La più grande avventura

storia privata del cinema Western

di Paolo Repetto, 30 novembre 2016

La più grande avventura copertina

Un trailer

… e qualche avvertenza

Dagli appennini alle montagne rocciose

Sotto assedio

Fratelli coltelli

La legge del giudice Colt

Le donne e i cavalier

La pista dell’ovest

Danze di guerra e rullo di tamburi

Voglia di essere un indiano

Creste e frange

Giubbe rosse e cavalieri solitari

I buoni, i cattivi e gli antipatici

Il sapore della vendetta

Orizzonti dell’avventura

The end

Postfazione

Filmografia personale (per anno di uscita)

Bibliografia essenziale

78

Un trailer…

Questa non è una storia del cinema western. Va chiarito subito perché il sottotitolo potrebbe trarre in inganno (certo, sarebbe stato più appropriato Una storia privata e il cinema western, però teneva separati due temi che in realtà si intrecciano). Ma niente paura: per chi cerca un’introduzione seria all’argomento, o degli approfondimenti – o semplicemente non ricorda la trama o gli attori di un film – sono disponibili decine di monografie, dizionari ed enciclopedie (centinaia, se si conosce l’inglese), oltre a una sterminata letteratura che tratta cavalli e pistole in chiave psicanalitica, sociologica o filosofica. Ci si può anche affidare alla rete, che consente verifiche istantanee passabilmente attendibili, e permette addirittura di rivedere “on demand” buona parte delle pellicole. Insomma, difficilmente avrei potuto dire o aggiungere qualcosa di nuovo: e comunque non era questo il mio intento.

Quella che racconto è invece una storia molto privata, anche se probabilmente non diversa da tante altre: un omaggio al genere western che non ha pretese critiche e nasce da un interesse davvero amatoriale – nell’accezione più letterale del termine, cioè da una passione. É una storia movimentata, in linea con l’argomento, perché narra dei continui sconfinamenti in quella “terra di nessuno” nella quale sessant’anni fa s’incontravano lo spazio mitico creato dal western e quello quotidiano, non meno favoloso, della mia infanzia. Ho viaggiato lungo quel confine ancora per tutta l’adolescenza, e anche oggi, appena si dà l’occasione, torno a varcarlo. Per questo la storia si intitola “La più grande avventura”: non è solo la citazione di un film di Ford: era davvero il massimo che un ragazzo nato a ridosso dell’ultima guerra (fatta eccezione forse per Messner) potesse sognare.

L’avventura però non l’ho solo sognata: sono riuscito in qualche misura a entrarci. Ho subito l’incanto delle immagini che scorrevano sullo schermo come di quelle che le annunciavano dalle locandine e dai manifesti, ho rivissuto a modo mio le storie, mi sono identificato nei protagonisti. Ma sono andato oltre.

Ho trasferito l’immaginario nella quotidianità, coltivando poco alla volta, prima nel buio della sala e poi alla luce del gioco, una embrionale coscienza etica. Se sono cresciuto nel culto dell’amicizia, della lealtà e della coerenza (che non significa essere sempre leali e coerenti, ma almeno vergognarsi quando accade di non esserlo) credo di doverlo proprio all’imprintig del grande schermo.

Non sto esagerando: sino a otto anni ero un bambino solitario, impacciato nei rapporti con gli altri e in ogni attività pratica, che preferiva la compagnia dei libri a quella dei suoi coetanei. Uno, insomma, potenzialmente candidato al Nobel o agli altari, ma per il momento relegato a quelli sacrificali, e nel ruolo di vittima. La frequentazione del western mi ha offerto una via di fuga: era un corso accelerato di riscatto, che proponeva storie semplici di resistenza morale ed esempi pratici su come opporre anche fisicamente questa resistenza. Ho preso quelle lezioni sul serio, giocandomi il Nobel e applicandone gli insegnamenti con sin troppo entusiasmo: tanto che a quattordici mi consideravo un giustiziere e cercavo in giro torti da raddrizzare e nasi da spianare. Per fortuna ho continuato ad amare anche i libri, e questo mi ha probabilmente salvato da una carriera di teppista. A distanza di sessant’anni dalla scoperta della frontiera di carta e di quella di celluloide resto dunque convinto che nemmeno la scuola abbia influito altrettanto sulla mia formazione. Il western mi ha fornito una rozza educazione sentimentale, la scuola l’ha semplicemente raffinata e rafforzata.

… e qualche avvertenza

1111Quando ho iniziato a pensare a questa ennesima “risalita alle fonti”– la terza, dopo quelle sui libri e sui fumetti – avevo in mente di scegliere una decina di film, quelli che erano stati per me più significavi, per introdurre attraverso ciascuno di essi un tema diverso (l’assedio, la vendetta, gli indiani, il duello, la carovana, ecc). Un disegno logico quindi nelle intenzioni c’era. Ma è saltato quasi subito.È accaduto che per colmare i vuoti di memoria scavati dall’età ho riesumato un paio di quaderni dalla copertina nera – li passava il patronato scolastico – sulle cui pagine avevo incollato per anni i ritagli di recensioni e trame: e ho anche compulsato alcune di quelle enciclopedie e monografie che consigliavo in apertura agli appassionati, oltre ai vecchi cataloghi di una casa distributrice. Come prevedibile, a quel punto la materia mi ha preso la mano e si è mossa per conto proprio. Sono riemerse storie che non ricordavo, personaggi che pensavo non avessero lasciato traccia: il mondo dei ricordi è entrato in ebollizione e non mi ha più consentito di governare le scelte. Del disegno originario è rimasto solo lo schema: per il resto ho proceduto alla rinfusa, saltando da un film all’altro, disperdendo il discorso in mille fili e mescolando alla memoria le mie personalissime riflessioni sull’universo mondo. Spero solo che questo non renda troppo pesante la lettura, perché io mi sono divertito, e vorrei che un po’ di quel divertimento si trasmettesse anche ad eventuali lettori.

Della passione per il western ho già parlato in più occasioni, anticipando nella sostanza molte delle tematiche che volevo riprendere qui. In qualche caso avrei dovuto semplicemente ripetere con altre parole gli stessi concetti, cosa che mi sembra francamente inutile. Per questo, quando ho ritenuto che sintetizzassero in maniera efficace il mio pensiero o le mie emozioni, ho trascritto integralmente passi di testi precedenti, con la sola accortezza di riportarli in corsivo. Potrebbe sembrare pigrizia (un po’ senz’altro lo è), o magari presunzione, ma io preferisco considerarla una concezione ecologica della scrittura.

La mia storia privata del cinema western si concentra su opere prodotte tra l’avvento del sonoro e l’esplosione degli “spaghetti western”, in quello che considero il trentennio d’oro (1935-1965), e che ho conosciute nell’infanzia o nella prima adolescenza. Gli sforamenti, pochi, riguardano film egualmente importanti per il mio immaginario, ma visti in un clima e con una disposizione d’animo molto diversi. Non trova invece posto nel racconto il western all’italiana. Intanto perché non appartiene al periodo della mia formazione, ma soprattutto perché non corrisponde a quelli che considero i “canoni” classici, per quel concerne sia i personaggi che le situazioni, e non ultimi i paesaggi. Inoltre è un west che non contempla la presenza degli indiani, il che è tutto dire. Tranne pochissime cose di Leone e di alcuni suoi discepoli, il resto l’ho sempre trovato insopportabile. Oggi ne ho la riprova. A differenza di quelli classici, sui quali la patina del tempo ha creato un alone epico, i western all’italiana sono decisamente inguardabili.

La mia età evolutiva non ha coinciso solo con la piena maturità del cinema, con la sua età dell’oro, ma anche con l’affermazione del modello americano e dei valori che attraverso la leggenda del west questo modello si portava appresso: l’assenza di stratificazioni sociali, l’uguale dignità, le opportunità offerte a tutti, la sconfinata libertà individuale, la lotta contro forze semplici ed elementari. Non importa poi quanto nella realtà il modello fosse improbabile o falso. Rispondeva alla voglia di eroi limpidi, di tornare ad una infanzia del mondo che due guerre successive avevano macchiata. Credo che ciò abbia segnato non solo me, ma in qualche misura tutta quanta la mia generazione.

Infine. Ho provato a fare una stima “quantitativa”, molto all’ingrosso, dei western che ho visto tra i sei e i sedici anni, confortando la memoria con i riscontri sui cataloghi della San Paolo Film. Sono almeno un centinaio. Se è vero che la quantità, oltre un certo limite, diventa qualità, sono un westerner onorario.

 

Dagli appennini alle montagne rocciose

Prima di diventare un lettore – e a leggere ho iniziato molto presto – sono stato uno spettatore. Devo aver visto il primo film quando ancora ero in fasce, alla faccia di tutte le moderne teorie pedagogiche sull’approccio ovattato a suoni e immagini, e penso di non aver subito traumi. Anzi, probabilmente quei suoni e quelle immagini hanno educato dei sensori speciali. Senza dubbio hanno svegliato l’appetito. Sono cresciuto letteralmente affamato di storie, scritte o narrate per immagini: non storie che offrissero una via di fuga, per nascondermi, ma storie da proiettare sulla realtà, per insaporirla e arricchirla. Il mondo in cui vivevo non era quello di Oliver Twist, e anzi, tutto sommato non era affatto male. Ma non mi bastava, come immagino accada a tutti i ragazzini di ogni epoca e di ogni paese: con l’aggravante che essendo di indole particolarmente sognatrice non volevo solo di più, volevo proprio altro, altri luoghi e altri tempi. E devo dire di essermi trovato a vivere in condizioni ambientali perfette per la produzione di sogni.

Lerma è un piccolo paese di collina, alle falde dell’Appennino. Fino alla metà del secolo scorso era un villaggio agricolo, legato ad una agricoltura povera, quasi di sussistenza: i mezzi per lavorare la terra e i modi e i tempi erano rimasti pressappoco quelli dei coloni romani. Negli ultimi sessant’anni è molto cambiato, nel senso che ha perso anche quella fisionomia, senza peraltro acquisirne una nuova. All’epoca però, pur essendo un paese povero, almeno sotto un aspetto era un po’ più ricco degli altri della conca dell’ovadese: e questa differenza era rimarcata volentieri dai lermesi, a segno di una superiorità culturale, e patita dai loro vicini. Per circa vent’anni, a partire dall’immediato dopoguerra, Lerma ha potuto infatti vantare due cinema, quello parrocchiale (il cine-teatro GIAC – Gioventù Italiana dell’Azione Cattolica) e quello della Società Filarmonica. Considerando che l’obbligo scolastico era fermo a cinque anni, che la televisione non era ancora entrata nei soggiorni di tutte le case (in verità non c’erano neanche i soggiorni), e che nei locali dei cinema si svolgeva anche una attività teatrale e musicale (il paese vantava da tempo una compagnia filodrammatica e una banda musicale), si può comprendere la presunzione di superiorità dalla quale erano affetti i lermesi e sulla quale ironizzavano i confinanti, ad esempio quelli di Mornese, definendoli “signori con le pezze al culo”. Salvo poi spostarsi, a volte anche a piedi, per godere di un paio d’ore di magia e di divertimento. I due esercizi erano naturalmente in feroce concorrenza, e nell’epoca d’oro arrivarono ad offrire nei fine settimana quattro spettacoli diversi. Di questa ricchezza e di questa rivalità sono stato nel mio piccolo partecipe, perché tra i dieci e i quattordici anni ho svolto la mansione di proiezionista presso il cinema parrocchiale: il che aveva i suoi lati positivi, dal momento che non pagavo il biglietto (ma le bibite si) e divoravo i cataloghi illustrati della San Paolo, ma anche quelli negativi, perché mi sono perso quasi tutti i film passati sullo schermo della Società (li avrei persi comunque, perché la Società era impropriamente considerata una creatura dei “comunisti”, e mia madre non me la lasciava frequentare). Questa sarà dunque la storia di film visti, ma anche di alcuni non visti e rimpianti per anni.

La concorrenza tra il cinema parrocchiale e la Filarmonica si giocava non tanto sulla qualità dell’offerta, in realtà non molto diversa, quanto piuttosto sul clima di contrapposizione frontale, alla Peppone e Don Camillo, che nella provincia profonda italiana è durato ben oltre l’avvento del centrosinistra. In una bacheca appesa al tamburo d’ingresso della chiesa parrocchiale venivano periodicamente esposte le classificazioni morali assegnate ai film dall’autorità ecclesiastica (il CCC, Centro Cattolico Cinematografico). C’erano quattro voci: per tutti, per adulti, sconsigliato, escluso (una quinta, decisamente consigliato, era riservata ai polpettoni biblici o neotestamentari, tipo Quo Vadis o La Tunica, oppure alle biografie di santi come Maria Goretti o Domenico Savio): va da sé che i film proiettati alla Filarmonica risultavano sempre come minimo sconsigliati, si fosse pure trattato di Gianni e Pinotto, e appena possibile esclusi. Totò era all’indice come Leopardi e Voltaire (ma anche come Sfida all’O.K. Corral). I giudizi sui film in programmazione venivano poi ribaditi nella predica domenicale, diventando spesso pretesto per filippiche moralizzatrici. Non che la cosa dissuadesse i lermesi dal frequentarli (i film di Totò, non certo Leopardi), ma almeno li faceva sentire un po’ in colpa.

D’altra parte, il GIAC aveva poche altre armi per difendersi. Tecnicamente era in netto svantaggio. La sala era stata ricavata da un vecchio oratorio, trasformato in teatro. Era carina, ma piccola e difficile da riscaldare, malgrado due grandi stufe a legna. Il proiettore era un sedici millimetri, contro il trentadue dei concorrenti, mentre per la distribuzione ci si affidava (obbligatoriamente) alla San Paolo, che non era certo una potenza del settore e raccattava in prevalenza titoli in circolazione da anni e dismessi da altre società. Solo in occasione delle grandi festività riuscivamo ad avere qualche kolossal (l’anno in cui a Pasqua ottenemmo I dieci Comandamenti lo proiettai per cinque volte in tre giorni. Durava quattro ore, e la sera del lunedì santo ero un ateo convinto). Lo scarto temporale minimo rispetto alle “prime visioni” era in genere di cinque o sei anni, per cui la gran parte delle pizze arrivavano in condizioni da macero. Anche i Cinema-Luce che precedevano la proiezione (rinominati La Settimana Incom) erano d’annata: di norma mostravano immagini del campionato di calcio o del giro d’Italia di quattro anni prima, o inaugurazioni di ponti già crollati da parte di ministri già trombati. Ma questo almeno creava effetti divertenti, forse più delle comiche, che erano quelle di Ridolini o di Buster Keaton, e risalivano all’anteguerra.

Fatte salve le grandi occasioni, il pubblico era sempre lo stesso: uno zoccolo duro di gruppi familiari al completo, di vecchiette che partecipavano per dovere, come alla messa o ai vespri, di ragazzi e giovinette dell’azione cattolica. La variabile era costituita proprio dai ragazzini della mia età o di qualche anno in più, che seguivano invece l’onda dell’avventura. La mia famiglia era comunque tra le più assidue. Mia madre andava orgogliosa del mio ruolo, mio padre indossava per l’occasione la protesi ortopedica (l’”apparecchio”), una gamba in legno e cartapesta, pesantissima, che in realtà gli limitava i movimenti e doveva procurargli una vera tortura. Gli orari erano combinati in maniera tale da consentire, al termine della proiezione, un rapido trasferimento di tutti gli spettatori dall’oratorio al circolo parrocchiale, dall’altra parte della strada, per seguire Studio Uno o il teleromanzo domenicale. Quando c’era concomitanza con sceneggiati di particolare richiamo, come Piccolo Mondo antico, Il romanzo di un maestro o Il caso Mauritius, era necessario anticipare il primo spettacolo alle sette (era prevista una eventuale ripetizione del primo tempo, su richiesta dei ritardatari): si cercava comunque sempre di mandare a letto le vecchiette e i giovinetti ad un’ora decente. D’estate, quando salivo in cabina di proiezione il sole era ancora alto nel cielo.

Prendevo molto sul serio la mia funzione. Persino troppo. Ero perennemente in ansia per stato delle pellicole, in genere sfocate o deturpate da righe verticali, e talmente consunte da strapparsi tre o quattro volte per sera, sollevando cori di fischi e di proteste. A volte l’audio non era sincronizzato con le immagini, e sentivi un poveraccio esalare l’ultimo sospiro mentre già lo seppellivano. In un paio di casi arrivarono pizze di film diversi contrassegnate con lo stesso titolo, per cui, dopo aver lasciato al termine del primo tempo i fratelli Rico alle prese con una banda di gangster, alla ripresa ti trovavi con Errol Flinn nel bel mezzo di uno scontro a cannonate tra galeoni. Quando non era la pellicola, era l’impianto elettrico a fare le bizze: stante l’ingorgo di fili volanti che correvano in sala e nella cabina di proiezione, è da reputarsi un miracolo che non sia mai andato a fuoco il locale. Ho sempre sofferto della sindrome del dio ordinatore. Avrei voluto che tutto funzionasse alla perfezione, che il pubblico si divertisse: ne spiavo le reazioni dalla finestrella della cabina, quest’ultima appollaiata su un trespolo che la faceva sembrare la coffa di una nave, e altrettanto ardua da raggiungere. In realtà non tenevo solo alla reputazione del locale, c’era di mezzo anche la mia. Ai tempi della carriera da proiezionista ero già un inveterato fondatore di bande e un instancabile organizzatore del gioco, e il peso del cinema sulle mie relazioni quotidiane era enorme: ogni storia un po’ avvincente che passava sullo schermo si depositava sulla nostra pelle e nella nostra fantasia e veniva poi rielaborata e reinterpretata nelle settimane successive. Uno dei motivi più frequenti di litigio erano proprio le nostre preferenze e le virtù degli eroi che ci eravamo scelti. Ad alcuni miei coetanei sono rimasti addirittura incollati i nomi dei personaggi di cui si erano infatuati (Franco è rimasto Kociss per tutta la vita: qualche tempo fa un comune amico mi ha chiesto quale fosse il suo vero nome).

Ora, come motore del gioco nulla funzionava altrettanto bene quanto una storia western: per quelle di cappa e spada o per i peplum c’era il problema dell’abbigliamento e di una ambientazione credibile (difficile girare per il paese con la tunica o trovare qualcosa che somigliasse ad una nave pirata), mentre per il nostro west di cortile, e più tardi di quel formidabile terreno di scontro che era il bosco della Cavalla, erano sufficienti le pistole a capsulina comprate alla fiera o il fucile Bengala a canne sovrapposte. Si capisce quindi perché, come dispensatore di cinema, sentivo la necessità di proporre ai miei coetanei storie avvincenti, possibilmente western, che li aggregassero attorno a me e che, condivise, fornissero nuove trame per il gioco.

