Ariette

di Maurizio Castellaro, 11 marzo 2021

Le “ariette” che postiamo a partire da oggi dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». Ben vengano dunque, se possono mitigare con un refolo di leggerezza un clima che per ragioni obiettive e per stanchezza di chi lo vive sta diventando davvero troppo pesante (n.d.r).

Ritorno a Tex

Non l’avrei mai detto, eppure mi sono ritrovato a comprare su Ebay 200 numeri di Tex per poco più di 100 euro. Per uno che ha avuto l’imprinting al fumetto western con Ken Parker (l’anti Tex per definizione) bisogna ammettere che deve significare qualcosa. Eppure è da un po’ che prima di chiudere gli occhi scelgo le storie di Aquila della Notte. Mi chiedo perché. Ken Parker è la vita vera, un personaggio che quando è ferito sta male davvero, che va a letto con le donne, che finisce in prigione. Berardi ad un certo punto l’ha pure fatto morire, vecchio e malridotto. Giusto così, in fondo. Ma noi? Noi continuiamo ad essere vivi. Anzi, con il tempo ci sembra di capire finalmente qualcosa, e vorremmo che la nostra vita non finisse mai. Allora finisce che ci si butta sull’illusione dell’eterno ritorno dell’identico. Sulla mira infallibile, la morale granitica, la logica inesorabile, la ricerca delle tracce, il salvataggio all’ultimo istante, la bistecca (enorme) e le patatine fritte (una montagna). Ma forse non è solo questo. Forse tornare a Tex per me è un altro modo per tornare al giardino segreto dell’infanzia, ai Tex che da bambino scovavo di nascosto nel comodino del nonno, accanto al vaso da notte (Mefisto, Yama, El Morisco…). Non è nostalgia. Credo piuttosto che sia una forma di manutenzione del legame con il bambino che continua a vivere dentro il mio corpo di uomo, e che con il sguardo sul mondo ingenuo ed ironico mi ha aiutato ad uscire vivo da più di un labirinto. Ne ho ancora bisogno di quel bambino, meglio tenermelo buono.

 

Tuoni e fulmini

Durante un incontro di gruppo il formatore ha chiesto di disegnare la storia del proprio percorso professionale, immaginandolo come una strada inserita in un paesaggio simbolico (curve, salite, montagne, blocchi, pericoli, discese, aiuti, cartelli, ecc.). Eravamo una ventina, e quasi tutti per rappresentare i 18-20 anni della nostra vita abbiamo disegnato sul percorso nuvolacce, tuoni, fulmini, pioggia battente. Poi, usciti da quella fase, partiva di solito un percorso più o meno accidentato, in cui il tempo migliorava di brutto: farfalle, arcobaleni, risorse e visioni. Consola l’idea che la vita abbia concesso a molti (e anche a me) di far quadrare in qualche modo i suoi conti. Ma uscendo dalla consolazione prospettica e retroattiva ho pensato che questo lusso di solito non è dato quando si ha vent’anni, specie se si sta sotto la pioggia, esposti a tuoni e fulmini, senza un’idea di futuro. Credo che per uscire vivi da quella palude si debba imparare ad accendere fuochi sott’acqua, trovare la luce delle stelle oltre le nuvole e capire quali sono i boccioli che per primi fioriranno. I più fortunati trovano maestri che lo insegnano. Gli altri invece, in qualche modo, imparano da soli.

 

Evoluzioni

Per secoli li hanno catturati e costretti con la violenza a salire sulle nostre navi. Oggi per fare un viaggio molto simile sono loro a mettersi in fila, pagando con tutti i soldi che hanno (e con quelli che non hanno ancora). È l’evoluzione del capitale, baby.

 

Il collezionista

di Paolo Repetto, 26 giugno 2020

Sergio Toppi ha scritto e disegnato una splendida storia a fumetti, dal titolo “Il Collezionista”. Armando quella storia l’aveva, in uno degli undici volumetti che raccolgono tutta l’opera grafica di Toppi e che mi ha maliziosamente mostrato, facendomi schiattare d’invidia. Ma aveva qualcosa di più: perché il vero Collezionista era lui.

Non ho alcuna intenzione di scrivere il necrologio di Armando Cremonini, né di intonare un suo panegirico. Non me lo perdonerebbe mai. Queste cose si fanno per persone che consideriamo comunque perse per sempre. Non è il suo caso, non mi sono affatto abituato all’idea della sua scomparsa, e dubito che mai lo farò. Se ne parlo all’imperfetto è appunto perché non considero assolutamente perfecto, concluso, il nostro sodalizio.

Quella che vorrei lanciare è invece una proposta di lavoro, che consenta a me, e a tutti coloro che come me hanno apprezzato Armando e ne soffrono l’assenza, di mantenerlo vivo e presente non solo nel ricordo, ma anche nella quotidianità: di farlo parlando delle cose delle quali avremmo parlato con lui, che erano moltissime, e che, guarda caso, si traducevano poi per lui in forme particolari di collezionismo.

Questa è insomma una lettera aperta agli amici, suoi e miei, per inaugurare quelle che potrebbero essere delle “Armando’s Lectures” da condividere sul sito e magari anche, in qualche diversa occasione, “in presenza”. Gli argomenti come dicevo sono i più svariati, in qualche caso assolutamente peregrini, e voglio inaugurare le “lectures” proprio col segnalarne alcuni, legati quasi sempre dal filo del collezionismo.

Armando collezionava innanzitutto amicizie. Naturalmente bisogna capirsi sull’accezione che uso qui del verbo. Non lo faceva alla maniera dei lepidotteristi, che amano cose belle ma morte: le sue amicizie erano vivacissime, e in costante espansione. Aveva una concezione epidemica dell’amicizia, ma in questo caso il virus, al contrario di quello che lo ha stroncato, era intelligentemente selettivo. I miei amici lermesi, acquesi e alessandrini lo avevano conosciuto tutti, e l’uomo col sigaro era entrato immediatamente nella loro cerchia. D’altro canto era impossibile non essergli amico: era di quelli che una volta conosciuti hai voglia di rivedere al più presto, per farti commentare le ultime novità. Alla sua maniera, naturalmente: non era di quelli che prendono in mano il discorso (per intenderci, quello sono io) e lo portano di qua e di là a loro piacimento. A volte rimaneva silenzioso quasi un’intera serata, per poi chiuderla e renderla memorabile con una osservazione o una battuta che scioglievano in una dissacrante ironia le discussioni ferventi attorno al tavolo. La nostra amicizia è stata suggellata in un vero patto di sangue quando osservai che somigliava persino fisicamente a Curls il Riccio, il “maestro di sarcasmo” delle strisce di B. C. Era lusingato. “Finalmente qualcuno che riconosce la mia vera natura” disse. “Mia madre pensava fossi solo un primitivo”.

Al di là della fortunata contingenza che una decina d’anni fa gli ha fatto prendere casa a due passi dalla mia, ciò che ha fatto scattare in me la scintilla, prima ancora di conoscerlo bene e di frequentarlo con regolarità, è stata la collezione di fumetti. La Bonelli avrebbe potuto usarlo come tester per ogni nuova iniziativa editoriale. Se piaceva a lui, potevano andare avanti. Possedeva tutte le serie di Tex, le originali, quelle a colori, quelle speciali, in brossura o rilegate, nonché quelle di Ken Parker, e La storia del West e infinite altre. Ordinatissime, lette o sfogliate con evidente attenzione, proposte nella grande libreria del salone biblioteca sotto una altrettanto ordinata e completa raccolta di testi filosofici in formato Meridiani. Come assertore convinto dello stretto legame tra l’etica di Kant e quella di Tex Willer, quella disposizione non poteva che conquistarmi. Avevo trovato un condiscepolo.

Di lì è partita una serie ininterrotta di ulteriori agnizioni. Un altro interesse, connesso al primo e immediatamente condiviso, è stato quello per le armi antiche. Non lo esibiva affatto, e me ne ha parlato solo dopo aver visto nella mia vetrinetta due Colt di metà Ottocento. Allora ho scoperto che addirittura partecipava alle aste specifiche, e a volte agiva anche come “uomo di facciata” per i grandi collezionisti. Conosceva quindi i segreti di quel mondo singolare, soprattutto quelli che più si prestavano a diventare aneddoto, e che nel suo racconto invariabilmente riuscivano spassosissimi. Non ho mai visto però la sua collezione completa, solo qualche pezzo di recente acquisizione. Il che la dice lunga sullo spirito e sulla discrezione con i quali agiva in questo campo. Amava le armi antiche come oggetti artistici, come capolavori di meccanica miniaturizzata: non ne possedeva alcuna per la difesa personale.

Quella per le aste era un’altra sua singolare passione. Gli oggetti all’incanto erano in realtà ciò che meno lo interessava. Gli piaceva il gioco in sé. Nei suoi primi tempi a Lerma, quando ancora non aveva la connessione Internet, veniva su da me negli orari corrispondenti alla chiusura delle aste on line, controllava gli ultimi movimenti, le offerte più recenti, poi piazzava la sua tre secondi prima dello scadere del tempo. Si portava a casa vecchie cornici che probabilmente non avrebbe mai utilizzato, busti in bronzo o quadri assolutamente improbabili. È rimasta storica l’acquisizione del dipinto di un artista soprannominato, a ragion veduta, “El Instable”, che nelle sue intenzioni era destinata ad inaugurare una lunga caccia. Sembra infatti che “El Instable” abbia dipinto solo dodici tele, peraltro tutte più o meno identiche (poi giustamente lo hanno fermato), e Armando ambiva ad essere il più importante collezionista mondiale di quel disgraziato: avrebbe senz’altro avuto buone chanches, perché dubito che la concorrenza fosse agguerrita. E confesso di non aver mai ben capito se quella ambizione-minaccia fosse reale, se davvero, lasciato libero di trafficare, avrebbe portato a casa altre simili ciofeche (era lui stesso a chiamarle così: “ma hanno un loro torbido fascino”, aggiungeva) o tutto facesse parte del suo gioco. Aveva comunque anche provato ad imporre il dipinto, di dimensioni rubensiane, nel salone biblioteca, sopra il camino, ma la decisa resistenza di Patrizia (o lui, o io), spalleggiata dal sottoscritto, lo aveva convinto a rimuoverlo. Solo per sostituirlo con un altro, altrettanto grande e possibilmente ancora più brutto e inquietante.

Il piacere sottile dell’orrido, ma è più appropriato parlare, come diceva lui, di “torbido fascino” dello splatter, traeva le massime soddisfazioni dal cinema. Armando poteva farti l’elenco dei cento film in assoluto più brutti della storia, roba che al confronto i vari Pierini e commissari Monnezza sono capolavori da Oscar, e li aveva visti pressoché tutti. Non so come gli riuscisse di scovarli. Ci volevano un fiuto e una dedizione notevoli. Era un grande indagatore della stupidità umana, gli piaceva sondarne i limiti, nella consapevolezza che limiti in questo caso non ce ne sono. Il suo tipo di approccio gli apriva immense praterie, e sono convinto che sotto sotto arrivasse a nutrire anche affetto per quelle porcherie e per i disgraziati che le creavano. Il cinema, dicevo, era la sua fonte massima di soddisfazione, ma non si faceva mancare nulla nemmeno nelle letture. Era però un lettore a due facce: da un lato polizieschi e fantascienza, dall’altro testi di storia e biografie, se possibile legati a grandi trighi e complotti. Qui veniva fuori un’altra particolarità della sua intelligenza. Era affascinato dall’idea di una possibile “storia parallela”, guidata da mani invisibili, ma nella realtà non ci credeva affatto. Sapeva tenere separate le due dimensioni, cosa che di norma invece non accade. E non a caso era il più acuto nel cogliere le assurdità e le ridicolaggini di ogni forma di complottismo. “Perché io le vedo da dentro” mi diceva. “Tu sei uno scettico a prescindere, questa roba non la consideri nemmeno. Ma a sospettare, non fosse che per la legge delle probabilità, qualche volta ci si azzecca”. Aveva ragione.

Potrei andare avanti all’infinito, raccontando di una genovesità schietta e rivendicata, dei video surreali che pescava chissà dove, del culto del Brico, della specializzazione culinaria nei “piatti forti”, trippe, selvaggina, funghi, brasati, stufati (credo che il suo sogno fosse uno stufato di dinosauro), della collezione di pipe (fumava il sigaro. Aveva costantemente in bocca un mezzo toscano, o un quarto, o un decimo. I sigari però non si possono collezionare, non ha senso, alla lunga si deteriorano, conviene fumarli subito. E allora batteva i mercatini e collezionava pipe). Ma ho promesso di lasciare spazio agli altri amici, di limitarmi ad aprire loro la strada.

Chiudo allora con uno dei ricordi più vividi che ho di lui. Risale a un pomeriggio assolato di qualche anno fa. Armando era seduto su un gradino, all’ombra, col sigaro in bocca, e mi osservava mentre col martello pneumatico scavavo nel tufo del cortile una buca, dove avrei messo a dimora due piccole palme (le aveva trovate Mara in svendita, e naturalmente non aveva saputo resistere). Solo lui poteva apprezzare sino in fondo l’assurdità e l’inutilità di quel lavoro. Pretendevo di far crescere delle piante da sabbia in una specie di catino di cemento. Non diceva comunque parola, e quando ogni tanto lo guardavo, in mezzo ai rivoli di sudore che mi colavano dalla fronte, non lasciava trapelare alcun segno di divertimento: sapevo che gli stavano ridendo anche le dita dei piedi, ma continuava a osservarmi imperturbabile. Credo che in fondo la cosa lo affascinasse. Era meglio dei migliori film splatter: mi stava filmando con gli occhi. Un giorno l’avrebbe raccontata, e chissà cosa poteva uscirne.

Le palme naturalmente non sono cresciute di un centimetro, e sono state oggetto della sua divertita attenzione ogni volta che mi raggiungeva in cortile. Oggi sono invece pretesto allo scatenamento del ricordo: mentre innaffio i fiori cresciuti tutt’attorno non posso evitare di rivedere quella scena.

Guardo al gradino sul quale era seduto, e sorrido.

 

Provaci ancora, Wile!

di Paolo Repetto, 2017

Da quando l’ho sgombrato da circolari ministeriali e adempimenti e organi collegiali il cervello viaggia che è una meraviglia, a ruota libera. E visto che gli orizzonti si sono comunque ormai ristretti, gli capita sempre più frequentemente di tornare a fare tappa in luoghi della memoria quasi cancellati, e di ripercorrerli con uno sguardo disincantato. Il venir meno dell’incanto non produce però solo malinconia: quasi sempre si accompagna a riscoperte, a piacevoli occasioni di stupore. Significati inattesi subentrano alle emozioni non più recuperabili e portano con sé inedite curiosità, nuove domande.

Mi è capitata una cosa del genere durante uno svogliatissimo zapping, che mi ha fatto scoprire un canale tematico dedicato interamente ai cartoni animati. Mentre lasciavo scorrere inseguimenti e impatti e frenate con piedi fumanti mi sono chiesto se qualcuno abbia mai indagato il retroterra filosofico dei cartoonist americani del secolo scorso. Non mi riferisco a quelli della scuola Disney, che sono stati studiati più di Spinoza, ma a quelli della Warner, gente come Chuck Jones o Fritz Freleng (per intenderci, i creatori di Bugs Bunny, Gatto Silvestro e Pantera Rosa). E nemmeno alle analisi sociologiche nelle quali si comparano i due modelli, ma a tentativi di scavare un po’ più in profondità, di risalire al “nucleo di pensiero” originario. Non mi risulta niente del genere. Eppure le Looney Tunes prima e le Merrie Melodies poi hanno rappresentato per un paio di generazioni d’oltreoceano il primo approccio alle tematiche esistenziali di base. Si nasce cacciatore o preda? E può l’intelligenza invertire i ruoli?

I ragazzini americani della mia leva, quelli raccontati da Bill Bryson in “Vestivamo da Supermen”, sono cresciuti all’insegna di un dualismo diverso da quello nostrano: Warner o Disney, prima al cinema e poi in televisione, a seguire Superman o Batman e infine Beach Boys o Jimy Hendrix (un po’ come da noi Beatles o Rolling Stones). Erano oggettivamente diverse le condizioni, il peso molto più precoce e significativo dei nuovi media (la televisione) e la consuetudine con quelli già affermati (il cinema, i fumetti), e naturalmente la differente attitudine che non poteva non esistere tra un popolo uscito vincitore dal conflitto senza che il suo territorio ne fosse stato toccato, e convinto di poter dominare il mondo, e popolazioni reduci, risultassero vincitrici o vinte, da orrori e devastazioni indicibili. Bene, le Looney Tunes rappresentavano in quel contesto l’equivalente dei Rolling Stones (sia pure con qualche distinguo), ovvero la versione politicamente scorretta del racconto della vita. Nel loro mondo non vigeva la morale convenzionale e puritana in corso a Topolinia, ma la legge della frontiera: la vita è guerra, e sopravvivono i più furbi. Ma forse le cose non sono così semplici.

Ho il sospetto che a de-costruire i cartoons della Warner verrebbero fuori grosse sorprese. Il rischio, come sempre quando si gira attorno allo schermo o si smonta un giocattolo, è quello di rovinare la magia del divertimento puro, e per questo mi guarderò bene dal provarci. Sono tuttavia convinto, anche senza voler attribuire intenti che non c’erano o non erano chiari neppure agli autori stessi, che il messaggio trasmesso fosse ben più sottile di quanto una critica superficiale e politicamente molto orientata abbia rilevato. E a me interessano, più che le origini, la formulazione che di questo messaggio è stata fatta e la lettura che ne è stata data: insomma, mi interessa il risultato finale, che mi sembra straordinariamente efficace.

