di Elisa Repetto, 30 giugno 2016
Eppure l’unica vita eccitante
è quella immaginaria
VIRGINIA WOOLF
Introduzione
“Dio solo sa quanto è brutto vivere in un mondo
senza avventure, senza fantasia, senza allegria.
Dimmi che mi capisci, Corto!”
“Ti capisco, Rasputin.”
Corto Maltese non è solo il protagonista di un fumetto da svago. Rappresenta un ideale umano pieno di tutte le umane contraddizioni, ma al fondo legato ad una concezione della vita come costante ricerca, come occasione per imparare sempre qualcosa. In questo senso è l’Ulisse moderno. Ma è anche uno spettatore, testimone di eventi che segnano la fine di un’epoca romantica e avventurosa, o che almeno a noi oggi appare tale.
Ho scelto questo personaggio come testimonial per la mia tesina d’esame perché penso sintetizzi molto bene ciò che ho appreso in tredici anni di studio: non tanto le conoscenze e le competenze, ma lo spirito col quale a mio giudizio le conoscenze e le competenze devono essere fatte proprie e rivissute, con un pizzico di fantasia e con assoluto divertimento.
Una corta biografia
Per tracciare una biografia di corto Maltese sarebbero necessari diversi volumi, tanto intensa è la sua vita e tanto straordinari sono i suoi incontri. Mi limiterò quindi a pochi cenni, sperando siano sufficienti a spiegare il perché delle mie scelte e come il personaggio si presti a legare assieme dei saperi acquisiti in discipline diverse e in alcuni casi apparentemente lontane tra loro.
Corto Maltese nasce, oltre che dalla fantasia, dall’inconfondibile tratto artistico e dalla vastissima cultura di Hugo Pratt, da un marinaio inglese e da una gitana spagnola, modella di famosi pittori. Ha l’avventura nel sangue e per tutta la vita sarà un marinaio avventuriero, implicato, a volte suo malgrado, in tutte le vicende maggiori, ma anche in quelle meno note, che caratterizzano il primo quarto del ventesimo secolo.
La sua carriera ha inizio proprio all’esordio del secolo, nel 1900, che lo trova a soli 13 anni in Cina, durante la rivolta dei Boxer. Di lì passa in Sudamerica e poi torna nell’Asia orientale, in Manciuria, giusto in tempo per veder terminare la guerra russo-giapponese e per conoscere Jack London. Trascorre poi gli anni che precedono il primo conflitto mondiale sempre in movimento tra l’Africa, la Patagonia, l’Italia, gli Stati Uniti, l’Argentina, le isole caraibiche e quelle del Pacifico, conoscendo nel frattempo Stalin, John Reed, James Joyce, Butch Cassidy e infiniti altri personaggi più o meno storici.
Per un paio d’anni si tiene lontano dalla grande guerra, vivendo una serie di avventure nell’America centrale e nei Caraibi, poi rientra a Venezia, finisce sul fronte franco-tedesco e assiste alla morte del Barone rosso. Un intermezzo in Irlanda, nel 1917, lo vede testimone della rivolta irlandese di Pasqua, finita in un bagno di sangue.
Dopo la fine della guerra lo troviamo nello Yemen, in Somalia, in Etiopia e infine in Siberia, nel bel mezzo del conflitto tra i rossi e i bianchi. Di qui torna a Venezia (e incontra d’Annunzio), poi è a Rodi e infine a Samarcanda. Quindi passa in Svizzera (dove conosce Hermann Hesse), poi ancora in Sudamerica e in Africa. Le sue tracce si perdono durante la guerra di Spagna.
Credo che nessun altro personaggio letterario possa vantare un bagaglio di esperienze paragonabile a quello di Corto Maltese. Ciò che è certo è che Corto, da buon avventuriero senza scrupoli, le esperienze altrui le ha saccheggiate tutte: e quindi nelle sue avventure ritroviamo tutti personaggi che da sempre, in ogni epoca e in ogni paese, hanno acceso la fantasia dei lettori e li hanno fatti sognare ed evadere da vite troppo ristrette. Troviamo Ulisse e Sinbad, Giasone e Lord Jim, il capitano Nemo e il Corsaro Rosso, ma anche Tintin e gli avventurieri del cinema in bianco e nero.
Visti attraverso i suoi occhi, anche gli oggetti delle discipline scolastiche finiscono per assumere un altro significato. È quello che cercherò di trasmettere nelle pagine che seguono.
