L’epica paesana di Gian Piero Nani

di Carlo Prosperi, 23 marzo 2022

Vorrei premettere a questo scritto di Carlo Prosperi qualche riga di spiegazione. Non che siano necessarie delucidazioni sul testo, che più chiaro ed esauriente di così non potrebbe essere, come accade sempre per le cose scritte da Carlo: semplicemente volevo giustificare il fatto, effettivamente un po’ inusuale, che anziché proporre un’opera se ne proponga direttamente la recensione. Mi accorgo però che anche questa giustificazione non è necessaria, e leggendo il testo capirete il perché. Carlo si “giustifica” egregiamente da solo. Ogni riga aggiunta non potrebbe che essere di troppo. Mi limito allora a segnalare che il principale motivo per il quale questo scritto ha guadagnato tutta la mia attenzione è legato al modo in cui tratta il tema della “nostalgia”: ci sto girando attorno da un pezzo, alla solita maniera confusa, e credo che questo pezzo mi abbia finalmente dato il coraggio di affrontarlo a breve con un po’ di sistematicità. Spero che lo stesso effetto possa avere su qualche altro frequentatore o collaboratore del nostro sito: nel frattempo, affido queste pagine alla vostra riflessione e al vostro piacere.

Quanto all’opera cui il testo si riferisce, le poesie dialettali di Gian Piero Nani, certamente meritano di essere conosciute. Il fatto è che ne esiste una sola privatissima versione scritta, quella appunto curata da Carlo stesso e praticamente introvabile. Per gli appassionati, comunque, il titolo del libretto nel quale stono state raccolte, accanto ad altre poesie di Arturo Vercellino, è Maniman (Castello Bormida, 2012).

(Paolo Repetto)

In principio c’è la piccola patria, il villaggio: un mondo al di fuori del tempo o, meglio, immerso in un tempo ciclico che asseconda il ritmo naturale delle stagioni. La ripetizione, il ritorno dell’identico è la regola che lo governa e, come nella liturgia, i riti – sempre quelli – ne (di)segnano la scansione, con rassicurante cadenza. La civiltà contadina che fa da sfondo e ne è, in realtà, l’anima ha radici che affondano nella notte dei tempi. E sembra avere i connotati dell’eternità, la fissità di un mondo senza storia, dove le novità e le variazioni sembrano meri accidenti, arabeschi che ne corrugano a volte la superficie, ma non ne toccano e non ne intaccano l’immobilità di fondo. Siamo quindi ai margini della modernità, dove è la natura a dettare i tempi della vita – siano quelli del lavoro, siano quelli della festa – e dove è la tradizione a orientare la mentalità dei singoli e della comunità. La famiglia e, appunto, la comunità sono i due poli di riferimento che forgiano e assicurano l’identità dei “paesani”, dalla culla alla tomba. Sappiamo tutti che cosa significa far parte di una comunità: lo ha ricordato in maniera particolarmente incisiva Cesare Pavese: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

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Questo non vuol dire che la comunità sia un’isola, giacché essa è da sempre a contatto con altre comunità, non solo limitrofe, con le quali vige un continuo interscambio di merci, di idee, di persone (grazie soprattutto ai matrimoni), anche se questi rapporti non cancellano, ma se mai sottolineano le differenze (economiche, di carattere, di mentalità, di costume) e, anzi, talora attizzano rivalità e conflittualità di campanile. Le fiere annuali e i mercati settimanali sono le occasioni privilegiate per alimentare i traffici, non solo commerciali, tra i paesi: una variopinta umanità si dà convegno ora in questa ora in quella località, per lo più durante le sagre, e così un tocco di esotico scompiglia piacevolmente le carte della quotidianità, porta una ventata d’aria nuova, suscita un’inedita e curiosa animazione. Un’eccitazione febbrile trascorre per le vie e per le piazze del borgo, dove s’inseguono voci e richiami diversi dal solito, dove inconsuete cadenze dialettali s’intrecciano con quelle domestiche. La festa accende di colori e di suoni la stinta alacrità della vita ordinaria, ma è un’eccezione: il giorno dopo, chiusa la parentesi, la comunità ritorna ai suoi ritmi naturali, come se nulla fosse (stato).

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A questo punto va detto che il quadro or ora disegnato non esiste più. Almeno nella sua integrità. Tutt’al più ne (r)esistono qua e là radi scampoli o anemici residui. Del resto, il quadro stesso, se non si vuol ridurre a oleografia, va preso con beneficio d’inventario, nel senso che la vita comunitaria non è affatto così paradisiaca come a tutta prima potrebbe sembrare. Valori e livori vi coesistono, l’armonia apparente non deve dissimulare talune grettezze ed anche una diffusa conflittualità. La solidarietà che unisce il paese si spiega anche con la necessità di far fronte a scompensi, inconvenienti, problemi che rischiano di comprometterne l’ordine, la stabilità, talora anche la sussistenza. Insomma, l’idillio non ha ragion d’essere, anche se è indubbio che la vita comunitaria, radicata in uno spazio geografico circoscritto e in una solida tradizione, era più a misura d’uomo, più attenta a preservare le differenze, le specificità individuali, di quanto non lo sia la società urbana o di quanto consenta la globalizzazione. La prima, infatti, favorisce o incrementa l’alienazione, la seconda l’omologazione e la standardizzazione. I loro ritmi esistenziali sono “altri”, dettati dal tempo lineare, scanditi dall’orologio meccanico. Mille miglia lontani da quelli naturali della terra e delle stagioni.

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Questa lunga premessa è necessaria per capire la poesia di Gian Piero Nani, che è strettamente e diremmo visceralmente legata alla tradizione comunitaria, al mondo rusticano di Montechiaro – il suo paese – anch’esso travolto e stravolto, a dispetto delle apparenze, dai marosi della modernità e del progresso. Quel mondo è andato in gran parte sommerso, ma nei versi di Nani continua a vivere e sussistere come se fosse tuttora vegeto, come se il cordone ombelicale che ad esso lo congiunge non fosse mai stato rescisso. Non c’è nostalgia nei suoi versi, perché il trauma del distacco o della perdita non si è mai consumato. O almeno così sembra. Per questo il poeta, come un antico rapsodo, può permettersi di rappresentare la vita paesana nella sua imperturbata, inconcussa attualità, con sguardo fermo e oggettivo. Nessuna lacrima gli fa velo, nessun rimpianto lo tormenta. La rassegna è quasi distaccata: uomini e cose sfilano integri nella loro perfetta identità, scolpiti da nomi, soprannomi e parole come figure di bassorilievo, colti nella loro infungibile individualità. Il dettato è perentorio. Il poeta sembra davvero Adamo che dà il nome alle cose e, così facendo, le trae dall’indifferenziato, le carica di senso.

Si capisce che egli non parla da estraneo: la sua voce proviene dall’interno di quel mondo che va rappresentando. Ed anche il suo sguardo, per taluni aspetti, è connivente, allineato alla prospettiva dei personaggi, calato nella loro realtà. Se si concede qualche scarto, tra bonomia e ironia, non è mai eccessivo, perché in fondo vibra di compartecipazione, di simpatia. Si tratta, in altri termini, di uno sguardo al tempo stesso divertito e compiaciuto. Il poeta, mentre affabula, strizza l’occhio al suo pubblico, ne cerca la complicità, ma senza mai sovrapporsi, con falso moralismo, ai suoi personaggi, che, anzi, rispetta nella loro specificità, fino a riprodurne i tic, gli idiomatismi, la gestualità e finanche – se vi sono – le eccentricità. In qualche caso egli, con avvertita regressione, s’immedesima in loro, dà loro la parola, così da farne emergere, quasi teatralmente, senza interferenze autoriali, la personalità e la sensibilità. Scambi di battute, metafore equivoche, sottintesi maliziosi: il dialetto si dimostra in questi casi particolarmente versatile e malleabile, tanto da adattarsi senza esitazioni alle varie circostanze, ora alludendo ora ammiccando, dimostrando in ogni caso straordinarie capacità mimetiche e performative.

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È un’epica paesana quella che alla fine si squaderna sotto i nostri occhi. Come se, per qualche prodigioso incanto o sortilegio, il tempo si fosse fermato. Come se il mondo rappresentato non fosse stato scalfito dalla modernità, dissanguato dagli esodi e minato a morte dai cambiamenti epocali nel frattempo intervenuti. Vien da chiedersi come sia possibile tutto ciò. La risposta che sorge spontanea è che Nani ha saputo serbare e salvaguardare lo sguardo ammirato del puer ed è probabilmente guardando dentro di sé che riesce pertanto a rimettere in moto il film del suo piccolo mondo antico. Egli in questo è rimasto un uomo d’altri tempi, fedele alla terra, alle radici: legato più alla natura che alla storia, la quale magari non sarà “la devastante ruspa che si dice” (Montale), ma intanto fa danni. Né “la fine della storia” preannunciata da Fukuyama sembra, in questo senso, promettere di meglio. Tra le poesie di Nani ce n’è una – Da là da ’na piànca – che ci sembra particolarmente significativa, non solo perché la riteniamo un piccolo capolavoro, sì anche perché costituisce una specie di “carta d’identità” del poeta, che in essa ci rivela alcuni “segreti del mestiere”, consentendoci così di meglio comprenderne e definirne la poetica. Ebbene, qui Nani ci presenta la cascéin-na dove è nato e dove ha trascorso la sua infanzia a contatto con la natura. È indubbiamente l’occhio meravigliato del fanciullo (della masnò) a travisare la realtà di quella cascina in quella di un castello (in casté). L’epos nasce, non troppo diversamente, da un’analoga alterazione della realtà: da una meraviglia che ingrandisce e abbellisce le cose, trasferendole in una dimensione mitica. Ma fatalmente viene poi il momento del disincanto, ed è un vero e proprio risveglio. Per il poeta questo momento coincide con la fine dell’infanzia, quando l’innata e istintiva spontaneità cede il posto alle convenzioni sociali. Quando dalla natura si passa alla società, con i suoi obblighi, i suoi vincoli e i suoi divieti. La libertà viene così ingessata. E dal mito si trapassa alla storia.

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Paradossalmente, però, comincia a questo punto il tempo della poesia. E nasce proprio dallo sguardo e dal cuore di quel fanciullo che, nonostante le escoriazioni della storia e le costrizioni della società, è in qualche modo sopravvissuto a se stesso ed ha saputo mantenerli vivi e reattivi. Non esistono paradisi che non siano perduti, ma il poeta-puer, con la sua vis immaginativa e con l’icastica potenza del suo linguaggio nutrito di umori naturali, impastato di terra e di sangue, riesce ad evocarli, a renderli accessibili e credibili. Riesce, in altre parole, ad attingerli al di là della storia e delle sue nefande dissacrazioni. E a riproporceli tali e quali. D’altra parte, nelle liriche più soggettive, dove il poeta dà voce ai propri sentimenti, si avverte che davvero l’antico fanciullo innamorato (alla lettera) della natura non è mai morto del tutto in lui, ed anzi torna all’abbraccio fidente e sensuale della terra con rinnovato trasporto. Fino ad annullarsi in lei, nel suo intatto stupore. Il sogno è, insomma, quello di regredire al grembo materno e di ritrovare, là accovacciato in posizione fetale, l’armonia perduta.

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Il salto dalla beata (e dotta) ignoranza dell’età infantile alla (triste) cultura della scuola, dalla libertà naturale ai condizionamenti sociali, ricorda per certi versi il passaggio dall’oralità alla scrittura. Già Platone nel Fedro disapprovava la scrittura per tutta una serie di ragioni: perché pretende di ricreare fuori della mente quello che solo all’interno di questa può esistere; perché finisce per distruggere la memoria; perché infine i testi scritti non sanno rispondere alle domande che essi suscitano o sollecitano. Diverso è il caso di Nani: la sua poesia nasce per essere recitata e per questo ama interpellare direttamente un pubblico di uditori. Il poeta sa cioè adeguarsi alle situazioni, adattare di volta in volta, in maniera estemporanea, i suoi testi alle esigenze o alle aspettative degli ascoltatori, improvvisando sul momento variazioni o aggiunte ad hoc. Il contesto ambientale assume in tal modo – come ha ben rilevato l’antropologo Walter J. Ong – un’importanza singolare nel determinare il senso del discorso, proprio mentre l’accorto dosaggio della mimica e della gestualità, per non parlare del tono o dell’inflessione della voce (decisivi ai fini di quello che don Gonella di Villadeati – riconosciuto maestro del nostro – chiamava “il gheddu”, cioè il brio e la forza icastica dell’espressione), consentono al récit orale scorciatoie o forme di sintesi inimmaginabili in uno scritto. L’immediatezza dell’oralità, tutta concentrata sull’hic et nunc, ha che fare con il tempo reale, continuo e ininterrotto, laddove la scrittura, spazializzando il tempo, ne elude la puntualità e la processualità, e proprio per questo può permettersi, attraverso l’ipotassi, d’imprimere una maggiore organizzazione al discorso. L’oralità, mettendo al centro l’azione umana, è più spedita e più pragmatica. La paratassi le è quindi più congeniale.

Tra l’altro un poeta eminentemente orale come Nani è anche un attore e, nel recitare le sue composizioni, può far sentire la forza dirompente del ritmo e della rima, che con estrema varietà ne guidano e ne governano il discorso. I suoi versi non assecondano alcuna apparente regolarità metrica, ma le rime disseminate qua e là con grande disinvoltura disegnano dei percorsi imprevedibili, fungono da stelle polari o – come nel caso delle briciole di Pollicino – tracciano d’istinto dei sentieri che basta seguire per arrivare allo scopo. E non a caso abbiamo ricordato Pollicino, poiché è indubbio che il modello privilegiato dal poeta è quello delle filastrocche infantili, delle tiritere o delle folette (listórie) popolari, con le loro “cantilene dondolanti” e i loro “ritmi bilanciati” (Marcel Jousse). Anche per Nani – come per Jousse – il linguaggio è anzitutto mimaggio ed è indubbio che nella trascrizione delle sue liriche molto vada perduto, a cominciare dalla spontaneità, ma se non altro la scrittura permette di conservare la parola nel tempo, mentre “i suoni, la voce fatta d’aria che li articola, sono effimeri” (E. Lledò). Si tratta quindi di un sacrificio, ma è un sacrificio necessario.

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Cö-O-dindõ

di Lû Massin, 30 giugno 2021

Co-O-Dindo copertinapiccolo canzoniere in lingua (2007-2021)

Le poesie sono raccolte ‘in ordine di apparizione’ e presentate nella loro doppia versione genovese e italiana, pressoché letteralmente sovrapponibili nei testi più antichi, poi via via accostate con sempre maggiore libertà. Per tutte lo stimolo creativo è venuto dalla partecipazione a premi di poesia dialettale del ponente ligure (Bellissimi Versi di Dolcedo e Le Veglie d’Armo), quindi gli argomenti sono quelli proposti, anno dopo anno, dai bandi di concorso: il pane, l’acqua, il lavoro, il gioco, gli animali, il bosco, l’orto, la strada, le tradizioni, le stagioni, l’amicizia e così via. Cose semplici ed essenziali, che spalancano il mistero della vita.

i Nõmmi in-ti sò Anni (la Successione dei Testi)

LENGUA LUNGA DE SÂ – LINGUA LUNGA DI SALE (2007)
PARISSÊUA PICCINN-A – PICCOLA CINCIA (2007)
A GËXETTA – LA CHIESETTA (2007)
O SCIÒU DO XÊUO – L’AFFLATO DEL VOLO (2010)
PAN PIN D’OGNI BEN – PANE CHE TIENE L’OGNIBENE (2010)
VÖXE DO VERBO IMPASTÂ – VOCE DEL VERBO IMPASTARE (2010)
STAGNIN POSÒU – L’IDRAULICO INERTE (2012)
CHI O GH’È O GH’È E CHI NO GH’È O S’ARANGIA – CHI C’È C’È, CHI NON C’È … (2012)
CHÊU LÕ – IL LUPO NEL CUORE (2014)
A SCEIZA DA PAXE – LA SCESA DELLA PACE (2014)
ÆGUA D’ÊUGGI – ACQUA DAGLI OCCHI (2015)
DIVINN-A FIGÛA – IMAGO DEI (2018)
GIARDIN SCONCLUSIONÒU – HORTUS CONCLUSUS (2019)
CÖSE CHE DE LUNGO GÏAN – DEGLI ETERNI GIRI (2020)
TIÂ ÆGUA TRA E PRÏE – BAGNARE LA GRAMIGNA (2021)
(TRIPPÕN D’ TÛVIO) – LA PANCIA DELLA MUCCA (2010/2021)
quasi a voler dire, lasciando intendere

I testi qui raccolti hanno questa particolarità: sono stati scritti da uno Straniero, attraverso un meticoloso e autoironico lavoro di ricreazione linguistica, una ricerca di composizione che mira a disorientare l’autore, il tentativo di mettere continuamente a confronto la propria lingua con una lingua Altra, nell’inevitabile reciproca influenza e nel vicendevole arricchimento. Sono nato negli anni in cui i genitori cominciavano a parlare ai figli in italiano. La televisione e la scuola dell’obbligo dettavano le regole della grammatica e uniformavano il lessico. Perciò non sono un parlante, ma un ‘dialettante’, mi diverto a praticare la lingua della terra natale perduta, solo come luogo della Poesia. Una lingua Madre si fa usare, abbiamo imparato a maneggiarla in tutti i modi, è conosciuta in ogni suo angolo e, senza troppa fatica, riusciamo a manipolarla, fino a sottometterla. La lingua Padre, invece, comanda lei, vuole essere esplorata, reinventata, riconosciuta. Vorrebbe sentirsi nuovamente bene detta. Si tratta dunque di farsi usare dal dialetto, come il marmo si serve dello scultore, essere il suo strumento, perché la figura nascosta si possa rivelare. Diventare Forestiero, perdere conoscenza, rinunciare ai riferimenti consueti, avere tra le mani una giocosa e organica materia linguistica, come qualcosa che sempre ci sfugge, verità sconosciuta ma intravista, tentare di esprimere pensieri e sentimenti, senza saperli dire fino in fondo, partorirli con discreto travaglio, come tirandoli fuori dalla pancia delle generazioni. Quasi a far rinascere l’irricordabile Memoria dell’infanzia del dire, il Canto mai cantato da qualcuno che c’è già stato, che non è mai partito. Raccontar Tutto, ma come se rimanesse sempre sottinteso Qualcosa… “Cö-o dindõ”, appunto. (c.p.)

Arrivederci, maestro

di Paolo Repetto, 24 aprile 2020

Nei giorni scorsi è mancato, a settantaquattro anni, Mario Mantelli. La sua morte non ha nulla a che vedere con il coronavirus, ma le circostanze e le restrizioni attuali ci impediranno di rendergli l’ultimo saluto e di accompagnarlo, per l’ennesima volta, nella consueta passeggiata. Rimandiamo dunque a tempi meno calamitosi le manifestazioni più tangibili e sacrosante del nostro affetto. Per intanto, però, vogliamo cominciare da subito a ricordarlo (e anzi, avevamo già cominciato) attraverso le sue stesse parole, quelle che potete trovare nei saggi e nelle raccolte poetiche comparse negli anni su questo sito.

Il termine “mancato” si rivela nel caso di Mario quanto mai calzante, perché essendo la sua una scomparsa annunciata avevamo già cominciato a fare i conti con la sua assenza. E difficilmente riusciremo a farli tornare, perché Mario ci mancherà davvero moltissimo. Se ha un senso l’espressione “maître à penser”, lui per noi era tale, ma un maestro di quelli autentici, che ti illuminano con una domanda, con una osservazione, con il loro stesso modo di essere e di rapportarsi, in una parola col loro stile, e ti aiutano a scoprire sempre nuovi modi di guardare al mondo e di sorridere per come lo viviamo.

Ci auguriamo che anche la sua città, quell’Alessandria che ha tanto amato da dedicarle l’opera di tutta una vita, si accorga, almeno dopo la sua scomparsa, di aver ospitato per tre quarti di secolo un uomo che per garbatezza, lucidità di pensiero e raffinatezza del gusto, unite ad un pudore nel proporsi sin eccessivo, aveva ben pochi eguali, e non solo a livello provinciale.

Per non fare di queste righe un pesante epitaffio, pensiamo vadano chiuse con la voce stessa di Mario. Da una delle sue ultime missive, in risposta alla richiesta che gli avevamo rivolto per un suo profilo sul sito dei Viandanti.

Caro Paolo,

Ti invio questo Ritratto dell’autore da vecchio non senza un’ombra di compiacimento, grazie al tuo sostegno. Ad maiora, Mario

“Mario Mantelli, nato nel 1945, studi di architettura, si è occupato di identità urbana e di beni culturali della propria città, Alessandria, specialmente nel settore del moderno (il Palazzo delle Poste e i mosaici di Severini, la città di Borsalino e i Gardella).

Più in generale ha interessi per i luoghi e la memoria (Viaggio nelle terre di Santa Maria e San Rocco, Di che cosa ci siamo nutriti), per la “parola breve” (vedi gli haiku e le poesie delle presenti edizioni, oltre a Disciplinare dello haiku) e per l’immagine.

Si esercita nelle occasioni offerte dal ricordo e dalla quotidianità per approfondire la pratica e la teoria di un’estetica esperienziale (Discorso sul campo desiderante). Al proposito sta componendo Cinque gioie per cinque sensi. Esercizio di estetica tascabile. Come capita a quasi tutti i suoi scritti vi è contenuto un implicito invito al lettore a fornire la sua “versione dei fatti”: dite anche voi quali sono le vostre cinque esperienze fondamentali di vista, udito, tatto, olfatto e gusto, totale: venticinque. Vi farà bene: è pura “estetica di riconoscenza”, un genere letterario con cui è nata la poesia italiana. Francesco d’Assisi aveva dato il là con qualcosa del genere”.

E infine, aggiungiamo quello che può sembrare un presago augurio, rivolto a noi (da Stenografia emotiva. Centocinquanta haiku):

Pasà l’inver
Ui vén la stagiòn bòn-na
Ténti da cònt
(16/12/12)

 

Gli abiti vecchi dell’imperatore

di Paolo Repetto, febbraio 2018, da sguardistorti n. 02 – aprile 2018

La pubblicazione nelle Edizioni dei Viandanti di alcune raccolte poetiche ha suscitato perplessità. Nulla di personale contro la poesia, – ha detto un’amica – ma se non volete ridurre le edizioni del sodalizio a una vetrina per gli adepti, e testimoniare invece una particolare “militanza”, trovo che l’intimismo di questi versi sia poco in linea con gli intenti che dichiarate. O quanto meno, mi riesce difficile capire con che criterio vengono scelte le cose da pubblicare.

