Tracce sull’esilio e dintorni
di Marcello Furiani, 30 marzo 2018
Introduzione
“L’inverno […] nel suo duplice significato di stagione letargica
che induce alla morte e di immobile stasi che attende il risveglio,
coniuga sia la condanna sia la speranza”.
(Aldo Carotenuto)
Ogni libro che ho letto – mi riferisco ai quei libri che secondo Kafka sono i soli che meriterebbero una lettura, quelli simili a “martelli per spezzare il ghiaccio dentro di noi.” – è un luogo, forse, una dimora. E i luoghi sono le persone che li attraversano, sono i ricordi che posano radici, sono le parole che rinvengono il fiato, i passi che asciugano le distanze.
Ogni libro necessario che ho letto è stato una porta che si apriva su una cosmogonia fino allora irreperibile, ha annodato intrecci, sciolto grumi, depositato dubbi, chiamato dedizioni, ha difeso promesse, ha incitato pensieri e persuaso il sangue di assilli e di gioie, di tormenti e di premure a proposito delle ultime cose del vivere, del conflitto tra bene e male, tra il conosciuto e l’incognito.
Poiché leggere è fondere l’anelito all’eterno con la bellezza di ciò che è fugace, di uno sguardo che muove il passo, di un viso che racconta la sua caducità.
Come ha intuito Gerge Steiner è il mistero del suo senso mentre schiude un inizio agghiacciante come ogni nascita; come ha scritto Marina Cvetaeva la verità del sorriso della Gioconda è il mistero stesso del suo sorriso.
Ma ogni libro è anche e insieme un luogo di esilio: pur se non costituisce il tema o non ne determina la condizione, l’esilio è ciò che avvicina e talora congiunge il vivere alla lingua. È la distanza che si rianima dentro una voce che non è più solo grido o gemito di sofferenza, è la lontananza che trova il passo per raccontarsi in un ritmo, in una cadenza che accoglie e sottrae all’abbandono ciò che è perduto in gesto d’ospitalità che riunisce due mancanze. Da una parte la nostalgia che avvolge un passato di luogo o tempo perduto, dall’altra il limite di una lingua che – se non si china per raccogliere un sentire, se non compie quell’atto di umiltà, di attenzione, di ascolto – non ha parole per germogliare. Anche nella scrittura ci sono povertà che arricchiscono: come ricorda Marina Cvetaeva, “a volte bisogna dare in ginocchio, come i poveri quando chiedono”.
Attraversare un testo, come ricorda Benjamin, è anche un modo di tendere verso l’estremo, di misurarsi con le ultime cose dell’uomo, di mutare la scrittura in fuoco e tormenta piuttosto di un andare illusorio e dissipatore in cui, come rileva Věra Linhartová, “la continua velocità equivale all’immobile irrigidimento”.
Ma occorrono “suole di vento” – come scriveva Verlaine del giovinetto di Charleville – gambe instancabili e un desiderio che non si appaghi della mediocrità per non arrendersi alla tentazione di mettere radici nella prima locanda in cui ci si imbatte nel cammino, pur se si trattasse di quella del vecchio Tag di Stryjkowsky, teatrino di una Galizia leggendaria, moderna Atlantide.
Occorre, in altre lettere, uscire dalla consuetudine, allontanarsi dalla rassicurazione, dal conforto di mura amiche, ovvero rischiare l’esilio.
E poco importa se contiguità, rimandi, predilezioni, analogie non appianano l’imprevedibilità di un’esplorazione e l’arbitrarietà delle scelte. Attraverso il gesto mimetico della parola, si disegna una topografia letteraria inquieta e personale, in cui come per bizzarria vengono omessi i nomi di celebri capitali e sono indicati invece quelli di oscuri paesi, come nell’approssimativa carta geografica dipinta nella via principale di Žmerinka, ricordata da Primo Levi nell’odissea del viaggio di ritorno da Auschwitz.
Come scrisse Marion Crawford a proposito di Praga, queste pagine seguono “lo stesso principio del cervello umano” colmo “di tortuosità, di arcate e di sentieri oscuri che possono condurre da qualche parte o da nessuna”.
1.
Nel film Il sapore della ciliegia, di Abbas Kiarostami un uomo erra alla ricerca di qualcuno che lo accompagni verso la fine, compiendo per lui il gesto estremo di seppellirlo quando sarà morto.
L’ultima speranza, sotto un cielo immobile, dimora in quel qualcuno che non ha nome né volto.
2.
Ogni sguardo non ne contiene interamente un altro, ogni dimora non è rifugio per ogni viandante sorpreso dalla tempesta, ogni oggetto si sottrae davanti alla parola che lo nomina.
Su questo scarto misuriamo il vivere, la distanza non percorribile che ci separa dalle persone, dai luoghi, dagli oggetti.
Noi non siamo nel mondo come enti naturali, ma lo abitiamo, e viviamo drammaticamente lo iato tra ciò che è e ciò che potrebbe essere e ciò che non è stato, lacerati tra il desiderio di ricondurre le cose a una comprensibilità e la coscienza dell’indifferenza innocente delle cose.
È l’inverno senza rinascita dell’esilio, dove possiamo trovare, con una fatica priva di pietà, solo la nostra unicità, senza la quale non abbiamo voce né nome, senza la quale la profondità del simbolo è solo la miseria del segno.
3.
Lo spazio della scrittura è uno spazio d’esilio, di separazione, di chiusura e di sacralità; è lo spazio di un altrove inassimilabile al reale. La scrittura diventa meno orgogliosa quanto più consapevole della propria sconfitta, della ferita che ripercorre ogni volta, del silenzio e dell’assenza come risposta a una continua interrogazione.
Lo spazio della scrittura è, come diceva Rilke a proposito della morte scrivendo a Witold von Hulewicz, “l’altro versante della vita”; è per Blanchot una relazione anticipata con la morte; è, all’interno del proprio vuoto, come scrisse Mallarmé, l’incontro con il nulla, con l’assenza degli dei, è abitare dove il senso latita.
Ma è anche il gesto del ricco mercante che in Tolstoj si getta con il proprio corpo su Nikita, il servitore assiderato (v. Tolstoj, il padrone e il lavorante); è la struggente ballata della Fanciulla di Aughrim che, nella memoria capace di conservare e di restituire la purezza estrema di un gesto d’amore, fa dire a Gretta ne I morti di Joyce: “I think he died for me”; è anche Orfeo che ridiscende verso Euridice, il luogo indicibile e oscuro verso cui la parola aspira, cercando nell’oscurità ciò che la notte dissimula.
4.
Nell’anima romantica la nostalgia è ambivalente, perché sono compresenti l’intenso desiderio e il rimpianto velato di malinconia, desiderio e rimpianto che rivolti al passato, operano anche una critica al presente. E’ un Giano bifronte che guarda con rimpianto la passata civiltà e desidera un rinnovamento per il presente.
La nostalgia nasce dal sentire perduta un’armonia; un mondo è finito, è tramontato. Nella notte del presente la nostalgia romantica è il sogno rivolto alla grandezza del passato, sia medievale che greco. E’ il desiderio che quel mondo idealizzato possa rivivere realmente; è il rimpianto perché quel mondo è perduto irrimediabilmente e può rivivere soltanto suscitato e rievocato dal ricordo, dalla poesia, dall’opera d’arte, dall’immagine del mito.
Che l’antica armonia possa essere rimodulata, che gli dei tornino a camminare sulla terra, che l’antica unione della natura con gli uomini possa rivivere: questi sono i desideri romantici. Nella memoria del passato e nella speranza di un futuro si muove il sentimento romantico e suscita visioni, teofanie, affreschi di idilli greco-medievali. La visione si manifesta con una immensa forza lirica e plastica per mezzo del sogno.
La visione è veritiera.
Riceve la sua forza e lividezza dal sogno, inoltre, facendo ricorso al mito, la visione trova nelle sue figure un fondamento metafisico. Sono visioni di un accadere che è già stato in quanto mitico, fondante e sempre in rinnovamento. Il mito è universale e tragico. Tragico perché si tratta di uno spettacolo difficile da contemplare, in cui le contraddizioni, gli estremi, le ambivalenze non vengono solute, ma permangono nella loro antiteticità. La contraddizione non assurge, non si risolve in alcuna conciliazione (questo è il tragico); l’unica conciliazione è cercata dai romantici nell’opera d’arte; il prezzo da pagare è la malattia del poeta e la frammentarietà della forma.
5.
Con il delinearsi della sensibilità romantica il viandante cessa di essere figura e metafora e torna a essere un mito.
Goethe, Holderlin e Nietzsche riscoprono la radice mitica del viandante che diventa una dimensione costitutiva dell’essere umano.
