Ancora su “Biografie e bibliografie”

Copertina per incontri tematici2di Carlo Prosperi, 27 gennaio 2023

La mostra “sentieri in utopia“ è tutt’altro che conclusa: prosegue semmai virtualmente. Continuiamo infatti a proporre le trascrizioni o le rielaborazioni degli interventi effettuati dagli amici in occasione dei tre “incontri” di conversazione.

È la volta ora di Carlo Prosperi, che con la consueta puntualità e acutezza allarga il campo d’indagine al rapporto vita-opere negli intellettuali di ogni epoca. Il tema in effetti è sempre “caldo”, ed è decisamente insidioso. Come scriveva in un precedente intervento Maurizio Castellaro, a proposito dei nostri eroi letterari: “[…] la loro vita reale aveva un qualche rapporto con quello che scrivevano? Davvero, da queste domande non ne esco vivo, e allora provo a semplificare”. Bene, ci provo anch’io, limitandomi però per il momento a rilanciare, anzi, a riformulare la domanda. Ovvero: dando per scontato che un rapporto tra come si vive e cosa si scrive esiste sempre, la linearità o la contraddittorietà di questo rapporto hanno una qualche rilevanza “oggettiva” come strumenti di interpretazione (e diciamolo pure, di valutazione) dell’opera? Detto più brutalmente: visto che l’autore scompare e l’opera rimane, devo leggere quest’ultima senza lasciarmi influenzare da eventuali incoerenze biografiche e dalle insofferenze che queste mi ingenerano? Personalmente ho dei dubbi in proposito, ma mi riservo di argomentarli in altra occasione: e lascio spazio a Carlo, che molti di quei dubbi me li ha già sciolti.
P.S. Non tutte le immagini che abbiamo inserite sono associabili a questo testo. Ma al tema, indubbiamente, si. (Paolo Repetto)

Sono convinto che la biografia sia importante per comprendere l’opera di un autore o, meglio, le motivazioni che l’hanno indotto a scrivere e magari a scegliere certe tematiche invece di altre. Ma nella biografia vanno comprese le influenze che cultura e letteratura, cioè le letture fatte, la bibliografia esperita, hanno esercitato su di lui. Il compianto Giorgio Barberi Squarotti soleva dire che, sì, la realtà storica, le milieu et le moment, e la stessa vita, la psicologia dell’autore valgono a spiegarne gli orientamenti ideali e ideologici, le idiosincrasie, a volte anche la mentalità, la preferenza per taluni argomenti, ma non sono decisivi. Al limite, i soggetti trattati sono indifferenti: quello che conta è come vengono trattati, la forma che assumono, i generi in cui si inseriscono (dialogicamente), lo stile. Senza contare che spesso lo scrittore si misura e fa i conti con l’immaginario collettivo, con il patrimonio di storie, di idee, di miti, di topoi e di suggestioni (anche figurative, musicali e cinematografiche) che lo alimentano. Tra questo – che costituisce il mondo delle forme – e la realtà c’è un continuo rimpallo, un assiduo rimbalzo, una contaminazione perenne: in altre parole, un rapporto dialettico permanente. Fondamentale, insomma, è l’intertestualità, perché la letteratura è un inesauribile gioco di specchi.

Di Omero, ma anche degli autori della Bibbia, de Le mille e una notte, di tante altre opere mitografiche, epiche o narrative, come, ad esempio, il Kalevala, La storia di Gilgamesh, i Veda, poco o nulla sappiamo, ma la contestualizzazione storica e geografica ci aiuta a comprenderne lo spirito: segno che lo Zeitgeist lascia sempre un’impronta notevole sulla produzione estetica. Nessuno sfugge al proprio tempo, alla realtà materiale e culturale che lo informa. Negli stessi classici è possibile cogliere la temperie dell’epoca, tracce di colore locale e temporale; se sono classici, però, è perché il loro respiro li trascende, perché più di altre opere sanno scavare a fondo nel cuore e nell’anima dell’uomo, cogliere e testimoniare quanto c’è in essi di perenne, oserei dire di eterno. Chi non crede nella “natura umana”, chi la nega, chi ritiene che l’uomo sia un animale come gli altri, vale a dire un prodotto della storia e dell’evoluzione, la penserà diversamente.

Ciò considerato, possiamo affrontare il problema della coerenza tra vita e opera. Che è anche il problema dell’identità. Ora, solo Dio – se esiste e se è fuori del tempo – può vantare un’identità perfetta, stabile e assoluta, non soggetta agli inconvenienti dell’esistenza. Ma per chi vive nel mondo sublunare l’identità deve scendere a patti col divenire, declinarsi come processo: è quindi un punto che si fa linea. E la coerenza coincide sostanzialmente con la rettitudine: concetto che potremmo spiegare come un accordo tra il prima e il poi, come un adeguamento non conflittuale o comunque in grado di riassorbire senza traumi ogni contrasto in una sintesi di vecchio e nuovo che si configuri come un arricchimento progressivo. Come una crescita della persona. Senza degenerare, senza tralignare, senza tradire. Ovviamente, dal momento che lo spirito è forte, ma la carne è debole, dinanzi agli infiniti bivi o trivi che la vita ci presenta sono sempre possibili dubbi, esitazioni, errori, smarrimenti. Tale evenienza era dagli antichi raffigurata nell’immagine di Ercole al bivio. L’importante è ravvedersi per tempo. Errare è umano, diabolico perseverare. La coerenza esige tempestivi aggiustamenti di rotta, al di là, appunto, dei possibili traviamenti. Solo all’intransigenza dei moralisti sfugge che l’uomo è un “legno storto”. Nel loro astratto rigore, essi non perdonano all’uomo le sue contraddizioni, ma il mondo in bianco e nero che essi vedono non è quello, ricco di infinite nuances (e di colori), che ci sta davanti agli occhi: è un mondo daltonico. O manicheo. La coerenza che essi pretendono alberga solamente nell’iperuranio. Questo per dire che, quando si parla di coerenza, non si deve esagerare. Noi ci accontentiamo di un’onesta rettitudine.

Ancora su Biografie e bibliografie (2)

Poi, anche qui, si può discettare di evoluzione e di involuzione. Ma non è detto che a distinguere la prima dalla seconda non concorra l’orientamento ideologico di chi giudica, guardando da fuori. Mettiamo che il punto di partenza, anzi il presupposto, alla luce dell’esperienza via via maturata si riveli sbagliato: sarà più onesto, allora, proseguire sulla via intrapresa in nome di una presunta coerenza o invertire marcia? O imboccare un’altra strada, anche a costo di rinnegare le scelte fatte in precedenza, in buona fede ma senza averne adeguata contezza? La coerenza nel perseguire la verità in questo caso fa aggio sull’ostinazione, che è coerenza ingiustificata e quindi solo apparente. Per spiegarmi meglio, voglio portare qualche esempio. Prendiamo Dante, passato dall’aristotelismo radicale del Convivio, incentrato su una fede assoluta nelle potenzialità della ragione, vista come unica bussola per chi voglia «seguir virtute e canoscenza», alla fede nella teologia incarnata da Beatrice, disdegnata invece dall’amico Guido Cavalcanti. La Divina commedia, sotto tale aspetto, si presenta come una palinodia del trattato, rimasto non a caso incompiuto. Nel Purgatorio il poeta taccia di follia la presunzione della ragione: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone»; e pertanto ammonisce i lettori: «State contenti, umana gente, al quia, / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria, // e desiar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto» (ed accenna ad Aristotele, a Platone e a “molti altri”). Invece di imitare Ulisse nel «folle volo»[1] che lo porta a perdersi senza risultato, ingannando con la sua splendida retorica[2] i pochi compagni superstiti, Dante si ravvede e alla hybris della ragione preferisce l’umiltà (ne è simbolo il giunco di cui lo cinge Catone sul lido del Purgatorio), la pietas di Enea che tanto contrasta con l’empietà di Ulisse (esemplificata non solo dall’aver trascurato i suoi doveri di padre, di marito e di figlio, sì anche dall’aver violato i limiti posti da Ercole «acciò che l’uom più oltre non si metta»).

La fraudolenza che condanna il Laertiade all’inferno è nelle parole, anzi nell’«orazion picciola», con cui egli convince la «compagna / picciola» a seguirlo nell’impresa dissennata: le nobili motivazioni da lui addotte sono mistificanti. Quale “virtù” può infatti animare chi trasgredisce consapevolmente le leggi divine e umane? Non certo quella che deriva, a suo dire, dal «divenir del mondo esperto / e delli vizi umani e del valore», giacché sa bene di avventudi di avventurarsi in un «mondo sanza gente». Ed anche la sua profana curiositas rimarrà delusa: egli non avrà contezza alcuna né della montagna «bruna / per la distanza» che riuscirà solo a intravedere né della vera ragione del suo naufragio. Si renderà nondimeno conto – per dirla in termini zanzottiani – dell’“oltraggio” rappresentato dalla sua “oltranza”, ma non dell’identità del suo punitore, che resterà per lui un’oscura forza del destino: «come altrui piacque». La via scelta da Dante, all’insegna della humilitas, è per contro destinata al successo. E il poeta ne ha (e ne dà) un segno nel giunco che miracolosamente, proprio «come altrui piacque», spunta al posto di quello strappato da Catone per munirne Dante sulla spiaggia del Purgatorio. Il viaggio ultraterreno del poeta – che sa benissimo di non essere né Enea né San Paolo – si realizza nel segno della grazia, non della sfida.

Ancora su Biografie e bibliografie (3)

Ancora su Biografie e bibliografie (5)Un altro esempio, piuttosto clamoroso, di apparente incoerenza o, se vogliamo, di involuzione è quello di Giosue Carducci: giacobino sfrenato (basti pensare ai sonetti del Ça ira) e anticlericale (fino a rasentare la blasfemia nell’Inno a Satana) in gioventù, nell’ultima fase della sua vita giungerà a riconoscere i meriti sia della monarchia sia del cristianesimo (cfr. La chiesa di Polenta) e in ogni caso i bollori rivoluzionari della giovinezza si stempereranno in una visione più pacata e pacificata della realtà. Vi contribuiranno pure le sventure familiari, come la morte del fratello e del figlioletto, ma anche l’incontro con la regina Margherita, dal cui fascino femminile resterà ammaliato. Parafrasando un detto famoso, mi verrebbe da dire: chi non è stato “rivoluzionario” a vent’anni non è mai stato giovane, chi continua ad esserlo in seguito non ha mai raggiunto la maturità. Ma a questo punto si può ancora parlare d’incoerenza o, peggio, di involuzione? Troppo facile per “gli storici del dopo” rinvenire nella storia una razionalità e un rapporto causa-effetto che a chi l’ha vissuta da dentro, nell’hic et nunc, di rado appare come tale: speranze, illusioni, cecità e fraintendimenti ne fanno parte e la visione d’insieme che ne ha il singolo individuo è spesso “falsa” (nel senso spinoziano del termine, cioè parziale e incompleta), quando non anche viziata da egoismi o da ideologismi. Non voglio credere che quegli intellettuali e quegli scrittori che, dopo avere militato, alcuni per anni, nelle file del fascismo, all’indomani della sua caduta passarono armi e bagagli alla corte di Togliatti, fossero tutti opportunisti e in malafede, ma nel novero molti furono tali. E non esitarono a saltare sul carro del vincitore.

Ancora su Biografie e bibliografie (6)Ma il discorso non riguarda solo gli italiani. Se prendiamo in considerazione Wystan Hugh Auden, è facile accorgersi di come suoni a vuoto (per non dire falsa) la campana dell’”impegno” di cui negli anni Trenta fu il portabandiera.

Auden fu infatti l’incarnazione di quella Auden Generation, di cui il rosso ideologico fu il colore politico dominante. Fu lui nella poesia Spain a parlare di poeti «rombanti come bombe» e della «consapevole accettazione della colpa di fronte al delitto necessario». Una frase simile – ebbe a notare George Orwell – avrebbe potuto scriverla «solo una persona per la quale l’assassinio è al massimo una parola. Il tipo di amoralità di Auden è possibile soltanto se siete il genere d’uomo che si trova sempre in un altro posto nel momento in cui si preme il grilletto». Parole profetiche: non a caso, nel settembre 1938, mentre era in corso la Conferenza di Monaco, il poeta inglese si affrettò a preparare i bagagli per emigrare negli USA. Molti intellettuali del suo calibro, in effetti, al di là delle prese di posizione a favore dei più nobili ideali, trovano difficile aderire ad altro che a se stessi. Ma qui andiamo ben oltre l’umana incoerenza: qui c’è anche del cinismo e della malafede. Cose che invece non ravvisiamo, ad esempio, nella “conversione” del Manzoni, che pure lo portò a un profondo cambiamento di poetica, oltre che di vita. E tanto meno nel progressivo accentuarsi e affinarsi del pessimismo di Leopardi nel passare dalla fase “storica” a quella “cosmica”, a quella “agonistica” della Ginestra.