In Europa ce la rimeniamo da un paio di secoli con la storia del rapporto ambiguo dell’uomo con la cultura tecnica, e la questione ha prodotto tomi ponderosissimi e controversie filosofiche infinite. Gli americani, che con la tecnica ci sono nati, quando già cominciava a prendere una piega inquietante, e che ne hanno sempre fatto un uso più disinvolto che non i loro parenti d’oltre atlantico, sono riusciti a parlarne anche con ironia. Questo non significa che abbiano trovato un modus vivendi più sereno, anzi, in certi casi l’ironia ha prodotto un distacco sin troppo presuntuoso: ma almeno hanno usato forme di espressione comprensibili a tutti e hanno riassunto la condizione dell’uomo nell’età tecnologica in immagini semplici e per questo tanto più incisive.

L’esempio più significativo, che è anche il mio cartoon preferito da sempre, è quello del Vilcoyote (per gli americani Wile E. Coyote, così come il suo antagonista, il Bip Bip, per loro è Road Runner). Quel “da sempre” va inteso compatibilmente con la programmazione italiana, iniziata molto tardi, in pieni anni settanta, mentre il personaggio ha esattamente la mia età, è del ’48 (come Tex e come Il piccolo sceriffo. Pecos Bill è più giovane solo di pochi mesi: una grande annata!). In precedenza circolavano, oltre quelli della Disney, solo Tom e Jerry, Speedy Gonzales e i personaggi di Hanna e Barbera.

All’epoca non conoscevo la faccenda dell’età, ma la cosa non era influente: il Vilcoyote mi ha conquistato subito. Avevo ancora nel sangue la prima lettura “adulta”, quella della serie (oggi del tutto dimenticata) di “El Coyote”, che negli anni cinquanta andava per la maggiore, e questa consonanza deve avere avuto la sua parte. Oggi mi spiego tuttavia anche il ritardo nella programmazione: in effetti, al di là delle apparenze, il Vilcoyote è un personaggio per adulti. I bambini non possono identificarsi con un eterno perdente, e il Bip Bip non è un vero antagonista, come può essere Titti per Silvestro. Lo so per certo perché osservavo le reazioni di mio figlio, quando da piccolo lo costringevo a sorbirsi tutti gli episodi senza farmi domande sceme o troppo intelligenti, mentre lui preferiva di gran lunga Goldrake, che io detestavo. La vicenda del Vilcoyote è il trionfo totale del non senso, e i bambini invece un senso lo vogliono.

Immagino sia questo il motivo per cui la televisione italiana lo ha proposto così tardi. Ha atteso che i cartoni animati ottenessero il passaporto culturale per poter essere goduti anche dagli adulti senza vergognarsi. E che ci fosse in sovrappiù il visto per lo humor demenziale (Jerry Lewis da noi non ha mai funzionato, abbiamo aspettato Ciccio e Franco), facendo un po’ confusione, perché la comicità demenziale col nonsense non c’entra niente, anzi, è il suo contrario. Ma è un appunto che onestamente non si può muovere ai nostri programmatori: nella cultura anglosassone c’è una lunghissima tradizione in questo campo, che passa per Edward Lear e Lewis Carroll, mentre in quella mediterranea vincono Rabelais e Bertoldo.

Comunque, come dicevo, il Vilcoyote è balzato immediatamente in testa al mio indice di gradimento. E poco alla volta, col succedersi degli episodi, è anche stato sempre più chiaro il perché. La motivazione l’ha riassunta benissimo Eugenio Finardi nel ritornello di un suo brano fortunato:

Ma io mi sento come Vil Coyote,
che cade ma non molla mai,
che fa progetti strampalati, troppo complicati
quel Bip Bip lui non lo prenderà mai…
Sì siamo tutti come Vil Coyote,
che ci ficchiamo sempre nei guai:
ci può cadere il mondo addosso, finire sotto un masso,
ma noi non ci arrenderemo mai

Insomma, Vilcoyote si fa amare perché è il simbolo della perseveranza: ha un ideale e non molla, cascasse il mondo (ciò che nel suo caso accade puntualmente). Potrebbe sembrare soltanto stupida pervicacia, ma non è così. Non è la concretezza a far buono un ideale. In fondo non gli interessa affatto prendere Bip Bip, dubito persino che saprebbe cosa farne, una volta catturato: gli verrebbe meno lo scopo della vita. Bip Bip è in fondo l’isola che non c’è, l’utopia che insegui per tutta la vita e che quando credi di poter raggiungere si sposta sempre un po’ più in là, lasciandoti scornato. Ma pronto a ricominciare.

Fate mente allo sguardo, mentre sta precipitando in un canyon della Mountain Valley da un chilometro di altezza, le orecchie abbassate sulle spalle dopo un ultimo tentativo di usarle come elica per risalire, e sa già che il masso che si è staccato cadrà esattamente sulla sua testa: o mentre attende di essere passato a sfoglia dallo schiacciasassi che ha manovrato al contrario, o di essere fatto a brandelli dalla dinamite che esplode in ritardo. Guarda fisso nella camera, quando ne ha il tempo si ricompone anche, fingendo nonchalance, e sembra dire: “Anche stavolta è andata così, ma ci rivediamo”.

Naturalmente Vilcoyote non piace allo stesso modo a tutti. In Italia poi si è ritagliato solo un pubblico di estimatori di nicchia. E anche questa cosa si spiega, perché è l’esatto contrario della nostra icona nazionale, di Fantozzi, che pure ne ha palesemente copiato gli schemi narrativi. Al di là di tutte le ovvie differenze formali, le vicende dei due sono in effetti comparabili. Abbiamo di fronte due modelli surreali, e la fortuna del secondo sta paradossalmente nella verosimiglianza di fondo: al di là dell’esasperazione delle situazioni e dei caratteri, per i parametri nostrani risulta senz’altro realistico l’atteggiamento vile e servile. Vilcoyote insegue un’irraggiungibile utopia, ma questo almeno lo porta ad ingegnarsi: Fantozzi patisce una normalità che gli spetterebbe se solo osasse essere uomo, e questo lo porta a degradarsi. Non stupisce che milioni di italiani eternamente frustrati e rancorosi abbiano trovate divertenti le sue disavventure: ridevano di qualcuno che li rappresentava tutti ma almeno apparentemente era messo peggio di loro. E nemmeno è strano che il personaggio abbia riscosso tanta simpatia nell’ex Unione Sovietica.

C’è di più, però. Il vero motore dello humor coyotesco è il rapporto con la tecnica, la fiducia inossidabile nei marchingegni sempre più complessi che la favolosa A.C.M.E. gli mette a disposizione. Nel campionario della ditta c’è di tutto, dai semplici mega-elastici ai pattini con propulsione a razzo, dalle granaglie zavorranti ai cannoni sparaneve. Basta ordinare, e si riceve lo scatolone a domicilio. (Siamo nella preistoria, Internet non esiste ancora, ma è già attivo il Postal Market). Il crescendo comico è sempre lo stesso (la comicità si basa proprio su questo, sulla ripetizione, sul fatto che lo spettatore si attenda di veder tornare cesti gesti, certi tic, certe parole): passa ogni volta per le fasi della progettazione (con disegni preparatori e i foglietti delle istruzioni formidabili nella loro icasticità), dell’esecuzione, che è un capolavoro di ardimento e ingegno, e del flop finale, con ricaduta disastrosa sull’artefice. Sono secoli di letteratura e decenni di cinema riassunti in cinque minuti: non manca nulla, dall’apprendista stregone all’hybris tecnologica, dall’irrompere del caso alla ribellione delle macchine.

Le strategie narrative sono perfette. Intanto il Coyote non parla mai. Se deve comunicare o commentare qualcosa lo fa con dei cartelli o con le espressioni del viso. La voce lo caratterizzerebbe, ne farebbe un individuo, mentre Wile è un archetipo. Nelle sue vicende il sonoro è rappresentato solo dal fatidico bip bip di Road Runner e dagli schianti delle esplosioni e degli impatti, dagli scricchiolii delle costruzioni o delle rocce, dai fischi che accompagnano le cadute vertiginose o l’arrivo di razzi o proiettili che hanno invertito la rotta. Per il resto, il silenzio ci consente quasi di avvertire il lavorio costante del suo cervello, il compiacimento per le ingegnose soluzioni di volta in volta escogitate. Leggiamo in poche immagini la storia culturale dell’umanità.

C’è poi il rifiuto irridente di ogni verosimiglianza, accentuato dal fatto che quelle soluzioni e gli strumenti per attuarle hanno una loro logica interna, di per sé sarebbero efficaci, ma soccombono immancabilmente al caso, ad un movimento maldestro, a un fato perverso che applica senza deroghe la seconda legge di Murphy.

Persino il paesaggio ha un suo perché. È quanto di più desolato si possa immaginare. Nessuna delle storie si svolge in un ambiente urbano o contaminato da altre presenze. E questo scenario rende ancora più improbabile l’irruzione della tecnologia, e ne giustifica la rivolta. Se dipingo l’ingresso di una galleria su una parete di roccia per attirare in trappola lo struzzo, è naturale che quando mi affaccio a vedere cosa non abbia funzionato ne sbuchi una locomotiva lanciatissima, e che mi spiani.

Noi europei abbiamo avuto inoltre la fortuna di conoscere i cartoons nella versione televisiva, in bianco e nero (mentre in America passavano a colori, sul grande schermo, già prima degli anni cinquanta). L’assenza dei colori, così come quella delle voci, evoca una dimensione primordiale, fuori dal tempo. Il bianco e nero traduce quelle linee essenziali in incisioni rupestri, in fossili che riemergono dalla materia (e qualche volta, dopo un’esplosione particolarmente violenta o schiacciamenti che stampano la figura del povero Vilcoyote sulla roccia, l’effetto è volutamente cercato dagli autori). Non è un caso che la sequenza più esilarante del cinema degli ultimi cinquant’anni, quella posta in calce a “L’era glaciale”, con il proto-scoiattolo che per aprire una noce provoca l’inizio del disgelo attraverso un effetto domino irresistibile, sia totalmente debitrice nei modi e nel senso alla reminiscenza del nostro eroe. Ciò che racconta è come la téchne, una volta messa in moto, cambi irrimediabilmente il mondo.

Abbiamo già visto però che gli autori del Vilcoyote andavano ben oltre: non pretendo che ne fossero pienamente consapevoli, ma questo poco importa: agli occhi di un settantenne tornato bambino (o mai andato oltre quello stato) le disavventure di Wile suggeriscono due cose:

  1. Non c’è téchne che tenga, perché il mondo, la natura, sanno difendersi benissimo da soli.

  2. Il tentativo di riordinare un universo che al creatore è venuto così così, usando tutti gli artifici politici e scientifici che il nostro cervello irrequieto, la nostra personalissima A.C.M.E, ci consente di ideare, è destinato invariabilmente a fallire, ma merita comunque di essere perseguito.

Il gioco sta in sostanza in uno spiazzamento continuo rispetto alla logica “strumentale” (se applico determinati criteri ottengo determinati risultati), ma prevedibilissimo rispetto a quella “naturale” (la natura ha dei progetti, o degli sbadigli, che l’intelligenza non conosce). Noi siamo usciti da quest’ultima e abbiamo necessariamente adottato la prima: se non lo avessimo fatto ora faremmo parte dei milioni di specie estintesi su questo pianeta da quando ospita la vita. Siamo diventati tecnologici non per una perversione insensata, ma per necessità di sopravvivenza indotte dalla nostra inadeguatezza biologica. Proprio come il Vilcoyote, che non può competere in velocità con Bip Bip e cerca di supplire con l’intelligenza. Poi magari ci siamo un po’ montati la testa, e abbiamo finito per usare troppo spesso l’intelligenza contro noi stessi. Sul lunghissimo periodo la natura la vince comunque sulla tecnica, così come l’intelligenza può deteriorarsi in una forma pericolosissima e stupidissima di autolesionismo specifico, e questo lo diamo ormai per assodato.

Un po’ meno scontato era però settant’anni fa, quando la tecnica aveva appena mostrato ad Hiroshima tutto il suo potenziale, sia pure nella versione distruttiva.

Per questo mi sono interrogato sul retroterra filosofico dei cartoonists. Günther Anders non aveva ancora scritto L’uomo è antiquato e Heidegger in America lo conoscevano si e no in quattro: e allora bisogna riconoscere che Chuck Jones e Fritz Freleng li avevano preceduti. In allegria, ma non in totale leggerezza. Avevano colto perfettamente il senso del destino umano, quello raccontato nel mito di Sisifo, lo avevano integrato con storia di Frankenstein, ma lo avevano infine sdrammatizzato trasformandolo da una punizione in una vocazione. Tanto di cappello.

Credo che a questo punto cercherò di rivedermi tutta la serie, o almeno i primi episodi, quelli ancora non scaduti nella routine. A proposito, lo sapevate che il primissimo episodio si intitola Fast and Furry-hous, (Lavato e stirato) e che il titolo è stato ripreso, con una piccola ma significativa variante lessicale (Fast and Furious), per la serie cinematografica sulle corse d’auto clandestine che impazza da qualche anno sul grande schermo?

Provate a confrontare i due prodotti: per capire come si è arrivati al presente varrà senz’altro più di queste righe, ma anche di qualsiasi libro di storia o indagine sociologica.

 

Il pellegrinaggio a Lucca

di Paolo Repetto, 30 aprile 2014

Sono tornato a Lucca Comics a distanza di quarant’anni. Avevo partecipato ad una delle primissime edizioni, quando ancora la manifestazione era una sorta di convegno clandestino per affiliati e si teneva in una palestra. Tramite Franco Fossati, autore di quella che rimane ancora oggi la migliore enciclopedia sull’argomento, scomparso pochi anni dopo, avevo conosciuto il fior fiore dei soggettisti e dei disegnatori. Franco si divertiva a spacciarmi come uno dei massimi esperti italiani del settore, per cui credo di essere finito sulle scatole a tutti prima ancora di aprir bocca: ma era stata comunque un’esperienza fantastica. Negli anni successivi per un motivo o per l’altro non mi è più riuscito di tornare e l’interesse (per il salone, non per il fumetto) poco alla volta era venuto meno. Fino a quando si è offerta l’opportunità di rivisitarlo assieme a mio figlio e a mio nipote. Mi è parso simpatico: tre generazioni di devoti in pellegrinaggio alla Mecca dei comics.

Al santuario di Lucca ho trovato di tutto, tranne i fumetti. Ho vissuto per mezza giornata in un mondo a me assolutamente sconosciuto, per molti versi incomprensibile, e sono tornato con la coscienza di essermi perso ultimamente un sacco di cose, di aver saltato troppi passaggi per poter sperare di decifrarlo. Eppure tutto questo tempo non mi ha visto pascolare capre in un alpeggio, l’ho vissuto nella scuola, in mezzo ai ragazzi, e dovrei essere accettabilmente aggiornato sui cambiamenti. Invece niente: sono rimasto sconcertato.

In primo luogo dalle dimensioni assunte dal fenomeno. Per continuare in futuro a riempire le piazze Grillo e la Camusso non dovranno far altro che organizzare festival del fumetto. Lucca era letteralmente congestionata, si stentava a muoversi. L’infilata delle vie rettilinee che dalla piazza del Duomo arrivano sino alle mura offriva uno spettacolo strabiliante: un mare di teste come non avevo mai visto, né per le manifestazioni politiche né per i concerti rock. Da quelle trasversali si riversavano incessantemente altre ondate, e lo stesso valeva per il percorso sulle mura. Una marea umana.

In queste condizioni siamo riusciti con fatica ad accedere a due o tre dei trenta e passa padiglioni distribuiti per la città, e più faticosamente ancora ad uscirne, senza naturalmente poter vedere nulla di ciò che ci interessava. In quelli destinati al mercato se ti fermavi a chiedere un prezzo o a cercare un numero di “Oklahoma” venivi trasportato allo stand successivo senza nemmeno muovere un piede. In più, essendo la manifestazione distribuita su tutta l’area cittadina, risultava praticamente impossibile coglierne qualcosa di più che uno scorcio. Insomma, abbiamo percorso quasi cinquecento chilometri, viaggiando per circa cinque ore, per fermarci poi a Lucca nemmeno quattro, compreso un veloce primo piatto.

Deluso, quindi? No, affatto. A parte il piacere di esserci andato con la progenie, ai fumetti ho rinunciato praticamente subito e mi sono invece concentrato su quel che mi stava capitando attorno. Provo a spiegarlo, o almeno a cercare di descrivere le mie sensazioni.

Già al momento in cui abbiamo dovuto posteggiare alla romana, perché naturalmente non c’era un buco libero per un raggio di chilometri tutto attorno le mura, la mia convinzione che il tempo dei fumetti fosse finito da un pezzo ha iniziato a vacillare. Quando poi ho visto la quadruplice fila di persone che si apprestavano a pagare sedici euro a testa (e niente riduzioni, né per gli over sessantacinque né per insegnanti o per benemeriti del settore – le ho provate tutte) mi sono persuaso di aver preso una solenne cantonata. Infine, al momento di tentare di addentrarmi in una delle vie che portano al centro, i dubbi erano diventati certezze. Il tempo del fumetto, per come lo intendevo io, era davvero finito, e quindi in questo senso avevo ragione, ma ne era iniziato un altro, che con la cultura del fumetto aveva a che fare in tutt’altro modo.