Ha ragione, almeno per quanto concerne i criteri. Ufficialmente non ce ne sono, e sarei quasi tentato di dire che questo è il bello delle edizioni dei Viandanti, l’assoluta indipendenza delle scelte da qualsiasi calcolo di mercato o vincolo ideologico, che per una volta non è solo professata, ma reale. Ma le cose, in effetti, sono un po’ più complesse. Non-dipendenza non significa non-senso, perché altrimenti le nostre edizioni diverrebbero davvero un contenitore dell’indifferenziato: mentre un senso ce l’hanno, ed è quello che già l’amica indicava, ma anche qualcosa di più. Che credo di dover chiarire.

La presenza di testi poetici nelle nostre edizioni non va certamente giustificata, perché il rapporto del Viandante con la poesia è scontato. Il ritmo del verso, diceva Wordsworth, è dettato direttamente da quello del cuore e disciplinato da quello delle gambe. E Steiner scrive: “Nella metrica e nelle convenzioni poetiche occidentali, il piede, il battito, l’enjambement tra i versi o le stanze ci ricordano l’intimità tra il corpo umano che cammina sulla terra e le arti dell’immaginazione”. Piuttosto ritengo utile dare ragione di quelle particolarissime scelte, e questo riesce meno semplice, perché le scelte in realtà sono state istintive, e quindi io stesso mi sono posto la domanda solo a posteriori. È stato comunque un esercizio utile: mi ha costretto ad ammettere che quando ci si riferisce ad atteggiamenti culturali, come la passione per un particolare autore o la predilezione per un genere, non si dovrebbe parlare di istinto, perché in realtà si tratta di una reazione acquisita e, appunto, “culturalmente” motivata.

Al solito, per dare una spiegazione all’amica, e prima di tutto a me stesso, sono risalito sino alle distinzioni più elementari: è nel mio carattere, non riesco a dare nulla per scontato. Ma direi che in un periodo di confusione come questo anche ribadire ciò che sembra ovvio è tutt’altro che inutile. Provo quindi a ricostruire il ragionamento che ho fatto, partendo dalle mie personalissime preferenze e idiosincrasie. In questo modo allungo di parecchio il percorso, ma prendo al balzo l’occasione per riflettere con calma su un argomento che mi sta a cuore da un pezzo.

Non ho mai scritto poesie (non è del tutto vero: ne ho scritta una a sei anni, sull’autunno, ma credo che non conti). Non lo faccio perché non so mai dove dovrebbe finire il verso, fosse per me andrei avanti sin oltre il termine della riga. Nemmeno nei compiti in classe rispettavo i margini del protocollo, mi sembrava uno spreco, e ancora oggi soffro dello stesso horror vacui, così che quando scrivo al computer uso la spaziatura più ridotta possibile.

La scrittura poetica non è evidentemente nelle mie corde. E tuttavia provo una reverente ammirazione per chi sa distillare le parole, rompere le sequenze logiche e sintattiche e andare a capo prima che il margine lo imponga. Il che significa che la mia formazione scolastica molto tradizionale mi fa identificare un discrimine formale tra poesia e prosa; e questo discrimine è segnato dalla scelta dei termini e del metro, dall’organizzazione dei versi e persino dalla resa grafica. Isolare una parola sulla pagina bianca, invertire il rapporto tra pieni e vuoti, significa praticare una diversa modalità espressiva e suggerirne una di lettura. È una distinzione semplicistica e scontata, ma da qualcosa bisogna pur partire se si vuol definire un terreno comune di interpretazione e di confronto.

Nella sostanza sto dicendo questo: la poesia non nasce in automatico dall’attivazione di sensori particolari. Presuppone naturalmente una sensibilità acuta nel cogliere il mondo (è il ritmo del cuore), ma questo vale (o dovrebbe valere) allo stesso modo per ogni forma di letteratura, per la musica, per la pittura, ecc. Anche in tutti questi altri ambiti la sensibilità è una condizione necessaria: ma non è sufficiente. A fare la differenza è la capacità di tradurre la sensibilità secondo le convenzioni di un particolare codice (è la disciplina delle gambe): suoni, segni, parole possono essere diversamente usati e posizionati nel tempo o nello spazio, per dire cose diverse o per dire le stesse cose in maniera differente. Ma persino le rotture, le scelte, per intenderci, “di avanguardia”, suppongono un codice da infrangere.

L’importanza del codice è nel segnale che invia al lettore, allo spettatore o all’ascoltatore: gli suggerisce in pratica quale atteggiamento assumere di fronte ad un testo, a un’opera, a una composizione. Poi naturalmente ciascuno legge, vede o ascolta come vuole, ma se apre I promessi Sposi è chiaro che deve cercare un rapporto con la lettura diverso da chi sfoglia i Canti di Leopardi. Allo stesso modo, come autore posso decidere di andare a ruota libera, senza alcun metro, senza punteggiatura, scrivendo i versi da destra a sinistra o dal basso all’alto, oppure seguendo i bordi della pagina come Palazzeschi (e lo stesso vale per i segni sulla tela, o per le note sullo spartito): ma quello che poi chiedo al lettore è di non aspettarsi comunque Guerra e Pace, di leggermi con una disposizione diversa. Volenti o no, l’idea che quando parliamo di poesia (non uso “scrittura in versi” perché il codice contemporaneo non prevede necessariamente la versificazione) parliamo di qualcosa di distinto dalla prosa, indipendentemente dal fatto che certe pagine di prosa siano cento volte più poetiche di molte composizioni in versi, questa idea, dicevo, c’è.

Dalla poesia ci attendiamo di conseguenza non una narrazione ma una evocazione, non una dimostrazione filosofica o una informazione scientifica ma un innesco per la nostra immaginazione, per le nostre emozioni e magari per le nostre riflessioni (il discorso varrebbe in realtà solo per la poesia contemporanea, non certo per Omero o Lucrezio o Foscolo: ma questo ci porterebbe a rileggere la storia della letteratura dalle origini ad oggi, e non è proprio il caso). Magari tale disposizione non varrà per tutti, ma credo che la maggioranza dei lettori (e degli autori) intenda la poesia in questo modo e vi cerchi questi stimoli: e per una volta mi trovo in sintonia con la maggioranza. La poesia dunque (qui uso il termine nella sua accezione più generica, che si estende ad ogni modalità di espressione artistica) è frutto di una sensibilità particolare per le cose, ma vede la luce solo quando passa per strumenti adeguati a rappresentare quella sensibilità, ovvero a farne partecipi gli altri.

Nel caso specifico della scrittura quegli strumenti sono le parole (ma anche gli spazi). Le parole sono un materiale da costruzione che assume, a seconda dell’ambiente e dell’uso che si intende farne, diversa forma e sostanza: possono diventare mattoni, pietre, tavole di legno, blocchi di ghiaccio, ed essere assemblate in modo da costruire edifici completamente diversi, castelli, grattacieli, palazzi, ville o condomini popolari, o anche tende, capanne ed igloo. Si può farlo con varie tecniche: in prima persona, fingendo la voce di un terzo o di un gruppo, oppure assemblando a casaccio, tipo flusso di coscienza, per cui il risultato finale sarà un po’ sbilenco e approssimativo: ma la sostanza rimane quella. Ora, quando il risultato del disegno “architettonico” è una compiuta costruzione, e le parole messe in fila in un ordine più o meno preciso e dettagliato raccontano un fatto, una storia, parliamo di scrittura in prosa.

Le parole possono però essere usate anche in maniera diversa. Possono evocare, anziché narrare. Scegliendo i materiali giusti e distribuendoli in un certo modo, tale magari da abbozzare un semplice perimetro, come per certe rovine classiche, si può rappresentare alla fantasia una casa (ma anche un villaggio, una città). Non è necessario darne l’esatta configurazione, quante camere, quante porte, com’è il tetto. È sufficiente suggerire che lì c’è una dimora, quindi una famiglia, quindi una vita o più vite con le loro storie. Se il lettore avesse tutte le informazioni dettagliate, di storie potrebbe ricostruirne solo una: con tutte le variabili che vogliamo, ma solo quella. Ma con la poesia non ha bisogno di conoscere nulla di preciso. Non gli interessano gli ambienti, ma la funzione, l’atmosfera. Se è una casa che si vuole evocare, deve poter essere intesa come propria da chiunque, da un esquimese come da un bantu o da uno svizzero. Non solo: la poesia annulla le distanze spaziali, tra culture diverse, ma anche quelle temporali, tra diverse epoche. Per cui riconosciamo in Archiloco o nel commiato di Ettore gli stessi sentimenti che nutriamo noi (o almeno, alcuni di noi).

La cosa vale in linea di massima per tutta la letteratura (come per l’arte, e per la musica), ma nel caso della poesia, proprio perché quest’ultima richiama sentimenti, emozioni, e non narra vicende situate in un preciso contesto storico o geografico o politico, vale in assoluto. Sto banalizzando la poetica dell’indefinito di Leopardi, ma grosso modo credo che proprio così vada interpretata.

Quindi: la poesia suppone che le parole mi rappresentino con immediatezza quasi musicale un’immagine, mi trasmettano già col semplice loro suono un’emozione, o mi suggeriscano un’idea; non siano cioè incise solo sul bianco della pagina, ma arrivino direttamente nel mio animo. Che passino attraverso esso per commuovere anche la mente. La prosa le usa invece in maniera tale che, ricevute attraverso la mente, arrivino poi ad emozionare l’animo.

Non vado oltre perché rischio di offendere davvero l’intelligenza del lettore. Volevo solo dire che credo nell’esistenza della poesia, penso che si manifesti sotto spoglie diverse, ma sia comunque riconoscibile, e sono convinto che incontrarla sia una delle esperienze migliori che ci possano capitare. Per questo parlavo più sopra di reverente ammirazione: potrei aggiungere anche gratitudine, perché si tratta di una delle conquiste più pure dell’uomo, non ha controindicazioni e non produce effetti collaterali (se non in animi già malinconicamente predisposti).

Reverente non significa però incondizionata. E qui veniamo al dunque. Non bastano la dichiarazione d’intenti dell’autore (in genere molto esplicita, e demandata già al titolo o al sottotitolo, che è appunto “Poesie”) o l’attribuzione del bollino doc della critica patentata per farmi scattare in piedi. Credo si debba avere chiara in mente la distinzione tra ciò che entra nell’empireo poetico e ciò che ne rimane fuori, sia pure con un ruolo importante nella storia della letteratura. Quindi, per limitarci all’ultimo secolo, in presenza di Saba o del primo Montale avverto, come si diceva una volta, il respiro della Musa, mentre davanti a D’Annunzio mi tolgo tanto di cappello, ne ammiro la perizia pirotecnica, ma rinuncio a pretendere che i suoi versi mi commuovano. Di lì in avanti poi, soprattutto quando si entra nella contemporaneità, e a meno che il poeta si chiami Caproni, le cose diventano un po’ più complicate. All’emozione si sostituisce troppo spesso lo sconcerto, accompagnato dalla sgradevole sensazione che lo scopo del poeta fosse proprio questo. Il che imporrebbe di rivedere tutti i criteri, di adeguarli alla nuova situazione.

Ora, non mi sono imbarcato in questo chiarimento per discettare di poesia e non poesia. Volevo solo parlare del mio rapporto con la scrittura in versi, segnatamente con quella più recente, per motivare le scelte “editoriali”. La mia è dunque una personalissima versione dei fatti, fondata non su una critica storica o testuale per la quale non possiedo gli strumenti, ma sulla immediatezza delle impressioni da lettore. Certo, non posso fingere di non aver insegnato per anni letteratura: ma assicuro che in quella veste ce l’ho messa tutta per mantenere, nei limiti del possibile, un approccio “oggettivo”. Ritengo anche che nel ventesimo secolo la scrittura in versi, un tempo di uso ordinario, sia diventata una scelta felicemente anacronistica, nel senso che si sottrae ai condizionamenti del tempo e delle mode culturali. Ma questo accade solo quando il gioco è leale.

Mi sono trovato, nello svolgere il mio lavoro, a confrontarmi con esperienze letterarie recenti (non solo in versi) validate dalla critica, e come tali già assunte nel pantheon delle antologie scolastiche, che in realtà non mi convincevano affatto. Avrei potuto tranquillamente scansarle, dal momento che il programma di letteratura dell’ultimo anno era vastissimo e consentiva molta discrezionalità: in genere si faticava persino ad arrivare ai poeti “laureati” della prima metà del Novecento. Ma non mi andava di scegliere le soluzioni di comodo.

Ho le mie fisime, e una era quella di fornire una informazione il più possibile completa, perché si trattava comunque di documenti, di segnali di tendenza, l’altra quella di non imporre i miei gusti agli allievi: ma confesso che in questo caso c’era anche un intento maligno, perché pensavo che quelle cose potessero rappresentare un’utile vaccinazione. Non c’era bisogno di forzarle. Mi limitavo a presentare certi testi premettendo che di fronte alla poesia contemporanea bisogna inforcare occhiali diversi, così come si fa davanti a un quadro di Rotcho o a una “scultura” di Palladino, e cercando di suggerire quali caratteristiche dovessero presentare le lenti. Qualcuno mi seguiva perplesso, i più capivano che il meno convinto ero proprio io.

Che cosa non mi convinceva? Dovrei spendere un altro sacco di parole per spiegarlo, e credo quindi che a questo punto sia più efficace proporre un esempio. Prendiamo un poeta che la critica ha consacrato come un maestro del secondo novecento: Andrea Zanzotto. Scelgo quasi a caso da “La beltà” (dico “quasi” perché il caso Zanzotto è esploso veramente, in una mia classe, complice un allievo sin troppo affascinato dalla poesia):

“Chiamarlo giro o andatura rettilinea,
a che sé dicenti scienze e patti e convenzioni far capo?
Perché tutte queste iperbellezze
ipereternità sono
tutte sanissime e strette in solido
ma vagamente trasverse perverse
indicano spunti di lievi o grosse per-tras-versioni
madrinature ognuna fantastizzanti
seduzioni censure o altri innesti clivaggi,
il loro afrore in stagione o fuori stagione
abbacina allergizza – e poi eritemi sfavillanti. (….)”

Mi fermo qui perché è il primo punto che trovo. Ma va avanti così per un’altra cinquantina di versi. Non ho saltato né aggiunto niente. E giuro che questa non l’ho mai propinata ai miei allievi, anche se sentivo che avrei dovuto farlo, per chiarire un po’ le cose (non certo il senso) e cancellare certe sudditanze. Avrei potuto comunque essere anche più sadico: avrei potuto trascrivere per il lettore un paio di strofe da “Pasqua di maggio”, oppure scegliere a caso, senza quasi, da Sanguineti.

Dunque, se qualcuno mi sa decrittare o “contestualizzare” questi versi si faccia avanti. Non per sparare stupidaggini sulla grammatica originaria del significante, ma per spiegarmi molto semplicemente di che cavolo Zanzotto sta parlando e perché lo fa in questo modo. E comunque, se anche quel qualcuno ci fosse, che senso avrebbe? Perché un libro di poesie dovrebbe essere venduto assieme a una confezione di aspirine? O letto come una rivista per enigmisti esperti? Cosa si vuole dimostrare? Che “componendo o scomponendo incessantemente se stessa, la parola sembra instaurare nel testo infiniti punti di fuga che la rilanciano continuamente, pur mantenendola ferma in tutta la sua pienezza e plasticità, anche se incrinata o infranta, in un al di là senza fondo di senso” come ci erudisce il prefatore alla raccolta, Stefano Agosti? E allora? I nostri figli o nipoti hanno provveduto senza tante scene, e senza aver mai letto un libro di poesie, a triturare il linguaggio, liofilizzarlo, farlo deflagrare, privarlo di ogni peso. E adesso?

“Un al di là senza fondo di senso”! No: qui c’è puzza di imbroglio. Prendetela un po’ come volete ma di fronte a

“Di tante coperte, ti prego,
Di lane aiutami sapori fiutati fumi
E là egli fa le previsioni-luna idoleggia pasqueggia
Col riconoscitivo incantarsi di tutto
In rosa in sé
Incastrarsi”

sono convinto che nessuno tranne Stefano Agosti possa trovare un senso, e meno che mai provare un piacere. E se nessuno lo ammette non è per reverenziale rispetto, ma solo per timore di apparire blasfemo.

Tutto questo non va affatto a difesa della poesia. Anzi, è il motivo per cui in fondo nel nostro paese nessuno, se non i critici e gli aspiranti poeti in cerca di un modello, ne legge più. In genere incolpiamo di questa disaffezione la tivù, oggi anche gli smartphone: ma tutto sommato la narrativa e la saggistica continuano ad essere lette. Non solo: in Inghilterra un volume postumo di poesie di Ted Hughes, il marito di Silvia Plath, ha venduto pochi anni orsono seicentomila copie. Sarei curioso di sapere quante ne ha vendute il Meridiano di Zanzotto, anche se non è il numero di copie vendute a decretare la qualità di un’opera: alla fine però qualcosa vorrà dire.

Vuol dire che noi italiani abbiamo un problema con la poesia. Ne abbiamo un po’ con tutto ciò che concerne la bellezza, forse la natura e la storia ce ne hanno concessa troppa, ma nei confronti della poesia il problema sembra essere particolarmente accentuato. Certo, ci si può appellare a profonde ragioni storiche, non ultimo il fatto che con una popolazione che un secolo fa contava ancora l’ottanta per cento di analfabeti la poesia, soprattutto quella da leggersi in privato, è sempre stata riservata a piccole élites. Per la stragrande maggioranza degli italiani (al contrario di quanto accadeva nei paesi nordici o protestanti, dove saper leggere, e quindi accedere direttamente alle Scritture, è stata precocemente una condizione imprescindibile per l’ appartenenza religiosa e per quella civica) l’alfabetizzazione è arrivata tardi, imposta quasi come una pratica coloniale, assieme alla leva militare obbligatoria. E a lungo è stata disertata: a dispetto dell’obbligo formale mio padre frequentava la scuola un paio di mesi l’anno, quelli stretti tra la sospensione e la ripresa dei lavori agricoli e le nevicate invernali. Ci siamo alfabetizzati in fondo solo con la televisione, ovvero proprio attraverso il primo di quegli strumenti “comunicativi” che l’alfabetizzazione nella sostanza la negano.

C’è però anche una responsabilità oggettiva dei nostri intellettuali, che entro il loro confino elitario si sono spesso e volentieri crogiolati. Anche qui, certo, si possono accampare alcune motivazioni oggettive: la smania futurista di modernizzare un paese arretrato partendo da una rivoluzione del linguaggio, o la prudenza ermetica imposta dalla censura fascista, che hanno spinto in una direzione sempre più lontana dal linguaggio corrente. Ma il problema vero nasce dal fatto che una volta usciti dalla porta la gran parte dei nostri poeti non sono più rientrati. Hanno fatto conventicola e se la sono raccontata tra loro, ammiccando e giocando a chi sapeva celare meglio l’indizio, la chiave di lettura, in un circolo vizioso all’interno del quale nessuno in realtà ascoltava l’altro, ma tutti si congratulavano vicendevolmente, e i critici pascolavano.

Il risultato è evidente: mentre da Kipling e Wilde fino a Yeats, a Austen, e persino ad Eliot, che scrivevano nella prospettiva di un’utenza trasversale di milioni di persone, i poeti inglesi erano indotti più o meno consapevolmente a cercare di farsi capire da tutti, per Gatto o Sinisgalli era molto più importante dimostrare di appartenere alla schiera iniziatica che si scambiava messaggi cifrati. Non ne siamo più usciti: la distanza creata da una generazione di ermetici e da un’altra di de-costruttori non è stata recuperata, e meno che mai lo sarà oggi, con la barbarie mediatica che già ha fatto irruzione.

È una lettura semplicistica, ma me ne assumo la responsabilità: è comunque quanto una militanza assidua di lettore e di insegnante mi ha fatto capire. Dire che il problema, sempre che un problema lo si voglia considerare, è molto più complesso, è solo un modo per evitarlo o addirittura negarlo.

Questo ci riporta finalmente al punto dal quale eravamo partiti. Ovvero: perché ritengo fosse doveroso dare una dignità “editoriale” alle poesie di Mario Mantelli e di Tonino Repetto (non diciamo farle conoscere, perché le edizioni dei Viandanti non hanno questa presunzione).

La dignità editoriale si configura semplicemente nel disporre queste poesie in un certo ordine, con una certa uniformità di caratteri, scolpite in nero su pagine bianche così che nella loro compattezza e similitudine e insieme diversità creino alla fine un racconto, nella loro apparente estemporaneità offrano un quadro d’assieme. Non aggiunge nulla alla dignità poetica e civile che hanno già in sé, ma in qualche modo la certifica. È una attestazione di merito. E allora vediamo quali sono ai nostri occhi i meriti.

Se volessimo tenerci stretti al simbolo del viandante potremmo dire che in entrambi il filo portante è il viaggio. Nelle ultime due raccolte Mantelli si muove per l’Italia in esplorazioni il cui raggio si allarga di mano in mano, dalle vie alessandrine alle piazze toscane, guidato dall’ininterrotto stupore per l’incantesimo della bellezza (e dal rammarico per le sue contaminazioni). Repetto viaggia invece da fermo, interrogandosi nella clausura della sua camera sulle mete dei passanti frettolosi sotto la pioggia o sui passeggeri degli autobus intravisti dietro i finestrini appannati, o guardando dalla banchina della stazione i viaggiatori che scendono a incontrare il buio della notte. Il tema è senz’altro pertinente, anche se viene declinato in modalità così diverse (e anche se, in effetti, il viaggio costituisce solo un involucro, e i contenuti sono ben altri).