Ancora su Biografie e bibliografie (7)Un certo opportunismo è stato denunciato da taluni critici anche nel Segretario fiorentino, che, da tecnico della politica, dopo essersi speso al servizio della Repubblica, mise le sue indubbie competenze a disposizione dei Medici. In questo c’è indubbiamente qualcosa di vero, ma, a ben guardare, si può rilevare una profonda e sotterranea coerenza tra il Machiavelli dei Discorsi e quello del Principe, dal momento che per lui lo Stato è comunque il bene primario, anzi l’unico fine che davvero giustifichi i mezzi [«Faccia dunque uno principe di mantenere lo Stato, e i mezzi saranno ritenuti laudevoli e da ciascuno laudati»]. E questo perché egli ha una visione antropologica negativa: l’uomo è malvagio di natura, egoista, smanioso di potere e di piacere, avido di ricchezze, tanto che «sdimentica più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio». Senza la maestà dello Stato che tiene a freno la violenza, regnerebbe l’anarchia e con essa la legge del più forte. Come i pesci di cui parlava Sant’Ireneo di Lione, il più grande mangerebbe il più piccolo. Per questo la preservazione dello Stato può richiedere pure il ricorso a mezzi estremi: non si tratterebbe di immoralità, ma di sacrifici necessari. Come quello del giocatore di scacchi che per vincere la partita deve all’uopo saper rinunciare a qualche pezzo. Come quello del chirurgo, che per salvare una vita deve essere pronto, all’occorrenza, ad amputare qualche membro. La moralità della politica, se così si può dire, è garantita dall’augusto suo compito.

Qualcuno fa notare che, nello scrivere il Principe, Machiavelli abiura la sua fede repubblicana: in realtà così non è. Egli rimane pur sempre dell’idea che la forma repubblicana di governo sia migliore del principato, in quanto, dove a governare è un Consiglio, la morte di uno degli amministratori non comporta la crisi dello Stato, mentre, se muore un principe, può crearsi una vacanza di potere e non è detto che il successore sia all’altezza del ruolo. E resta comunque il fatto che i fondatori degli Stati sono, in genere, persone singole, dotate di carisma: una qualità che non è tuttavia trasmissibile ereditariamente.

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Ma, a proposito di malafede, credo che la palma di primo della categoria, vada assegnata a Jean-Jacques Rousseau, il quale negli scritti si distinse sempre per il suo umanitarismo buonista e sempre inneggiò alla sacra triade liberté, égalité, fraternité, non esitando però ad abbandonare nei brefotrofi dell’epoca i figli nati dalle sue liaisons sentimentali. Ciò non significa che le sue opere non meritino di essere lette e tenute in considerazione; è tuttavia il caso di ricordare che molti predicano bene ma razzolano male. Per cui bisogna guardarsi da una identificazione troppo stretta tra biografia e bibliografia. Se l’arte – come abbiamo detto – è sempre un gioco di specchi, è fatale che la realtà ne riesca talora travisata. A volte redenta, a volte dannata, raramente qual essa è. Erano il Latini a dire: lasciva nobis pagina, sed vita proba. Né si può sempre presumere che un autore sia costantemente all’altezza della sua opera. Di conseguenza è lecito non provare alcuna simpatia per lui, senza per questo cessare di apprezzarne genio e talento. Almeno quando non manchino. E basterebbe, allora, fare un nome: Céline.

[1] La metafora del “folle volo”, con i remi della barca divenuti “ali”, rimanda chiaramente alla vicenda di Icaro, da tempo assunta come immagine o simbolo di hybris, d’intemperanza se non proprio di tracotanza, contro ogni classico ammonimento alla metriotes, all’est modus in rebus. La metafora s’inserisce perfettamente nell’atmosfera del canto, connotata appunto da tutta una serie di voli: da quello della trista nomea di Firenze che si spande nell’inferno a quelli delle lucciole che subentrano, a sera, alle zanzare, dal volo di Elia sul carro di fuoco alle fiammelle volitanti per la bolgia in cui ardono i fraudolenti.

[2] Si noti come Ulisse tenda artatamente ad attenuare la portata del suo discorso (quattro parole parenetiche ovvero – dice lui – una «orazion picciola») enfatizzandone però gli effetti (a fatica avrebbe potuto trattenere i suoi compagni – quattro gatti ormai, una «compagna / picciola») – dopo averli istigati). Poco resta loro da vivere (una «picciola vigilia» dei sensi e niente più): perché dunque non togliersi lo sfizio di andare ad  esperire il «mondo sanza gente»? Le motivazioni sono all’apparenza nobilissime, se l’impresa non fosse temeraria e non comportasse una sfida per certi versi prometeica e quindi sacrilega (Ercole era stato assunto fra gli Dèi). Senza contare che dove non ci sono uomini difficilmente sarà dato rinvenire «vizi umani» e umano «valore»: nel discorso c’è dunque un fondo di malafede. D’altra parte l’«orazion picciola» si apre con una captatio benevolentiae: Ulisse, il capo, apostrofa i compagni chiamandoli “fratelli” e prosegue con una iperbole («per cento miglia / perigli») ed una anfibologia («siete giunti all’occidente»: l’occidente qui non è solo un’indicazione geografica, ma sta pure a indicare il tramonto, la fase declinante della vita), con una perifrasi metaforica (appunto la «così picciola vigilia / de nostri sensi, ch’è del rimanente») e una litote («non vogliate negar»); tutto è infine suggellato dalla gnomica considerazione finale, che tanti critici hanno preso per oro colato, dimenticando che di nobili intenzioni è lastricata la strada dell’inferno. Sono i guasti della retorica. Ulisse riesce a guadagnarsi la solidarietà o, meglio, la complicità dei compagni ammannendo loro un piccolo capolavoro di mistificazione.

Convers(az)ione in Sicilia

Note sparse da una passeggiata sull’isola

di Paolo Repetto, 8 gennaio 2023

Numquam tam mal est Siculis quin aliquid facete et commode dicant
… quod esset acuta illa gens, et controversa natura
(Cicerone, In Verrem e De oratore)

Ho deciso di vedere la Sicilia giusto in tempo. In tempo per me, che ho ormai toccato i tre quarti di secolo e avrò sempre meno voglia e forze per viaggiare, ma anche per la Sicilia. Già dall’estate prossima, infatti, calerà probabilmente sull’isola un’orda di americani e di inglesi, ammaliati da una serie televisiva che è andata in onda nei paesi anglosassoni la scorsa stagione (The white lotus) e ambientata a Taormina. Questo significherà prezzi alle stelle e impossibilità di trovare sistemazioni. A breve, poi, se il mutamento climatico procede con questo ritmo, sparirà anche l’ultima parte del ghiacciaio dall’Etna, modificando irrimediabilmente l’immagine più iconica del paesaggio siciliano. Infine, non meno grave, c’è il rischio che Salvini venga preso sul serio e si cominci a costruire il famigerato ponte sullo stretto (che nessun indigeno, a quanto ho potuto appurare, vuole). Per fortuna in questo caso possiamo sperare in tempi assai più dilatati, e tecnicamente non cambierebbe granché: ma nell’immaginario a quel punto la Sicilia non sarebbe nemmeno più un’isola.

Non sono stati comunque questi timori a farmi decidere. Prima di partire, di queste cose o non sapevo o non mi importava nulla. Ero invece infarcito di pregiudizi, di quelli correnti e anche di alcuni miei particolari, e se non avevo mai voluto visitare quella parte del nostro paese era proprio per il timore di vederli confermati. Per l’occasione non li ho lasciati a casa, ciò che potrebbe sembrare mentalmente più ecologico: li ho invece messi nello zaino, e ne sono contento, perché così ho potuto liberarmene per strada.

Prima di muovermi non mi sono documentato su guide o su narrazioni altrui: non ho nemmeno progettato un itinerario. È una scelta che faccio sempre, scientemente. Ciò che davvero m’interessa preferisco scoprirlo in loco; di norma arriva da dove meno te lo aspetti. Ho dunque girato per una decina di giorni a naso e ho comprato una carta stradale della Sicilia solo prima di venir via, ma più che altro per verificare cosa mi ero perso (e anche perché in precedenza non ne avevo trovato una decente, pur cercandola in più di una edicola o libreria: a quanto pare non usano più, sono state sostituite da Google Map, ed è un modo completamente diverso di programmare e di compiere i percorsi).

Anche stavolta sono riuscito comunque a fingere per il viaggio una motivazione e una giustificazione più “alte”, a tradurlo in una sorta di pellegrinaggio. Doppio, in questo caso, perché includeva una ricognizione delle terre di Verga (e di De Roberto e di Pirandello) e quattro passi sulle orme di J. G. Seume. Volevo vedere dove avevano scritto i primi e dove aveva camminato l’altro. Sono partito quindi per andare non a conoscere, ma a riconoscere: che non è un bel modo di viaggiare, e mette a rischio di delusioni, ma è quello cui sono condannati coloro che hanno viaggiato troppo sui libri.

Infine: malgrado sia stato e sia tuttora un divoratore di narrativa di viaggio, non ho mai raccontato un viaggio mio. Intanto perché mi sono sempre limitato a esperienze piuttosto banali, se valutate secondo i parametri dell’avventura e della scoperta, ma soprattutto perché non possedendo doti di narratore renderei banale anche ciò che magari tale non è. Mi limito dunque a mettere in fila qualche estemporanea considerazione che il viaggio mi ha suggerito.

Il paesaggio eterno. Accennavo sopra al bagaglio di pregiudizi sulla Sicilia e sui siciliani che mi sono portato appresso. In realtà, per quanto concerne la “fisicità” dell’isola, più che di pregiudizi si trattava di immagini desunte da Verga, dalle sue novelle ambientate “fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa, lontan lontano, verso l’Etna nebbioso”, quei campi sui quali si erano spezzati la schiena Mastro don Gesualdo e Mazzarò, mentre la Lupa affastellava manipoli, senza fermarsi nemmeno “allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana”. L’impressione che ne avevo tratto era quella dell’aridità afosa, il colore quello dai campi bruciati dal sole, con una vegetazione rada e stentata, qualcosa di simile alle savane semidesertiche dell’Africa o della parte centrale dell’Asia. Certo, erano rappresentazioni estive, e immagino veritiere. Io ho però girato l’interno dell’isola in pieno inverno, godendo di una sequenza ininterrotta di giornate di sole, e mi sembrava di essere in Irlanda (con la differenza appunto che qui non pioveva). Sono transitato per valli e colline dai profili dolcissimi, per la massima parte coltivate a grano, nelle quali le spighe precocemente spuntate, di un verde brillante, creavano immensi tappeti ondulati. E appena la linea delle colline si drizzava un poco il colore sfumava nel verde opaco degli uliveti, e a interromperlo c’erano solo a tratti le macchie geometriche rosso-brune dei vigneti spogli. Mi è apparsa una terra incredibilmente ricca, laddove sino a ieri l’avevo immaginata povera e avara. Le nostre colline, al paragone, devono abbassare la testa.

L’elemento fondamentale del paesaggio, sbarcando come ho fatto io a Catania, è naturalmente l’Etna. Come metti piede a terra te lo trovi lì, e continui ad averlo davanti sempre, dovunque ti sposti. Eppure l’impressione immediata è tutt’altro che di imponenza. Sulle prime il vulcano mi ha dato l’idea di non essere molto più alto del Tobbio, mentre in realtà lo è tre volte di più. Inganna per la pendenza lieve dei suoi fianchi, per il rapporto tra l’altezza e l’area della base. Per questo sembra sempre vicinissimo, anche quando ci sono di mezzo decine di chilometri. E comunque l’impressione rimane tale anche quando sei alle pendici o lo risali sino a qualche centinaio di metri dalla vetta. Insomma, quello che colpisce è la sproporzione tra le dimensioni percepite e gli effetti delle eruzioni, che riscontri sino a distanze incredibili.

Conversione in Sicilia 02

Il paesaggio odierno. Era uno dei temi dolenti. Da quanto avevo appreso dai conoscenti o dalla narrazione televisiva mi aspettavo strade disastrate, non finite, a perdersi nel nulla. Al contrario. Ho viaggiato quasi costantemente su fondi stradali molto migliori di quelli delle nostre provinciali, orientandomi grazie a una segnaletica efficace. Per chi ami guidare, la Sicilia offre percorsi straordinari. La differenza rispetto al Nord è che sono raramente intervallati da paesini: si incontrano quasi sempre agglomerati piuttosto consistenti, e questo è il retaggio di campagne rimaste semifeudali sino al secolo scorso, nelle quali la piccola proprietà contadina non esisteva.

Nelle città maggiori, ma anche nei centri più piccoli, il traffico è costantemente intenso. Avendo pernottato in più di un’occasione a Giarre, che è un centro di media grandezza piuttosto anonimo, privo di richiami turistici e di una vocazione economica specifica, ho continuato a chiedermi verso cosa si affrettassero tutti quegli automobilisti che transitavano ad ogni ora per la via principale. Non è comunque un traffico caotico. E questo a dispetto del fatto che siano in funzione pochissimi semafori: due terzi sono fuori uso, o sono stati addirittura rimossi, eppure la circolazione scorre fluida. Sempre a proposito di rimozioni, in tutto il viaggio non ho pagato una sola volta il parcheggio: le macchinette distributrici dei biglietti sono state sapientemente neutralizzate o asportate ovunque. Il problema sono piuttosto i bordi delle strade. In molte località, soprattutto quando si procede verso la parte occidentale dell’isola, le aree di emergenza sono utilizzate come vere e proprie discariche. Era una delle cose che temevo di vedere, e purtroppo l’ho verificata. Ma non sono riuscito a darmene una spiegazione. Mi sembra impossibile che una popolazione per altri versi così civile e orgogliosa della propria terra non si renda conto del danno di immagine che questa sconcezza provoca. D’altro canto, in diversi centri la raccolta avviene ancora porta a porta, col risultato di cumuli di sacchi dell’immondizia che spesso ostruiscono i marciapiedi e che non offrono certamente uno spettacolo decoroso. Questo, e il fatto che il fenomeno delle discariche stradali sembra localizzato a macchia di leopardo, in alcuni comuni e non in altri, induce il sospetto che al di là dell’incuria delle amministrazioni ci sia dietro qualche giro d’affari poco chiaro.