Greco
Un popolo di marinai-avventurieri
Nella letteratura greca sono moltissime le storie di marinai o avventurieri che si spingono oltre i confini del mondo conosciuto e incontrano straordinarie peripezie. Il più famoso tra gli eroi naviganti è certamente Ulisse, ma esistono anche storie di spedizioni marittime antecedenti l’età omerica. Ad un’epoca molto remota risale senz’altro il mito degli Argonauti, del quale parlerò a proposito della letteratura latina, che testimonia come gli abitanti dell’Ellade avessero incominciato ad espandere i loro traffici e i loro domini sino al Mar Nero ben prima del X secolo a.C. In effetti cretesi e micenei si spingevano già attorno alla metà del secondo millennio a.C. nel mar Tirreno e nel Mediterraneo occidentale, risalendo la penisola italica sino all’isola d’Elba, in cerca di stagno, indispensabile per le leghe di bronzo, e di ferro. Il racconto dell’Odissea conferma che la loro buona conoscenza delle rotte mediterranee occidentali era stata tramandata agli Achei: il percorso di Ulisse può essere ricostruito con esattezza, riconoscendo sotto la narrazione mitologica ogni singola isola e ogni approdo.
Gli Achei non si limitarono però a ripercorrere il Mediterraneo. La più antica testimonianza dell’attraversamento delle Colonne d’Ercole riguarda Caleo di Samo, spinto nel settimo secolo nell’Atlantico da una tempesta. Ma fu un marinaio greco di una colonia occidentale, Pitea di Marsiglia, a compiere uno dei viaggi più straordinari dell’antichità. Il racconto è tramandato da Dicearco, allievo di Aristotele, ma è ripreso poi anche da Diodoro Siculo, da Plinio, da Polibio e da Strabone. Dopo essersi lasciato alle spalle Gibilterra, Pitea, che era alla ricerca dei luoghi di produzione dello stagno, costeggiò la Spagna e la Francia sino alla Manica. Di qui entrò nel Mare del Nord e risalì la costa orientale inglese, fino alle Orcadi; a questo punto era intenzionato a veleggiare ancora verso settentrione, alla ricerca della mitica Thule, ma dovette desistere per le condizioni climatiche. Il viaggio di ritorno fu molto più complicato, e avvenne per via fluviale, sfruttando i fiumi che sfociano nel mar Baltico partendo dal centro dell’Europa. Ciò che importa comunque è che nel corso del viaggio la voglia di scoperta e di avventura sembrano aver preso il posto delle motivazioni economiche.
In effetti nella storia della navigazione greca abbondano le sfide pure e semplici all’ignoto. Eudosso di Cizico, ad esempio, greco della Ionia ed esperto navigatore delle rotte arabo-indiane, attorno alla metà del II secolo a.C. tentò di circumnavigare l’Africa da occidente ad oriente, riprovandoci più volte, fino a sparire definitivamente nell’oceano.
La sua storia, e quelle di mille altri, non testimoniano solo una vocazione economica. Ci dicono che alle origini della nostra cultura c’è una costante irrequietezza, la voglia di andare oltre, di scoprire cose sempre nuove.
Questa irrequietezza è la stessa che troviamo nel carattere di Corto Maltese. Se disegnassimo una mappa delle sue avventure ci troveremmo segnati molti dei luoghi raccontati nelle Storie di Erodoto. E troveremmo anche che quei paesi, quelle città sono descritti non molto diversamente da come lo faceva lo storico greco. Non sono luoghi di fantasia, ma luoghi capaci di accendere la fantasia. O almeno, lo erano fino ai tempi dell’ultimo marinaio-avventuriero.
Una storia tutt’altro che vera
Lo spirito che anima le avventure di Corto Maltese l’ho ritrovato ne “La storia vera” (Ἀληθῆ διηγήματα) di Luciano di Samosata, romanzo diviso in due libri e scritto attorno al II secolo d.C. Nonostante “La storia vera” narri vicende assolutamente inverosimili e sia animata soprattutto dallo spirito della parodia, in essa si ritrovano atmosfere magiche, luoghi esotici e personaggi bizzarri che potrebbero essere usciti dalle vignette di Hugo Pratt.
Luciano racconta la vicenda in prima persona, ma ripete più volte che quelle avventure e quelle situazioni straordinarie non le ha vissute direttamente, e nemmeno le conosce di seconda mano: afferma anche che l’unica cosa vera che si dice nel libro è che è tutto falso. In questo modo ci fa capire che siamo entrati in un mondo totalmente fantastico, nel quale non valgono le leggi di quello naturale, e tutto può accadere, come in un cartone animato.