Sappiamo benissimo però che il criterio non è questo. Una traccia, una metafora di viaggio possiamo trovarla in qualsiasi composizione poetica (forse persino in Zanzotto). Il criterio vero è quello del linguaggio. Riguarda la capacità di esprimere queste cose, quali che siano, abbiano o meno attinenza tra loro, nella maniera più diretta. Di ridare cioè peso al linguaggio, di costruire con il linguaggio, anziché farlo deflagrare. In entrambi i casi la scelta di una modalità espressiva non semplice, ma di semplice eleganza, è un atto di estrema urbanità. Sottintende il desiderio di incontrare il lettore su un piano immediato, empatico, ma non puramente emozionale: e il piano non può essere quello terra, disturbato dai rumori della strada, e nemmeno il trentesimo, raggiungibile solo con gli ascensori manovrati dalla critica (mi appare per un attimo Stefano Agosti come liftboy). Deve essere raggiungibile da chiunque con le proprie gambe, perché l’empatia viaggia solo su un binario bidirezionale. Leggo le poesie di Mario, avverto qualcosa che mi coinvolge, mi metto a pensare. Quando scrive:

e all’improvviso
aspettando al semaforo mi accorgo
(con dispiacere; ma già, che mi credevo?)
che tutto questo è il mondo
e la sua spiegazione.

mi rimanda a tutti i semafori rossi che mi hanno imposto o consentito di riflettere un attimo, ogni volta trasmettendomi la stessa sua mesta sorpresa, e lo fa con i termini e con le immagini essenziali. Soprattutto, si fa capire. Eccome.

Allo stesso modo quando Tonino dice:

Non cela segreti la superficie
dei giorni inerti opachi uguali

oppure

la luce, quando arriva,
ferisce gli occhi partorisce
le immagini di sempre

e ancora

una porta si apre
dove il giorno è qualsiasi

riconosco una urgenza interiore di senso che è esattamente la mia, e che viene puntualmente disattesa da ciò che sta fuori.

Ma poi:

Padrona delle forze, più allettante
del muretto di un viottolo campestre
la primavera mi ridà la corda.
Le cose prendono lo statuto di persone
e tutto si ricompone.

constata l’uno, e l’altro:

Si svegliano pallidi i giorni
nel vecchio paesaggio,
camminano scalzi,
riprendono il viaggio.

Semaforo verde.

C’è molto di più in queste poesie, ma sarà oggetto, lo spero, di altre riletture. Qui mi importava solo rispondere alla domanda più immediata e impegnativa: perché. Il perché è questo. Credo che la riabilitazione del linguaggio, sia in senso proprio che in senso figurato, sia l’intervento più urgente da operarsi per la nostra cultura malata, per la nostra socialità agonizzante. È un intervento inderogabile, preliminare ad ogni altra scelta. Per fare diagnosi, per prescrivere terapie e medicamenti c’è bisogno di gente che parli chiaro, che attribuisca alle parole il giusto peso, che sappia allinearle nella maniera più semplice senza impoverire la gamma delle sfumature, che le pronunci senza ammiccare o alludere, e senza intimorire.

Dicevo che in queste poesie c’è eleganza: è l’esatto contrario della volgarità. C’è sostanza, che è l’esatto contrario della vacuità. C’è voglia di mettersi in gioco, e non di esibirsi, che è pudore. Ci sono esattamente tutte le qualità di cui avvertiamo lancinante l’assenza nel quotidiano. Queste poesie ci rinnovano la speranza che qualcuno continui a resistere all’abbrutimento, e offrono un esempio semplice, praticabile, immediato di come è possibile farlo. In linea con quello che il sito vorrebbe trasmettere.

Sono cose che non pesano nel bagaglio del viandante, perché si reggono da sole: anzi, aiutano il viandante a reggersi.


I bevitori di stelle

di Ernesto Ragazzoni, I bevitori di stelle e altre poesie, Scriptorius 1997, da sguardistorti n. 02 – aprile 2018

Le notti che non c’è la luna,
le lucide notti d’estate
che il cielo la terra importuna
col lampo d’innumeri occhiate,
— occhiate di stelle! — e le cose
(che troppo si sentono addosso
le tante pupille curiose)
mal dormono un sonno commosso,
è allora che vengono fuori,
e, a un fiume che sanno, in pianelle,
s’avviano giù i bevitori
di stelle per bere le stelle,
le stelle piovute in riflessi
nell’acqua. Bocconi, alla scabra
si gittano, sponda, e sott’essi
han liquido un cielo alle labbra.
E bevono, bevono e dalla
profonda quïete del fiume
si vedon fiorire essi a galla
— offerto al lor giubilo — il lume
dei mondi lontani, e le ghiotte
sorsate s’affannano a bere,
nell’acqua ove nuota, la notte,
il fosforo e l’or delle sfere.
Le turbe beate son esse
di quelli che vivon di sogni,
d’azzurro, di terre promesse,
di limbi siderei, d’ogni
castel che si dondola in aria,
di quei che le fate morgane
richiaman con nuvola varia,
e le principesse lontane.


La danza del rinoceronte

di Paolo Repetto, 2017

Leonardo ha portato a scuola una ricerca su Mario Moretti. Quando mi ha chiesto di aiutarlo sono rimasto allibito. Pensavo potesse trattarsi di Nanni Moretti, o del Moretti della birra, ma mi ha fatto vedere sul diario e c’era scritto davvero Mario. A quel punto dubitavo di trovare qualcosa di utile, invece su Wikipedia hanno scritto quasi un romanzo, con tanto di foto e riproduzione di documenti. Mi chiedevo però cosa cavolo potesse farci mio nipote con la biografia di un brigatista coi baffi.

E infatti. La ricerca riguardava in realtà Marino Moretti (si era persa per strada una “n”), del quale avevano letto in classe una poesia, cosa che Leo si è ben guardato dal dirmi. Per fortuna la maestra se n’è accorta (non era così scontato) e lo ha invitato a rifare tutto. Solo allora mi ha confessato che qualche dubbio gli era sorto, perché quel Mario Moretti con la poesia sembrava entrarci davvero poco.

Avrei dovuto arrivarci da solo, perché Leonardo è incredibilmente distratto, fa le cose in fretta e furia ed è già una fortuna che non mi abbia coinvolto in ricerche su Alessandra Moretti, la dirigente pidiessina che ha anche lei la sua brava paginata su Wikipedia, corredata di foto che rendono giustizia alla sua popolarità. Quello che mi ha colpito però è che ad avere meno spazio di tutti è proprio il povero Marino, che pure era un bell’uomo, aveva i baffi anche lui e ha scritto una poesia deliziosa come Piove. È mercoledì. Sono a Cesena (non è quella letta da Leo). Sic transit gloria mundi.

Ad una riflessione un po’ più a freddo, però (lì per lì ho finto di incavolarmi, ma in realtà ho riso per due giorni), il problema mi è parso un altro. Anche trattandosi di Marino, cosa se ne farà di questa ricerca? Subito dopo ne abbiamo fatta una su Ungaretti (anni di nascita e di morte, città abitate, titoli delle raccolte, eventuali premi), anche questa nata da una poesia letta. Quale? Ho chiesto. Mah, dice che parla di soldati, ma poi non ce ne sono. È brevissima – ma non me la ricordo.

Ora, Leo è indubbiamente uno scansafatiche, ma è tutt’altro che ritardato. Se riuscissi a tenere ferma la sua attenzione per trenta secondi consecutivi potrei spiegargli la teoria della relatività (dopo essermela fatta spiegare a mia volta). Non ricorda Soldati di Ungaretti così come non ricorda la poesia di Moretti (Marino) perché non ha alle spalle alcun contesto in cui inserirle. Nessuno gli ha mai spiegato perché nelle poesie il verso si ferma a metà riga, e perché le parole vogliano dire più di quanto dicono normalmente. Non penso che questo sia imputabile alle maestre, anche se forse, invece di assegnargli una ricerca che invariabilmente richiederà l’intervento dei genitori o dei nonni e della quale non rimarrà nulla, varrebbe la pena costringerlo a mandare quelle poesie a memoria, magari dopo avergli fornito quattro rudimenti di versificazione. Purtroppo è il nuovo trend pedagogico, e le maestre si adeguano.

E così Leonardo sa tutto (o quasi) su come si estrae il petrolio, cosa interessantissima ma che non influirà molto sul prezzo che pagherà per il gas o per la benzina, ammesso che tra un mese ancora se ne ricordi. Non conosce invece, dopo cinque anni di scuola, una sola filastrocca. “Il rinoceronte / passa sopra il ponte / salta e balla / e gioca alla palla” mi è rimasto impresso sin dalla prima elementare, complice anche l’illustrazione sul libro di lettura, semplicissima e poetica. Mi ha fatto precocemente capire la bellezza del ritmo, la sua importanza per una facile memorizzazione, cosa che ho poi sfruttato in tutta la mia carriera di insegnante: ma soprattutto mi ha fatto intravvedere un mondo in cui i rinoceronti giocano a palla, e da allora quel mondo non ho fatto che cercarlo. Perdendo il mio tempo, magari, ma divertendomi senz’altro di più che a cercare in rete notizie sulla vita di Moretti (anche se Marino).

 

Da questa distanza più niente / d’importante è là fuori

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2017, dal Quaderno “Per incerti sentieri” di Tonino Repetto

La luce mattutina entra incerta nella stanza (e nelle poesie “giovanili”) di Tonino: scialba, già stanca, in ritardo. Lo stesso fanno i rumori: sono al più brusii opachi, bisbigli (è minima/ dell’esistenza la voce), scalpiccii malinconici sul pavimento o sul selciato dei vicoli. Il resto è silenzio, rotto solo dal vento, qualche volta da un clacson, ma subito riavvolgente, “annichilente”. Gli altri, i volti, si intravedono attraverso i vetri, deformati dallo spioncino, anonimi dietro i finestrini di autobus o treni. E sono filtrate e incorniciate dai riquadri della finestra anche le stagioni: le mattinate di maggio, i giorni autunnali ingrigiti dalla pioggia, le sere rese deserte e silenziose dalla neve.

Gli ingredienti per etichettare come “tardo-crepuscolari” questi versi parrebbero esserci tutti. Ma sarebbe un’etichetta fuorviante. Il crepuscolo interiorizzato chiude una giornata comunque trascorsa, con o senza di noi: induce semmai il rimpianto di non averla vissuta appieno o il rammarico di non averla vissuta affatto, perché suppone un desiderio struggente per quello che sta là fuori e ci sfugge, o ci sentiamo negare. Questo nei versi raccolti in “Per incerti sentieri” non c’è. Il tempo che vi è raccontato non trascorre, ma ristagna, sgocciola lento, si aggroviglia in giorni che camminano scalzi. Luce, ombra, buio non ne scandiscono la fuga, ma lo fissano in istantanee di un bianco e nero molto sgranato. Le partenze e gli arrivi di viaggiatori “incerti del dove e del quando” sembrano osservati attraverso la lente di un entomologo. La storia stinge dalle pagine dei giornali sulle immondizie che invadono i marciapiedi.

Non c’è crepuscolarismo: e nemmeno nostalgia né rimpianto, e meno che mai autocommiserazione. È invece qualcosa che conosco (e riconosco) benissimo, che mi appartiene, come della raccolta precedente mi appartenevano la Lerma dei timidi stupori dell’infanzia, e forse ancora più: perché non ci ritrovo solo esperienze affini, ma riconosco una comune condizione, o disposizione, nei confronti di ciò che “è là fuori”.

È l’insostenibile, e irrimediabile, senso della distanza.

Tonino ne coglie, sarebbe meglio dire ne vive, tutte le espressioni. La distanza nel tempo, nella quale anche i ricordi, dimenticati sulle mensole, sono diventati muti. Quella nello spazio, che i frettolosi viaggiatori coprono, in treno, in corriera, in bicicletta, per strade che promettono non un traguardo, ma una fine. La distanza che sembra abbreviarsi, solo per un attimo, nell’illusione dell’amore, e quella che invece permane nei confronti di un luogo che ti ha inghiottito, ma non digerito (l’intermittente lanterna, / fioca per la distanza).

E ancora, la distanza che mettono tra noi e loro le persone care che ci lasciano. Infine, non ultima, quella che noi marchiamo nei confronti degli altri, proprio attraverso la scrittura. Tonino non pretende di rendercene partecipi: annota con immediatezza discreta, com’è nel suo stile, immagini e sentimenti. Sta a noi riconoscere certe sensazioni, leggerci anche il nostro breve percorso “disegnato nel buio dalla punta di una sigaretta”.

 

Per quanto possa sembrare paradossale, nel rapporto col mondo che ci circonda (e non solo in quello con gli altri) la scrittura – parlo naturalmente di scrittura vera, non di produzione industriale – non è solo un tramite, ma traccia anche un confine: ha la stessa valenza di una stretta di mano rispetto ad un abbraccio. Segna una distanza, crea una fascia di sicurezza. In fondo ci consente di comunicare standocene chiusi nella nostra camera, anzi, solo a quella condizione. Di guardare il mondo dai vetri, “cappotto e cappello appesi nell’angolo/ con l’unico ombrello”. Persino di parlare da soli a noi stessi senza sentirci ridicoli o un po’ svitati.

Questo tipo di scrittura non nasce da una scelta. Guardare il mondo dalla finestra non è un privilegio: “Nelle notti nei giorni senza scampo/ è l’orrore profondo/ di questa vita non vissuta, implosa…” Ma nemmeno significa surrogare la vita con la sua narrazione. Significa invece vivere la lucida consapevolezza che la rivelazione non arriverà: “la luce, quando arriva, / ferisce gli occhi partorisce / le immagini di sempre.” Noi percepiamo solo il “calpestio consueto dei passi”, la porta si apre su un fuori “dove il giorno è qualsiasi” e “l’immagine è quella del deserto”. “Là fuori” non c’è nulla da scoprire, e non c’è sbaglio di natura o breccia nel muro che ci possa rivelare il segreto ultimo delle cose. Si può scegliere o meno la conoscenza, ma la consapevolezza no, quella ce la troviamo nel corredo, e non sappiamo (e in fondo nemmeno davvero lo vogliamo) tacitarla. La conoscenza dovrebbe semmai aiutare a conviverci, a valutare la giusta misura della distanza. Misurare le cose (compresi i sentimenti) è in fondo il primo indispensabile passo per averne un qualche controllo.

 

Lo sbocco obbligato di questa condizione è l’ironia. Uso questo termine in un’accezione tutta mia, a significare una capacità di prendere le distanze che non inficia la disposizione empatica. Ogni altro atteggiamento nei confronti dell’esistenza, risentito, disperato o aggressivo, rivela che non c’è un distacco ma una lacerazione, che la ferita rimane aperta. L’ironia suppone invece che la cicatrizzazione sia avvenuta. Non comporta rassegnazione o fatalismo, è al contrario guardare la vita negli occhi, sapere che le cose stanno così, che prima o poi “la trama degli eventi si interrompe” e le immagini si dissolvono, si allontanano “di spalle, senza più voltarsi”. Ed è proprio la scrittura, che quelle immagini archivia, a consentire di elaborarne il distacco. Non vengono rimosse, ma trasferite in una dimensione altra, non impastoiata dal tempo. Sono sobrie, essenziali, come il linguaggio che le fissa: “Lo vedi solo se lo immagini / che si toglie il cappello e ti saluta / nella strada di polvere all’arrivo”.

La scrittura non diventa dunque per Tonino una corazza né uno schermo contro l’esterno, e neppure è una costrizione rivolta all’interno. È disciplina, nel suo significato più puro, privo di ogni rigidezza: mette ordine nel sentire e lo rende comunicabile in una forma discreta: quindi è rispetto, per la propria intelligenza e per la sensibilità altrui.

 

Per questo ho usato di proposito un’accezione “impropria” di ironia: perché frequento l’autore praticamente da sempre, e credo di non aver mai incontrato qualcuno più spontaneo e divertente e nel contempo più corretto. Penso anche che nessuno di coloro che lo conoscono bene sarà sorpreso dalla sincerità cruda e quasi autoptica di questi versi. Non c’è contraddizione tra il nitido senso di perdita e di vuoto che li intride e la simpatia per la quale Tonino è caro a tutti. Anzi, essi sono garanti della sua assoluta genuinità, ce ne fosse bisogno. Solo l’ironia che nasce da una consapevolezza così acuta può indurre una disposizione “pubblica” tanto positiva.

Lo schermo è bianco / si riaccendono le luci”, il sogno si dissolve assieme alle immagini: ma si può sempre, nel guadagnare l’uscita, sorridere agli altri spettatori.

 

La predilezione per le esistenze in sordina

di Fabrizio Rinaldi, dicembre 2017, da sguardistorti n. 01 – gennaio 2018

A chi ama la montagna i licheni fanno tornare in mente l’omonima collana dell’editore Vivalda (il logo ne raffigurava uno), ma niente di più.

In quasi tutti gli altri queste croste non suscitano alcuna emozione, se non un vago ricordo scolastico. Per dire quanto poco rilevanti fossero considerati anche in ambito scientifico, basta ricordare che solamente nella seconda metà dell’Ottocento si è scoperto che sono una simbiosi tra un alga ed un fungo.

Eppure da sempre se ne sfruttano le proprietà: gli Egizi, ad esempio, li usavano per mummificare i faraoni, o per scopi medicinali e cosmetici; e oggi vengono usati anche per le proprietà inibitorie nei confronti dell’HIV. Alcune specie sono usate per insaporire delle zuppe in Giappone, oppure per fare il pane, sempre in Egitto, e se ne cibano le alci e le renne natalizie nei paesi nordici.

Tutto ciò non è nemmeno servito ad assegnare loro una nomenclatura vulgare che evocasse una qualche simpatia o li rendesse immediatamente distinguibili. C’è stata invece una rincorsa da parte dei botanici a scovare nomi bizzarri e impronunciabili per le diverse specie, come Phaeophyscia insignis o Caloplaca ferruginea, che non hanno certo aiutato a farli conoscere e ricordare.

“Gli è che l’albero vive d’una vita tanto più piena e armoniosa della nostra, che dargli un nome è limitarlo; mentre gli incospicui e negletti licheni, a salutarli a vista per nome, pare di aiutarli ad esistere”.

Se però proviamo a focalizzare l’attenzione su questa forma di vita elusiva, scopriamo molteplici aspetti interessanti: queste “croste” si formano un po’ dovunque, anche in ambienti urbani, colonizzando luoghi dove ad uno sguardo superficiale sembra non esserci vita. Assumono molte forme e creano bizzarre protuberanze che, viste attraverso una lente, stupiscono per bellezza e varietà.

“Il lichene prospera dalla regione delle nubi agli spruzzati dal mare. Scala le vette dove nessun altro vegetale attecchisce. Non lo scoraggia il deserto; non lo sfratta il ghiacciaio; non i tropici o il circolo polare. Sfida il buio della caverna e s’arrischia nel cratere del vulcano. Teme solo la vicinanza dell’uomo. Per questa sua misantropia, la città è la sola barriera che lo arresta. Se lo varca, o va a respirare in cima ai campanili o, con la salute, ci rimette i connotati. Il lichene urbano è sterile, tetro, asfittico. Il fiato umano lo inquina.”

Si è scoperto che i licheni sono ottimi biondicatori, in grado di segnalarci il livello di inquinamento presente in atmosfera perché sono particolarmente sensibili all’anidride solforosa e agli ossidi d’azoto.

Si presentano crostosi sulle pietre, fruticosi sugli alberi o in altre morfologie complesse.  Sono opere d’arte viventi: alcuni esemplari sono esteticamente davvero molto belli, contraddistinti da una variabilità di colori e forme davvero uniche. E a dispetto della loro apparente anonimità ci parlano, suggerendoci inattese metafore della vita.

Ci sono quelli aggrappati agli alberi (ancorati ad essi nella disperata tensione di esistere), quelli sulle lapidi nei cimiteri (c’è vita nel luogo dove si esalta la non vita) o quelli su staccionate e cancelli (loro le barriere le superano e le inglobano).

Lavorano in silenzio, coprono ed erodono anche le brutture che noi umani disseminiamo sulla terra. Sono molto fiducioso nell’operato di questi alacri operai che colonizzano e lentamente disgregano le superfici di molte orride palazzine nate nel boom economico.

“Più tardi, preso a mano dalla mia predilezione per le esistenze in sordina, mi volsi a forme più scartate di vita”.

Durante il regime fascista un uomo (unico in questo) venne indagato per un’intensa attività ritenuta potenzialmente pericolosa, quale il traffico con l’estero di pacchi contenenti croste secche e barbe vegetali: licheni appunto.

Era Camillo Sbarbaro: traduttore, poeta e scrittore che nemmeno nella smania odierna di celebrazioni anniversarie, è stato oggetto di particolari attenzioni, malgrado ricorressero i cinquant’anni dalla morte (avvenuta nell’ottobre 1967). E nemmeno ci sono state riedizioni dei suoi scritti.

Probabilmente ne sarebbe stato felice: era refrattario alle attenzioni.

Sbarbaro è conosciuto (quando lo è) soprattutto per una poesia dedicata al padre.

“Mi ingombra la stanza, la impregna di sottobosco un erbario di licheni. Sotto specie di schegge di legno, di scaglie, di pietra contiene pocomeno un Campionario del Mondo. Perché far raccolta di piante è farla di luoghi”.

Dopo una vita peregrina in Liguria, si rifugiò in una piccola casa a Spotorno, nascosta in un caruggio impervio e priva di ogni comodità moderna (telefono, elettrodomestici, radio e televisione), al cui interno – dicono i pochi visitatori che vi furono accolti – si respirava l’odore del bosco.

“Camminare è stato sempre il mio modo migliore di vivere. La Liguria litoranea l’ho percorsa e la conosco passo per passo dalla Spezia a Ventimiglia”.

Con pochi amici, come Eugenio Montale, Dino Campana e Ezra Pound, amava percorrere i sentieri della riviera ligure, cercando esemplari di licheni che poi catalogava e classificava.

Sbarbaro usava la sua raccolta botanica anche per sbarazzarsi di ospiti sgraditi: bastava che cominciasse a descriverne minuziosamente i talli, i lobi e le lacinie … ed improvvisamente il malcapitato si ricordava di un irrinunciabile impegno altrove.

Era un uomo contraddistinto dalla pacatezza nell’indole e dalla frugalità nel quotidiano, imposta anche dalle risicate possibilità economiche. Non conobbe mai un grande successo editoriale.

I titoli dei suoi volumi sono anch’essi indicativi del minimalismo ante litteram che lo qualificava: Pianissimo, Rimanenze, Trucioli, Scampoli, Fuochi fatui, Cartoline in franchigia.

I suoi versi e le sue prose parlavano di natura, di aspetti  intimi e semplici del vivere quotidiano: e non inseguivano, né nel linguaggio né nei contenuti, la moderna ricerca della provocazione e della rottura fine a se stessa. Non scriveva per compiacere o per stupire, ma per rispondere a uno stimolo interiore genuino, ciò che gli imponeva di scarnificare le parole nella lucida ricerca del termine più appropriato.