Un’altra peculiarità è costituita dal numero spropositato di viadotti. Non trattandosi di un paesaggio andino, e nemmeno appenninico, molto spesso le bretelle sopraelevate di cemento vanno a livellare pendenze molto dolci, che si sarebbero potute affrontare con percorsi che seguissero le inclinazioni del terreno, un po’ come accade in Francia. Un amico malizioso mi ha suggerito che i viadotti servono, più che per ciò che passa sopra, per ciò che può essere occultato nei piloni. Al di là della battuta, lo spreco di denaro pubblico qui salta veramente agli occhi.

Uno stereotipo che avrei voluto invece vedere confermato riguarda il costo minore della vita. Almeno per quanto concerne la ristorazione è falso. Ho mangiato benissimo, ma con un livello medio di spesa pari se non superiore (tra i venticinque e i trenta euro, limitandomi a un primo ed un secondo) a quello che avrei incontrato al Nord. E questo non soltanto nelle località più gettonate, in riva al mare o nelle città d’arte, ma anche all’interno. Non ho trovato menù turistici, pur essendo uno che a queste cose ci bada, e ho constatato che non è diffusa neppure l’offerta del “pranzo di lavoro”, quella che dalle nostre parti consente di pranzare decentemente, se non si hanno pretese particolari, con dodici o quindici euro (persino in Liguria, che è tutto dire). In compenso i ristoratori ti sfilano i soldi con una simpatica e sincera cortesia, caratteristica questa che ai liguri e ai piemontesi non appartiene. La battuta immediata del solito amico è stata che giustamente dove non si lavora i pranzi di lavoro non sono contemplati. Fino a quindici giorni fa l’avrei sottoscritta, ma dal poco che ho potuto vedere i siciliani mi sono parsi molto attivi. Evidentemente hanno abitudini prandiali diverse dalle nostre.

Conversione in Sicilia 03

Il paesaggio storico. Sapevo che avrei incontrato in Sicilia molta architettura barocca, e non è stata certo questa la molla che mi ci ha portato (il barocco non gode delle mie preferenze). Non immaginavo però tanta opulenza ostentata. Quando a Noto, a Scicli, a Modica e nella stessa Catania ti riscuoti dal primo stordimento, quello prodotto dal susseguirsi uno di fianco all’altro di sontuosi palazzi che rivaleggiano in decori e volute, o dalle imponenti facciate di decine di chiese che testimoniano la passata potenza delle confraternite e degli ordini religiosi più mal noti, non puoi non provare una sensazione di disagio. Realizzi che questa terra deve essere stata un tempo davvero molto ricca, e che questa ricchezza era scandalosamente maldistribuita, molto più di quanto non lo fosse altrove. E viene spontaneo associare immediatamente tale sperequazione alla decadenza di cui proprio quegli edifici sono per contrasto testimoni. Non ho mai provata un’impressione del genere a Genova, a Torino, a Milano, dove pure i palazzi signorili non mancano, ma non trasmettono così sfacciatamente l’idea dell’esibizione del potere e della ricchezza. Il risultato è che per quanto mi riguarda non ho potuto separare per un attimo quelle immagini dal pensiero di quanto sudore e quanta miseria ci fosse dietro. Non sono l’unico: coloro cui ho confidato questa impressione mi hanno confermato di aver provato una identica malinconia, e persino rabbia, anziché uno stupore ammirato.

Lo stesso discorso vale per le meraviglie architettoniche e decorative di epoca romana. La villa del Casale di piazza Armerina, ad esempio, ti lascia sulle prime stupefatto, poi, di mano in mano che scopri gli incredibili mosaici e l’idea di lusso che dovevano veicolare pensi sempre più a chi quelle opere le ha realizzate e a chi a questo lusso era completamente sacrificato. Se un’idea mi ha percorso la mente è quella della freddezza inumana di chi ci abitava.

Un po’ diversamente stanno le cose per i resti greci di Siracusa e della Valle dei Templi. Non che dietro non si percepisca altrettanta spietatezza e sofferenza, ma il fatto che i teatri e i templi erano destinati all’uso pubblico rende un po’ più accettabile l’idea. Questo vale tanto più, e mi rendo conto che si tratta di una reazione puramente emozionale, per gli innumerevoli castelli coi quali il potere svevo-normanno, personificato soprattutto da Federico II, ha segnato il territorio. Anche in questo caso entra in gioco l’idea di un uso di difesa pubblico, che corrisponde solo in parte al vero: i castelli, quelli federiciani in primis, avevano in realtà lo scopo di far percepire la presenza di un potere superiore a quello dei baroni e delle tante famiglie nobiliari che amministravano il territorio.

Di fatto, l’imbattermi costantemente in queste formidabili costruzioni (ne ho visti solo una dozzina, e visitati solo una metà, ma in tutta la Sicilia ci sono più di duecento castelli medioevali), per la gran parte in qualche modo riferibili allo “stupor mundi”, mi ha portato a riflettere su cosa avrebbe potuto significare per il nostro paese la realizzazione del sogno di Federico di un unico regno, e l’uscita dalla soggezione al potere della chiesa. Avremmo avuto ottocento anni per diventare una vera nazione, e per sviluppare quel minimo di senso civico che può tenerla assieme.

Ho anche scoperto un personaggio del quale avevo forse già avuto qualche sentore in passato, ma che non ho mai approfondito: Riccardo da Lentini, l’architetto il cui nome si trova in calce a tutti i progetti di edificazione, di urbanistica e di fortificazione voluti da Federico. Forse di alcuni non ha realizzato personalmente il disegno, ma è indubbio che tutti recano il segno del suo zampino. Lo si può considerare una sorta di Ministro dei lavori pubblici nell’amministrazione federiciana (oggi quel ruolo è affidato a Salvini!). Ognuna delle costruzioni ha una pianta e una struttura diversa, il che è anche comprensibile, trattandosi non di villette a schiera ma di opere destinate alla difesa, che dovevano adeguarsi all’orografia e alla natura di luoghi già naturalmente predisposti: eppure un’idea architettonica di fondo le accomuna tutte, ed è immediatamente percepibile. Ora, sarà ignoranza mia, e forse è un nome che nella storia dell’architettura ha un grosso rilievo, ma in una veloce indagine effettuata al ritorno su cinque o sei manuali di storia dell’arte e allargata poi a opere più specifiche e di maggiore consistenza non ne ho trovato traccia. In Francia, in Germania o in Inghilterra sarebbe una star. Da noi è pressoché ignorato. Ho identificato in tutta la Sicilia solo quattro vie a lui intitolate, tante come quelle dedicate a Fabrizio de André.

Conversione in Sicilia 04

Enna. Se racconti a qualcuno che sei stato ad Enna, ti guarda ironico e ti chiede cosa cavolo ci sei andato a fare. Non c’è nulla ad Enna, dicono. Non un’attrazione che giustifichi la visita, puoi capitarci solo se ci vive qualche parente. Del resto, provate anche a documentarvi su internet; più o meno, se non incappate nella guida dell’ufficio turistico locale, ricaverete la stessa impressione. Enna è al centesimo posto (su centosette) nella graduatoria della qualità della vita. Tra le città siciliane precede solo Caltanisetta. È l’ombelico della Sicilia, ma in un’isola questo significa essere il punto più lontano dal mare, e non è in genere motivo di pregio. Persino le cronache criminali sono reticenti: pare che non vi accada mai nulla, che i loro morti, se ce ne sono, li facciano sparire come i cinesi.

Tutto questo era più che sufficiente per motivarmi ad andarci. Volevo vedere il nulla, penetrare la barriera di mistero che circonda la città, capire come possa esistere un posto tanto sfigato. Perché naturalmente la immaginavo come un luogo desolato, piatto, sonnolento, completamente anonimo. Bene, nulla di più sbagliato. Intanto Enna, come l’Everest, merita di andarci già solo perché è lì. Si arrampica su un’altura, arriva quasi ai mille metri di quota, non c’è un metro di strada in piano, e dalla cima domina a trecentosessanta gradi le bellissime vallate a grano di cui parlavo sopra, per l’occasione ammantate di un tappeto di velluto verde. Le domina con l’autorità del castello normanno-federiciano, tanto imponente quanto elegante, eretto su fondamenta già greche e poi romane. E di lassù capisci tutto. Lì sotto c’è quello che per secoli, anzi, per millenni, prima della globalizzazione, è stato il granaio d’Italia (e se le cose in Ucraina continueranno così potrebbe tornare ad esserlo). Si spiega così il lusso quasi urtante e scandaloso di reperti romani come la Villa del Casale di Piazza Armerina, a pochi chilometri di distanza.

In compenso Enna (e questo l’ho scoperto naturalmente solo dopo) è tra le prime tre città del meridione per consuetudine con la lettura (è uno degli indici con i quali si valuta la qualità della vita), la prima in Sicilia. Dovevo aspettarmelo, non sono mai attratto dai luoghi senza un qualche motivo.

A deludermi invece sotto questo aspetto è stata Siracusa. In pratica sono andato in Sicilia con un’unica meta obbligata, la fonte Aretusa presso la quale Johann Gottfried Seume voleva andare a leggere i versi di Teocrito (e per farlo percorse tutto solo, a piedi, nel 1802, duemiladuecento chilometri in quattro mesi, partendo da Lipsia, e altri tremila e passa per tornare a casa facendo un salto anche a Parigi). Bene, la fonte Aretusa è ancora lì, ma nessuna statua, nessuna targa ricorda questo gesto incredibile di devozione alla poesia, di coraggio e di resistenza fisica. E già questo è grave. Ma il peggio viene quando si prova ad indagare tra i librai siracusani. Nessuno conosce l’esistenza di “L’Italia a piedi 1802”, l’unica traduzione italiana (uscita per Longanesi nel 1976) di Spaziergang nach Syrakus im Jahre 1802. (Una passeggiata a Siracusa nell’anno 1802), ma nessuno soprattutto sa nulla di Seume e del suo viaggio. La stessa cosa si ripete poi con i librai di Catania e di Agrigento (forse avrei dovuto provare ad Enna, ma ci sono capitato in un giorno festivo). Ora, non pretendo che tutti condividano le mie passioni, in genere ne sono anzi piuttosto geloso, ma pensavo che il viaggio e il personaggio potessero prestarsi, se vogliamo, se non altro ad uno sfruttamento biecamente turistico, potessero magari rappresentare un richiamo per allodole tedesche. Invece, il nulla.

Un’esperienza quasi simile me l’ha procurata Bronte. Anche in questo caso, ci sono andato a bella posta per testare quale memoria fosse rimasta dei fatti dell’agosto 1860, quelli raccontati da Verga nella novella Libertà. Mi ha incuriosito ulteriormente il trovare in ognuna delle città siciliane visitate una via intitolata a Garibaldi, in genere addirittura la principale, o in alternativa a Vittorio Emanuele II, e persino in un paio di casi a Nino Bixio. Non pensavo che questi personaggi fossero così popolari in Sicilia. A Bronte ho capito. Ho interrogato un giovane barista, nativo del paese, chiedendogli se ci fosse qualche monumento, qualche iscrizione a ricordo dei fatti, e mi sono sentito rispondere: “Di queste cose non so nulla, a scuola non me ne hanno mai parlato”. E la sua non era omertà, perché ha tentato di rimediare alla mia sorpresa parlandomi del castello di Nelson a Maniace, sperando magari c’entrasse in qualche modo. Un paio di avventori molto più anziani, possibili nipoti dei fucilati o dei deportati da Bixio, ma altrettanto ignari, hanno confermato la totale cancellazione della vicenda dalla storia del paese.

Queste sono le impressioni a caldo, almeno quelle di cui ho ricordo al momento. Magari capiterà in seguito di riprenderle e integrarle e organizzarle in maniera più approfondita. Per ora rimangono solo quelle immediatamente successive al ritorno, al rientro nella “normalità” piovigginosa dell’altra Italia. Una decina di giorni volutamente senza giornali e tivù mi hanno tagliato fuori da un sacco di grandi Eventi, primi tra tutti i funerali e le beatificazioni in tempo reale dei personaggi più disparati, da Lando Buzzanca a Pelè all’ex-papa Ratzinger. Ne ho colto solo gli ultimi stanchi strascichi, e segno in positivo tra le cose che il viaggio mi ha offerto anche l’avermi risparmiato gli stomachevoli compianti delle prefiche televisive.

E arrivo all’inevitabile domanda finale. Vale la pena alla mia età girare ancora il mondo, quando quello che ti interessava lo hai già visto, e se non lo hai visto non ti interessa più? Più in generale, ha ancora senso girare per un mondo globalizzato, che ha azzerato le differenze? Sia pure facendolo al di fuori dei circuiti organizzati, nella speranza di collezionare non solo foto e cartoline che si potrebbero benissimo scaricare da internet, ma incontri ed emozioni più profonde? La risposta parrebbe ovvia: vale comunque la pena. Ma non sono così convinto.