Naturalmente, in una sala così periferica arrivavano talvolta anche veri pezzi d’antiquariato, film degli anni trenta ancora in catalogo alla San Paolo: ciò mi ha consentito di vedere ad esempio le ultime interpretazioni di Tom Mix, quelle col sonoro, di Hopalong Cassidy e di Roy Rogers. Erano storie datate anche per palati grossolani, figuriamoci per il mio. Alla gran parte dei miei amici andava bene tutto, purché si trattasse di cavalli e pistole, mentre io ho manifestato da subito una forte vocazione critica, che ho poi applicato per tutta la vita in tutti i campi, e soprattutto nei confronti di me stesso. Sono un critico benevolo (questa, almeno, è la mia versione, altri la pensano diversamente), che comunque non pretende la perfezione e non crede di detenere la verità: ma mi piace che le cose siano fatte, quando è possibile, con cura e professionalità. Ero quindi critico nei confronti di certi fumetti, per l’approssimazione del disegno o per la banalità delle storie, e lo ero tanto più nei confronti del cinema, quando venivano introdotti elementi che stridevano con la verosimiglianza. Va bene la favola, ma anche da una favola ti aspetti che sia ben raccontata, con una certa coerenza. La verosimiglianza che chiedevo nei western riguardava i luoghi, il contesto storico, le armi. E su questi elementi ero davvero agguerrito. Non ho posseduto un atlante sino alla fine delle medie, ma in compenso avevo una grande carta degli Stati Uniti. Era allegata ad un libro sulla storia americana, di quelli distribuiti alla fine della guerra dagli alleati a scopo di propaganda. La conservavo come una reliquia: non solo pezzavo ogni piccolo strappo e avevo il monopolio assoluto della consultazione, ma ho continuato ad aggiornarla per anni, mano a mano che scoprivo le dislocazioni delle varie tribù indiane o i luoghi delle più famose battaglie. Nel frattempo avevo anche cominciato a disegnare in proprio cartine sempre più dettagliate, prendendo a modello quelle inserite ogni tanto da Galeppini negli albi di Tex, con le mesetas, i canyon, i fortini e i deserti dell’Arizona. Ne ho prodotte centinaia, di ogni tipo: e ogni film e ogni lettura mi offrivano nuovi spunti.

Quanto alla storia americana, i primissimi input li ho trovati appunto in quel libro, anche se sulla conquista del West era piuttosto reticente. Il resto è venuto da sé, da una bulimia di letture che mi procurava sempre nuove tessere per comporre il mosaico. Dopo aver divorato L’ultimo dei mohicani e le Straordinarie avventure di Testa di Pietra ero forse l’unico bambino italiano che a sette anni sapeva che si era combattuta una Guerra dei Sette Anni, e dove, e chi stava da una parte e dall’altra, e con chi era schierata la confederazione delle cinque nazioni indiane. I libri di Piero Pieroni mi hanno poi raccontato tutto il secolo successivo.

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Infine le armi: con una madre obamiana ante-litteram potevo scordarmi le Pecos a tamburo vendute alla fiera del venticinque aprile, e così me le costruivo da solo, di legno; almeno fino a quando non cominciarono ad arrivare da Genova le forniture clandestine di mia zia, che da brava portinaia recuperava i giocattoli dismessi di un intero palazzo (oltre a libri e riviste). Le barrette e le viti di un vecchio Meccano – e soprattutto l’inventiva di un vicino impallato di meccanica – mi aiutavano ad assemblare i pezzi rottamati, che con un po’ di fantasia tornavano a somigliare a fucili e pistole, e persino a mitragliatori. Col tempo mi ero creato in questo modo un piccolo arsenale, al quale attingevano al bisogno anche i compagni di gioco. Per gli archi e le spade, poi, la Cavalla offriva una riserva inestinguibile di piante dal legno facilmente lavorabile. Dal frassino, ad esempio, svuotato del midollo bianco, si ottenevano delle cerbottane micidiali, soprattutto se usate per sparare pinocchietti di carta con chiodi in punta.

Quando Umberto Eco consiglia ai genitori di riempire di armi giocattolo i loro figli ha perfettamente ragione, perché da adulto non ne ho poi mai detenuta una vera (se si eccettua l’arco della Browning, che non penso possa essere considerato un’arma a pieno titolo – a meno di volerlo usare come tale). Possiedo in compenso due perfette riproduzioni della Colt Navy e della Colt Army, una pistola a capsula del primo Ottocento con il calcio di legno rifatto al tornio e quattro o cinque volumi sulla storia delle armi antiche. All’epoca ero comunque già in grado di cogliere ogni anacronismo che passasse sullo schermo, ad esempio l’uso di fucili a ripetizione prima della guerra civile, e contavo i colpi sparati dall’eroe durante quegli eterni duelli tra le rocce nei quali non ricaricano mai. Insomma, magari ero anche un rompicoglioni, ma gli strumenti per una rudimentale lettura critica li avevo, e li usavo implacabilmente. Un paio di dettagli sbagliati, e il film diventava sconsigliato o escluso.

Non vorrei però dare l’idea di una pedanteria capace di azzerare il divertimento. Mirava al contrario ad aumentarlo. Fare bene le cose è già un divertimento di per sé. Allo stesso modo, la ripresa di trame e personaggi dai film non significava mettere in scena dei patetici tentativi di imitazione. Ne facevamo un uso molto libero, mescolando vicende e protagonisti, alla ricerca dell’avventura ideale. Lo spirito di quelle ricostruzioni era lo stesso che ha portato Steven Spielberg, appena ha potuto permetterselo, a girare Indiana Jones. Persino i migliori tra i western avevano qualche momento di stanca, soprattutto quando comparivano delle figure femminili o si dibattevano dilemmi morali. Nel gioco questi tempi morti erano eliminati, si tagliava e si rimontava lasciando in scena solo l’azione pura. Quando portai mio figlio a vedere il primo capitolo della saga di Indiana mi resi conto che era ciò che avevo sognato per tutta l’infanzia: un eroe che saltasse letteralmente da un’avventura all’altra, che non avesse tempo e attenzioni per le donne, che non esitasse a far fuori i suoi assalitori senza pensarci più di un attimo. Erano i ritmi del fumetto applicati al grande schermo, quelli suggeriti ad esempio dalle immagini scelte per i manifesti.

Oltre che privata, questa storia è infatti anche illustrata. Nasce anzi proprio dal fascino che esercitavano su di me i manifesti cinematografici, e che perdura, tanto che questa mia voglia di raccontare è nata proprio dal casuale ritrovamento di un manifesto rimasto appeso per vent’anni in camera. Di lì è partita una ricerca in rete sempre più frenetica, ricca di impensate agnizioni, che mi ha portato a visionare centinaia di locandine, tutte quelle dei film che la memoria faceva tornare a galla. E come per le madeleine proustiane, ad ogni riconoscimento erano associati aneddoti, personaggi, suggestioni: ho percorso così a ritroso una fetta importantissima della mia formazione, etica e culturale.Credo che la mia generazione, l’ultima cresciuta in epoca pre-televisiva, abbia avuto un rapporto particolare e unico con la cultura dell’immagine, legato ad una accessibilità divenuta universale con il fumetto e con i libri illustrati, ma soprattutto attraverso il cinema. Non si trattava però di un accesso illimitato e immediato come quello consentito oggi dai nuovi media: c’erano delle limitazioni economiche, per me come per tutti i miei compagni. Fino a dieci o undici anni la mia famiglia non ha mai comprato un libro che non fosse scolastico – per fortuna c’erano i regali – e nemmeno era concepibile spendere una lira per i fumetti: Questi ultimi li ricevevo come compenso dal giornalaio per l’aiuto che gli prestavo.

C’erano inoltre dei vincoli temporali, dettati per i fumetti dalle scadenze delle uscite (le storie non erano quasi mai autoconclusive) e per il cinema, soprattutto per coloro che non vivevano in città, dalla limitatezza dell’offerta. Ma proprio questo rendeva così preziose e importanti quelle immagini. Come il (continua) col quale si chiudeva ogni albo, sempre nel bel mezzo di un’azione, così il Prossimamente! che campeggiava sui manifesti dei film di futura programmazione creava attorno ad essi un’attesa che faceva cornice, consentiva di fantasticarci sopra, immaginare storie e anticiparle già nei giochi. Rivisti oggi quei manifesti – e quelli dei film western in particolare, anche prescindendo dalle mie preferenze – mantengono intatto tutto il loro fascino: sono opere d’arte, almeno per quanto concerne l’efficacia nella trasmissione del messaggio (ma non solo per questo). I migliori sono proprio quelli degli anni quaranta e dei primi anni cinquanta, quelli appunto che ho visto passare io, illustrati manualmente, con colori sgargianti, che ritraevano in primo piano i protagonisti in azione e sullo sfondo l’ambiente e la storia. Nel periodo successivo l’azione ha invece progressivamente lasciato spazio ai volti degli interpreti, e il disegno alla fotografia, giocando più sul richiamo del divismo che sulla promessa di emozioni. Per questo, soprattutto nel caso dei western, la distribuzione italiana creava manifesti diversi da quelli originali, più adatti ai gusti di un pubblico provinciale che guardava alle storie prima che ai protagonisti, e talvolta molto più belli.

Lo stesso valeva per i titoli. Quando nell’originale c’erano riferimenti a luoghi, popoli o avvenimenti che per lo spettatore italiano non avrebbero significato nulla (ad esempio, Oklahoma territory), si piazzava un bel Rivolta indiana nel West e si risolveva il problema. In effetti i titoli avevano una grossa parte nella suggestione: mentre La carica degli Apache o Le frontiere dei Sioux non lasciavano dubbi, sapevamo cosa attenderci, le traduzioni letterali degli inglesi The half breed (Il mezzosangue) 0 The Nebraskan non ci avrebbero ispirato granché. Alcuni titoli poi, come Tamburi lontani o Segnali di fumo, erano particolarmente evocativi: si poteva davvero immaginare il meglio.

Le immagini associate ai miei ricordi sono in bianco e nero per i film e a colori per i manifesti e le locandine. Accadeva anche nei fumetti, almeno fino a tutti gli anni sessanta: sia in Tex che in Corto Maltese solo le copertine erano in quadricromia. Credo che al GIAC siano passati pochissimi western colorati – forse Là dove scende il fiume e un paio d’altri – e quelli persi al cinema li ho visti poi nei primi anni della televisione, quindi rigorosamente in bianco e nero. Si è creata insomma una sorta di bolla temporale entro la quale tutta l’epopea western è rimasta per me a tinta unica. Quando nei primi anni sessanta il colore ha trionfato già stava subentrando il disincanto, mio ma anche del cinema stesso. Io ero in difficoltà a uscire da quella bolla, perché vista a colori anche la vita mostra più evidenti le differenze e le sperequazioni, mentre il cinema si trovava di colpo a combattere per la sopravvivenza, e quindi a doversi adeguare ai gusti degli spettatori, anziché dettarli, perché la televisione gli stava rubando il ruolo e gli investimenti: ciò che significava virare sempre più verso il basso, privilegiando gli effetti spettacolari, comunque ottenuti, a discapito delle storie. “Suoni e colori stanno divorando ogni possibilità di racconto. Il cinema accarezza, ormai. Sospira e sbaciucchia. Morde sempre meno” diceva Sergio Leone, ed era uno che se ne intendeva.

La monocromia della memoria non riguarda solo il cinema, ma tutto il mondo della mia infanzia. Il fatto è che quel mondo lo ricordiamo in bianco e nero perché era davvero in bianco e nero, sia pure declinato in tutte le sfumature intermedie (mio padre, mio nonno, mia nonna e le mie zie, non li ho mai visti indossare un abito colorato). E così ci era rimandato non soltanto dalle fotografie ma anche dai quotidiani, dagli albi a fumetti e da rotocalchi come l’Europeo, La Domenica del Corriere e Oggi, e dai noir e appunto dai western classici. Al più erano a colori le copertine, le locandine e i manifesti, a segnare l’ingresso in un’altra dimensione: ma all’interno anche questa era poi monocromatica. Perciò ogni ricostruzione colorata (ad esempio gli sceneggiati televisivi, quelli che oggi chiamano fiction e che raccontano la storia di Girardengo o di Majorana; o i film, come quello tratto da Levi, arrivati dopo che ci eravamo fatti gli occhi e la coscienza sui documenti filmati della guerra e dei campi di sterminio e sulla Settimana Incom) suona insopportabilmente falsa: perché quei colori non appartenevano a quel mondo.

Devo tuttavia ammettere, anche se i western li ho visti quasi tutti in bianco e nero, e li preferisco così, che quelli realizzati in Tecnicolor nella prima metà degli anni cinquanta avevano un loro fascino particolare. Quel fascino era però legato alla ricchezza satura dei colori, alla loro non naturalezza. Erano colori luminosi e vivacissimi, senza sfumature, simili a quelli usati dai grandi illustratori, che rendevano nitidi anche i particolari: quindi colori innaturali, e adatti a raccontare una meta-realtà piuttosto che a documentare l’esistente. Tra l’altro, le pellicole impressionate con quella tecnica, che era costosissima e laboriosa, resistono inalterate, mentre quelle realizzate con i sistemi successivi, più semplici e decisamente più economici, sbiadiscono velocemente. E, paradossalmente, sono i colori sempre più naturali utilizzati oggi, dopo la comparsa del digitale, a riuscire più falsi.

Sotto assedio

Avrei voluto iniziare da un classico, magari da qualcosa di John Ford, ma questa è una storia di ricordi e la mia memoria più remota rimanda ad altro. Mi riporta ad esempio ad un film, L’assedio di Forte Point, che tutto è tranne un classico, e si segnala soltanto per avere come protagonista il futuro presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Del film in sé mi è rimasto poco o nulla, l’ho visto a sei o sette anni e poi mai più: ma non c’è dubbio mi avesse colpito molto, non di certo per l’interpretazione di Reagan (poi ritrovato, pistolero mancino ma assolutamente improbabile, in un paio di western tra i peggiori di quel periodo, Il giustiziere e La regina del Far West, e addirittura nei panni di Custer ne I pascoli dell’odio). A intrigarmi era stato invece il forte.

Il primo (ed unico) “fortino” di legno che ho posseduto, costruito col traforo da mio cugino e arrivato intatto sino a mio figlio, venne battezzato proprio Fort Point. Era dotato di stalle, di alloggiamenti, di uno store, e persino dello steccato al quale legare i cavalli. Quando avevo ormai superato da un pezzo l’età per trastullarmi con i soldatini andavo a giocarci in solaio, al riparo dai richiami allo studio di mia madre e dalle interferenze di mio fratello. Rivivevo, con tutte le varianti del caso e con i pezzi a mia disposizione, le vicende che avevo visto al cinema o letto nei libri e nei fumetti. Quando erano necessari grandi numeri, interi reggimenti di cavalleria o tribù delle pianure, integravo con la fantasia e con i materiali poveri, come le figurine ritagliate dai fumetti (dai doppioni o da quelli più dozzinali) e inserite nelle grette. Fu quello, ancora quasi per tutto il periodo delle medie, il mio unico vizio solitario.

Ma torniamo al Forte Point originale. Il vero appassionato distingue nel genere western due grandi filoni: i film con gli indiani e quelli senza. Le mie preferenze andavano naturalmente al primo, perché la presenza degli indiani era già di per sé garanzia d’azione (che altro poteva fare un indiano, se non combattere?). All’interno di entrambi i filoni, poi, si può fare un’ulteriore suddivisione, tra un tipo di western più statico ed uno più dinamico. Quello più statico si basa di norma sull’assedio, che può essere posto al forte (L’avamposto degli uomini perduti), ma anche ad una fattoria (Gli inesorabili), o addirittura ad un villaggio (Un dollaro d’onore, Mezzogiorno di fuoco, I magnifici sette); quello più dinamico racconta spedizioni di cavalleria, lunghi inseguimenti, viaggi di carovane o diligenze, trasferimenti di mandrie, ecc, Nel primo caso in genere al minor movimento fa da contrappeso un maggiore studio psicologico (negli spazi stretti le relazioni si complicano sempre), del quale tuttavia io e i miei compagni di giochi non sapevamo che farcene: arrivavamo dai fumetti, e lì non c’è posto per la lentezza e la riflessione, ogni vignetta deve far muovere l’azione. Anche l’assedio però ha un suo fascino, soprattutto quando, come nel caso di Forte Point, gli assediati non si rintanano e tentano continue sortite.

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Quello dell’assedio è uno dei “topoi” narrativi in assoluto più ricorrenti. Risale addirittura all’Iliade, ed era inevitabile che diventasse un elemento classico anche nel cinema d’azione, con la variante che qui il punto di vista è quello degli assediati e che alla fine saranno loro a trionfare. Il “fortino” è quindi una delle componenti tipiche del paesaggio western. Nella versione base, quella che compare nei film sui trappers, è interamente costruito in legno, con pali altissimi e acuminati, una passerella interna a mezza altezza che gira tutto attorno e una o più torrette per le sentinelle. In effetti, nelle foreste della Nuova Inghilterra non doveva essere difficile trovare il legname. Nelle praterie, però, sono molto più realistici i bastioni in pietra o fango. A Hollywood non sempre badavano a queste sottigliezze, ma io certe distinzioni ero in grado di farle: nelle fotografie d’epoca che avevo trovato su un vecchio numero di Storia Illustrata i forti erano dei grandi accampamenti con qualche opera muraria difensiva. Se potevo accettare una certa approssimazione nei telefilm di Rin Tin Tin, pensati per ragazzini, nei film la cosa mi disturbava.

Pretendevo la verosimiglianza architettonica persino nel gioco. Malgrado l’assedio non fosse in testa alle mie preferenze, infatti, non ho mancato di costruire appena possibile spalti e bastioni e capanne fortificate come terreno di scontro o rifugio per le mie bande. Ero talmente pignolo nei particolari che a volte il gioco si esauriva tutto nella costruzione, oppure le bande si scioglievano per sfinimento. Non mi sono comunque mancate le soddisfazioni. Una volta per costruire gli spalti utilizzammo i pali che mio padre aveva aguzzato in cortile, destinati ai nuovi filari. Venne fuori un lavoro superbo, che prevedeva addirittura una sorta di torretta. Quando a primavera arrivò il momento di piantare i pali nel vigneto dovetti schiodarli alla veloce uno ad uno, e potei constatare che nessun nemico avrebbe avuto facilità ad abbatterli. Un’altra volta, dopo una grande nevicata, costruimmo con blocchi regolari tagliati nel ghiaccio anche un igloo, al centro di un vero fortino con mura di neve pressata: lo innaffiavamo tutte le sere, e per l’eccezionale rigidità di quell’inverno rimase in piedi sino all’aprile successivo.

Ho continuato a costruire capanne fino alla tarda adolescenza (e oltre: nel bosco dietro casa ne ho costruita una per mio figlio che ha resistito sino ad oggi). All’epoca le capanne dovevano essere “segrete”, e così la gran parte erano nascoste sugli alberi, o dentro anfratti di roccia, nella mitica “foresta della Cavalla”, terreno principe (e ufficialmente vietato) di gioco per la mia generazione.

Ma non è finita lì. A pensarci bene l’ultimo, riassuntivo di tutti gli altri, è proprio il “capanno” che ho costruito in campagna una ventina di anni fa e che è diventato la sede storica dei Viandanti delle Nebbie. Ho preso a modello naturalmente quelli dei trappers visti al cinema o nei fumetti, e non ho alzato la palizzata tutt’attorno solo per non scadere nel patetico; ma confesso che la tentazione l’ho avuta, anche perché c’erano i vecchi pali del vigneto espiantato da smaltire.