Goethe quando compone il ciclo del viandante si sente egli stesso un viandante; Holderlin, prima della follia e del suo esilio nella torre, sperimenta l’esperienza del viandante cominciando a errare di famiglia in famiglia in veste di precettore; anche Nietzsche è viandante, per sfuggire alla malattia che lo affligge si reca in montagna o nei paesi sul Mediterraneo. E riscopre il nucleo mitico del viandante; il mito per Nietzsche è legato strettamente al tragico, il grande mito, il mito più autentico è essenzialmente tragico: così il recupero del mito del viandante come costitutivo dell’essere umano vuol dire rivestire l’uomo della tragicità.
Il viandante è tragico.
6.
Anche la poesia sembra per i romantici possedere un’essenza nomadica: inscindibile dalla scrittura appare l’idea di movimento verso l’altrove e di un corrispondente movimento di ritorno.
Le parole si muovono e si inseguono, camminano, vanno e vagano, e con loro il poeta: Wanderung e Wanderer rappresentano anche l’atto dello scrivere. Rispetto alla fissità del dimorare, il camminare si pone come impeto di libertà irrinunciabile; scrive Holderlin «… io voglio muovere al Caucaso!/ Giacché l’ho sentito dire / Ancor oggi nelle brezze, / Liberi, come rondini, sono i poeti».
Anche in Goethe essere poeti significa muovere da un luogo all’altro, vicini a tutti e da tutti distanti; significa sentire nel proprio passo il ritmo stesso della poesia: «Voi mettete ali ai piedi, / per mondi e valli spingete / via da casa il vostro diletto / O amabili dolci Muse, / quando potrò riposare / alfine, sul suo petto?».
Vi appare impressa l’andatura stessa della composizione lirica, modulata e modellata sulla ininterrotta serie di avvii e di ritorni, di cammini che tornano su se stessi per rincamminarsi, ben sapendo che alla nostalgia dell’ignoto succederà inevitabilmente lo nostalgia del noto e viceversa e così via.
Perché il verso, per determinazione etimologica, non può che voltare e la sua libertà consiste nel potersi abbandonare a proprio piacimento e a propria discrezione al gusto o alla necessità di ritornare
7.
Senza dubbio il Wanderer alberga in sé orizzonti sconfinati: Holderlin scrive: «Sud e Nord sono in me». Ma l’avanzare si volge su se stesso e varca a ritroso il confine. Quello stesso confine che era stato oltrepassato con slancio impetuoso e pieno di baldanza accoglie ora e placa il viandante restituendolo alla sua fanciullezza, alla sua condizione intatta di figlio.
Il ritorno non può tuttavia essere mai definitivo, pena la morte della scrittura, cioè l’arrestarsi del rigo e del verso in una immobilità senza sbocco. La forma chiama il limite ma anche l’informe all’interno del quale è tracciata, alla stessa maniera del sentiero nel bosco.
Sempre il poeta dovrà rimettersi in cammino e inoltrarsi nell’inesplorato, abbandonarsi al piacere della selvatichezza, se vorrà che il suo segno sia demarcazione di territorio e allo stesso tempo apertura verso l’illimitato, verso la ricchezza del caos: «È dolce errare / Nella sacra natura selvaggia», sempre Holderlin.
Il destino del Wanderer, così come quello del poeta, non può che essere quello di andare trascorrendo di cosa in cosa, di luogo in luogo, di forma in forma, di sembianza in sembianza, di parola in parola, sempre nell’atto di varcare un confine.
8.
Nell’Enrico di Ofterdingen di Novalis il viaggio prevede il ritorno come momento finale dopo che tutte le esperienze, i dolori affrontati e vinti nel cammino vengono integrati ed elaborati dalla sua individualità, in cui tutto si ricompone e si riconcilia nell’armonia di una identità ritrovata.
A metà del viaggio il personaggio di Novalis chiede: “Dove stiamo dunque andando?” e la misteriosa figura femminile che gli è apparsa accanto nell’antichissima rupe nella foresta risponde: “Sempre verso casa”.
È una metaforica odissea dello spirito umano: il viaggio dell’uomo che lascia la casa natale per avventurarsi nel mondo, esporsi a insidie, errori, cadute, ma infine ritornare, come Ulisse, a casa, maturato e cresciuto, ricco di tutte le esperienze e anche dei dolori affrontati nel cammino e vinti, integrati e fatti propri dalla sua individualità.
9.
Novalis ci racconta ciò che, con altro linguaggio, il pensiero occidentale ci ha narrato con Hegel e Marx: il processo dialettico dell’io che si incontra con l’altro per superarlo e integrarlo in sé, arricchito delle esperienze e delle alterità che ha fatto proprie. Nella sua pur frammentaria parabola tutto torna e tutto quadra: negli sterminati particolari del molteplice lo spirito ritrova sempre se stesso, l’io creatore e demiurgo riconosce la propria eterna e immutabile individualità creatrice negli sparsi frantumi del reale, che esso ordine e ricompone.
In Novalis si avverte quel dolce e rassicurante cerchio della vita che gira, e ritorna a salvare e a ripetere l’ordine immutabile dell’esistenza; c’è un’universale corrispondenza amorosa di uomo e natura, c’è legame e continuità; il soggetto individuale, nel suo errare, si rispecchia e si ritrova dovunque e comunque.
10.
Ne Il principio speranza Ernst Bloch dice che la Heimat, la casa natale che ognuno nella sua nostalgia crede di vedere nell’infanzia, si trova viceversa alla fine del viaggio. Perché il viaggio è circolare: si parte da casa, si attraversa il mondo e si ritorna a casa, anche se a una casa molto diversa da quella lasciata, poiché ha acquistato significato grazie alla partenza, alla scissione originaria.
11.
Ma presto qualcosa, nel rapporto tra il singolo e la totalità che lo avvolge, si incrina; nella società moderna il viaggiare diventa anche un fuggire, un rompere limiti e legami.
Il viaggio scopre non solo la precarietà del mondo, ma anche quella del viaggiatore, la labilità dell’Io individuale, che inizia – come intuisce con una chiarezza spietata Nietzsche – a disgregare la propria identità e la propria unità, a diventare un altro uomo, “oltre l’uomo”, secondo il significato più autentico di Übermensch.
Da Musil in avanti – in cui l’uomo è un insieme di qualità senza un centro che le unifichi – il viandante procede in un’odissea senza fine né ritorno, ben lontana dal movimento circolare che preserva e itera l’ordine immutabile delle cose.
Il viaggio diventa un cammino senza ritorno, alla scoperta che non c’è, non può e non deve esserci un ritorno.
I personaggi di Musil procedono in una odissea rettilinea senza fine e senza ritorno, in una continua interrogazione e sperimentazione e interpretazione del mondo, che li muta continuamente, li fa divenire altri e diversi da se stessi.
Il viandante moderno e contemporaneo – come un Don Chisciotte errante in un mondo disertato dai significati e dai valori, come un Achab maledetto ed escluso dalla Natura che rimpiange – non ritorna a casa confortato nella sua identità, ma si disperde straniero a se stesso, senza più libertà di riconoscersi, in una realtà spezzata e precaria dove solo la nostalgia (proprio nel senso etimologico del doloroso desiderio di tornare), similmente a una lingua segreta, può conferire la piena comprensione del sentimento di un’odissea senza ritorno, di un esilio dell’anima tra sforzi d’identità e sofferenze senza riscatto.
12.
L’artista romantico crea il paesaggio, lo cresce dentro di sé, ma così facendo esprime e riversa sulla scena quell’ambiguità che, per esempio, nel Viandante su un mare di nebbia di Friedrich emerge in termini ineludibili.
Il sentimento del sublime non si genera dall’intuizione dell’immenso, ma dalla consapevolezza dolorosa del limite, il quale è insieme privazione, impossibilità e soglia, transito verso un altrove dove si apre “l’infinito dei possibili”.
Ma attraversare questa frontiera può voler dire entrare nel “pays pluvieux” di cui Baudelaire (cfr. Rella, Miti e figure del moderno, p.73) si fa sovrano, custode di un potere sterile, nello spleen che priva chi lo sente scorrere nel proprio sangue come un brivido invincibile anche della possibilità di un gesto tragico.
Ogni cosa diventa inattingibile in un paesaggio che è insieme dimora ed estraneità, che inchioda e trattiene nell’immobilità e contemporaneamente muove al partire, dove stare e andare sono due diversi sentieri per quella che diventerà la stessa tana kafkiana.
Nel Viandante su un mare di nebbia di Caspar David Friedrich è espressa, nel respiro della sosta, insieme un’estraneità e un’adesione. E’ l’estraneità davanti alla bellezza assoluta di cui non riusciamo a coglierne il limite e l’adesione alla illimitata bellezza che si può solo intuire, ma non comprendere né contenere nella sua inafferrabilità.