Quanto al discorso dell’età, credo che arrivi un momento nel quale si è più inclini a guardarci indietro, disseppellendo ricordi e cercando di riportarli in vita, che a guardarci attorno. Quanto invece al mondo globalizzato, so bene che, a saper guardare, qualcosa di nuovo e di diverso lo si trova sempre: ma il nuovo e diverso, ammesso che ancora esistano, sono davvero tali e possono condizionarti la vita solo quando ti capitano, non quando li vai a cercare.

Detto questo, sto comunque cominciando a fare un pensierino alla Calabria (altra terra incognita). Si vede che tanto vecchio ancora non sono.

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Biografie e bibliografie

Copertina per incontri tematici2di Maurizio Castellato, 8 dicembre 2022

Pubblichiamo la trascrizione di un momento dell’incontro “Biografie e bibliografie”, nell’ambito della mostra “sentieri in utopia“.

Provo ad andare al nocciolo della questione. Perché si scrive? Camillo Sbarbaro, presente nell’ultimo Ritratti di famiglia dei Viandanti, risponde ironicamente: “si scrive per essere notati, e si continua a scrivere perché si è noti”. Proprio lui che per cercare di fare i conti con la figura paterna ha scritto poesie che valgono vent’anni di sedute psicoterapiche. Non scherziamo. Scrivevano eroi come Levi, Fenoglio, Leopardi, Foscolo, Dante. Ma scrivevano anche borghesi tranquilli come Gozzano, Montale, Eco, Saba. Se proviamo a mettere in relazione le loro biografie e le loro bibliografie alla ricerca di qualche filo conduttore ci perdiamo nel labirinto. Scrivevano per essere notati dagli altri? Scrivevano per se stessi? E soprattutto, visto il tema di partenza, la loro vita reale aveva un qualche rapporto con quello che scrivevano? Davvero, da queste domande non ne esco vivo, e allora provo a semplificare. Forse alla base del bisogno di comunicare in forma artistica (scrittura, ma non solo) ci sono motivazioni profonde e personalissime, legate a ferite non curabili, a ossessioni segrete, ognuno alle proprie dà del tu. Quella è la lava incandescente che sempre ribolle nel profondo, e non dà mai pace. La cultura entra in gioco solo dopo, sotto forma di farmaco, e così per gli autori si aprono i cantieri infiniti della costruzione dello stile, del tono di voce, della musicalità interna, dei temi (cioè dei buchi che più amiamo scavare). Forse il segreto del rapporto tra biografie e bibliografie è proprio da cercare in quello squilibrio originario che sta alla base dei percorsi esistenziali di ciascuno, e che porta poi gli autori a scegliere il canale espressivo a loro più congeniale (parola, musica, immagini, ma anche semplicemente ricerca della bellezza, ecc.). È quello squilibrio originario il gran pentolone dentro il quale rimestare il mistero di quello che siamo. È una semplificazione, ma è interessante, perché consente di estendere la questione del rapporto tra biografia e bibliografia anche al campo dei lettori (e in fondo ogni autore è prima di tutto un lettore). La nostra biografia ha anch’essa una personale bibliografia segreta, che si evolve nel tempo e che cambia sulla base degli interessi, dei bisogni, dei dolori e delle gioie. Come le nostre letture ci hanno illuminato e ci hanno cambiato? Quali gli incontri che hanno dato una svolta ai nostri percorsi (“la vita, amico, è l’arte dell’incontro” diceva il poeta)? Anche al fondo della nostra storia di lettori c’è sempre lo stesso squilibrio originario, lo stesso ribollire profondo, che non trova mai pace. Ai nostri testi fondatori diamo del tu, come alle nostre ossessioni, e a questo livello originario autori e lettori non possono che sentirsi fratelli, a prescindere da quello che son riusciti a fare delle loro vite, brevi come i sogni che le hanno orientate, nutrite e significate.

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sentieri in utopia

catalogo della mostra in Ovada, dal 3 all’11 dicembre 2022

Perché una “vetrina”

sentieri in utopia copertinaDal 3 all’11 dicembre i Viandanti usciranno dalle nebbie (che sono state sino ad oggi il loro naturale habitat, e lo saranno ancora per il futuro) per proporre una testimonianza del loro operato in cinque lustri di esistenza. Non è una vetrina promozionale: non siamo depositari di verità, non imbandiamo sapienza, non cerchiamo adepti, non chiediamo finanziamenti. Semplicemente, dal momento che il sodalizio esiste da oltre un quarto di secolo, ci teniamo a far sapere a chi già ci conosce che è ancora vivo, e a chi ancora non ci conosce che ci siamo anche noi.

È una scelta che parrebbe contraddire quella che è stata sinora la nostra discrezione: ma essere discreti non significa agire nell’ombra come una società segreta. L’accesso ai nostri scritti e alle nostre immagini è sempre stato libero (e gratuito), le nuove collaborazioni sono sempre state ben accette: uniche pregiudiziali, l’uso del buon senso e la capacità di autoironia.

La mostra va letta quindi con questo spirito. Se dopo un giro completo della sala vi sarete incuriositi o divertiti, potrete già considerarvi viandanti ad honorem.

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Riproponiamo di seguito il vecchio biglietto da visita dei Viandanti. Sotto una patina di retorica che oggi può anche far sorridere, e a dispetto delle situazioni diverse che gli oltre venticinque anni trascorsi hanno creato, i propositi professati all’epoca non solo sono rimasti validi, ma hanno acquistato un’attualità ancora maggiore. Viandanti per sempre, dunque.

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Io sono un viandante, uno scalatore, disse egli al proprio cuore; io non amo le pianure e, a quanto pare, non posso starmene a lungo tranquillo. E qualunque destino o esperienza mi tocchi, – in essi sarà sempre un peregrinare e un salire sulle montagne: alla fine non si esperimenta che se stessi.
FRIEDRICH NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra

Chi sono i Viandanti delle Nebbie?

Si fa prima a dire “cosa” non sono. I “Viandanti” non sono un partito politico, ma oppongono una resistenza politica ad ogni forma di omologazione istupidente; non sono un gruppo sportivo, ma praticano la disciplina sportiva più pura, quella che richiede solo buone gambe, volontà e fantasia; non sono un’agenzia di viaggi, ma promuovono una conoscenza non utilitaristica del territorio; non sono un’associazione ecologica, ma si battono da bravi indigeni per la difesa del “loro” ambiente; non sono un’accademia culturale, ma coltivano ogni manifestazione non istituzionalizzata del sapere; non sono un ordine mendicante, ma rifiutano la mercificazione di ogni idealità.

In breve, non rispondono ai requisiti di visibilità imposti dal dominio dell’insignificanza virtuale. Sono invece un’esperienza, anzi tante, diverse, continue esperienze di (r)esistenza extra-catodica e post-cellulare, cioè di vita degna di questo nome, di amicizie, di letture, di escursioni, di convivi, di scoperte, che non vogliono essere consumate in un arcadico distacco, ma vanno trasmesse nelle forme più semplici, dirette e genuine, attraverso le quali è possibile esprimere sogni, idee ed emozioni, ed invitare gli altri ad esserne partecipi (e non spettatori).

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Wanderers forever

cropped-tobbio4.jpgC’era una volta, tanti e tanti … beh, insomma, una ventina d’anni fa, un gruppo di amici, di quelli messi assieme dalle circostanze della vita e dalle passioni in comune anziché dall’anagrafe, che si ritrovavano sempre più spesso a frugare tra gli scaffali di una caotica libreria ovadese, a camminare lungo i sentieri del Parco di Marcarolo o a cenare in un capanno sperduto nella campagna. Era un’allegra brigata, a metà strada tra il cenacolo intellettuale e la compagnia del calcetto …

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Storia del logo

cropped-vianda-300-ppi-png.pngLa storia del logo dei Viandanti merita di essere raccontata. Dunque: siamo nel novembre del novantacinque e i Viandanti delle Nebbie hanno organizzato in Ovada una mostra su Il West nel fumetto italiano, che ospita tra le altre cose una sezione dedicata alle illustrazioni di Renzo Callegari. In occasione della chiusura provo a contattare, (senza molte aspettative ma nemmeno cerimonie, una semplice telefonata da uno sconosciuto) il maestro, che sembra incuriosito e si presenta in effetti puntuale, accompagnato da un paio di allievi della sua scuola di fumetto di Rapallo. Chiusa la mostra, li invitiamo a cenare con noi al Capanno, già all’epoca sede ufficiale dei Viandanti …

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Come è nato il Capanno

Capanno 2018 10 06 01 seppiaCredo che anche la storia del Capanno, come quella del logo, meriti di essere raccontata.
È andata così. Quando ancora erano in vita i miei genitori avevo l’abitudine di trascorrere tutte le sere, subito dopo cena, una mezzoretta con loro (abitavano al piano inferiore). Si commentava la giornata, si programmavano i lavori, a volte semplicemente seguivo assieme a loro il telegiornale. All’epoca (parlo di venticinque e passa anni fa) ero affetto da una sorta di compulsione a disegnare, cosa che mi portavo dietro sin dall’infanzia. Era probabilmente un modo per isolarmi dagli altri e per evadere nei miei mondi fantastici …

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Istruzioni per l’uso del sito, della mostra, della mappa

I materiali prodotti dai Viandanti in tutti questi anni sono ospitati nel sito https://viandantidellenebbie.org/. Ma è sufficiente digitare “Viandanti delle Nebbie” per trovarci. Una volta entrati nella home appaiono sulla destra del monitor una serie di voci che aprono altrettante sezioni. Sempre sulla destra, scendendo, trovate gli elenchi di quanto è stato pubblicato anche in formato cartaceo. Sulla sinistra potete aprire direttamente gli interventi più recenti. Nella parte bassa della home scorrono infine immagini tratte dagli album. Non troverete cookies o messaggi promozionali di alcun genere.
Tutti i materiali sono consultabili e scaricabili gratuitamente.
La mostra prevede alcuni pannelli iniziali di presentazione del sodalizio, per passare poi a proporre le copertine di tutti i volumetti editi dai Viandanti. I codici QR presenti su ciascuna copertina aprono direttamente alla consultazione integrale dei libretti. Sono esposte anche le locandine delle mostre curate dai Viandanti, oltre ad una serie di pannelli tratti dalle stesse. Gli esemplari delle pubblicazioni cartacee sono disponibili per una presa di visione, ma comprensibilmente non per l’asporto.

La mappa che potete consultare nelle pagine seguenti è stata costruita per suggerire ai visitatori del sito e della mostra una serie di itinerari percorribili attraverso le nostre pubblicazioni. In effetti i percorsi avrebbero potuto essere molti di più, o essere tracciati tenendo conto di direzioni diverse: ma preferiamo siano eventuali visitatori o estimatori del sito a riconoscerli e a costruirli. Le “stazioni” non rispettano un ordine cronologico di pubblicazione, ma un semplice gioco di rimandi. In alcuni casi sono poste all’incrocio di diverse linee, in quanto fruibili lungo più itinerari: ma in realtà la cosa potrebbe valere per quasi tutte le pubblicazioni. Come potrete constatare, nessuna linea prevede stazioni terminali. Il cammino di un Viandante è sempre aperto.

sentieri in utopia - mappa a mano 2la prima versione della mappa

Mappa dei sentieri in utopia

sentieri in utopia - mappa download

sentieri in utopia locandina con margini

Parole in cammino

Diable_à_Paris_fronstispice (2)Durante il periodo di apertura della mostra sono previsti tre incontri pubblici, mirati a presentare il lavoro del sodalizio dei Viandanti, a giustificarne per quanto possibile lo spirito e a suggerire ai visitatori alcune possibili modi per gustarlo e per trarne, se non briciole di sapere, almeno un po’ di piacere.
Con queste premesse è evidente (ma lo era già dai titoli) che gli argomenti proposti saranno solo dei pretesti per spaziare in lungo e in largo, come facciamo abitualmente nei nostri testi, tra natura e cultura, realtà e fantasia, quotidianità e storia.
Abbiamo immaginato questi incontri non come conferenze o, peggio ancora, come “dibattiti”, ma come amichevoli conversazioni dalle quali tutti i partecipanti escano possibilmente con la voglia di rivedersi ancora. Come uno scambio non pedantesco di esperienze, tale magari da indurre qualcuno ad andarsi a leggere ciò di cui ha sentito parlare, a riflettere sui temi che sono stati toccati, a rassicurarsi sul fatto che il regime dei social e dei talk show non ha ancora occupato tutti gli spazi.
Le titolazioni assegnate agli incontri riflettono naturalmente, sia pure in maniera molto sommaria, gli interessi comuni ai curatori e ai visitatori del sito. Ma chi appunto il sito già lo conosce sa che questi interessi non sono mai “specialistici” e vengono coltivati in campi aperti e con metodi tutt’altro che canonici. E chi non lo conosce potrà verificarlo integrando gli incontri con qualche incursione nel nostro catalogo. Sarà il benvenuto.