Senza scomodare la psicanalisi, è evidente che il fortino risponde a un bisogno di sicurezza: è come la tana per un animale, la casa per un bambino. Fuori della casa o della tana c’è il pericolo: il messaggio è lo stesso che si può trovare in Pinocchio. Nel western degli spazi aperti invece l’ignoto è richiamo, occasione, possibilità di fuga: è il messaggio che si può trovare in Huckleberry Finn. Sono entrambi dei classici, pubblicati tra l’altro a tre anni di distanza l’uno dall’altro, ma con in mezzo un oceano. Pinocchio non mi è mai piaciuto, mentre di Huckleberry, che è protagonista del più bel libro d’avventure della letteratura americana, ho fatto subito la mia bandiera.

Devo aggiungere che ho vissuto sin dalla nascita in una casa che era in qualche modo già un fortino, circondata da un muro alto quattro metri, con un portone d’accesso al grande cortile degno di quello di Forte Point e capace di fermare, durante l’ultima guerra, persino i mongoli sguinzagliati per il paese dai tedeschi. Questo forse spiega perché di sicurezza non ho mai sentito il bisogno, tanto da non aver chiuso una sola volta di notte per cinquant’anni la porta del mio alloggio: anzi, sapermi chiuso dentro mi creerebbe inquietudine.

Piuttosto, legavo al fortino o alla capanna un senso di identità: erano i luoghi fisici dell’aggregazione, marcavano una appartenenza comune attorno alla quale fare gruppo, come il deposito di legname della via Paal.

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Resta il fatto che un fortino la sicurezza la dà, perché è inespugnabile: a meno che a comandarlo sia un idiota in cerca di gloria. Ogni volta infatti che le truppe o gli esploratori lo lasciano per affrontare in campo aperto i pellerossa cominciano i guai, come nel classico fordiano Il massacro di Fort Apache. Accade quando a comandare la piazza è un razzista che disprezza e sottovaluta gli indiani (ad esempio ne L’ascia di guerra e in Fame di gloria) o un ufficiale che ha con loro dei conti da saldare (ne Il forte del massacro) e porta quindi alla rovina l’intera guarnigione.

Il massacro di Fort Apache ha esattamente la mia età, e la dimostra tutta: non nell’efficacia cinematografica, che è rimasta tale, quanto invece nella proposta etica. Infatti parla di coraggio, di cameratismo, di senso dell’onore e di rispetto della parola data: tutte cose che oggi non hanno più corso, e anzi, se le citi sei immediatamente etichettato come reazionario. Così come reazionari e guerrafondai sono stati liquidati per un sacco di tempo John Ford e John Wayne. In realtà il film suscita l’effetto opposto. Offre fantastiche scene di battaglia, ma continui a sperare sino alla fine che trovino una soluzione di pace, che una freccia vagante o un coccolone tolgano di mezzo l’antipaticissimo Henry Fonda prima che porti tutti alla rovina. E quando arriva la resa dei conti, e Fonda è ancora lì, ti dici che allora, se nessuno è stato in grado di provvedere, nemmeno Wayne, è anche giusto che chi non rispetta i patti e la parola data la paghi. A Lerma lo pensavano tutti gli spettatori, anche quelli un po’ più lenti, ed era uno spasso sentire i loro commenti all’uscita delle truppe dal grande cancello, al suono della marcia della cavalleria.

Uno mi è rimasto particolarmente impresso, forse perché ero molto piccolo e perché veniva da un tizio che, si diceva, aveva “fatto la guerra”: “Va’, i sun lì chi te spèccia” (Vai pure, sono lì ad attenderti). Mi era sembrata una vera e propria sentenza. Il concetto venne ribadito qualche tempo dopo, quando sullo schermo passò La strage del Settimo cavalleggeri, nel quale Toro Seduto è un pacifista sincero e ce la mette proprio tutta per non dover massacrare quell’idiota di Custer (e dopo averlo fatto si rifugia intelligentemente in Canada). La storia era ormai conosciuta, e nessuno trovò nulla da ridire sul suo esito.

Al contrario, quando il comandante era un tipo deciso e serio come il Gregory Peck de L’avamposto degli uomini perduti, c’era da scommettere che proprio durante l’assalto finale sarebbero arrivati i nostri. Il film è sconsigliato ai claustrofobici, perché per un’ora e mezza soldati e civili sono asserragliati nel forte (di legno), e chi cerca di svignarsela viene riportato indietro dagli indiani e pinzato con le frecce alla palizzata. Ma la disciplina che Peck impone, anche a costo di farsi odiare dai suoi uomini, alla fine paga. Lo stesso accadeva ne Il forte delle amazzoni: con i maschi impegnati nella guerra di secessione, la frontiera doveva essere difesa dalle donne. Per fortuna c’era Audie Murphy a fare da istruttore, e non si poteva chiedere di meglio, dal momento che prima di diventare un attore era stato il soldato più decorato d’America. Del film in sé ho un ricordo molto vago, ma di una cosa sono certo: mi era piaciuto. Inaspettatamente, visto che protagoniste erano appunto delle donne, e malgrado il fatto che Murphy non sia mai stato in testa alle mie preferenze. La combinazione era perdente, ma in quel caso funzionava: anche se poi di trasporla nel gioco non se ne parlava (nessuna ragazzina di Lerma si sarebbe mai prestata a giocare agli indiani: e comunque non gliel’avremmo mai chiesto). Forse nel gradimento c’entra il fatto che il forte fosse in pietra (questo lo ricordo bene). Solo il nome – Fort Petticoat– mi lasciava perplesso.

Era senz’altro più esaltante combattere per Fort Alamo, anche se da un film con Sterling Hayden (Alamo. L’ultimo comando) abbiamo scoperto che quel forte non è mai esistito, perché Alamo era in realtà una vecchia missione. Ci aveva tratti in inganno, qualche tempo prima, un film con Glenn Ford, Il traditore di fort Alamo: e Alamo, che in quel film non compariva mai, ci era parso un nome suggestivo e adattissimo ad un forte. Più che mai lo era parso a me, precoce cultore delle cause perse e della storia del Texas. L’importante era sapere che i nostri in questo caso non sarebbero arrivati, perché la storia va rispettata, e l’esito della battaglia era quindi già segnato in partenza. Ma c’era anche il lato positivo: i difensori alla fine dovevano morire tutti, e si evitava quindi la solita solfa per cui a cadere erano solo i più piccoli. Quelli che di morire proprio non volevano saperne potevano sempre scegliere di interpretare i messicani (c’erano alcuni che godevano davvero a interpretare i “cattivi”, indiani, messicani o banditi che fossero).

Dopo il film con Hayden la vicenda di Alamo l’abbiamo rievocata tante volte che quando anni dopo vidi La battaglia di Alamo (quello di e con John Wayne, del 1960) mi sembrava tutto sbagliato e poco verosimile: in effetti, come film non è un capolavoro. Mi è rimasta anche una certa diffidenza nei confronti dei messicani, che nemmeno la successiva scoperta di Villa e Zapata ha mai del tutto cancellato. Il western mi aveva vaccinato contro il terzomondismo.

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Mentre i messicani ce l’avevano con Alamo, uno dei forti presi maggiormente di mira dagli indiani era Fort Laramie. Il forte si trova nel Wyoming, ma la finzione cinematografica lo ha spostato un po’ dovunque e lo ha fatto attaccare dalle tribù più disparate. Era per gli indiani delle pianure l’equivalente di quello che Fort Apache (che è in Arizona) costituiva per gli indiani del deserto, ma vanta addirittura più location, anche se dopo il film di Ford Fort Apache era diventato senz’altro il più popolare. Io lo ricordo stretto da almeno tre assedi, tutti finiti bene (per i difensori). Ne L’arma che conquistò il west gli assediati se la cavavano, ma solo perché la lotta era impari, dal momento che potevano far conto su un nuovo fucile a ripetizione, lo Springfield (e sull’astuzia di Jim Bridger).

La cosa in sé, questa delle armi nuove e risolutrici, non mi è mai andata a genio. Se è vero che Dio ha fatto gli uomini diversi e la Colt li ha resi uguali, così dev’essere: eguali opportunità, salvo il caso di una disparità di forze tale da giustificare un riequilibrio tecnico. Invece la superiorità tecnologica era ricorrente nei film dell’epoca, e credo non fosse senza significato: era intesa come superiorità culturale tout court, era quella che aveva consentito di vincere la guerra contro i gialli nello scontro per l’ultimissima frontiera ad ovest, e veniva brandita come ammonimento nei confronti di un nuovo pericolo, quello rosso. Di tutto questo naturalmente a noi non poteva fregare di meno, e il massimo che si arrivava ad ammettere, nel combattimento, erano i cinque colpi del fucile Bengala. Non era il volume di fuoco a difendere le nostre postazioni, ma la determinazione di tutti, anche se feriti gravemente, a combattere con i denti, e comunque a non morire. Se si eccettuano le rievocazioni di Alamo, le nostre erano le battaglie col minor numero di perdite in assoluto.

In un’altra occasione (Bill West fratello degli indiani) era invece un medico militare a salvare la vita del figlio del capo indiano e quella dei suoi commilitoni di Fort Laramie. Anche questa nel western è una situazione ricorrente, un escamotage per far uscire i nostri eroi da situazioni bruttissime senza ricorrere a massacri o all’arrivo di improbabili rinforzi. L’ho poi ritrovata, ad esempio, tale e quale, in Cavalcata a Ovest, dove la riuscita di una difficile operazione chirurgica sul solito figlio del capo (i figli dei sachem erano molto cagionevoli o imprudenti) induceva i ferocissimi Kiowa a desistere dal massacro. E ancora, in Carovana verso il West, che essendo un film della Disney edulcorava parecchio i rapporti tra i pionieri e gli indiani, o ne La guida indiana. Quando non erano medici erano vecchi cacciatori di pellicce o scout o avventurieri a salvare lo scalpo estraendo pallottole e frecce con il solo ausilio di coltelli arroventati (per cauterizzare la ferita), o a curare le febbri delle mogli dei capi indiani, guadagnandosi l’amicizia e la riconoscenza perenne di questi ultimi. Non solo le armi, anche la medicina dei bianchi risultava superiore. A noi, se devo essere sincero, questa soluzione convinceva poco, avremmo preferito un bello scontro in campo aperto. Forse fiutavamo l’ipocrisia.

Un Fort Laramie finalmente senza assedio compariva invece ne La vergine della valle. All’epoca penso di averlo rubricato tra i film deludenti, perché a dispetto di uno spiegamento di forze eccezionale da parte indiana si combatteva poco, e il protagonista era un Robert Wagner giovanissimo e piuttosto scialbo. Non è un gran film, sotto il profilo dell’azione, ma il fatto stesso che lo ricordi così bene significa che mi aveva colpito: senz’altro perché lei, la vergine indiana del titolo, era Debra Paget, ma anche per la rappresentazione umana e dignitosa che offriva dei pellerossa in genere. Nel finale i due giovani e scatenati guerrieri amici di Wagner si lanciavano infatti da soli in un attacco suicida, pur di non sottostare al trasferimento e all’umiliazione della loro tribù.

In Rivolta a Fort Laramie c’è di mezzo anche la guerra di secessione: in questo caso sotto assedio indiano non era il forte, ma una parte della guarnigione, quella originaria degli stati del sud, che aveva disertato per andare a servire sotto la bandiera confederata. Veniva poi salvata in extremis dai commilitoni nordisti. Questo ci riporta ad un altro dei motivi classici già presenti ne L’assedio di Forte Point: uomini che combattono o hanno combattuto su sponde opposte (Reagan ha militato in quella confederata, naturalmente) e che si riconciliano davanti al comune pericolo. Quello di far combattere sudisti e nordisti fianco a fianco contro gli indiani era un tema che piaceva agli sceneggiatori hollywoodiani: compariva infatti già ne L’assedio delle sette frecce(1953), primo western di John Sturgees, che è rimasto per anni nella mia specialissima top ten per via della sorprendente tattica di tiro con l’arco dei Mescaleros. Anche qui l’assedio non era posto al forte (fort Bravo) dal quale i prigionieri sudisti erano fuggiti, ma ad una forra in mezzo al deserto nella quale finivano inchiodati.

All’epoca non potevo certo rendermene conto, ed ero ben felice che gli ex nemici si riappacificassero, ma dietro tutto questa voglia di fronte unito c’era probabilmente una sottile metafora ideologica: erano i primi anni cinquanta, e l’America si compattava contro i rossi. Scorrendo la trama de L’assedio di Forte Point si scoprono tutti gli elementi per una sorprendente chiave di lettura: mentre unionisti e confederati (democratici e conservatori) si fanno la guerra, alcuni loschi trafficanti (i “comunisti” americani, le spie), che vendono armi, alcool e viveri agli indiani (i russi), fomentano la discordia. Per aiutare la comprensione anche nei più ottusi, il capo indiano è interpretato da Boris Karloff, quello, per intenderci, di Frankenstein.

Il motivo della riconciliazione di fronte ad un nemico comune tornerà ripetutamente. In Sierra Charriba (1964), di Sam Peckinpah, i nemici non sono solo i rossi, ma anche gli europei, i soldati francesi di Massimiliano, che vanno a mettere il naso negli affari del vecchio continente, alla faccia della dottrina Monroe. È il film che avevo in mente come ideale chiusura di questo racconto, perché visto nello stesso anno, il ‘64, in cui sugli schermi spopola il western di Leone, perché coincide per me con l’uscita da una troppo lunga adolescenza, ma soprattutto perché miscela quasi tutti i temi che nel decennio precedente avevano animato il pubblico del GIAC, rivoluzione juarista compresa, in una salsa nuova, cruda, realistica e amara. Sierra Charriba è davvero un film di congedo. Dopo, il western sarà un’altra cosa, e quando tenterà di riproporre il vecchio modello, come avviene nel più tardo I due Invincibili, la stanchezza verrà fuori tutta. Siamo ormai nel 1969, il maccartismo è finito da un pezzo, Wayne e Rock Hudson sono parecchio imbolsiti (il secondo lo è sempre stato) e persino un po’ patetici.

Fratelli coltelli

Forte Point non ha tuttavia ancora esaurito le sorprese. Più ci torno su, più si rivela una miniera. I due ex nemici sono infatti in questo caso anche fratelli. Ennesimo topos classico, forse il più classico in assoluto, perché parte da Caino e Abele e scende giù, via via, nel mito greco con Tieste e Atreo, in quello romano con Romolo e Remo e in tutte le altre mitologie con situazioni analoghe. Per non parlare della storia. E quasi sempre, a differenza di quanto accade ne L’assedio di Fort Point, le cose finiscono male.

Il western non si discosta da questa tradizione, che ho trovato riproposta in moltissime varianti. In Cavalca Vaquero Robert Taylor e Antony Quinn finivano per ammazzarsi a vicenda, mentre ne La valle della vendetta Robert Walker, dopo averle provate tutte per riportare sulla retta via un cattivissimo Burt Lancaster, doveva decidersi a farlo fuori. In Duello al sole Gregory Peck uccideva il fratello e veniva ammazzato dall’amante, in Dan il terribile e ne La pattuglia delle giubbe rosse erano gli uomini della legge a risparmiare al buono l’ingrato compito, cosa che invece James Stewart non poteva evitarsi in Winchester 73: lo stesso Stewart era in compenso salvato, in Passaggio di notte, proprio dal sacrificio del fratello cattivo. Ancora Robert Taylor, evidentemente poco fortunato quanto a parentela, ne Lo sperone insanguinato doveva assistere alla rovina morale del fratello, che tuttavia provvedeva poi da solo a togliersi dai piedi. Addirittura, ne Il sentiero della violenza, era il padre ad dover uccidere il figlio cattivo, pagando così l’errore di non essere intervenuto al momento giusto. Infine, quando il fratello buono proprio non si decideva (in questo caso si trattava di Fred Mc Murray), ci pensava un cavallo esasperato a farla finita una buona volta (Il vendicatore silenzioso. Di tutti i casi che ricordo, solo in Sangue di Caino, a dispetto del titolo, alla fine tutto si risolveva con una redenzione senza fratricidio.

C’era anche la variante dei fratelli incrociati. Ne Il terrore dei Navajos Ben Jonhson voleva vendicare il fratello morto per colpa di un ufficiale, ma finiva per affezionarsi al fratello cieco di quest’ultimo, e a fare fronte comune con il nemico quando entravano in scena gli indiani.

Non avevo ancora letto Freud, naturalmente, e anche dopo averlo letto non ho capito molto ella relazione amore-odio tra fratelli. Quindi non me ne dò alcuna spiegazione. Confesso però di aver sempre provato una forte simpatia per il principe di Metternich, che diceva: “Se avessi un fratello, lo chiamerei cugino”. Credo di sapere cosa intendesse: i fratelli uno dovrebbe poterseli scegliere, e in effetti è poi quello che fa, quando sceglie le sue amicizie. Se tra queste ci sono anche i congiunti, molto bene: ma la consanguineità non deve necessariamente creare un obbligo morale verso qualcuno che non si stima. Per questo già da ragazzino non sopportavo i drammi interiori e le esitazioni dell’eroe positivo davanti a farabutti che meritavano mille volte di essere liquidati. I film su questo tema in genere non mi entusiasmavano, anzi, mi mettevano a disagio.

Più che mai a disagio, poi, mi mise trovare Debra Paget protagonista (bionda!) di un insulso western canterino con Elvis Presley, Fratelli rivali, nel quale il contrasto tra fratelli al solito nasce per una donna, ma alla fine vorresti solo che morissero tutti e tre. La mia indifferenza per la musica di Presley, e il fastidio per il personaggio, nascono proprio da lì.

Altro conto è la fratellanza di sangue. L’avevo già visto fare in una delle prime strisce di Tex, e l’ho ritrovato poi ne L’amante indiana e ne La freccia insanguinata. Praticando una piccola incisione sul polso si fa uscire qualche goccia di sangue, che va a mescolarsi con quelle del polso del tuo compagno. All’epoca non si parlava di AIDS, ed evidentemente eravamo immunizzati anche contro il tetano, perché noi l’incisione la praticavamo con un chiodo, invariabilmente arrugginito, e solo più tardi col coltello a serramanico di mio nonno, quello che ancora conservo, non molto più asettico. Il polso doveva essere rigorosamente il destro, l’incisione leggera (Renzo, che era un entusiasta e prendeva le cose persino più sul serio di me, una volta beccò in pieno una vena e rischiò di dissanguarsi). Compiuta la cerimonia, applicato un po’ di fango mescolato ad erba per cicatrizzare la ferita, si era fratelli di sangue.

Da quando ho iniziato a formare bande, dai nove-dieci anni circa, il rito del patto di sangue ha sempre caratterizzato le mie associazioni. Il modello della banda discendeva chiaramente da I ragazzi della via Paal, ma era poi integrato dal cinema e dai fumetti. Non posso dire che tutti fossero proprio convinti, ma credo che in fondo la cosa piacesse: ci sentivamo speciali, legati da un vincolo che avrebbe dovuto rimanere segreto e che naturalmente era poi sbandierato ad ogni occasione. Dato che il sigillo cruento dura tutta la vita, sono ad oggi fratello di sangue di un sacco di gente. Molti non li ho più rivisti e altri probabilmente nemmeno se ne ricordano, ma a me piace pensare che quel vincolo ci leghi ancora.