Rimane la contemplazione che è comunque uno stare altrove, un esilio dal paesaggio, un’impossibilità a divenire una cosa in esso, ad appartenervi. Questa esclusione sottolinea come il tempo del viandante sia un tempo sospeso, raggelato in un hic et nunc che, nel contenere la memoria del passato e l’attesa del futuro, è – come rileva Eliot nei Quattro quartetti – un eterno presente.
Rilke dice di una bellezza che è “tremore” in quanto soglia dello sconosciuto, cioè del nuovo sul feriale, dell’imprevisto sul quotidiano, dell’incognito che frantuma ogni abitudine malata, in uno sforzo di agnizione che consenta di abitare il mondo.
13.
L’autentico viandante, nel suo errare spoglio di alcun interesse concreto, dimentica se stesso, il proprio passato, non compiace la nostalgia né asseconda il rimpianto.
Abbandona i ricordi in una vena esangue del proprio sanguinare, li custodisce, ma non se ne alimenta; per il suo cuore l’ieri non diventa la gruccia che sostiene il presente.
Non è viandante chi parte per tornare, né chi viaggia per fuggire, lasciando la propria anima nel ricordo di un viso o tra le mura di una casa natale, incapace di spartire il desiderio dalla nostalgia, di relegare il ricordo ai giorni trascorsi.
Il tempo del viandante è un presente che basta a se stesso, dove – se il passato vi gettasse le ombre dei suoi colori e i fantasmi dei suoi odori – ieri e oggi si fonderebbero in un unico, struggente, mitico istante che annullerebbe le distanze del suo camminare.
Per ciò nessuno sguardo di donna, disabituando il suo cuore – così come nessun bagaglio pesandogli sulle spalle – lo attende né domani, né mai.
14.
“Dove tu non sei, là è la felicità”, recita la lirica Der Wanderer di Georg Philipp Schmidt von Lübeck musicata da Schubert.
Ogni luogo è, quindi, un luogo sbagliato che tradisce e consuma, così come tutti i rapporti sono incompiuti e imperfetti: il viandante è alla ricerca infinita del luogo che non c’è, cioè dell’utopia.
Egli si muove eternamente per cercare qualcosa che non troverà e che forse in fondo non gli preme trovare: nel momento in cui trovasse ciò che cerca, abbandonerebbe la sua condizione di errante.
È sempre oltre, sempre altrove, ma l’eterno vagare, in qualche misura, corrisponde a una sostanziale immobilità, a un andare sempre verso lo stesso luogo o verso nessun luogo, che è il luogo dell’esilio.
15.
C’è sempre un fiato di speranza in ogni scrittura, anche in quella che dispiega un dolore immedicabile, una perdita irrisarcibile, anche quando il dio dei poeti non è Apollo Delfico, ma Orfeo dilacerato per aver visto Euridice. Questa speranza vive nella consegna di chi legge di guardare e riconoscere quella ferita, di decifrarne l’alfabeto terribile, di aderirvi come in un gesto innamorato.
Nulla di più distante dalla consolazione: si tratta di comprendere (tenere dentro) ciò che appare in genere come un’impronta da cui distogliere lo sguardo in fretta, è un esercizio alla resistenza davanti a un mistero ostile che incute paura, è un gesto che ha memoria di solidarietà, umore di carità.
E nella scrittura questo gesto diventa creatore di significato, trasforma la parola in respiro, l’ombra in corpo, unisce la piaga che esige uno sguardo e lo sguardo che sosta in un unico momento di intimità che persuade la solitudine e l’indifferenza di un vivere inchiodato alla cupa evidenza del proprio soffrire, di un isolamento senza memoria, come quello del dottor Semmelweis di Céline.
Per questo il linguaggio mistico e quello amoroso hanno una contiguità altrimenti inspiegabile. Scriveva Hans Urs von Balthassar – il teologo svizzero che vide nella teologia il luogo e il senso della bellezza –: “poeti e amanti sanno come spiare l’anima e condurla al canto”.
Attraverso la fatica della scrittura e della lettura, come osserva Benjamin, la lingua rende giustizia al passato, percorre quella distanza tra l’ieri e il presente, tra morte e vita riscattando l’esilio del pellegrino eternamente oscillante tra luce e ombra.
16.
La scrittura diventa compendio e salterio della vita stessa se intesa come strumento e maniera che valica se stessa in nome di un sentire poeticamente il dolore, la bellezza e la tragedia dell’esistenza. Il suo essere cosa viva si misura per quanto diventa parte integrante della vita e per come interagisce con essa.
Sezionare un testo come fosse una sciarada o sottolinearne la valenza letterale come fosse l’unica verità, diretta e immediata, desumendo dalla parola poetica una prassi politica, non è un buon servizio per la poesia.
La poesia parla un linguaggio che coglie le metafore di base del vivere umano, si presenta come dono da cogliere e non come un lacchè di cui servirsi.
Se, come sostenevano gli asceti, la vita terrena è esilio in contrapposizione alla vera vita, quella celeste, non percorrere anche con difficoltà e fatica la distanza che ci separa da un testo significa non abitare, fare dell’esilio la propria dimora.
17.
Essere nel proprio tempo è amare ciò che appare perduto e dimenticato.
È – come ricorda Cristina Campo – partire per ritrovare ciò che si ama, come “la rosa di Belinda in pieno inverno”, è il gesto di Dracula (nel film di Coppola) che raccoglie le lacrime dal viso dell’amata, è trattenere la bellezza dolorosa di una nostalgia.
18.
Già Kafka sapeva che l’arte è conoscenza del dolore, ma non la sua compensazione.
E la bellezza è tale perché è labile, perché rivela a ogni sguardo la sua natura di ostaggio del tempo; è come il volto di Nastasija ne L’Idiota di Dostoevskij che racchiude indistinguibili avvenenza e sofferenza, contenendo irrisolta la contraddizione tra armonia e tragedia.
In La sirène du Mississippi di Truffaut, Louis Mahé, osservando Marion/Julie, ribadisce più d’una volta come il guardarla sia insieme una gioia e una sofferenza.
Il patto, poi disatteso, di Orfeo con Plutone dio degli Inferi di non voltarsi verso Euridice ribadisce che la bellezza è immateriale, è un’idea di bellezza, che permette solo un’estasi silenziosa, che nega ogni possesso, scontato fatalmente con la morte.
La bellezza non è armonia, dice Simone Weil, ma smembramento che rivela la contraddizione come essenza stessa del reale, intuendo ciò che di più terribile abita il desiderio. Il luogo dell’assenza e della mancanza, che l’esilio assume come dimora senza scampo, continua a essere pervaso dalla memoria della bellezza, di quello sguardo che chiede di essere guardato, di quella voce che, donando, trema, poiché ogni donare si espone alla dispersione, allo spreco, al rifiuto.
La gioia e il dolore hanno dentro di loro un altrove, sono cifra di un’alterità che solo la miseria di un desiderare rassicurante ci nega di vedere.
Portare nella memoria le parole della decima elegia udinese di Rilke: “E noi che pensiamo la felicità / come un’ascesa, ne avremmo l’emozione / quasi sconcertante /di quando cosa ch’è felice, cade”.
19.
Ogni figura del dolore come della bellezza contiene dentro di sé l’ombra dissimulata di un segreto inespresso e forse indicibile.
Scrive Joe Bousquet dalla stanza in cui è esiliato dalla vita per oltre trent’anni: “Vorrei avere solo pensieri capaci di fiorire e insieme di parlare all’uomo con tutti i suoi sensi; così che la sua vita sia arricchita da ogni minuto piuttosto che separata da tutti quelli che ha vissuto”. La pagina scritta ha un senso se spartisce il gesto del dolore, se dice come l’esperienza delle cose nasca dallo smarrimento, dal sentirsi minacciati e dalla necessità di continuare. La scrittura è liturgia, è dare al mondo una nuova disposizione, è resistenza, custodia e soccorso. È salvifica nell’opporsi al non senso della morte e dell’infermità che è anticipazione della morte, trasformando il proprio spazio angusto e il proprio tempo d’esilio in uno spazio e in un tempo di dignità.
Se bellezza, dolore, segreto sono monadi sparse, se le ferite che ci segnano non sono fessure, spiragli, bocche che parlano non c’è nemmeno nella scrittura quel gesto che avvicina l’anima al mondo e viceversa, quello “sfiorarsi di labbra” dove il sentirsi esiliati trova una pur instabile dimora.
20.
Ogni realtà è insieme misteriosa e familiare, è contemporaneamente un viaggio nel noto e nell’ignoto. E ogni viaggio implica una consimile esperienza: qualcuno o qualcosa che sembrava vicino e ben conosciuto si rivela straniero e indecifrabile, oppure un individuo, un paesaggio, una cultura che ritenevamo diversi e alieni si mostrano affini e più vicini di quanto immaginavamo.