Comunque, per fingere un minimo in più di informazione, negli incontri saranno (grosso modo) trattati i seguenti temi:

  • Viaggi e peregrinazioni | Perché si viaggia. Storia dei viaggi e storie di viaggio. Pensare con i piedi. Tipologie della letteratura di viaggio.
    • Le motivazioni di un viaggio

      Le motivazioni di un viaggio (1)Perché viaggiare? Bruce Chatwin, autore di un libro il cui titolo era già esaustivo (“Anatomia dell’irrequietezza”) si chiedeva, con una domanda ovviamente retorica: “perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due [mesi]?”. In questa domanda, e nelle sue mille risposte possibili, vi è già tutto il succo della questione. Al netto di ogni considerazione collaterale …

  • Biografie e bibliografie | L’importante è non nascere adatti. Vizi privati e pubbliche virtù.  Confessioni di un bibliopatico. Perché si mente dicendo di aver riletto un libro.
    • Biografie e bibliografie

      Biografie e bibliografieProvo ad andare al nocciolo della questione. Perché si scrive? Camillo Sbarbaro, presente nell’ultimo Ritratti di famiglia dei Viandanti, risponde ironicamente: “si scrive per essere notati, e si continua a scrivere perché si è noti”. Proprio lui che per cercare di fare i conti con la figura paterna ha scritto poesie che valgono vent’anni di sedute psicoterapiche. Non scherziamo. Scrivevano eroi come Levi, Fenoglio, Leopardi, Foscolo, Dante. Ma scrivevano anche borghesi tranquilli come Gozzano, Montale, Eco, Saba. Se proviamo a mettere in relazione le loro biografie e le loro bibliografie …

    • Ancora su “Biografie e bibliografie”

      Ancora su Biografie e bibliografie (1)Sono convinto che la biografia sia importante per comprendere l’opera di un autore o, meglio, le motivazioni che l’hanno indotto a scrivere e magari a scegliere certe tematiche invece di altre. Ma nella biografia vanno comprese le influenze che cultura e letteratura, cioè le letture fatte, la bibliografia esperita, hanno esercitato su di lui …

  • Natura e cultura | Siamo un tragico errore della selezione naturale? Le storie che ci siamo raccontati. La memoria e il piagnisteo. Quattro salti nella cultura (in offerta).
    • Natura e letteratura per cammini di viandanza

      Natura e letteratura per cammini di viandanza1 Marlon-Brando-in-Apocalypse-Now-1979Ad avvicinare coloro che sarebbero poi diventati i Viandanti delle Nebbie, prima ancora che nascesse l’amicizia, furono le comuni letture di libri nei quali il rapporto con la natura veniva proposto senza eccessive epiche parolaie. È stato quindi decisivo per ciascuno individuare le coordinate per le proprie letture in scrittori che avevano messo al centro della narrazione il rapporto con il bosco, la montagna, il mare o semplicemente con la quotidianità contadina …

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I Quaderni dei Viandanti

sentieri in utopia Uomo x Quaderni (2)I Quaderni sono nati con l’intento di raccogliere in volumetti e rendere disponi-bili per eventuali estimatori (?)i materiali pubblicati su Sottotiro review. E così è stato, almeno per i primi due o tre libretti. Poi la cosa ha ci preso la mano, e si è tra-sformata in una vera e propria impresa editoriale …

Quaderni logo

Gli Album dei Viandanti

sentieri in utopia x Album Viandante - Pietro Morando2Un viandante non è un viaggiatore. Non si limita a superare occasionalmente delle distanze, ma percorre degli itinerari, connota degli spazi. E dal momento che nemmeno è un pendolare, questi spazi, questi itinerari sono sempre diversi. Il viaggio è la sua vita, lo spostamento è la sua meta …

Album logo

Gli sguardistorti

UNASOS~1È il proseguo di Sottotiro review in modalità digitale, per quel che possiamo fare noi restii al digitale. Ci autorizziamo a lanciare degli sguardi nella rete che hanno la presunzione di proiettare delle occhiate “ostinate e contrarie” verso ciò che il quotidiano ci offre. Sono sguardistorti verso un mondo di cui dichiariamo la nostra difficoltà a comprenderne i meccanismi autodistruttivi, ma che ci stupiamo a scrutare per indagarne le distopie …

Nuovi sguardistorti2 - Bottone

La sottotiro review

sentieri in utopia x sottotiroSottotiro è una rivista nata nei primi anni novanta dello scorso secolo in Toscana. Dopo un paio di numeri e un lungo letargo è rinata in Piemonte, nelle colline ovadesi. L’intento era quello di costituire, nel suo piccolo, un tramite e un luogo di contatti, di scambi culturali, di amicizie e (magari!) anche di discussioni. Per un certo periodo lo è anche stata, e non solo a livello strettamente locale: non avrà inciso sull’opinione pubblica, ma ha senz’altro contribuito, tramite il comune impegno, le discussioni redazionali, gli incontri necessari per costruirla materialmente, a creare o a rinsaldare amicizie …

Sottotiro review

La Biblioteca del Viandante

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La Biblioteca raccoglie diverse opere attinte dalle fonti più disparate, che potrebbero riuscire interessanti per altri frequentatori del nostro sito. Avremmo potuto fornire semplicemente le indicazioni per rintracciarle, ma ci sembra di offrire un servizio utile proponendole in PDF, che consente di scaricarle direttamente in formato stampa. Si tratta in genere di testi di pensatori pochissimo conosciuti, o sconosciuti del tutto, difficilmente reperibili in commercio, oppure di antologie …

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Amici

La mostra è dedicata agli amici che in questi venticinque anni hanno percorso coi Viandanti un ultimo tratto della loro strada. Poi si sono congedati, ma il loro cammino non si è interrotto. Gli amici ci lasciano, ma non scompaiono: e oggi sono presenti con noi in questa sala.
Non vogliamo raccontarli, l’hanno già fatto loro stessi, ciascuno a modo suo. Chi volesse conoscerli meglio può trovarli sul sito (per Mario Mantelli, oltre ai suoi libri – Di cosa ci siamo nutriti e Viaggio nelle terre di Santa Marta e San Rocco – e ai quattro Quaderni di prose e di poesie pubblicati dai Viandanti, si possono leggere: Una raccolta di silenzi; Arrivederci, maestro!; Visite guidate nei giardini della memoria; Che belle figure!. Per Armando Cremonini, Il collezionista. Per Gianmaria Olivieri Un viandante parte in sordina. A Piero Jannon è dedicato l’Albo A spasso con Piero, Per Gianni Martinelli parlano le immagini de Il West nel fumetto italiano: sono quasi tutte tratte dalle sue raccolte).

Quelli che dormono sulla montagna

Quelli che dormono sulla montagnaQuando i Viandanti delle Nebbie si misero alla ricerca di riferimenti ideali si imbatterono quasi per caso negli Yamabushi. I riferimenti ideali sono importanti, soprattutto se sono abbastanza lontani nel tempo e nello spazio da rimanere ideali. Per noi gli Yamabushi erano perfetti: stavano dall’altra parte del globo ed erano praticamente spariti dalla circolazione da almeno un secolo e mezzo. In più, anche in piena New Age li conosceva nessuno (tanto che per un attimo l’idea di riesumarli ci ha sfiorato, e resto convinto che avremmo trovato adepti) e i loro rituali erano impegnativi solo sul piano fisico. Adoravano come noi le montagne, le salivano come noi, come noi le rispettavano, senza provare alcun bisogno di domarle e di sconfiggerle. Non c’era da cambiare una virgola nel nostro atteggiamento e nei nostri comportamenti. Gli Yamabushi sono quindi …

Quei cretini di Dunning e Kruger

Ariette 2 01I Viandanti delle Nebbie sono da sempre consapevoli della prevalenza del cretino, tanto da auspicare emendanti spedizioni di massa alla chiesa francese che ospita il sarcofago di San Menulfo, antico miglioratore delle sinapsi di chiunque introduca il capo nel suo apposito orifizio (rimando all’articolo “Il decretinatore”). Dò il mio piccolo contributo al dibattito presentando l’“effetto Dunning e Kruger”, scoperto nel 1999. Dunning e Kruger sono due simpatici psicologi che hanno dimostrato scientificamente il motivo per cui individui incompetenti in un campo tendano a sopravvalutare le proprie abilità …

Tracce e impronte

sentieri in utopia 11Il mondo lo si può “camminare” in vari modi, da soli o in compagnia, di fretta o in tutta calma, motivati da una scelta o spinti da una necessità; così come sono svariati i mezzi, oltre ai piedi, grazie ai quali si può viaggiare. Ma gli atteggiamenti fondamentali che inducono a incamminarsi per il mondo sono riconducibili in linea di massima a due: la semplice voglia di scoprirlo, magari in cerca di rifugio, e viverlo, oppure il desiderio di raccontarlo, studiarlo o conquistarlo.  Nel primo caso sulla polvere o sul fango della strada percorsa si lasciano soltanto delle tracce, che vengono prima o poi spazzate via dal vento del tempo o dilavate dalle acque, mentre rimangono fortemente impresse nell’animo; negli altri casi si marcano invece delle impronte, a volte talmente profonde e durature che quel mondo vanno anche a modificarlo. E qualche volta accade anche che le orme involontarie diventino letteralmente impronte rivelatrici, come nei casi di Laetoli, dell’isola di Calvert o del deserto del Nefud.

Le pagine qui raccolte sono dedicate a uomini che il mondo lo hanno percorso nell’una e nell’altra maniera, in piccolo o in grande, con differenti intenti e nei contesti temporali più lontani, accomunati comunque dal desiderio di conoscerlo e di lasciare una traccia, almeno scritta, del loro passaggio. Si va dai grandi esploratori e dai camminatori instancabili a personaggi semisconosciuti, ai dilettanti del camminare, dell’arrampicare o del viaggiare, in una varietà che spiega, anche se forse non giustifica, il “vario stile” delle trattazioni. La continuità tra costoro è assicurata non da ciò che hanno fatto, hanno visto o hanno descritto, ma dallo spirito col quale hanno esaltato una naturale disposizione biologica traducendola in una scelta culturale.

Quanto poi tale scelta sia stata positiva o meno per l’umanità lo lasciamo discutere agli osservanti del “politically correct”: per quanto ci riguarda, crediamo si tratti di una diatriba stupida, o perlomeno inconcludente, perché quello di ampliare e allontanare sempre più il proprio orizzonte è per l’uomo un istinto, dettato dalla necessità di sopravvivenza, sin dal momento in cui ha assunto la postura eretta. Forse non ha ottemperato appieno all’imperativo di Ulisse, e nel suo peregrinare ha perseguito più “canoscenza” che “virtute”: ma questa è un’altra storia, e l’affronteremo altrove.

Mutazioni

mutazioniLe vespe sono tornate a nidificare nella mia libreria. Accade da cinque o sei estati, prima non si era mai verificato. Probabilmente ne è entrata una per caso, ha apprezzato l’ambiente e lo ha comunicato alle altre. Le vespe, a differenza dei cristiani, comunicano molto e hanno una formidabile memoria della specie. Magari si tratta delle discendenti di quella prima esploratrice, immigrate di terza, quarta o quinta generazione, che ormai considerano casa mia anche la loro …

Il più crudele?

di Paolo Repetto, 24 aprile 2021

Aprile è il più crudele dei mesi? Non saprei, anche gli altri non scherzano. So comunque che per i Viandanti (e non solo per essi, purtroppo) l’aprile dello scorso anno, quello della prima terribile ondata, è stato crudelissimo. Esattamente un anno fa ci ha portato via due amici, due viandanti onorari, Mario Mantelli e Armando Cremonini. Mario e Armando erano entrati da tempo a far parte del club degli “ultimi illuminati”, e a pieno titolo: il primo quasi mettendoci in soggezione, a dispetto della sua mitezza, per l’eccezionale sensibilità estetica e per la vastità della cultura che la alimentava, il secondo facendosi amare per il sottilissimo umorismo, per quell’aria sorniona che assieme al sigaro gli dava un che di anglosassone (ma un anglosassone tutt’altro che freddo).

Non voglio raccontare di loro, l’ho già fatto e chi volesse conoscerli meglio può trovarli su questo stesso sito (per Mario, oltre ai suoi libri – Di cosa ci siamo nutriti e Viaggio nelle terre di santa Marta e san Rocco – e ai quattro Quaderni di prose e di poesie pubblicati dai Viandanti, si possono leggere: Una raccolta di silenzi; Arrivederci, maestro!; Visite guidate nei giardini della memoria; Che belle figure!. Per Armando, Il collezionista).

Queste poche righe vogliono solo scongiurare il silenzio attonito e subito distratto col quale siamo ormai ridotti ad accettare la scomparsa degli amici. Per me, per noi, non è così. Gli amici ci lasciano, ma non scompaiono. Alla faccia di aprile.

Il mastino della ragione

di Nicola Parodi, 11 gennaio 2021

Queste sintetiche note di Nico Parodi rientrano nel dibattito che si è aperto sul sito (era ora!) sulle modalità umane di conoscenza e sulle risposte etiche e pratiche che ne conseguono. Erano state concepite dall’estensore come una risposta privata su alcuni punti sollevati da Carlo Prosperi nel suo ultimo intervento (“L’incostanza della ragione”), ma riteniamo sia giusto pubblicarle come una sorta di lettera aperta, uno stimolo rivolto a tutti ad approfondire ulteriormente le tematiche sin qui affrontate.

Caro Carlo,

posso essere considerato un partigiano della razionalità, ma non la idolatro. L’idolatria, di qualunque cosa, può essere considerata già di per sé una manifestazione di irrazionalità.