Luciano racconta di aver organizzato una spedizione navale oltre le Colonne d’Ercole per andare alla scoperta di mondi nuovi e nuove emozioni. Dopo una violenta tempesta l’equipaggio sbarca su un’isola misteriosa, nella quale scorrono fiumi di vino, abitata da esseri che hanno forma di viti dai fianchi in giù e di donne nella parte alta. Una parte dei naviganti si lascia sedurre da questi esseri ibridi e finisce trasformata in alberi. I loro compagni possono salvarsi solo fuggendo immediatamente e abbandonandoli. Lasciata l’isola, la nave viene risucchiata e sollevata da un tifone, che dopo otto giorni di volo la deposita sulla luna. Lì i terrestri vengono coinvolti in una “guerra stellare” tra i seleniti e i solariani, al termine della quale l’equipaggio, che si è schierato con i seleniani sconfitti, è portato in prigionia sul sole. I prigionieri vengo però di lì a poco liberati: rifiutano di diventare cittadini lunari e si dirigono nuovamente verso la terra. Qui la nave viene immediatamente inghiottita da un’enorme balena. All’interno del cetaceo c’è un intero mondo, con isole abitate da popoli selvaggi, contro i quali Luciano e i suoi compagni combattono fino a sterminarli. Assistono anche a una battaglia tra giganti che spostano, remando, delle lunghe isole come fossero imbarcazioni. Una volta evasi finalmente dal ventre della balena, i personaggi attraversano un mare di latte, in mezzo al quale emerge una grande isola di formaggio. Successivamente, continuando la navigazione, incontrano l’isola dei beati, sulla quale trovano poeti, filosofi, eroi e personaggi della mitologia. In un’altra isola vengono invece sottoposti a processo e condannati per le menzogne inverosimili raccontate. Soggiornano poi per un mese nell’isola dei sogni e infine approdano a Ogigia, dove vive la ninfa Calipso, alla quale consegnano una lettera di Ulisse piena di rimpianti e di dichiarazioni amorose. Lasciata anche Ogigia si trovano in pieno oceano a dover superare una enorme voragine, le cui due sponde sono unite solo da un ponte d’acqua. Superata anche questa si trovano finalmente di fronte alla terra ferma, ma prima che riescano a decidere il da farsi una burrasca improvvisa li getta sulla spiaggia, sfasciando la nave. Il racconto si interrompe qui, con la promessa di un seguito altrettanto avventuroso.
Come si vede, è un susseguirsi di avventure strampalate che scimmiottano quelle raccontate nei poemi epici e mitologici, volgendole in assurdo. Sembra addirittura che il romanzo sia nato come parodia di un resoconto di viaggi che pretendeva di essere realistico ma raccontava poi cose quasi altrettanto assurde. Luciano si diverte comunque a disseminare la narrazione di riferimenti a tutta la letteratura epica e mitologica precedente. Cinquanta sono ad esempio i suoi compagni di avventura, come lo erano quelli di Giasone. Le isole somigliano a quelle incontrate da Ulisse, salva la descrizione comica, e alcune sono addirittura le stesse. È una storia tirata via alla buona, anche nello stile: ma è interessante l’atteggiamento di Luciano, che da un lato dissacra tutti i miti antichi e i grandi capolavori letterari, mentre dall’altro sembra divertirsi un mondo, e invitare i suoi lettori a fare altrettanto. A prendere la vita con ironia e leggerezza, come farà duemila anni dopo Corto Maltese.
Latino
Avventurieri nella Colchide
Gli Argonautica (Argonautiche) di Valerio Flacco sono un poema epico in otto libri. Flacco si è ispirato all’omonimo poema di Apollonio Rodio, apportando pochissime modifiche alla sua versione.
Alla spedizione degli Argonauti si fa cenno già sia nell’Iliade e nell’Odissea che nella Teogonia di Esiodo, segno che la vicenda era molto nota già prima del medioevo ellenico, e risaliva probabilmente all’epica minoica. Il primo racconto integrale dell’avventura risale a Pindaro, nella IV Pitica. Il tentativo di costruire un’epopea degna di reggere il confronto con quelle omeriche venne invece fatto in età ellenistica da Apollonio Rodio, con Le Argonautiche.
Il racconto di Flacco parte dal ritorno di Giasone a Iolco, un tempo governata da suo padre, dopo un lungo esilio. Il nuovo sovrano, che è zio di Giasone e ha usurpato il potere, teme la vendetta del giovane e vuole allontanarlo dalla città. Con il pretesto di un maleficio che ottenebra le menti di tutti gli abitanti gli ordina di andare nella Colchide e di impadronirsi del vello d’oro, una pelle di montone sacra al dio Ares, il cui possesso libererebbe Iolco dal pericolo.
Giasone raduna cinquanta eroi, tra i quali Eracle, Castore e Polluce, e si imbarca sulla nave “Argo” alla volta della Colchide. La sua missione è piena di pericoli e di imprevisti: il primo scalo avviene presso l’isola delle Amazzoni, dove gli argonauti si fermano due settimane, su invito delle donne guerriere, per generare con esse dei figli. Dopo la defezione di Eracle, che parte alla ricerca di un amico, la spedizione giunge a un’isola nella quale l’indovino Finea è tenuto prigioniero dalle Arpie. Sconfitti i mostri e liberato l’indovino si riprende il mare, per approdare ad un’altra isola, sulla quale Castore e Polluce sconfiggono e uccidono il tiranno Amico. Finalmente viene raggiunta la Colchide. Qui Giasone dovrebbe affrontare prove insuperabili per potersi impadronire del Vello d’oro, ma trova l’aiuto della figlia del re, Medea, che è una maga e che si è innamorata di lui. Con l’aiuto di Giunone Medea riesce a far superare a Giasone tutte le prove e a fargli uccidere il drago che custodiva il Vello. A questo punto però è il sovrano, il padre di Medea, a dar loro la caccia per vendicare l’offesa recata ad Ares. Ripreso il mare, gli argonauti tentano la fuga, e ancora una volta è Medea a salvarli. Uccide infatti il proprio fratello e ne divide le parti del corpo, gettandole poi in mare, in modo che il padre sia costretto a fermarsi per raccoglierle e seppellirle. A questo punto il racconto si interrompe. Alcuni studiosi ritengono che originariamente l’opera si componesse di altri quattro libri, andati perduti. La storia successiva di Medea e Giasone è conosciuta comunque attraverso diverse tragedie, tra le quali la Medea di Euripide.