Immerso nella bolgia, tenendo ben stretta la mano di Leonardo, mi sono trovato a spintonare o ad essere spintonato da copie più o meno riuscite dell’Uomo Ragno, di Thor, di Lupin III e di decine di altri personaggi che non conoscevo e dei quali dovevo chiedere spiegazione a mio figlio e a mio nipote. I primi gruppetti mascherati che avevo scorto, ancora al di fuori delle mura, li avevo sbrigativamente commiserati: mi hanno sempre infastidito i travestimenti e le mascherate. Pensavo di aver beccato qualche isolato esibizionista o mentecatto (un tizio era vestito da pilota d’aereo, e attorno alla vita aveva un biplano con un’apertura alare di due metri). Appena entrato nella fila, però, ho realizzato che quelli travestiti da Batman o da Capitan Sparrow o da Zombie non erano ragazzini, ma persone che il giorno dopo avresti potuto trovarti di fronte in un ufficio delle imposte, in uno studio medico o in una sala insegnanti, e che non erano quattro deficienti a piede libero, ma almeno un terzo dei convenuti: allora le cose han cominciato ad essere chiare. L’ottanta per cento di quella marea di gente non era affatto interessato a comprare o a vedere i fumetti, a farsi siglare l’ultima grafic novel dagli autori o a inseguire le mostre. Era lì per essere vista, mossa dalla stessa coazione ad esibirsi che ormai contamina ogni bagno di folla e di telecamere, dalle tappe del Tour o del Giro d’Italia alle partite allo stadio, dai grandi raduni di protesta ai megaconcerti e ai funerali dei Vip. Lucca Comics era per costoro un puro pretesto, particolarmente appetitoso perché la natura della manifestazione almeno in parte giustificava la pagliacciata. Volevano apparire per un attimo, essere visti sia pure di sfuggita da decine di migliaia di persone, diventare oggetto dell’attenzione collettiva, almeno sotto le false specie dell’eroe al quale si erano ispirati. Non si trattava di “sentirsi” per un giorno nei suoi panni: semplicemente, di vestire i suoi panni. Non credo che questa gente giri per casa indossando anziché il pigiama la tuta dell’uomo ragno (o almeno lo spero, per i loro congiunti). Travestirsi significa spersonalizzarsi, ripudiare la propria identità, e questo riesce molto meglio in mezzo ad una grande massa, nel totale anonimato.

Per un po’ mi sono detto che tutto ciò è molto triste. Provavo a vedere le cose con gli occhi di mio nipote, ma era peggio, perché Leonardo è quasi un clone mio e rifiuta già di mascherarsi anche a Carnevale. Poi, poco alla volta, ho cominciato a realizzare che magari così triste non è, o lo è solo per me, che pretendo di capire cosa passi nella mente di un maggiorenne bardato da tartaruga Ninja, con tanto di guscio, e non riesco ad ammettere che possa divertirsi. Ho riflettuto: certo, se uno la domenica non ha di meglio da fare che vestirsi da pagliaccio qualche problema deve averlo. Se poi a farlo sono migliaia, e tutti i giorni della settimana, il problema allora è sociale. E’ indice di un disagio collettivo, come dicono gli esperti televisivi. Su questo non ci sono dubbi, e al loro disagio aggiungo anche il mio, quando li ascolto. Ma cosa significa? che la capacità di distinguere tra reale e virtuale è sempre meno viva? Che l’apparire ha ormai vinto sull’essere? Che siamo agli ultimi bagliori del crepuscolo dell’Occidente? Non c’era bisogno di trascinarsi sino a Lucca per saperlo: ma nemmeno è lecito leggere tutto come manifestazione di un degrado spirituale inopinato, quasi si arrivasse da un mondo e da un’epoca in cui prevalevano la coscienza civica, l’impegno civile e politico, la forza delle idee e la capacità di perseguirle con coerenza.

Dopo il primo sconcerto, dunque, mi sono imposto di fare mente locale con un po’ più di onestà. E ho dovuto a malincuore ammettere che l’azzeramento di tutte le idealità lo ha realizzato la mia generazione, non quella dei mutanti che si aggiravano per Lucca. Qui sarà bene tuttavia, a scanso di equivoci e pur già sapendo che mi caccerò nel solito mappazzone, chiarire le cose: non mi appresto ad un autò da fé, non voglio liquidare la faccenda addossando ogni colpa al Sessantotto, o al Settantasette, o a qualsiasi altro anno simbolico di quel periodo lì. Queste sono stupidaggini buone per gli opinionisti a gettone e per il pubblico che li ascolta. Ma nemmeno sopporto l’atteggiamento di quelli che, all’epoca armati di libretto rosso e oggi a gettone anche loro, archiviano il tutto con un sorrisino di sufficienza, a significare che sono già un bel pezzo avanti, che come scoperta è un po’ tardiva e occorre darci un taglio. È troppo facile: dare tutto per scontato è il modo più vile di far sparire sotto il tappeto le verità che ci disturbano. Credo sia invece opportuno ogni tanto ritirarle fuori e guardarle negli occhi, per ricordarci che ciò che oggi lamentiamo è solo una conseguenza di quanto accadeva quaranta o cinquanta anni fa.

Dalla metà del secolo scorso, per la prima volta nella storia, e sia pure solo in Occidente, un’intera generazione è cresciuta senza dover fare quadrare il pranzo con la cena, e neppure con la colazione del mattino dopo. Il domani era già prevedibile sulla scorta dell’oggi, e la colazione assicurata. E dal momento che a pancia piena si dorme e si sogna meglio, tra la cena e la colazione c’era posto per speranze che si discostavano da quelle relative a un piatto di fagioli, e riguardavano l’equità, la giustizia, la libertà, la possibilità per tutti di “realizzarsi”, ecc.

Ora, è vero che sogni di questo tipo hanno sempre abitato, di giorno e di notte, le menti degli uomini, o almeno di quelli che da Caino in poi hanno pilotato la nostra “evoluzione” culturale e sociale. Ed è sperabile che continuino a farlo. Il problema è però che i sogni fatti a pancia piena sono inaffidabili. Sono fatti della stessa sostanza dei cibi, direbbe Shakespeare. Cambiano a seconda del menù, vengono velocemente metabolizzati e altrettanto velocemente scaricati. Quindi ciò che lungo i millenni della storia umana, permanendo per i più immutata e frugale la dieta, era stato assimilato e trasformato in idealità (e lasciamo perdere il fatto che queste idealità spesso si siano tradotte in mal di pancia o in incubi: è un altro discorso) nella mia generazione, complice forse l’eccesso di secrezioni gastriche, ha prodotto solo ideologie. L’idealità è qualcosa che permea tutto l’agire, entra sottopelle, circola nelle vene e ti chiama responsabile di ciò che fai, mentre l’ideologia è fanatismo stolido, che passa direttamente per l’intestino, e scarica tutte le responsabilità sugli altri.

Noi, intendo quelli nati come me nell’immediato dopoguerra, ne avevamo sulle spalle una seria, di responsabilità: proprio perché non eravamo più spinti dall’urgenza della fame, e più ancora perché avevamo ereditato dalla recente tragedia degli spazi inediti di libertà, avremmo dovuto guardare indietro, valutare, darci gli strumenti per salvare quanto c’era di buono e cercare di raddrizzare quanto continuava ad andare storto. Invece, visto che il pranzo era assicurato, ci siamo presi delle solenni sbornie, e non solo metaforiche, in nome di una malintesa interpretazione di quella libertà: una concezione che prescindeva da ogni ipotesi che la libertà fosse innanzitutto una conquista individuale continua, e non un carattere geneticamente trasmesso o un bene socialmente garantito.

Ecco allora che la prevedibilità, perseguita per secoli come una garanzia di sicurezza, per la mia generazione da valore positivo si è trasformata in fattore negativo. Alla base c’era una denuncia più che legittima e fondata, anticipata dalla letteratura, dalla filosofia, dalla sociologia, dall’arte di tutto il primo novecento: quella del rischio di scivolare semplicemente da una massificazione forzata ad una consensuale, di essere irretiti nel totalitarismo “morbido”, democratico e invisibile, del consumo. Ma dando di questa denuncia una lettura rozza e semplicistica, ideologica appunto, si è fatta dei valori un’unica ammucchiata e si è buttato tutto senza distinzioni, in nome prima della rivoluzione che era vicina, poi della libido che urgeva da tutti i pori, infine di un privato che per un po’ è stato spacciato per politico e poi è diventato semplicemente farsi i cavoli propri. Una volta raggiunta, la sicurezza è stata sofferta come una gabbia; la condizione che avrebbe dovuto finalmente consentire a tutti, o almeno a tutti quelli che davvero lo desideravano, di realizzarsi in base alle proprie potenzialità e aspirazioni, è scaduta a narcotico per le masse. Lo stesso vale per la democrazia, schifata come strumento del dominio “borghese”, e per quel lavoro che oggi è rivendicato come un diritto, ed è nella realtà un privilegio, mentre quarant’anni fa era rifiutato dagli stessi difensori odierni come una forma sempre e comunque di alienazione e di sfruttamento. Ce le ricordiamo queste cose? Occorreva rompere il guscio ovattato della società del benessere e del consumo, smascherare le infamie del modo di produzione che le stava alle spalle, non solo per garantire che la minestra fosse assicurata a tutti, ma anche, e soprattutto, per consentire al non prevedibile di irrompere, e ridare gusto ad una vita che quella minestra aveva resa insipida. Qui è il nodo. Invece di lavorare con umiltà e pazienza per porre argini solidi al rincoglionimento mediatico che ci veniva propinato si è scelto di giocare: ci siamo quindi travestiti di volta in volta da Che Guevara, da figli dei fiori, da indiani metropolitani, da santoni buddisti, ci siamo incamminati per tutti i possibili sentieri dell’ideologia e dalla fede, sempre ben attenti però a non smarrire il biglietto che garantiva la corsa di ritorno. In più, a differenza dei nostri figli e nipoti, avevamo la pretesa che il gioco fosse riconosciuto come serio, e i nostri travestimenti come divise di una militanza rivoluzionaria. Nei casi estremi, chi questo riconoscimento lo negava veniva anche punito.

Ora, è evidente che il travestimento fa parte della natura umana, anzi, nella forma del mimetismo è proprio persino degli animali. Ma io qui parlo di un travestimento “culturale”, non di una semplice strategia di sopravvivenza. E anche di qualcosa di più specifico del travestimento quotidiano. Quando ci alziamo il mattino il nostro primo atto è indossare la maschera di giornata, anzi, le tante maschere: quella di padre, di marito o compagno, di condomino o di proprietario di cane, ecc… Ma questo ci sta, è nell’ordine delle cose. Il problema nasce quando pretendiamo che il travestimento diventi collettivo, che gli altri si adeguino alla finzione che stiamo recitando, entrando a farne parte nei ruoli e con lo spirito che noi vorremmo assegnare loro. Allora vengono fuori i problemi, perché gli abiti che abbiamo scelto non vanno bene a tutti, le taglie sono sbagliate, o semplicemente agli altri quella maschera e quel ruolo non piacciono.

Vi chiederete con angoscia dove sta portando questo pistolotto, e soprattutto cosa c’entra con Lucca e con gli uomini ragno. Ci arrivo. Ci riporta finalmente proprio lì da dove siamo partiti, ma con uno spirito diverso, per riparlare del grande assente, il fumetto. La stagione d’oro del fumetto, e non mi riferisco alla qualità, ma alla rilevanza culturale e sociale del suo impatto, si era già chiusa proprio a Lucca quarant’anni fa, senza che noi ce ne accorgessimo; o addirittura qualche anno prima, quando Eco, Del Buono e i semiologi d’avanguardia lo avevano riscattato dalla semi-clandestinità e gli avevano riconosciuta dignità letteraria e artistica. Come avviene per ogni consacrazione, quel riconoscimento e quel festival erano gli atti finali di un processo di imbalsamazione. Le strisce disegnate avevano cessato di costituire una lettura alternativa, erano già entrate a scuola non più nel doppio fondo delle cartelle ma attraverso i libri di testo, erano diventate uno dei tanti “linguaggi”, uno di più, da studiare. Con una strategia classica si accoglievano i barbari entro i confini per farne dei difensori. Nel frattempo però ogni loro potenziale pericolosità era già stata neutralizzata da un’altra orda ben più devastante che stava sopraggiungendo: quella televisiva.

Il fumetto a quel punto non è morto, ma è diventato altra cosa, quella che vediamo oggi e che appunto era rappresentata a Lucca: nella quale, di come io – e probabilmente tutta la mia generazione – l’abbiamo inteso e amato, resta proprio nulla. Ed è giusto così. Oggi il fumetto sta alla galassia letteraria come l’opera lirica sta alla musica e al cinema. È figlio di un particolare momento storico e culturale ed ha svolto la sua brava funzione di fiancheggiamento nella transizione da una modalità di cultura ad un’altra. Ha esaurito il potenziale di rottura proprio quando gli è stata conferita una autonoma dignità di “genere”, e a dispetto della presenza di illustratori eccezionali e di un altissimo livello nella qualità dell’offerta (o forse proprio per questo) sopravvive ormai solo per l’affezione dei loggionisti: adulti nostalgici come me, e magari la loro discendenza geneticamente contagiata.

Il fatto è che non parla più alla fantasia giovanile, perché la sua voce è sovrastata da mille altre più forti e perché la fantasia stessa non è più disposta ad ascoltarla, distratta com’è, o addirittura atrofizzata, dall’eccesso e dalle modalità dell’offerta proveniente dai nuovi media. Le componenti fondamentali del fumetto classico erano un pubblico che ha voglia di sognare, un personaggio capace di personificare il sogno, delle storie capaci di coinvolgerti e di farti vivere una vita parallela. Oggi quel pubblico in una dimensione parallela ci vive già tutti i giorni, senza volerlo e senza rendersene conto, le storie le consuma con la stessa passione con cui mangia un panino al McDonald, personaggi come Blueberry e Ken Parker gli riescono anacronistici. Avrebbe semmai bisogno di rientrare ogni tanto nella realtà, ma in questo il fumetto non soccorre: al più può consentire una “snobistica” (e solo parziale) sottrazione al rimbambimento televisivo di massa.

Ma non è finita. Rimane da spiegare come mai proprio la generazione cresciuta a pane e fumetti abbia prodotto poi nei fatti un tale scempio delle idealità. E qui la cosa si fa più complessa, anche se un pezzo di spiegazione plausibile penso di averla. In sostanza, dicevo, il fumetto ha agito in una prima fase come elemento dirompente. Anche quando le storie e i personaggi erano politicamente corretti, nel caso ad esempio di Topolino, del Corrierino dei Piccoli o del Vittorioso, il fatto in sé che la lettura fosse non più solo supportata, come accadeva nei libri illustrati, ma guidata dalle immagini, e che queste prevalessero in definitiva sul testo, apriva uno squarcio nella rappresentazione penitenziale del leggere imposta dalla scuola. Questo effetto non era né casuale né imprevisto: il fumetto rispondeva in realtà perfettamente ad un’esigenza dei tempi, era strumento di quella stessa “astuzia della ragione” (senza ulteriori aggettivazioni, intrinseca ormai ai modelli di pensiero e di sviluppo occidentali) che avrebbe agito di lì a poco attraverso la musica rock, i jeans, la moda giovane, ecc., per svecchiare il mondo e prepararlo a un nuovo assetto, al circuito chiuso che prevede non di produrre in risposta a un bisogno ma di creare il bisogno al fine di produrre. Consentiva di distribuire sogni a basso costo ad una utenza allargata rispetto a quella dei lettori classici che li attingevano dai libri. Non solo: quei sogni li standardizzava anche, popolandoli delle stesse immagini, degli stessi colori, e costringendoli nelle stesse tavole e storie. Per questo parlavo prima di azione di fiancheggiamento.

Ma anche la ragione, per quanto astuta, non può mantenere un controllo totale sui suoi strumenti. Dal fumetto, così come accade per ogni strumento culturale, venivano quindi da un lato una subdola spinta all’omologazione, dall’altro, per un effetto reversivo, l’allusione a possibilità di mondi e di vite diversi: ed era soprattutto quest’ultima ad essere colta (Paperino ha sempre raccolto maggiori simpatie rispetto a Topolino). Il che ci riporta però esattamente al punto di prima, e cioè alla domanda: se, a dispetto della sua strumentalità al gioco della “modernizzazione”, il fumetto lasciava intravvedere delle alternative, queste che fine hanno fatto?