Condivido dunque molte tue considerazioni, ma resto molto vigile quando si parla di razionalità. So che la partigianeria può essere intellettualmente pericolosa, e tuttavia corro coscientemente questo rischio, perché mi sento in dovere di difendere il valore della razionalità come strumento di conoscenza, soprattutto di fronte a quello che ultimamente è sotto gli occhi di tutti. Creazionisti, no vax, complottisti e quant’altro non sono un complemento folkloristico. Servendosi dei nuovi strumenti di diffusione di massa, che permettono la diffusione di “memi” eludendo la loro selezione (che invece gli strumenti precedenti di diffusione della cultura in qualche modo operavano. Attualmente certe sciocchezze si propagano con una velocità che nemmeno le peggiori malattie infettive riescono a raggiungere, letteralmente alla velocità della luce) mettono a rischio la conservazione di un livello di conoscenze adeguato, quello che permette alla società complessa da cui dipendiamo di sopravvivere. Non sono il solo a temere il diffondersi dell’irrazionalità, Steven Pinker ha addirittura scritto un libro dal titolo “Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo”.

Una risposta esauriente alle tue considerazioni su quanto ho scritto a commento della tua lettera a Paolo rischierebbe di essere troppo lunga ed illeggibile: sarò pertanto schematico, sperando di riuscire ad essere sufficientemente chiaro per stimolare una riflessione sui vari punti. Altre argomentazioni mi riprometto di esportele in piacevoli chiacchierate, come quelle di una volta.

Premetto intanto che non sono tra coloro che sostengono che la ragione è in grado di dare una risposta certa a tutto. Del resto, l’ho già chiaramente sostenuto «Non siamo in grado di conoscere con sufficiente dettaglio i meccanismi sociali per progettare riforme con la certezza che i risultati corrispondano alle aspettative. Nemmeno la scienza è in grado di dare risposte certe a problemi di tale complessità: ci ha provato sinora solo la fantascienza, con Asimov, inventando la “psicostoria”».

Dunque:

  • Non può essere considerato irrazionalista chi è disposto a confrontare con gli altri le sue idee.
  • Il confronto tra idee che siano frutto di impegno serio può mettere in rilievo differenze di interpretazione della realtà, che dipendono dalle “lenti” con cui si guarda il mondo. La realtà è poliedrica (vedi “Alle radice dell’umano”), e i modi per interpretarla e raccontarla sono molti. Si può ad esempio parlare di amore da poeti, da psicologi, da credenti o in moltissimi altri modi; ma se ne può anche parlare con l’ottica di un biochimico, definendo l’amore come “un effetto dell’ormone ossitocina”. È certo che, chiamiamolo amore o “ossitocina”, senza i comportamenti che ne sono il prodotto non potremmo esistere; e comunque, di solito, è più utile parlarne usando la terminologia “amorosa” piuttosto che quella biochimica.

Chiarito questo, passo a sintetizzare rapidamente le mie idee sui modi e sugli scopi della conoscenza:

  • La vita, come ci spiega Schrodinger[1], si può considerare un insieme ordinato di materia in grado di mantenere il proprio ordine a spese dell’ambiente esterno, di accrescersi e replicarsi.
  • La membrana cellulare separa l’interno di una cellula, un frammento di materia vivente, dal mondo esterno, determinandone l’individualità (un arcaico sé?). La membrana permette però anche la comunicazione tra l’ambiente esterno e l’interno della cellula, producendo, tra l’altro, le condizioni che possono determinare i movimenti cellulari in relazione alle esigenze vitali.
  • Gli organismi pluricellulari hanno sviluppato, nel tempo, un sistema nervoso, che raccogliendo ed elaborando le informazioni provenienti dall’interno e dall’esterno dell’organismo produce le reazioni appropriate (compresi i movimenti) per la sopravvivenza e la riproduzione dell’organismo stesso. In questo quadro il nostro cervello ha assunto le caratteristiche che gli permettono di contribuire al meglio alla sopravvivenza e alla riproduzione degli individui della nostra specie.
  • La funzione del nostro cervello (o mente, se si preferisce) è raccogliere informazioni sull’ambiente esterno, formare delle “immagini mentali” e, in relazione ad altre informazioni provenienti dall’interno dell’organismo, produrre le “azioni” migliori per permettere la sopravvivenza e lo svolgimento della funzione di replicatore del fenotipo “homo sapiens sapiens”.

  • Il nostro cervello naturalmente non è perfetto: deve gestire le informazioni e produrre il risultato in fretta, e quindi si serve di scorciatoie cognitive che approssimano i risultati. La realtà non sempre è semplice, più spesso è complicata o complessa. Anche con i moderni computer occorre ricorrere ad algoritmi di approssimazione per trovare soluzione a certi problemi.
  • Per interpretare il mondo esterno ed estrarne conoscenze che ci servono per scegliere poi i comportamenti e le conseguenti azioni, siamo portati ad attribuire delle “intenzioni” ad altri esseri viventi, ma spesso anche a quelli inanimati. Da questo nascono anche quelle credenze che non si possono definire razionali. I problemi che creano difficoltà di comprensione derivano spesso dalla nostra incapacità di accettare di essere semplicemente degli aggregati di materia ordinata: vogliamo quindi trovare spiegazioni più gratificanti, che ci pongono su una sorta di piedistallo rispetto agli altri viventi.
  • Comprendere anziché condannare. Comprendere, ovvero conoscere, è l’essenza dell’illuminismo. Sapere aude! Se invece a “comprendere” diamo un contenuto empatico, occorre guardarsi dagli errori di valutazione che il giudizio influenzato dalle emozioni fa compiere. Le emozioni svolgono un ruolo importante nel creare comportamenti che uniscono una comunità, ma a volte non vanno d’accordo con la razionalità.
  • Nelle scienze la realtà, l’esperienza, “le prove”, servono a dimostrare la bontà di una speculazione teorica; confermano, non negano.
  • Il vivente deve agire: ma da solo? In un gruppo l’individuo comprende le intenzionalità dei conspecifici e coordina il suo agire con gli altri nell’interesse di tutti. Oltre al classico esempio dei lupi che cacciano in branco, tantissimi altri animali hanno comportamenti collaborativi.

E l’uomo?

  • Il nostro cervello evoluto è in grado di comprendere (sia pure con molte carenze) le regole che fanno funzionare la natura. In conseguenza delle “immagini mentali” che ci siamo formati compiamo delle scelte e agiamo (nella società e nella vita personale). Gli errori possono essere frutto di scarsa conoscenza o di scelte dettate dall’egoismo: in quest’ultimo caso, attribuire errori alla “razionalità” è solo confondere l’uso di ragionamenti ex post, per giustificare le scelte, con deduzioni frutto di razionalità.
  • Gli uomini che agiscono collettivamente modificano non solo la storia ma l’ambiente. Il terremoto è un accadimento, reclutare un esercito e occupare una città è un’azione volontaria organizzata, e se disordinata non funziona. L’inazione è sconfitta. Da non credente riconosco che la chiesa ha fatto bene a inserire tra i peccati anche quelli di “omissione”.
  • Non è la ragione a creare ideologie, sono quegli uomini che si comportano da teologi di teorie scientifiche, sociali o economiche, limitandosi a farsi esegeti di libri sacri che secondo loro contengono la verità, e contraddicendo in questo modo i principi dell’illuminismo.
  • È la ragione o piuttosto la sua assenza a creare l’inebetimento?
  • La nostra non è certo una società modello. Permette la sopravvivenza agevole a qualche miliardo di persone perché è tecnologicamente in grado di sfruttare enormi quantità di energia, ma questo non significa che corrisponda al modello di organizzazione sociale sufficientemente egualitaria e collaborativa a cui si è evolutivamente adattato l’uomo. Alcuni studiosi utilizzano, per esaminare la storia, il modello del macroparassitismo o cleptoparassitismo intraspecifico applicato alle società umane. Potrebbe essere una cifra interpretativa interessante.
  • Quindi, anche se il pessimismo può sembrare il nostro naturale approdo (un po’ per l’età, un po’ per i tempi che ci troviamo malauguratamente a vivere) non possiamo rinunciare alla battaglia per la difesa della cultura: quella cultura che ci consente di incontrarci, sia pure sulle pagine di questo sito, e di confrontarci civilmente, è in pericolo: e non possiamo lasciarla spazzare via dallo straripamento del magma di sciocchezze i nuovi mezzi di comunicazione stanno vomitando.

Auguri di buon anno, con la speranza di poterci presto incontrare, chiacchierando tranquillamente seduti su una panchina o, come non facevamo un tempo, seduti al bar a prenderci un caffè.

[1] «Qual è l’aspetto caratteristico della vita? Quando è che noi diciamo che un pezzo di materia è vivente? quando esso va “facendo qualcosa”, si muove, scambia materiali con l’ambiente e così via, e ciò per un periodo di tempo molto più lungo di quanto ci aspetteremmo in circostanze analoghe da un pezzo di materia inanimata. […]
Quando un sistema che non è vivente è isolato o posto in un ambiente uniforme, tutti i movimenti generalmente si estinguono molto rapidamente, in conseguenza delle varie specie di attrito; differenze di potenziale elettrico o chimico si uguagliano, sostanze che tendono a formare un composto chimico lo formano, la temperatura si uguaglia ovunque per conduzione.
Con ciò, l’intero sistema si trasforma in un morto, inerte blocco di materia. Si raggiunge uno stato permanente, in cui non avviene più nessun fenomeno osservabile. Il fisico chiama questo stato lo stato di equilibrio termodinamico o stato di “entropia massima.
È proprio in questo suo evitare il rapido decadimento in uno stato inerte di equilibrioche ‘un organismo appare così misterioso, tanto che, fin dagli inizi del pensiero umano, si sono invocate alcune speciali forze non fisiche o soprannaturali (vis viva, entelechìa), quali forze agenti nell’organismo, e in taluni ambienti ancora si sostiene la loro esistenza.
Come fa un organismo vivente a evitare questo decadimento? La risposta ovvia è: mangiando, bevendo, respirando e (nel caso delle piante) assimilando. Il termine tecnico è: metabolismo.
Ciò di cui si nutre un organismo è l’entropia negativa. Meno paradossalmente si può dire che l’essenziale nel metabolismo è che l’organismo riesca a liberarsi di tutta l’entropia che non può non produrre nel corso della vita.
[…] Secondo i risultati esposti nelle pagine precedenti, gli eventi spazio-temporali che si verificano nel corpo di un essere vivente e corrispondono all’attività della sua mente e alle sue azioni, siano consce o no, sono (considerando pure la loro struttura complessa e l’accettata statistica della fisica chimica) se non strettamente deterministici, almeno statistico-deterministici.»
Erwin Schrodinger, Che cos’e la vita?, Adelphi 1995

Endogenesi delle cause o eterogenesi dei fini

di Nicola Parodi, 21 dicembre 2020

Ho letto le riflessioni di Carlo Prosperi esposte ne “La luce fredda dell’Utopia”. Condivido in gran parte le sue osservazioni, in particolare quando parla delle “aberrazioni della cancel culture, quella che, per political correctness, pretende di correggere la storia”. Per una sorta di reazione istintiva mi sento tuttavia in dovere di difendere il valore della razionalità come strumento di conoscenza. Carlo sostiene che quelle aberrazioni sono i frutti perversi dell’Aufklärung. E aggiunge: “È ben vero che il sonno della ragione produce mostri, ma non meno mostruosi sono i parti dell’insonnia della ragione”. Qui non riesco a seguirlo, e mi sembra strano che ci arrivi per un percorso che in realtà almeno fino ad un certo punto è esattamente il mio, quando ad esempio afferma: “La razionalità non può sostituirsi a ciò che è frutto, in gran parte inconscio, di millenni di tentativi, per prove ed errori; non può impunemente sovvertire la tradizione (che non è un fossile) e pretendere di fare tabula rasa dell’esistente nella presunzione di costruire un mondo perfetto”. Sono d’accordo su tutto, tranne che sul soggetto iniziale della frase, o meglio, sull’uso che Carlo fa dei termini “ragione” e “razionalità”: quindi, mentre faccio mio il drastico giudizio sul sorgere di una nuova religione laica, che come le altre religioni ha la pretesa di definire ciò che è bene e ciò che è male, vorrei chiarire che le aberrazioni cui giungono gli adepti di questa neo-religione non sono il frutto di una fredda analisi razionale, il più scientifica possibile, ma sono generati e guidati dalle emozioni e dai sentimenti,  e soprattutto sono condizionati dalle mode culturali.

Vorrei partire da alcune idee proposte da Richard Dawkins[1] (*). Prendendo spunto dalla convinzione di Lorenz che un modello di comportamento può essere trattato come un organo anatomico, Dawkins propone la teoria del fenotipo esteso. Con il termine fenotipo si intende la forma che assume un organismo sviluppato; in questa accezione il concetto di fenotipo viene esteso, oltre che alla forma dell’organismo, anche ai prodotti delle sue azioni nell’ambiente esterno (azioni che sono indotte dai geni).

Faccio un esempio. La trappola a forma di buca conica scavata dal formicaleone[2] è l’espressione di un comportamento determinato geneticamente, così come lo sono tutte le varie tipologie delle ragnatele. Tutto questo lo diamo ormai per scontato, perché quando esaminiamo il comportamento degli insetti sociali siamo psicologicamente disponibili a riconoscere che è determinato geneticamente. Allo stesso modo, con un minimo sforzo intellettuale in più realizziamo che anche le dighe costruite non da un singolo castoro, ma da un gruppo, rispondono ad analoghi criteri e quindi rientrano nella definizione di fenotipo esteso (*).