L’intento dichiarato di Valerio Flacco è quello di celebrare, attraverso la rievocazione di gesta antiche, quelle degli imperatori Flavi, suoi contemporanei, e di Vespasiano in particolare, creando un modello al quale le loro imprese dovrebbero essere paragonate. In pratica vede nel mitico viaggio alla Colchide la nascita della navigazione d’alto mare, e considera i romani gli eredi dello spirito di conquista e di avventura dei Greci. Il suo poema non viene considerato tra i grandi classici, intanto perché la storia non è affatto originale, e neppure reinterpretata con spirito nuovo, e poi perché lo stile ricalca senza molta fantasia quello virgiliano.
Ho scelto di metterlo in relazione al mondo di Corto Maltese perché riassume alla fine di un’epoca tutte le varianti di una storia antichissima, e le trasmette al mondo che verrà. Nel medioevo, prima della riscoperta umanistica del greco, la storia di Giasone era conosciuta soprattutto attraverso la versione di Flacco, anche se esistevano traduzioni del poema di Apollonio Rodio. Dante non le riserva alcuno spazio, e si limita a cacciare l’eroe nel cerchio dei fraudolenti, nel XVIII libro dell’Inferno: ma qualche secolo dopo, nell’età delle scoperte geografiche e della penetrazione negli oceani, il mito conoscerà una rinascita. E Corto Maltese ne è in fondo un moderno interprete, tanto che nel corso delle sue avventure incontra più volte maghe e indovine che sembrano discendere direttamente da Medea (ma sono un po’ meno sanguinarie).
Storia
La rivoluzione irlandese
In una delle sue più belle avventure, quella narrata in Concerto in O’ minore per arpa e nitroglicerina, Corto Maltese capita in Irlanda proprio mentre il paese è insanguinato dalla guerra d’indipendenza contro gli inglesi. Finisce per schierarsi dalla parte degli insorti e compie un’azione che infligge grossi danni agli avversari: ma solo per vendicare un amico e per un superiore senso della giustizia.
Le vicissitudini degli irlandesi e i loro conflitti con i vicini britannici avevano avuto inizio già nel Medio-Evo. Nel XVI secolo tutta l’isola era ormai sotto la dominazione inglese, che discriminava la popolazione cattolica e favoriva l’insediamento dei propri coloni. Nel 1800, a seguito di una ennesima rivolta, era stato emanato l’Atto di Unione, tramite il quale Irlanda e Gran Bretagna andavano a formare il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. Contro questa unificazione era nata una resistenza che si sviluppò sia sul versante politico-parlamentare, sia come lotta armata, con i movimenti dei Giovani Irlandesi e del Sinn Fein (Noi soli), che dopo il fallimento di due successive rivolte continuarono ad agire nella clandestinità.
Nel 1912 i partiti autonomisti irlandesi rappresentati nel Parlamento inglese ottennero l’approvazione di una legge per l’autonomia, che venne però ostacolata dai conservatori. I gruppi più radicali decisero quindi di passare all’attacco, e durante la prima guerra mondiale promossero un’insurrezione. Questa ebbe luogo nella settimana di Pasqua del 1916 (dal 24 al 30 aprile). I Volontari irlandesi, guidati dal poeta Pádraig Pearse, e i membri dell’Irish Citizen Army occuparono alcuni punti simbolici di Dublino e proclamarono la Repubblica irlandese indipendente. La Rivolta fu sedata in sei giorni. Per gli inglesi fu anche un banco di prova per la guerra, perché per la prima volta vennero impiegate in combattimento le autoblindo e i carri armati. I promotori della rivolta, tutti catturati, furono processati dalla corte marziale e giustiziati.
La vera e propria guerra d’indipendenza ebbe origine dagli eventi seguiti alle elezioni generali del 1918. I deputati eletti nelle circoscrizioni irlandesi rifiutarono di occupare i propri seggi nel Parlamento inglese e si costituirono, invece, come Assemblea d’Irlanda, formando un governo che dichiarò l’indipendenza irlandese.