Nell’Unheimlich, su cui sia Freud che Heidegger si soffermano, emerge come l’alterità che si affaccia sia inquietante e angosciosa, eppure in qualche modo ci attragga, ci affascini, quasi ne fossimo catturati.
L’Estraneo, l’Altro non sta al di fuori della familiarità della casa che abitiamo, ma ne è implicato. I confini della casa si sfaldano, rendendo impossibile la delimitazione netta di un interno che esclude l’esterno, di un proprio che si separa dall’estraneo. La nostra casa è abitata dall’altro e si tratta di un’alterità che non può essere facilmente esclusa, perché ci riguarda, ci coinvolge, appare paradossalmente nel luogo stesso dell’identità, che si rivela così molto meno trasparente e sorvegliabile di quanto si potesse supporre.
Forse il luogo stesso da dove ha mosso i primi passi la filosofia è proprio questo spaesante, (atopia, direbbe Platone: a metà strada tra il topos rassicurante del conosciuto e il mare aperto dell’altrove) e ogni pensiero non dovrebbe temere di rischiare l’esilio.
21.
Nell’ultimo lieder del ciclo Lieder eines fahrenden Gesellen di Mahler il viandante procede al passo di una marcia funebre nel viaggio verso“l’estrema provincia della memoria”: l’assenza di una patria, di una heimat è quindi anche la morte, il luogo definitivo. Ma non è un viandante romantico, colto e rivolto all’introversione, come il goethiano viaggiatore nell’invernale regione dello Harz. E’ uno sconfitto, un vinto; la pietà che ispira nasce dalla commozione davanti a chi è “trafitto da disperato amore”.
È “uno in cammino”, uno che ha un destino, poiché un evento lo ha determinato per sempre (gli occhi azzurri che lo hanno guardato e lo hanno condannato all’erranza), e il suo è il destino esiliato per eccellenza: non riuscire mai a prendere la strada che si vorrebbe percorrere. Camminare su un sentiero, attraversare un prato o vivere nel mondo significa sapere che il sentiero, il prato, il mondo non ci apparterranno mai. Il tempo è sempre il tempo che ci è sottratto, non il tempo di cui dovremmo godere e non godiamo.
Il personaggio mahleriano, in un silenzio che chiude il cuore, perde il mondo prima di averlo conosciuto e trova il soccorso di un conforto solo nel riposo del sonno, ai piedi di un tiglio (figura amica e alleata), dove l’oblio dissolve il sapore aspro del vivere e disperde il dolore e l’affanno.
Scrive Adorno a proposito della musica di Mahler: “il lungo sguardo che si appunta su tutto quanto è condannato”.
22.
“Fotografia di bagnanti sconosciute. Scattata sul fiume Parka (Croazia settentrionale) all’inizio del Novecento. Autore ignoto”. È la didascalia della logora foto in bianco e nero in cui si osservano tre donne vicino a un fiume che apre Il museo della resa incondizionata di Dubravka Ugrešić. Questa immagine che perdura sfibrata è una metonimia della condizione di esule dell’autrice, poiché racconta il silenzio inabissato e dolente che consuma ogni forzata partenza.
Nel prologo del romanzo affiora l’elenco sconclusionato degli oggetti recuperati dallo stomaco dell’elefante marino Roland. Questa accozzaglia di utensili, di attrezzi, di cose di uso quotidiano, inglobate dal “bizzarro appetito di Roland”, racconta una casualità e una insensatezza che rimandano alla frantumazione e alla dispersione del passato di chi attraversa l’esilio. Pronuncia schegge che la lontananza ha disgregato, reazioni centrifughe che disperdono i rottami di ciò che era omogeneo.
Contemporaneamente allude a un’infaticabile ricerca e salvaguardia di quei brandelli, un’attitudine a ospitare nella memoria ogni frammento, una pazienza inesausta di riscrizione in una totalità tutta da rinnovare, ad ogni risveglio, giorno per giorno, grazie a un ascolto illeso da negligenze.
23.
Hotel room di Edward Hopper.
La donna seduta sul letto di una stanza d’albergo indossa unicamente la biancheria intima. Tra le mani appoggiate sulle ginocchia stringe un pieghevole o un depliant, forse un orario di treni o di pullman. Appare spaesata, incerta, disarmata. La valigia e la borsa ai piedi del letto sono ancora intatte, l’arredamento spoglio e disadorno: si respira l’aria anonima delle camere d’albergo di un viaggiare che non intravede un approdo, del respiro di una sosta prima della ripartenza. Dal soffitto cala una luce gelata e invadente che brucia ogni segreto. Ombre di pensieri gravano come nubi, pensieri sradicati e senza dimora, un’inquietudine senza interlocutore. Malinconia di lontananza incrina il viaggio, tra smarrimento e vaghezza.
Fuori la notte non ha il brivido di una luce.
24.
Scrive Jëzim Hajdari, poeta albanese: “Piove sempre in questo paese forse perché sono straniero”.
C’è una ferita immedicabile in chi ha scelto come Hajdari l’esilio come risposta etica alla sopraffazione e all’immoralità di chi governa il suo paese. Chi lascia una lingua e una terra deve varcare molte lingue e molte terre prima di individuarsi in una o nell’altra, ma in questi versi resta solo il sentirsi perpetuamente esule, accogliendo su di sé lo spasimo insanabile dell’inappartenenza.
“Ascolto il mio silenzio: è la paura di morire in un’altra lingua non in questo freddo che non mi appartiene”: la lingua come perdita definitiva di una identità, e senza il proprio idioma da afferrare rimane solo il silenzio, di fronte a cui anche un cielo piovoso e gelido parla un linguaggio estraneo, sottolinea un’incurabile distanza da ogni centro.
25.
La parola di Antonella Anedda – senza la presunzione di chi si illude di poter abitare sempre una lingua – si incammina alla ricerca dei nomi che hanno affollato la sua infanzia e hanno abitato il suo universo di parole di libri. Similmente a Il Pellegrinaggio in Oriente di Hesse, Anedda ne La luce delle cose sperimenta la condizione di chi transita un tempo in cui “tutti i nomi della storia possono comparire come momentanei compagni”.
Rinvenire una lingua è dunque riguadagnare quel cristallo sonoro che è la condizione primigenia dell’infanzia, l’età in cui ogni cosa esisteva perché era nominata da Qualcuno, e il Nome ne preservava la verità. La sua prima raccolta poetica Residenze invernali è la narrazione di una perdita e di un recupero della parola, quasi una genesi del canto, sorretta nel suo andare da incontri straordinari e innamorati con altri poeti, attraversati in quel gesto di ricreazione che è la traduzione.
Nel suo cammino non spassionato di traduttrice Anedda si imbatte nella lingua di Philippe Jaccottet e se ne innamora. Jaccottet è un poeta anziano, malato. Conosce la malattia, la linea di confine con la morte, il dono della luce appartata che svanisce lentamente, dei bagliori serali, il gelo dell’inverno, gli interni fiamminghi. La luce, la neve, le noci, le crepe, le foglie, il pane, la frusta, l’osso, la notte riaffiorano come echi di un sogno negli interni ospedalieri e negli esterni mediterranei e marini di Residenze invernali. Ma è l’amore empatico a generare questo effetto di specchio, a tessere l’ordito della parola perduta, la trama della lingua materna interrotta. Il senso dell’esilio e dell’erranza marca così da vicino ogni voce in cerca di individuazione per potersi dire, di madri e padri celesti e terrestri, in risposta alla ferita del mondo.
Tradurre è dunque “tracciare per ogni lingua il suo deserto”, cercare ovunque il suono e il suolo di una Casa, così come faceva Jaccottet: “Lui che amava da sempre il suo orto, i suoi muri,/ che custodiva le chiavi della casa”.
E sembrano rivolte ad Anedda questi altri versi di Jaccottet: “Si immagina che in quelle lontananze, possa darsi: una candela che brucia in uno specchio, una mano/ di donna vicina, il vano di una finestra”. L’inverno che prosciuga con la sua luce fredda la lingua abitata dei poeti occidentali è il rispecchiamento della condizione di sterilità di una centralità rivelatasi illusoria. E allora l’inverno è molto più vicino al buio che involge la lingua di chi vive l’oppressione e la perdita d’identità. E si pensa alle scritture fredde degli scrittori della repubblica democratica tedesca prima del crollo del muro di Berlino, all’immobilità senza speranza di Peter Handke, di Crista Woolf.