Continuando a salire di livello nella scala della complessità animale, riusciamo ancora ad accettare, sia pure con un po’ di difficoltà, che persino la “cultura” e l’organizzazione sociale dei primati possa rientrare nella definizione di “fenotipo esteso”. Ma quando facciamo un passo ulteriore, saliamo di un altro gradino, ecco che nasce il problema. L’idea di considerare la cultura umana e le sue realizzazioni tecnologiche ed artistiche come fenomeni rientranti nel concetto di “fenotipo esteso” urta la sensibilità di quanti ritengono l’uomo qualcosa di speciale. Diciamo che di primo acchito la reazione è comprensibile: in fondo sembra esserci una bella differenza tra chi è riuscito ad andare sulla luna e chi continua a salire e scendere dagli alberi. Eppure, se accettiamo come valida la definizione di cultura data da Luigi Luca Cavalli Sforza, per il quale “la cultura va intesa come insieme di conoscenze che acquisiamo e comportamenti che sviluppiamo durante la nostra vita; questi due elementi (conoscenze e comportamenti) creano la cultura sulla base dell’azione congiunta della nostra eredità biologica, cioè il programma genetico di istruzioni del DNA che dirige il nostro sviluppo, e dei numerosissimi contatti individuali e sociali di qualunque natura vissuti da qualunque gruppo sociale”, dovrebbe essere più facile accettare le realizzazioni della società umane come espressioni del “fenotipo esteso”[3].

Anche se Cavalli Sforza non è affatto entusiasta della cosa, ultimamente in assonanza al termine “gene” è stato coniato (*) il termine “meme”, che sta ad indicare un’unità di trasmissione culturale o un’unità di imitazione. Nelle società umane la diffusione dei memi è molto rapida, in virtù delle molteplici modalità di trasmissione che abbiamo escogitato, e con l’avvento di internet si rischia addirittura che la loro trasmissione, pressoché immediata, sfugga a quella sorta di selezione naturale che ne misura la capacità di funzionare positivamente per la sopravvivenza della società in cui si diffondono. Vale a dire che tendono a circolare liberamente, fuori controllo, sia gli input positivi che le stupidaggini e le bufale: il che comporta una gran confusione, e il rischio (molto concreto, per quanto è dato vedere oggi) che le false informazioni, in genere più facilmente “digeribili” da spiriti pigri, finiscano per prevalere e mettere a repentaglio tutto ciò di buono che sino ad oggi si è costruito.

Vedo di spiegarmi meglio. Il fatto che le culture evolvano comporta l’esistenza un qualche meccanismo di selezione darwiniana. Questo permette la sopravvivenza delle culture (e quindi delle società che quella determinate culture esprimono) che meglio rispondono alle esigenze di riproduzione degli individui che ne fanno parte, in determinati luoghi e periodi; inoltre ci costringe a prendere atto che il “valore” che attribuiamo al modello culturale a cui apparteniamo è, nelle migliori delle ipotesi, valido per un più o meno breve lasso di tempo.  Ora, ogni cervello animale tratta le informazioni servendosi di moduli mentali che sono frutto di un’evoluzione durata centinaia di milioni di anni: ha insomma un programma di risposte già pronte, adattabili alle singole situazioni, e in questo modo risolve i problemi che l’individuo si trova ad affrontare, aumentando le sue probabilità di sopravvivere e riprodursi. In questa operazione la rapidità nella risposta agli stimoli esterni è un requisito essenziale, anche se va a scapito della precisione. I moduli mentali che utilizziamo noi umani sono dunque quelli che si sono dimostrati più efficaci alla luce dei meccanismi evolutivi, anche se, in base al principio di precauzione, a volte ci facevano fuggire di fronte a un pericolo non concreto.

Il discrimine sta qui. Per una serie di processi che non possono essere approfonditi in questa sede i membri della specie Homo sapiens sapiens hanno finito per ritrovarsi dotati, oltre che di moduli cognitivi automatici, anche di un processo cognitivo più lento ma più riflessivo[4]. Ovvero, noi non reagiamo in base al puro istinto, ma a seguito di una ponderata riflessione. Questa modalità di trattare le informazioni implica naturalmente la possibilità di errori di sistema, e anche il nostro modello riflessivo può essere soggetto a condizionamenti emozionali e culturali. Quindi la cautela è d’obbligo. Se è vero che, come abbiamo visto sostenere da Cavalli Sforza, gli aspetti più importanti del nostro sviluppo risultano da una complicata interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura, per capire qualcosa di come ci comportiamo e come funzionano le società di cui facciamo parte è indispensabile una analisi razionale di questi aspetti. L’eterogenesi dei fini di cui parla Carlo è solo frutto, a mio parere, di una nostra insufficiente capacità di condurre a fondo questa analisi.

Proviamo a trasporre tutto questo sul piano dell’agire sociale e politico. Giustamente diffidiamo delle pretese di chi vuol costruire un mondo migliore sulla base di convinzioni religiose o ideologiche, al fondo delle quali c’è la certezza dell’esistenza di un vero e di un giusto assoluti. Non siamo in grado di conoscere con sufficiente dettaglio i meccanismi sociali per progettare riforme con la certezza che i risultati corrispondano alle aspettative. Nemmeno la scienza è in grado di dare risposte certe a problemi di tale complessità: ci ha provato sinora solo la fantascienza, con Asimov, inventando la “psicostoria”.

È pur vero però che se in un gruppo di cacciatori-raccoglitori non è necessario intervenire per modificare ciò che regola i rapporti fra gli individui,  stante la sostanziale “immobilità” sociale, in una società complessa, le cui principali regole non sono ormai più quelle selezionate dall’evoluzione e codificate geneticamente, ma quelle di origine culturale definite storicamente, di fronte a modifiche dell’equilibrio sociale,  per degrado intrinseco o al presentarsi di condizioni socio/economiche nuove,  si rendono indispensabili interventi che modifichino l’organizzazione tradizionale. E dovendo agire è necessario farlo con la maggiore razionalità possibile, che consiste anche nel cercare di modificare il minimo indispensabile. Soprattutto, nessuna riforma può funzionare se le regole nuove contrastano con i dettami morali codificati geneticamente.

Insomma, voglio dire che se alcuni grandi riformatori del passato sono riusciti (magari solo parzialmente) nel loro intento, sono sicuramente molti di più i tentativi di riforma che non hanno funzionato. E i fallimenti sono venuti di norma da una voluta o colpevole ignoranza degli effetti di quella complessa interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura di cui parla Cavalli Sforza.  Ovvero dal fatto che quei progetti non erano sufficientemente razionali. Sarebbe semmai poi da aprire un dibattito su ciò che intendiamo per “razionale”, perché troppo spesso trovo l’aggettivo è usato nella sola valenza di “efficace, efficiente, capace di produrre risultati”, ma il suo significato non può certo esaurirsi in questo. Se così fosse, Himmler avrebbe realizzato una delle operazioni più razionali della storia. Per quanto mi riguarda, è razionale ciò che “funziona” tanto nella prospettiva individuale che in quella della specie (e non sempre le due cose coincidono: posso fare un sacco di soldi e moltiplicare le mie possibilità di sopravvivere e riprodurmi producendo scorie inquinanti, ma per la specie sono solo un danno): ciò quindi che riesce a mantenere un equilibrio tra le mie pulsioni egoistiche istintuali e la mia disposizione altruistica acquisita. Sono d’accordo con Carlo quando rievoca i Terrori generati dall’idolatria della Ragione, dai sogni degli utopisti, dalla forzatura radicale di Marx, ma mi sembra dimentichi quali altri terrori sono stati ingenerati da chi ad esempio si è fatto “interprete” monopolistico e ufficiale dell’insegnamento cristiano. Ora, la lettera del Vangelo detta ben altro che le stragi degli eretici o degli infedeli, allo stesso modo in cui la Ragione non prevede i campi di sterminio e la ghigliottina. La Ragione è uno strumento, come lo è la Religione: e come ogni strumento può capitare nelle mani sbagliate, ed essere usato malamente.  Ma questo può valere anche per una padella, o una forchetta: significa che dovremmo mangiare cibi crudi, e con le mani?

Per il resto, sono d’accordo (almeno in parte) sulla lettura in negativo delle rivoluzioni. Diciamo che sono piuttosto un tiepido riformista, anche se può sembrare una brutta cosa, perché “Occorre fare le riforme” è purtroppo lo slogan di moda fra la classe dirigente attuale. Non sono pregiudizialmente contrario alle riforme se e quando necessarie, ma mi  piace  ricordare quanto sostiene Montesquieu nelle Considerazioni sulle cause della grandezza e decadenza dei Romani:   “Quando il governo ha una forma stabilita da tempo e le cose sono disposte in un certo modo, è quasi sempre prudente lasciarle come sono, perché le ragioni, spesso complicate e ignote, per cui una tale situazione si è mantenuta, fanno si che essa duri ancora; ma quando si cambia il sistema totale, si può rimediare soltanto agli inconvenienti che si presentano nella teoria, tralasciandone altri che solo la pratica può far scoprire”.

NOTE

[1] (*) Richard Dawkins, Il fenotipo esteso, Zanichelli 1986 – Il gene egoista, Mondadori 2017

[2]Per il formicaleone scavare trappole è ovviamente un adattamento per catturare le prede. I formicaleoni sono insetti, larve neuroptere, con l’aspetto e il comportamento di mostri spaziali. Sono predatori pazienti che scavano nella sabbia soffice trappole con le quali catturano formiche e altri insetti terricoli. La trappola ha una forma quasi perfettamente conica, con le pareti talmente inclinate che la preda non può arrampicarsi per uscire, una volta caduta dentro. Tutto quello che fa il formicaleone è di stare sul fondo della trappola, dove con le sue mandibole stritola, come in un film dell’orrore, qualsiasi cosa gli capiti a tiro” da Richard Dawkins, Il fenotipo esteso

[3] Cavalli Sforza aggiunge anche “Purtroppo nella maggior parte dei quotidiani e dei settimanali le pagine dedicate alla cultura limitano il loro interesse quasi esclusivamente a film, romanzi e in genere agli spettacoli. Intendiamoci, sono anche loro importanti, in quanto contribuiscono in modo non indifferente ai piaceri della vita, ma vi sono molti aspetti del nostro sviluppo che sono ancora più importanti e che risultano da una complicata interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura, intesa nel senso più vasto su cui quest’opera è basata” (Luigi Luca Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice ed. 2010)

[4] Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori 2020

Eventi

di Paolo Repetto, 17 settembre 2019

Non si devon mai scambiare
gamberetti con zanzare.
(proverbio africano)

Penso che anche questa meriti d’essere raccontata.

Da qualche anno, verso la fine dell’estate, partecipo ad una passeggiata notturna di otto o dieci chilometri che si svolge nelle campagne attorno a San Salvatore, ogni volta su sentieri diversi. La cosa è organizzata dalla biblioteca e da un gruppo di lettura e ciascuna edizione è intitolata ad un qualche percorso letterario: ma si tratta chiaramente solo di un pretesto, direi piuttosto efficace in termini di richiamo, visto che sino ad oggi la partecipazione è andata crescendo, per dare un certo tono alla faccenda. Il tutto è comunque giocato in maniera molto soft, senza alcuna pretenziosità, e le pause dedicate alla lettura o alla recitazione, affidate a umilissimi volontari (per qualche anno, quando ero a Valenza, anche a studenti del mio istituto) sembrano finalizzate soprattutto a ricompattare il gruppo, che durante la passeggiata tende naturalmente a sfilacciarsi. Per il resto, c’è il piacere di rivedere vecchi amici e conoscenti, di riallacciare contatti e di guadagnare il rinfresco finale, offerto da volonterose massaie indigene.

Tutto ciò ha funzionato egregiamente sino a quest’anno, sino a quando cioè qualcuno degli organizzatori ha pensato fosse giunto il momento del salto di qualità, di adeguarsi all’andazzo generale e di mettere alla guida della passeggiata un vip della cultura o dello spettacolo. Non ha tardato a trovarlo, perché ultimamente i vip, come un tempo i populisti russi, hanno scelto di portare la cultura al popolo e si esibiscono anche nelle sagre paesane e nelle feste patronali: o forse perché la concorrenza è ormai tale che devono esibirsi (naturalmente a cachet) dove trovano. Sia come sia, all’arrivo a San Salvatore scopro che nostro mentore sarà quest’anno Giuseppe Cederna, attore cinematografico (Mediterraneo), teatrale e televisivo, e anche scrittore (Il grande viaggio), nonché figlio di Antonio Cederna (fondatore di Italia Nostra) e nipote di Camilla Cederna, che non occorre spieghi chi fosse.

Ora, Cederna jr è una sorta di Terzani in sedicesimo, è stato in India, ha visto non la madonna ma la Trimurti, fa lunghe pause di meditazione in un ashram alternate a cicli di analisi, frequenta probabilmente i circoli lacaniani in Francia: insomma, ha tutte le caratteristiche che mi inducono, anche quando si presentano singolarmente, a stare alla larga dai soggetti portatori. Ma tanto valeva, ormai ero lì, ero con amici, avevo intravvisto il buffet e mi era parso eccezionalmente sostanzioso: mi sono dunque avviato, procurando di starmene almeno trecento metri indietro, in modo da non sorbirmi le pause di riflessione.