Per dare una risposta esaustiva dovrei tirarla ulteriormente in lungo, e penso di non potermelo permettere. Quindi riassumo, sperando di non essere frainteso. In sostanza, io credo che al di là di ogni contestualizzazione sociale o storica ciò che fa la differenza sia sempre la disposizione individuale. Per quanto attiene al nostro argomento questo significa banalmente che i milioni di ragazzini che leggevano fumetti negli anni cinquanta sceglievano i loro eroi tra migliaia di protagonisti, e che anche coloro che si identificavano nello stesso personaggio lo facevano ognuno in maniera molto diversa. Ma una ripartizione all’ingrosso in due grandi schieramenti può essere fatta, almeno per quanto concerne i lettori forti, quelli non onnivori e superficiali. Da un lato c’erano dunque gli appassionati del fumetto “avventuroso” ambientato nel passato, soprattutto di quello western, con tutte le differenze che passavano tra Capitan Miki e Kinowa o Tex; dall’altro gli amanti del fumetto fantascientifico di stampo americano, quello dei supereroi della Marvel, per intenderci. Ma i blocchi si formavano in realtà già prima, tra chi leggeva Topolino o il Corrierino dei Piccoli e chi preferiva il Monello. Ciò che ho potuto constatare, all’interno della mia cerchia di amicizie, è che i primi passavano in blocco, al termine dell’infanzia, al mondo dei supereroi, mentre i secondi rimanevano fedeli a quello dell’avventura, con un percorso che dal Grande Blek e da Tex li portava a Corto Maltese, a Blueberry e a Ken Parker. Non è una differenza priva di significato, fantasticare guardando al passato o al futuro.

Più significativa ancora mi sembra però un’altra differenza: quella tra eroi e supereroi. Gli uni se la devono cavare con risorse tutte umane, se la giocano alla pari, anche se poi per campare e consentire la prosecuzione della serie devono essere un po’ più veloci a sparare o a dare e schivare cazzotti. Gli altri possono far conto su dotazioni speciali, quale che ne sia l’origine, indigena o aliena. Se il mio modello sono Blek o Tex, per poterli imitare devo darmi da fare, quanto meno costruirmi muscoli d’acciaio o allenarmi ad estrarre: se sono l’Uomo Ragno o Hulk, devo aspettare che una tecnologia avanzatissima mi procuri una tuta speciale o che un esperimento sbagliato mi scombussoli l’equilibrio ormonale. Nel primo caso è chiamata in causa la mia volontà, sono totalmente responsabile di me stesso, nel secondo mi affido al caso o alla scienza. È in fondo la differenza che corre tra la concezione niceana del Cristo, inteso come figlio di Dio e partecipe della stessa sostanza, adottata poi dal cattolicesimo romano, e quella ariana, poi passata con qualche variante nel protestantesimo, che ne professava la natura totalmente umana. I risultati si vedono. Se Cristo è Dio, va da sé che non ha nemmeno senso tentare di imitarlo, mi tengo le mie debolezze, mi affido ogni tanto a un condono e aspetto la salvezza da un extraterrestre; ma se Cristo è un uomo, allora sono responsabile di avvicinarmi il più possibile alla sua perfezione, e non posso liberarmi con una ipocrita confessione della mia responsabilità (o se vogliamo, del senso di colpa). Immagino che chi mi legge stia a questo punto sghignazzando: ma se dopo essersi ripreso proverà a rifletterci su, forse il paragone non gli sembrerà così peregrino.

C’è ancora dell’altro. L’eroe umano agisce a volto scoperto: è sempre lui. Blek ha girato per anni con lo stesso giubbotto peloso smanicato, estate e inverno, Tex ha cambiato tre camicie in ottocento numeri. Le poche eccezioni, come El Bravo o Maschera Nera, o lo stesso Lone Ranger, da noi non hanno mai funzionato: e comunque non erano dei travestiti, con la maschera facciale sembravano esserci nati, come il panda o l’orso dagli occhiali. Il supereroe invece per agire si traveste, ha una doppia vita e una doppia personalità. Si mette in maschera, recita una parte (eccotela, Lucca!).

Infine. Nei primi anni Sessanta la stessa banda che mi stava privando del piacere di partecipare al rischio dei miei eroi, magari leggendo L’Intrepido di un compagno durante la lezione di matematica, quelli che si affannavano a “sdoganare” il fumetto, sdoganava anche qualcos’altro. Diabolik, Satanik e tutto il filone degli eroi negativi sono figli dell’Elogio di Franti. Il messaggio era appunto quello di cui parlavo sopra. Basta col perbenismo, con gli eroi tutti d’un pezzo che difendono i deboli, gli orfani e le vedove, con i cloni di John Wayne o di Alan Ladd, con i valori positivi e borghesi della giustizia e della lealtà: che diamine, facciamo spazio alla perfidia e all’ambiguità che albergano in ciascuno di noi, diamo sfogo al lato oscuro, ribelliamoci alle norme e alle convenzioni, non in quanto sbagliate, ma in quanto norme. Anche Tex e Blueberry erano in più di un’occasione dei fuorilegge, ma in nome di una legge più alta, quella morale. Qui invece si passa dall’etica di Immanuel Kant a quella di Eva Kant. E non a caso anche questi anti-eroi erano tutti mascherati, e si avvalevano di tecnologie sofisticate.

Se proviamo a mettere assieme tutti questi dati il quadro si fa chiaro e certi conti cominciano a tornare. Mi spiego ad esempio come mai, quando ho iniziato a frequentare l’Università, mi sono ritrovato ad essere l’unico “di sinistra” che arrivava dalla lettura di Tex (c’era anche Cofferati, ma io non lo conoscevo) e del Vittorioso, o che almeno confessava di averli letti, e di continuare a farlo. Tutti gli altri avevano percorso la linea Topolino-Nembo Kid (era il nome di Superman nella versione italiana)-Diabolik. Tex era considerato un fascista, Il Vittorioso una fanzine clericale. “Di sinistra” era Satanik, qualche anno dopo sarebbe stato lo Zanardi di Andrea Pazienza. Allora non mi capacitavo, e già avvertivo quella sottile inquietudine che mi ha poi sempre accompagnato, facendomi dubitare prima della mia effettiva appartenenza alla sinistra, poi dell’esistenza stessa di una sinistra al di fuori di me. Come sarebbe a dire che Tex non è di sinistra? A prescindere dall’imbecillità di queste etichettazioni, se uno dà delle solenni strapazzate ai prepotenti, smaschera i corrotti, si batte per i diritti dei più deboli, disobbedisce agli ordini che gli sembrano stupidi o criminali, sposa una donna “di colore” in tempi non sospetti, riesce a conservare vive amicizie che durano da sessant’anni, è persino messo all’indice dalla censura ecclesiastica, che diavolo altro deve fare per essere considerato un giusto?

Ebbene, la risposta (al problema che ci ponevamo, sugli esiti della cultura del fumetto) sta tutta qui. La linea Tex, a dispetto del perdurare del successo dell’albo, che nel frattempo ha perso però, per ragioni anagrafiche, ogni valenza “eversiva”, non è affatto passata. Nemmeno nella versione Ken Parker, più fine e aggiornata ai linguaggi e alle tendenze del post-Sessantotto. Ad essere sconfitto è stato il sogno di una società formata da individui liberi e coscienti che la libertà è una conquista quotidiana, e quindi pronti a difendere la vita e la dignità altrui per dare senso e concretezza alla propria: sogno necessariamente ambientato nel passato, perché realizzabile solo in una società meno complessa e vischiosa della nostra, con linee di confine più facili da intravvedere e da segnare. E anche questa era a suo modo una indicazione di percorso, suggeriva di fermarsi un attimo a riconsiderare le conseguenze del modello di sviluppo che proprio in quegli anni celebrava il suo trionfo definitivo.

Ha vinto invece la Marvel, e il successo odierno delle trasposizioni cinematografiche dei suoi supereroi, e il moltiplicarsi degli stessi, stanno a dimostrarlo. Questo significa che ha vinto una concezione deresponsabilizzante della vita. Nel mondo dei supereroi la legalità, la giustizia, la sicurezza non sono garantite dal prevalere di una coscienza civica, sia pure con l’aiuto di un lazo o di un paio di pistole, ma sono delegate ai superpoteri di pochi angeli custodi mimetizzati tra gli umani, che combattono a loro volta con autentici demoni del male. È uno spettacolo gladiatorio, tutto giocato sugli effetti speciali, rispetto al quale il mondo è solo un campo di battaglia e l’umanità una massa amorfa di spettatori.

Spettacolo, massificazione, tecnologie sempre più sofisticate, corpi bionici, relativismo etico, il futuro come eterno e immutabile presente: questa è la linea che ha vinto e questa la quotidianità che viviamo. Nella quale sono rimasti i fumetti, ma sono definitivamente scomparsi i sogni.

Alla buonora, ho finito. Le cose sono andate grosso modo così, o almeno così le ho viste andare. Per questo invece di piangere sulla morte del fumetto mi considero fortunato per averne vissuta la pur breve epopea, e continuo a collezionare le ristampe di Blueberry. Per la stessa ragione mi ritengo malgrado tutto soddisfatto della trasferta a Lucca. I pellegrinaggi a qualcosa servono. C’erano duecentomila persone, e non ho sentito urlare uno slogan o proferire una minaccia, non ho visto un alterco. Sfilavano tranquille: mascherati o no, nella ressa c’era posto per tutti. Fotografavano, smanettavano sui cellulari e sugli i-pod, cercavano il selfy con l’incredibile Hulk, facevano tutto quello che di solito ti induce a chiederti: ma come siamo finiti? Nessuno ha però preteso che mi travestissi anch’io, o che mi unissi ad un terrificante “chi non salta …”. Erano lì per “mirar ed esser mirati”, non dovevano convincere nessuno, non protestavano contro qualcosa, non avevano rivendicazioni da fare.

Prima di Lucca avrei detto: è proprio questo il problema. Adesso, sinceramente, non lo so più. Provo a guardare che alternative offra il palinsesto e mi si accappona la pelle. Vedo delle bande di giovani idioti travestiti da antagonisti e da disobbedienti, che colgono ogni pretesto per incendiare auto e cassonetti e sono giustificati con la scusante della diffusa rabbia sociale dagli altri disagiati mentali, un po’ meno giovani, che scaldano le poltrone dei talk show e del parlamento; vedo dei figurini prodotti in serie dalle nuove scuole di amministrazione, perfettamente intercambiabili come gli omini della Lego, che si travestono da riformatori e rottamatori per togliere la polvere alle suppellettili mentre l’intonaco del soffitto cade a pezzi: vedo la folta schiera dei trasfertisti d’ordinanza della mia generazione, quelli che hanno cavalcato tutte le onde e le schiume prodotte dalla politica negli ultimi quarant’anni, distruggendo ogni credibilità delle istituzioni, facendone commercio, usandole per arricchirsi o per piazzare nei consigli d’amministrazione i loro rampolli, li vedo ancora tutti li, a rincorrersi sul video, travestiti da vecchi saggi. Cosa volete che faccia? Cambio immediatamente programma e mi risintonizzo su Lucca.

Così il prossimo anno (forse) si ritorna. E se Leonardo vorrà vestirsi da Corto Maltese, gli cerco io il berrettino.

 

Il West nel fumetto italiano

Il West nel fumetto italiano copertinaQuesta iniziativa è stata resa possibile dal saccheggio delle collezioni private di Gianni Martinelli, Mauro Olivieri e Paolo Repetto.
L’ideazione e la ricerca iconografica sono a cura dei Viandanti delle Nebbie.
Dei testi, della grafica (e dell’ortografia) è responsabile Paolo Repetto.

Un requiem per il fumetto western?

Quale West?

I precursori: l’illustrazione

I precursori: fumetto e pittura(1)

I precursori: fumetto e pittura (2)

I precursori: la fotografia (1)

Il Western nel fumetto italiano 02I precursori: la fotografia (2)

Il west di casa nostra ….

… è anche un paese per vecchi ….

… per aristocratici antischiavisti ….

… per meticci e adolescenti

Poi arriva Tex…

… e il gioco si fa duro

Ci sono eroi senza pistola …

… e paladini della natura.

C’è un demone razzista e scotennato….

Il Western nel fumetto italiano 05… un capitano di quindici anni….

… e il grande amico Blek

Ci sono eroi intrepidi, purtroppo fidanzati ….

… donne del Sud e trombettieri indiani,

… e in una frontiera di destra e di sinistra ….

… piccoli ranger crescono….

… insieme al mucchio selvaggio ….

… e a un ragazzo senza paura.

Il nome nuovo però è Kirk .

…e il nuovo nemico è la tivù …

… mentre tra pemmican e spaghetti ….

… con lupi e falchi sui grandi laghi ….

… dove regna lo spirito con la scure

… si aprono nuovi spazi….

… verso il passaggio a nord-ovest

E dopo la leggenda, la Storia

Si moltiplicno i giustizieri mascherati….

… ma c’è crisi di eroi:

si guarda oltre frontiera ….

… e si celebrano i Protagonisti

L’uomo dal lungo fucile ….

“Uomini”, quindi avventure….

… ma anche donne….

… e tutti gli altri

È un lungo crepuscolo ….

…che chiude mezzo secolo di sogni

Desiderio di diventare un indiano

… e gli scenari

Campo lungo

Il viaggio

I compari

Gli antagonisti

Le donne

Gli indiani

Il cavallo

Gli animali

Gli oggetti

Il duello

Il bivacco

La parodia

Cinema e fumetto

I libri

Catalogo della mostra che si svolse presso:

  • Il Western nel fumetto italiano Locandina Ovada (piccola)la Biblioteca Comunale di Ovada dal 12 al 26 novembre 1995;
  • l’Istituto Tecnico “L. Einaudi” – Sez. Staccata di Campo Ligure dal 26 ottobre al 3 novembre 2002;
  • il Centro Comunale di Cultura di Valenza dal 24 maggio all’11 giugno 2011.

Il Western nel fumetto italiano Locandina Valenza (piccola)

Un requiem per il fumetto western?

Il Western nel fumetto italiano 03Miki è entrato di soppiatto in una cantina polverosa, dove Salasso e Doppio Rhum stanno seduti a terra, schiena contro schiena, legati come salami. Intima loro di tacere e si avvicina per scioglierli: ma alle sue spalle spunta un braccio, e la mano impugna una pistola. “Su le mani, moccioso. Questa volta sei mio!” (continua)

Così, una settimana dopo l’altra. Se non era il perfido Magic Face erano indiani, messicani, cinesi col codino, oppure coccodrilli o serpenti a sonagli. Nell’ultima vignetta di ogni albo i nostri eroi finivano immancabilmente nei guai. E per sette giorni non c’era verso a sapere come se la sarebbero cavata, anche se avevamo pochi dubbi che ce l’avrebbero fatta.

Siamo cresciuti all’insegna del (continua). Nell’idea che ci sarebbe stato un futuro e nel desiderio di affrettarlo. Quel (continua) ci spronava a guardare avanti e a riempire con la fantasia i tempi tra un albo e l’altro: a costruirci noi la storia, prima ancora che qualcun altro ce la raccontasse. D’altro canto non avrebbe potuto andarci male, a noi e al mondo, se potevamo contare su gente come Blek Macigno.

Il fumetto western ci raccontava questo. Traduceva in vignette le foreste, le praterie, i canyons che avevamo percorso al cinema insieme a Shane e a Ringo e avremmo ritrovato nei libri di Curwood o di Zane Gray; ma dilatava e apriva all’infinito l’avventura. Cambiavano gli spazi e i nemici e i pericoli, ma si moltiplicavano le possibilità di rileggerla e di riviverla, o di farla vivere a chi se l’era persa. Ed era un’avventura alla nostra portata: non erano necessari superpoteri, era sufficiente possedere il coraggio di Pecos Bill, acquisire una mira come quella di Tex o costruirsi muscoli come quelli di Blek. Con un po’ di impegno si poteva fare.

Su quei fumetti abbiamo imparato a leggere, qualcuno anche a scrivere, ma soprattutto a sognare. E a distinguere tra buoni e cattivi, tra coraggio e viltà, tra lealtà e tradimento. Quanto più la scuola, la famiglia e la chiesa li mettevano all’indice, tanto più diventavano, per contrasto, la nostra bibbia. Abbiamo imparato a ribellarci, almeno per un attimo, all’idea che tutto fosse già scritto, e che noi fossimo solo comparse in uno spettacolo di cui ci sfuggiva il senso.

È durata poco. Lo spazio di due generazioni. Poi è arrivata la televisione, che ha imposto prima i tempi brevi dei telefilm e successivamente quelli rapidi degli spot.

Il Western nel fumetto italiano 04Abolito il (continua), le storie sono diventate autoconclusive e lo spazio del sogno è stato invaso da surrogati insulsi ed effimeri. Il fumetto è invecchiato assieme a noi; forse per questo ne sentiamo così forte l’appartenenza generazionale e la nostalgia. E quest’ultima non riguarda solo la nostra adolescenza: in realtà rimpiangiamo la speranza in un mondo che vedesse trionfare sempre la verità e la giustizia, e nel quale persino i cattivi conservassero una loro pur malvagia dignità.

Niente funerali, però. Ci sono cose che non muoiono mai: cambia il sogno, ma rimangono i sognatori. E a loro, a quelli che anche senza aver letto i nostri fumetti continuano testardamente a coltivare l’utopia di Ken Parker, dedichiamo questa mostra. Non siete soli, ragazzi: l’avventura, malgrado tutto (continua).

Quale West?

Il Western nel fumetto italiano 06Come accade per ogni altra storia, anche quella del fumetto non può essere che parziale. Anzi, in questo caso la parzialità è quanto mai accentuata, diventa quasi un criterio, tanto pesano le affezioni, le simpatie, le memorie e i sogni legati a strisce e personaggi particolari.

Per questo motivo, oltre che per gli oggettivi problemi di disponibilità dei materiali, il nostro è un percorso segnato da scelte ed esclusioni. Ciò spiega, anche se non giustifica, alcune assenze, speriamo non troppe e non troppo clamorose.