Così in Notti di pace occidentale il percorso individuale di salvezza alla ricerca di una pace possibile si fa urgenza politica di testimoniare per chi non ha voce, in questa tregua che nulla d’altro è se non transito, “da un luogo andare a un altro luogo/senza una vera meta/ senza che nulla di quel moto possa chiamarsi viaggio”, verso l’abisso implacabile della visione: “Felice notte a te/ per sempre priva di abisso”, come scrive ad Amelia Rosselli nella cui morte è custodita la meta: “Se non fosse che questo: giungere a un luogo/ esattamente pronunciarne il nome, essere a casa”.
Solo “la pazienza selvaggia della poesia” consente di “trasformare il dettaglio in visione, in uno scorrere di vite che vanno per brani in altre vite”, nella complessità di una grazia che “è essere spinti fuori dalla propria notte verso la luce, camminare dentro se stessi fino a consumare la notte, pagina dopo pagina”, in un destino di erranza capace di interrogarsi sui confini, sulle tracce della propria lingua nell’inverno della ragione occidentale.
La condizione del poeta è quella dell’errante, dell’esiliato, del marginale in uno scenario dove “in nessun luogo c’è bisogno di noi” e “nessun tempo ha bisogno di noi”. La sua voce dice una lontananza tragica e fantastica allo stesso tempo che non si nega però – sulle orme di un altro amore di Anedda – Marina Cvetaeva – al riconoscimento del presente e dell’esperienza del mondo come dato drammatico e al procedere deciso ma sospeso, in attesa, forse, della caduta.
26.
Benjamin scrisse che Robert Walser comincia dove finiscono le fiabe: la scrittura diventa una pania che tiene a bada il tempo, inganna l’attimo, contrae la vita nell’assolutezza del momento. In quel momento si può solo guardare, ma è inibito ogni pensiero come fosse un vizio, un equivoco della coscienza.
Chiuso in manicomio per gli ultimi suoi vent’otto anni di vita, fuori e al di là del tempo, in una condizione d’assenza, confinato in un presente eterno, ma periferico ebbe modo di scrivere come Kleist “di aver strappato via da se stesso la memoria, fatto colare via la sua vita”.
Fu commesso, domestico, scrivano, in quello stato limbico tra adolescenza e maturità, ai confini del vivere, in quella remissione dove solo sembra potesse godere dell’esistenza. Sembrò trovare vita in ciò che è inanimato, insignificante, privo di passato e di futuro, sospeso in una nozione del tempo incerta e indefinita.
Il suo paradiso perduto è il paradiso dell’insignificanza che continuamente evoca, fino all’estremo rifugio del manicomio, la cui distanza e restrizione sono le stesse dei suoi personaggi, che osservano la vita come da un microscopio che la riduce, che la minimizza in una bellezza lontana dal vero. Vagheggiano una vita come attesa, quasi aspirassero a perdersi in qualcosa che trascende.
Eppure c’è vita nelle sue pagine, c’è naturalezza, la profondità di uno sguardo acuto nella sua levità e nel suo fatalismo, l’attitudine a cogliere non senza ironia la gratuità e l’innocenza della bellezza e del dolore. Solo così forse poté sopravvivere, come un viandante che, giunto allo smarrirsi di una landa desertica, non possa far altro che assaporare il vivere a piccoli sorsi, goccia a goccia, come un eremita a mani vuote dinanzi al quale qualsiasi sorte, anche il soffrire, si presenta come un miracolo o un dono.
Forse è dallo “sforzo incessante di tacere l’angoscia” – come scrisse Canetti – che la sua scrittura diventa mimesi della stessa insondabile evidenza di ciò che semplicemente è, dove anche una goccia di pioggia o la venatura di una foglia narrano leggende all’occhio amoroso che le sa vedere nel loro semplice esistere e svanire.
Morgenstern vedeva la narrativa di Walser come “scritta da sé” e “sonnambulica”, ma forse è stata la voce che – apparentemente svagata, superstite ai margini di un mondo assediato dal dolore e dalla catastrofe – ha evocato la fuggevole forme delle cose con parole leggere e labili e ha consegnato alla scrittura nel suo ritrarsi il proprio congedo.
27.
Leggiamo dall’epistolario di Carlo Michelstaedter: “Ho paura di trovarmi tra la gente, allora mi sento più isolato” e più avanti, sempre alla famiglia: “Voi non potete immaginare come mi sia dura la lontananza da voi e in genere la solitudine del silenzio. Tutto questo mi forma un fondo di malinconia che non riesco a levarmi di dosso”. C’è in Michelstaedter l’esilio come isolamento drammatico, vissuto nella solitudine di una personale consapevolezza che si fa carico di una universalità umana insostenibile.
La sua scrittura è la scrittura del distacco; l’irraggiungibilità e la distanza – esemplificati nelle immagini del vento, del mare, del deserto – sono le estremità dove si muove il suo vivere, tra dolore e tempo, angoscia e solitudine inaccessibile.
28.
“Siate radicati nella carità per aver la forza di afferrare […] ciò che è la lunghezza e la larghezza, l’altezza e la profondità …” scrive Simone Weil “Essere radicati nell’assenza di luogo”.
È inevitabile quindi spogliare il luogo di ogni rassicurazione, infrangere i suoi confini che ci difendono per fare spazio a quell’assenza di luogo grazie a cui comprendiamo (nel senso etimologico di tenere dentro) lo spazio in tutti i suoi significati e noi stessi dentro quello spazio.
29.
Nella prima aria della cantata nuziale BWV 202 c’è tutta la gioia dischiusa dalla promessa e dall’attesa d’amore. Eppure com’è fragile e indifesa la sua bellezza, com’è già assediata dal tempo in quel suo indugiare a presagi di nostalgie, in quel suo allentarsi già quasi in un ricordare.
Scrive Cristina Campo: “Bernhard dice che il più grande peccato non è disperarsi, ma non voler accettare. Io non so se accetto o no la mia vita – disgregata, dispersa – da tanti anni la vivo così com’è, ma vi sono ore, momenti… Come stasera questo andante di Mozart, che sa tutto e dice tutto – quello che non vorremmo fosse saputo o detto – e per avere meglio ragione di noi lo dice con la dolcezza di chi ha accettato per tutti”.
“Cerco due note che amano” aveva scritto lo stesso Mozart.
30.
In quanto espressione dell’indicibile, la parola poetica è contigua al silenzio.
Il silenzio, custode di in mistero inespresso, è ritorno alla propria interiorità, è la scelta di chi può parlare: “Tacere può soltanto chi può parlare” scrive Romano Guardini e “l’autentico tacere è possibile solo nell’autentico discorrere” ribadisce Martin Heidegger.
Decifrare il silenzio è, per la parola poetica, accostarsi, approssimarsi a esso con una voce che, nell’assoluta essenzialità della mimèsi, alluda intuitivamente all’ombra sfinita dell’assenza che percorre il nostro volto e abbuia il nostro sguardo, confine con il nulla.
Accanto al silenzio delle cattedrali o a quello dell’oblio, al silenzio sgomento o a quello che narra, al silenzio come naufragio o rifugio o a quello che tradisce nostalgia della parola, scorre l’eventualità di una poesia che al silenzio allude e il silenzio addita come recupero di quel gheriglio essenziale che è l’altrimenti incomprensibile, inaridita e inespugnabile acqua sorgiva della propria interiorità.
Scrive Hugo von Hofmannsthal nella famosa Lettera a Lord Chandos: “una per una le parole fluttuavano intorno a me; diventavano occhi, che mi fissavano e nei quali io a mia volta dovevo appuntare lo sguardo. Sono vortici, che a guardarli io sprofondo con un senso di capogiro, che turbinavano senza sosta, e oltre i quali si approda al vuoto.” Siamo al limite estremo della indicibilità nel disfacimento progressivo delle parole e delle cose, dove, citando Vladimir Jankèlèvitch, “il silenzio è ciò che permette di sentire una voce altra, che parla un’altra lingua: una voce venuta da altrove …”. Questa voce altra, quest’altra lingua, questo altrove sono la dimora della parola poetica che, dissimulata nel clamore della quotidianità, richiede quella che sempre Jankèlèvitch chiama “vista di secondo grado che è l’intuizione”, grazie alla quale si possono raccogliere “nel buio essenze invisibili nascoste dietro le esistenze visibili” offrendo rifugio e asilo ai “sottintesi nascosti sotto le cose dispiegate” e riconoscendo “le voci del mistero universale”.
Il silenzio è la landa desertica dove nasce la poesia, la cui parola, assottigliatasi al punto da ottenere la necessaria trasparenza, è più contigua al silenzio quanto meno gli dissomiglia. Quando viene meno la parola abusata, feriale, quotidiana, solo una parola che alluda al silenzio che ne consegue, fitto di memoria, ferita e dolore può colmare una distanza arresa, una lontananza ritratta in cui si addensa la fragile speranza di un’attesa.