A riprova della sua elusività, prima di morire ebbe la benevolenza di bruciare molti dei suoi scritti preparatori, lasciando ai posteri solo le versioni che erano per lui definitive, in modo da evitare lo sfrugugliare post mortem sull’evoluzione della sua poetica e sulla sua vita privata.

La stessa meticolosità che lo distingueva nello scrivere, nella ricerca di un linguaggio il più possibile sobrio, la riversò anche nelle ricerche botaniche, tanto da diventare uno dei lichenologi più importanti dell’epoca, pur essendo un autodidatta: le sue collezioni sono conservate in giro per il mondo.

Che cosa sono i licheni se non “esistenze in sordina”, capaci di abitare dove la gran parte degli altri esseri viventi non riesce a sopravvivere e, con le loro peculiarità, di creare le condizioni ambientali idonee affinché quelli più “evoluti” colonizzino in un secondo tempo?

Anche la società umana ha bisogno di “esistenze in sordina” come fu quella di Camillo Sbarbaro. Lei non lo sa, e probabilmente neppure è necessario che ne sia cosciente. Ciò che conta è che la specie umana abbia in sé gli anticorpi per generare persone che vivano in punta di piedi, ricercando l’essenzialità nelle azioni e nelle parole, l’elusività della mitezza, il discernimento tra apparenza e concretezza.

C’è speranza che queste esistenze creino, nonostante tutto, l’humus per un substrato della selva umana migliore.

Passiamo ai fatti, sarà meglio che vada ad aprire le finestre, c’è sentore di sottobosco.

Collezione di licheni bottone

Una raccolta di silenzi

di Paolo Repetto, 2016

Prima di leggere il Disciplinare di Mario Mantelli (Bravomerlo, 2012) dello haiku sapevo poco o nulla (e nemmeno ero curioso di saperne di più). Più che un genere poetico mi sembrava un gioco cervellotico, a livello di settimana enigmistica, e confermava semmai la mia immagine dei giapponesi come gente strana, fanatica dell’autocontrollo e delle costrizioni.

Il Disciplinare mi ha fatto scoprire un modo diverso di guardare il mondo e un’intenzione diversa nel raccontarlo. Questo modo e questa intenzione sono spiegati ora benissimo nella Stenografia Emotiva premessa da Mario a questa raccolta. Potrei quindi godermi in santa pace il piacere di leggere le sue composizioni in un libretto dei Viandanti, e lasciarlo gustare anche agli altri: ma come Wilde non so resistere alle tentazioni, e questa è davvero forte. Anch’io infatti, come i giapponesi, ho bisogno della costrizione della scrittura per mettere a fuoco quello che sento e dare ordine a quello che penso. Ora, gli haiku mi hanno fornito parecchi spunti e soprattutto mi hanno chiarito cose che già mi giravano in testa, ma molto confusamente: e allora ne approfitto per metterle subito in riga, sperando solo di non guastare le gioie che il libretto ha regalato.

Dunque, cominciamo ad allacciare un po’ di fili. Parto dai modi di guardare alle cose. Possono sembrare infiniti, ma nella sostanza poi si riducono a due: da dentro o da fuori. E questo va da sé, con o senza haiku. In realtà, guardare da fuori sarebbe la nostra condizione (per alcuni, la nostra condanna) “esistenziale” unica e assoluta. Siamo impediti all’intimità col mondo da quella consapevolezza che ci ha resi appunto uomini, facendo di noi degli estranei di passaggio. Ma non ci rassegniamo, per cui scegliamo un angolo prospettico che costituisce già di per sé un metro di giudizio e ricostruiamo la realtà, il più possibile a nostra immagine.

Ora, se il mondo vogliamo coglierlo nel suo assieme, e trovare in questo assieme un significato, suo e nostro, e magari anche il modo, oltre che di comprenderlo, per controllarlo o per dominarlo, possiamo posizionarci ad una certa distanza: ma se desideriamo invece “rientrare nel mondo”, sentircene parte integrante, dobbiamo portarci a una distanza minima, facendoci piccoli abbastanza per sgusciare, sia pure per pochi infinitesimali attimi, attraverso le porte spazio-temporali che a volte si aprono. Nel primo caso prevale l’intenzione storico-scientifica, che sfocia in una narrazione del mondo, mentre nel secondo agisce una disposizione “estetica” (forse sarebbe più appropriato “estatica”), che vuole “fissare” in una pagina, sulla tela, o attraverso i suoni, una intuizione, un frammento intravisto, un’illuminazione. Semplificando al massimo, potremmo dire che il primo atteggiamento introduce nella narrazione il tempo, e quindi produce dei film, mentre il secondo il tempo lo vuole fermare, e produce quindi delle fotografie.

Personalmente, credo di essere un cinematografaro. Il mio modello ideale sono quei cartografi raccontati da Borges che realizzarono una mappa dell’impero in scala uno a uno. Ma mi accorgo che la cosa è contradditoria, perché in questo modo si parte guardando il mondo da un’enorme distanza e si finisce per soffermarsi poi su ogni filo d’erba. Si nasce narratori e si finisce esteti. In una certa misura accade persino ai campioni dell’intenzione scientifica, gente come Galilei o Newton, quando individuano una chiave di lettura (in questo caso quella matematica) del mondo e finiscono per far combaciare la serratura con il mondo stesso.

Mi accorgo però che su questa strada rischio di incartarmi, e provo allora a metterla in maniera diversa, con qualche esempio più immediato. Prendiamo Manzoni: inizia il suo racconto con un campo lunghissimo dall’alto, stringendolo poi progressivamente sino al primo piano su don Abbondio. Oppure inquadra un paesaggio di rovine e poco a poco lo popola, avvicinandosi, di volti e di occhi smarriti. Parte cioè presentando un mondo che di lontano appare immobile e sempre uguale a se stesso, per coglierne e narrarne poi invece il movimento. Ma il movimento, diceva già Aristotele, è la condizione che crea il tempo: il tempo è movimento nello spazio. Scegliere di raccontare nel tempo, attraverso il tempo, magari anche per dire che in fondo le cose si ripetono o si somigliano, come fa Manzoni, significa scegliere di raccontare comunque ciò che sta fuori, che rimane in superfice e cambia incessantemente, così come è percepito dagli uomini. E darne una spiegazione, sia essa razionale o meno, nella quale questi ultimi abbiano una parte, possibilmente da protagonisti. Si cerca di leggere il mondo, piuttosto che di viverlo.

Leopardi inizia invece guardando dal basso verso la luna, fa cioè un percorso esattamente inverso: e pone delle domande. Le pone alla luna perché il movimento di questa, infinitamente ripetuto, in fondo è solo apparente. Quindi essa è una possibile depositaria del senso (o, volendo, del non-senso) ultimo. Leopardi però non è alla ricerca di spiegazioni razionali, o compatibili con le nostra modalità di pensiero (tutte le sue domande, a partire dal che fai?, sono puramente retoriche): dice subito, proprio con quelle domande, che spiegazioni non ce ne sono, o se ci sono rischiano di non piacerci affatto, e per questo motivo rinuncia alla narrazione e continua a cercare epifanie, spiragli (le brecce montaliane nel muretto) che consentano di dare comunque un’occhiata all’interno. Quando scrive:

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna

non ha bisogno di darsi o di darci un perché. È l’istantanea di un dato di fatto, colto attraverso il grandangolo della sua sensibilità.

Sono evidentemente due modi diversi di guardare il mondo. Ed entrambi legittimi. Il primo, però, lo sguardo esterno, nasconde un intento aggressivo: svelare strappando il velo. Il secondo, lo sguardo da dentro, il velo non lo strappa, spera che qualche refolo lo scosti. Questa disposizione non rappresenta tuttavia una resa incondizionata alla ineffabilità del mondo, della natura. Anzi, è il contrario. Nemmeno quello di Leopardi è infatti un atteggiamento totalmente disarmato, e il poeta ne è perfettamente consapevole, a differenza di altri, Pascoli ad esempio, che ritengono che per raccontare da dentro sia necessario tornare allo sguardo del fanciullino: vale a dire spogliarci di ogni armamentario culturale e lasciarci risucchiare dal mondo (che è diverso da immergersi). Ora, la cosa è già molto improbabile a livello di percezione, dell’esperienza che si fa del mondo, perché hai voglia a denudarti degli abiti e delle corazze cuciti e forgiati dalla cultura, il nostro modello di percezione circola sottopelle: ma soprattutto si scontra poi, al momento di comunicare ciò che si è esperito – ed è questa da sempre l’aspirazione, se non la funzione, dell’arte – con la necessità di universalizzarlo e condividerlo attraverso segni, suoni e colori, che sono tutte forme di imitazione e ricreazione del mondo. Insomma, quale che sia l’attitudine è necessario ricorrere comunque a convenzioni espressive, strumenti, che non ci adattano al mondo, ma adattano il mondo a noi. E nel farlo, di norma, lo allontanano. Leopardi, ripeto, questo lo sa benissimo, e opera proprio sugli strumenti, usando un doppio segno negativo (quello intrinseco al mezzo e quello impresso dalla poetica dell’indefinito) per ottenere un risultato positivo, di avvicinamento (è ciò che Pascoli dimostra di non aver capito, quando gli rimprovera l’accostamento temporale di rose e viole, ma anche quando si trastulla in onomatopee e bamboleggiamenti)

Questo ci riporta finalmente allo haiku.

La distanza dal mondo si misura appunto, tanto in letteratura come nelle altre arti, in parole, in segni, in note. Non dico che sia direttamente proporzionale alla lunghezza di un testo, all’accuratezza di una immagine o alla complessità di uno spartito, ma in un certo senso è così. Quanto più indulgo in una descrizione, riproduco i singoli peli di un coniglio, accumulo e armonizzo suoni diversi, tanto più mi allontano dalla immediatezza della sensazione o dell’emozione per ricreare un “mio” mondo, pensato a mia immagine o a quella del mio tempo: un mondo che a differenza di quello reale è “interpretabile”, e del quale potrò fare ciò che voglio: dargli un’anima, leggerci foreste di simboli, ecc… Visto che il creato mi esclude, mi erigo a creatore: che è una cosa bellissima, senza dubbio, ma anche parecchio inquietante, perché da subito tende a sforare dalla dimensione narrativa a quella operativa, ad adattare il mondo a noi non solo attraverso le parole, ma anche attraverso i fatti. E nei fatti ormai gli spazi sono parecchio confusi.

Ma qui parliamo di poesia. Qui lo spazio occupato dai segni, nella nostra fattispecie dalle parole, è ancora quello che ci separa dalle cose. E non lo si annulla scombinando semplicemente il tradizionale allineamento dei primi: anzi, le grandi narrazioni a ruota libera, l’Ulisse come Sulla strada, l’arte informale, la musica dodecafonica, sono quelle che meno ci avvicinano all’oggetto, perché ruotano costantemente attorno al soggetto. Quindi non è questione di rompere una consolidata disciplina espressiva: non è questa a raffreddare l’emozione: anzi, la disciplina aiuta semmai a trovare un equivalente narrativo, ad avvicinarci.

Nemmeno è questione di ridurre semplicemente i segni all’osso. Ungaretti riesce ad esprimere uno stato d’animo con meno della metà delle sillabe canoniche di uno haiku, Quasimodo con un paio di più. Ma al centro ci stanno loro, non il mondo. Lo stesso accade per le opere di Fontana o per quelle di John Cage, dietro le quali devi supporre un percorso chilometrico, se vuoi che abbiano un senso. Un percorso faticoso, pesante. Stavo per scrivere “tipicamente occidentale”, ma non è del tutto giusto.

Anche quello dello haiku è infatti un percorso culturale che parte dall’esterno. Ma mi sembra che a differenza di quello occidentale, che mira a narrare e quindi a disciplinare il mondo, tenda invece a disciplinare lo sguardo sul mondo, nel significato scolastico in cui veniva usato un tempo il verbo, di non disturbare, di interferire il meno possibile, di prestare attenzione. Rispecchia un modo d’essere, di muoversi, di pensare, al quale i giapponesi sono stati educati per secoli e che hanno intimamente assimilato. Per questo sino a ieri ho continuato a ritenerlo estraneo alle mie frequenze. I pochi casi di trasposizione occidentale che conoscevo, quelli legati al coté orientaleggiante della controcultura degli anni cinquanta/sessanta (Alan Watts, I vagabondi del Dharma), o peggio, quelli prodotti dalla moda new age degli anni novanta, non facevano che confermare la mia impressione. Quando non erano patetici, perché semplicemente inscatolavano il vuoto, davano l’impressione di serrare i contenuti in una gabbia, anziché aderire loro come un abito. Nell’uno e nell’altro caso il problema nasceva comunque da un uso improprio o gratuito dello strumento. Ma questo l’ho capito solo dopo aver letto le istruzioni e le esemplificazioni prodotte da Mario.

Ho capito ad esempio che lo haiku è riconducibile a quella forma più universale di ascetismo che da sempre ha cercato di minimizzare il vivere per enfatizzare il sentire: il silenzio è una delle vie preferenziali scelte da stiliti, monaci, eremiti anche in occidente per forzare le porte della percezione. Solo che per la cultura occidentale questa è sempre stata una scelta a suo modo clamorosa, mentre in quella orientale è una consuetudine discreta.

Per non tirarla troppo in lungo, lo haiku è un esercizio non di forza, ma di estremo equilibrio. Calvino direbbe di leggerezza. Il che può sembrare paradossale, perché le parole prosciugate acquistano un peso specifico enorme. Ma qui la leggerezza è consentita da ciò che le parole vogliono esprimere: che non è conoscenza del mondo, ma stupore e consonanza col mondo. Lo haiku esprime uno stato d’animo che fa tutt’uno con uno stato della natura, in fondo lo stesso che Leopardi descrive nell’incipit de “La sera del dì di festa” (anche se per Leopardi questo è appunto solo un incipit, e nel prosieguo la sua occidentalità ha la meglio). La leggerezza è data dalla sensazione di essersi fatti così piccoli da poter entrare nel quadro, senza disturbarlo. Come del resto accade per tutta la pittura paesaggistica orientale, nella quale le forme di vita umana sono appena percettibili, nascoste nel paesaggio. Oserei dire che lo haiku realizza addirittura il sogno del doppio sguardo: da fuori, perché passa attraverso un’operazione complessa di pesatura, misurazione, scelta delle parole: da dentro, perché questa chiave consente di entrare per un attimo nella dimensione perduta.

Per come l’ho messa viene a questo punto da chiedersi come mai Mario abbia scelto di praticare un esercizio così lontano dalla nostra tradizione – e perché io abbia così fortemente voluto ripubblicare i suoi haiku nelle edizioni dei Viandanti. Scartato in partenza ogni sospetto di condiscendenza alle mode, o di compiacimento per l’esotismo spirituale, non rimane che la pista della disciplina. Mario è stato conquistato da un esercizio disciplinare che apre ad una eccezionale libertà. Si è accorto che in realtà le diciassette sillabe non costituiscono affatto una limitazione, e che il piacere del risultato, dell’eureka finale, viene già anticipato nell’atto di isolare immagini e di cancellare metri di parole-spazio. Che una volta ripulite e ordinate le sue emozioni conservano la freschezza dell’istantanea. Il resto lo fanno Oviglio e il Monferrato, che offrono stagioni e ritmi come quelli di Kōbe, e il fondale delle Alpi, che non fa rimpiangere il Fuji.

Post scriptum. Rileggendo questi haiku mi è tornato in mente un racconto di Heinrich Böll, La raccolta di silenzi del dottor Murke. Murke non aspira al “grande” silenzio. Raccoglie piccoli scarti di nastro magnetico, i tempi morti silenziosi che vengono eliminati per ottimizzare la programmazione radiofonica, li unisce e li fa scorrere. Quello che ne vien fuori non è un silenzio assoluto, continuativo: è la successione di brevissime pause, che arrivano cariche di tensioni, paure, tristezze, stupori. Nel monotono, leggero fruscio del nastro tutto viene scaricato, mescolato, dimenticato. Non so quale sia il nesso, ma sono certo che c’è.

 

Camus e Leopardi

Camus e Leopardi copertinaa cura di Paolo Repetto, 16 agosto 2016

Irene Baccarini – Leopardi e Camus: il tempo ultimo dell’amicizia. 3

Luigi Capitano – L’assurdo e la rivolta. Camus alla luce di Leopardi 12

Irene Baccarini

Leopardi e Camus:
il tempo ultimo dell’amicizia

Di Leopardi non si trova traccia nei taccuini di Albert Camus, eppure in un’intervista radiofonica a cura di Giovanni Battista Angioletti, per il settimanale RAI «L’Approdo», alla domanda «Quali sono gli autori italiani di ogni tempo con i quali lei ha avuto rapporti particolarmente profittevoli?», Camus rispose: «Quello che io citerò al di sopra di tutti gli altri, perché è quello che ho anzitutto letto di più e meglio, colui col quale mi sento più fraterno, è Leopardi». Il rapporto di fraternità confessato dallo scrittore francese colma il vuoto che il critico nota nei taccuini e conferma la vicinanza di pensiero tra i due scrittori. Una vicinanza, quella con Leopardi, che il lettore di Camus sospetta più volte, ipotizza, anche attraverso ascendenze filosofiche comuni.

Più di uno studioso, seguendo le tracce leopardiane presenti — pur in maniera più nascosta — nell’opera di Camus, si è soffermato sul confronto tra i due autori. Il contributo più recente è sicuramente quello di Luigi Capitano, apparso nel 2010 su questa stessa rivista.1 Molto prima, nel 1972, era apparso lo studio di Norbert Jonard Leopardi et Camus,2 in cui veniva effettuata un’analisi puntuale delle tesi leopardiane, così come emergono nei componimenti poetici e nelle prose filosofiche, e il riscontro che esse trovano in diversi passaggi dell’opera di Camus. Ciò che si nota dal confronto complessivo delle opere dei due autori è la somiglianza delle loro posizioni di fronte all’impossibilità di dare un senso al male, alla sofferenza e alla morte; in altre parole la reazione dei due scrittori all’assurdità dell’esistenza. Reazione di rivolta, in entrambi i casi, che porta tanto Leopardi quanto Camus ad un faccia a faccia con la terribile verità con cui l’uomo spesso rifiuta di confrontarsi, l’«arido vero» appunto.

Come sottolinea giustamente Capitano, la posizione leopardiana può essere ricondotta a quella che Camus definisce «rivolta metafisica». Leopardi, scrive Capitano,

ha avvertito per primo l’urto e la dissonanza fra la «domanda fondamentale» e il silenzio del mondo. […] la lucida coscienza dell’assurdo conduce invece ad un’inevitabile «rivolta metafisica» nel senso di Camus, ossia ad una «sfida» aperta contro il nonsenso del mondo. La rivolta metafisica di Leopardi rimanda a quella dimensione dell’assurdo che sola consente di misurare la distanza fra il nichilismo contemporaneo e le sue più o meno remote condizioni storico-genealogiche. Primo fra tutti i pensatori dell’Occidente, Leopardi ha illuminato la soglia dell’assurdo e al tempo stesso ha trovato il coraggio invincibile di venire, per dirla con Michelstaedter, ai «ferri corti» con la propria vita e con l’arcano dell’esistenza universale, al punto di sognare di poter stringere attorno alla «nobil natura» del genio poetico l’intero genere umano che «a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato…» (Giacomo Leopardi, La ginestra, vv. 111-113). Leopardi ha già compiuto il passo fatale dall’esperienza solitaria dell’assurdo a quella rivolta comune contro il male metafisico che finisce col dare un barlume di senso alla nostra vita.3

La rivolta diviene dunque comune: la protesta leopardiana presuppone la costruzione della «social catena», in nome della quale gli uomini possono ritrovarsi uniti contro il nemico della Natura. A questa stessa prospettiva di solidarietà umana arriva anche Camus, come si vede sia da L’uomo in rivolta sia dal romanzo La peste. «“Noi siamo” davanti alla storia, e la storia deve fare i conti con questo “Noi siamo” che, a sua volta, deve mantenersi nella storia. Io ho bisogno degli altri, che hanno bisogno di me e di ciascuno», afferma Camus con convinzione in nome di una «lotta», che è anche, soprattutto, «fiera compassione».4 Nel romanzo la peste diviene metafora di un male non solo storico, un male più grande, che è in ognuno di noi e che può tornare a colpire in qualunque momento. Come afferma Sergio Givone nel suo libro Metafisica della peste, in Camus l’epidemia diventa

l’occasione di un esperimento cruciale: dove si tratta di misurare la tenuta di una parola di verità, parola ferma, non controvertibile, nell’orizzonte in cui della verità sembra non essere rimasto più nulla. Tale sarebbe, ad esempio, una parola che osasse porre l’alternativa fra un dovere assoluto (il dovere dell’aiuto e della condivisione) e un assoluto oscuramento di ogni senso (l’assurdo).5

Questo «esperimento cruciale» consente a Camus, secondo Givone, di fare un passo in avanti: dall’etica dell’assurdo (Il mito di Sisifo) e dall’etica della rivolta (L’uomo in rivolta), si passa qui all’etica della resistenza al male. È su questa base che l’ateo dottor Rieux può trovarsi vicino al Padre Paneloux: «Noi lavoriamo insieme per qualcosa che riunisce oltre le bestemmie e le preghiere. Questo solo è importante»,6 risponde Rieux al prete, che riconosce nel medico la mancanza di una prospettiva di grazia. La lotta comune che i due devono affrontare, dunque, non è una rivolta, ma una prova di resistenza per sconfiggere il male, una prova che impone di salvare prima di tutto l’altro, come se la misura della vittoria sul male possa darsi da ciò che si riesce a fare non contro il male stesso ma per gli altri. Non si lotta più contro qualcosa, si resiste piuttosto, e si lotta per qualcuno. È questa la dimensione della solidarietà, che si rivela nella concretezza dell’urgenza.

