un carattere esorcizzante e consolatorio rivestono le fabulazioni mostruose: l’esistenza di regni della sofferenza e del terrore, nella misura in cui questi sono remoti e nebulosi, fa da contrappeso ad una situazione di perenne tensione forse più di quanto non contribuisca ad alimentarla. Della nascita e della fortuna di una utopia geografica partecipa sovente anche la volontà critica nei confronti della situazione sociopolitica esistente: i regni della pace e della fratellanza, la convivenza pacifica del potere temporale e di quello religioso, la società egualitaria e priva di gerarchia, riflettono una sensibilità che ha paralleli sviluppi nel mondo ereticale.

Anche la tipologia dei paesi immaginari e fantastici è estremamente varia, in corrispondenza alla varietà di motivazioni che è sottesa al loro concepimento, alle matrici culturali di cui sono emanazione e all’humus su cui vengono trapiantate, alla diversa disposizione del secolo e, in qualche modo, alla loro localizzazione orientale o occidentale. Occorre comunque notare, in linea generale, che col passare dei secoli, con la soluzione della crisi demografica e l’apparizione di classi intermedie dalla forte proliferazione endogena (cavalieri e mercanti), necessitanti di spazi sempre più ampi per il loro sviluppo, le spinte a forzare l’ignoto, prima con la fantasia e poi concretamente, si sono moltiplicate. Dopo l’XI secolo, superate le crisi formidabili dell’impatto con arabi, ungheri, e vichinghi, i paesi immaginari rispondono a nuovi bisogni ed aspettative. I1 paese immaginario acquista connotati ben più concreti e realistici, perde il significato di una trascendenza paradisiaca o infernale per trasformarsi in un luogo ricco, civile, aperto all’iniziativa mercantile, straripante di vitalità economica; e soprattutto è là, subito dietro l’ostacolo dell’oceano o dei deserti, a portata di mano.

L’utopia fantastica positiva, l’aspettativa esoterica spazializzata, sono indirizzate e localizzate in prevalenza nell’occidente. Le manifestazioni del mistero “orientale” sono infatti nella quasi totalità riconducibili alla sfera dell’orrifico e del mostruoso: il meraviglioso è strettamente connesso all’idea di pericolo, l’eteronomia si confonde con la degenerazione. Ciò che di positivo viene dal levante è di natura eminentemente terrena (l’oro, i gioielli, le sete, gli animali esotici…); il resto rientra nel soprannaturale come emanazione demoniaca (il popolo di Gog e Magog, l’anticristo …), e qualora non sia tale se ne sottolinea i1 carattere di inaccessibilità (paradiso terrestre, regno del prete Gianni).

L’ovest, invece, sulla traccia di una tradizione già invalsa nell’età classica (Atlantide, le isole Fortunate) sembra prestarsi ad una liberazione in positivo della fantasia. I1 mitico tabù delle colonne d’Ercole viene recuperato e reinterpretato dalla mentalità cristiana, che mantiene in vita l’idea di un confine dell’esperienza spaziale terrena. Tuttavia, mentre da un lato l’oceano sembra racchiudere e proteggere la realtà ultramondana, dall’altro la spinta alla ricerca e al contatto con una realtà soprannaturale impone di infrangere questi confini, di spingersi al largo lasciando alle spalle le miserie terrene. E quando alle istanze mistiche si andranno gradualmente sostituendo nuove propulsioni profane, il mito della rinascita, morale e fisica, e di una “vita nuova” connesso all’incognito occidentale non verrà meno. Troverà anzi nuova vitalità dopo la concretizzazione del sogno medievale nella scoperta del nuovo mondo, incanalando alla volta di quest’ultimo la diaspora europea dei sognatori e degli scontenti.

Attitudini tanto differenti in seno alla geografia fantastica trovano la loro ragion d’essere in un complesso concorso di motivazioni. In primo luogo, il mistero orientale è in effetti contaminato da una realtà di contatti e di conoscenze a più riprese riaffermatasi (da Alessandro Magno all’impero romano), ciò che in qualche modo imbriglia la fantasia e ne disturba il libero corso. Non a caso nei confronti dell’ignoto asiatico continuano a far testo le eredità geografiche dei classici, costituenti una base imprescindibile anche nelle più recenti fabulazioni di matrice cristiana. In secondo luogo interviene a connotare negativamente la diversità fantastica un’esperienza storica tutt’altro che rassicurante. Le vicende successive alla caduta dell’impero romano non consentono all’uomo medievale di prospettarsi il bene in una direzione tanto infida.