La parola poetica è accessibile al di là della promessa e dell’attesa e, nella gratuità del dono, si manifesta, pur sottolineando l’impossibilità di essere posseduta nella sua totalità, pur rimarcando continuamente la propria essenza segreta attraverso lo scarto della propria comprensione (cioè essere contenuta).
Come dono la parola poetica non è casuale, ma insperata, nel senso che si spinge oltre la speranza, sporgendosi al di là di quanta promessa è contenuta in ogni attesa.
La parola poetica colma un’attesa. È l’attesa sospesa tra il nulla e la parola, tra il silenzio e il brivido della natura, tra la nascita e la morte, tra esilio e dimora. Nel bianco di una pagina è il tempo di una privazione che attende di essere risarcita, colmata. La parola poetica muove da un limite, si leva dalla propria fragilità e in essenzialità per riconoscere un dolore che assedia il tempo del presente e il gesto del quotidiano.
C’è una prossimità, una contiguità, se non una legame determinato, tra corpo minacciato dalla morte e il linguaggio insidiato dal silenzio. Un linguaggio che, come in Paul Celan, chiede alla poesia di proseguire a dire dopo le rovine, malgrado le rovine, muovendo dalle rovine. Una poesia ai confini dell’indicibile, spinta alle soglie del silenzio, che rischia il silenzio per esprimere la contraddizione di una parola in rovina, bruciata.
La parola poetica nasce nello spazio che si crea tra lo sguardo e l’ascolto, nel respiro che accorda la vista all’udito, nella sosta che permette di cogliere quel tu con il quale le cose si rivolgono all’orecchio, chiamando, chi è capace di ascolto, a farne parte. Scrive Antonella Anedda: “occorrerebbe fermarsi sul ciglio di ogni verso”, alludendo al processo inverso che dalla poesia conduce alle cose.
La parola poetica raduna nelle sue pagine parole e convoca gesti tra loro lontani, ma non estranei, in un’accomunante espressione del male e dell’erosione, del dolore e della ferita del corpo e dell’anima, in una condivisione compassionevole (nel senso etimologico di patire insieme) che, se non salva e non riscatta, riconosce.
E, riconoscendo, il poeta, scrive Maria Zambrano, “imita la creazione divina e crea un’eternità […] virtualmente” in quel porre nella coscienza un tempo diverso dal tempo della vita, un tempo immaginario. “È il gioco” prosegue Zambrano “il gioco profondo dell’arte […] dall’uscita del giardino incantato, dall’ansia folle di assaggiare l’albero della scienza, è rimasta la mela incantata dell’arte, la magia del suo tempo inventato.”
Poesia, quindi, come luogo d’incontro tra parola e dolore, tra memoria e presente.
La parola poetica è il congiungimento delle dita nella Creazione di Adamo.
31.
Il processo non continuo né lineare che apre profonde crepature tra la scrittura poetica e il mondo si sviluppa secondo costanti di segno opposto: la necessità di un ritorno alla vita, che permette alla poesia di nascere in un rapporto di adesione con le forme del mondo, e l’esigenza di allontanarsi da questo per una nuova tentazione verso il luogo tolemaico, dove la poesia stessa deve sporgersi per attingere la sua estraneità che la definisce.
La saggezza prosaica e circoscritta del quotidiano costringe la poesia, ma i lineamenti dell’origine la feriscono e la rinserrano in una solitudine intrisa dell’immagine inarrivabile e agghiacciante del vuoto; ponendo costantemente in questione se stessa e il suo fare (poiesis è fare), alimenta più o meno responsabilmente una scrittura eversiva.
Poiché lo stesso linguaggio non cela la propensione al silenzio, chi scrive può attendersi dalla scrittura soltanto le tensioni di quella anomala solitudine della poesia che abita in un ineluttabile isolamento, nell’esilio del continuo ricominciamento e della sua alterità, comprendendo in sé, spesso rovesciati, i concetti di inizio e fine: indifferente quando recita di concedere ciò che non può venire concesso, popolata di fantasmi del passato quando asserisce che può essere posseduto solo ciò che è perduto per sempre.
32.
Ciò che definisce la poesia è la ferita, l’esilio che ne sottolinea l’illeggibilità nella pienezza della sua realizzazione: la poesia è un altrove, un’entità solitaria di un altro ordine di tempo e di spazio e l’adesione che si seguita a portarle sta nella coscienza della notte che la percorre, che segna i volti del mondo che sono in lei.
Ciò comporta una dolorosa necessità di identificazione con quella virtù che è lo strumento dell’intero processo poetico e che possiede la volontà di strutturare anche ciò che non ha destino né forma, che permette allo sguardo di fissare il dolore e il vuoto senza esserne inghiottiti grazie alla compiutezza di una scrittura che, pur recidendo il legame della parola con l’umano, dice quando tutto sembra essere stato detto e viene da un prima senza il quale non è dato esserci poesia.
Questo prima è la linfa che percorre l’anonima passività dell’essere, è la fascinazione che prova chi, dimenticando se stesso, vede la propria solitudine come condizione per riconoscere il vuoto dove risuonano insieme la voce del silenzio e quella del mondo.
Non appare solo la luce, ma anche la notte che la presuppone, e quando tutto sembra negarsi alla speranza, quando ogni cosa evidenzia il proprio destino di dolore e disfacimento, riconosce l’assoluta innocenza del divenire.
33.
Ma, ancora: da questa distanza insorge una nostalgia di lontananza, canto delle sirene di Ulisse proveniente da un luogo che si proclama vera patria e prima nascita, heimat e origine delle cose.
34.
L’incanto della poesia è violento: percorre le vene e la realtà circostante; passando attraverso l’ambiguità della parola, apre una breccia da cui sembra scivolare un magma primordiale che ne costituisce la linfa; ne disegna il volto che, pur formatosi nella molteplicità del reale, non appartiene a noi né alla nostra storia. Ciò che costituisce il tramaglio degli incontri e degli sguardi viene rivisitato, fuoriuscendo dalla sua letteralità, poiché la poesia ci rimanda continuamente a quel volto che materializza lo specchio dove la notte proietta la sua indecifrabile luce.
In questo specchio di sgomenti e di meraviglia è possibile intuire i processi di da cui deriva l’immaginazione poetica, che vive di conseguenza oltre i concetti di identità e di contrapposizione, di falso e di vero, di ragione e di fede.
Da qui la sua natura esiliata, separata da ogni rassicurazione, perché quando la poesia chiama e reclama si viene attratti da un principio notturno la cui logica non è quella delle notti del mondo, ma quella di un’estraneità che non dona riposo né oblio, notte mai compiuta, eternamente sospesa che si rinnova sempre dal principio.
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L’oggetto poetico è tale solo nella consapevolezza della contiguità con la morte, nella soglia dolorosa del suo non-essere, nell’incontro sulle porte Scee tra Ettore e Andromaca, dove l’amore è quel sostare sofferente, luogo simbolico della genesi del sentimento della poesia, punto d’incontro, nella coscienza viva della morte, tra l’esistenza e la parola, tra vita e poesia.
Principio della scrittura poetica è il ritorno e il ritorno è dolore del ritorno (nostalgia) e il viaggio è espressione di una differenza che altro non è che il riconoscimento di quello scarto che muove al partire. Solo l’ambiguità della parola poetica permette la narrazione del viaggio e, contemporaneamente, solo la memoria (senza cui non esiste ritorno, né, quindi, nostalgia) può muovere alla poesia, come la colomba trakliana proviene dall’infinita e lacerante distanza del ricordo.
Non si dà poesia se non come ferita, sangue che sgorga, crisi, cioé svelamento, rivelazione (nella direzione contraria alla dissimulazione). Poesia come ricusa dell’apparenza entro cui si tendono a nascondere la dissonanza, lo scacco, la finitudine.
Non si dà poesia se non dentro la morte. O meglio: se non dentro una vita cosciente della morte, una gola solcata, scavata da una sete inappagabile, forse, come dice Gianni D’Elia, lo stesso“non sapere/che sete disseti una voglia di bere”.
Una poesia dell’apparenza consuma e perde il proprio sguardo nello specchio di Narcisio che, rimandando inautenticamente la propria luce e la propria bellezza, in realtà sancisce una distanza incolmabile dal dolore e dagli altri in una gelata solitudine, in un arido isolamento (di cui è vittima, per esempio, Il dottor Semmelweis di Céline).
Avvolgendosi su se stessa in una continua ricerca di conferma, una poesia dell’apparenza si nega a ogni incontro, decreta un’impossibilità alla fatica del riconoscimento: come l’esperienza di Malte Laurids Brigge che si trasforma in specchio, così la parola che cerca una ragione e una salvezza nel proprio rispecchiamento, finisce per essere, come scrive Franco Rella, sterile “specchio della morte”.