La fratellanza di sangue ha avuto un grosso peso nella mia “educazione” umana e politica, liquidando sul nascere ogni tentazione di razzismo. A dire il vero ne La freccia insanguinata Charlton Heston la ottiene con un trucco, e quindi non dovrebbe valere: eppure Jack Palance, che è un capo indiano tutt’altro che tenero, la rispetta. La rispetta perché stima Heston, malgrado sia un avversario. Ma ci sono un sacco di altri film che raccontano di amicizie spontanee tra bianchi e indiani, suggellate dal sangue. E anche quando rischiano di rompersi, come ne L’ascia di guerra, e gli affratellati si trovano a combattere su sponde opposte, alla fine l’impegno preso trionfa. Sembra essere l’unica forma di patto universalmente valida e rispettata.

La lezione l’ho appresa a modo mio. Intanto ho cominciato molto presto a capire che c’è poco da fidarsi dei rapporti “politici”. In ogni situazione, e non soltanto in quelle di frontiera, i patti ufficiali sono solo carta straccia (non a caso nel western sono sempre i bianchi, proprio coloro che all’inizio li vogliono o li impongono, politicanti o militari, a romperli). E non parlo solo di trattati di pace o di alleanza: la cosa vale per ogni forma di reciproco impegno assunto “formalmente”, di fronte ad una qualche autorità esterna, sia essa un’istituzione (lo stato, la chiesa, un’organizzazione internazionale) o l’opinione pubblica. Vale quindi ad esempio anche per il matrimonio, o per le affiliazioni di qualsiasi tipo. Quando il denominatore non è la fiducia incondizionata ogni patto è politico, e la politica è davvero la continuazione della guerra con altri mezzi, differisce da quest’ultima solo nei modi, non negli scopi o negli esiti. Non instaura una condizione di equità, ma un rapporto di forza.

Di conseguenza, ho realizzato che l’unico rapporto sincero ed equo tra gli umani è quello di amicizia: e l’amicizia non conosce frontiere razziali, etniche o culturali, quindi il problema del razzismo nemmeno se lo pone. L’altro ci è amico o nemico a seconda che meriti o meno la nostra stima e la nostra fiducia. Questo atteggiamento va oltre l’antirazzismo: è a-razzismo, perché la possibilità di discriminare qualcuno per il colore della pelle, per il tipo di cultura o per il sesso non la concepisce nemmeno. L’unica discriminazione che ammette, che anzi professa, è quella nei confronti di chi la fiducia non la merita.

Non solo: trovo anche che quando diventa ideologia, una bandiera dietro la quale intrupparsi, anziché essere vissuto istintivamente, anche l’anti-razzismo finisca a peccare per eccesso e si traduca in razzismo rovesciato: finisce cioè per considerare “razzista” ogni difficoltà a sintonizzarsi con culture diverse, anche quando le differenze siano davvero grandi, o quando manchi la reciprocità.

A me il western classico insegnava questo. Gli indiani non erano affatto migliori o peggiori dei bianchi, erano semplicemente diversi per costumi e tradizioni, e purtroppo i loro interessi, ovvero la loro economia, confliggevano con quelli dei bianchi. Questo era chiaro, e lo vedremo, nei film di Ford, ma anche in tutti gli altri. Le differenze a volte erano tali che non c’era realisticamente modo di conciliarle. Negli anni settanta, in pieno periodo “revisionista”, Robert Aldrich raccontava in un film di estrema crudezza realistica, Nessuna pietà per Ulzana, lo scontro tra le due culture, senza falsi pietismi e ideologizzazioni da una parte e dall’altra. Burt Lancaster, nel ruolo dell’anziano scout che dava la caccia ad Ulzana, era l’unico a capire, anche se non a giustificare, l’efferatezza del suo avversario.

Ciò non toglie che un bianco ed un indiano potessero stimarsi a vicenda, così come i greci stimavano i troiani. L’incontro che non si sarebbe mai realizzato tra i popoli poteva avvenire invece tra individui. È evidentemente una situazione che si dà solo alla frontiera, ma proprio di frontiera parlano i western.

La legge del giudice Colt

I pericoli della frontiera non incombono solo sui fortini. A volte bande di fuorilegge tengono sotto assedio un intero villaggio. La situazione in questo caso è più statica, perché si gioca sulla tensione dell’attesa, anziché sul ritmo. Se dal fortino si tenta almeno la sortita, dal villaggio non ci si muove. O si attende rassegnati che arrivino i cattivi, o si spera che arrivino i buoni a cacciarli. Una costante di questo tipo di western è la codardia di quasi tutti gli abitanti, disposti a subire qualsiasi prepotenza piuttosto che rischiare. L’eroe in genere è lasciato solo, o si scopre eroe quando proprio non se ne può più, ma non trova alcun sostegno nei suoi concittadini. Bottegai, artigiani, commercianti, albergatori, che sono arrivati prima della legge, si fanno gli affari propri e aspettano che qualcuno tolga per loro le castagne dal fuoco. Non è una grande lezione di fiducia nei valori della comunità.

Al di là però degli eventuali messaggi etici, presso ragazzini di dieci anni, e per di più campagnoli, vicende di questo tipo, che non prevedevano cavalcate, inseguimenti e urla di guerra, incontravano sempre un gradimento decisamente basso. Non sto parlando di filmetti di terza serie: parlo di film come Mezzogiorno di fuoco, che a giusto titolo ha vinto quattro Oscar, che compare magari tra i migliori trenta di ogni tempo e ha cinque stellette dalla critica, ma che a Lerma non aveva impressionato granché. Mezzogiorno di fuoco è un film per adulti: lo stesso west che rappresenta è più che adulto. Ci sono troppa suspence e troppi sottintesi politici (ancora il maccartismo, visto con l’occhio critico di un europeo) e c’è anche troppa Grace Kelly, per di più pacifista ad oltranza. Non potevamo attendere due ore prima di sentir cantare una pistola. Credo però che per noi, o almeno per me, il problema fosse soprattutto Gary Cooper.

Cooper agli adulti piaceva molto: penso che Fenoglio pensasse a lui mentre scriveva Il partigiano Johnny. Per mio padre (che non amava i western, per lui si trattava di favole – e infatti proprio per questo noi lo amavamo) era il prototipo del grande attore americano. Io invece non riuscivo a identificarmi. Era senz’altro un uomo affascinante, ma del modello cittadino, senza un pizzico di selvatichezza; troppo “signore” per i miei gusti. Dava l’idea di non aver mai trascorso una notte all’addiaccio, e quando gli capitava ne usciva fresco e sbarbato; in più faceva a cazzotti e montava a cavallo come un gentlemen inglese.

L’avevo notato sin dal primo incontro, ne L’uomo del West, dove impersonava una specie di vagabondo messo in mezzo dalla sbrigativa legge della frontiera: forse non era tutta colpa sua, perché la storia faceva acqua da tutte le parti, e il finale era addirittura ridicolo, ma Cooper faceva ben poco per farsi prendere sul serio. L’impressione si è ripetuta ogni volta: quando lo vidi ne La maschera di Fango, ad esempio, mi chiedevo come facessero i fuorilegge a non accorgersi che era un infiltrato. Anche in film che tutto sommato mi erano piaciuti, come Gli invincibili o Giubbe Rosse, sembrava estraneo ai luoghi e alle vicende. Peggio che mai poi quando l’intonazione voleva essere quella della commedia: nella parte de Il colonnello Hollister era patetico. Del resto, è sufficiente il confronto con Burt Lancaster in Vera Cruz per capire la differenza. Lancaster gigioneggia, ma Cooper sembra un baccalà. L’unico western nel quale, sia pure tardivamente, l’ho apprezzato è Tamburi lontani: ma in quel caso non era lui il motivo dell’entusiasmo, era la vicenda, erano i Seminole, era il paesaggio.

Infatti. Lo scarso apprezzamento della giovane critica lermese per Mezzogiorno di fuoco non era imputabile solo a Gary Cooper. In verità, a noi ragazzi di campagna l’atmosfera cittadina riusciva subito pesante. Raccontava un west che non era più tale.

Capitava persino per gli innumerevoli film ispirati dalla madre di tutte le sfide, quella all’OK Corral. Ne ho viste più versioni, a partire da Gli indomabili, con Randolph Scott, passando per Sfida infernale, con Henry Fonda, fino (ma molto tardi) a Sfida all’OK Corral (con la coppia Douglas-Lancaster). Qui il fischio delle pallottole certamente non mancava (in Sfida infernale la sparatoria dura più di dieci minuti, mentre sembra che nella realtà non fosse andata oltre i trenta secondi), Fonda era pienamente nella parte e persino Randolph Scott in qualche scena era spettinato, ma credo fossero gli abiti borghesi di Earp e Holliday, che indossano addirittura il panciotto, e tutto quel tempo trascorso nei saloon o nelle camere d’albergo, invece che all’aria aperta, a non ispirarci proprio. Inoltre la vicenda era raccontata ogni volta in maniera diversa, e questo suscitava discussioni quando la si doveva inscenare. Io, ad esempio, che mi ero perso Douglas e Lancaster per le solite ragioni, ero irremovibilmente legato alla versione di Sfida infernale. Anche per un flash particolare: quando Fonda-Earp chiedeva all’amico dietro il bancone “Mac, sei mai stato innamorato?” e si sentiva rispondere: “No: ho fatto il barista tutta la vita” ero stato l’unico in sala a ridere. La cosa mi aveva turbato: lo consideravo un segno di diversità. E vedevo giusto, perché avevo scoperto l’ironia, e non me ne sarei più liberato.

Spesso, poi, ci si imbatteva in film che tradivano completamente le promesse dei manifesti, rivelandosi dei veri mattoni. Ne La pistola sepolta, ad esempio, o in La campana ha suonato (che meriteranno un discorso a parte) alla povertà della vicenda si sommava l’assenza di un paesaggio che almeno un poco ci evocasse il West. E all’uscita, invece di buttarci negli inseguimenti lungo i vicoli o inscenare sparatorie, ci raccoglievamo sulla grande lastra di pietra della piazza, senza alcuna voglia di commentare. Io soprattutto, oppresso dalla sindrome cui accennavo prima, aspettavo in silenzio che qualcuno mi ferisse con il verdetto definitivo: “Che boiata!

L’unico film di questa tipologia che considero un capolavoro è Un dollaro d’onore (perché in essa non rientra Il cavaliere della valle solitaria, del quale riparleremo). Lo considero tale perché ti tiene incollato allo schermo per quasi due ore, praticamente senza un cavallo, senza un indiano, senza un canyon con puma e serpenti a sonagli. Il film l’ho visto piuttosto tardi (è uscito nel 1959 e come minimo è passato a Lerma tre anni dopo) – così come l’altro grande western di Howard Hawks, Fiume Rosso, ovvero solo dopo che la chiusura del GIAC aveva dato il via libera alla mia frequentazione della Società – ma mi avrebbe entusiasmato anche a dieci anni. La situazione di per sé non è molto diversa da quella di Mezzogiorno di fuoco, ma il ritmo è tutt’altra cosa. Non ci sono dubbi, incertezze, ripensamenti, conflitti morali interiori. Dean Martin guarda con desiderio la bottiglia, ma non è tormentato come il Victor Mature di Sfida Infernale, e anche Angie Dickinson non rompe le scatole e si tiene discretamente fuori dal campo di battaglia. I buoni stanno da una parte, i cattivi dall’altra, la comunicazione avviene tramite le pistole e vince chi le usa meglio. E poi, mentre Mezzogiorno di fuoco proponeva una visione pessimistica del mondo, con lo sceriffo costretto a sbrogliarsela da solo, e Sfida infernale sembrava l’epopea di un clan famigliare, qui a vincere è un gruppo cementato solo dall’amicizia. Un gruppo apparentemente raffazzonato, che raccoglie un alcoolizzato, un ragazzotto e un vecchio brontolone: ma a tenerli assieme c’è John Wayne, che recita con le stesse camicie e i giubbotti e gli stivali che indossava nella vita quotidiana (d’altro canto, il suo lavoro era interpretare western) e si aggira per le vie della cittadina, come nei fortini o nella prateria, come se quello fosse il suo mondo naturale.

Questo del gruppo “informale”, ma che lavora bene, ho scoperto poi essere il marchio di fabbrica di Howard Hawks. In un film più tardo, I professionisti, di Richard Brooks, che mi era piaciuto per il ritmo e perché metteva assieme tre dei miei attori preferiti (Marvin, Ryan e Palance), già il titolo rendeva omaggio al modello di Hawks: nessuna idealità patriottica o sociale, ma solo quella del lavoro ben fatto e della solidarietà che questo assunto crea nel gruppo. Quando si prende un impegno lo si porta sino in fondo, insieme.

Lo stesso messaggio, in una versione però meno laica, veniva da i I magnifici sette. Ho visto il film quando ero ormai un adolescente “scafato”, e mi era piaciuta soprattutto la prima parte, quella in cui vengono reclutati i mercenari e facciamo la conoscenza con Bronson, McQuin e James Coburn. Ma avevo accolto positivamente anche la morale finale: persino gli uomini più duri e incalliti, disposti a giocarsi la pelle per una ricompensa, hanno poi bisogno di un ideale disinteressato per giustificare la propria vita o, al limite, la propria morte. Prima di morire uno dei sette vuole farsi confermare da Yul Brynner che si è combattuto in realtà per un mucchio d’oro, non per quattro miserabili soldi. Sa benissimo che non è vero, ma quel mucchio d’oro è in realtà la metafora di un ideale più alto.

Rivisto oggi, Un dollaro d’onore non perde un colpo. Anzi, si rivela ricco di rimandi e di simboli, forse casuali, ma non per questo meno significativi. Un amico sostiene ad esempio che attraverso i cappelli indossati dai protagonisti si potrebbe riassumere tutta la storia del film western. Lo stetson a cupola alta di Brennan, che ricorda quelli di Hopalong Cassidy, quello a falda rialzata, da cavalleggero, di Wayne, quello logoro di Martin e infine quello spavaldo del giovane Richy Nelson. E volendo, c’è anche quello nero del vigliacco che nel saloon malmena Dean Martin. Il cappello nero a falda larga e rigida è una sorta di marchio che caratterizza il cattivo: vedi un cappello nero così, e sai che sotto c’è un pistolero sanguinario. Basti pensare a Jack Palance ne Il cavaliere della valle solitaria, o a Lee Marvin ne L’uomo che uccise Liberty Valance.

Cappelli a parte, il film di Hawks ci riporta un’altra volta al motivo di fondo della mia infantile e poi adolescenziale e tuttora in corso infatuazione per il western. Al di là dei rituali di fratellanza, dei solenni impegni al mutuo soccorso che imponevo alle mie bande, nel western ho sempre trovato conferma della priorità etica assoluta dell’amicizia. Ciò che mi affascinava era la condivisione del pericolo, la costruzione di un patrimonio condiviso di esperienze “forti”, capaci di mettere davvero alla prova la solidarietà, sulle quali fosse possibile fondare dei vincoli disinteressati. Questo poteva accadere tra coetanei, come per i giovani trappers de Il grande cielo e per gli esploratori de I due capitani, per gli anziani fuorilegge de Il mucchio selvaggio o per il gruppo variegato de I magnifici sette; oppure tra persone di età diversa, come in Sentieri selvaggi, o di diversa etnia, come ne L’amante indiana. E nemmeno il fatto di combattere su fronti opposti, di avere diverse origini sociali o di aspirare alla stessa donna, era un impedimento.

Ma la nascita di rapporti del genere è possibile solo in situazioni “di frontiera”? No, certo: oggi lo so, le amicizie vere non hanno bisogno di essere cementate dal sangue, o dalla polvere che si mangia assieme. Ma è anche vero che la condizione di frontiera crea le le condizioni ideali, addirittura la necessità, per legami intensi, di vera fratellanza, di quelli che durano nel tempo; perché una volta che hai imparato a conoscere e stimare qualcuno di fronte alle difficoltà, è difficile che questa stima venga poi meno. Non sto parlando di “cameratismo”, del rapporto che si crea cioè durante le guerre, o comunque in situazioni nelle quali non hai alcuna possibilità di sceglierti i compagni: il cameratismo ha il limite di fondarsi su un rapporto quasi obbligato, su un patto di soccorso reciproco regolamentato da leggi non scritte, e tende a prescindere dai singoli sentimenti interindividuali per diventare spirito di corpo. Parlo invece di quel tipo di “amicizia” che non necessita di manifestazioni plateali, che non deve rispondere a regole esterne ma è alimentato proprio dall’autonomia della scelta: di un sodalizio tra due o più persone capace di reggere in qualsiasi situazione, basato sulla fiducia e sulla libera assunzione di responsabilità nei confronti dell’altro.

La sintesi più efficace di questo modo di sentire l’ho trovata ne Il mucchio selvaggio. (1969) di Sam Peckinpah. Quando Edmund O’Brien chiede a William Holden “Perché ti porti dietro un rudere come me?” si sente rispondere: “Abbiamo cominciato insieme e insieme finiremo”. E allora il vecchio conclude: “Anch’io la penso così, e così concepisco l’amicizia”. Il film non appartiene a quelli della mia formazione. Quando è uscito ero ormai un adulto, avevo addirittura già delle responsabilità familiari. Ma l’ho apprezzato ancora di più, perché è un inno alla maturità dell’amicizia: quella che non ha più nemmeno bisogno di nuove esperienze da condividere e ricordare assieme nel futuro, perché un futuro non c’è più, e che muove solo dal senso della lealtà e dell’onore. È esemplare il mattino dell’ultimo giorno, quando i superstiti del Mucchio decidono di riprendersi l’amico catturato dai messicani. Ci hanno pensato tutta la notte, sanno di non avere chanches, ma si scambiano uno sguardo, accennano un sorriso e si muovono tutti assieme appena Holden pronuncia l’unica parola di tutta la lunghissima sequenza: “Andiamo”.

Anch’io la penso così, e così concepisco l’amicizia.

Credo sia opportuno a questo punto andare al sodo, senza girarci ulteriormente attorno. Una buona parte dei saggi cui accennavo all’inizio, quelli che danno del western una lettura freudiana, interpreta l’amicizia virile come una latente relazione omosessuale. Pochi anni fa I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee (una storia western scritta da una donna e trasposta sullo schermo da un regista cinese) ha spazzato via anche le ultime reticenze. Si è levato subito il coro: i cow boys sono venuti allo scoperto, si rivela la vera natura delle amicizie tra quegli uomini che preferiscono la solitudine e rifiutano i legami affettivi con l’altro sesso.