I precursori: l’illustrazione

Francis Jr. Parkman - California and Oregon trailCusterIl fumetto non nasce dal nulla. È l’erede della tradizione antichissima del racconto per immagini, che dai geroglifici è discesa attraverso le metope del Partenone, la Colonna Traiana, gli affreschi seriali di Giotto, sino alle illustrazioni dei libri ottocenteschi. Vi risparmiamo i primi tremila anni e ci limitiamo a proporre alcune delle fonti alle quali hanno attinto suggestioni, ambientazioni, fisionomie, costumi e tecniche espressive i primi (ma non solo essi) autori di bande disegnate a soggetto western. Si va dalle cartoline di Frederic Remington alle litografie dell’ “Harper’s Weekly”, dalle illustrazioni dei libri salgariani ai manifesti degli spettacoli di Buffalo Bill, dalle locandine dei film western degli anni trenta alle foto d’epoca. Tutto questo materiale viene rifuso nel fumetto in una miriade di combinazioni, viene messo in movimento, acquista una voce: parla al nostro immaginario in un linguaggio proprio, diverso da quello del cinema, della letteratura o della musica.


I precursori: fumetto e pittura(1)

Emigrants Crossing the Plains (1867)Tra le fonti di ispirazione del fumetto western un ruolo di primo piano occupa indubbiamente l’opera dei pittori americani “della frontiera”. Poco conosciuti in Italia sino a qualche decennio fa, questi artisti non sono affatto dei “minori”.

The Great Trees, Mariposa Grove, California (1876)Al contrario, le loro scelte hanno segnato l’uscita della pittura nord-americana dalla sudditanza nei confronti di quella europea.

Sia i grandi paesaggisti, da Bierstadt a Gifford, come gli illustratori della vita di frontiera, da Catling a Remington, a Farny, a Russel, hanno contribuito a diffondere la conoscenza di un ambiente splendido e selvaggio e delle popolazioni fiere e bellicose che lo abitavano, e a corredare al tempo stesso di un alone mitico e leggendario la recente epopea del popolo americano.

I precursori: fumetto e pittura (2)

Il loro influsso si è esercitato sul fumetto italiano in tempi e modi diversi: dapprima attraverso la mediazioni dell’iconografia di genere, quella che proliferava nelle riviste di narrativa western nel primo quarto del secolo, in seguito tramite la diretta conoscenza degli originali, dai quali sono venute alle ultime leve dei disegnatori non poche suggestioni e lezioni espressive.

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I precursori: la fotografia (1)

IND02Le figure scolpite dal nitrato d’argento, le pose innaturalmente immobili, imposte dai tempi di impressione della lastra, gli occhi spiritati che paiono guardare oltre il tempo: le testimonianze fotografiche del mondo della frontiera ci rimandano un’immagine ben più prosaica di quella elaborata dalla nostra fantasia.

Il terribile Geronimo è piccolo e tozzo, Billy the Kid non è molto diverso dal bisnonno materno, squallide baracche sorgono in luogo dei fastosi “saloons” cinematografici, le vie della città sono fiumi di fango solcati dalle carreggiate.

I precursori: la fotografia (2)

Toro seduto - Hunkpapa Sioux - D F Barry 1884 circaÈ come se il mito fosse fotografato ai raggi X, e rivelasse sotto l’epidermide leggendaria solo ossa e visceri. Eppure anche alla fotografia il fumetto western è debitore. Il nuovo corso, la rilettura decisamente realistica proposta dall’ultima generazione di sceneggiatori e disegnatori, partono proprio dalla maggiore consuetudine con la documentazione fotografica, con il bianco / e / nero implacabile che relega nel passato uomini e cose, e mette le briglie al nostro colorito immaginario.

Lo scout


Il west di casa nostra …

Il Western nel fumetto italiano 07I primi fumetti di ambientazione western realizzati da autori italiani sono trascrizioni dai romanzi di Salgari: ULCEDA di Guido Moroni Celsi (1935 su I tre porcellini), ma soprattutto ALLE FRONTIERE DEL FAR-WEST (L’Audace, 1936) e LA SCOTENNATRICE (Topolino, 1937), ridotti da Rino Albertarelli, conservano intatti il fascino esotico e il ritmo incalzante del serialista veronese.

Altrettanto avvincenti risultano le riduzioni dei racconti del più dotato tra gli emuli di Salgari, Luigi Motta. Sceneggiato da Chiarelli e disegnato da Vicchi, L’OCCIDENTE D’ORO anticipa, soprattutto nella tecnica espressiva, molte delle serie post-belliche.

… è anche un paese per vecchi …

Kit Carson di AlbertarelliIl primo personaggio originale creato per il fumetto è invece il KIT CARSON di Albertarelli (Topolino, dal 1937), ripreso successivamente dal Walter Molino su testi di Federico PedrocchiKit Carson di Albertarelli1. Nelle splendide tavole di Albertarelli, Carson appare come un eroe crepuscolare, piuttosto attempato, anche se ancora vitalissimo, caratterizzato da una perfetta pelata e da baffoni spioventi. Sembra vivere le sue avventure controvoglia trascinato dalla ribalderia degli avversari più che dai ruggiti dello spirito guerriero: un moderno e disilluso Don Chisciotte della prateria, con a fianco Sancio – Zio Pam.

… per aristocratici antischiavisti …

Il Western nel fumetto italiano 08Dopo la parentesi bellica, sulla scia dell’entusiasmo per tutto ciò che concerne l’America e la sua recente mitologia, si assiste ad una vera e propria fioritura di storie e personaggi legati al western. Uno dei primissimo giornalini a fumetti a comparire nelle edicole è proprio Il Cowboy (1945) che contiene storie di Gian Luigi Bonelli e di Albertarelli, ma regge la concorrenza per un solo anno.

Nello stesso 1945 appare sul rinato Intrepido LIBERTY KID, firmato da Luigi Grecchi e Stefano Toldo (una seconda serie, disegnata da Lina Buffolente, parte sulla stessa rivista nel 1951). Kit Fiermont, il protagonista, riprende uno stereotipo già diffuso nel cinema western americano, quello del giovane aristocratico sudista che sceglie, per coerenza con le idee antischiaviste, di combattere per l’Unione.

 

… per meticci e adolescenti

Il Western nel fumetto italiano 09L’anno di grazia è il 1948. Compaiono su autonomi albi settimanali eroi destinati a notevole (anche se di diversa durata) fortuna. KANSAS KID, di A. Saccarello e Carlo Cossio, è un mezzo indiano, figlio di una principessa pellerossa: e ciò comporta che i Nativi Americani vengano rappresentati in questa storia in un’ottica scevra di pregiudizi, anzi, ad essi decisamente favorevole.

Il Western nel fumetto italiano 10Come Kansas Kid, anche IL PICCOLO SCERIFFO (testi di T. Torelli e disegni di Dino Zuffi) persegue la cattura degli assassini del padre. Kit è il primo di una lunga serie di eroi perennemente adolescenti, nel quale si identificheranno per quasi due decenni i più giovani lettori. Le sue vicende risultano, malgrado le ingenuità e l’essenzialità del disegno, stranamente credibili e coinvolgenti.

Poi arriva Tex….

Il Western nel fumetto italiano 11Di stampo ben diverso appare Tex Willer, protagonista della COLLANA DEL TEX (dal settembre 1948 con testi di G. Bonelli e disegni di Aurelio Galeppini). Rude nei modi e nel linguaggio, veloce con le mani e con la pistola, Tex è un giustiziere che combatte da un lato ogni sorta di farabutti, dall’altro le pastoie dei formalismi burocratici e legalitari.


… e il gioco si fa duro

Il Western nel fumetto italiano 12Entra in scena come fuorilegge (sia pure ingiustamente accusato) e prosegue come ranger la sua interminabile carriera, senza mai lasciarsi inquadrare, imponendo un suo codice, tanto rigoroso eticamente quanto spiccio nell’applicazione.

Ha preceduto di oltre vent’anni i vari Callagan e Rambo, per non parlare di Ringo e Django e del “pistolero senza nome” di Sergio Leone. Sposato con la figlia di un capo Navajo, padre di un mezzo sangue, capo a sua volta della tribù (come Aquila della Notte), Tex è dalla parte degli indiani molto prima che Hollywood dia inizio all’opera di revisione storica della conquista del west.

Con una simile caratterizzazione è normale che sull’eroe di Bonelli si appuntino subito gli strali di censori, educatori e benpensanti vari, che con notevole lungimiranza ne colgono la portata trasgressiva e “diseducativa” (chi nasce e cresce con Tex ha vent’anni nel ‘68!).

Il Western nel fumetto italiano 13

Ci sono eroi senza pistola ….

Il Western nel fumetto italiano 14Se Tex rappresenta la svolta “neorealista” del fumetto italiano, PECOS BILL (testi di Guido Martina, disegni di Raffaele Paparella, Gino D’Antonio, Dino Battaglia, Roy D’Ami ed altri, in edicola dal 1949) è invece l’erede di Tom Mix e dei cavalieri senza macchia del western americano degli anni trenta. Non usa armi da fuoco (che sostituisce egregiamente col lazo), non uccide i nemici (che provvedono da soli a precipitare nei burroni, a farsi travolgere dalle rapide, a cercarsi comunque la rovina) e agisce in un’atmosfera quasi incantata, surreale, sdrammatizzata anche dalle figure comiche dei comprimari (tra i quali un esilarante Davy Crockett).


… e paladini della natura

Il Western nel fumetto italiano 16Sempre nel 1949 Roy D’Ami inaugura con I TRE BILL una lunga serie di personaggi destinati a discreta fortuna. Tra i disegnatori troviamo D’Antonio e un giovanissimo Renzo Calegari. I Tre Bill anticipano le triadi familiari di diversi telefilm americani (vedi Bonanza): il forzuto bonaccione, il tiratore freddo ed infallibile, il ragazzone simpatico e cercaguai.

Il Western nel fumetto italiano 15Ai Tre Bill faranno seguito IL SERGENTE YORK (1954), che vede l’omonimo protagonista guidare una scombinata “legione straniera del west”, e soprattutto LA PATTUGLIA DEI BUFALI (1956), una sorta di polizia ecologica antelitteram, impegnata a salvaguardare l’unica risorsa degli indiani delle pianure dallo sterminio dissennato e a denunciare l’uso strategico che di tale sterminio fanno le alte sfere. 

C’è un demone razzista e scotennato…

Il Western nel fumetto italiano 17Nel 1950 esordisce un’altra delle firme classiche del fumetto western nostrano, EsseGiEsse (Sinchetto, Guzzon, Sartoris). Il primo personaggio proposto è KINOWA, su testi di Andrea Lavezzolo. La vicenda risulta decisamente cruda rispetto agli standard dell’epoca. Sam Boyle, sopravvissuto al massacro della sua famiglia e allo scotennamento, si dedica a tempo pieno alla vendetta, celandosi sotto un’orribile maschera a metà tra il satanico e l’alieno (verde, con protuberanze cornee). Terrorizza gli indiani e li liquida in serie, sino a quando (forse anche con l’aiuto della censura) scopre che proprio un suo figlio (Silver Jack) è stato allevato dai Pellerossa e ne condivide senza rimpianti la vita e le usanze.

 

… un capitano di quindici anni…

Il Western nel fumetto italiano 18Il successo arride all’ElleGiEsse con CAPITAN MIKI (1951). Opportunamente orfano, capitano dei rangers a 16 anni, Miki incarna il sogno di tutti gli adolescenti. Ha due incredibili amici (Salasso e Doppio Rhum), la fidanzata un po’ petulante, scorazza per il west raddrizzando i torti, senza fare distinzione tra pellerossa e banditi di ogni risma. Ferisce invariabilmente gli avversari al braccio o alla gamba, così da non avere morti sulla coscienza (salvo infezioni!). È la risposta soft a Tex, e come tale incontra anche una tollerante approvazione dei genitori (non ancora, come tutti i fumetti, quella degli educatori: risulta il maggiormente sequestrato nelle aule scolastiche).


… e il grande amico Blek

Il Western nel fumetto italiano 19Il personaggio successivo creato dalle matite del terzetto è IL GRANDE BLEK, dal 1954. L’ambientazione particolare (le foreste orientali americane di metà settecento), i muscoli alla Swarzenegger, il giubbotto smanicato quattro-stagioni, una palese misoginia (Blek non ha la fidanzata e le poche figure femminili sono marginali, quando non d’intralcio all’azione), fanno del formidabile trapper l’eroe puro, l’amico che si vorrebbe al proprio fianco nelle scazzottate e nei vagabondaggi.

Favorito dalla incredibile dabbenaggine degli avversari, tanto perfidi quanto sprovveduti (la rappresentazione delle Giubbe Rosse inglesi è degna di un reduce di El Alamein), Blek è specialista nell’usare gli stessi come clava, o nell’addormentarli facendone cozzare assieme le zucche.


Ci sono eroi intrepidi, purtroppo fidanzati …

Sulle pagine dell’Intrepido ha nel frattempo (dal 1951) fatto il suo esordio il BUFALO BILL di Grecchi e Cossio. L’eroe dal pizzetto e dalla lunga chioma, ispirato fisicamente ad Errol Flynn, debutta come pistolero vendicando naturalmente il padre, e diventa protagonista di chilometriche avventure, particolarmente accurate nell’intreccio.

In allIl Western nel fumetto italiano 20egato alla stessa rivista compare, sempre dal 1951, ROCKY RIDER, creato dallo stesso Grecchi per i disegni di Mario Uggeri. Il personaggio entrerà successivamente a far parte del cast de Il Monello. Bello, buono, bravo con la pistola, Rocky riesce a non risultare stucchevole per la varietà delle situazioni che affronta e per un certo taglio cinematografico delle storie.

 


… donne del Sud e trombettieri indiani,

Il Western nel fumetto italiano 21Il gradimento manifestato dai giovani lettori per i primi eroi western produce nel corso degli anni cinquanta una vera e propria clonazione. Sull’onda del successo di Pecos Bill, Guido Martina scrive a partire del 1952 le storie di OKLAHOMA (disegnate da uno staff comprendente Papparella, Battaglia e Leone Cimpellin). Protagonisti sono un piccolo trombettiere pellerossa (erede di Gunga Din), una bella ragazza e un biscazziere dal cilindro a tubo di stufa, decisamente schierati per il sud confederato e per i valori tradizionali dell’onore e della bandiera, neanche troppo larvatamente ispirati alle eroine dei romanzi di Josè Mallorqui.

Altri attori, ma stessi scenari, sono quelli offerti da una miriade di pubblicazioni, spesso di effimera durata, che al modico prezzo di venti lire consentono agli adolescenti di evadere dall’Italia della ricostruzione. È una sorta di serie B del fumetto, quella che permette a ciascuno di ritagliarsi passioni e idoli esclusivi.


… e in una frontiera di destra e di sinistra …

Il Western nel fumetto italiano 22Una fucina di ottimi soggettisti e sceneggiatori, anche di storie western, si rivela nei primi anni cinquanta la rivista cattolica Il Vittorioso, edita già dal 1937, ma completamente rinnovata nel dopoguerra sia nella grafica che nell’impostazione. Non impone personaggi cult, ma propone storie pregevoli realizzate con una tecnica accurata da disegnatori del calibro di Franco Caprioli e Renato Polese.

Sull’altro fronte, quello della sinistra, la risposta al Vittorioso viene da Il Pioniere (dal 1949). Il clima di guerra fredda e il rigoroso antiamericanismo non favoriscono la pubblicazione di fumetti western, ma suggeriscono piuttosto una documentata rilettura (in chiave di denuncia dell’imperialismo yankee) della storia della conquista del west.

… piccoli ranger crescono…

Il Western nel fumetto italiano 23Lavezzolo e Francesco Gamba creano nel 1958 IL PICCOLO RANGER, emulo di Capitan Miki in tutte le fasi della carriera, nonché nell’impostazione scanzonata e umoristica delle storie. Questo aspetto viene anzi accentuato, con la moltiplicazione delle figure comiche di contorno e con il rilievo ad esse accordato nell’economia della vicenda.

Gli emuli dei piccoli sceriffi sono comunque decine. Tra i più fortunati, per un breve periodo, c’è TIMBERGEC, ranger del Texas a metà strada tra Tex e Miki. Ma l’eccesso di concorrenza, più che la cattiveria dei nemici, rende difficile la sopravvivenza sua e degli altri innumerevoli eroi dell’appuntamento settimanale.

… insieme al mucchio selvaggio …

Il Western nel fumetto italiano 24Una miniera inesauribile si rivela G.L. Bonelli, che si sbizzarisce a proporre nuovi personaggi sul vecchio scenario, avvalendosi dei migliori disegnatori della piazza.

Si va da RIO KID (1953, di Roy D’Ami) a YUMA KID (1953, disegnato da Uggeri), a EL KID (1955 con Battaglia, Calegari, D’Antonio) a DAVY CROCKETT (1956, disegni di Calegari) a HONDO (1956, disegni di Franco Dignotti) sino a KOCISS (1957, disegni di Emilio Uberti).


… e a un ragazzo senza paura

Ragazzo nel far west2Esordisce anche il delfino, Sergio Bonelli, che firma come Nolitta le storie di UN RAGAZZO NEL FAR-WEST. Molti di questi eroi hanno un’origine cinematografica, ma nello sviluppo delle storie finiscono per somigliare sempre e soprattutto all’archetipo Tex. La loro realizzazione è stata comunque un’ottima palestra per autori destinati a trovare successivamente un segno grafico originale ed una spiccata identità.