Non c’è sudore né libertà né ascolto in una parola che si pietrifica in una distanza che rifiuta, nell’abbaglio dell’apparenza, la propria corporeità inseguendo un impossibile possesso, incenerendosi come la Ninfa Eco in una continua ripetizione che nulla riflette se non un’alterità inconsistente.
Non c’è altro senso se non il proprio rispecchiamento, dove la parola si inabissa in un deserto di silenzio, privo del conforto di qualsiasi risonanza. E una parola che non dice, che amando se stessa si nega, è il nulla, rimanda disperatamente al nulla della morte.
36.
L’esilio in Leopardi è assenza, vocazione a non essere: abbandono dell’abito del proprio pensiero per poter essere pensati dalla natura, colti dal suo dire, capaci quindi di raccogliere l’“altissima quiete” e smarrirvi la propria coscienza. Come in un quadro di Friedrich il viandante tende a sfumare davanti al paesaggio che osserva, attingendo però a un nuovo linguaggio: “Lingua mortal non dice / Quel ch’io sentiva in seno” oppure: “E che pensieri immensi / Che dolci sogni mi spirò la vista / Di quel lontano mar, quei monti azzurri”.
Nell’incontro di due solitudini – quella sacra della phýsis e quella tremante del poeta – nel loro attrarsi inesplicabile e misterioso nasce la consapevolezza di muoversi all’interno di un cambiamento. Il poeta diventa un anticipatore che percorre il sentiero dell’esilio e affida a chi lo legge una lingua che, davanti alla contemplazione del mistero, sa coglierne l’immensità.
Ben più misera appare a Leopardi la solitudine sociale e, soprattutto, la solitudine che segue alla disillusione amorosa. È una solitudine non più soccorsa dal balsamo dell’immaginazione, è una solitudine che dilata l’estraneità dell’oggetto d’amore. Ed è dolorosamente lontana dalla figura della donna ideale – “la donna che non si trova” di platonica origine – dall’immaginazione di bellezza e virtù che si concilia con la solitudine contemplativa (poiché è tra essere e non essere, proveniente da un remoto passato, ma figura di una perfetta felicità delle cose) dove avviene l’impossibile coesistere di amore e solitudine. Il suo viso, infatti, ha “un’idea di angeli, di paradiso, di divinità, di felicità”.
Ma nella realtà ogni bellezza è immedicabilmente impari a questa immagine, appare una “finta imago”, imitazione e corruzione di quell’unico perfetto volto pensato.
Ogni bellezza terrena è l’inizio di una infinita solitudine, è esilio dalla perfezione e cifra della vanità del mito contro l’evidenza della nuda verità. Leopardi abbraccia compiutamente l’infinita miseria della solitudine del “pensiero” amoroso, “gentil errore” che non può che condurre alla disillusione, lasciandoci inerti ed estranei come cose.
37.
Una ferita “d’una intimità spaventosa”, scrive Roland Barthes, segna indelebilmente il “centro del corpo”, una “piaga radicale (alle radici dell’essere)” e non rimarginabile sfregia l’alba e il tramonto, il giorno e la notte. C’è una scheggia di eternità in questa piaga: l’esilio da questa dimensione dell’eterno è il destino ineluttabile del desiderio d’infinito (desiderio infinito, ha detto Freud) che ci abita. Il momento in cui acquisiamo questa consapevolezza è il momento del risveglio e insieme della nostra unicità. Ed è il momento di una nostalgia ingovernabile.
La nostalgia è commisurarsi con ciò che è andato perduto, confrontarsi con ciò che poteva essere e non è stato, misurarsi con ciò a cui abbiamo rinunciato. La memoria – quella che Wordsworth chiamava “punti di tempo” – diventa, come ci insegnano i greci, l’artigiano della sofferenza.
Nel Salmo 137, detto appunto dell’esilio, è scritto: “sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto al ricordo di Sion”; Madame de Staël giunse a sostenere che “la passione del ricordo è il più inquietante dolore che possa impadronirsi dell’anima”.
Ma già Immanuel Kant, in anticipo sulla psicanalisi, intuì che la nostalgia è il rimpianto di un tempo più che di un luogo: ed è il tempo dell’infanzia, delle origini, del paese natale, della genesi. L’età dell’oro, scrive Novalis, è dove sono i fanciulli che abitano il tempo che cancella la discordanza e custodisce l’armonia tra cielo e terra. Il desiderio di tornare alla dimora è il ritorno a un tempo sacro. Ne segue che non esiste alcun ritorno che guarisca questo sentimento del patire, che riscatti la sfida impossibile contro il tempo.
Esiodo e poi Platone narrano di un’epoca mitica in cui il grano cresceva senza coltivarlo e l’uomo non doveva operare alcuno sforzo per nutrirsi; Virgilio racconta di un’età dell’oro in cui le belve erano domestiche e la terra produceva ogni tipo di frutto. La vita stessa si dipanava in maniera autonoma dall’intervento umano, come indica il concetto greco di automatos bios, cioè quella condizione in cui ogni cosa accade senza che l’individuo desideri qualcosa o si adoperi per essa. È il regno dell’indistinto, dove l’assenza, il desiderio, la mancanza e il bisogno non hanno ragione d’essere. Tutto questo, dice Virgilio, è già accaduto e potrà tornare ad accadere: il mito per l’età dell’oro contiene dentro di sé una nostalgia per il passato e un desiderio per il futuro.
E ancora: Huizinga scrive, a proposito del Medioevo, del disegno di “un passato ideale”, il cui contenuto consiste nel desiderio di far ritorno alla perfezione di un passato immaginario che, osservato con il basso continuo della nostalgia, viene glorificato. Più tardi Rousseau promulgò un ritorno a uno stato di natura come ideale condizione umana.
Il sogno di tornare a una condizione felice – pervasa dalla bellezza e dalla semplicità, cioè dalla libertà dal conflitto – nutre la propria illusione nell’ipotesi di una riunione con la natura. Da Teocrito fino ai romantici del diciannovesimo secolo gran parte della scrittura è intrisa di questo rimpianto per ciò che si è perduto, è accomunata da questo voltarsi indietro.
Questo doloroso desiderio è irreparabilmente dentro il tempo in cui, secondo Jaspers, “tutto ciò che diviene deve andare in rovina”: destinato alla mortificazione, allude alla caducità delle cose e insieme all’Erlosung, la rilkiana seconda patria “ibrida e ventosa” in cui abita. Il luogo di questo invocare è Abendland, cioè terra della sera, occidente dove il sole e con esso l’uomo declina, dimora d’esilio che dice l’oscurità di un cielo ormai privo di stelle. La sehnsucht romantica, lo struggimento che nel suo consumarsi acquieta diventa heimweh, nostalgia del ritorno verso una dimora inabitabile, disperata deriva d’ogni appello.
La storia dell’uomo porta con sé una ferita irredimibile fin dalla nascita, una colpa inespiabile che rende il suo sguardo attonito e spalancato sul nulla in un corpo, scrive Trakl, “appestato di malinconia”, che si consuma nella nostalgia di un altrove trascorso, di una distanza non colmabile.
38.
Come assomiglia alla morte, amore, la tua assenza.
Grido o lamento, il dolore d’ogni abbandono è anticipazione di morte, è vita che si riduce, diminuzione di sé, luce che si assottiglia in luogo di un’ombra che si mangia il giorno. Vincola a se stessi, ci dimensiona alla nostra condizione, perché nel dolore, come nel morire, siamo insostituibili; l’esperienza della sofferenza coincide con la cognizione del proprio limite e si fa tutt’uno con il sentimento della finitudine, sospendendoci sul nulla, immobilizzandoci nella nostra precarietà.
E l’assenza è il luogo che si dilata nel limite che ci separa dalle cose e dalle persone, è il vuoto che si spalanca nel ritrarsi del mondo al nostro desiderio.
Lo spazio dell’assenza è il tempo dell’inferno.
Nei suoi versi e nelle sue lettere Emily Dickinson ci insegna che è l’assenza il vero motivo di comprensione del vivere, vincolato alla morte momento dopo momento: il mondo è essenzialmente distanza e separazione.
Nella consapevolezza dell’assenza ciò che di noi affidiamo al mondo per recuperare un senso e per riconoscerci muore, non ritorna indietro e allude a ciò che – come ha osservato Umberto Galimberti – la vita ha di irrapresentabile: la morte. Attraverso l’assenza facciamo esperienza della morte, la riconosciamo.
Solo l’arte – che viene incontro all’uomo nella forma della bellezza e accorda che anche il dolore sia guardato, rendendo compatibili, nella compiutezza della figura e della forma, l’orrido e il sublime – permette la rappresentazione simbolica del mondo assente, muta il dolore dell’assenza in ricerca di creazioni simboliche: il principe Myskin nel L’idiota o Kirillov in Delitto e castigo aprono lo sguardo sull’insanabile lacerazione del vivere umano tra possibilità di trascendenza e certezza del morire.