Le ostilità iniziarono nel gennaio del 1919. I membri dell’ IRA iniziarono ad attaccare le installazioni governative, a condurre incursioni per procurarsi armi e denaro e a uccidere membri dell’amministrazione britannica. Alcuni repubblicani, come il presidente Éamon de Valera, disapprovavano questo tipo di violenza e volevano condurre una guerra di tipo convenzionale, ma Michael Collins, capo dell’IRA, optò per le azioni di guerriglia. Il conflitto andò avanti per due anni e mezzo, a colpi di agguati dell’IRA e di repressioni dei soldati britannici, causando circa 1500 morti tra i militari delle due parti e molti di più tra i civili. Alla fine del 1921 venne stipulato un trattato di pace tra le due parti, che riconosceva l’indipendenza dell’Irlanda, ma manteneva sotto il controllo britannico la parte di nord-est dell’isola, a maggioranza protestante.
Il trattato non venne accettato da tutti i componenti dell’IRA. Una buona parte di loro voleva continuare a combattere sino a quando non si fosse arrivati all’abbandono totale dell’isola da parte dei britannici. Ciò fece scoppiare una guerra civile che durò sino al 1923 e causò più morti di quella d’indipendenza (oltre 4.000), tra i quali lo stesso Michael Collins. La guerra fu particolarmente atroce, perché combattuta tra uomini che fino a pochi mesi prima stavano fianco a fianco, e perché le rappresaglie e le vendette si fecero sempre più feroci. Alla fine prevalse la fazione favorevole alla accettazione del trattato, ma le divisioni interne rimasero e pesarono per un altro mezzo secolo.
Anche dopo la aver conquistato l’indipendenza (1922), l’Irlanda continuò a far parte del Commonwealt, e divenne una repubblica completamente autonoma solo nel 1949, costituendosi in repubblica.
Filosofia
La biografia di Corto Maltese inizia con un episodio che dice tutto il personaggio. Quando è ancora un ragazzo una zingara gli legge la mano e rimane sorpresa perché nel palmo non trova la linea della fortuna. Corto prende allora un rasoio del padre e si incide da solo una linea sulla mano, dicendo: “La fortuna me la faccio da me”.
È un gesto che sarebbe piaciuto moltissimo a D’Annunzio, che vi avrebbe letto la tempra del superuomo. “Superuomo” Corto viene definito da una ragazza irlandese nelle Celtiche (che però gli dice anche: “Sei un vecchio cane che si lecca le ferite da solo”).
In realtà, Corto Maltese non ha nulla del superuomo dannunziano, anche se molti tratti della sua personalità sono tipici della letteratura e dello spirito del Decadentismo: ad esempio, lo scetticismo nei confronti delle ideologie e della scienza, alla quale contrappone una conoscenza “iniziatica”. Anche se quando gli chiedono «Ma, allora… lei è un “Iniziato”». risponde «No! Sono solamente informato. Io non credo né ai dogmi né alle bandiere», in realtà da vari indizi sembra essere in contatto con logge massoniche o altre associazioni ancor più misteriose e segrete. Ma sempre mantenendo la sua assoluta indipendenza di giudizio e di azione, e un ironico distacco.
La sua filosofia potrebbe essere definita mistica: senz’altro è molto spirituale. Corto odia il materialismo. Lo scopo dichiarato delle sue avventure è in genere un “tesoro”, ma il tesoro alla fine non si trova mai. Piuttosto, la ricchezza sta nell’avventura stessa, in quello che consente di imparare, nell’arricchimento morale e spirituale che comporta.
Corto Maltese va anche oltre gli schemi politici: “destra – sinistra” o “progressista–conservatore”. Non gli si possono appiccicare etichette. È sempre controcorrente: è contro i miti del denaro, del successo e della velocità, contro la competizione senza freni e la velocizzazione della vita. Spesso è rappresentato mentre, solo e appartato dalla vita e dalla Storia, medita davanti all’oceano.
Insomma, tutte queste caratteristiche lo allontanano decisamente dal superomismo dannunziano, mentre lo avvicinano piuttosto all’oltreuomo di Nietzsche.
Il Superuomo di D’Annunzio
L’immagine, o meglio, le varie immagini del superuomo D’Annunzio le disegna nei romanzi di tutti e tre i cicli (della Rosa, del Giglio e del Melograno) oltre a cercare di interpretarle con una “vita inimitabile”.
Ne L’innocente il protagonista cerca di arrivare al controllo totale delle sue passioni amorose, e di fronte alla nascita di un figlio, che disturba questa ricerca, non esita a ad arrivare all’omicidio. Ne Il trionfo della morte è l’invadenza dell’amante a impedire al protagonista di raggiungere lo stato di assoluto distacco: non gli resta che suicidarsi, portandosi dietro anche la sua tormentatrice. Ne Il fuoco, invece, lo stadio del superomismo è già stato raggiunto da Stelio Effrena, e si manifesta nella completa dedizione all’arte e nel dominio che il maestro esercita nei confronti delle donne.
In tutti e tre i casi, malgrado i propositi di ascetismo, di controllo delle passioni, di allontanamento dal mondo manifestati dai protagonisti, la loro scelta è poi quella di misurarsi con il mondo, soprattutto con quello femminile, e di arrivare a dominarlo. L’uomo di D’Annunzio è super quando si pone sopra gli altri uomini. Ha bisogno cioè di un termine di confronto, per affermare la propria superiorità.