Il Western nel fumetto italiano 25Il nome nuovo però è Kirk .

Il Western nel fumetto italiano 25Nel 1953 è intanto nato, dalla collaborazione di Hugo Pratt e di Hector Oestherheld, IL SERGENTE KIRK. Ancora un personaggio fortemente anticipatore rispetto agli stereotipi cinematografici dell’epoca. Il Sergente Kirk salta lo steccato cinquant’anni prima di Kevin Costner, e combatte fianco a fianco con gli indiani contro la civiltà colonizzatrice dei bianchi. La storia, dagli intrecci avvincenti, esce dapprima in Argentina e viene ripresa negli anni sessanta sul Corriere dei Piccoli.

Il Western nel fumetto italiano 26Sempre in collaborazione con Oestherheld, Pratt realizza nel 1957 lo splendido TICONDEROGA, ambientato nelle foreste dell’America Settentrionale all’epoca delle guerre franco-inglesi, e decisamente estraneo agli schemi convenzionali che avevano governato il fumetto sino a quel momento. Il giovane protagonista ed i suoi compagni imparano sulla propria pelle quanto crudele ed assurdo sia ogni conflitto, e come sia stupido pensare che la ragione stia dalla parte di uno dei contendenti.

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…e il nuovo nemico è la tivù …

Il Western nel fumetto italiano 28Tra la metà degli anni cinquanta e i primi sessanta il fumetto va incontro ad una crisi d’identità e, conseguentemente, d’idee. La televisione si appresta a diventare il principale veicolo dell’immaginario; sottrae tempo e attenzione alla lettura e modifica i ritmi e i modi della percezione, soprattutto di quella adolescenziale. Sul piccolo schermo l’avventura è concentrata nei tempi brevi dei telefilm (da Rintintin a Bonanza) e rende obsolete le interminabili saghe degli eroi di carta, insostenibile l’appuntamento settimanale con poche tavole non autoconclusive.

… mentre tra pemmican e spaghetti …

Judas 3A partire dalla metà del decennio il successo dello “spaghetti-western” promuove valori e tempi d’azione ben lontani da quelli rintracciabili in Miki e nel Piccolo Sceriffo. Non mancano le serie destinate ad un duraturo successo, ma l’esigenza di stimoli nuovi non trova ancora un’ adeguata risposta.

Judas 2Paradossalmente, proprio nel periodo in cui al fumetto comincia ad essere riconosciuta una dignità culturale (la lettura semiotica di Umberto Eco), esso in realtà va perdendo il ruolo di referente educativo primario per la gioventù: diventa adulto assieme a quella generazione che ne ha decretato il successo nel dopoguerra, e come essa perde l’ingenuità e la capacità di sognare.

… con lupi e falchi sui grandi laghi …

Nel primi anni sessanta sono ancora gli autori della vecchia guardia a proporre nuovi personaggi. L’EsseGiEsse tenta di ripetere il successo di Miki e Blek editando nel 1960 un KIT CARSON formato albo, contenente, oltre alle avventure del titolare della testata, storie autoconclusive di Buck Jones (che escono anche su una testata autonoma) e di Davy Crockett. L’accoglienza è piuttosto tiepida.

Il Western nel fumetto italiano 29Miglior fortuna arride invece a IL COMANDANTE MARK del 1966, ideale prosecuzione delle avventure di Blek Macigno, trasferite sui Grandi Laghi. La serie accentua la connotazione umoristica, evidenziata già dai tratti fisici attribuiti ai comprimari.

Da segnalare anche la saga di FALCO BIANCO, di Onofrio Bramante, pubblicata a partire dal 1961 in appendice agli albi di Blek e ingiustamente trascurata nelle storie del fumetto. Rispetto alle vicende degli eroi dell’EsseGiEsse c’è un tentativo di ambientazione storica più convinto. L’eroe eponimo, Falco Bianco, è ricalcato sulla figura del Maggiore Rogers di “Passaggio a nord-ovest”, ma i suoi fedeli amici, gli indiani Penobscoot, sono visti sotto una luce ben diversa.


… dove regna lo spirito con la scure

Il Western nel fumetto italiano 30Il personaggio più decisamente nuovo è però centrato ancora dalla banda Bonelli, che pubblica a partire dal 1961 ZAGOR. A fianco di S. Bonelli lavorano Alfredo Castelli e Tiziano Sclavi, futuri autori rispettivamente di Martin Mystère e Dylan Dog, e la loro presenza è percepibile nell’ironia dissacratoria di cui sono condite le vicende, che spesso sconfinano nelle dimensioni della fantascienza e del mistero. Lo “spirito con la scure” è già figlio della televisione e combatte, prima che con i muscoli, con l’abilità illusionistica.

Altri eroi proposti da Bonelli, come JUDAS, IL GIUDICE BEAN, LOBO KID e RIVER BILL, non si scostano dal modello Tex e incontrano un’accoglienza piuttosto tiepida.

La risposta dell’editrice Araldo a Zagor è ALAN MISTERO (1966), della premiata ditta EsseGEsse, che mescola i chiché di Blek e del comandante Mark, compresi i due compari, senza però ripeterne il successo. Le novità stanno nei capelli rossi dell’eroe e nella sua abilità di trasformista, oltre che di pistolero.

 

… si aprono nuovi spazi…

Il Western nel fumetto italiano 31L’inflazione di rangers e di sceriffi che scorrono le praterie e i deserti del sudovest spinge gli autori a cercare spazio nel grande Nord. Le foreste del Canada o le Montagne Rocciose offrono a trappers e giubbe rosse la possibilità di avventure inedite in un ambiente suggestivo e di rapporti con tribù indiane tanto pittoresche quanto poco conosciute. Dopo Salgari e Zane Grey vengono saccheggiati London e J. O. Curwood, e i vari Davy Crockett e JimBridger preparano la strada al successo cinematografico di Jeremy Johnson e del suo clone a fumetti, Ken Parker.

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… verso il passaggio a nord-ovest

Il Western nel fumetto italiano 33La stessa ambientazione spazio-temporale, le foreste del nord-est americano nel settecento, ma una qualità e una finalità di superiore livello, caratterizzano le vicende di FORT WEELING (1962) ancora di Pratt e Oestherheld. La precisa e documentata ricostruzione storica dei personaggi, degli eventi, dei costumi, che nulla toglie al ritmo e al fascino delle avventure, risponde alle esigenze di un pubblico di lettori non più adolescenti. Chi ha imparato ad amare certi luoghi e certi periodi storici attraverso Blek e i rangers di Rogers vede ora giustificata la continuità della sua affezione a quell’immaginario in una riproposta più matura, più raffinata culturalmente e non per questo meno coinvolgente.

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E dopo la leggenda, la Storia

42 copertinaSempre a Bonelli va però il merito di aver pubblicato, a partire dal 1967, una delle serie western più interessanti della seconda età del fumetto, la STORIA DEL WEST. Ideata da D’Antonio e Calegari, e disegnata, oltre che dai due autori, da Polese e Sergio Tarquinio, la saga racconta lungo 75 episodi quasi un secolo di storia della frontiera. Il filo conduttore è rappresentato dalle vicende della famiglia Mc Donald, i cui componenti, nelle successive generazioni, si trovano ad essere protagonisti o spettatori di tutti i principali eventi alla base del mito del west. Alla qualità dell’immagine e alla vivacità degli intrecci fa riscontro l’assoluta fedeltà della ricostruzione storica, talmente accurata da rendere la Storia del west il miglior saggio pubblicato in Italia sull’argomento.

Si moltiplicno i giustizieri mascherati…

Il Western nel fumetto italiano 35Nel 1961 esordisce nel genere western un autore destinato a dare migliori prove in altri ambiti, Luciano Secchi (alias Magnus). Con MASCHERA NERA (disegni di Paolo Piffarerio) propone un mixage fra il classico Zorro, il più recente El Coyote, serial romanzesco di José Mallorqui, che ha conosciuto un certo successo negli anni cinquanta, e le suggestioni dei vari supereroi dalla doppia identità. Ringo Rowandt è un avvocato di frontiera che combatte l’ingiustizia col codice, sin che può, ma che ricorre alle armi e ad un piuttosto improbabile travestimento non appena constata l’impotenza della legge.

Dal 1965, sempre in coppia con Piffarerio, Magnus scrive le storie di EL GRINGO, giustiziere solitario figliato direttamente dal western all’italiana, freddo e deciso fino alla spietatezza, ma pur sempre romantico.

Un ennesimo vendicatore mascherato è EL COYOTE, che nulla ha a che vedere con l’eroe dei romanzi di Mallorqui, mentre vanta una strettissima parentela con Kinowa, con EL BRAVO e con CONDOR GEK. La storia dello scotennato a caccia di indiani ha tutti i crismi per trasferire anche sulla carta il compiacimento quasi sadico per il sangue e la violenza tipico dello spaghetti-western.

… ma c’è crisi di eroi:

Il Western nel fumetto italiano 36La situazione di stallo nella quale viene a trovarsi la produzione fumettistica di questo periodo è testimoniata da due fenomeni: la crisi delle grandi testate tradizionali, dall’Intrepido al Monello, dal Corrierino dei Piccoli al Vittorioso, e il declino degli eroi protagonisti a cavallo di metà novecento. Si esauriscono le serie di Pecos Bill, Miki, Il Piccolo Sceriffo, Blek, Il Piccolo Ranger, che conoscono periodiche ristampe ma perdono l’affezione dei lettori. Le case editrici più importanti raccolgono materiale vecchio in albi autoconclusivi, riciclando talvolta anche storie di qualità che non avevano incontrato il meritato successo. È il caso della Dardo, che pubblica AVVENTURA GIGANTE, con storie di personaggi diversi disegnate dalle migliori matite italiane.

L’editrice Universo tenta il rinnovamento sostituendo i personaggi tradizionali (Bufalo Bill, Rocky Rider) con storie di taglio più moderno, come I LARAMY DELLA VALLE (di Erio Nicoli) sul Monello, e CUORE D’ARGENTO sull’Albo dell’Intrepido (dal 1964). Le nuove serie propongono tagli psicologici più sfumati e una maggiore attenzione ai problemi umani e sociali, sulla linea del tardo western hollywoodiano, ma come questo riescono poco appassionanti e stentano a decollare.

si guarda oltre frontiera …

Mac CoyLa svolta già inaugurata dalle opere di Pratt e di D’Antonio, oltre che dalla politica editoriale della Bonelli, si completa negli anni settanta. C’è intanto una maggiore attenzione per le scuole straniere, soprattutto per quella argentina e per quella franco-belga, i prodotti migliori delle quali compaiono sia sulle testate tradizionali (Corrier Boy, ex Corriere dei Ragazzi), sia su quelle nuove, innumerevoli, che fioriscono sull’onda del successo di Linus ed Eureka.

BlubarryC’è la maturazione dei grandi talenti formatisi alla scuola bonelliana, da Calegari a Berardi e Milazzo, e il ritorno di maestri come Albertarelli. Ma c’è soprattutto una definizione di campo più precisa, uno status nuovo per il fumetto, che si propone ora esplicitamente a tutte le fasce d’età, e può operare le scelte conseguenti di linguaggio e di ambizione artistica e culturale.

… e si celebrano i Protagonisti

Il Western nel fumetto italiano 37Proprio il decano degli illustratori italiani, Rino Albertarelli, mette mano a partire dal 1974 a quello che è stato il progetto di una vita, la serie de I PROTAGONISTI, edita dalla Bonelli. In dieci albi l’autore, che cura sia i testi che i disegni, ricostruisce con minuziosa precisione storica vita e avventure dei più leggendari personaggi del west, da Toro Seduto a WyattEarp, corredando la storia di una presentazione e di una rigorosa bibliografia. È il testamento spirituale del padre del fumetto western italiano, ma è anche un legato di professionalità e di stile trasmesso ai suoi eredi.


L’uomo dal lungo fucile …

ken_parkerLa lezione di Albertarelli non va perduta. A raccogliere il testimone sono soprattutto Giancarlo Berardi ed Ivo Milazzo, che propongono a partire del 1977 la saga di KEN PARKER, per le edizioni Bonelli. Ispirato nella fisionomia al Robert Redford di “Jeremiah Johnson”, Ken ne mutua anche i tratti psicologici e, nelle prime storie, l’ambientazione. Ben presto però si libera di ogni sudditanza e percorre, nel corso delle 59 tappe della prima serie, tutti gli itinerari topici del west, e qualcuno anche totalmente nuovo, rivitalizzando il genere con un’attenzione inedita alla psicologia, con un dialogo di livello hemingweiano, con un taglio delle immagini ed uno sviluppo delle sequenze decisamente cinematografico, con un gioco accattivante di citazioni sia filmiche che letterarie.

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… è un eroe d’altri tempi …

Ken sotto il mirinoGli autori si rivolgono ad un pubblico colto, bibliofilo e cinefilo, progressista nella militanza sociale, ma intimamente conservatore per quanto concerne i valori più profondi. Il realismo delle immagini e delle situazioni è solo apparente, perché è il realismo dello schermo: ciò che viene rappresentato è il sogno ad occhi aperti, la fantasia di liberazione in spazi e tempi altri, che aiuta a sopravvivere in questi. Una seconda serie delle avventure di Ken ha cominciato ad apparire sul Ken Parker Magazine, vera e propria rivista che presenta anche altre storie, ma che fonda il suo successo sull’eroe dal Lungo Fucile.

… che apre la strada ai nuovi

Kiowas (prima versione)Firmata dagli stessi Berardi e Milazzo e dal rientrante Calegari appare nel 1978 una serie di brevi episodi, WELCOME TO SPRINGVILLE, che ha come protagonista non un personaggio fisso, ma una piccola città della frontiera. Il risultato grafico è di altissimo livello, e le storie dimostrano come anche attraverso il fumetto si possano scrivere pagine di autentica dignità letteraria. Il risultato qualitativo di queste tavole è senz’altro di eccezione, ma testimonia di un generale innalzamento delle ambizioni artistiche di chi opera nel settore.

Il Western nel fumetto italiano 38La riprova è data da una serie di piccoli capolavori prodotti dalle più recenti leve del fumetto western. Il BOONE di Calegari, ad esempio, comparso negli anni ottanta sul Giornalino, propone tavole degne di entrare nella tradizione dei grandi maestri della pittura di frontiera, da Remington a Russell.

“Uomini”, quindi avventure…

Il Western nel fumetto italiano 40I trenta volumi usciti a partire dal 1976 per la collana UN UOMO UN’AVVENTURA rivisitano tutti i generi dell’avventura, da quelli più classici a quelli meno frequentati, sempre inseriti in un contesto storico estremamente realistico. Cinque di queste vicende, che raccontano di eroi, di antieroi e di poveri cristi coinvolti loro malgrado dalla Storia, e sono scritte e disegnate da maestri come Pratt, Battaglia, Albertarelli, Manara e Toppi, rientrano nell’epopea della frontiera americana e rimangono tra i classici del genere.

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… ma anche donne…

Il Western nel fumetto italiano 42Un discorso analogo si può fare per Paolo EleuteriSerpieri, che esordisce sulla rivista Skorpio nel 1976 e realizza successivamente, per le edizioni de L’isola trovata e di Orient Express, degli autentici gioielli come L’INDIANA BIANCA o le STORIE DEL WEST.

Il Western nel fumetto italiano 43Anche Milo Manara compie le sue incursioni nel genere western con L’UOMO DI CARTA (apparso prima in Francia, su Pilot, dal 1978), ma soprattutto con TUTTO RICOMINCIO’ CON UNA ESTATE INDIANA (apparso su Corto Maltese dal 1983) con testi di Pratt. L’ambientazione di questa storia è in realtà marginale al western classico (siamo nella Nuova Inghilterra della metà del seicento), ma la rendono tale lo spirito, la presenza degli indiani, la concitazione degli eventi.

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… e tutti gli altri

Il Western nel fumetto italiano 45La presenza nel western di veri e propri artisti dell’illustrazione non deve far dimenticare che alle loro spalle lavora una folta schiera di ottimi artigiani, in grado di produrre materiale di buona fattura e in qualche misura originale. Gli ultimi personaggi di rilievo comparsi sul glorioso Intrepido prima della crisi definitiva sono LONE WOLF e I DUE DELL’APOCALISSE, sceneggiati dall’inossidabile Grecchi per i disegni di Ferdinando Fusco (al secondo collabora anche Gino Pallotti). Lone Wolf è l’ennesimo “cavaliere della valle solitaria”, in missione perpetua contro la prepotenza e il sopruso. Più caratterizzati sono i protagonisti della seconda serie, il messicano Calvario e lo yankee Sonora, schierati contro la prepotenza per antonomasia, quella del potere e del malgoverno.

Anche il Giornalino, che a partire degli anni settanta va a sostituire degnamente il Vittorioso nell’editoria cattolica, ha il suo cavaliere solitario: è LARRY YUMA, di Claudio Nizzi e Carlo Boscarato, protagonista di storie brevi e semplici nell’impianto, ma molto accurate nella resa grafica.