Ora, quello dell’amicizia virile è un discorso che va avanti dalla notte dei tempi, e si ripete in tutte le epiche e le epoche. Lo troviamo un po’ dovunque, dall’Iliade alla saga di Gilgamesh e all’Eneide, viene ripreso nel medioevo da Chrétien de Troyes e poi dall’Ariosto nel Furioso e lo ripropongono in tempi moderni Shakespeare, Dumas, Mark Twain, fino a Conan Doyle, a Tolkien e a Kerouac. Ha caratterizzato tutta la nostra storia culturale, e probabilmente anche quella naturale, evolutiva. Per molti versi è il prodotto di una società patriarcale, ha a che fare con modelli sociali che hanno discriminato il genere femminile, ecc. Tutto quel che si vuole. Ma non mi sembra possibile ricondurre sempre tutto o a uno stratagemma di esclusione sociale e politica o a una pulsione ormonale. Le cose, per come le vedo io, sono almeno in origine molto più semplici. Le “società degli uomini” sono state e sono presenti in qualsiasi cultura, in ogni parte del globo, perché la condizione naturale dispone i maschi a investire più nei rapporti esterni che sul nucleo familiare, quale esso sia. Non c’è nulla di ambiguo o scandaloso, non è un indice di superiorità e nemmeno di superficialità o debolezza, è una sacrosanta differenza comportamentale che ha una radice biologica: che poi sia stata enfatizzata ed esasperata fino a condurre al conflitto tra i generi, è un altro discorso. Mi sembra anche naturale che tra due cow boys possa in qualche caso nascere una relazione affettiva, come naturale sarebbe tra minatori, marinai o astronauti. Solo, si tratta di altra cosa dall’amicizia virile. Dietro l’entusiasmo per l’infrazione del tabù vedo quindi solo una frusta voluttà di dissacrazione ad ogni costo (tanto più trattandosi di una “icona americana”), che appartiene a coloro che l’amicizia non hanno avuto la fortuna di conoscerla, o la capacità di meritarla. Altrimenti dovrei pensare che ogni volta che ho instaurato un legame profondo con una persona del mio sesso ci fosse dietro l’inconfessata speranza di scoparla, e non mi pare davvero il caso.

Le donne e i cavalier …

Va da sé che in una simile concezione dell’amicizia non c’è spazio per il genere femminile. Togliamoci allora anche l’altro dente. Il west è cosa da maschi; anzi, da uomini; anzi, di più, da “veri uomini”. Da ragazzo non mi sono mai chiesto il perché: mi è sempre parso logico che fosse così. E quindi mal sopportavo la presenza femminile nel western, quella cosa per cui quando si arriva alla resa dei conti, e l’eroe deve muoversi per chiudere una buona volta la questione, oppure deve svignarsela alla svelta perché è circondato, lei gli si aggrappa e gli fa perdere tempo e concentrazione. Le donne mi sembravano incapaci di capire la gravità della situazione, di valutare l’opportunità o meno del momento per rivelazioni o recriminazioni. Ma c’era di peggio: di norma finivano per minare i legami virili, o addirittura li mutavano in inimicizie mortali.

Il problema è che ho continuato a pensarla pressappoco allo stesso modo. Non che abbia continuato a star male alla vista di una gonna, al contrario: ma sono rimasto convinto di entrambe le cose: che cioè “quel” tipo di amicizia possa esistere solo tra uomini, e che nel western le donne siano di troppo. Ho continuato a ragionare in termini di frontiera: e “nel mondo della frontiera”, diceva Sergio Leone, “le donne sono un ostacolo alla sopravvivenza”.

Nel finale de I cavalieri del Nord Ovest John Wayne maledice di essere stato costretto a scortare col suo squadrone alcune signore, perché la necessità di non metterle a rischio gli impedisce di inseguire i ribelli indiani e farla finita. Ecco. Credo rappresenti perfettamente il mio sentimento in proposito. Nei confronti delle donne ho sempre provato un diverso senso di responsabilità, un dovere di protezione, anche quando erano dieci volte più in gamba di me. E tanto più in situazioni limite, ad esempio in montagna, dove il rapporto col compagno di cordata deve essere di fiducia reciproca incondizionata. Io invece sono condizionato sino al midollo da un’attitudine “protettiva”, dalla sindrome del cavaliere della tavola rotonda (o della valle solitaria, che è lo stesso).

Un atteggiamento del genere passa sotto il nome di maschilismo. La cosa non mi turba, perché per fortuna non devo esibire alcun pedigree “politicamente” immacolato: mi infastidisce piuttosto il fatto che l’etichetta sia, oltre che abusata, estremamente vaga, al punto da non significare nulla. Una disposizione “maschilista” è almeno in parte frutto dell’educazione, il portato di una cultura “patriarcale”: ma questa cultura agisce su attitudini naturali differenti, e viene assimilata in modi diversi. Può indurre nei confronti delle donne, a seconda dei casi, un’attitudine sprezzante oppure un eccesso di rispetto. All’atto pratico poi la percezione da parte femminile può essere altrettanto negativa, ma sarebbe ingeneroso dire che è uguale anche il percorso.

Negli anni cinquanta le mie coetanee non sapevano cosa fosse il maschilismo: guardavano con commiserazione (o forse con un po’ d’invidia) quelle bande di scemi che passavano il loro tempo a fare la lotta e a dare scriteriate dimostrazioni di coraggio, e quanto al western la pensavano esattamente come me: pensavano che quelle vicende non le riguardassero. Ne avevano motivo, perché da quelle storie erano di norma escluse.

Ho scritto a proposito del fumetto che “Le donne del western possono essere raggruppate in due grandi categorie: quelle che sono in pericolo, e quelle che sono un pericolo. In entrambi i casi rappresentano un intoppo, e non è detto che le prime intralcino l’azione dell’eroe meno delle seconde”. Questa era in sostanza l’opinione di tutti coloro che i western li giravano, non solo di Leone o di John Wayne. Per farne dei prodotti ad uso famiglia era necessario infilarci una qualche storia d’amore, ma nella stragrande maggioranza dei casi si avvertiva chiaramente che era appiccicata con la saliva. Anche il western si è dunque guadagnato l’accusa di maschilismo, di aver ignorato il ruolo delle donne nella colonizzazione: e oggettivamente è verissimo. Nella realtà storica le donne sono state coprotagoniste, mentre nei western classici fungevano in genere solo da contorno, rappresentavano il riposo del guerriero, il premio per il più forte. Che è poi esattamente quanto accade con Elena e Briseide nell’Iliade, e in tutta la letteratura epica e cavalleresca. Ma è normale che sia così. Perché appunto di epica stiamo parlando, non di storia.

Quella western è una epopea: in quanto tale non pretende di assodare dei fatti, ma consacra dei valori. Quei valori li chiama in causa a giustificazione di vicende storiche (che possono essere conquiste o vittorie, ma a volte anche sconfitte), e li afferma nel momento in cui ne lamenta o ne teme la scomparsa. Nel caso del western erano presenti entrambe le motivazioni: c’era da giustificare la conquista, e c’era da rivendicare un’idea di libertà individuale incondizionata che veniva percepita in pericolo, sotto l’incalzare della modernità e delle sue istituzioni portanti, stato e famiglia in primis. Si trattava di motivazioni contrastanti: l’eroe poteva essere visto infatti come avanguardia del progresso o come solitario in fuga dal progresso. E in effetti, come abbiamo già potuto constatare e più ancora vedremo, il western ha due facce, quella cittadina, domestica, e quella degli spazi liberi, selvaggia. Quello del ‘cavaliere libero e selvaggio’ era un modello tutt’altro che nuovo, aveva caratterizzato da sempre un po’ tutte le situazioni di frontiera, ma nei grandi spazi che ancora si aprivano nell’America sette-ottocentesca sembrava aver trovato un luogo privilegiato di realizzazione. Naturalmente si era portato dietro tutta la sua ambiguità, diventando il motore delle prime esplorazioni, alle quali avrebbe fatto inevitabilmente seguito la massa crescente dei pionieri e la domesticazione di tutto il territorio. Questo è però un altro discorso, attiene appunto alla Storia con la maiuscola, in base alla quale di quel modello noi conosciamo oggi, nella società americana e occidentale in genere, solo i prodotti di risulta.

Qui parlo invece di una idealità, ovvero di un mondo ideale che può piacere o meno (anche a scuola le battaglie davanti a Troia e le avventure di Ulisse suscitavano certamente più entusiasmo nei maschi che nelle femmine), ma che con la Storia con la maiuscola ha poco a che fare. Questo chi guarda un film western lo sa benissimo, e lo sapevamo anche noi a dieci o dodici anni. Lo sapevamo e volevamo che fosse così, non per maschilismo, o nel caso degli indiani per razzismo, ma perché lo interpretavamo come un gioco: il problema nasceva semmai dall’illusione che le sue stesse semplicissime regole fossero applicabili anche da grandi.

Non è comunque nemmeno vero che il western classico negasse qualunque spazio alle donne. Ho in mente diversi film in cui comparivano come protagoniste, primo tra tutti Donne verso l’ignoto (di William Wellman, 1951: tra gli sceneggiatori c’è anche Frank Capra), che sarebbe l’originale in versione on the road de Il forte delle amazzoni. Questa volta non erano le mogli dei pionieri a doversi difendere dalle incursioni indiane, ma le future spose che si apprestavano in carovana ad andare a conoscere i loro uomini. Nel manifesto campeggiava il volto di Robert Taylor, ma il cast era poi praticamente tutto femminile. Non nascondo che la cosa mi creò qualche perplessità, malgrado ci fossero anche gli indiani. Anzi, questo fatto le perplessità le aumentava, e credo di avere poi sofferto per tutta la durata della proiezione, al vedere quelle poveracce in balia di pellerossa, delinquenti, serpenti e piogge torrenziali. Il sacrificio di alcune di loro mi pesava più dello sterminio dell’intero settimo cavalleria. I timori comunque almeno in parte rientrarono: Robert Taylor ce la metteva tutta ad insegnare loro a guidare un carro e ad usare un fucile, oltre che a separarle durante liti furibonde, e alla fine le ragazze dimostravano di avere appreso bene la lezione. Ho dovuto ricredermi, come era già accaduto per Il forte delle amazzoni: è uno dei western più emozionanti del mio primo periodo. Ma questo non toglie che abbia continuato a considerare anomala la storia che raccontava.

In altre pellicole le donne avevano ruoli da comprimarie, ma apparivano comunque particolarmente toste. Ne Gli invincibili le mogli dei pionieri partecipavano alla difesa del fortino non come infermiere o portatrici d’acqua, ma sparando e combattendo contro gli indiani anche all’arma bianca. Lo stesso accadeva ne La grande carovana, dove in effetti le più motivate a rifarsi una vita in California, e quindi prima di tutto ad arrivarci, apparivano proprio Joan Leslie e Vera Ralston.

Confesso però che molti dei film incentrati su personaggi femminili li ricordo solo perché mi sembrarono molto brutti. O viravano sul melodrammatico, come Johnny Guitar, dove alla fine c’era un patetico duello alla pistola tra le due antagoniste, (o come Rancho Notorius, che ho visto molto più tardi, perché le gambe della Dietrich al GIAC non passavano), oppure giocavano di sponda su parentele illustri che poi, alla sostanza, c’entravano nulla, come ne I fuorilegge del Colorado (le quattro sorelle dei quattro fratelli Dalton che ne combinavano di tutti i colori) o in Pellirosse alla frontiera, dove una improbabile figlia di Davy Crockett otteneva una improbabile pace tra le tribù indiane. In Donne fuorilegge c’era addirittura un villaggio dominato dalle donne, una sorta di città delle Amazzoni dalla quale gli uomini erano banditi, che veniva coraggiosamente difeso contro una banda di malintenzionati, ma cedeva alla fine all’invasione dei sentimenti. Il titolo come sempre era fuorviante, perché fuorilegge erano semmai gli antagonisti, ma la figura della donna-bandito all’epoca appariva maliziosamente intrigante. Ho fugaci ricordi ad esempio di Marie Winsdor in Inferno di fuoco, o di Jane Russel, che ne La regina dei desperados vestiva per la maggior parte del tempo come un maschiaccio, mortificando la sua parte più espressiva. Oppure de La pantera del west, che in effetti, ripensato oggi, suonava come un pesante monito contro le donne in carriera. Ho impresso soprattutto il duello che ne La signora dalle due pistole Peggie Castle ingaggia nel saloon con l’assassino dei suoi genitori, facendolo secco. Non ci ha creduto nessuno.

Quando non erano fuorilegge le donne protagoniste rappresentavano la civiltà e il progresso. Persino Greer Garson, l’indimenticabile signora Miniver, ne La straniera arrivava in una cittadina del west per fare il medico, andando incontro a tutti gli immaginabili pericoli e pregiudizi. Alla fine la vinceva lei, ma di western nel film c’erano sono solo i cappelli e le fondine. Molto più in tema appariva invece Arizona, con una Jean Arthur in versione manageriale, molto diversa – e meno carina – da quella che avremmo ritrovato ne Il cavaliere della valle solitaria.

Un altro classico filone era quello delle donne bianche rapite dagli indiani. Ne La vendicatrice dei Sioux una ragazza bianca dai capelli rossi veniva allevata dagli indiani Cherokee (che tra l’altro coi Sioux non c’entrano nulla), dopo che la sua famiglia era stata massacrata. Finiva per considerarsi una pellerossa a tutti gli effetti, e vedere i bianchi come nemici: con buoni motivi, visto che anche i su-oi genitori adottivi indiani venivano uccisi da alcuni fuorilegge. Resasi conto di non potersi vendicare da sola, a malincuore accettava l’aiuto di uno sceriffo, e faceva piazza pulita. Mi sembra di ricordare che alla fine però rimanesse con gli indiani. Avremo ancora modo di vedere come non fossero infrequenti nel western i casi di donne rapite che rifiutavano di tornare nel mondo “civile”, presentendo ciò che le aspettava. Ma questo ci porta già in vista di un altro presunto razzismo, che va ben oltre quello di genere e del quale si dovrà discutere con calma.

Rimaniamo per ora sulle donne. Diverse attrici hanno legato buona parte della loro carriera al western – alcune, come Donna Reed e Debra Paget specializzandosi nel ruolo dell’indiana –, ma la lady del West per eccellenza era negli anni quaranta e cinquanta senz’altro Barbara Stanwick, destinata poi a rimanere nell’ambiente con i telefilm de La grande vallata (tra l’altro, era la moglie di Robert Taylor). La Stanwick è stata La regina del Far West dal primo film in cui l’ho conosciuta, una regina il più delle volte schierata contro la legge, come in Quaranta pistole e Il mio amante è un bandito, dura e fredda, salvo tardivi ravvedimenti o improbabili innamoramenti. Credo che questa parte le calzasse a pennello, perché almeno sulla scena non tollerava partner maschi o femmine che le facessero ombra. Non a caso ha recitato più volte con Regan: non correva pericoli. Tra le sue interpretazioni ricordo con particolare fastidio Uomini violenti, dove dava il meglio di sé come dark lady, ma toglieva appunto la scena a Glenn Ford (che già di suo non era un gigante) e faceva di un western un drammone a tinte fosche.

Insomma, dove all’immagine femminile era lasciato uno spazio da protagonista le donne non ne uscivano molto bene, e non penso fosse solo una percezione mia, legata ad un infantile fastidio per le gonne. Credo invece che serpeggiasse in questi film una malcelata paura del “matriarcato” della società americana. Si è ripetuto nell’epopea western quanto è ciclicamente accaduto ad ogni grande svolta della civiltà occidentale: nel momento in cui si stabilivano nuove regole tutti coloro che da tali regole non venivano affatto tutelati, e che quindi erano più recalcitranti, finivano demonizzati. In Barbara Stanwick si reincarnava il fantasma di Medea e di Clitennestra, delle streghe cinquecentesche o di lady Macbeth, anche quando le esigenze di cassetta imponevano la redenzione (leggi: sottomissione) finale. Solo così si può spiegare l’onnipresenza di un’attrice che sprizzava antipatia da tutti i pori. Questa è indubbiamente misoginia bella e buona, una misoginia “razionale”, non istintiva ma intenzionale. E qui scattano i paradossi delle operazioni “educative”, che spesso sortiscono risultati contrari a quelli che si prefiggevano. Mentre le donne che viaggiavano verso l’ignoto o difendevano il fortino riuscivano alla fine a guadagnarsi la mia ammirazione, anche al netto del desiderio di proteggerle, la cattiveria della Stanwick mi suonava persino inverosimile: per un motivo assurdo, perché usurpava un ruolo, quello del cattivo, e un sentimento, quello dell’odio, che ritenevo fossero prerogativa solo dell’uomo.

Non mi è poi bastata una vita per convincermi del contrario.

 

 

La pista dell’ovest

Ogni viaggio è un’avventura (e ogni avventura è un viaggio). Ma il viaggio, lo spostamento, nel west della frontiera è molto più di un’avventura, è il senso stesso della vita, la sua intrinseca condizione. Oltre la frontiera occidentale c’è l’ignoto, l’inesplorato: c’è il pericolo, ma c’è anche la speranza di una vita nuova, di un’esistenza diversa. La speranza accomuna nel viaggio tutti i protagonisti del western: è quella del fuorilegge di sfuggire alla cattura, quella del trapper di sottrarsi alla “civiltà”, quella dell’ex confederato di lasciarsi alle spalle la sconfitta, quella dell’indiano di rintracciare i bisonti e di mettere spazio tra sé e i visi pallidi, quella dell’agricoltore di possedere un pezzo di terra e quella del mandriano di non avere tra i piedi agricoltori. Tutti inseguono il sole nel suo corso, sui carri, a cavallo, in battello o in diligenza, ricalcando le tracce di tante antiche saghe di migrazione, e incrociando le loro storie in un altrove che le fa assurgere a leggende.

Nella mia camera, fino a che è rimasta tale, ha campeggiato il manifesto di Là dove scende il fiume (quello riprodotto qui a fianco). Il film non sarà un capolavoro, ma mi è entrato nel cuore. Rivedendolo recentemente ho anche capito il perché: la storia è un concentrato di tutte le situazioni tipiche del western “on the road”– il viaggio verso il paese della nuova vita, gli attacchi degli indiani e poi dei banditi, gli incidenti e gli ostacoli naturali, il duello finale all’ultimo sangue tra due ex-amici – e si svolge in mezzo a scenari stupendi. Montagne, fiumi, boschi e nevai. Tutti o quasi questi elementi erano già riassunti nel manifesto: la carovana è in mezzo al guado, sulla riva stanno in agguato gli indiani, sullo sfondo ci sono foreste e praterie e montagne. In primo piano giace una la ragazza ferita e alle sue spalle, a proteggerla, si erge James Stewart, che imbraccia il winchester.

Stewart non era esattamente il mio modello di eroe. Non aveva i numeri per esserlo: troppo dinoccolato, forse, e sempre con quell’aria un po’ stupita che magari era perfetta per i film di Hitchcock o di Frank Capra, ma in un western creava inquietudine. Dall’eroe vuoi sicurezze. Mi era però simpatico, e tre o quattro dei suoi film sono entrati di forza nella mia personalissima classifica. A L’amante indiana ho già accennato. Fu il primo film di Stewart che vidi: oltre a trovarci Jeff Chandler nel ruolo di Kociss, proprio in quell’occasione mi presi una cotta per Debra Paget, l’amante in questione, cotta destinata a rinnovarsi ogni volta che la rivedevo nei panni della squaw: ma devo confessare che delle squaw mi innamoravo con estrema facilità e non, come sosterrebbe qualche amica, perché soddisfacevano il mio maschilismo, ma, al contrario, perché le consideravo donne vere, indipendenti, e perché incarnavano un modello fisico femminile che ho sempre gradito.