Tutto questo non ha nulla a che fare con Corto Maltese, ma neppure con Nietzsche, malgrado ne Il trionfo della morte ci siano molte citazioni tratte da Così parlò Zarathustra. È una interpretazione piegata ad una mentalità e ad una visione della vita molto diverse.
L’oltreuomo di Nietzsche
Nietzsche infatti parla di ubermensch riferendosi all’oltreuomo. Le due parole non significano la stessa cosa. Nel primo caso si tratta di un uomo che aspira a un potere e ad un rango quasi divino, nel secondo di un uomo che raggiunge la piena coscienza del mondo, e quindi lo supera. Nel vecchio mondo l’uomo non sentiva responsabilità diretta, perché il destino dell’umanità appariva controllato dal trascendente, guidato dall’esterno: per Nietsche invece l’uomo nuovo è quello che si assume la responsabilità di dare un senso alla propria esistenza, e quindi deve guardare alla realtà che lo circonda in modo lucido. Deve cioè andare oltre la propria fisicità, che lo incatena a valori materiali, e riscoprire, al di là delle etiche tradizionali create dal cristianesimo e dal razionalismo greco, la propria dimensione sentimentale e il proprio potenziale intellettuale.
La sfida di Nietzsche non è quella che vede opposto l’uomo agli altri uomini, ma quella che lo vede contrapporsi al dominio sempre più opprimente del materialismo. È una sfida individuale, assolutamente personale: ma al contrario del superomismo dannunziano, la concezione dell’oltreuomo non prevede che il successo di uno sia basato sulla sconfitta o sulla sottomissione degli altri. Ciascuno di noi può essere un oltreuomo, indipendentemente da ciò che lo circonda, se raggiunge la chiara consapevolezza del mondo e ha il coraggio della propria volontà e della propria intelligenza. In questo senso anche la volontà di potenza di cui Nietzsche parla non ha nulla a che vedere con l’interpretazione che ne diede il nazismo: è la forza interiore che spinge l’uomo a voler essere padrone del proprio destino, e che per millenni, secondo Nietzsche, è stata soffocata in nome di una razionalità tutta pratica e operativa, mirante al risultato, o da una religione della resa e della sottomissione.
Italiano
L’eroe incompiuto
In Favola di Venezia (conosciuta anche con il titolo arabo Sirat Al Bunduqiyyah), ambientata nel 1921, Corto Maltese viene salvato da una situazione difficile – l’incontro con una squadraccia fascista – dall’intervento di un misterioso Poeta, che altri non è che Gabriele d’Annunzio. Il Vate in realtà non ci fa una gran figura. Entra in scena con un “Fermi tutti. Sono il Poeta!” ma poi, di fronte ad una camicia nera che lo deride, si mostra piuttosto remissivo. Pratt lo dipinge insomma come un personaggio pieno di sé, ma tutto sommato abbastanza innocuo e rassegnato ormai, dopo il fallimento dell’impresa di Fiume, ad un ruolo politico marginale.
Non è certo questo ciò che D’Annunzio si attende al momento in cui scrive i suoi “romanzi del Superuomo”.
Come abbiamo visto, D’Annunzio coglie alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche, banalizzandoli e forzandoli. Rifiuta il “conformismo borghese”, l’etica della pietà e dell’altruismo, i principi egualitari; esalta al contrario lo spirito “dionisiaco”, la volontà di potenza, il coraggio della lotta e della affermazione di sé. A suo giudizio lo spirito affaristico della borghesia contamina il valore della bellezza, il gusto dell’azione eroica e del dominio, che erano stati propri delle passate élites dominanti. Vuole perciò l’affermazione di una nuova aristocrazia che sappia elevarsi a superiori forme di vita attraverso il culto del bello e l’esercizio della vita attiva ed eroica. Sostiene in pratica il diritto di pochi esseri eccezionali ad affermare se stessi, ad elevarsi al di sopra della massa, rifiutando le leggi comuni del bene e del male.
In questa visione il personaggio dell’esteta che d’Annunzio aveva tracciato ne Il piacere finisce per essere inglobato in quello del superuomo. Rimane il culto della bellezza, che favorisce l’elevazione spirituale della stirpe nelle persone di pochi eletti: ma l’estetismo non può più limitarsi ad essere, come per Andrea Sperelli, un rifiuto sdegnoso della realtà. Deve diventare lo strumento della volontà di dominio sulla realtà e sulle masse.
L’artista-superuomo assume quindi una funzione di “vate” e di guida, profeta di un ordine sociale e morale nuovo.
Il Trionfo della morte, quarto romanzo di D’Annunzio, non rappresenta ancora una compiuta realizzazione della nuova figura mitica, ma costituisce una fase di transizione.
L’eroe, Giorgio Aurispa, è ancora un esteta come Andrea Sperelli, travagliato da un’oscura malattia interiore e alla ricerca del senso della vita. Un breve rientro nella sua famiglia, dove rivive il conflitto con il padre, fa precipitare la crisi. Giorgio tenta comunque di rintracciare le origini della sua stirpe: insieme alla donna amata, Ippolita Sanzio, si reca in un piccolo villaggio in Abruzzo, dove riscopre le antiche usanze e credenze della sua gente.