Al popolare pistolero dall’eterno cigarillo si alternano altri interessanti eroi, come PIUMA ROSSA, di Mario Basari e Luigi Sorgini, una Giubba Rossa col codino a treccia, che ha legami di sangue con gli indiani, parla con i lupi (ma riesce a farsi comprendere anche dagli altri animali) e non ha occhi e pensieri che per la sua bella squaw, Bucaneve.

Gli ANGELI DEL WEST, di Nino Danieli e Polese, sono invece un trio stranamente assortito, con Gentle Jim, bello, veloce e azzimato, Little Joe, un Bud Spencer pelato e barbuto, e Sergente, un apache piccolo e cattivissimo. Anche in questo caso le vicende sono brevi e semplici, ma abbondano i risvolti umoristici e caricaturali.

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È un lungo crepuscolo …

Il Western nel fumetto italiano 48Su Corrier Boy appare invece dal 1972 BOB CROCKETT, di EnriqueVentura, Pietro Selva e JorgeMoliterni, una serie di notevole qualità sia per quanto concerne la grafica che per i soggetti. Protagonista è il figlio di Davy Crockett, che attraverso vicende svariate percorre le tappe di una dura iniziazione alla vita di frontiera.

Nel 1975 troviamo il primo protagonista di colore, TOM BOY, di Silverio Pisu e Nadir Quinto, uno schiavo fuggiasco che combatte nella guerra di Secessione e adotta una strana maschera da incappucciato nella lotta per la libertà dei suoi fratelli.

Il Western nel fumetto italiano 47A partire della metà degli anni settanta un ruolo importante nella presentazione di alcuni dei migliori autori stranieri, ma soprattutto per la promozione di nuovi prodotti italiani, è ricoperto dalle riviste Lancio Story e Skorpio, segnatamente, per quanto concerne il fumetto italiano, dalla prima. Sulle sue pagine compaiono le storie di TIMBER LEE, di Mino Milani e Juan Arancio. Il protagonista è un ex cavalleggero sudista bollato di viltà per essere sopravvissuto ai suoi compagni e costretto a vagabondare per la prateria senza poter sfuggire al passato.


…che chiude mezzo secolo di sogni.

Il Western nel fumetto italiano 49E siamo agli anni novanta. Rispetto al decennio precedente la produzione fumettistica italiana, soprattutto quella ad ambientazione western, conosce un grave momento di crisi, malgrado si cimentino nel genere con nuovi personaggi autori geniali come Tiziano Sclavi (KERRY IIL TRAPPER) e Gianfranco Manfredi (MAGICO VENTO) o veterani come Gino d’Antonio (BELLA E BRONCO). Assistiamo al proliferare delle riedizioni, quando non di riproposte mascherate con titoli diversi (accade per la “ Storia del west”) e con operazioni di maquillage non sempre riuscite. Il western è invecchiato? Forse. Certo invecchiati sono coloro che ne hanno vissuto il mito sulla pessima carta degli albi e delle strisce. Quelli che, come Kafka, sentivano la “voglia di essere un indiano.

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Desiderio di diventare un indiano

Grido di guerraSe si fosse almeno un indiano, subito pronto e sul cavallo in corsa, torto nell’aria, si tremasse sempre un poco sul terreno tremante, sinché si lasciavano gli sproni, perché non c’erano sproni, si gettavano via le briglie, perché non c’erano briglie, e si vedeva appena la terra innanzi a sé come una brughiera falciata, ormai senza collo e la testa del cavallo! (Franz Kafka)

I luoghi tipici …

Il Western nel fumetto italiano 53Il western è per antonomasia racconto degli spazi liberi, delle grandi distese pianeggianti della prateria o del deserto, oppure delle gole, dei canyons propizi all’agguato, delle foreste sterminate del nord, o dei picchi delle Montagne Rocciose.

Ma in questi vuoti si individuano dei punti nodali, i luoghi dell’incontro o dello scontro, dell’insidia o della sicurezza, del lavoro o del piacere. E questi luoghi sono uniti tra loro da linee incerte e variabili, come le piste delle carovane, delle mandrie o delle diligenze, segnate solo dalle ossa degli animali o degli umani, o da linee dritte, continue, come quella della ferrovia, che tagliano gli spazi, li avvolgono in una rete e li riconducono nell’ambito della civiltà.

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… e gli scenari

Il Western nel fumetto italiano 55Può apparire paradossale, ma in un genere narrativo ambientato nei grandi spazi per eccellenza la connotazione paesaggistica è rimasta a lungo piuttosto vaga. I protagonisti agivano sì tra le erbe della prateria, saltavano col cavallo orride gole, venivano risucchiati dalle rapide: ma l’azione era costretta nei limiti di vignette dalle dimensioni fisse ed estremamente contenute, che imponevano l’adozione quasi costante del primo piano e non consentivano la messa a fuoco degli scenari. Questa tecnica obbediva ai canoni dell’impostazione tradizinale, dettati da motivazioni alquanto prosaiche: prima tra tutte la necessità di produrre molte tavole, che fatalmente dovevano essere sbozzate con una certa approssimazione. Al lettore-fanciullo in realtà la cosa pesava poco: gli importava che fosse ben definito l’eroe, e che l’avventura procedesse a ritmo incalzante. All’ambientazione provvedeva con la sua fantasia: gli bastavano poche e sommarie indicazioni.

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Campo lungo

Il Western nel fumetto italiano 56L’attenzione agli scenari naturali è cresciuta con l’entrata del fumetto, e dei suoi lettori, nell’età adulta, con l’evolversi della sensibilità nei confronti della natura (?), con la maggiore autonomia rispetto alle scelte espressive consentita agli autori, che si è tradotta in consapevolezza “artistica” degli stessi. Il risultato è l’adozione del “campo lungo” anche per il fumetto, quindi l’ambientazione delle storie in spazi molto più ampi e più precisamente connotati: ma ciò induce anche un deciso rallentamento dei tempi dell’azione. Al cuore di un adulto non si addicono i ritmi incalzanti dell’avventura: gli convengono quelli più posati della quotidianità.

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Il viaggio

Il Western nel fumetto italiano 58Ogni viaggio è un’avventura, e ogni avventura è un viaggio. Il viaggio, lo spostamento, nel west della frontiera è molto più di un’avventura, è il senso stesso della vita, la sua intrinseca condizione, Oltre la frontiera occidentale c’è l’ignoto, l’inesplorato: c’è il pericolo, ma c’è anche la speranza di una vita nuova, di un’esistenza diversa. La speranza accomuna nel viaggio tutti i protagonisti del fumetto western: è quella del fuorilegge di sfuggire alla cattura, quella del trapper di sottrarsi alla “civiltà”, quella dell’ex confederato di lasciarsi alle spalle la sconfitta, quella dell’indiano di rintracciare i bisonti e di mettere spazio tra sé e i visi pallidi, quella dell’agricoltore di possedere un pezzo di terra e quella del mandriano di non avere tra i piedi agricoltori. Tutti inseguono il sole nel suo corso, sui carri, a cavallo, in battello o in diligenza, ricalcando le tracce di tante antiche saghe di migrazione, e incrociando le loro storie in un altrove che le fa assurgere a leggende.


I compari

Il Western nel fumetto italiano 60L’eroe del fumetto western contemporaneo è sempre più spesso un solitario. Le battaglie più ardue le combatte non con i fuorilegge o con gli indiani, ma con se stesso, con l’incapacità di stare con gli altri, con l’impulso a preferire la compagnia di un cavallo a quella dei propri simili e di accordare fiducia solo al proprio fucile. Le cose stavano diversamente per gli eroi tradizionali, quelli dell’età aurea dell’avventura. Per essi l’amicizia costituiva il valore primario e risultava, stante la caratura dei loro compagni, senza dubbio disinteressata. La lista dei “pards”, dei “compari di cavallo”, è infatti infinita, e incredibilmente variegata: ma in genere comprende personaggi propensi a cacciarsi nei guai o a fare zavorra, piuttosto che validi aiutanti. Può trattarsi di vecchi saggi e brontoloni (come il Toby di Bufalo Bill, o lo zio Pam di Kit Carson, o lo stesso coriaceo Carson di Tex), di macchiette irresistibili, amanti più dell’alcool che dello scontro (Salasso e Doppio Rhum, il professor Occultis, Frankie Bellevan, Cico, il Mosè di Rocky Rider, il soldato Dusty del “Ragazzo nel Far-west” e Gufo Triste di Mark) o di ragazzini tanto coraggiosi quanto sventati e testardi (Roddy, Golia). Solo in qualche caso (il silenzioso Tiger Jack, i Penobscoot di Falco Bianco) sono del tutto autosufficienti. E ciò, in fondo, riflette una visione della vita ancora permeata di idealità, la speranza in un mondo nel quale i deboli hanno sempre qualcuno che li aiuta e li protegge, e i forti si sentono chiamati a questa missione. Venute meno le quali, non rimane che credere nel cavallo.

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Gli antagonisti

Il Western nel fumetto italiano 62Il west è il luogo per eccellenza dello scontro. Non tollera le mediazioni e i compromessi. Sullo sfondo della prateria i contorni del Bene e del Male si stagliano nitidi. Da un lato il sopruso, l’inganno, la viltà, la sete di potere, la crudeltà: dall’altro la lealtà, il coraggio, l’amicizia disinteressata. Tutto questo in genere risulta chiaro, è immediatamente suggerito dalle fisionomie dei personaggi, dai modi, dal ghigno, dai visi irsuti e butterati, deturpati da cicatrici, dagli occhi torvi e maligni. Ma non è sempre così. A volte l’insidia si cela dietro un volto dolcissimo di fanciulla, dietro la paciosa figura di un banchiere, o dietro lo sguardo leale di un presunto amico. E altre volte ancora l’antagonista riesce a brillare di luce propria, assurge egli stesso alla condizione di star, sia pure negativa, tanto da essere richiamato in vita a furor di popolo dopo che gli autori gli avevano inflitto la più atroce delle morti.
La grandezza dell’eroe del western è infatti commisurata al numero e alla pericolosità dei suoi nemici.

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Le donne

Il Western nel fumetto italiano 64Le donne del fumetto western possono essere raggruppate in due grandi categorie: quelle che sono in pericolo, e quelle che sono un pericolo. In entrambi i casi rappresentano un intoppo, e non è detto che le prime intralcino l’azione dell’eroe meno delle seconde. Il maggiore o minore rilievo dato alle figure femminili sembra dettato principalmente dalle fasce d’utenza alle quali gli editori si rivolgono: tutti gli eroi della Universo (Bufalo Bill, Rocky Rider, Liberty Kid) hanno la fidanzatina: quelli della DardoIl Western nel fumetto italiano 65 sono in genere propensi alla vita di coppia, mentre alla Bonelli prevale un atteggiamente piuttosto misogino (Tex rimane sposato giusto il tempo per avere un erede, gli altri hanno al massimo brevi avventure). Maschilismo? Forse. Senz’altro la preoccupazione nei confronti dei primi di un attestato di “normalità”, particolarmente importante per un popolo e per un’epoca per i quali la norma è la coppia, la famiglia. Ma se il fumetto è sogno, evasione nella libertà, tanto vale sognare la libertà più grande, quella assoluta!

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Gli indiani

Il Western nel fumetto italiano 67Nell’iconografia ufficiale del west l’indiano è l’antagonista, lo sconfitto, quello che la storia non la scrive, ma la subisce. Nel fumetto, e segnatamente in quello italiano, le cose non stanno proprio così. Mentre nel contesto della storia della “civilizzazione” l’indiano era il superfluo, il passato da eliminare (“l’unico indiano buono è quello morto”, T.H. Jefferson), per il western è elemento necessario, caratterizzante, indipendentemente dalla connotazione positiva o negativa che ne viene data. E a dire il vero, se negli anni trenta prevale ancora l’immagine selvaggia e infida (legata alla tradizione salgariana, e non ignara delle teorie della razza caldeggiate dal regime), una buona dose di simpatia per i pellerossa si ritrova già negli albi del primo dopoguerra (solidarietà di sconfitti?), quando l’immagine cinematografica era ancora quella feroce di “Ombre Rosse” o di “Tamburi Lontani”, e remota la riscoperta dei diritti e della dignità del popolo rosso. Da Tex e dal Sergente Kirk, fino a Ken Parker e Boone, il fumetto italiano vanta una tradizione di apostati che scelgono di combattere nel nome della libertà invece che in quello della civiltà. Ma va soprattutto a suo merito, nel periodo più recente, di non aver ceduto ad eccessive idealizzazioni, agli effimeri ed acritici innamoramenti che altri media, quelli considerati più seri, cavalcano e bruciano con un’ipocrisia da veri “visi pallidi”.

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Il cavallo

Il Western nel fumetto italiano 68L’epopea western percorre spazi aperti e sconfinati, immense distanze, e lo fa in groppa al cavallo. Il cavallo è stato determinante non solo nella conquista del west, ma anche nella scelta di molti autori di dedicarsi (o meno) al genere western, perché è il soggetto più difficile da disegnare. Grandi talenti hanno rinunciato a cimentarsi nella saga della frontiera per incompatibilità col suo protagonista più rappresentativo: oppure, come Pratt, hanno aggirato l’ostacolo ambientando le loro storie in un intrico di laghi e foreste percorribile solo a piedi. Ma il vero west è quello delle criniere al vento, della polvere sollevata dagli zoccoli, dei balzi prodigiosi che lasciano l’ostacolo tra l’eroe e i suoi inseguitori, delle redini lente e dell’abbeveratoio, del pietoso colpo di pistola col quale si da l’addio al compagno di tante avventure, ferito a morte. Silenziosi, fidati, pronti ad ogni sacrificio, i vari Turbine e Lampo e Dinamite sono i protagonisti-testimoni che portano letteralmente il peso dei sogni e delle fantasie dei loro padroni, che viaggiano con “i piedi” per terra; e non a caso quando la liberazione parodistica consente di tradurre il significato dei loro nitriti, risultano gli unici provvisti di buon senso pratico.

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Gli animali

Il Western nel fumetto italiano 71Per gli animali vige nel western una tassonomia non dissimile da quella adottata per gli uomini: non si distinguono per generi o per speci, ma in infidi, pericolosi, aggressivi, malvagi, velenosi, oppure in utili e mansueti, intelligenti e fidati. L’onnipresenza del cavallo, in realtà, ha lasciato poco spazio ad altri comprimari non umani. Bufali e longhorns compaiono quasi sempre come massa, fanno parte dello scenario, salvo ogni tanto rovesciarsi addosso ai protagonisti in una “stampede”. Puma, giaguari, lupi, serpenti stanno a sottolineare che la natura non è meno pericolosa dell’uomo. Ma è sufficiente che spunti ogni tanto un cagnolino, o che occhieggi il musetto di un castoro, per riconciliarci con il creato.

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Gli oggetti

Il Western nel fumetto italiano 72Poche epoche (o epopee) sono così fortemente caratterizzate da singoli oggetti come quella del west. È sufficiente una Colt, oppure una carabina Winchester, o un lazo, o uno Stetson, a catapultarci nel mondo della frontiera americana. Sono al tempo stesso la griffe di una produzione e i simboli di uno stile di vita. Il fumetto western gronda letteralmente di questi oggetti: l’essenzialità del suo segno necessita di elementi di identificazione forti e, per l’appunto, essenziali. La funzione narrativa di questi segni si evolve col tempo, e mutano di conseguenza anche le modalità della loro rappresentazione. Si parte da pistole malamente abbozzate, informi, non identificabili in alcun modello, e si arriva ad una loro raffigurazione minuziosa sino al dettaglio, ivi compresa la plausibilità della collocazione temporale. Lo stesso vale per fucili, cappelli, acconciature e costumi indiani, selle, veicoli, ecc… Persino i rumori cambiano espressione grafica. Lo sbrigativo e universale “bang” (che alla vignetta successiva si traduceva in “zip”) è stato sostituito da onomatopee specifiche, diverse da modello a modello, da calibro a calibro. Sono gli effetti della stereofonia e del rallentamento d’immagine, trasferiti sulla pagina disegnata.

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Il duello

Il Western nel fumetto italiano 74L’ultima parola è alla pistola (o al fucile, ai coltelli, ai pugni). Dove non arriva la giustizia degli uomini vige il “giudizio di Dio”. È un confronto dall’esito già scontato, perché del dio giudice e lettore gli eroi del western sono la mano armata: eppure ogni scontro è ugualmente drammatico e ogni vittoria ci riconforta nella speranza di un mondo più pulito.

Il Western nel fumetto italiano 75Anche perché ogni duello che si rispetti, nel racconto a fumetti come nel film, ha un antefatto, una “prova generale” il cui sviluppo ci ha fatto dubitare dell’invincibilità dell’eroe. Quando non si chiude con un pareggio, o con una sconfitta ai punti per il nostro (dovuta ad inganno, a impreparazione, a sproporzione delle forze), la prima fase della sfida lascia comunque in piedi il malvagio, più che mai incattivito e determinato alla rivincita.

Il Western nel fumetto italiano 76Solo lo scontro ultimo ricompone quell’equilibrio che l’entrata in scena del male aveva turbato, e ci trasmette un piacevole effetto adrenalinico, un brivido finale di sollievo e di soddisfazione.