Anche Winchester 73, visto qualche anno dopo, mi è rimasto nel cuore. Mi piaceva la cocciutaggine del protagonista, che passa attraverso tutte le disavventure possibili con un’idea fissa in testa, quella di recuperare l’arma che aveva vinto ad una gara di tiro e che gli era stata rubata, e non molla anche quando il mondo pare cascargli addosso. Già qui Stewart era fantastico: ma la perfezione a mio giudizio l’ha raggiunta in altri due film: in Là dove scende il fiume, appunto, e soprattutto in Terra lontana, dove anziché una carovana conduce una mandria, e attraversa assieme a Walter Brennan tutto il Canada per andare a vendere carne ai cercatori d’oro in Alaska. Sino alla fine si fa testardamente i fatti suoi, ma di fronte alla morte dell’amico si scatena e fa piazza pulita.

Stewart sapeva sfruttare alla perfezione le sue caratteristiche fisiche, e accentuava volutamente quelle negative. Ho rivisto Winchester 73 in lingua originale, per scoprire se davvero balbettava come nel doppiaggio italiano, e in effetti si, aveva (o metteva) nella voce, soprattutto quando arrabbiato, quell’incertezza e quelle note stridule che lo rendevano irresistibilmente umano e simpatico. Ma anche temibile: di Là dove scende il fiume, oltre al manifesto, ho conservato in memoria la minaccia che Stewart rivolge all’ex-amico che lo ha derubato e tradito: Tutte le notti guarderai nel buio per paura che io ci sia: e una notte, io ci sarò. Me l’ero impressa a caratteri di fuoco, e l’ho persino parafrasata, per un regolamento di conti giovanile.

Stewart ha avuto la fortuna di lavorare quasi sempre con registi di buon livello, che gli lasciavano spazio e lo valorizzavano. Antony Mann, ad esempio, gli cuciva i film addosso, esattamente come Ford faceva con John Wayne. Stewart stava a Wayne come un cugino di campagna, apparentemente impacciato e fuori posto anche quando interpretava la parte dello scout o della guida per carovane: salvo poi rivelare, a dispetto della goffaggine, doti eccezionali di determinazione. Mentre Wayne metteva ko gli avversari al primo round, Stewart li sfiniva, come quei pugili che si rialzano tante volte dal tappeto che alla fine uno si esaspera e dice: va bene, facciamola finita, l’hai vinta tu. D’altro canto è un po’ questa l’immagine dei due che Ford ha trasmesso in uno splendido film della sua tarda maturità (e della mia prima adolescenza consapevole) nel quale li volle accanto, L’uomo che uccise Liberty Valance.

Credo che il successo di Stewart fosse dovuto al fatto che per la gran parte degli spettatori era facile identificarsi in lui, senz’altro più che in Gary Cooper e nello stesso Wayne: ma anche ad una impronta particolare e riconoscibile delle storie e delle ambientazioni. Io stesso, malgrado Stewart non fosse il mio modello, consideravo i suoi film una garanzia: c’era sempre comunque azione, erano curati nel dettaglio e ambientati negli spazi ampi. Il marchio evidentemente non era solo suo, ma anche quello di Mann. Riusciva difficile pensare che Stewart potesse vivere in un luogo diverso da un ranch, senza vagabondare per la prateria e le montagne rocciose. Sembrava fatto apposta per viaggiare: e tuttavia, alla fine, in un modo o nell’altro si accasava. Per questo probabilmente riusciva identificabile con i più, e per la stessa ragione, a dispetto della simpatia, non era il mio modello. Nella classifica avulsa dei western della transumanza Terra lontana ha conservato il primo posto anche dopo la visione de Il fiume rosso (che è passato a Lerma qualche tempo dopo, pur se antecedente di cinque anni). C’entra senz’altro il ruolo che recita in quest’ultimo John Wayne, piutt  osto antipatico, una versione esasperata dell’uomo indurito dalla vita di frontiera: ma la verità è che non digerivo Monty Cliff. L’avevo già visto in un paio di film drammatici, dove impersonava sempre giovani introversi e tormentati, e avevo concluso che uno così avesse poche possibilità di sopravvivere nel west. Meno che mai, di sopravvivere a Wayne. In compenso senza dubbio le scene dello spostamento della mandria erano tra le più epiche mai viste.

A confronto con due colossi del genere tutti gli altri film sullo stesso tema, e sono moltissimi, passano in second’ordine. Voglio ricordarne però almeno due, entrambi “fuori quota”, appartenenti cioè alla generazione del western post-classico, che non hanno a che vedere con la mia formazione, ma senz’altro col piacere per le cose ben fatte. Nel primo, I Cow Boys, torna l’inossidabile Wayne, ormai anziano, costretto dalla necessità a ingaggiare un gruppo di ragazzini per condurre una mandria di cavalli. Quando viene ucciso da una banda di razziatori, i ragazzi diventano immediatamente uomini e lo vendicano con gli interessi. La critica ha letto il film come un remake un po’ ruffiano de Il fiume rosso, perché gioca sulla simpatia ispirata da ragazzini quasi inermi di fronte al pericolo. A me è parso invece degno della vecchia scuola. E avendolo visto quando già ero padre, non sapevo decidere se immedesimarmi ormai nel grande nonno o ancora negli adolescenti.

Altrettanto sottovalutato ritengo Fango, sudore e polvere da sparo, di Dick Richards, uscito nello stesso anno. Anche qui si racconta un percorso di iniziazione, ma con l’intento di dissacrare il mito del cow boy (tanto che alla fine del viaggio il ragazzo arruolatosi tra i mandriani, al contrario dei ragazzini di Wayne, decide che quella non è vita per lui). Eppure, nonostante tutto, nonostante siano calate le ombre del tramonto, quel mito rimane affascinante.

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Torniamo però alle carovane. La prima fila di carri che attraversa la mia memoria è quella de La carovana dei mormoni, il film che mi ha fatto conoscere il marchio Ford. Il soggetto non è particolarmente originale, ripete il motivo del viaggio verso una nuova vita, con tutti i dovuti ingredienti, banditi, indiani, imboscate, incidenti di percorso: ma in questo caso la destinazione è una “terra promessa” nel senso più letterale del termine, perché i viaggiatori appartengono a una comunità di Mormoni che vuole trasferirsi nello Utah, dove la setta aveva già creato una sorta di provincia indipendente. Quindi c’è un problema in più, perché i Mormoni sono oltranzisti della non violenza, e i due giovani cow boys che li guidano devono in pratica cavarsela da soli.

Nel film compaiono alcuni dei caratteristi che identificano il marchio, Ward Bond, Harry Carey Jr e soprattutto Ben Johnson. È appunto per via di quest’ultimo che un ricordo tanto remoto è rimasto indelebile. Da allora quel giovanotto che saltava dai cavalli in corsa e poi risaliva al volo è diventato per me il simbolo stesso del cow boy. Johnson del resto era un cow boy autentico, aveva lavorato nei ranch e fatto poi lo stuntmen. Ha partecipato ai migliori film di Ford e ha continuato a cavalcare sul set sino a tardissima età, mantenendo immutata la sua immagine con la presenza, sempre discreta, nei migliori western dell’epoca del tramonto, da Sierra Charriba a Il mucchio selvaggio (ma è presente anche in Io non credo a nessuno, Chisum, Costretto ad uccidere, ecc…) Credo che la scena notturna di Stringi i denti e vai in cui muore silenziosamente, da solo, di fronte al fuoco, sia una delle più toccanti di tutta la storia del western. Si è guadagnato persino un Oscar, naturalmente come attore non protagonista (ne “L’ultimo spettacolo) e naturalmente non per un film western. Invece avrebbero dovuto darglielo solo per come stava a cavallo: nessuno sapeva stare in sella come lui. Ma non era solo questo. Già ne La carovana dei Mormoni mi aveva colpito lo sguardo. Aveva occhi incredibilmente ironici, e recitava con quelli: il suo sguardo sornione diceva tutto, o almeno, tutto quello che era necessario dire in un western. Credo sia l’attore che ha pronunciato meno battute, in proporzione al numero di pellicole girate, di tutta la storia del cinema. All’uscita dalla visione di L’ultimo spettacolo un amico riassunse perfettamente quello che Johnson (“Sam il leone”) aveva rappresentato per noi: “Vorrei aver avuto uno zio come lui”. Era così: uno zio taciturno e solido, uno zio da bivacchi sotto le stelle, uno che ti ascolta, che ti trasmette tranquillità e fiducia, prepara un ottimo caffè e ti arrotola la sigaretta, uno che non porta il fodero della pistola basso, per estrarre più velocemente, ma che quando spara non ha bisogno di un secondo colpo. Mi viene in mente lo zio di Meneghello in Libera nos a Malo.

Al suo fianco, in questo come in diversi altri film di Ford, c’è Harry Carey jr. (jr perché il padre era stato un divo del western ai tempi del muto). Ma Carey lo associo piuttosto ad un altro film: è uno degli scatenati ballerini di Sette spose per sette fratelli, che non è un western, ma rientra nel genere almeno per l’ambientazione, un villaggio sulle montagne dell’Oregon a metà Ottocento. È l’unico western-musical che ho visto già all’epoca con entusiasmo (altri, come Anna prendi il fucile, li ho detestati), per le incredibili acrobazie dei fratelli e per gli splendidi colori (ricordo però che notammo l’uso per qualche scena di fondali dipinti). In quel film mi aveva impressionato anche Howard Keel, sia per la stazza (era due metri) che per la voce baritonale. Se l’influsso di Sette spose per sette fratelli fu nullo sotto il profilo etico (perché alla fine tutti e sette si sposano, e a decidere sono le ragazze) risultò senz’altro determinante sotto quello estetico. Per anni in inverno ho indossato solo camicie di lana spessa a quadrettoni.

Ward Bond era invece il miglior amico di John Wayne: ha percorso al suo fianco, e alla corte di Ford, tutta la carriera. Lo avrei ritrovato ovunque, da Sfida infernale a Il massacro di Fort Apache, da L’avamposto degli uomini perduti a Sentieri selvaggi (in quest’ultimo con un’interpretazione da Oscar). Ad un certo punto era diventato davvero una sorta di bollino d.o.c: la presenza di Ward Bond, come quella di altri grandi caratteristi fordiani, Victor Mc Lagen e John Carradine, ad esempio, garantiva la qualità, e non solo nel western.

Il bollino era in realtà quello di John Ford. Con Ford ci siamo intesi subito. Il suo livello, anche indipendentemente dalla presenza di John Wayne, è sempre quello dell’eccellenza. Credo che in nessun altro genere cinematografico si possa andare sul sicuro, quanto ad aspettative, come per quello western. Ci sono mani che non deludono mai, riconoscibili sin dalla prima inquadratura.

A metà degli anni Sessanta, quando la mia esperienza di proiezionista si era ormai conclusa, la televisione italiana inaugurò una serie di cicli dedicati ai maggiori registi dell’epoca. Ricordo che passarono le migliori opere di Bergman, di Dreyer, di Bresson, ecc. Il primo di questi cicli era dedicato appunto a John Ford, e costituì un vero evento. Intanto potei vedere finalmente Ombre rosse, che sino ad allora mi ero perso, e rivedere I cavalieri del Nord Ovest e Sfida Infernale, che mi avevano affascinato dieci anni prima: poi mi creò la fama di intenditore presso gli avventori del bar della Menuccia, al quale immancabilmente, al costo di una gassosa o di un pugno di caramelle Mou, mi presentavo ogni lunedì sera. Nella saletta del televisore in genere c’erano quattro o cinque habitués, che si piazzavano lì all’inizio del telegiornale, gustavano Carosello e digerivano poi abbastanza acriticamente tutto quello che appariva sul monitor, dalle riviste alle tribune politiche. Ma il lunedì le cose cambiavano, e posso dire che cambiarono soprattutto dopo Ombre Rosse. Lo avevo “trainato” così entusiasticamente, la settimana precedente, che quella sera la saletta era già mezzo piena prima di Carosello. E dieci minuti dopo il silenzio era calato anche nel salone delle carte, e gli avventori si erano trasferiti tutti “da basso”, mugugnando perché era rimasto posto solo lungo i muri laterali. Quella sera fui investito dagli aficionados del ruolo di critico locale e informatore sulla programmazione. Le cose funzionarono bene con Ford, venne retto anche “Il lungo viaggio di ritorno”, ma quando si passò a Bergman, e peggio ancora a Bresson, la mia credibilità cominciò a perdere colpi (e non posso dire oggi di non capire le loro perplessità. Allora invece mi ci arrabbiavo molto). Una volta visto in azione John Wayne, non ci si poteva accontentare di meno.

Ombre rosse racconta il viaggio più famoso nella storia del western. Un viaggio che Ford aveva già caricato di simboli, e che è assurto esso stesso a simbolo del western, anche se in realtà i film nei quali si vedono attacchi alla diligenza non sono moltissimi, e quasi nessuno portato da indiani: evidentemente il confronto metteva in soggezione i suoi colleghi. Li posso capire. Ombre rosse l’ho visto per la prima volta piuttosto tardi, quando conoscevo già la maggior parte della produzione fordiana ed ero diventato esigente. Eppure ho realizzato immediatamente di trovarmi di fronte a un caposaldo della cinematografia.

Oltre al miglior Ford ho ritrovato in Ombre Rosse un giovanissimo John Wayne. Se si eccettua Il grande sentiero, un film vecchissimo di Raoul Walsh (girato addirittura nel 1930, agli albori del sonoro), che avevo visto in una copia martoriata da tagli e righe e tremolii, e che quindi non avevo potuto apprezzare granché (anche se i fondamentali del western di movimento c’erano tutti, indiani amici e nemici, la carovana in cerchio sotto assedio, trappers, bisonti, duelli, guadi e montagne innevate), Wayne lo avevo conosciuto già maturo nella trilogia della cavalleria, dove si capiva che la divisa, anche se indossata con disinvoltura, gli andava un po’ stretta, lo frenava. Il “mio” Wayne, il cavaliere solitario e indipendente, flagello di banditi e prepotenti d’ogni razza e colore, era invece piuttosto quello di Hondo, film considerato “minore” dalla critica blasonata, ma riferimento principe per quella del circolo parrocchiale lermese. Ritrovarlo nei panni di Ringo, fuorilegge scanzonato e sbrigativo, mi confermava l’idea che del grande Jake mi ero fatto nel frattempo.

Wayne non era simpatico. Era rude, spiccio a volte fino alla sgarbatezza, e in genere non faceva proprio nulla per attirare la simpatia. Ma non ne aveva bisogno, perché appariva solido, incredibilmente solido, a dispetto di un fisico che negli anni della maturità, quelli in cui si affermò il suo mito, non era affatto atletico: un cavaliere dalle gambe lunghe e dal sedere pesante, piantato sulla sella, che dava l’impressione di non poter essere mai disarcionato. Impersonava un modello maschile randagio e solitario, che rifugge la vita sedentaria e più in generale la “civilizzazione” avanzante, amante del vagabondaggio e del contatto con la natura: un modello che è minacciato tanto dalla legge che dalla donna, da ogni tipo di vita cioè che implichi la chiusura della frontiera. Non ricordo una sua sola battuta che teorizzasse o giustificasse la sua scelta nomade: ma nemmeno di questo aveva bisogno. I suoi personaggi la scelta la vivevano, anzi, non si ponevano nemmeno il problema di scegliere, erano così, non potevano essere diversi. Le rare love story a lieto fine in cui si impantanava risultavano poco credibili: non mi davano nemmeno fastidio. “Tanto, pensavo, lui non lo cambia nessuno”. Al contrario di Gary Cooper, era impensabile in un salotto buono: come minimo nel muoversi avrebbe rotto i cristalli.

Provavo nei suoi confronti lo stesso sentimento che per Aiace. Anche Wayne era un sopravvissuto, legato a un vecchio mondo e a un vecchio modo di essere, fatto di gesti e sentimenti essenziali, nel quale le parole erano poche, avevano un solo significato e valevano più di qualsivoglia impegno scritto. Come ho già detto, Ford ha raccontato benissimo questa appartenenza ne “L’uomo che uccise Liberty Valance”, dove Wayne è il passato, Stewart il futuro, ed è naturale che Vera Miles scelga quest’ultimo (ma è anche evidente che Ford parteggia per il primo, perché è solo il suo silenzioso sacrificio, la sua rinuncia, a permettere al futuro di avverarsi). Wayne è insomma un attore che ha recitato se stesso per tutta la vita, e alla fine l’identificazione con il se stesso personaggio è diventata tale che i copioni si sono adeguati ad essa, creando un percorso perfettamente coerente sino alla parola finale, quella pronunciata con Il pistolero. Non è un caso che la sua interpretazione meno memorabile sia quella di Davy Crockett ne La battaglia di Alamo. Non si possono sovrapporre due miti.

Ma non ci sono solo Ford, Hawks e Mann. Ho in rubrica decine di western che viaggiano sui conestoga. Di qualcuno ricordo solo il manifesto, altri sono rimasti in memoria per qualche particolare curioso: in Carovana verso il West, ad esempio, oltre alla già citata operazione chirurgica che sblocca la situazione, c’è una bambina bionda che i Sioux vorrebbero come portafortuna. Donne verso l’ignoto si impresse per le ragioni già viste, mentre un film per altri versi mediocre come I conquistatori dell’Oregon risultava comunque originale per la determinazione dei pionieri a portarsi appresso delle piantine di mele.

Allo stesso modo, in Lampi nel sole erano dei contadini baschi, guidati da un Jeff Chandler in completo di pelle di daino e frange, a voler introdurre in California le barbatelle dei loro vigneti e a difenderle con i denti contro gli accidenti naturali e gli attacchi indiani. Al di là delle singolarità e dei meriti (o demeriti) specifici, tutti questi film avevano in comune almeno un motivo per essere visti e ricordati: raccontavano ambienti naturali mozzafiato, esaltati da una fotografia suggestiva.

Danze di guerra e rullo di tamburi

C’era però anche altro. Da questi film filtrava un messaggio che credo fosse solo in parte intenzionale. Erano le situazioni stesse, le vicende, le modalità dei conflitti a trasmetterlo. In fondo si parlava sempre di un mondo duro, nuovo, nel quale la diversità, anche quando era combattuta, aveva legittima cittadinanza. Voglio dire che banalmente gli indiani, a dispetto di quanto pensava Thomas Jefferson, per il quale gli unici buoni erano quelli morti, dovevano esserci, e non per servire da carne da macello, ma per far venire allo scoperto, attraverso il confronto, il bene e il male che si fronteggiavano proprio nei bianchi. Gli indiani, nella loro genuina elementarità, erano una cartina di tornasole. Per questo, anche quei film che oggi vengono riscoperti come precursori e anticonvenzionali a me, e credo anche agli altri, all’epoca non rivelarono nulla che non fosse già dato per scontato. Ne ricordo due in particolare. Ne L’ultima carovana Richard Widmark, un bianco “rinnegato” che ha scelto di vivere con gli indiani, viene aggregato ad un convoglio per essere condotto in prigione. Uccide lo sceriffo che lo scorta e sopravvive poi al massacro della carovana compiuto dagli Apache: ma alla fine si capiscono anche le ragioni di tanta violenza: lo sceriffo gli aveva ucciso moglie e figli, e anche gli Apache non hanno fatto che vendicare il massacro delle loro famiglie.