La “diversità” del mare occidentale pone invece problemi d’altro ordine. L’impenetrabilità non è qui garantita da ostili presenze umane o animali, ma da fattori naturali (o sovrannaturali) che al di là delle apparenze lasciano maggiore spazio alla lotta. All’uomo particolarmente ardito e intelligente, o particolarmente santo, è sufficiente in questo ambito una eccezionale fiducia nelle proprie capacità, o in Dio: superare se stesso, vincere il vecchio uomo pieno di paure e di remore, è la condizione unica per toccare le sponde dell’isola della felicità.

Nella narrazione dei viaggi mitici, come quelli di san Brandano o di san Colombano, si fondono il modo di sentire dei Celti e quello dei cristiani, lo spirito celtico del meraviglioso e quello mistico dell’Europa medioevale. La meta soprannaturale di queste navigationes non è semplicemente quella prospettata dal cristianesimo primitivo. In essa elementi di remota origine germano-gaelica si permeano della spiritualità di ascendenza orientale. Si tratta senz’altro di un oltremodo: ma spesso manca la coscienza dei limiti di separazione dal mondo reale, e forse proprio per questo l’uno e l’altro sono sempre in evidente contatto, e interdipendenti. Le vecchie leggende celtiche si trasformano qui in viaggi di ricerca del paradiso cristiano, di isole ove tutto è perfezione e felicità, nel senso religioso del termine: e il presupposto è che a compierli siano spiriti eletti. La leggenda assegna al viaggio di San Brandano (487-578) una precisa motivazione religiosa. Il santo vuole visitare il luogo in cui, senza il tradimento di Adamo, tutti gli uomini avrebbero il diritto di risiedere: si sente in pratica defraudato dell’eredità primigenia dell’uomo. Rapportato all’epoca il suo desiderio non ha in realtà nulla di eccezionale e rientra in certo qual modo nell’uso della “peregrinatio pro amore Dei” diffuso dal monachesimo irlandese: invece che a portarla, l’abate di Clonfert va questa volta ad acquistare conoscenza. La sua peregrinazione in compagnia di quattordici confratelli dura sette anni, nel corso dei quali vengono toccate una serie di isole sconosciute, abitate da animali fantastici, e popolate di santi o di demoni; fino a giungere all’Eden, paradiso delle delizie, e a prendere la via del ritorno. La narrazione si dispiega in un grande quadro allegorico, nel quale intervengono con frequenza simboli ormai codificati della tradizione biblica e cripto-cattolica. Tuttavia la fusione di questi elementi con il patrimonio leggendario celtico da un lato, e con la concreta esperienza maturata in un’attività itinerante dall’altro, fanno si che per tutto il medioevo si attribuisca ala leggenda il valore di realtà geografica, al punto che l’isola del “paradiso di delizia” diviene oggetto di transazioni diplomatiche tra i sovrani europei.

Il mondo di san Brandano, e allo stesso modo quello di san Colombano, altro esploratore religioso del sovramondo atlantico, partecipano comunque di una dimensione che anche nei suoi connotati geografici terrestri rimane divina, inaccessibile a chi non possieda il crisma della santità. Soltanto dopo l’XI secolo, nell’ambito di una progressiva desacralizzazione del reale, le localizzazioni fantastiche perverranno a privilegiare i caratteri mondani, veritieri e concreti dell’ignoto, aprendone indiscriminatamente i confini alla volontà e al coraggio. Pur rimanendo in un ambito altrettanto vago e indeterminato, le leggende successive, del prete Gianni, di Avalon, del Vinland, delle isole Fortunate, e mille altre ancora, avranno quindi un effetto ben diverso sulla psicologia e sulla mobilità dell’uomo medioevale. Il processo di trasformazione dei rapporti tra oriente e occidente, che era già stato avviato col venir meno della pressione mussulmana, subisce una violenta accelerazione nell’ambito delle crociate. Pur proponendosi nei termini iniziali del confronto armato, il rinnovato contatto è ormai espressione di una vitalità bilaterale che investe anche la dimensione qualitativa degli scambi. Se infatti la ripresa espansionistica europea si caratterizza subito in termini economici, è necessario non sottovalutare l’importanza di un sentire religioso profondamente rinnovato nel senso della controffensiva missionaria, che indirizza i passi e le speranze verso le terre ignote e le loro popolazioni. Questo nuovo ardore trae alimento, oltre che dalla riscossa in Terrasanta, dalla diffusione di voci e credenze relative all’esistenza di comunità cristiane nell’estremo oriente.