Non è forse un caso che Givone, nella sua ricognizione delle forme e dei significati della peste, presenti anche Leopardi. Il critico riporta una lettera del 30 ottobre 1836, nella quale il poeta scrive a suo padre di non aver saputo in tempo della diffusione della peste fino ad Ancona e conclude: «Se lo avessi saputo nessuna forza avrebbe potuto impedirmi di non venire, anche a piedi, a dividere il loro pericolo».7 Questa affermazione, rileva Givone, «farebbe sorridere di tenerezza, se il pensiero non corrispondesse al pensiero più autenticamente leopardiano».8 In effetti, il desiderio di condivisione esplicitato del poeta, anche in questo caso originato da una situazione di pericolo, commuove il lettore e, al tempo stesso, gli permette di comprendere le ragioni che stanno alla base della posizione che Leopardi raggiunge ne La ginestra. In qualche modo, l’uomo che scrive la lettera è anche il poeta «progressivo» del grande componimento: questa relazione mostra tutti gli aspetti e la complessità di un sentimento poetico. Sentimento che non si riduce alla sola prospettiva della solidarietà, ma che possiamo riportare nella sfera dell’amicizia, in base ai diversi significati che questa assume in Leopardi.

In un bel saggio Alberto Folin ha messo in luce i diversi momenti della riflessione leopardiana sull’amicizia. Un primo momento da considerare è quello che «riguarda l’opposizione homònoia / philìa […] e cioè quella che separa l’amicizia intesa come concordia tra i cittadini della polis — virtù, per così dire politica — dall’amicizia intesa propriamente come philìa e concepita come rapporto interpersonale tra individui, e quindi tra singolarità finite».9 In tale direzione vi è una differenza tra gli antichi e i moderni. «Dopo che l’eroismo è sparito dal mondo — annota Leopardi nello Zibaldone –, e in vece v’è entrato l’universale egoismo, amicizia vera e capace di far sacrificare l’un amico all’altro, in persone che ancora abbiano interessi e desideri, è ben difficilissima».10 L’egoismo dei moderni è il risultato di una degenerazione dell’amor proprio, che ha portato gli uomini ad un eccessivo individualismo. Proprio ne La ginestra, invece, Leopardi torna a ipotizzare un legame che unisca il genere umano oltre l’egoismo, oltre la chiusa e sterile prospettiva individualistica. Folin sottolinea come ciò che il poeta esprime in questo componimento non possa essere ricondotto soltanto alla «guerra comune», ma abbia in realtà sfumature molto più sottili:

La comunità sembrerebbe fondarsi su un lavoro di «guerra comune» (v. 35) contro un nemico. Ma il legame, questa volta, non si costituisce nell’odio contro uno straniero «storico» e politicamente definito come diverso nel tempo e nello spazio, ma contro l’estraneità stessa avvertita nella sua essenza metafisica e in temporale. […] Questo legame comunitario, che prospetta un’amicizia sul confine tra essere e nulla, nella precarietà e fragilità degli enti, è tuttavia solo apparentemente simile a quell’homonònoia antica che Leopardi aveva nostalgicamente rimpianto negli anni giovanili. Qui il legame che viene auspicato unisce entità creaturali che hanno in comune un’identica «madre», e dunque sono associati da un rapporto in qualche modo «fraterno». Fratelli nel dolore, figli di un dio senza volto e senza nome, gli uomini potranno trovare una nuova solidarietà e una nuova philìa nell’accettazione della morte e della perdita, cioè nel fatto di essere tutti figli del nulla.11

Attraverso itinerari concettuali diversi, quindi, Leopardi e Camus suggeriscono una prospettiva che va oltre, che non si ferma a quella della rivolta, ma che piuttosto si fonda su un riscoperto legame tra gli uomini, capace di opporsi anche alla forza ignota del nulla, capace di resistere.

Ne La peste di Camus troviamo personaggi che incarnano questo sentimento, mostrando la difficoltà e la complessità di una determinata prospettiva esistenziale. Si è parlato prima del dottor Rieux e di Padre Paneloux, che divisi da «fedi» diverse, si trovano a combattere insieme la sofferenza inutile e ingiusta degli innocenti colpiti dal morbo. Tuttavia, il senso di quel sentimento fraterno di cui si parlava a proposito di Leopardi, l’importanza dell’amicizia come presupposto per qualsiasi lotta, per qualsiasi resistenza, si trova espresso ancora meglio nel dialogo tra Tarrou e il dottor Rieux. Si tratta di uno dei passi più significativi all’interno de La peste, che in qualche modo suggerisce la chiave di lettura dell’intero romanzo. È proprio il personaggio di Tarrou, infatti, che, raccontando la sua storia e la sua lotta personale contro la peste, arriva a denunciare il male che si insidia in ogni individuo:

Ho capito questo, che tutti eravamo nella peste; e ho perduto la pace. […] So soltanto che bisogna fare quello che occorre per non esser più un appestato, e che questo soltanto ci può far sperare nella pace, o, al suo posto, in una buona morte. Questo può dare sollievo agli uomini e, se non salvarli, almeno fargli il minor male possibile e persino, talvolta, in po’ di bene.

[…] Per questo ho deciso di mettermi dalla parte delle vittime, in ogni occasione, per limitare il male. In mezzo a loro, posso almeno cercare come si giunga alla terza categoria, ossia alla pace.12

A questo punto Rieux chiede a Tarrou se abbia qualche idea sulla strada da prendere per raggiungere la pace: «Sì», risponde l’amico, «la simpatia».13 Qui il termine è naturalmente usato nel suo senso più profondo; e che cos’è la simpatia se non il fondamento dell’amicizia? Tarrou, infatti, poco dopo dice al dottore:

«Sa cosa dovremmo fare per l’amicizia?» disse. «Quello che lei vuole», disse Rieux. «Un bagno in mare […]». «Sì» disse Rieux, «andiamo». […] Poco prima di giungervi, l’odore dello jodio e delle alghe annunciò il mare; poi lo sentirono. […] Rivolto verso Tarrou, egli indovinò sul viso calmo e grave dell’amico la stessa gioia che non dimenticava nulla, neanche l’assassinio. […] Rivestiti, andarono via senza aver pronunciato una parola; ma avevano lo stesso cuore, e il ricordo di quella notte gli era dolce. Quando scorsero da lontano la sentinella della peste, Rieux sapeva che Tarrou si era detto, come lui, che la malattia li aveva dimenticati per un po’, che questo era un bene, ma che adesso bisognava ricominciare.14

Il bagno in mare, che sembra benedire la loro amicizia, concede ai due una tregua: è la peste a dimenticarsi di loro, non il contrario, come se nell’attimo stesso in cui si riconoscono amici, Rieux e Tarrou vivessero uno stato di grazia. Si sa quanto Camus stesso amasse il mare,15 questo passaggio è quindi esemplificativo: l’amicizia non rappresenta una sospensione dalla tragicità della situazione, ma è piuttosto un momento necessario per tornare ancora più uniti a combattere la malattia.

Queste sono pagine veramente poetiche, in cui Camus è riuscito a rendere tutta la dolorosa bellezza della verità; tutta la sua vita è stata una battaglia per l’amore, contro il male, e qui emerge la difficile ambiguità di tale prospettiva: bisogna credere più nell’amore per il quale si combatte o nel male al quale si è chiamati a resistere?

Vorrei ora soffermarmi su alcune pagine leopardiane, in cui il sentimento dell’amicizia mi sembra sia espresso con tono altrettanto poetico: mi riferisco al Dialogo di Plotino e Porfirio. In questa operetta viene «messo in scena» il dialogo che tra Porfirio, il quale vorrebbe suicidarsi, e Plotino, che con varie motivazioni cerca di distogliere l’amico da tale proposito.

L’inizio rivela subito il tono generale del dialogo: «Porfirio», dice in apertura Plotino, «tu sai ch’io ti sono amico […] e non ti dei meravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa curiosità; perché nasce da questo, che tu mi stai sul cuore».16 Porfirio confida allora all’amico il suo «fastidio della vita», la noia, e dunque il desiderio di morire. Plotino cerca prima di replicare all’amico seguendo il filo «ragionevole» delle sue considerazioni, ma poi va oltre: il suicidio potrebbe essere anche comprensibile, analizzando razionalmente lo stato di infelicità a cui sono condannati gli uomini, ma c’è qualcosa che spinge ad andare al di là di questa ragionevolezza. Ecco le parole di Plotino, alla cui voce Leopardi, emblematicamente, dà il compito di concludere il dialogo:

Sia ragionevole l’uccidersi […] E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto, di esser secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anco non vorremo noi aver considerazione degli amici; […] delle persone famigliari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere gran tempo; che, morendo, bisogna lasciar per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione […]? […] Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non voler esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. […] Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. […] E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.17

La grandezza e la profondità del discorso di Plotino stanno nel fatto che il filosofo concorda con l’amico, da un punto di vista razionale, sull’infelicità dell’esistenza umana, ma nel tempo ultimo, estremo, della separazione dalla vita, un pensiero mette in discussione ogni convinzione razionale: il pensiero delle persone che ci sono accanto, con le quali dobbiamo «portare quella parte che il destino ci ha stabilita». Anche in questo caso, lungi dal trovare una risposta al male, si può decidere di accettarlo, di resistergli; e dunque, anche qui, non più la rivolta, ma l’umile battaglia dei compagni, degli amici.

Ciò che mi sembra significativo nel confronto tra il dialogo leopardiano e il passo di Camus è proprio la misura intima e piena di calore. Nel passo dell’operetta appena citato troviamo una dimensione che non è quella “sociale”, nel senso etimologico, de La ginestra: si tratta veramente di due amici che parlano, che arrivano a conoscere l’uno le ragioni del cuore dell’altro, così come accade nel passo de La peste. «Tu mi stai sul cuore», dice Plotino a Porfirio, e di Tarrou e Rieux ci viene detto che «avevano lo stesso cuore»; leggere affermazioni del genere da due autori che hanno guardato in faccia il male, fa capire quanto la loro considerazione dell’uomo fosse incommensurabile. L’estrema ragione porta ad essere un mostro, afferma Plotino, verità che Camus sperimentò sulla propria pelle, quando, nel corso della sua vita, ribellandosi alla rigida ragione delle ideologie, fu accusato da tutti i fronti. Meglio allora cercare di essere uomini, umile ambizione confessata anche da Rieux; o forse provare ad essere santi senza Dio, come Tarrou. L’unica cosa che conta è non perdere mai la misura dell’uomo, lo sguardo dell’altro che viene a darci misura di noi stessi. Lo stesso Camus nel pensiero meridiano parla di rivolta e misura: «Se il limite scoperto della rivolta trasfigura tutto; se ogni pensiero, ogni atto che oltrepassi un certo punto nega se stesso, c’è infatti una misura delle cose e dell’uomo».18

Come esempio contrastivo di ciò che si è mostrato nel confronto tra l’operetta morale di Leopardi e il dialogo tra Rieux e Tarrou ne La peste, si può analizzare un passo di un altro romanzo di Camus, La caduta, opera controversa, in cui, a differenza de La peste, sembra proprio che la razionalità arrivi ad essere talmente estrema da diventare delirio. Nessuno è innocente, questa la conclusione a cui sembra giungere Camus nel romanzo, e allora meglio continuare a stare dalla parte dei giudici. Il protagonista, che ha usato gli altri per nutrire il proprio io — un degenerato amor proprio, direbbe Leopardi — quando scopre la realtà di ciò che è stato, non può che prenderne atto, accettando con lucidità feroce la sete di giudizio e potere che è insita in ognuno. Ne La caduta, quindi, la prospettiva è opposta; se ne La peste l’obiettivo era quello di fare il meno male possibile all’altro, cercando semmai di fargli un po’ di bene, qui, dal momento che nessuno è innocente, non c’è possibilità né di salvarsi né di salvare gli altri. Ecco la tragica confessione del protagonista:

Non ho più amici, ho solo complici. In compenso ne è cresciuto il numero, sono diventati il genere umano. […] Come so che non ho amici? È semplicissimo. L’ho scoperto il giorno in cui ho pensato di uccidermi per giocar loro un bello scherzo, per punirli, in certo modo. Ma punire chi? Qualcuno si sarebbe meravigliato, nessuno si sarebbe sentito punito. Ho capito che non avevo amici.19

La situazione del dialogo leopardiano è rovesciata: l’amicizia non svela il suo senso nel tempo ultimo di chi si trova a tu per tu con la morte, piuttosto viene negata all’estremo, perché la vita non è che un processo generale, in cui ognuno giudica l’altro.20 Il fine non è più il bene dell’altro, neppure nella tiepida speranza di sentire per un attimo la sua vicinanza in un bagno in mare; il fine è la sua condanna.

Ma ecco che proprio il verdetto pronunciato dal protagonista, terribile e «mostruoso» nella sua lucidità, suggerisce nuovi interrogativi:

Creda a me, le religioni sbagliano a partire dall’istante in cui fanno la morale e scagliano comandamenti. Dio non è necessario per creare la colpevolezza degli uomini, né per punire. Bastano i nostri simili, aiutati da noi. Lei accennava al giudizio universale. Mi permetta di ridere rispettosamente. Io l’aspetto a piè fermo: ho conosciuto il peggio, il giudizio degli uomini. […] E allora? Allora, la sola utilità di Dio consisterebbe nel garantire l’innocenza, e io la religione la vedrei piuttosto come una grande impresa di lavatura cosa che del resto è stata, ma per breve tempo, esattamente tre anni, e non si chiamava religione.21

Tre anni, il tempo in cui tutti poterono credere di essere innocenti, liberati da un giudizio di condanna definitiva. Tre anni, il tempo in cui un uomo, perché questo fu Gesù, poté pronunciare parole di perdono verso altri uomini. Quel tempo è durato solo tre anni, dopodiché la religione non ha fatto altro che codificare altri comandamenti, formalizzando giudizi e condanne. L’interpretazione di queste considerazioni di Camus è molto complessa, ma occorre continuare a leggere:

Ciò non toglie che lui, il censurato, non abbia avuto la forza di continuare. […] in certi casi continuare, nient’altro che continuare, è uno sforzo sovrumano, può credermi. E lui non era sovrumano, può credermi. Ha gridato la propria agonia, e perciò l’amo, quest’amico morto senza sapere. […] Oh l’ingiustizia che gli han fatta e che mi stringe il cuore.22

Era un uomo anche lui, un uomo condannato ingiustamente: dopo di lui non si può neanche più tentare di essere innocenti; dopo di lui non si può che portare avanti l’esercizio legittimo di condanna gli uni verso gli altri.

Il verdetto è terribile, l’abisso diventa più fondo, un interrogativo sempre più grande sale alla coscienza: che cos’è l’altro per me? Quello che resta è l’ultimo atto della fede, umanissima, di Camus, la fede in questo «amico», che non fu sovrumano, ma che poté portare una speranza di innocenza. La stessa fede umana che traspare dal testamento leopardiano de La ginestra.

«L’inferno è qui, da vivere. Gli sfuggono solo quelli che si estraniano dalla vita», scrive Camus in un appunto del 1952, e subito dopo si legge quest’altro appunto: «Chi testimonierà per noi? Le nostre opere. Ahimé! Chi allora? Nessuno, nessuno tranne quei nostri amici che ci hanno visto in quell’attimo del dono in cui il cuore si consacrava interamente a un altro. Insomma quelli che ci amano. Ma l’amore è silenzio: Ogni uomo muore sconosciuto».23

Nello stesso silenzio rimane Porfirio, eppure anche a lui Plotino aveva garantito il ricordo degli amici, la testimonianza di un legame che resta. Vengono in mente le parole di Gesù ai discepoli prima dell’addio, riportate dal Vangelo di Giovanni: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i proprio amici. […] Non vi chiamo più servi […] ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv. 15,12-15). Anche in questo caso l’amicizia ha un tempo ultimo, si rivela nel momento estremo prima della separazione: una speranza viene lasciata in eredità ai discepoli, la speranza di rivedere quell’«amico».

Per Leopardi e Camus tale speranza è negata; resta la fede silenziosa in un amore tra gli uomini, in un’amicizia che nasce sul finire, che, proprio nel momento in cui unisce, si oppone alla separazione, alla forza disgregatrice della morte. Restano le pagine, che continuano a testimoniare la necessità della vicinanza umana. Tanto Camus quanto Leopardi, nella loro visione dell’esistenza, ci insegnano che la vera amicizia si rivela sempre in un tempo ultimo, estremo, sul confine tra l’essere e il non essere: i veri amici testimonieranno per noi quando non ci saremo più; ma i veri amici, soprattutto, sanno restare e sanno farci restare, dandoci la forza per resistere un attimo di più. In ogni caso è una vittoria, benché umile, della vita sulla morte.

 

Note

  1. Luigi Capitano, «L’assurdo e la rivolta. Camus alla luce di Leopardi», http://mondodomani.org/dialegesthai/lca01.htm.
  2. Norbert Jonard, «Leopardi et Camus», Revue de littérature comparée, 1972, pp. 233-247.
  3. Luigi Capitano, «L’assurdo e la rivolta. Camus alla luce di Leopardi», cit.
  4. Albert Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, a cura e con introduzione di Roger Grenier, Apparati di Maria Teresa Giavieri e Roger Grenier, Bompiani, Milano 2000, p. 942.
  5. Sergio Givone, Metafisica della peste. Colpa e destino, Einaudi, Torino 2012, p. 20.
  6. Albert Camus, La peste, Bompiani, Milano 2002, p. 169.
  7. Giacomo Leopardi, Lettere, in Tutte le opere, con introduzione e a cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Sansoni, Firenze 1969, vol. I, p. 1414.
  8. Sergio Givone, Metafisica della peste. Colpa e destino, cit., p. 115.
  9. Alberto Folin, Leopardi: l’amicizia che resta, in Il volto dello straniero da Leopardi a Jabès, a cura di A. Marsilio, Marsilio, Venezia 2003, p. 136.
  10. Giacomo Leopardi, Zibaldone, 104.
  11. Alberto Folin, Leopardi: l’amicizia che resta, cit.pp. 135-146: 145-146.
  12. Albert Camus, La peste, cit. pp. 196-197.
  13. Ivi, pp. 197-199.
  14. Tra le molte considerazioni di Camus sul suo rapporto col mare cfr. la seguente, che sembra riflettersi nell’azione e nelle parole dei due protagonisti de La peste: «In mare. Il mare sotto la luna, le sue distese silenziose. Sì, è qui che mi sento in diritto di morire tranquillo, è qui che posso dire: “Ero debole, e tuttavia ho fatto ciò che ho potuto”». Albert Camus, Taccuini 1951-1959, Bompiani, Milano 2004, p. 67.
  15. Giacomo Leopardi, Operette morali, a cura di Giorgio Ficara, Mondadori, Milano 1988, p. 236.
  16. Ivi, pp. 250-251.
  17. Albert Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 939.
  18. Albert Camus, La caduta, in Opere, cit., p. 1063.
  19. Sul tema della giustizia in questo e in altre opere di Camus rimando alle interessanti pagini di Fabio Pierangeli, Indagini e sospetti. Pirandello Camus Dürrenmatt Sciascia Betti, L’Epos, Palermo 2004. In particolare su La caduta si legge: «Schegge di pazzia, profonde verità, in questo personaggio eccentrico, seduto a cavalcioni tra il desiderio della gratificazione mondana e la dimissione definitiva dalle ambizioni personali. Il romanzo ha tuttavia offerto riflessioni sul tema dell’amministrazione della giustizia. Oscillanti e contradditorie, profonde» (p. 122).
  20. Albert Camus, La caduta, in Opere, cit., pp. 1083-1084.
  21. Ivi, pp. 1085-1086.
  22. Albert Camus, Taccuini 1951-1959, cit., p. 60.

 

Luigi Capitano

L’assurdo e la rivolta.
Camus alla luce di Leopardi

L’uomo in rivolta non chiede la vita, ma le ragioni della vita.

Camus

1. Il titanismo leopardiano e i suoi precursori

Rivisitare le categorie squisitamente camusiane di «assurdo» e di «rivolta metafisica» alla luce di un precedente rimosso quale Leopardi1 può risultare alquanto istruttivo, specie se si riesce a scorgere nel pensatore italiano non già un semplice anticipatore di Camus, bensì l’inauguratore di quell’orizzonte nichilista e assurdista con il quale Camus cercherà di confrontarsi nelle sue opere di maggior impegno filosofico.

Per quanto l’atteggiamento di Leopardi oscilli spesso fra rassegnazione e protesta, la sua rivolta contro l’assurdo non rinuncia mai reclamare il senso ultimo dell’esistenza. Come ha notato anche Walter Benjamin, «la presa di posizione spirituale verso il corso naturale del mondo in Leopardi assume sempre più la forma di una ribellione».2 Non per nulla si è potuto parlare di uno spirito ribelle che è stato definito, di volta in volta, «titanico», «eroico», «combattivo».3 Né è privo di significato il fatto che Leopardi si riconosca nella figura di Bruto, confessando di abbracciare per intero la sua «filosofia disperata» e i suoi sentimenti avversi al destino.4 Si tratta di una posizione di disprezzo per ogni facile consolazione che sarà rilanciata nella figura di Tristano posta da Leopardi a suggello delle Operette morali. Un simile atteggiamento è quello che Camus avrebbe definito «rivolta metafisica», ovvero «il movimento per il quale un uomo si erge contro la propria condizione contro l’intera creazione».5 La «rivolta metafisica»6 di Leopardi sembrerebbe aver conosciuto i suoi più lontani precedenti in Epicuro, Lucrezio, Giobbe; il più recente in Voltaire.7

Secondo Lucrezio, Epicuro fu «il primo uomo di Grecia» che «osò alzare» eroicamente «gli occhi mortali» contro la Religione opprimente, il «primo ad ergersi contro» il cielo con vittoriosa e «vivida forza dell’animo».8 Dopo aver cercato invano di addolcire «col miele delle Muse» la verità del divino maestro Epicuro, Lucrezio lasciò interrotta la sua opera sulla scena impressionante della peste che infuriava ad Atene e sulla vanità degli umani affanni di fronte alla malattia e alla morte. Camus osserverà che «non è un caso se il poema di Lucrezio si chiude su di una prodigiosa immagine di santuari divini gonfi di cadaveri accusatori delle peste».9 E mentre per lui «Epicuro, nell’epopea di Lucrezio, fu il magnifico ribelle che non era».10 con Lucrezio comincerebbe a serpeggiare l’idea di un «dio personale» «sordo»11 e «assassino» contro cui si renderebbe finalmente possibile una «rivolta metafisica». La tesi di Camus è nota: «la storia della rivolta nel mondo occidentale è inseparabile da quella del cristianesimo. Bisogna attendere infatti gli ultimi momenti del pensiero antico perché la rivolta cominci a trovare un suo linguaggio, in alcuni personaggi di transizione, e in nessuno più profondamente che in Epicuro e Lucrezio».12

Dai versi di Lucrezio traspare la polemica contro l’ottimismo e il provvidenzialismo degli stoici piuttosto che contro la natura noverca e matrigna,13 anche se non mancano in lui accenti che possono apparire sorprendentemente leopardiani, specie se riletti in una luce retrospettiva. Per Lucrezio, come già per Stratone di Lampsaco14 (l’autore immaginario del Frammento apocrifo), esiste nella natura una forza arcana che sorregge tutte le cose, giocando col mondo proprio come il «fanciullo invitto» di Leopardi. È tale forza che sembra beffarsi degli uomini quando fa tremare la terra e quando, a causa dei suoi scuotimenti, «cadono le città». La natura si mostra «nemica al genere umano»: con fatica è il nascimento ai viventi, e solo con lo sforzo del lavoro la terra concede i suoi frutti. Lucrezio dipinge lo sgomento di fronte alla furia degli elementi, alla crudeltà della natura, ai morbi e alla morte acerba che si aggirano per il mondo. Tali motivi,15 insieme all’apparente rivolta contro la natura avversa, anticipano con forza il tema leopardiano della natura matrigna.