Ne Il cacciatore di indiani invece Kirk Douglas, scout che deve scortare i pionieri verso l’Oregon, riesce a far fallire i piani di due farabutti che stanno scatenando una guerra indiana. In entrambi questi film le ragioni stanno tutte dalla parte dei pellerossa, e i bianchi (a parte naturalmente i nostri due eroi) si segnalano solo per il razzismo e la stupidità. Tra l’altro, nel secondo Douglas s’innamora di una splendida squaw (è Elsa Martinelli), che all’inizio del film si bagna nuda – naturalmente ripresa da lontano – nelle acque del fiume. La scena, che oggi risulterebbe casta anche in un film per bambini, non era sfuggita alla censura della San Paolo: noi la Martinelli la vedemmo sempre completamente vestita, e già ci sembrava una gran bella vista: il particolare del bagno l’ho scoperto solo rivedendo il film un paio di anni fa. Altra chicca de Il cacciatore di indiani è Walter Matthau nel ruolo del cattivo. Prima di diventare l’irresistibile spalla di Lemmon aveva infatti recitato per anni quella parte (ma io lo ricordavo tale solo ne Il Kentukiano, armato di una frusta micidiale).

L’anticonformismo di queste due pellicole dei primi anni cinquanta (in genere associate a L’amante indiana, sempre di Delmer Daves), starebbe secondo la più recente rilettura critica nel rovesciare una volta tanto l’immagine stereotipa dell’indiano cattivo diffusa dal western almeno sino agli anni settanta. Nulla di più falso. Vent’anni fa, a proposito del fumetto western scrivevo: «Certo, nell’iconografia ufficiale del west l’indiano è l’antagonista, lo sconfitto, quello che la storia non la scrive, ma la subisce. Nel fumetto, e segnatamente in quello italiano, le cose non stanno proprio così. Mentre nel contesto della storia della “civilizzazione” l’indiano era il superfluo, il passato da eliminare, per il western è elemento necessario, caratterizzante, indipendentemente dalla connotazione positiva o negativa che ne viene data. E a dire il vero, se negli anni trenta prevale ancora l’immagine selvaggia e infida (legata alla tradizione salgariana, e non ignara delle teorie della razza caldeggiate dal regime), una buona dose di simpatia per i pellerossa si ritrova già negli albi del primo dopoguerra (solidarietà di sconfitti?), quando l’immagine cinematografica era ancora quella feroce di “Ombre Rosse” o di “Tamburi Lontani”, e remota la riscoperta dei diritti e della dignità del popolo rosso. Da Tex e dal Sergente Kirk, fino a Ken Parker e Boone, il fumetto italiano vanta una tradizione di apostati che scelgono di combattere nel nome della libertà invece che in quello della civiltà. Ma va soprattutto a suo merito, nel periodo più recente, di non aver ceduto ad eccessive idealizzazioni, agli effimeri ed acritici innamoramenti che altri media, quelli considerati più seri, cavalcano e bruciano con un’ipocrisia da veri “visi pallidi”».

Dopo questa nuova immersione devo emendare il riferimento al cinema, e correggere anche quello alle letture salgariane. L’immagine “feroce” non è infatti presente in alcuno dei film che ho citato sino ad ora. Anzi, a quel che ricordo, nei film di Ford, e non solo in quelli, a piantare rogna erano sempre ufficiali ansiosi di far carriera, mercanti senza scrupoli, affaristi che miravano ai territori da pascolo o alle concessioni minerarie. Spesso e volentieri a fomentare la guerra erano gli stessi agenti governativi preposti alle riserve o ai territori indiani, che sembravano reclutati appositamente per fare man bassa delle forniture destinate alle tribù. In altri casi, come ne I conquistatori, erano dei bruti che violentavano o schiavizzavano donne indiane. Cioè erano sempre i bianchi. Gli indiani semplicemente reagivano da par loro, bruciando fattorie, assalendo carovane, tendendo agguati ai treni o ai trasporti militari, ma sempre perché provocati. Ogni volta che uscivo dalla proiezione di un western con gli indiani mi prudevano le mani, ma l’oggetto della rabbia non erano certo loro.

Non sto parlando solo dei film di Ford o di qualcuno dei registi più illuminati, come Daves. Posso pescare a caso tra i titoli che ricordo, cose come La vergine della valle o Tamburi di guerra e La carica dei quattromila, e trovo si il bianco illuminato – guarda caso, negli ultimi due è Ben Johnson – che vuole sinceramente la convivenza pacifica con gli indiani, e non solo perché è innamorato, come lo ero io, di Debra Paget o di qualche altra splendida pellerossa, ma trovo anche che a contrastarlo sono sempre altri bianchi. Ne I senza legge Audie Murphy può contare solo sull’aiuto di un amico indiano, così come Dana Andrews in Segnali di fumo. Forse gli unici film nei quali gli indiani compaiono come pura minaccia sono davvero alcuni tra quelli di Ford, da Ombre rosse a Rio Bravo, sino a Sentieri selvaggi. Questo non perché Ford intendesse demonizzarli quanto, al contrario, perché dava per legittimo e scontato che si opponessero in qualsiasi modo all’invasione delle loro terre.

Al solito, a fare danni erano piuttosto i registi armati di troppe buone intenzioni. Quando vedemmo La valanga dei Sioux, che tra l’altro con i Sioux non ha nulla a che fare, rimanemmo a dir poco sconcertati. Il film raccontava la storia di Hiawatha (ispirandosi al poema di Longfellow: ma questo naturalmente all’epoca non lo sapevamo), un guerriero della tribù Onondaga, quindi irochese, ed era abbastanza anomalo, perché parlava di un conflitto tra tribù indiane, nel quale i bianchi non c’entravano. Avrebbe dovuto essere il massimo, per amanti del western selvaggio. Invece non funzionava: il protagonista in un duello iniziale risparmiava la vita ad un avversario particolarmente antipatico e rognoso, col risultato di doverlo poi ammazzare alla fine, dopo avergli lasciato provocare un sacco di morti e di guai. Anche senza aver letto Machiavelli, non era quello che ci aspettavamo da un indiano serio: poteva passare per un bianco pieno di rimorsi e di dubbi, ma un indiano doveva sapere subito cos’era meglio fare. Allo stesso modo la storia di Cavallo Pazzo raccontata da George Sherman in Furia Indiana (1954) ci parve immediatamente poco credibile, non tanto per la ricostruzione storica approssimativa, della quale potevamo sindacare poco, ma perché riusciva assolutamente improbabile la caratterizzazione dei pellirosse, a partire dai costumi fino agli ornamenti di guerra. Victor Mature, poi, nei panni del capo era inguardabile. Due anni dopo, in Rappresaglia, lo stesso regista raccontava di un meticcio (Guy Madison) che dovendo decidere tra la doppia appartenenza alla fine si schierava con gli indiani (aiutato anche dal fatto che si innamorava di una bellissima pellerossa). La modestia del film non giovò assolutamente alla causa indiana, almeno dalle mie parti.

Più interessante si rivelò invece un terzo film di Sherman, La saga dei Comanches, perché attraverso la vicenda romanzata di Quanah Parker, un bianco rapito dai Comanches quando era piccolissimo e diventato poi un capo di guerra, si spiegava l’origine dell’usanza di togliere lo scalpo ai nemici, introdotta dai messicani. Altro punto a favore degli indiani, che si erano limitati ad adottarla. Il film era talmente movimentato da riuscire persino confuso, il che ci stava anche, ma era purtroppo rovinato da Dana Andrews nella parte di uno scout, cugino di Quanah stesso. Andrews per noi era un mistero: non riuscivamo a capire cosa ci facesse uno così in un film western, eppure lo avevamo già visto al fianco di Kit Carson ne La grande cavalcata.

Neppure Charton Heston, ne Il giuramento dei Sioux, riusciva molto convincente. Per l’ennesima volta a risolvere i problemi era un giovane bianco allevato dagli indiani. In queste situazioni veniva fuori un paternalismo umidiccio che mostrava i pellerossa come degli sprovveduti, pronti a farsi abbindolare dal primo farabutto che distribuisse un po’ di whisky o qualche fucile, e la cosa ci infastidiva: non combaciava con la nostra kafkiana voglia di essere indiani. Per questo persino Sakiss, vendetta indiana, un titolo che era tutto un programma (ho scoperto poi che si trattava del rifacimento di un film di trent’anni prima, e che era tratto da un famoso romanzo di Zane Grey), ci lasciò con l’amaro in bocca. Gli indiani erano per una volta autentici, ma a condurre il gioco rimaneva sempre Scott Brady, un bianco vissuto tra i Navaho. Schierarsi a difesa degli indiani in questi casi significava paradossalmente considerarli incapaci di difendersi e di condursi da soli, e giustificava quindi la necessità di un loro “incivilimento”, cosa che stava appena un gradino sopra quella del loro sterminio. In questo modo non veniva messo in discussione il processo di assoggettamento, ma si imputava tutto il male a qualche mela marcia tra i visi pallidi.

A dispetto di questa ipocrisia, resta il fatto che nella gran parte della produzione western degli anni cinquanta gli indiani erano rappresentati come vittime, e non come belve feroci. Non ricordo una pellicola che fomentasse qualche forma di razzismo nei loro confronti. C’era piuttosto una certa ambiguità rispetto alle possibilità di integrazione, rivelata ad esempio dal caso delle mogli indiane. Questa situazione era al centro de L’amante indiana (la malizia era qui semmai tutta del distributore italiano, perché Debra Paget nel film è la moglie, e non l’amante, di James Stewart, e nel titolo originale, Broken arrow, non se ne parla) e de Il cacciatore di indiani, e in entrambi i casi il problema era risolto, per così dire, dalla morte delle povere ragazze, sia pure debitamente vendicate: ma ricordo che in Rocce rosse alla fine era una meticcia a sposare l’amico di Davy Crockett, mentre ne La principessa dei Moak, ambientato prima della rivoluzione, era un pittore a prendersi la cotta per la figlia di un capo. Lo stesso accadeva al compagno di Kirk Douglas ne Il grande cielo o a Robert Wagner ne La vergine della valle. Ebbene, in tutte queste situazioni l’unico modo per gli innamorati di vivere tranquillamente il loro idillio era di rimanere tra gli indiani o di isolarsi andando a vivere sull’estrema frontiera (è quello che facevano Fred Mc Murray e la sua Shona ne I conquistatori dell’Oregon). In mezzo ai bianchi le giovani squaw sarebbero state certamente discriminate. Ne La figlia del capo indiano una ragazza meticcia era addirittura rifiutata e perseguitata dalla sorellastra. Il film era noiosissimo, ma un pizzico di indignazione la muoveva. Come abbiamo già visto, venivano emarginate persino le donne bianche che avessero vissuto per qualche tempo tra gli indiani. Capitava a Barbara Stanwick in Schiava degli Apache, ma la Stanwick era una tosta e non ci metteva molto a farsi rispettare. Più difficile risultava per Linda Cristal, in Cavalcarono insieme, sottrarsi alla attenzione morbosa dei maschi e a quella falsamente comprensiva delle signore. Anche in questo caso la soluzione era trasferirsi il più lontano possibile. La Cristal d’altro canto era abbonata ai rapimenti da parte degli indiani, perché già le era accaduto ne La saga dei Comanches: evidentemente la sua bellezza latina era molto apprezzata tra i pellerossa.

Ne L’indiana bianca invece due sorelle liberate dopo lungo tempo reagivano in maniera opposta, una sposando l’ufficiale al comando dei liberatori, l’altra tentando addirittura di ucciderlo. Devo confessare di aver parteggiato per tutto il film per la seconda, e non solo per via della tunichetta da squaw.

Le rare volte in cui i protagonisti principali della vicenda erano indiani il discorso si faceva ancora più esplicito, anche se i risultati non erano sempre convincenti. Ne Il passo del diavolo, ad esempio, Robert Taylor era uno Shoshone che dopo aver preso parte alla guerra civile combattendo per i nordisti trovava al ritorno la sua terra usurpata da alcuni intrallazzatori, e giustamente si incazzava. Certo, immaginare Taylor come uno Shoshone riusciva un po’ difficile, malgrado il trucco pesante e l’abbronzatura, anche perché in quanto indiano civilizzato vestiva all’inizio abiti da “bianco”: quindi il tifo in sala era piuttosto tiepido. Inoltre non c’era nemmeno il lieto fine, perché la spuntavano i bianchi. Il film sinceramente non era memorabile, ma ci lasciò comunque in bocca l’amaro di una vicenda nella quale l’idiozia e la pretestuosità del razzismo erano portate allo scoperto da Antony Mann senza tanti giri di parole. E parlo di un’epoca nella quale in molti stati degli USA una donna di colore non poteva sedere su un autobus.

Andava invece relativamente meglio a Burt Lancaster ne L’ultimo Apache, nel senso che almeno rimaneva vivo, sia pure dopo aver perso tutto. Anche in questo caso gli occhi azzurri del protagonista non aiutavano a renderlo credibile, ma il ritmo dell’azione era tale che dopo un po’ si faceva attenzione solo a quello. A disturbare, almeno per me, era piuttosto il fatto che Charles Bronson, fisicamente molto più convincente di Lancaster nel ruolo dell’indiano, fosse un rinnegato e si chiamasse Hondo.

Infine, non è nemmeno vero che la barriera “sessuale” del razzismo fosse infranta sempre in una sola direzione, ovvero quando era un bianco a scegliersi una amante indiana. Questo sarebbe in linea con la prassi “colonialista”, nelle varianti dell’avventura esotica o, se l’amante diventa anche moglie, di una “domesticazione”. Ad essere significativo è piuttosto il rapporto inverso. Ebbene, nel western classico c’era anche questo. Accadeva in Seminole, ad esempio, oppure ne La lancia che uccide, dove l’unico protagonista positivo era un meticcio, che alla fine se ne andava con la sua donna bianca. E veniva anche messo in luce il risvolto subdolo e ipocrita della mentalità razzista: in Johnny Reno una intera comunità decideva di assassinare il figlio di un capo indiano, colpevole di essersi innamorato, ricambiato, di una donna bianca, e per evitare ritorsioni addossava la colpa ad un delinquente comune. Non era un grande film, più che un western era un giallo, ma una traccia nella nostra sensibilità deve averla lasciata, se è vero che non l’ho dimenticato. L’ultima, e definitiva, parola spetta comunque anche in questo campo a John Ford. Cavalcarono insieme non mi fece impazzire: in effetti era in qualche modo già estraneo al mio periodo di formazione, ma soprattutto era stato preceduto, nel trattare le tematiche dei pregiudizi anti-indiani, da un autentico capolavoro. Col tempo, rivedendo innumerevoli volte Sentieri selvaggi, ho finito per convincermi che non si tratti solo di un bellissimo western, ma di uno dei film più belli mai realizzati in assoluto.

All’epoca fu una folgorazione. Passò al GIAC poco prima della chiusura definitiva del locale, quasi ad offrire agli affezionati e alla mia carriera di proiezionista l’occasione di un congedo davvero memorabile. Credo di essere rimasto immobile per un sacco di tempo nella cabina sospesa, dopo il The End sovrascritto sulla sagoma di Ethan che si allontana, senza decidermi a riavvolgere le pizze e a inscatolarle. Durante la proiezione aveva funzionato tutto perfettamente, la pellicola non si era strappata e non era mancata la corrente, nessuno si era abbandonato a commenti stupidi o a entusiasmi per le sparatorie. Di lassù avevo avvertito in sala una partecipazione inusuale, e sentivo ora la tensione scaricarsi nel mormorio degli spettatori all’uscita. Ero cosciente di aver visto qualcosa di più di un western, per cui non mi affrettai a raggiungere gli amici per concordare con loro il nostro personalissimo rifacimento. Sapevo improvvisamente che il tempo del gioco era ormai finito. Quello era il mio west, e me lo dicevano le emozioni, ma al tempo stesso era un altro west, e questo me lo diceva la ragione. Non rinnegavo nulla, anzi, Wayne rimaneva più che mai il mio modello, con la sua testardaggine, i suoi modi scorbutici, i suoi pregiudizi: ma per la prima volta il mio interesse era andato, anziché ai cavalli e alle pistole, all’uomo.

Voglia di essere un indiano

Tra i film che mi mancano c’è I pilastri del cielo. È quello che mi manca da più tempo. Non l’ho mai visto (ne ho visto in realtà uno spezzone in un passaggio televisivo) e credo non lo vedrò mai, perché voglio mantenere intatta questa mancanza. Quando passò nel cinema parrocchiale ero a letto con la febbre. Lo avevo atteso per settimane, il manifesto prometteva scintille, e dovetti rimanere invece, solo, nella casa deserta, ad attendere il ritorno di mio fratello. Che naturalmente non mi raccontò nulla, o mi fece un riassunto confuso (in fondo, aveva cinque o sei anni). È rimasto quindi un oggetto del desiderio, irraggiungibile anche dopo la comparsa delle cassette e dei DVD.

Ho appreso in seguito che la vicenda ricalca uno schema classico, con una variante. L’esercito vuole costruire il solito forte in pieno territorio indiano, in barba ai trattati. La tribù coinvolta è stata convertita al cristianesimo, fatta eccezione per il capo, che naturalmente si oppone all’ennesimo esproprio e uccide un missionario. Alla fine è lui ad essere fatto fuori dai suoi stessi uomini, e la cosa si risolve, naturalmente a spese degli indiani. Si capisce perché nel catalogo della San Paolo al titolo fosse dato un grosso rilievo: di indiani cristianizzati nel western non ne circolavano molti. Probabilmente il film non meritava tutti questi anni di desiderio, e la soluzione finale non mi sarebbe piaciuta nemmeno allora. Non bastava l’esercito, ci mancavano anche i missionari. Ma io voglio ricordarlo per un altro motivo. Protagonista de I pilastri del cielo, nella parte dell’ufficiale onesto e amico degli indiani, era Jeff Chandler, attore caratterizzato da un gran fisico ma soprattutto dalla chioma brizzolata, due cose che negli anni cinquanta ne avevano fatto un sex simbol, un po’ come Richard Gere negli ottanta. Al di là di questo, Chandler era un personaggio notevole: divo della radio prima ancora che del cinema, per via di una voce particolarmente “maschia”, musicista, compositore e persino editore musicale, oltre che liberal militante. Troppa grazia, pagata morendo a soli quarantadue anni per un’operazione alla schiena mal riuscita, senza nemmeno entrare nel mito: per riuscirci avrebbe dovuto andare a sbattere con la macchina, o suicidarsi.