Le notizie non sono del tutto prive di fondamento storico, perché in seguito all’avanzata mussulmana si era determinata una cospicua migrazione, soprattutto dalla Siria, di elementi e di gruppi cristiani di fede nestoriana. Costoro si erano spinti ad est, arrivando a disperdersi tra le popolazioni mongoliche, ma mantenendo viva una tradizione solo in parte contaminata dall’adattamento alla cultura indigena. I contatti col mondo occidentale erano venuti meno durante il periodo di massima espansione dell’islam, ma con il riproporsi della presenza europea nel vicino oriente non tardano a riallacciarsi. Ed è nel loro ambito che nasce la leggenda di un favoloso regno all’altro capo del mondo, nel quale le prerogative mitiche e fantastiche, pur presenti, lasciano però ampio spazio all’idea di una reale e possibile localizzazione terrena.

Già nel 1122 un sacerdote indiano di fede nestoriana rende nota a papa Callisto II l’esistenza di un culto eccezionalmente diffuso, facente capo alla presunta tomba dell’apostolo Tommaso, presso Madras. Ne1 1145 un vescovo siriano viene a riaccendere la speranza nel cuore dei partecipanti alla seconda crociata, annunciando che un re cristiano della stirpe dei Magi ha inflitto una pesante sconfitta ai mussulmani in Persia, ciò che gli permetterà di avanzare per soccorrere i regni cristiani di Terrasanta. Neppure la sequenza di insuccessi che porterà nel 1187 alla caduta di Gerusalemme farà venir meno l’aspettativa, perché nel frattempo queste nebulose indicazioni sembrano essere clamorosamente confermate. Nel 1165 viene infatti messo in circolazione un misterioso documento, che sotto la denominazione di “Lettera del prete Giovanni” è inoltrato alle massime autorità temporali e spirituali dell’epoca (papa Alessando III, Federico Barbarossa, Manuele Comneno, ed altri ancora). Confluiscono in questa straordinaria epifania motivi di sottintesa polemica, riflesso della lotta politico-religiosa nell’occidente, assieme a suggestive rielaborazioni della mitologia animale e geografica medioevale. Di concerto con tutta la letteratura politica dell’epoca, anche in questa dimensione utopica si fa spazio l’idea di una sovranità capace di riunire la duplice dignità, monarchica e sacerdotale, in funzione del benessere e della tranquillità dei sudditi. Al titolo stesso che il sovrano si attribuisce, quello infimo di “prete”, è connesso un significato di umile coscienza della propria funzione, umiltà che non caratterizza di certo i “vicari” cui la missiva si rivolge. Sull’origine di questo documento si possono soltanto formulare ipotesi, sulla base di una comparazione con la letteratura “scientifica” e sistematica del tempo, e rapportandola alle vicende politiche del XII secolo. Su quella del nome si è tentata una spiegazione, collegando il “Joannes” del testo latino con il mongolo Wang (pron. Uàng), titolo nobiliare in uso a livelli di potere molto alti: in questo modo si arriverebbe a collegare la credenza con l’esistenza reale dei popoli (i Turchi Juguri) di fede nestoriana, occupanti posizioni di rilievo nell’orda tatara.