2. Al di qua della «rivolta metafisica»

Secondo Camus la «rivolta metafisica»16 è un parto relativamente recente nella storia delle idee che non può, a rigore, essere fatta risalire a «prima della fine del Settecento».17 Egli pensa al marchese De Sade quale capostipite di quella galleria di ribelli metafisici che prosegue con i nichilisti dostojesvskijani, Stirner, Nietzsche, Lautréamont, Rimbaud, Breton, ecc. Al contrario, i Greci e gli antichi in generale non poterono accedere a una vera e propria «rivolta metafisica», dal momento che quest’ultima presuppone «una visione semplificata della creazione».18 E tuttavia, con Epicuro e Lucrezio anche a Camus pare che qualcosa cominci a muoversi in questa direzione; qualcosa di ignoto agli eroi tragici (si pensi a un Prometeo). Neanche il più ribelle fra i Greci avrebbe mai osato insorgere contro la natura o il cosmo, contro quello che ancora non poteva chiamarsi «creato». Ma rimane da chiedersi: ciò che ricade al di qua del creazionismo moderno-cristiano19 è fatalmente condannato a sfuggire al pensiero moderno della rivolta, oppure quelle condizioni di possibilità rimaste inavvertite nel passato possono emergere solo a posteriori?

Pensiamo a Giobbe. Fra i precursori più o meno problematici della «rivolta metafisica» è d’obbligo soffermarsi un attimo a riflettere anche su questa figura del tardo giudaismo che mise in questione la stessa teodicea, in un tempo in cui non esisteva la necessità (e nemmeno la possibilità) di alcuna teodicea. La sua denuncia dell’incomprensibilità del male e della vanità del tutto, ossessivamente presenti nel Libro di Giobbe e nell’Ecclesiaste, rimangono i motivi che hanno fatto vibrare in Leopardi le due più irriducibili corde dello scandalo biblico. Se Qohélet rimane l’emblema della vanità universale, ad uno sguardo ex post Giobbe assurge quasi a simbolo della lotta metafisica contro l’assurdo. Nel Canto del pastore errante, ad esempio, la domanda eterna e senza risposta di Giobbe («perché la luce è data a chi pena?») 20 si ripropone insieme a quella sul senso del dolore e della stessa esistenza:

Ma perchè dare al sole

Perchè reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura

Perchè da noi si dura?21

Leopardi osserva come «Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita, ec.»,22 mentre «gli amici e la moglie di Giobbe lo stimarono uno scellerato, com’ei lo videro percosso da tante disgrazie».23 Lo spirito della lamentazione e dell’interrogazione jobica si trova diffuso in tutto Leopardi, e il pensiero corre subito alle figure dell’Islandese o a quella del pastore errante. V’è in Giobbe un’inesauribile e inappagata sete di senso che si infrange contro il misterioso silenzio di un Dio nascosto24 e lontano.25 Giobbe non si stanca di cercare le ragioni delle afflizioni che lo provano con furia tanto incomprensibile quanto ingiustificata. L’accusa di Giobbe e la sua rivolta contro l’assurdo26 sembrano precorrere da lontano la protesta di Leopardi,27 per non dire quella di Camus.

Si è ritenuto di poter ravvisare una vena d’assurdismo anche nell’Ecclesiaste28 laddove si legge che ogni occupazione dell’uomo è come un «pascersi di vento», un «inseguire il vento», testualmente: re’ut ruah, come dire un agire insensato e un vano agitarsi.29 Sennonché, il mondo dell’insensato e dell’invano non può ancora propriamente dirsi il mondo dell’assurdo, almeno finché vi sia un Dio che rimanga il garante del senso ultimo del Tutto e finché non si sia levato alcun lamento sulle rovine del senso. Pur non raggiungendo il grado di una coscienza pienamente nichilistica, la sapienza qohéletica contribuisce a porre una delle più remote premesse del nichilismo europeo. La persuasione della vanità/nullità del tutto rimane, infatti, il teorema fondante del nichilismo. A questo teorema la sapienza negativa di Giobbe avrebbe impresso, almeno secondo alcune interpretazioni, un’intonazione di segno assurdista. Ma la dimensione dell’assurdo evocata da Giobbe viene alla fine riassorbita dal mistero divino,30 né riesce a dissipare la struttura della provvidenza e della teodicea, pur mettendola coraggiosamente in discussione. Come si vede, la rivolta metafisica non scivola necessariamente verso il nichilismo più estremo. Per Leopardi piuttosto che un eroe nichilista, Giobbe rimane un ribelle metafisico e una figura sublime del titanismo antico. Gli antichi, infatti, nella loro eroica grandezza, arrivavano ad imprecare e perfino a rivoltarsi contro quelle divinità con le quali continuavano ad intrattenere un intimo legame religioso. Appena prima di nominare Giobbe Leopardi aveva accennato ai casi di Giuliano l’Apostata31 e di Niobe.32 Secondo la leggenda l’imperatore romano avrebbe scagliato contro il cielo il proprio sangue nel momento della sconfitta, maledicendo — pur ferito a morte — la vittoria del «Galileo». Il mito di Niobe è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio.33 Niobe, che fino a poco tempo prima aveva osato allontanare i fedeli dall’altare di Latona (madre di Apollo e Diana), vantandosi con troppa audacia contro la dea della propria prolificità, è quindi costretta a compiangere, impietrita dal dolore, i suoi quattordici figli spietatamente colpiti a morte dalla punizione divina. Ma si può interpretare un atto di vana superbia quale quello di Niobe come un atto di rivolta contro il volere degli dèi? «Si professava vinta ma non cedente»,34 «si racconta, se non fallo». Così Leopardi.

Secondo Leopardi, una volta tramontato l’età eroica del mito, l’individuo si ritrovò da solo, e pertanto non potè rivolgere la propria protesta che contro se stesso, essendo svanite le figure estranee all’uomo personificanti il fato. Mentre uno spirito religioso come Giobbe, oltre a maledire se stesso, poteva ancora scagliare contro il cielo il suo lamento tanto più alto quanto più forte era rimasta la sua fede e nobile e alta la sua illusione.

Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto di Giuliano moribondo, non so se sia storia o favola. Di Niobe, dopo la sua sventura, si racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente. […] . Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l’eccesso dell’infelicità indipendente dagli uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta all’odio e alle bestemmie degli enti invisibili e superiori: e questo, tanto più quanto più l’uomo […] è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec.35

Da notare l’espressione: «eccesso dell’infelicità indipendente dagli uomini», che esprime nel modo più chiaro l’essenza del male del mondo, l’irreparabile condizione metafisica dell’uomo. Nel «Preambolo» al Manuale di Epitteto (1825) Leopardi porterà ancora un altro esempio di rivolta contro il fato e di volontà di «far guerra feroce e mortale al destino»: i Sette a Tebe di Eschilo. Qui infatti la partita non è solo contro gli uomini che hanno usurpato il potere, ma contro il destino che ha decretato fin dall’inizio la sconfitta degli eroi. Già nell’agosto del 1820 Leopardi aveva scoperto il pessimismo greco «della forza» tramite l’opera di Barthelemy Voyage du jeune Anacharsis en Grèce36. A proposito di Eschilo, poi, annota:

Ses héros aiment mieux être écrasés par la foudre que de faire une bassesse, et leur courage est plus inflexible que la loi fatale de la nécessité.37

Il coraggio degli eroi, più forte della stessa legge di Ananke, è ciò che affascina Leopardi, quel loro titanismo «inflessibile», che Nietzsche chiamerà «pessimismo della forza». Camus potrà dire analogamente, con lo sguardo rivolto al suo eroe assurdo: «non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo».38

Il «Preambolo» al Manuale di Epitteto chiarisce le due posizioni paradigmatiche — la ribelle e la rinunciataria — che rappresentano secondo Leopardi la grande alternativa fra «gli spiriti grandi e forti» dell’antichità e «gli animi di natura o d’abito non eroici» caratteristici, invece, della modernità.

L’uomo non può nella sua vita per modo alcuno né conseguir la beatitudine né schivare una continua infelicità. Che se a lui fosse possibile di pervenire a questi fini, certo non sarebbe utile, nè anco ragionevole, di astenersi dal procacciarli. Ora non potendogli ottenere, è proprio degli spiriti grandi e forti l’ostinarsi nientedimeno in desiderarli e cercarli ansiosamente, il contrastare, almeno dentro se medesimi, alla necessità, e far guerra feroce e mortale al destino, come i Sette a Tebe di Eschilo, e come altri magnanimi degli antichi tempi.39

La morale di Epitteto, con la sua esaltazione dell’indifferenza tranquillizzante e anestetizzante si attaglierebbe dunque più ai tempi moderni che a quelli antichi. Le pagine 503-507 dello Zibaldone testimoniano l’oscillazione irrisolta nell’anima di Leopardi fra titanismo e rassegnazione,40 eroismo e rinuncia, un’indecisione destinata a trascinarsi fino al cosiddetto ‘ciclo di Aspasia’. Nei suoi momenti peggiori Leopardi non trova la forza per opporsi al destino, ma non sa neppure rinunciare alla lotta. Neanche quando in lui il tono pessimista si fa più disperato, egli riesce ad abbandonare ogni speranza: «La disperazione medesima non esisterebbe senza la speranza».41 È quella «disperata speranza»42 che risuonerà anche nell’opera acerba del maggiore spirito leopardiano del primo Novecento: Carlo Michelstaedter. Cadono più che mai a proposito le parole di Walter Benjamin: «solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza».43

3. Due anelli mancanti: Voltaire e Leopardi

Nella ricostruzione camusiana della «rivolta metafisica» si avverte l’assenza di Leopardi come quella di Voltaire. Dietro il leopardiano Dialogo della Natura e di un Islandese si cela infatti l’atteggiamento pessimisticamente vitale di quel Voltaire che Thomas Mann non avrà difficoltà a riconoscere come un ribelle metafisico:

Voltaire si ribellò […]. Sì, ebbe un moto di rivolta contro il fatto e fato brutale, rifiutò di abdicare [“davanti alla potenza stupida, ossia alla natura”44] . Protestò in nome dello spirito e della ragione contro quello scandaloso eccesso della natura, del quale caddero vittime tre quarti di una città fiorente e migliaia di vite umane. […] questa è l’ostilità dello spirito contro la natura, la sua superba diffidenza contro di essa, la sua magnanima insistenza sul diritto di criticarla insieme con la sua maligna e irragionevole potenza.45

Voltaire […] in nome della ragione aveva protestato contro lo scandaloso terremoto di Lisbona. Assurdo? Anche questo era assurdo, ma, tutto ben considerato, si poteva benissimo […] vedere nell’assurdo l’aspetto spiritualmente onorevole.46

Nel Poema sul disastro di Lisbona, non riuscendo ad accettare la crudeltà e l’assurdità del fato, Voltaire vi si sarebbe rivoltato contro. Ma c’è da osservare come per Voltaire l’assurdo non consista tanto nel semplice silenzio della natura, quanto nel fatto che l’uomo continui ad interrogarla invano: «la natura è muta, vanamente l’interroghiamo».47 La protesta voltairiana risuonerà anche nel Dialogo tra il filosofo e la Natura (1771), in particolare là dove viene sollevata, accanto alla «domanda fondamentale della metafisica», la vecchia sapienza silenica e la denuncia della natura che divora ferocemente se stessa.48 Quello della natura carnefice di se stessa è un topos alquanto diffuso nel Sette-Ottocento: lo si ritrova in Hume,49 in Barthelemy,50 in Goethe,51 in Foscolo,52 nonché in Leopardi,53 Fichte54 e Schopenhauer. Quest’ultimo vedeva notoriamente il mondo come «un’arena di creature […] che esistono solo a condizione di divorarsi a vicenda».55 Nel citato dialogo voltairiano il filosofo si rivolge alla Natura con queste domande:

Mia cara madre, dimmi un po’perché esisti, perché esiste qualcosa? […] Il niente varrebbe meglio di questa molteplicità di esistenze fatte per essere continuamente dissolte, di questa moltitudine di animali nati e riproducentisi per divorarne altri ed essere a loro volta divorati, di questa folla di esseri senzienti formati per provare tante sensazioni dolorose e questa folla di intelligenze che così di rado intendon ragione? A che pro tutto questo, Natura?56

La Natura risponderà al filosofo che ella non ne sa nulla, e che tanto varrebbe rivolgere la domanda più in alto: «Interroga chi mi ha fatta».57 Che abbia un senso interrogare anziché no, sembra rimanere in tal modo garantito da Dio.

Un altro importante archetipo letterario che viene tenuto presente da Leopardi nel Dialogo della Natura e di un Islandese è quel Voyage du jeune Anacharsis en Grèce (1788) di quel Barthélemy che lo aveva riaccostato al pessimismo e al «nichilismo» silenico dei Greci:

Ma da dove viene ciò che esiste? da dove viene ciò che perisce, questi esseri? Che significano questi cambiamenti periodici che si succedono eternamente sul teatro del mondo? A chi è destinato uno spettacolo così terribile? forse agli dei, che non ne hanno alcun bisogno? forse agli uomini che ne sono le vittime? Ed io stesso, su questo teatro, perché mi hanno forzato a prendere un ruolo? perché trarmi dal nulla senza il mio consenso, e rendermi infelice senza chiedermi se consentivo ad essere? Io interrogo i cieli, la terra, l’universo intero. Cosa possono rispondere? eseguono in silenzio gli ordini di cui ignorano i motivi.58

Questo brano sembra ispirato al barone D’Holbach, che considerava gli uomini sventurati per essere stati jetés dans le monde sans leur aveu, «gettati in questo mondo senza il loro consenso».59

Nell’Uomo in rivolta Camus ha dipinto una variegata quanto memorabile galleria dei ribelli metafisici. Peccato non potervi incontrare figure come Voltaire e Leopardi. Per quanto riguarda gli eroi della mitologia classica, Camus ricorda Prometeo solo per avvertirci di non cadere nell’errore di scorgere in lui un eroe della rivolta metafisica: la teodicea tragica (sempre conciliante e comunque estranea all’idea della creazione da parte di un Dio personale) impedisce una simile interpretazione. Intanto la questione che Camus mi sembra lasciare in sospeso è un’altra: possiamo mettere sullo stesso piano tutti i personaggi della (vera o presunta) rivolta metafisica?

Il Dialogo della Natura e di un Islandese è l’operetta che per molti versi segna la svolta al cosiddetto ‘pessimismo cosmico’. L’Islandese è un viaggiatore errante come il pastore asiatico, poco meditativo e perseguitato dalla natura60 come il Candido di Voltaire dalla sfortuna Come Achille fra le ombre dell’Ade, o come l’Odisseo platonico nostalgico della sorte più trascurabile. Come Giobbe «colpevole […] di qualche ingiuria»61 a lui stesso ignota. Straniero al mondo come un’anima gnostica.62 Con l’Islandese Leopardi torna a protestare insieme all’Anima (del Dialogo della Natura e di un’Anima): che colpa ho commesso per venire «abbandonato dalla natura al caso»,63 in questo luogo inospitale ed ostico? Ma ora non c’è più la promessa insostenibile da parte della Natura di conferire col destino per riuscire ad ottenere una risposta. La Natura non ha più l’alibi di un fato che la sovrasta e può finalmente essere messa alle strette. Nell’omonima operetta l’Islandese appare perseguitato a partire dal Nord più glaciale del mondo abitato fino all’Africa subequatoriale più desertica come se fosse «colpevole» di qualcosa.64

La sfingea Natura, dalla «forma smisurata di donna»,65 romperà il silenzio solo per dire che lei non si avvede «se non rarissime volte»66 dell’infelicità da lei procurata ai viventi. Ma perché così raramente? Perché l’Islandese tocca qui inavvertitamente la Natura nel suo punto più nevralgico: la coscienza umana. L’uomo è divorato o avvolto definitivamente dal mistero sublime della Natura nel momento stesso in cui scopre di essere lui stesso Natura. Questa quasi umanizzazione di una natura mostruosamente indifferente alla felicità dei viventi è ciò che rende questo monologo dell’Anima con se stessa apparentemente tragico, poiché di un monologo inespresso si tratta, e soprattutto di un dialogo impossibile fra il tragico e l’assurdo, oltre che fra il drammatico interrogare dell’uomo e l’assurdo silenzio dell’Essere. Ma a sdrammatizzare l’aria da tragedia che pure sembra spirare nell’operetta rimane la sorte caricaturalmente e iperbolicamente antiprovvidenziale dell’Islandese e il finale scopertamente umoristico67 che lascia lo spazio a un sorriso tutto metafisico.

Lontana dal molesto consesso degli uomini, l’Anima dialoga con la Natura estranea per riuscire a scoprire la radice del dolore, nella vana speranza di poterla estirpare. L’Anima ha già disimparato a reclamare una «vita vitale», una «vera vita». Chiede solo, a costo di ridurre la propria vita al grado zero («non godendo non patire», quasi una degradazione dello stoico resistere astenendosi) di poter svelare il mistero del male nel mondo. Non pretende di essere «grande e infelice» (come avrebbe detto D’Alembert),68 ma come l’Achille omerico e l’Odisseo platonico reclama anzi una vita umile e priva di inutili inquietudini: «una vita oscura e solitaria» (per dirla con le parole dell’Ottonieri).69 In fuga da un mondo pessimisticamente percepito come «lega di birbanti»,70 l’Islandese si accontenterebbe di poter raggiungere, stoicamente, la «tranquillità della vita».71 Ma la Natura non gli dà tregua e lo incalza ad ogni piè sospinto. Inizia così la protesta dello spirito più rinunciatario, antieroico e disperato al mondo. Una denuncia resa ancora più drammatica e paradossale dal tono confidenziale che si deve ad una madre pure così algida: «tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia…»;72 «tu sei nemica73 scoperta degli uomini»; «sei carnefice della tua propria famiglia».74 La requisitoria ha il tono di una dolente lamentazione, ma anche quello di una ferma e virile protesta: le continue calamità e l’impossibilità di sfuggire alla furia della natura negano il fine naturale dell’uomo, il suo diritto alla felicità. La natura appare gnosticamente simile ad una prigione squallida e inospitale: «una cella tutta lacune e rovinosa».75 Di analogo tenore appaiono i versi della Quiete dopo la tempesta: «O natura cortese/ sono questi i tuoi doni?» o quelli di A Silvia: «O natura, o natura, / Perché non rendi poi/ Quel che prometti allor? Perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?». Ma si può pure pensare ai versi della prima canzone sepolcrale: «Se danno è del mortale/ Immaturo perir, come il consenti/ […]?».76 Senza dimenticare quelli accorati dell’inno ad Arimane: «Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? L’amore? … per travagliarci col desiderio, col confronto degli altri, e del tempo nostro passato, ec. / Mai io non mi rassegnerò ec.». La risposta della Natura è sconcertante quanto disarmante: «Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte».77 La Natura rimane ovunque «ignara»,78 indifferente e insensibile fuorché in un solo punto: l’uomo, «piccola parte» della Natura, come dice Voltaire nel Dialogo tra il filosofo e la Natura (che fa da sfondo all’analoga operetta leopardiana, in cui la parte del filosofo è svolta dall’Islandese). Come nel finale del Cantico del gallo silvestre il mondo si dissolve in un sublime silenzio prima che l’«arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale»79 venga inteso da alcuno, così pure la vita dell’Islandese si dissolve nel mistero: forse divorata da due macilenti animali feroci, due leoni (epilogo tragico) o forse coperta dalla sabbia del deserto (finale assurdo). Ad uccidere l’Islandese, al di là del finale umoristico che non riesce ad allentare la tensione tragica, è la stessa atmosfera dell’assurdo che si è ormai creata; è la fame del deserto, è il deserto stesso. Ad uccidere l’Islandese è il deserto del senso, la caduta di ogni teodicea e di ogni teleologia incentrate sull’uomo. Con la comparsa dell’assurdo scompare il senso del tragico.80 L’Islandese non è un eroe nichilista, ma è un’Anima disperata e rinunciataria che, quasi fosse stata istruita su un manuale stoico di vita,81 sarebbe ben disposta a venire a patti con la Natura pur di ottenerne in cambio la garanzia del quieto vivere. Al contrario, scopre che la sua è la tragedia di un mondo da cui è scomparso il tragico e che perciò si è tramutato in assurdo. A tale assurdo non si può sopravvivere quando si sia avuto l’ardire di guardarlo in faccia «nulla al ver detraendo». L’Islandese è l’anima antieroica del mondo nichilistico nel quale abbiamo fatto ingresso allorquando abbiamo scoperto che non esiste più il fato ed è dileguato il senso del tutto. La legge bronzea della natura parla di sé come di un meccanismo cieco: un cortocircuito di produzione e distruzione senza fine né meta. La richiesta di senso del viaggiatore metafisico cade dunque nel vuoto di fronte al silenzio della Natura. L’uomo solo, in fuga dall’infelicità, si trova alla resa dei conti con l’enigma ultimo del mondo; un enigma di cui, come dirà Nietzsche in Verità e menzogna, «la natura ha gettato via la chiave».82 Nietzsche ha di fatto esplicitato il senso della rivolta metafisica leopardiana quando ha scritto (a proposito del nichilista ingenuo e insoddisfatto): «non dovrebbe darsi un essere privo di senso e vano».83 Questa protesta rappresenta benissimo l’«iperbolica ingenuità» (ancora parole di Nietzsche), il candore dell’Islandese. È l’iperbolico candore di Leopardi (quello stesso che Bontempelli ritroverà in Pirandello), il suo inguaribile umanesimo antropocentrico a spingere l’Islandese ad intentare un vero e proprio «processo alla natura».84

Nell’interrogazione spasmodica e disperata dell’Islandese risuona non solo la protesta di Giobbe sul senso del dolore e della colpa, ma si annuncia anche quella «rivolta metafisica» che solo larvatamente aveva trovato in Lucrezio e in Voltaire dei pallidi quanto improbabili precursori. Ma laddove in Giobbe il male si traduceva in nonsenso (infine dissolto e riassorbito nel mistero divino), in Leopardi è il nonsenso che si risolve in irriducibile e inesplicabile male metafisico, e quindi in assurdo. Nietzsche dirà: «Il nichilismo appare ora non perché il dolore dell’esistenza sia maggiore di prima, ma perché si trova diffidenza a vedere un ‘senso’nel male della stessa esistenza».85

A dispetto dell’immagine spiritualizzante offertane da Mann, Voltaire non era certo quel titano della rivolta metafisica da lui dipinto, ma solo uno che si sarebbe accontentato di poter coltivare, metaforicamente parlando, l’utopia possibile del «giardino» della finitezza. Bisognava, insomma, poter immaginare Candido felice. Leopardi si associa bensì alla critica voltairiana dei filosofi ottimisti alla Leibniz, ma si discosta dall’illuminista francese allorché quest’ultimo lascia uno spiraglio aperto all’utopia del principio di speranza: «Un giorno tutto sarà bene, ecco la nostra speranza;/ Tutto è bene oggi, ecco l’illusione».86 L’antiprovvidenzialismo di Leopardi appare inoltre decisamente più spinto e di quello voltairiano, scevro com’è da ogni ipoteca divina. E tuttavia Leopardi rimane d’accordo con Voltaire almeno su un punto: dalla somma di tanti mali non potrà mai risultare un «bene generale». E soprattutto il Recanatese condivide la diagnosi pessimistica di Voltaire: «Bisogna ammetterlo, il male è sulla terra»;87 «il male esiste».88 Contro Rousseau, per Leopardi come per Voltaire, non esiste un Dio di bontà. Si tenga presente che il dilemma (o tetralemma) di Epicuro era stato a suo modo risolto da Voltaire (come gli avrebbe rimproverato Rousseau) 89 a danno della bontà e provvidenza di Dio: «perché voler giustificare la sua potenza a scapito della sua bontà?»90 Resta tuttavia la grande differenza di fondo: laddove Voltaire contesta la teodicea leibniziana, Leopardi la capovolge. Per lui «tutto è male».91 La filosofia della catastrofe si rovescia in una catastrofe della filosofia. Siamo al collasso dell’ontoteologia e all’aperta crisi della fiducia metafisica nel finalismo antropologico e cosmologico. Non solo la vita manca del suo fine, ma ovunque il fine dilegua. Se «il terremoto di Lisbona fu sufficiente per guarire Voltaire dalla teodicea leibniziana»,92 esso bastò a trasformare il giardino di Voltaire, per non dire quello della Bibbia, in un universo malato.

Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo (e quindi è ben difficile il supporre ch’ella non sia un male p. [er] l’universo intero, e ancora più difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, De malheurs de chaque être un bonheur général. Voltaire, épître sur le désastre de Lisbonne […] . Non si comprende come dal male di tutti gl’individui senza eccezione, possa risultare il bene dell’universalità; come dalla riunione e dal complesso di molti mali e non d’altro, possa risultare un bene.93

Dopo Leopardi, e sulla sua scia, Schopenhauer prenderà una netta posizione contro l’ingiustificato «ottimismo» che impronta di sé il pensiero di Leibniz come quello di Rousseau,94 schierandosi nel dibattito sorto dal Poema sul disastro di Lisbona a favore di Voltaire.95 Di lì a poche pagine si trova la menzione di Leopardi che suggella la catena dei grandi pessimisti di tutti i tempi.

Se alcune condizioni del nichilismo possono essere ravvisate nel pensiero di Pascal (con la sua ipotesi di un mondo senza Dio) 96 e di Voltaire (con la sua denuncia della teodicea più ottimistica), l’orizzonte nichilista emerge solo grazie a Leopardi con un’evidenza senza precedenti. Leopardi, infatti, ha scoperto per la prima volta nella storia del pensiero occidentale che il mondo non è semplicemente irrazionale o infondato (in quanto privo di una ragione sufficiente, diceva anche Schopenhauer), ma che esso è, a rigor di termini, assurdo. Si tratta di una scoperta inaudita e di una tale portata da stentare ancora ad essere compresa. Leopardi ha scoperto non già l’insensatezza del mondo, bensì la sua assurdità, ossia la sua sordità rispetto ad ogni umano appello dei senso. Egli ha avvertito per primo l’urto e la dissonanza fra la «domanda fondamentale» e il silenzio del mondo. Laddove la semplice constatazione dell’insensatezza poteva portare alla «rassegnazione» quale «sola redenzione del mondo»,97 la lucida coscienza dell’assurdo conduce invece ad un’inevitabile «rivolta metafisica» nel senso di Camus, ossia ad una «sfida» aperta contro il nonsenso del mondo. Al contrario di Schopenhauer, Leopardi non si rassegnò mai, novello Bruto che «gl’infausti giorni/ virile alma ricusa».98 Protestò anche contro l’imperio di Arimane — in cui Dio, Natura e Fato si fondevano in una sola figura — contro cui scagliò parole veementi e titaniche: «Pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà […] Mai io non mi rassegnerò».99 Non si deve dire a questo punto che Leopardi ha svelto ben prima di Camus le radici dell’assurdo? Se sì, vediamo in che modo.

 

4. Alle radici dell’assurdo

Leopardi ha spesso utilizzato il termine «assurdo», pur limitandosi ad intenderlo in modo alquanto tradizionale, cioè senza distinguerlo bene dal controsenso, dal contraddittorio, dal paradossale. Intorno al 1820 egli poteva scrivere, ad esempio: «Pare un assurdo,100 e pure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni».101 Quando poi nello stesso anno scriveva che «il sistema della natura e delle cose è totalmente assurdo» si trattava solo di un’ipotesi ‘assurda’,102 ma questa volta in un altro senso della parola. Il giovane Leopardi non aveva ancora avvertito la crisi del sistema della natura, anzi si trascina ancora dietro l’illusione di una natura benefica corrotta dalla ragione così come l’illusione di una religione quale unico rimedio contro le assurdità di una vita destinata all’infelicità e tentata perciò dalla razionalità del suicidio. L’assurdo si affaccia così per la prima volta come un’ipotesi paradossale, quasi come una mostruosità da rimuovere. Il punto di svolta è rappresentato dalle Operette morali, in cui Leopardi progettava di illustrare «gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia».103 L’idea dell’assurdo in Leopardi si insinua soprattutto in un periodo compreso fra il 1823 e il 1825, attraverso tutta una terminologia e un fraseggiare vagamente pascaliano come: «vastità incomprensibile dell’esistenza»,104 «orribile mistero delle cose»,105 «contraddizione spaventevole»,106 «misterio grande da non potersi mai spiegare»,107 «mostruosità»,108 «arcano mirabile e spaventoso»,109 «arcana malvagità»110 del mondo. Absurdus vuol dire, alla lettera, «sordo», «dissonante», «stonato». Nei suoi versi Leopardi non avrebbe potuto essere più chiaro: «Dalle mie vaghe immagini/ So bene ch’ella discorda: / So che natura è sorda».111 Lo spirito umano erra «per mar delizioso, arcano»,112 finché un «discorde accento»113 non lo ferisce d’improvviso, ricacciando nel «nulla» quel «paradiso» che si era immaginato. Anche nello Zibaldone viene ben presto in chiaro il rapporto fra l’uomo e la natura: «Ella è cieca e sorda verso te, e tu verso lei»,114 a «ragione» del suo «gioco reo» rimane «chiusa» al «mortale».115

A proposito dell’antropomorfismo dettato dalla religione Leopardi nota che «l’assurdo si misura dalla dissonanza col nostro modo di ragionare».116 Tale osservazione può essere generalizzata. Quando, infatti, Leopardi parla del «nostro modo di ragionare», o anche delle «nostre idee»,117 si riferisce al senso comune o anche alla metafisica ricevuta, rispetto ai quali il suo «sistema» si pone in urto stridente e paradossale:

Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello di Leibnitz, del Pope, che tutto è bene.118

«Assurdo», come dice lo stesso Leopardi, è ciò che «noi» «giudichiam» «fuor dell’uso»,119 ovvero ciò che esorbita in modo stridente e improvviso («tosto in effetto») 120 dalla nostra capacità usuale di giudizio e di pensiero.

Se con Leopardi una radicale meditazione sull’assurdo era già sorta all’alba del nichilismo contemporaneo, per una prima rigorizzazione della «filosofia dell’assurdo»121 si dovrà attendere ancora un secolo. Essa sarà affidata al leopardiano Giuseppe Rensi:

che cosa significa tale pungente e dolorosa sensazione che le cose avrebbero potuto andare altrimenti? Significa che il come sono andate, sotto il dominio di quei casi futili e ciechi, urta il nostro spirito, contraddice la nostra mente. Significa che per questa esse dovevano andare altrimenti. Ossia significa che quel procedere casuale e cieco è per noi sinonimo di assurdo.122

Nella prefazione al Mito di Sisifo, Camus annuncia che il suo libro — che non per nulla reca come sottotitolo: Essai sur l’absurde — parlerà di «una sensibilità assurda, che possiamo trovare diffusa nel nostro secolo, e non di una filosofia assurda (sic! ) che il nostro tempo, per dirla schietta, non ha conosciuta». Pare tuttavia che Jean Grenier avesse a suo tempo invitato il giovane Camus alla lettura di Rensi.123 Ad ogni modo, da un punto di vista genealogico nulla impediva a Camus di attingere alle stesse fonti di Leopardi, fra le quali spiccano Pascal (e più in generale i moralisti francesi) e Voltaire. Da Pascal Camus ha ripreso soprattutto l’atteggiamento di dignità e di superiorità della coscienza rispetto alla vastità incomprensibile del tutto: l’uomo è grande perché ha coscienza di essere piccolo (Pascal); può essere immaginato felice in virtù della lucida consapevolezza di trovarsi in un condizione assurda (Camus). Pascal non rimane forse il modello ideale di ogni «salto» nella fede o «suicidio filosofico» della ragione che sarà compiuto dai vari cavalieri dell’esistenzialismo: Kierkegaaard, Chestov, Jaspers? Non è stato Pascal a parlare (in anticipo su Leopardi) di una “infelicità naturale della nostra condizione”,124 di una «condizione dell’uomo» segnata dal divorzio tragico tra il suo bisogno di chiarezza e la possibilità di raggiungerla?125 E non è Camus stesso a spendere espressioni dal sapore pascaliano come «scommessa assurda»126 e «condizione ingiusta e incomprensibile»?127 Infine, non era il nietzscheano «movimento di Pascal»128 destinato a ricadere, insieme all’adempimento della profezia assurda di un mondo sdivinizzato, anche su Leopardi e Camus?

È rimarchevole come Voltaire nei Taccuini di Camus possa fare capolino quasi come un maestro del sospetto: “Voltaire ha sospettato quasi tutto. Ha affermato pochissime cose ma bene”.129 Non so se Camus conoscesse il voltairiano Dialogo tra il filosofo e la Natura, ma difficilmente poteva disconoscere il Poema sul disastro di Lisbona. Quand’anche, come pare, si fosse concesso il lusso di ignorare in buona fede un grande precedente come Leopardi, la letteratura francese dell’età illuministica e romantica, che di certo Camus ha ben presente, non era avara di poeti dalla sensibilità non tanto lontana da quella del poeta italiano: basti pensare alla triade Chamford, Vigny, Senancour.

Per venire a fonti più sicure, nel Mito di Sisifo Camus attinge agli archetipi classici dell’assurdo: da Sofocle130 a Kierkegaard e Dostoevskij, ai maestri dell’esistenzialismo. Contro ogni «salto» o «evasione» nella fede, si tratta per Camus di “vivere entro lo stato di assurdo”,131 senza sottrarsi a questa «evidenza»132 né alle sue conseguenze: prima fra tutte quella «privazione della speranza»133 che nella «rivolta» ci rende liberi da ogni «consolazione»;134 liberi perfino dalla disperazione, procurando all’«uomo assurdo» la pura gioia di essere cosciente.135 È notevole con quanta chiarezza una simile posizione sia stata raggiunta dall’ultimo Leopardi: «rifiuto ogni consolazione […] e ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita».136

Accanto alle tracce di una posizione scetticheggiante,137 si incontra nel pensatore francese un’importante «nozione» dell’assurdo dall’intonazione vagamente rensiana, e quindi leopardiana: «Il mondo, in sé, non è ragionevole: è tutto quello che si può dire. Ma l’assurdo vero e proprio è solo nel confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza, il cui richiamo risuona dal più profondo dell’uomo»;138 «l’assurdo nasce dal confronto fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo»;139 «è il divorzio fra lo spirito che desidera e il mondo che delude».140 Camus vorrebbe distinguere da un lato il «senso dell’assurdo» dalla sua «nozione»,141 così come tiene dall’altro a che l’evidenza quasi cartesiana e solitaria dell’assurdo e della rivolta si completi nella «coscienza collettiva» capace di diventare «costante presenza dell’uomo a se stesso».142 È rimasta celebre la riformulazione camusiana del cogito: «mi rivolto dunque sono»; o anche: «mi rivolto, dunque siamo». Come si vede nel Mito di Sisifo e una volta di più nell’Uomo in rivolta, non c’è posizione assurdista che non postuli una «rivolta metafisica», e tuttavia una semplice «rivolta metafisica» non basta da sola ad assicurare una «filosofia dell’assurdo». Gli esempi di Giobbe, Lucrezio, Voltaire valgano per tutti. Nessuno di tali personaggi ha avuto accesso ad una vera e propria esperienza dell’assurdo e ad una conseguente «rivolta metafisica». Analogamente, non c’è assurdismo che non sia nichilismo, ma il nichilismo non si esaurisce certo nell’assurdismo. L’assurdismo, anzi, è la versione che il nichilismo assume alle soglie della nostra epoca proprio a partire da Leopardi. Esso consiste, come si è detto, nell’affermare che il mondo è non semplicemente insensato ma appunto anche assurdo, cioè sordo alle più profonde domande di senso sollevate dall’uomo. Dal canto suo, Camus terrà a precisare che ad essere assurdo non è il mondo come tale, ma appunto “il confronto disperato tra l’interrogazione umana e il silenzio del mondo”.143 Come abbiamo visto, questa rigorosa nozione di assurdo era già ben presente nella mente e nell’opera di Leopardi, e ancor più rigorosamente in quella di Rensi.

La rivolta metafisica di Leopardi rimanda a quella dimensione dell’assurdo che sola consente di misurare la distanza fra il nichilismo contemporaneo e le sue più o meno remote condizioni storico-genealogiche. Primo fra tutti i pensatori dell’Occidente, Leopardi ha illuminato la soglia dell’assurdo e al tempo stesso ha trovato il coraggio invincibile di venire, per dirla con Michelstaedter, ai «ferri corti» con la propria vita e con l’arcano dell’esistenza universale, al punto di sognare di poter stringere attorno alla «nobil natura» del genio poetico l’intero genere umano che «a sollevar s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/ al comun fato…».144 Leopardi ha già compiuto il passo fatale dall’esperienza solitaria dell’assurdo a quella rivolta comune contro il male metafisico che finisce col dare un barlume di senso alla nostra vita.

Camus sembra accettare in un primo momento il destino assurdo di Sisifo con la saggezza meridiana e quasi nietzscheana di chi dice di sì alla vita, accettando la propria condizione e proclamandosi superiore al proprio destino. Ma alla fine, il solitaire solidaire perviene anch’egli, come il magnanimo «malpensante» nella Ginestra, ad un ethos della solidarietà umana capace di sorreggere nella «coscienza collettiva» quell’assurdo che resta la tenace «oscurità» sfidata dal sole,145 «l’ombra che misura la grandezza del piacere che ci è rifiutato», la «peste» che «non muore né scompare».146

 