 

Il bivacco

Il Western nel fumetto italiano 77… E per tetto un cielo di stelle (se non é nuvolo). Ma anche l’ombrello di una quercia secolare, un colonnato di sequoie giganti, l’ombra della mesa che incide un paesaggio lunare, il circolo dei carri addormentati, l’inquieto tramestio della mandria nel vallone: o, se piove, una sporgenza rocciosa o un telo gettato tra alti arbusti

Il bivacco è un segno di interpunzione tra un’avventura e l’altra, il momento dei ricordi, delle meditazioni, a volte delle rivelazioni. Non è necessariamente la quiete: attorno può muoversi il pericolo, dal buio può spuntare l’insidia, magari sotto le spoglie dello sconosciuto che chiede un po’ di caffé. Ma è senza dubbio il coagulo delle amicizie più profonde, quelle libere da ogni costrizione, da ogni sorta di muro e di barriera difensiva.


La parodia

Il Western nel fumetto italiano 78È possibile ironizzare su di un mito? Sì, ma solo a patto di un’adesione totale al mito stesso. Altrimenti si scade nella dissacrazione, la favola finisce, si parla un altro linguaggio.

Il fumetto italiano ha offerto forse il migliore esempio di reinterpretazione comica del west, con il COCCO BILL di Benito Jacovitti. Ispiratore del tardo spaghetti-western, quello parodistico di “Lo chiamavano Trinità”, Cocco Bill sdrammatizza attraverso l’enfasi e il paradosso tutti i clichés del pistolero solitario (basti pensare alla sua passione per la camomilla), e agisce in uno scenario decisamente casereccio, surreale ma non così lontano dal nostro immaginario, per il quale la frontiera era l’aia della cascina del nonno o l’osteria fuori porta.

Il Western nel fumetto italiano 80Una rilettura parodistica del genere western molto più aderente ai canoni e alle ambientazioni tradizionali è quella di Giorgio Cavazzano, che ha proposto due ottime serie con CAPITAN ROGERS, comparso sul Giornalino nel corso degli anni ottanta, e con l’esuberante SILAS FINN, realizzato in collaborazione con Tiziano Sclavi.

Il Western nel fumetto italiano 84 Bivacco al cinema

Cinema e fumetto

Il Western nel fumetto italiano 81La rassegna dei prestiti e dei debiti tra cinema e fumetto meriterebbe una mostra a parte. Tutto in fondo li accomuna, dalla struttura narrativa sequenziale al gioco delle inquadrature, dall’affermazione di “generi” specifici alle modalità della fruizione. Se non è possibile parlare di paternità, senz’altro si deve attribuire al cinema il ruolo di fratello maggiore: sono pochi (e in genere mal riusciti) i casi di fumetti adattati per lo schermo, mentre sono innumerevoli le fisionomie, le storie, persino i tagli espressivi trasferiti più o meno dichiaratamente dalla celluloide alla carta. In genere la citazione è nascosta, a volte probabilmente persino inconscia. In alcuni casi è invece esplicita (cfr. James Dean e Ken Parker) e aggiunge il fascino di una doppia lettura alla vicenda. Non mancano infine i casi di trasposizione diretta, che rischiano però, quando va bene, di ridursi a puro esercizio di abilità formale.

I libri

Il Western nel fumetto italiano 87 Bivacco al cinemaIl libro non gode di particolare stima nel mondo disegnato della frontiera. Qualche Bibbia ogni tanto, magari nella capanna di un trapper, qualche codice tra le mani di giudici da saloon, e tomi decorativi nelle lussuose abitazioni dei potenti (quindi dei cattivi). Il cavallo non regge il peso di una grossa cultura. Unica eccezione Ken Parker, onnivoro divoratore di letteratura e poesia, da ultimo anche scrittore in proprio.

A voi che non viaggiate a cavallo qualche lettura in più non dovrebbe pesare. Ci permettiamo quindi di offrirvi alcune indicazioni bibliografiche attinenti l’argomento della mostra. Naturalmente non è una bibliografia: si tratta soltanto di integrazioni e di consigli da amici.

  • Franco Fossati, Fumetto, Mondadori
  • Dee Bronn, La Grande Frontiera, Mondadori
  • Gualtiero Stefanon, Uomini Bianchi contro uomini rossi, Mursia
  • Charles Hamilton, Sul sentiero di guerra, Feltrinelli
  • PhiliphJacquin, Storia degli Indiani d’America, Mondadori
  • VV., Gli uomini della frontiera, Idea-Libri
  • VV., Indiani d’America, Idea-Libri
  • Robert H. Lowie, Gli Indiani delle pianure, Mondadori
  • Tutta la collana Dalla parte degli Indiani, Rusconi
  • Charles Billington, La conquista del west, Mondadori
  • Wilcomb E. Washburn, Gli Indiani d’America, Editori Riuniti
  • VV., La grande avventura dei fumetti, De Agostini
  • Ferruccio Giromini, Ombre rosse bianche verdi, De Luca
  • VV., Gli illustratori del west, Marsilio

Il Western nel fumetto italiano 90 Bivacco al cinema

Tapiro!

di Paolo Repetto, 1996

In un parcheggio arroventato, in un pomeriggio torrido di luglio, ho visto il tapiro. Non è stato difficile scovarlo. Mi hanno portato dritto dritto alla savana d’asfalto i manifesti rosso fiammanti che per una decina di chilometri attorno ad Ovada tappezzavano muri e viadotti. Al centro l’immagine di un animalone bicolore; sopra, cubitale, la scritta “Tapiro!”, senza l’articolo e con il punto esclamativo. E sotto: “Unico esemplare in Italia!”. Li ho rivisti per giorni, non potevo farne a meno: nel tragitto tra Lerma e Ovada il manifesto compariva almeno venti volte. Quaranta esclamativi! E così ho finito per andare a visitare lo zoo ambulante, e a vedere il tapiro.

La prima emozione mi attendeva già all’ingresso: quindicimila. Ma insomma, esemplare unico in Italia, si entra. Altra botta all’interno: una puzza terrificante, non giustificata dalla quantità di animali, in effetti pochini, ma solo dal loro esotismo. C’erano infatti galline tibetane, molto simili alle nostre, anzi, identiche; caprette del Perù, anche quelle identificabili solo dal passaporto; cavalli, un dromedario, sei ferocissimi galli messicani da combattimento, tutti in una stia, a razzolare tranquillamente assieme; un lama, uno gnu e poco altro. In compenso però c’erano il marabù e naturalmente la star, sua maestà il tapiro. Che era poi un poveraccio, un goffo incrocio tra un maiale e un ippopotamo, con un muso da vittima più interrogativo che esclamativo, oppresso da un ciranesco nasone di cui, stando in una gabbia, non sapeva assolutamente cosa fare (e nemmeno ho capito a cosa potesse servirgli fuori). Questo poi non era nemmeno bicolore: indossava uno spelacchiato mantello setoloso, di colore indefinibile, un marroncino sporco. Bofonchiava annoiatissimo, spostandosi nell’afa il meno possibile, quel tanto sufficiente a guadagnargli due sparute strisce d’ombra. A dirla tutta, faceva una gran pena.

Quando sono uscito (per vedere tutto, anzi, per ripetere in semiapnea due volte il giro sono stati più che sufficienti cinque minuti) la domanda era lì già pronta: ma sul momento, diciamo sull’onda dell’emozione, o forse del gran caldo, ho preferito lasciar perdere.

È stata l’ironia degli amici, un paio di sere dopo, a costringermi ad una riflessione più seria. Per loro ero io l’esemplare unico, l’unico fesso italiano che aveva visto il tapiro. E allora mi sono chiesto cosa può spingere un adulto cosciente, passabilmente normale, a spendere quindicimila lire per vedere un malinconico maialone dal grugno allungato: e ho trovato la risposta.

Ammetto che una parte nella suggestione l’ha avuta la scritta. Quell’esclamativo riecheggiava certi titoli degli albi di Tex, Navahos! Anaconda! Mephisto!, e quindi evocava l’avventura, il pericolo, il mistero. Ho pagato il tributo a un colpo di genio pubblicitario e alle mie reminiscenze bonelliane.

Ma il motivo vero era ben più profondo: erano altre reminiscenze, quelle salgariane. Ricordate come sopravvivono i bucanieri braccati nella foresta, o Josè il Peruviano alle pendici delle Ande, o un sacco d’altri personaggi sperduti nei più selvaggi anfratti del globo? Mangiano carne di tapiro. Quando sono allo stremo, pressati dai nemici o dispersi in zone sconosciute, spunta provvidenziale un tapiro e finisce in bistecche. Ma è anche il piatto forte di banchetti selvaggi, rosolato allo spiedo in notti di festeggiamenti o in improvvisati bivacchi. Per Emilio quella del tapiro doveva essere una fissazione. Gli cascava a pennello, è un animale diffuso in tutti i continenti calcati dai suoi avventurieri, niente pericoloso, esotico quel che basta per eccitare la fantasia. Perfetto per salvare la situazione e per mantenere l’atmosfera. Come le testuggini e i tacchini selvatici (le tre T alimentari di Salgari) è facile da catturare, offre cibo in abbondanza e aggiunge (letteralmente) sapore all’avventura. Non possiamo immaginare un bucaniere che spenna una gallina.

Dunque, ho visto il tapiro: ma la mia non era una semplice curiosità, era un omaggio. Un pellegrinaggio, come andare sulla tomba di Leopardi, o a Santa Croce. Non sto scherzando: perché alla fin fine, a dispetto della povertà dello spettacolo e dell’insignificanza del protagonista, devo confessare che una certa emozione l’ho provata. Siamo sinceri: cosa accade quando ci accostiamo con religiosa compunzione ai sepolcri dei nostri Grandi Maestri, o radiografiamo con curiosità devota, ma anche un po’ forzata, gli angoli più anonimi del palazzo di Recanati e del casale di Santo Stefano Belbo? Il “sospiro che dai tumuli a noi manda Natura” non è certo quello degli spiriti magni, sovrastato ormai dal vocio delle fiere culturali e turistiche allestite sulle loro spoglie: è invece quello della memoria, delle fantasie, dei sogni e degli ideali che romanzi e poesie, o magari canzoni, ci hanno ispirato, quando ancora il nostro fantasticare non era dettato dal telecomando. Quelle mura spoglie, la sedia, il tavolo di scrittura, la pietra tombale, non ci comunicano alcunché di nuovo, non ci aiutano a costruire alcuna aura. Non siamo lì per trovare Leopardi o Pavese, siamo lì per ritrovare una parte di noi stessi che non vogliamo vada perduta.

Che senso hanno, dunque, questi rituali, queste occasioni commemorative e celebrative? Lo hanno se siamo capaci di darglielo. Lo hanno se riusciamo ad ignorare lo squallido mercato di icone o di convegni di cui è oggetto tutto ciò che ci ha appassionato, se rifiutiamo l’imprigionamento di ogni nostra fantasia in confezioni patinate o in puzzolenti baracconi, se difendiamo il nostro diritto alla privacy del sogno. Se riteniamo cioè che le cose non importino per quel che sono, ma per quel che rappresentano, o hanno rappresentato. E allora, se il gusto che sentivamo a dodici anni nell’addentare il pane era quello della galletta dei corsari o della “tortilla” degli scorridori, e se strappavamo a morsi le rare bistecche dell’adolescenza come fosse carne di bufalo affumicata, e se questo ce le faceva amare e digerire, ben venga il tapiro, cari amici, e bando all’ironia. Con quindicimila lire ho fatto un viaggio nella stagione più bella della mia vita: e se penso che ho visto anche lo spolpatore di cadaveri della jungla nera, l’immondo marabù, e ne ho ascoltato il verso, quella specie di singulto che gela il sangue nelle vene anche a Tremal Naik, figlioli, era proprio regalato!

 

Incursioni nell’immaginario

di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 4, giugno 1992

Un viandante non è un viaggiatore. Non si limita a superare occasionalmente delle distanze, ma percorre degli itinerari, connota degli spazi. E dal momento che nemmeno è un pendolare, questi spazi, questi itinerari sono sempre diversi. Il viaggio è la sua vita, lo spostamento è la sua meta. Questo lo differenzia dal viaggiatore. Il viaggiatore parte, arriva, vede. Il viandante non parte, perché non ha luoghi o affetti da cui staccarsi, e non arriva, perché non ci sono affetti e luoghi a cui legarsi: e soprattutto non vede, ma conosce, non subisce l’alterità, ma è riconosciuto. Non avendo dimora, non è mai uno straniero. E di ogni contrada, naturale o ideale, può fare la sua patria, senza rinnegare la sua vocazione di apolide.
I Viandanti delle Nebbie non si sottraggono a questa condizione. Le tappe dei loro itinerari, le soste lungo i loro vagabondaggi, diventano occasione di dialogo con chi per il momento preferisce un’esistenza più sedentaria, ma non è immune al richiamo della fantasia. Tali sono ad esempio gli incontri che prendono spunto dalle periodiche incursioni dei Viandanti sui sentieri dell’immaginario (ma anche su quelli, molto più concreti, delle nostre montagne). Due di questi incontri sono già stati realizzati sotto forma di mostre iconografiche, presentate nell’autunno scorso e nella recente primavera.

 

Il west nel fumetto italiano

Ogni viaggio è un’avventura, e ogni avventura è un viaggio. Il viaggio, lo spostamento, nel west della frontiera è molto più di un’avventura, è il senso stesso della vita, la sua intrinseca condizione. Oltre la frontiera occidentale c’è l’ignoto, l’inesplorato: c’è il pericolo, ma c’è anche la speranza di una vita nuova, di un’esistenza diversa. La speranza accomuna nel viaggio tutti i protagonisti del fumetto western: è quella del fuorilegge di sfuggire alla cattura, quella del trapper di sottrarsi alla “civiltà”, quella dell’ex confederato di lasciarsi alle spalle la sconfitta, quella dell’indiano di rintracciare i bisonti e di mettere spazio tra sé e i visi pallidi, quella del mandriano di non avere tra i piedi agricoltori. Tutti inseguono il sole nel suo corso, sui carri, a cavallo, in battello o in diligenza, ricalcando le tracce di tante antiche saghe di migrazione, e incrociando le loro storie in un altrove che le fa assurgere a leggende.

51 Vedute del Monte Tobbio

La domanda suonerà superflua per chi il monte lo ha già salito, una o innumerevoli volte: o anche solo per chi è stato affascinato, nelle occasioni e dalle angolazioni più svariate, dall’inconfondibilità del suo profilo. Ma una spiegazione è dovuta a coloro che non hanno provato né l’una né l’altra emozione. Il Tobbio è diverso, è speciale: e intento della mostra, attraverso l’insistenza sulla sua immagine, è di celebrare una diversità da sempre avvertita, che ha rivestito di un’aura di sacralità e di leggenda una vetta accessibile e modesta.
L’eccezionalità del Tobbio è connessa ad un particolare rapporto tra la sua morfologia e la sua collocazione. La conformazione vagamente piramidale e l’escursione altimetrica tra le pendici e la vetta gli conferiscono un’estesa visibilità, pur in mezzo ad altre formazioni di altitudine pari o addirittura superiore. E questo nitido stagliarsi, sulla direttrice ideale che raccorda il mare alla pianura dell’oltregiogo, lo ha eletto a riferimento geografico, meteorologico e simbolico per eccellenza per le popolazioni di entrambi i versanti dell’Appennino.

Percorsi

Lo sviluppo perimetrale della mostra propone, a grandi linee, due diversi itinerari, che possono essere percorsi in parallelo o attuando costanti intersezioni. Il primo ci accompagna in una escursione iconografica a trecentosessanta gradi attorno al Tobbio, colto nei differenti abiti stagionali e meteorologici, e prosegue poi con un ribaltamento del punto di osservazione, trasferito sulla vetta stessa. Il secondo abbozza un excursus storico-scientifico sulle caratteristiche geologiche e naturalistiche del monte, e sul “culto” ad esso tributato. Ciascun pannello offre pertanto una sequenza di immagini corredate di riflessioni generali sul rapporto con la montagna o specifiche su quello col Tobbio, ed una sezione scientifico-documentaria, sviluppata orizzontalmente lungo l’intera mostra.
Noi ci permettiamo un paio di suggerimenti extra. Intanto, quello di percorrere questi itinerari non con il fardello di pignolerie fotografiche, naturalistiche, alpinistiche o che altro, ma in assetto leggero, per ritrovare quella fusione tra reale e fantastico che costituisce la particolare magia di ogni ascensione al Tobbio. Ma, soprattutto, quello di regalarsi un’appendice esterna alla mostra, guadagnando l’altura più vicina e godendosi, se la visibilità lo permette, il soggetto dal vero; o meglio ancora, facendo una puntatina in vetta, per ripercorrere queste immagini dopo aver rotto il fiato, col ritmo giusto per la salita.

 

Visibilità

Caratteristica precipua del Tobbio è senz’altro la visibilità. Il suo profilo si distingue nettamente, provenendo da nord-est, sin dalle piane o dalle basse colline del pavese. Verso settentrione la sua visibilità non incontra ostacoli lungo tutta la larga fascia pianeggiante che arriva sino al gruppo del Rosa e alle Lepontine, da Ivrea al lago di Como. Da occidente è riconoscibile dai rilievi di tutto l’arco alpino, sino alle Marittime. Meno visibile risulta dal versante appenninico, tra sud-sud-ovest e sud-sud-est, dove il suo dominio trova un limite prossimo nella cresta del Figne, e si frange contro l’altitudine superiore della corona della Val Borbera. In condizioni di eccezionale limpidezza, però, anche chi bordeggi lungo la costa ligure può coglierlo, in uno scorcio ristretto, allineato a nord sulla direttrice del santuario della Guardia.