Invece sentite come è andata. Lo schema è stato quello di una via crucis, ma una via crucis vissuta dall’interno, nel ruolo del protagonista principale, da tutti i partecipanti. Come è sparito il crepuscolo, quando ancora non eravamo a metà del percorso, si è scatenato un attacco di zanzare mai visto. Sembrava un film di Hitchcock, una punizione divina, l’ottava piaga d’Egitto. Io stesso, che in genere non vengo punto (dicono che ho sangue cattivo) e che comunque tollero abbastanza tranquillamente le punture, non sapevo più a che santo votarmi. Immaginate dunque la scena: centocinquanta persone (il nome di richiamo aveva funzionato), al buio, in mezzo alla campagna, che si agitano come forsennate, bestemmiano, piangono, si asfaltano inutilmente di Autan, indossano felpe col cappuccio (la temperatura era ancora sui trenta gradi), ma non c’è felpa che tenga, e allora cercano di affumicarsi e rischiano di mandare a fuoco tutto il Monferrato accendendo le stoppie del grano: e in mezzo Cederna che, essendo stato pagato, e per non rischiare che il tutto vada a monte e salti il rimborso, pretende di fare le pause, mentre le zanzare lo mangiano vivo, e che tutti siedano a cerchio attorno a lui, su balle di paglia disposte ad anfiteatro in mezzo a un campo, per ascoltare le poesie della Szymborska o le parole di Pia Pera (tra l’altro introdotte con “è una poetessa che probabilmente non conoscete”, “è una scrittrice che senz’altro vi è ignota” e altre presuntuose stronzate del genere). E nemmeno le legge o le recita bene, quelle poesie: ma questo si può capire, credo che le zanzare l’abbiano punto persino nella trachea e nell’esofago. Ma c’è di più: aggiunge il commento suo, racconta la sua vita, la sua depressione di uomo che ha conosciuto il successo e pensava di non poterne più fare a meno, e che poi ne è uscito perché, complice l’India, ha scoperto la semplicità della natura. Non la sto esagerando: quasi mezz’ora di sbrodolamenti di questo tipo, nel pieno dell’attacco zanzaresco (le zanzare sono molto sensibili alle sbrodolate: mi sto convincendo che quell’aggressione non sia stata casuale). E poi, quando il bombardamento è diventato meno intenso, e noi pellegrini tutti tumefatti abbiamo velocemente guadagnato il ristoro, qualcuno per la fretta anche sbagliando strada e trovandosi a vagare al buio nei campi, ha aggiunto che quell’aggressione di violenza inusitata era stato in fondo un modo per metterci alla prova, per ricordarci che la natura è varia, e va colta positivamente in ogni suo aspetto. Lo ha detto mentre stavo facendomi largo nella ressa con due piatti e un bicchiere di plastica in mano, altrimenti lo avrei sotterrato.

Dunque: io nella natura ci sono nato, l’ho goduta e l’ho sofferta, e da quando avevo dieci anni ho anche lottato per addomesticarla, e mi sento raccontare da uno che non distinguerebbe un salice da un palo del telefono come devo approcciarla, e quanto sono felici coloro che hanno lasciato il posto da dirigente ministeriale o d’azienda per allevare pecore o coltivare zafferano. Sono cresciuto in una famiglia che non poteva permettersi la spesa di un gelato o di una gassosa, e devo sentirmi spiegare cos’è il proletariato e come si fa la lotta di classe da figli di papà stressati dal successo o dai soldi. O ascoltare gente che, a gettone, vuole convincermi di quanto sia importante superare l’attuale logica del profitto e opporsi alla mercificazione della cultura. Ne ho davvero sin sopra i capelli. Non ce l’ho con Cederna in particolare, è solo uno dei tanti che ultimamente percorrono le ville e i contadi, i festival filosofico-letterari e quelli scientifici, per dispensare anche ai poveri di spirito pillole del loro sapere. Non sopporto più questi marchettari ipocriti, ma non avendo né il tempo né la voglia di arrabbiarmi faccio l’unica cosa sensata che mi resti: li evito.

Il giorno seguente, un sabato sera, avevo a cena un piccolo gruppo di amici. Nessun discorso troppo impegnato, abbiamo parlato di sciocchezze o affrontato in maniera irriverente gli argomenti seri. Abbiamo fatto fuori quasi un chilo di trofie al pesto (sono l’unica mia specialità, trovo ottime quelle di Barilla). Quando ci siamo congedati uno di loro, uno nuovo del giro, mi ha detto: mi spiaceva un po’ perdere Cardini (Franco Cardini si esibiva quella sera in una lectio magistralis nella suggestiva atmosfera del castello di Casaleggio, a un paio di chilometri di distanza), ma ora ti garantisco che non lo rimpiango affatto. Non so se per via delle trofie, o del clima assieme acceso e rilassato nel quale si era discusso, ma credo che anche lui, come e più di Cederna, abbia visto la via della salvezza. E senza andare sino in India.


 

Una, cento, mille culture

di Paolo Repetto, 18 marzo 2008, a Dino Bonabello

Caro Dino,

ti trasmetto a caldo un paio di impressioni maturate durante la conferenza di ieri sera. Impressioni estemporanee, per ora. Delle cose serie spero avremo modo di discutere più avanti.

Prima di tutto però voglio ringraziarti. Non sono convenevoli, sai che non ne faccio. Il fatto è che mi rendo conto sempre più di quanto sia stata e sia tuttora stimolante la tua conoscenza. È una cosa che va avanti almeno dall’inizio degli anni ottanta. Ci frequentiamo pochissimo, abbiamo rarissime occasioni di incontrarci e di discutere, ma ciascuna di quelle poche volte ha lasciato dei semi. Valga per tutte la mia conversione all’interesse per le scienze antropologiche. Probabilmente era nell’aria, era iscritta nel mio percorso, ma non ho dubbi che a farla maturare siano stati i nostri incontri, sempre episodici e a margine di qualcos’altro, e le discussioni, e magari le divergenze, perennemente rimaste in sospeso (sarà forse proprio questo il segreto?); per non parlare delle cose che hai scritto, a partire da quel “Antropologia culturale, scienze del comportamento ed evoluzione” che conservo ancora in due diverse edizioni (sono un bibliomane!). Di lì è disceso anche il mio diverso approccio con la sociobiologia, con tutto quello che ne consegue in termini di riflessione “politica”. Sappi quindi che a volte gli incontri sono molto più fecondi di quanto non appaia.

E veniamo a ieri. Il relatore che hai presentato è senz’altro un ragazzo eccezionale, incredibilmente colto e capace di divulgare senza supponenza e prosopopea. Ascrivo l’incontro tra i pochi guadagni netti di quest’ultimo periodo. Ma vorrei prescindere in realtà dalla sua relazione, che ha messo molta carne al fuoco ed è risultata per forza di cose piuttosto essenziale. Ripeto, ne riparleremo con calma. Voglio invece fare un paio di considerazioni futili sulla serata in sé e sul dibattito.

  1. Mentre ascoltavo Fredda spiegare l’impatto degli studi sociobiologici sulla cultura, italiana e non, dell’ultimo quarto di secolo, non potevo fare a meno di pensare: «Stasera siamo quattro gatti, non più di quindici, venti persone a riflettere su queste cose, in una città come Alessandria che conterà quasi centomila abitanti. Non credo ci siano in giro altri incontri del genere, né qui né in provincia, e non intendo specifici su questo tema, ma dedicati ad un qualsivoglia tema “forte”. Al massimo ci sarà la presentazione di qualche raccolta di poesie dialettali, o cose del genere. Bene, questo significa che centomila persone, il doppio se consideriamo tutta la provincia, questa sera guardano la tivù, giocano a carte, sono magari al cinema o a mangiare una pizza o a ballare, fanno di tutto insomma, fuorché riflettere, pensare, porsi delle domande. Ora, togliamo i bambini, togliamo gli extracomunitari che hanno problemi ben più immediati di sopravvivenza per potersi porre quelli di senso, gli anziani già fulminati e i malati, togliamo anche che per carità, mica la gente può stare sempre lì a discutere di cose serie; ma quindici o venti su duecentomila sono una percentuale di uno su diecimila! Desolante davvero, se si considera poi che l’alternativa più forte e più praticata è quella dei grandi fratelli, quelli scemi e quelli troppo furbi. Altro che superiorità sulle formiche, e dignità dell’uomo, e Pico della Mirandola! Lo so che non siamo iscritti in alcun disegno di perfettibilità, ma porca miseria, qualcosa di più da tutta la libertà che ci siamo presi nei confronti della natura sarebbe lecito aspettarselo! O forse no? E questo ci porta direttamente alla considerazione sullo specifico de:
  2. i quattro gatti. Qui il tema si fa ancora più serio. Ieri si è avuta l’ennesima riprova di una incapacità tutta italiana di conciliare le due culture, quella umanistica e quella scientifica, e della presunzione e dell’arroccamento di coloro che hanno coltivato solo la prima, e si ritengono comunque abitati da uno spirito superiore. Non è il caso di generalizzare, perché Piana ad esempio rappresenta un modello piuttosto vecchio di “umanista”, di “filosofo”, e oggi certamente non fa più testo (come dimostra lo stesso Fredda, ma mettiamoci dentro anche noi due). Non sono però tanto sicuro che questo modello, anche se in una versione più aggiornata, sia stato davvero del tutto superato. Credo che questa posizione nasca essenzialmente dalla difesa strenua di uno status (nel senso che se esiste uno spirito, un quid che “trascende” la nostra animalità, invece che “discenderne”, ci si sente di esso ministri e partecipi, ergo “superiori”). La definirei una posizione disperata, e quando si difendono le posizioni disperate è facile e naturale cadere nell’integralismo. Quella di Piana (per carità, con tutto il rispetto, è una bravissima persona) è una forma di “integralismo umanistico”, il cui ultimo profeta è stato Croce, ma che produce ancora oggi moltissimi ayatollah. È questo integralismo, ad esempio, che ha impedito di riconoscere Leopardi come un grande filosofo: andava salvaguardato come grande poeta, come interprete di quello Spirito che invece il nostro espressamente negava. Ed è anche ciò che ha impedito a Piana di capire la vera rivoluzione di Kant e il senso della sua “autonomia” etica, e che ancora oggi impedisce alla nostra scuola di porre al centro di qualsivoglia programma, o piano di studi o curricolo o come diavolo vogliamo chiamarlo, il tema dell’evoluzione.
  3. Passiamo ora alla tizia che ha continuato a parlare durante tutta la relazione di Fredda (credo sia una psicanalista, o giù di lì). Concediamo pure in questo caso tutte le attenuanti dell’età (e anche del sesso – mi spiace dirlo, ma credo ci sia una disposizione tutta femminile dietro certa “aggressività” culturale), che dovrebbero spiegare la narcisistica volontà di apparire e di sciorinare un sapere antropopsicologico a settecentoventi gradi: e confessiamo che in fondo ne siamo affetti un po’ tutti. Quello che è grave, però, è che la tizia non ha capito un acca di quanto Fredda diceva, e soprattutto non ci ha nemmeno provato, perché non lo ascoltava, o lo ascoltava solo per tradurlo nel proprio linguaggio e dire: ma si, questo non è altro che ….; ovvero, sappiamo già tutto e non abbiamo bisogno di nessun’altra spiegazione. Ora, questo atteggiamento non è soltanto suo, è di tutto l’ambiente psicoanalitico, (ricordi Fornaro?) soprattutto perché è un ambiente meticcio, a cavallo tra le due culture, che invece di mediarle ha finito per declassarle entrambe. Non sempre, voglio dire, il meticciato ha prodotto buoni frutti.
  4. II che ci conduce a localismo e universalismo culturale. Dietro tua sollecitazione (era questo ciò cui volevi davvero arrivare, e giustamente, perché è questa la ricaduta fondamentale del tema natura-cultura) Fredda ha accennato al problema. Non ho i dati per esprimere giudizi, non avendo ancora letto il suo libro, ma dai pochi accenni mi è parso che rimanesse ancorato ad una enunciazione di buone intenzioni, neppure troppo convinta. Probabilmente non gli è stato dato il tempo per scendere sul concreto. Io rimango dell’idea mia, e cioè che è senz’altro auspicabile un’integrazione progressiva, e che auspicabile o meno ci sarà comunque: ma temo che la velocità alla quale si sta procedendo non porterà a nulla di buono. L’attrezzatura culturale di cui disponiamo è messa a soqquadro, e hai voglia a dire che ogni diversità è una ricchezza, se fai un viaggio in India e mangi alla bengalese o bevi l’acqua locale ti becchi come minimo una dissenteria fulminante. Credo che l’assunzione non adeguatamente filtrata di nuovi modelli culturali, e persino la coabitazione non debitamente regolamentata (per essere chiari, reciprocità) possa risultare fatale per il nostro metabolismo. Questo a prescindere da qualsivoglia giudizio di merito, mi limito ad un giudizio di prosaica convenienza (e comunque, anche su questo non sarebbe male riflettere “con mente pura”, che io traduco con “un po’ di buon senso”).

Tutto qui, per il momento. La verità è che chiudo perché urgono altre cose, che magari mi interessano molto meno ma accampano delle priorità. Ho comunque la certezza di ritrovarti puntuale ogni volta che avrò bisogno di un po’ di spinta per guardare avanti. E non è poco. A presto.