39.
Ma, ancora: l’assenza che ha affascinato e percorso la letteratura moderna è anche condizione nostalgica della vita che sarebbe potuta essere e non è stata, in quanto ridotta a estraneità in cui l’uomo si sente esiliato. “Ma piangeva un rimpianto senza nome / muto in me della vita” scrive Hofmannsthal: è nostalgia per l’assenza di una vita mai vissuta, di qualcosa che si è perduto senza mai possederlo. Ricorda Claudio Magris a questo proposito: “Il rimpianto non va a quella che è stata veramente l’esistenza […] bensì a un’esistenza che non c’è stata mai, a una pienezza di senso e di felicità che il bambino soltanto attendeva e l’adulto soltanto rimpiange”.
Ma allora, come si chiede Oblomov: “Quando si vive?”. L’era moderna non sa il presente, ma conosce solo un dileguare del tempo, un trascorrere senza mete né arricchimento. La vita, dice sempre Oblomov, “scorre accanto”, come un fiume. Si vive, ma senza abitare il vivere.
C’è una scrittura che persegue la vera e propria assenza come sospensione nel tempo e nello spazio, lontana dalla pienezza del vivere, dove nulla svanisce, poiché nulla accade. I personaggi di Walser mirano all’inconsistenza, alla irreperibilità, tendono a dissimularsi nell’anonimato; Bartebly, lo scrivano di Melville, sembra muoversi in un altrove inespugnabile; Wakelfield di Hawthorne vive per decenni in una latitanza solitaria e priva di ogni fremito; Niels Lyhne di Jacobsen celebra la vita come vittoria dell’effimero dove ogni giorno è solo il commiato da se stesso nel rimpianto di una totalità inarrivabile.
Il tempo scorre in un’assenza di eventi, di desideri e di attese, come nell’inerzia di un letargo o in un sonno disertato dai sogni.
40.
C’è un azzurro afflitto e ferito in Baudelaire: è l’alterità negata, di cui l’albatros – scacciato e alieno tra gli uomini – è il simbolo sacrificale nel suo farsi archetipo del poeta in esilio, nel suo addossarsi la desolazione della caduta. Additando la differenza tra le ali smisurate e l’inciampo del cammino, tra il volo e la segregazione, nel suo impacciato supplizio l’albatros conserva l’eco della condizione prima dell’esilio. Baudelaire ravvisa nell’esilio un duplice stato: distacco dal prima la cui presenza pur continua ad aleggiare, lontananza e afflizione del dopo.
41.
Da quando la condizione umana dell’esodo si cronicizza configurandosi come quella dell’uomo in esilio?
Nel mezzo di un roveto che non brucia, l’angelo di Dio, manifestandosi sotto forma di una fiamma di fuoco, indica a Mosè la via dell’esodo dall’Egitto degli ebrei verso la Terra Promessa.
L’esodo prevede l’attraversamento del deserto e nel suo percorrerlo l’uomo – stremandosi il proposito realistico che lo accompagna e ne guida il desiderio verso un altrove – osserva la Terra Promessa sempre più come un inaccessibile luogo da rimembrare e al cui pensiero si allatta un sentimento di malinconica nostalgia.
L’idea di un altrove cambia presto in un ideale d’altrove e l’esodo si fa insanabile diventando esilio.
E il deserto è una trasparente metafora della condizione dell’esilio: mentre alle spalle si svanisce la sagoma della terra natale e da cui ci si separa come da un’amata, dinanzi si presenta solo una larghezza di sabbia di cui non si indovina il finire, moltitudine indefinita di granelli di estraneità senza conforto né riparo.
42.
Nella leggenda dell’ebreo errante, Cristo condanna Ahasvero all’immortalità: l’uomo che lo deride sul Calvario mentre egli si avvia a morire viene punito con l’impossibilità di morire e reso estraneo, con questa durata senza fine, alla vita degli uomini.
È l’esilio assoluto: l’estraneità alla caducità delle cose.
43.
Nel ciclo di 24 lieder Winterreise di Schubert viene descritto un solo stato d’animo, quello della disperazione. Il cammino solitario attraverso la natura invernale conduce al vuoto, alla dissoluzione.
Il giovane con una ferita incurabile al cuore – luogo comune del Romanticismo da Byron in poi – è qui spinto a una condizione che confina con il patologico: è il vagabondare di un monomaniaco perdutamente innamorato nell’ostile e gelido paesaggio invernale, inospitale come in un dipinto di Friedrich, dove si trascina come un misantropo verso la distruzione.
È il simbolo ingigantito dell’uomo romantico in preda ai suoi sentimenti, dello straniero senza casa sulla terra gelata, del fuggitivo al mondo, escluso dalla compagnia degli uomini dalla forza soverchiante e autodistruttiva delle proprie emozioni.
Il tutto in una percezione d’estraneità che non ammette sviluppi né conciliazioni tra il wanderer e il mondo, ma soltanto un progressivo sprofondamento.
44.
L’unico momento in cui il wanderer schubertiano compie una scelta deliberata è nell’ultimo lied, Der Leiermann, ed è questa scelta a fissare nella sfera della necessità la svolta finale della Winterreise.
In quest’ultima tappa il viandante incontra un uomo, un reietto come lui che suona un organetto: lo sguardo del wanderer è ora nel registro del simbolico, che sa distinguere e interpretare ciò che vede, mentre nella prima parte della Winterreise si muove nel registro mimetico, dove il paesaggio invernale mima, appunto, un paesaggio interiore di desolazione e di disperazione.
Der Leiermann è il Doppio infero del viandante, è una figura della morte che si presenta al wanderer come un suo Doppio. L’Ade non ha messaggi per il viandante: è lui che deve scegliere il suo stato di vita-in-morte, e trasformarsi da attore della sua vicenda in autore del racconto del viaggio.
45.
In Lucrezio ricorre frequentemente il termine nequiquam: invano. È l’avverbio che percorre tutte le sue pagine, da cui emergono la tragedia amorosa, il tormento che divide gli amanti, l’inferno gelido e sgomento in cui franano. C’è una solitudine incurabile nell’esilio lucreziano, perché il suo esilio non è lontananza dal luogo amato ma presentimento che il luogo amato non è più abitabile, non è più proprio, forse non lo è mai stato.
I corpi non si accostano, non si appressano uno all’altro, si sporgono affannati e perduti, brancicando nel nulla, afferrando l’altro senza indulgenza, senza dolcezza.
L’uomo di Lucrezio soffre per un vulnere caeco, una ferita cieca e enigmatica senza medicamento che ne allevî il sanguinare, in un sentimento d’estraneità dove anche l’origine stessa del male è oscura.
46.
Scrive Platone nel Fedone che “ogni piacere e ogni dolore, come se avesse un chiodo, inchioda e fissa l’anima nel corpo, la fa diventare quasi corporea”. Un tempo, quindi, nel tempo del mito e della poesia tragica, corpo e anima erano uniti, meglio: “inchiodati insieme”. Una volta schiodati dalla potenza della filosofia si sono dissimulati in una singola propria irreperibilità, vivendo ognuno l’esilio della propria oscurità.
Agathe, nell’Uomo senza qualità, ripete spesso una frase di Novalis: “Che posso fare per la mia anima che abita in me come un enigma insoluto?”. E la stessa Agathe guarda nello specchio l’immagine del suo corpo nudo, con un sentimento di stupore da cui sporge il profilo sconosciuto di una rivelazione ancora confusa e ignota, necessaria, ma sfuggente. Il suo sguardo in realtà sembra volgersi altrove, lontano dall’immagine del proprio corpo che lo specchio riconsegna come un panorama sconosciuto, come una terra inesplorata: è lo sguardo sulla caducità, sulla labilità, sull’impermanenza dell’essere che affiorano dall’usura del tempo e dalla seduzione della morte.
47.
La poesia si allatta alla propria polvere, si alimenta della propria rovina.
Eppure la poesia chiede alla lingua di resistere al sonno d’ombra nel donare fiato alla memoria dopo la caduta, malgrado il distacco, principiando dalla perdita.
Facendosi carico dell’azzardo di diventare indicibile, di contrarsi in un groviglio nella gola, di irrigidirsi in un lamento inarticolato, la poesia s’ostina a voler dire una parola perduta e dispersa come il ricordo a cui deve il respiro, come il viso o la terra amata che ha strappato il nome del ricordare dai suoi occhi così chiari di un dolore inascoltato, ignoto a se stesso.
Ogni esule porta appese al collo le parole di Adonis a proposito di Orfeo: “la poesia a nulla gli è servita, / e l’amore a nulla gli è servito”.