La lettera colpisce immediatamente l’immaginazione dell’occidente medievale: essa è in perfetta sintonia con la dilagante curiosità per l’esotico, con la sete di novità e di meraviglie che caratterizza il risveglio europeo. Il regno descritto è una variante del paradiso terrestre e offre un eccezionale campionario di ricchezze e di prodigiose presenze. L’ingenuo e fanciullesco imbonimento dell’autore mescola il meraviglioso con l’orrido, lo spettacolare col pauroso, spogliando animali e cose di ogni valenza che non sia quella fieristica. Ma al di là della pirotecnia e dell’enfasi favolistica, ciò che lascia il segno nell’animo è soprattutto il clima diffuso di abbondanza, di fraternità, di protezione disinteressata. Il documento è presto fatto oggetto anche di una attenzione ufficiale, al punto che Alessandro III detta nel 1177 una risposta, nella quale si invita il “prete Gianni” a riconoscere l’autorità pontificia manifestando la propria sottomissione. Questo atto costituisce un avallo della credenza; quando nel 1229 Gengis Khan muoverà alla conquista dell’Asia occidentale si vorrà riconoscere in lui un figlio o discendente del misterioso sovrano. La delusione successiva al brutale contatto con la realtà, in occasione dell’apparizione sulla scena occidentale delle orde tatare, infligge un duro colpo al mito del favoloso regno asiatico. Poco alla volta, il tentativo di storicizzare la figura del prete Gianni finisce per spogliarla dei connotati più fantastici, e persino della primitiva positività. Nel 1248 due messaggeri mongoli provenienti dalla Persia giungono al campo di Luigi IX, impegnato nella crociata, per stringere accordi in vista di un attacco coordinato contro i mussulmani. Nel loro racconto il prete Gianni viene confondendosi con la figura storica di Togrul, potente sovrano tataro, il cui figlio si sarebbe dapprima alleato e poi contrapposto a Gengis Khan, fino ad uscirne sconfitto. Questa è la versione asiatica della leggenda, e in questi termini, o con leggere varianti, viene riportata dai primi viaggiatori occidentali in particolare da Guglielmo di Rubruck e da Marco Polo. A suggellare comunque la fine della localizzazione asiatica del mito abbiamo da ultimo l’investitura conferita da fra Giovanni da Montecorvino al re Giorgio degli Ongut, ritenuto l’ultimo discendente nestoriano del re Gianni: nella sua figura di secondaria importanza, e nella realtà di una potenza assai limitata, si dissolve una speranza che ha nutrito per secoli gli animi dell’occidente.

La presunta identificazione geografica e storica del regno non mette fine comunque alla sopravvivenza del mito. Una nuova versione inizia a circolare con sempre maggiore insistenza a partire dal XIV secolo. Rimane inalterato il gusto per il favoloso e l’esotico, ma l’aspettativa si trasferisce ad un altro continente: l’Africa. Anche in questo caso è possibile il riscontro con una realtà cristiana che perdura, in piena espansione islamica, nella regione etiopica, e della quale l’occidente medievale ha notizie alquanto nebulose. Ad ogni modo, la fase africana del mito è senz’altro posteriore a quella asiatica, e con ogni probabilità nasce proprio col venir meno degli elementi sottesi alla prima. Questa versione proietta infatti il regno in più remote contrade, attribuendogli un’esistenza conchiusa ed autonoma, affatto aliena da un qualsivoglia interesse per i problemi dell’Europa cristiana. Ciò non toglie comunque che anche in questa direzione siano frequenti i tentativi di identificazione del mitico paese. Giovanni Cataloni di Severac e Jean de Marignolle fanno riferimento, nel 1340, al termine Zan, indicante in etiopico la funzione sacerdotale e regale dell’imperatore, per spiegare l’etimologia di “prete Gianni”. Per tutta la seconda metà del XIV secolo, e fino al termine del XV, le spedizioni navali e carovaniere per l’Africa hanno tra gli altri scopi quello della creazione di contatti con il favoloso regnante. Saranno soprattutto i portoghesi a farsi depositari di questo impegno, attraverso un costante interesse della casa regnante.

La loro attività marittima del penultimo decennio del ‘400, che li porta ad aprire la nuova via per le Indie con Vasco da Gama, è in gran parte motivata da questa ricerca. Nel 1484 la spedizione di Diego Cao, che risale per lungo tratto il fiume Congo, reca notizie di un misterioso e potente sovrano, il re Ogane. Ad esso debbono tributo tutte le popolazioni della baia del Benin e dell’interno, e nessuno lo ha mai potuto vedere. Sulla scorta di questo risveglio di interesse nel 1485 viene organizzata una spedizione, agli ordini di Alfonso di Payna e di Pedro di Covillac, con il preciso scopo di cercare contatti con il re Gianni, approfondendo la ricerca nella duplice direzione asiatica (nell’India, secondo le indicazioni di Giovanni da Pian del Carpine) e africana. Durante il viaggio nel quale arriva a superare il capo di Buona Speranza (1486), lo stesso Bartolomeo Diaz indaga insistentemente presso gli indigeni costieri, per ricavare notizie al proposito.

La scoperta delle Americhe distoglie infine l’interesse dal favoloso paese. Altri orizzonti ed altre speranze si aprono all’occidente, affascinato dall’oro sudamericano e dalle fertili terre del nord. I1 sogno si trasferisce, e si realizza, in occidente.

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