Il raffinato esteta è però disgustato e respinto da quel mondo barbarico e primitivo. La sua ricerca fallisce, così come la via del misticismo religioso. Una soluzione però la trova nel messaggio “dionisiaco” di Nietzche, che invita ad immergersi nella vita in tutta la sua pienezza. Alla realizzazione del suo progetto si oppongono tuttavia i turbamenti creati dalla bellezza della donna amata, Ippolita. Prevalgono in lui le forze negative della morte, ed egli al termine del romanzo si suicida, trascinando con sé la “Nemica”. Questa soluzione sembra un tentativo da parte di D’Annunzio di liberarsi da quella ossessione erotica che gli impediva il pieno dominio di sé, e che si manifestava nella ricerca del dominio sull’elemento femminile. Si prepara in questo modo ad intraprendere il nuovo cammino del superuomo.
Le vergini delle rocce segna una svolta radicale. D’Annunzio non vuole più proporre un personaggio debole, tormentato, incerto, ma un eroe forte e sicuro, che persegue senza dubbi i suoi obiettivi. Il romanzo è stato definito “il manifesto politico del Superuomo”.
L’eroe è Claudio Cantelmo, che sdegna la realtà borghese contemporanea del liberalismo politico e dell’affarismo dell’Italia postunitaria e vuole portare a compimento in sé “l’ideal tipo latino” e generare il superuomo, futuro re di Roma che guiderà nuovamente l’Italia a destini imperiali. Tuttavia, nonostante la sua sicurezza, è possibile cogliere in Cantelmo perplessità e ambiguità. La “putredine” e la morte, che erano ostacolo al compimento del progetto di di dominio su sé e sugli altri, secondo la nuova ideologia superomistica vengono ad assumere funzione di stimolo alla vita.
L’eroe ha raggiunto una tale maturità e pienezza che non teme più le forze disgregatrici che avevano portato Giorgio Aurispa (nel Trionfo della morte) alla sconfitta; anzi, proprio quelle forze negative alimentano i suoi grandi disegni. Per questo va a cercare la donna con cui generare il futuro superuomo in una famiglia della nobiltà borbonica, in piena decadenza, devastata dalla malattia e dalla follia. In questo scenario di decadenza e disfacimento, il protagonista cerca la sua compagna tra le tre figlie del principe Montaga. La sua scelta è ambigua: dietro i propositi vitalistici ed eroici si cela una segreta attrazione per la “putredine”, e in definitiva per la morte. Il vitalismo esasperato e l’attivismo eroico sembrano solo essere tentativi per allontanare l’immagine di quest’ultima. L’eroe si immerge in questo scenario decadente sperando di trarne vigore: invece finisce per rimanerne prigioniero.
Ciò è rivelato dalla conclusione del romanzo. Claudio vorrebbe scegliere come compagna quella tra le tre sorelle che ha la maestà e la forza interiore di una regina: ma questa non può seguirlo, perché è legata al triste destino familiare. Si lascia quindi incantare dalla bellezza e dal fascino di Violante che rappresenta la donna fatale, immagine molto simile a quella della “Nemica” nel Trionfo della morte.
Nonostante le sue ambizioni attivistiche ed eroiche, anche in questo caso il protagonista dannunziano risulta sconfitto, e si rivela in definitiva un debole, incapace di tradurre le sue aspirazioni in azione.
La sorte dei personaggi dannunziani a rimanere sempre deboli e sconfitti è confermata dal Il Fuoco, che si propone come “manifesto letterario” del superuomo.
Il protagonista è Stelio Effrena che ha grandi capacità artistiche (poesia, musica, danza) e progetta la creazione di un nuovo teatro nazionale che dovrà forgiare lo spirito nazionale della stirpe antica, come già aveva fatto Wagner in Germania.
Anche qui intervengono le forze oscure che si oppongono all’eroe chiamato a destini sovrumani ed anche in questo caso si manifestano nella figura di una donna, Foscarina Perdita, una grande attrice che incarna l’attrazione per il disfacimento e la morte e, con il suo amore nevrotico e possessivo, ostacola il progetto di Stelio.
Il romanzo si chiude con il sacrificio di Foscarina, che lascia libero Stelio, allontanandosi da lui, per consentirgli di proseguire nella sua opera. Ma neppure qui si assiste alla realizzazione del progetto dell’eroe. Come Le Vergini delle rocce, il Fuoco doveva proseguire in un ciclo “del melograno”, in cui il destino di Stelio avrebbe dovuto compiersi. Ma anche in questo caso i romanzi successivi non furono mai scritti.