Note

  1. Lo Zibaldone e le Operette morali di Leopardi verranno rispettivamente citate secondo le seguenti abbreviazioni: Z (seguita dal numero di pagina dell’autografo) = Zibaldone, 3 voll., edizione critica rivista da R. Damiani, Zibaldone, Mondadori, Milano 1997-20033; OM = G. Leopardi, Operette morali, a cura di C. Galimberti, Guida, Napoli 1998. I Frammenti postumi di Nietzsche (nell’edizione critica Adelphi) verranno abbreviati con la sigla FP. Il presente articolo riprende e sviluppa in una prospettiva nuova un paragrafo della mia tesi di dottorato: Leopardi e la genealogia del nichilismo (Palermo 2010).
  2. Benjamin, Ombre corte. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino 1993, p. 109.
  3. Basti ricordare qui la triade di critici: Umberto Bosco, Walter Binni, Sebastiano Timpanaro. Nella ricostruzione di Bosco (Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze 1957) la rivolta contro il «fato indegno» e la «legge arcana» del Bruto Minore prelude già allo «specifico titanismo leopardiano» (ivi, p. 13). Il titano del pensiero non si ribellerebbe più contro gli uomini vili del suo tempo né cercherebbe di scuoterli dalla loro inerzia, ma si rivolterebbe contro il destino. Il «non domato nemico della fortuna» (ad Angelo Mai) cederebbe il passo alla «guerra mortale, eterna» al «fato indegno» con cui «il prode guerreggia» (Bruto Minore, vv. 38-39). Ma il titanismo si trasferisce «dall’azione al pensiero». Le Operette Morali (specie le prime venti) rappresenterebbero la piena espressione di questo «titanismo del pensiero» (Bosco, cit., p. 13), che affronta a viso aperto l’orrido vero. Il Preambolo al volgarizzamento del Manuale di Epitteto (1825) chiarisce le due posizioni — quella rinunciataria e quella ribelle — che rappresentano a suo avviso la grande alternativa fra «gli spiriti grandi e forti» tipici dell’antichità e «gli animi di natura o d’abito non eroici» caratteristici invece della modernità. La morale di Epitteto, con la sua esaltazione dell’indifferenza tranquillizzante e anestetizzante si attaglierebbe dunque ai tempi moderni piuttosto che agli antichi. Nei suoi momenti più bui Leopardi non riesce a ribellarsi al destino, ma non si abbandona neppure alla rassegnazione e alla disperazione. Da questo stato d’animo ambivalente il suo spirito cercherà di reagire e di risorgere nel biennio dei grandi Idilli (1828-’29). Così, il «pastore errante» non combatte «ma neppure accetta il destino», «riaffermando sbigottito e sconsolato l’incomprensibilità della legge di dolore che governa la vita» (Bosco, op. cit., p. 17). La filosofia di Tristano rappresenta per Bosco — e siamo d’accordo con lui — la forma più matura e definitiva del titanismo leopardiano, giacché affronta «la crudeltà del destino umano» (OM 497) «nulla al ver detraendo» (La ginestra, v. 115), compiacendosi della propria capacità di non venire «a patti» col destino e di non piegare il capo di fronte ad esso. Un simile titanismo trova la sua espressione più tipica nel ciclo di Aspasia. Nella «notte senza stelle» (Aspasia, v. 108) il poeta, sdraiato sull’erba, sorride quasi a volersi vendicare del mutevole spettacolo della natura. In Amore e morte si dichiara «renitente al fato», mentre nella Ginestra risuonano i famosi versi: «nobile natura e quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato». Questa è anche l’ultima parola di Leopardi: «non renitente» eppure «non piegato» al volere del fato. Timpanaro dal canto suo ha osservato come nel Bruto minore il «titanismo storico» si tramuti in «titanismo cosmico» (S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa, 1969, pp. 148-149). Quello di Leopardi si configura come un pessimismo senza conciliazione in una superiore sintesi, un pessimismo irriducibilmente non dialettico, ma lucidamente e agonisticamente aperto alla lotta dell’uomo contro il comune nemico: la natura o il fato (ivi, p. 174; p. 182). Se già De Sanctis aveva considerato la morale eroica «la parte più poetica del pensiero leopardiano», Walter Binni esalterà la poesia eroica assumendo la categoria dell’eroismo come la più adatta a caratterizzare l’atteggiamento protestatario del Recanatese.
  4. Leopardi, lettera a de Sinner, 24 maggio 1832.
  5. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 31.
  6. Prendiamo chiaramente a prestito tale espressione dal cap. II de L’uomo in rivolta di Albert Camus. L’immagine della «rivolta metafisica», anche senza alcun riferimento (esplicito) a Camus, è stata abbastanza sfruttata dalla critica leopardiana. Cfr. W. Binni, La protesta di Leopardi, Sansoni, Firenze 1989. p. 84; p. 126; p. 135; p. 218; p. 220; p. 224; pp. 228-229 e passim. Binni ha decifrato la posizione leopardiana come una «polemica metafisica» (p. 228) e una «protesta contro la realtà sbagliata» (pp. 84-85). È risaputo che già per Luporini il nichilismo attivo di Leopardi implica un momento di «ribellione» contro il fato (C. Luporini, Leopardi progressivo, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 120; Id., Decifrare Leopardi, Gaetano Macchiaroli editore, Napoli 1998, p. 245; p. 269). Si vedano pure G. Casoli, Dio in Leopardi, Città Nuova Editrice, Roma 1985, p. 138; B. Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Einaudi, Torino 1997, p. 127; p. 145; p. 151. Sul versante filosofico o religioso, l’idea della «rivolta ontologica» è ben presente in A. Caracciolo (Leopardi e il nichilismo, Bompiani, Bologna, 1994, p. 38; pp. 114-115; Id., Nichilismo ed etica, Il melangolo, Genova 2002, p. 72), ma anche in S. Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il Saggiatore, Torino 1988, p. 161), in Roberto Garaventa, che ha parlato anche lui di una «rivolta ontologica» (Il suicidio nell’età del nichilismo. Goethe, Leopardi, Dostoevskij, Franco Angeli, Milano 1994, p. 158; Id., La noia, Bulzoni, Roma 1997, p. 244). L’atteggiamento di “rivolta” o di “ribellione” di Leopardi era già stato avvertito bene da D. Barsotti, La religione di Giacomo Leopardi, San Paolo, Milano 2008, p. 73; p. 79; p. 221 e passim. Il recente saggio di F. Cassano Oltre il nulla (Laterza, Roma-Bari 2003) ispirato all’idea camusiana di una rivolta metafisica e solidale (cfr. Id. Il pensiero meridiano, cit., pp. 85-88).
  7. Basti pensare al Poema sul disastro di Lisbona.
  8. Lucrezio, De rerum natura, I, vv. 62-79. È stato già notato il debito di alcuni versi della Ginestra (vv. 111-114) nei confronti di questo «elogio di Epicuro» (S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, cit., p. 419 postilla alla p. 223 e n. 86). Sul pessimismo di Lucrezio vedi anche H. Bergson, Extraits de Lucrèce avec commentaire, études et notes, Delagrave, Paris, 1883; tr. it. Lucrezio, Medusa, Milano 2001, pp. 32-33. Per Epicuro il mondo è assolutamente privo di finalità: «nec ratione ulla nec arte (…) instructum» (apud Lattanzio). Cfr. E. Bignone, Lucrezio come interprete della filosofia di Epicuro, in Id., L’Aristotele perduto, Bompiani, Milano 2007, p. 1050.
  9. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 41.
  10. Ivi, p. 40.
  11. Ivi, p. 39.
  12. Ivi, p. 37.
  13. E. Andreoni Fontecedro, Natura di voler matrigna. Saggio sul Leopardi e su natura noverca, Kepos, Edizioni, Roma 1993, pp. 35 ss. L’autrice nota come la formula natura noverca non derivi a Leopardi direttamente da Lucrezio (in cui essa è, in effetti, assente), bensì ad altri autori latini (come Cicerone e Plinio) nei cui vetusta placita risuonano gli antichi adagi del pessimismo greco, che giungono a Leopardi mediante Lattanzio e Angelo Mai (scopritore del De re publica di Cicerone).
  14. Stratone parla di una vis divina (Cicerone, De natura deorum, I, 35).
  15. Ivi, vv. 195 ss.
  16. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 35.
  17. Modernità e cristianesimo sono parte di un unico movimento epocale: Benjamin Constant docet (I Padri della Chiesa, lo “Spettatore”, IX, Milano, 1817, pp. 559-564. L’articolo era già apparso sul “Mercure de France”). E si tratta di un autore noto a Leopardi come a Camus.
  18. Libro di Giobbe, 3, 20.
  19. Leopardi, Canto del pastore errante, vv. 52-56.
  20. Z 507.
  21. Z 3342-3343.
  22. La figura del Deus absconditus è comune tanto al Libro di Giobbe (13, 14; 23, 8-9) quanto all’Ecclesiaste. Cfr. Isaia, 45, 15; Salmi, 27, 8-9; 88, 47.
  23. Il Dio dei patriarchi, il Dio del patto e dell’alleanza si è eclissato. Il Dio di Giobbe, come il Dio del Qohélet, come in parte quello già annunciato dai profeti (per es. Geremia, 23, 23), è un Dio lontano, un Dio divenuto misterioso e incomprensibile. Tale sarà anche il Dio di Pascal.
  24. Libro di Giobbe, 40, 2; 13, 3; 23, 2.
  25. E. Niccoli – B. Salvarani, In difesa di Giobbe e Salomon. Leopardi e la Bibbia, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1998, p. 144; L. Marcon, Giobbe e Leopardi. La notte oscura dell’anima, Guida, Napoli 2005, p. 63. E. Bloch in Ateismo nel cristianesimo (Feltrinelli, Milano 2005, pp. 156-157) parla con simpatia di Giobbe come di un «Prometeo ebraico» in rivolta titanica contro il vecchio e inumano Dio dell’«oblio dell’etica» (ivi, p. 157) e della natura mostruosa.
  26. Ecclesiaste, 1-2.
  27. Analogamente, nel mito orientale di Gilgames è detto che «I giorni dell’uomo sono contati, qualunque cosa egli faccia non è altro che vento» (Tavoletta di Yale, 141-142).
  28. S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 2002, p. 305: «L’esperienza del dolore che nel Libro di Giobbe tocca il limite del non senso è però collocata nuovamente in un orizzonte di comprensibilità, trova una sua giustificazione, almeno in linea di principio, nell’imperscrutabile disegno di Dio. Il misterium Dei restituisce, sia pure per via mediata, senso al dolore».
  29. Secondo una leggenda cristiana risalente a Teodoreto, l’imperatore Giuliano l’Apostata prima di morire sconfitto dai Parti, avrebbe scagliato al cielo il proprio sangue, esclamando: «Hai vinto, o Galileo».
  30. Una possibile fonte è la Corinne (cap. VIII) di M.me De Stäel (cfr. C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 269 n. 19).
  31. Ovidio, Metamorfosi,VI, vv. 273-312.
  32. Z 505.
  33. Z 504-507.
  34. Leopardi cita dall’antologia: Leçons de littérature et de morale di Noël-Delaplace, vol. I, p. 488.
  35. Z 222.
  36. Camus, Il mito di Sisifo, p. 119.
  37. Leopardi, Poesie e prose, vol. II, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 1988, p. 1046.
  38. Si tratta di quelle che S. Timpanaro ha chiamato le «due facce del pessimismo» leopardiano: «la rassegnata e la combattiva» (La filologia di Giacomo Leopardi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 110).
  39. Z 1546.
  40. Z 1865. Sul topos letterario della «disperata speranza», si veda L. Sozzi, Il paese delle chimere, Sellerio, Palermo 2007, pp. 321-349.
  41. Benjamin, Le affinità elettive, in Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 243.
  42. T. Mann, La montagna incantata, Corbaccio, Milano 1994, p. 369.
  43. Ivi, p. 232.
  44. Ivi, p. 368.
  45. Voltaire, Poema sul disastro di Lisbona, 163.
  46. Voltaire, Dialogo tra il filosofo e la Natura, in Scritti filosofici, vol. II, UTET, Torino 1971, p. 628. Cfr. Id., Poema sul disastro di Lisbona, v. 118: «Nati per i tormenti, muoiono ciascuno a causa dell’altro».
  47. D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 87: «una guerra perpetua divampa fra tutte le creature viventi».
  48. -J. Barthélemy, Voyage du jeune Anacharsis en Grèce, cit., cap. XXVIII, p. 425.
  49. Goethe, I dolori del giovane Werther, 18 agosto, in Id., Romanzi, a cura di Caruzzi, Prefazione di C. Magris, Mondadori, Milano 1979, pp. 59-61.
  50. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Bompiani, Milano 1988, p. 108: «Ho già sentito tutta a tua bellezza […] Ma nella mia disperazione ti ho poi veduta con le mani grondanti di sangue; la fragranza dei tuoi fiori mi fu pregna di veleno, amari i tuoi frutti; e mi apparivi divoratrice de’ tuoi figliuoli adescandoli con la tua bellezza e co’ tuoi doni al dolore».
  51. Z 4258; Z 4485-4486; Z 4462; Z 4511; Dialogo della Natura e di un Islandese, OM 243; Paralipomeni, IV, 12, vv. 7-8. Per quanto riguarda la concezione pessimistica e autodistruttice della natura nella ‘triade’ Goethe, Foscolo, Leopardi, si veda G. Manacorda, Materialismo e masochismo. Il «Werther», Foscolo e Leopardi, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 135-145.
  52. G. Fichte, La missione dell’uomo, in Id. La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Laterza, Roma-Bari 1970, p. 51 n.132.
  53. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1999, p. 1497.
  54. Voltaire, Natura. Dialogo tra il filosofo e la Natura, cit., p. 628.
  55. Barthélemy, cit., cap. XXVIII, p. 427 (tr. mia).
  56. D’Holbach, Il buon senso, Garzanti, Milano 2005, p. 79.
  57. G. Leopardi, OM 241-242. L’immagine della natura persecutrice rimarrà, d’ora in poi, un punto di non ritorno, come conferma, ad esempio il Dialogo di Plotino: «la natura, il fato e la fortuna ci flagellano di continuo» (OM 465), alcuni versi di Al conte Carlo Pepoli (vv. 78-84), e un pensiero del 1829 in cui la natura è chiamata «persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni gen. E specie, ch’ella dà in luce» (Z 4486).
  58. Leopardi, OM 242.
  59. Anche in Camus, come in Leopardi e Rensi, sono presenti tracce di un certo gnosticismo, a partire da titoli di per sé eloquenti come: Lo straniero, La caduta, L’esilio e il regno. Cfr. F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 126.
  60. Z 1611. Cfr. G. Leopardi, Sopra un bassorilievo, vv. 77-78: «a tutti noi che senza colpa, ignari,/ né volontari al viver abbandoni».
  61. Leopardi, OM 242.
  62. Leopardi, OM 322. Forse una reminiscenza di Jean Paul (letto da Leopardi in De l’Allemagne di M.me de Stäel): «Davanti a lui sta immobile il mondo intero, come la grande sfinge egizia di pietra semisdraiata sulla sabbia» (Jean Paul, Discorso del Cristo morto, in Id., Scritti sul nichilismo, Morcelliana, Brescia 1997, p. 24).
  63. Leopardi, OM 244.
  64. Non si può dimenticare che Luigi Pirandello chiude la prima parte del suo saggio sull’Umorismo proprio evocando “quei certi dialoghi e quelle certe prosette del Leopardi” non tenute nel dovuto conto dall’Arcoleo. Si può anzi legittimamente sospettare un influsso delle Operette morali sulla teoria pirandelliana dell’umorismo.
  65. Sul «detto di D’Alembert», citato di seconda mano da Leopardi, cfr. le puntualizzazioni filologiche di E. Peruzzi, «L’edizione fotografica dello Zibaldone», in AA. VV., Lo Zibaldone cento anni dopo, Olschki, Firenze 2001, t. I, pp. 378-379.
  66. Leopardi, OM 335.
  67. Leopardi, Pensieri, I.
  68. Leopardi, OM 238; OM 241.
  69. Leopardi, OM 241.
  70. Leopardi, Paralipomeni alla Bratracomiomachia , IV, 12, 8.
  71. Leopardi, OM 243.
  72. Leopardi, OM 145.
  73. Leopardi, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, vv. 48-49.
  74. Leopardi, OM 244. Per illuminare il senso di quel «rarissime volte» si può ricorrere a Dostoevskij, laddove descrive il «suicidio logico» di un materialista annoiato della vita: «la natura non soltanto non mi riconosce il diritto di domandarle conto, ma non mi risponde per nulla, e non perché non voglia, ma perché non può rispondere; poiché mi sono convinto che la natura, per rispondere alle domande, ha destinato (inconsciamente) me stesso e mi risponde con la mia coscienza» di «querelante e querelato» (Diario di uno scrittore, Bompiani, Milano 2007, p. 609). Il ragionamento del suicida si spinge fino all’aperta «rivolta metafisica»: «condanno questa natura — che senza tante cerimonie mi ha creato per la sofferenza — a essere distrutta insieme a me» (ivi). Si tratta di un passo significativamente ripreso da Camus nel Mito di Sisifo, cit., pp. 101-102.
  75. Si pensi a G. Leopardi, La ginestra («dell’uom ignara»), nonché all’Inno ai Patriarchi («Di colpe ignara e di lugubri eventi»).
  76. Leopardi, OM 401.
  77. Il tragico muore a vantaggio dell’assurdo, mentre il senso non conciliato cede il passo al deserto del senso. L’esistenza del senso tragico della vita postula infatti l’esistenza di un Fato e di un Senso indecifrabile che il mondo secolarizzato non ammette più. Sul tema dell’impossibilità del tragico, che merita un discorso a parte, si vedano utili spunti in: P. Szondi, Teorie del dramma moderno, Einaudi, Torino 2002, p. 110; S. Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il Saggiatore, Torino 1988, p. 144; G. Anders, L’uomo è antiquato, I, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 231; Id., L’uomo è antiquato, II, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 378; E. Niccoli – B. Salvarani, cit., p. 134; p. 148; p. 150; G. Garelli, Filosofie del tragico, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 67-69; p. 87; p. 89; pp. 111-112; M. Cacciari, Dallo Steinhof, Adelphi, Milano 2005, pp. 59-60; S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 2006, pp. 191-192; S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 2002, p. 206; p. 358; Id., La salvezza senza fede, Feltrinelli, Milano 2008, p. 98; U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, p. 686.
  78. Alludo al Manuale di Epitteto, che nelle intenzioni di Leopardi avrebbe dovuto costituire il punto di partenza per il suo progettato Manuale di filosofia pratica. Cfr. E. Bigi, Dalle «Operette morali» ai «Grandi Idilli», «Belfagor», XVIII, n. 2, 31 marzo 1963, p. 136 e n. 14. Sul rapporto critico di Leopardi con il pensiero stoico, cfr. V. Steinkamp, La filosofia pratica di Giacomo Leopardi, in AA. VV., Leopardi poeta e pensatore, Guida, Napoli 1997, pp. 148-153; S. Mainberger, Felicità come indifferenza: Leopardi, Melville, Beckett, in AA. VV., Leopardi poeta e pensatore, cit., pp. 451-457.
  79. La frase si trova già in incunabolo di questo scritto, apparso l’anno precedente col titolo Sul pathos della verità (1872), dove si sottolinea la tendenza nichilistica della conoscenza (che, separata dall’arte, conduce inevitabilmente verso la «disperazione» e l’«annientamento») di contro alla funzione occultante della natura, che «nasconde la maggior parte delle cose».
  80. Nietzsche, FP 1887-1888, 11[97].
  81. Campailla, La vocazione di Tristano, cit., pp. 145-174.
  82. Nietzsche, FP 1886-1887, 5 [71], 4.
  83. Voltaire, Poema sul disastro di Lisbona, vv. 219-220.
  84. Ivi, v. 126.
  85. Ivi, v. 139. Si tratta di quel malum mundi ammessa, in un’ottica cristiana, da Alberto Caracciolo come pure da Luigi Pareyson.
  86. Voltaire-Rousseau-Kant, Sulla catastrofe. L’illuminismo e la filosofia del disastro, a cura di A. Tagliapietra, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. XXIV-XXV; pp. 20-21 n. 47, n. 57; p. 24; p. 37 n. 10.
  87. Ivi, p. 24.
  88. Moneta, L’officina delle aporie. Leopardi e la riflessione sul male negli anni dello Zibaldone, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 210-222.
  89. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 326. Cfr. Id., Metafisica. Concetto e problemi, Einaudi, Torino 2006, p. 126.
  90. Z 4175.
  91. Schopenhauer cita la Professione di fede del Vicario Savoiardo (Emilio), ma anche la Lettera sulla Provvidenza indirizzata a Voltaire. Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 1502-1503.
  92. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 1499-1503. Leopardi è ivi citato a p. 1507.
  93. Dedico un intero capitolo della mia tesi di dottorato al «movimento di Pascal» (come lo chiamava Nietzsche).
  94. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 27, tr. P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo. L’edizione Mondadori, dalla quale citiamo, traduce, invece: «vera liberazione del mondo» (p. 232).
  95. Leopardi, Bruto minore, vv. 58-59.
  96. Leopardi, Ad Arimane.
  97. L’assurdo in Leopardi si affaccerà altre volte timidamente quale eccezione al «sistema della natura», fino a quando esso non verrà drammaticamente denunciato come la regola, inaccettabile da parte dell’uomo.
  98. Z 99.
  99. Z 364.
  100. Z 1393. Vedi la lettera a Giordani del 4 settembre 1820: «Consoliamoci della indegnità della fortuna. I questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtù, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche».
  101. Z 3171.
  102. Z 4099.
  103. Z 4129.
  104. Z 4174.
  105. Leopardi, Cantico del gallo silvestre, OM 401.
  106. Leopardi, Ad Arimane.
  107. Leopardi, Il risorgimento, vv. 117-119.
  108. Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna, v. 43.
  109. Ivi, v. 47.
  110. Z 2432.
  111. Leopardi, Palinodia, vv. 166-167.
  112. Z 1470.
  113. Z 4174.
  114. Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia, IV, 20.
  115. Ivi (sott. mia).
  116. Va precisato che l’espressione «filosofia dell’assurdo» era già stata utilizzata in funzione polemica contro l’epigono di Schopenhauer Bahnsen (G. Invernizzi, Il pessimismo tedesco dell’Ottocento. Schopenhauer, Hartmann, Bahnsen e Mainländer e i loro avversari, La Nuova Italia editrice, Firenze 1994, p. 235).
  117. Rensi, La filosofia dellassurdo, Adelphi, Milano 1991, p. 197.
  118. Camus ebbe al liceo come insegnante di filosofia Jean Grenier (poi divenuto suo maestro e amico), che nel 1926 aveva già scritto in francese un saggio sullo scetticismo di Rensi nel contesto dei Trois penseurs italiens: Aliotta, Rensi, Manacorda («Revue philosophique de la France et de l’Étranger», LI, 1926, nn. 5-6, pp. 361-389). Lo scritto di Grenier si trova ora riproposto col titolo Giuseppe Rensi, le scepticisme come prefazione della Philosophie de l’absurde di Rensi, Allia, Paris 1996 (la postfazione Giuseppe Rensi et le miroir du nihilisme è di Nicola Emery). Secondo Nicola Emery (Giuseppe Rensi. L’eloquenza del nichilismo, Formello (RM) 2001, p. 99; p. 148), Grenier avrebbe consigliato a Camus la lettura di Rensi, finendo così con l’influenzare l’idea camusiana dell’assurdo. A parte il fatto che una reminiscenza adolescenziale (l’aver sentito parlare di Rensi da parte del suo primo maestro di filosofia) può avere giocato un suo segreto ruolo, resta il fatto che per varie vie — in primis Kierkegaard, Dostoevskij e Kafka — Camus aveva attinto ad una diffusa «sensibilità» già circolante sul tema, ignorando di fatto che una «filosofia dell’assurdo» era nata con Rensi a cento anni esatti dalla morte di Leopardi. Alle affinità fra Rensi e Camus ha accennato anche Sergio Givone, in una sua recensione del già citato volume di Emery: Rensi prima di Adorno e Camus. La via italiana al pensiero negativo, «L’Unità», 9 luglio 1997).
  119. È stato Sartre a notarlo (Spiegazione dell’«Étranger» di Camus, in Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 208). Nel volume citato si trovano sparse alcune considerazioni sull’assurdo in Camus (ivi, pp. 207-212; p. 252). Il modo in cui l’assurdo è rappresentato al termine della Nausea segna tutta la distanza da Camus: per Sartre l’assurdo nasce dalla superfluità e gratuità del contingente e della fatticità, non già, come in Camus (ma, si badi, già in Leopardi e Rensi!), dal dissidio avvertito fra senso (preteso dall’uomo) e non senso (del mondo).
  120. Pascal, Pensées, 437 Brunschvicg. Cfr. G. Leopardi, Z 4099-4100; Z 4129 ss.
  121. Camus, Il mito di Sisifo, cit. p. 8.
  122. Ivi, p. 12.
  123. Nietzsche, FP 1887, 9 [182].
  124. Camus, Taccuini 1942-1951, Bompiani, Milano 1992, p. 271.
  125. Il poeta tragico è espicitamente nominato nella pagina conclusiva del Mito di Sisifo. Dal canto suo, un grande studioso della tragedia, Mario Untersteiner, attento lettore di Rensi, potrà dedicare una omonima monografia a Sofocle, leggendolo proprio alla luce della categoria dell’assurdo (Sofocle, Lampugnani Nigri, Milano 1974).
  126. Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 39.
  127. Ivi, p. 46.
  128. Ivi, p. 51.
  129. Ivi, p. 55.
  130. Ivi, p. 58.
  131. Leopardi, OM 497.
  132. Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 48: «Non so se il mondo abbia un senso che lo trascenda; ma so che io non conosco questo senso e che, per il momento, mi è impossibile conoscerlo. Che valore ha per me un significato al di fuori della mia condizione?». L’atteggiamento scettico di Camus è ribadito anche più avanti (ivi, p. 50; p. 52). Ma l’apparente rigidità di una «metafisica scettica» si allenta ben presto in una specie di scetticismo metodico che nell’Uomo in rivolta sarà destinato a mettere capo a un superamento del nichilismo posto sotto il segno del «pensiero meridiano» e della «misura». Intanto, ammesso che niente abbia un senso, la coscienza di questo stesso e la conseguente rivolta dovrebbero bastare, secondo Camus, ad assicurare un senso alla nostra vita (cfr. ivi, pp. 50-51). Analogamente, l’«assurdo» verrà presentato come «l’equivalente, sul piano dell’esistenza, del dubbio metodico di Cartesio» (L’uomo in rivolta, cit. p. 10). Infatti, «grido che a nulla credo e che tutto è assurdo, ma non posso dubitare del mio grido e devo almeno credere alla mia protesta» (ivi, p. 12). Da un simile «ragionamento» riemerge inoltre il valore, il senso della vita: «il ragionamento assurdo ammette la vita come solo bene necessario, in quanto essa ammette appunto il confronto: senza la vita, la scommessa assurda non avrebbe più appoggio alcuno. Per dire che la vita è assurda, bisogna che la coscienza sia viva» (ivi, p. 8).
  133. Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 23.
  134. Ivi, p. 28.
  135. Ivi, p. 46.
  136. Ivi, p. 29. Per la verità, il tentativo di tenere distinti il sentimento o l’emozione dal concetto, l’esperienza o l’atteggiamento dall’analisi e dal ragionamento dell’assurdo non appare sempre così riuscito, specie nell’«Introduzione» all’Uomo in rivolta.
  137. Ivi, p. 51.
  138. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 8. Eppure, ciò non impedisce a Camus di continuare a parlare di un “mondo assurdo” o “irrazionale” o simili, specie nel Mito di Sisifo (cit., p. 23; p. 28; p. 40; p. 43; p. 49; p. 65; p. 91; p. 106).
  139. Leopardi, La ginestra, vv. 111-113.
  140. Non può sfuggire l’altra profonda affinità che lega segretamente Camus a Leopardi: il tema camusiano della «solarità» corrispondente a quel genio meridiano e immaginativo che accompagna Leopardi senza ripensamenti in tutto l’arco del suo pensiero. Si tratta del polo positivo del nichilismo leopardiano: il solo in grado di assicurare una direzione e un senso alla sua rivolta metafisica.
  141. Camus, La peste, Bompiani, Milano 1980, p. 235.