Lo stesso D’annunzio, d’altra parte, rimase sempre un “eroe incompiuto”, anche se alla fine della prima guerra mondiale poteva vantare innumerevoli decorazioni e promozioni (terminò col grado di tenente colonnello, assolutamente inusuale per un militare non di carriera) per le azioni compiute “con sprezzo totale del pericolo”. In realtà si trattò quasi sempre di azioni dimostrative, assai poco efficaci sul piano militare, come i voli su Trieste e su Vienna, che vennero poi ingigantite a fini propagandistici. L’unica ferita seria se la procurò sbagliando un atterraggio.
La sua distanza dal modello eroico discreto e ironico rappresentato da Corto Maltese si coglie molto bene nella vicenda della crociera del “Fantasia”, uno yacht sul quale il poeta si imbarcò con alcuni amici per ripercorrere le orme di Omero. La crociera iniziò nel segno della gloria e della classicità, con i novelli argonauti che la sera declamavano sul ponte i passi dell’Iliade e dell’Odissea, ma volse rapidamente alla farsa. D’Annunzio pativa il mal di mare, come i gatti che si era portato appresso. Ci si mise anche il maltempo, con il mare quasi sempre agitato, Nelle escursioni in terraferma, a Olimpia e negli altri luoghi della classicità, non sopportava il caldo rovente. Per farla breve, il vate e una parte dei suoi amici decisero, prima di essere arrivati ad un terzo dell’itinerario previsto, di tornare in Italia con un piroscafo.
La sua versione della vicenda fu il primo libro delle “Laudi”, Maia. Laus Vitae, nel quale si lancia in una esaltazione panica della la natura e della energia vitale che la pervade. Ma non fa alcun cenno al mal di mare.
Inglese
The Ancient Mariner sails again
The links between Corto Maltese and the English culture and in particular with English literature are tight. Besides being the son of an English sailor, native of Cornwall from Tintagel King Arthur’s Castle, during his lifetime he meets some of the greatest writers of the English language, from Joseph Conrad ( under whose command he navigates at the age of seven as a cabin boy on the Osborne), to Jack London, known in Manchuria during the Russian – Japanese War, and then Frederick Rolfe, better known as Baron Corvo, the journalist John Reed, a friend of Lenin, James Joyce and Ernest Hemingway. But even more important are his references, not only literary, to the entire English Romanticism. Among the most famous representatives of the movement Samuel Coleridge stands out, especially for seafaring references but even more for the veil of melancholy and mystery that pervades all his work. Joseph Conrad then, nearly his coetaneous, who was the last great singer of sea life and adventures shows an even closer connection.
The Rime of the Ancient Mariner by S. T. Coleridge is a long poem composed between 1797 and 1798 and was first published as the opening poem of the Lyrical Ballads. Is divided into seven parts and tells the story of a mariner who commits the crime of killing an albatross and of his subsequent punishment. The story is told by the mariner himself who, at the beginning of the poem, finds himself at a wedding feast and begins telling his sad story to one of the guests who cannot choose but hear. He tells how his ship was drawn towards the South Pole by a storm. At some pointthe ship is surrounded by ice and trapped. An albatross flies through the fog and the crew greet it with joy as the ice breaks and the albatross guides them to safety. But then, inexplicably, the mariner shoots the albatross dead with his crossbow. The crew are angry with the mariner for killing the bird, a bringer of good luck, and make him wear the albatross around his neck. A curse falls on the ship which is driven north to the equator and get stuck for lack of wind under a burning sun. Serpent-like creatures appear on the motionless sea, a phantom ship arrives, on which Life and Life-in-Death are playing dice for the mariner and his crew. The other members of the ship’s crew die for thirst. The mariner blesses the water snakes and as he does so the albatross falls from his neck and he is saved. He must bear the burden of guilt for the rest of his days and so he travels around, telling his story to the people he meets.
Heart of darkness is a novella written in 1902 by Joseph Conrad, the story is connected to the author’s personal experience in Africa and begins on a boath on the River Thames as Marlow, the narrator, like a modern version of Coleridge’s Ancient Mariner, tells the story of the river journey he once made into the depths of the Belgian Congo. Marlow is horrified by the greed of the ivory traders and by the way they exploitthe indigenous peoples. Mr Kurtz, reputed to be the company’s best agent, has set up his camp in the very heart of ivory country. Marlow learns that Kurtz has benn taken ill and that other ivory agents, who are jealous of his success, hope he does not recover. After much delay Marlow finally sets off on the final part of his journey upriver to Kurtz’s station. The closer he gets to Kurtz the more he is assailed by a feeling of dread. His ship is attacked by hostile tribesmen and as he approaches Kurtz’s camp, Marlow finds the riverbank lined with rows of severed humans heads which tell that Kurtz has gone beyond the limits of civilisation, that he has lost his mind. Kurtz dies on the return journey; his last words are “the horror, the horror”. Kurtz has seen into man’s heart of darkness and the experience has destroyed him.
Bibliografia
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D’Annunzio, G. – Il piacere – Rizzoli, Milano 2011
D’Annunzio, G. – Le vergini delle rocce – Newton Compton, Roma 1995
D’Annunzio, G. – Il Fuoco – Newton Compton, Roma 1995
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