Chandler lo avevo incontrato per la prima volta ne L’uomo di ferro, storia di un un pugile che vince il mondiale dei massimi. Era inevitabile che me ne innamorassi subito. Per ritrovarlo in un western ho però dovuto attendere L’amante indiana, dove recitava accanto a James Stewart, nel ruolo di Kociss. Evidentemente la sua interpretazione era piaciuta, perché nel giro di un paio di anni quel ruolo lo rivestì altre due volte, in Kociss, l’eroe indiano, da protagonista assoluto, e ne Il figlio di Kociss, in una parte secondaria (muore quasi subito, e lascia la scena ad un emergente Rock Hudson). Quel che mi ero perso con I pilastri del cielo, l’ufficiale leale e comprensivo, l’avrei poi riavuto con gli interessi in almeno un altro paio di pellicole, nel già citato Bill West fratello degli indiani e ne Il maggiore Brady, dove ci sono anche i Seminole.

Come indiano, ad essere sincero, Chandler mi convinceva poco (più di Hudson, comunque). Era molto più credibile come ufficiale unionista. Ma all’epoca, ed è questo il punto cui volevo arrivare, il ruolo del capo indiano era sempre affidato ad attori bianchi: Jack Palance e Antony Quinn erano i più quotati, ma poi c’erano Victor Mature, Ricardo Montalban, Charles Bronson, persino Robert Taylor, e nel decennio successivo sarebbero arrivati Chuk Connors e Burt Lancaster, e persino Paul Newman. Quando dovevano risultare particolarmente crudeli erano interpretati da Lon Chaney o, come abbiamo visto, da Boris Karloff. Lo stesso valeva per le squaw: oltre all’onnipresente Debra Paget, che avrebbe dovuto essere insignita di una cittadinanza onoraria dalla nazione indiana, le indiane bianche si sprecavano. Per le attrici hollywoodiane con i capelli neri e la carnagione un po’ abbronzata, compresa l’eterea Audrey Hepburn, era un ruolo “di passaggio” quasi obbligato.

Ma ripeto, non credo si debba leggere dietro questo fatto una venatura razzista. La verità è che le ragioni della cassetta vincevano su quelle della credibilità, e solo Ford poteva permettersi di utilizzare indiani genuini, perché nei suoi film non erano mai protagonisti. Quanto agli spettatori come noi, che in un western cercavano prima di tutto l’azione, il fatto che gli indiani più svegli fossero in genere dei mezzosangue, o avessero addirittura gli occhi azzurri, non costituiva un gran problema. Paradossalmente ci disturbava invece, quando erano genuini, constatare che non tutti avevano il fisico atletico di Palance o di Chandler, che quelli delle praterie potevano essere grassi e quelli del deserto, come gli Apache, piccoli e tozzi. Anche quelli di bocca meno buona come me, che pretendevano la verosimiglianza, avevano come riferimento un tipo ideale.

Il cinema mi ha dunque educato ad un ottimo rapporto con gli indiani. Li ammiravo, li stimavo, ero schierato dalla loro parte. Almeno fino a quando sono stati adottati dalla new age, e anche in Italia hanno cominciato a nascere gruppi che sull’onda di A scuola dallo stregone o Seppellite il mio cuore a Wounded Knee recuperavano la cultura pellerossa. Non so dove questi gruppi siano finiti oggi, quale altra cultura stiano recuperando: certo, ancora vent’anni fa una decina di Lakota veniva in tournè tutti gli anni e faceva sosta anche a Lerma, in un agriturismo dove si montava il tepee (ma poi si dormiva in camera). Erano dei buontemponi che avevano trovato l’America in Italia e cercavano giustamente di sfruttare il loro quarto d’ora di popolarità. Quando piacevano a me, però, negli anni cinquanta, non erano così popolari. O almeno, lo erano in altro modo. Lo erano, al solito, come parte di un mito, non di una storia.

Il mito lo avevano costruito i libri, i fumetti e, soprattutto, il cinema. Per una piccola parte, addirittura, contribuì anche la nascente televisione: i primi telefilm che passavano nella tivù dei ragazzi, quelli di Rin Tin Ttin, con Rusty che personificava il sogno di tutti noi di vivere in un fortino sulla frontiera, senza parenti a rompere le scatole: oppure quelli di Penna di Falco, che mostravano il west visto dal campo indiano, proponevano nella versione più semplice possibile tutti lo stesso modello.

Gli indiani non solo mi piacevano. Ero un vero esperto. Intanto avevo realizzato molto presto che non erano tutti uguali, che ogni tribù si considerava un “popolo” diverso, e già questo contribuiva a renderli interessanti. Mi intrigavano soprattutto le popolazioni meno conosciute: Seminole, Shoshoni, Corvi, Modoc, Nez Percez, Algonchini. Conosco ancora oggi i nomi di quasi tutte le maggiori tribù, progressivamente annotati nella mia famosa carta, che ad un certo punto non fu più sufficiente e dovette essere surrogata da un’altra più grande. Sapevo distinguere tra indiani delle pianure, del deserto, delle paludi e delle foreste, e annotavo le nuove scoperte come un entomologo le nuove specie, descrivendo anche i costumi, l’abbigliamento, le credenze, i rituali, le tecniche di guerra. Quando all’Università affrontai l’esame di Civiltà precolombiane con una docente particolarmente cerbera, mi guadagnai un trenta e lode sciorinando tutto quello che avevo accumulato in anni di cinema e di letture bonelliane e salgariane. E a proposito di queste ultime, credo sia necessario distinguere tra ciò che un’analisi “filologicamente e politicamente corretta” può oggi scovare nei testi di Salgari, e ciò che invece arrivava ad un lettore decenne. Ho letto tutti i libri del ciclo della frontiera, da Le selve ardenti in poi, e garantisco che, a dispetto dello stesso Salgari, da quelle letture è venuta fuori una sconfinata ammirazione e una sempre maggiore curiosità nei confronti di “quei formidabili guerrieri”, come erano sempre menzionati.

La stima per gli indiani era condivisa da tutti i miei compagni. Magari erano meno informati di me, ma la parte dell’indiano nel gioco non l’ha mai rifiutata nessuno. Certo, poi c’era un po’ di confusione nell’interpretarli, soprattutto per quanto concerneva abbigliamento e armamento, ma erano problemi quasi sempre superabili. Si confrontavano grosso modo due scuole di pensiero, quella degli indiani con le piume e quella, da me capeggiata, del modello Apache, con la fascia sulla fronte. Per me era al solito una questione di sobrietà e di verosimiglianza: le piume dei copricapi sioux, o quelle con cui si adornavano i Kiowa o i Cheyenne, erano affascinanti, ma come le indossavano i miei compagni mi sembravano un orpello ridicolo. Piuttosto si poteva puntare su altri particolari dell’abbigliamento: il pettorale di ossicini, ad esempio, sostituibile con uno di legnetti, o il wampum, la cintura sacra degli irochesi. Ne ricavai una, partendo da una vecchia cintura di mio nonno, veramente favolosa. La indossai persino per le prime uscite nelle sale da ballo, ma in quegli ambienti non era molto efficace.

L’armamento, al solito, creava le grane più grosse. Tomahawk, archi e coltelli di legno erano d’ordinanza, sui fucili si trovava un accordo, ma le pistole erano fuori discussione: agli indiani, tranne che agli Apache, le pistole non piacevano. Nei testi sacri di celluloide non si vedeva mai un indiano sparare con la pistola. Una volta mandai a monte una battaglia per via di uno zuccone che pretendeva di impersonare Cavallo Pazzo indossando un cinturone a due fondine, e sostenendo che proprio in quanto pazzo poteva permettersi qualunque cosa.

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Il vero west è quello delle criniere al vento, della polvere sollevata dagli zoccoli, dei balzi prodigiosi che lasciano l’ostacolo tra l’eroe e i suoi inseguitori, delle redini lente e dell’abbeveratoio, del pietoso colpo di pistola col quale si dà l’addio al compagno di tante avventure, ferito a morte.

John Ford diceva che per fare un nuovo western bastava cambiare i cavalli. In effetti, nel western degli ampi spazi il viaggio e l’avventura sono imprescindibili dagli indiani e dai carri coperti, ma prima ancora lo sono dal cavallo. Uno scorridore delle praterie è tutt’uno con la sua cavalcatura: se questa muore o gli viene rubata per lui è finita. Non può sfuggire agli indiani, andare in soccorso ai pionieri attaccati o lanciarsi a sua volta all’inseguimento dei malvagi, nella scena finale del film. Ma il cavallo è qualcosa di più di una protesi animata: è un compagno fedele, in qualche caso l’amico migliore, o addirittura l’unico. Eppure quasi sempre si tratta di animali anonimi, spremuti oltre ogni limite e nei cui confronti l’unico atto d’amore, quando crollano sfiniti o azzoppati, è una pallottola che li libera dalle sofferenze. Solo in qualche caso, soprattutto quando si tratta di film seriali, quelli imperniati su un eroe fisso, diventano co-protagonisti ed hanno un nome e una loro precisa identità. Ricordo ad esempio Trigger, molto più simpatico ed espressivo del suo padrone, che era Roy Rogers, un cow boy canterino, ma soprattutto Topper, il baio di Hopalong Cassidy. Li ricordo perché Renzo li conosceva tutti, compresi quelli di Ken Maynard o di Tom Mix, e mi faceva una testa così su quale era più bravo e più veloce, e sapeva anche “interpretarli”. Renzo non era un animalista, ma era il figlio del macellaio.

Messa in questa maniera si capisce perché il furto di un cavallo fosse considerato nel west il peggiore dei delitti, e venisse punito direttamente con l’impiccagione: persino per l’omicidio si era più possibilisti. Eravamo quindi abituati a vedere scene di poveri cristi accusati di furto che venivano salvati all’ultimo momento, quando già avevano la corda al collo, dall’arrivo dell’eroe. Qualche volta, come in Là dove scende il fiume, l’eroe doveva poi pentirsi di essere intervenuto: in altri casi, come in Alba fatale, non arrivava nessuno e tre poveracci venivano impiccati per un furto che non avevano commesso. La visione di quest’ultimo film ci sconvolse: eravamo entrati con l’idea di goderci scazzottate e sparatorie, e ci trovammo di fronte ad una vicenda di tale intensità tragica da non lasciare indifferenti neppure degli adolescenti semiselvaggi. Capimmo allora che la legge di Lynch era detestabile, anche nei confronti di colpevoli accertati, perché ad applicarla erano in genere proprio quei vigliacchi che prendevano coraggio solo dal numero e davanti alla pistola spianata dell’eroe se la filavano con la coda tra le gambe. Al di là di questo, comunque, la pena di morte per il furto di un cavallo a noi pareva senz’altro eccessiva.

Probabilmente sulla nostra valutazione pesava il fatto che nel gioco il cavallo creava qualche problema. Non usavamo manici di scopa, ci saremmo sentiti ridicoli già a quattro anni, ma nelle “trasferte” o negli attacchi dovevamo almeno mimare il rumore della cavalcata, e lì venivano fuori le cose più strane, perché ciascuno l’interpretava a modo suo, schioccando la lingua o battendo ritmicamente i piedi: non c’era un codice prestabilito che fissasse il corretto suono degli zoccoli o quello del nitrito, e quindi era occasione di continui lazzi e ironie. Molto presto finimmo per non farne più nulla, e lasciar perdere le cavalcate. L’alternativa era quella di divedersi i ruoli e creare le coppie cavallo-cavaliere, ma è evidente come per giochi a trama complessa non fosse praticabile. Funzionava solo per brevi scontri isolati, tornei cavallereschi (per modo di dire) che con l’avventura western avevano poco da spartire. E poi, con la mia stazza, ero necessariamente destinato a interpretare sempre il ruolo del cavallo. Che non mi piaceva.

Il nostro rapporto con i cavalli non era facile, non solo perché nessuno di noi naturalmente ne possedeva uno, ma soprattutto perché dalle nostre parti, in quegli anni, di cavalli non ce n’erano proprio. La moda dell’agriturismo e dei maneggi sarebbe arrivata molto dopo; per i lavori agricoli nelle nostre colline era più adatto il bue. Solo di famiglie un tempo benestanti, o addirittura facoltose, si diceva che prima della guerra “avevano persino il carrozzino con il cavallo”. Per noi il cavallo era quindi un animale quasi mitico, e quando capitava di incrociarne uno, magari a qualche fiera, lo guardavamo come un esemplare da zoo. Era l’unica occasione in cui potevamo vedere dal vivo i parenti di Campione, il protagonista di un’altra delle primissime serie televisive. Oltre che con i buoi, avevamo una certa dimestichezza solo con muli ed asini, che qualche contadino usava ancora.

Nessuno della mia generazione, quando qualche decennio dopo scoppiò il boom dell’ippica country, si fece contagiare. Io stesso, che ho coltivato a lungo il sogno di girare l’Appennino in compagnia di un mulo, non sono salito a cavallo più di un paio di volte, così come non ho mai indossato un cappello a falde larghe. Bisogna essere seri, almeno con i propri sogni.

In Ombre rosse i cavalli più importanti sono quelli aggiogati alla diligenza (alla Stagecoach, appunto, come nel titolo originale): quelli più pericolosi sono invece montati dagli indiani. Il successo del film ha in qualche modo legato alla diligenza l’immagine del west, ma almeno per me si tratta di una immagine distorta, che parla di un mondo già al tramonto. Lo stesso Wayne che, appiedato, chiede un passaggio, portandosi in spalla la sella, offre un’immagine di resa. Un uomo già libero di scegliere qualsiasi direzione è costretto a condividere un percorso obbligato con gente che al suo mondo è estranea, e in quello spazio ristretto l’estraneo diventa lui.

Presso il pubblico di Lerma la diligenza non era molto popolare. Intanto portava male. Viaggiare lì sopra significava votarsi ad essere rapinati o uccisi. Costituiva un richiamo irresistibile per banditi in cerca di bottino o per gli indiani, che sentivano che con la diligenza non potevano arrivare che guai. Nei film la si vedeva quasi sempre irrompere nella via principale vuota o piena di cadaveri, crivellata di pallottole o infilzata da frecce. Era giocoforza finisse così: in caso di attacco la diligenza era in assoluto svantaggio rispetto agli inseguitori a cavallo, doveva seguire un percorso fisso mentre quelli potevano tagliare tra le rocce, e tendeva immancabilmente a ribaltarsi o a perdere una ruota. Quando andava bene i viaggiatori erano costretti a rifugiarsi in una stazione di posta e lì venivano assediati e decimati sino all’arrivo dei nostri.

Accadeva ad esempio ne Il grido di guerra di Nuvola Rossa (dove peraltro Nuvola Rossa era in realtà l’unico a volere la pace), mentre ne I cavalieri del nord ovest il solito Wayne col suo squadrone arrivava troppo tardi, quando i gestori erano già stati uccisi. Ne L’uomo dell’est erano invece i banditi ad occupare direttamente la stazione di posta, e lì attendevano la diligenza per impadronirsi di un carico prezioso. Anche questa era una situazione ricorrente, che in genere preludeva a una vicenda claustrofobica, dove tutto si svolgeva in spazi ristretti, come ne L’agguato delle cento frecce. Altro motivo che tornava era la presenza sulla diligenza stessa, mescolato ai viaggiatori, del capo dei banditi, come in Duello a Rio Bravo: oppure quello della concorrenza senza risparmio di colpi tra compagnie rivali. Mi vengono in mente Una diligenza per l’ovest, perché c’era un giovanissimo John Wayne che cercava di aprire una nuova linea tra mille difficoltà, e soprattutto La corriera fantasma, ma quest’ultimo solo perché così rinominammo il catorcio vecchissimo che ci portava in Ovada al tempo delle medie).

Anche nel caso della diligenza il nostro scarso entusiasmo nasceva dalla difficoltà di farla entrare nel gioco: il cavallo almeno ciascuno poteva immaginarselo per conto suo, i carri potevano essere pensati in cerchio, a difesa, ma per la diligenza non c’era proprio verso. I motivi erano però anche altri. Sentivamo, come gli indiani, che quel mezzo non era in sintonia col “nostro” west. Era comunque un elemento di “civilizzazione”, implicava dei percorsi fissi e degli orari, sia pure con margini di giorni o addirittura di settimane. Fisicamente e metaforicamente era una gabbia, in contrasto con l’idea di assoluta libertà che associavamo al west. Infine, e soprattutto, apriva la strada dell’ovest anche a coloro che non avevano i requisiti, come le donne, o li avevano negativi, come gli affaristi, i giocatori, i “cittadini”.

Tutto questo valeva naturalmente tanto più per la ferrovia. Lo capimmo subito. La Via dei giganti, che aveva vinto una Palma a Cannes e fu proiettato come classico di cartello durante le feste natalizie, da noi fu un vero flop. Forse era anche colpa di Joel Mc Rea, ma sono convinto che a non convincere fosse tutto l’assieme, l’esaltazione dell’arrivo del progresso attraverso il “cavallo di fuoco” (anche Sergio Leone si è ispirato a questo film, ma non a caso ha poi titolato il suo C’era una volta il West, a sottolineare come la posa delle traversine equivalesse alla sepoltura di un’intera epoca). Dopo quella proiezione imparammo a diffidare delle storie sulle cui locandine comparivano dei treni, anche se presi d’assalto dagli indiani. Quando poi tutto era giocato sulla sfibrante attesa del convoglio, come in Mezzogiorno di fuoco o in Quel treno per Yuma, veniva rotto quell’incantesimo della libertà dagli orari che è già una parte del fascino del west. Ci si accingeva alla visione già rassegnati, e magari a volte venivano fuori piacevoli sorprese.

In Amore selvaggio (Canadian Pacific nell’originale), ad esempio, Randolph Scott lavora per la ferrovia canadese, esplora territori selvaggi e non ha un attimo di tregua, dovendo affrontare sia gli indiani che la concorrenza. L’ambiente nordico giustifica la camicia abbottonata al collo e la giacca di montone che indossa vale da sola tutto il film.

Scott doveva avere un contratto con il trust delle strade ferrate, perché in Rotaie insanguinate lo ritrovammo molto più a sud, a difendere la ferrovia di Santa Fè addirittura combattendo contro tre suoi fratelli. A queste cose era abituato: per difendere una linea telegrafica (altra bestia nera degli indiani, e nostra, che preferivamo i segnali di fumo) in Fred il ribelle era coinvolto per l’ennesima volta in un conflitto tra fratelli. Il film è tutt’altro che memorabile, ma lo ricordo per due motivi: perché nessuno dei protagonisti si chiamava Fred e perché Scott nel finale andava al duello decisivo con le mani completamente ustionate, e naturalmente ci rimetteva la pelle. Devo dire che non lo leggemmo come un esempio di eroismo, ma come una scelta poco furba.

Creste e frange

C’è stato un altro ovest, prima del West. Tutta la storia americana, da Colombo in poi, è uno spostarsi sempre un po’ più in là, seguendo il corso del sole. I film sulla vecchia frontiera americana parrebbero appartenere molto lateralmente alla storia del western vero e proprio, mentre ne costituiscono invece un capitolo importantissimo, oggettivamente, per la qualità degli esiti, e soggettivamente, per una mia particolare predilezione. La lettura de “L’ultimo dei Mohicani” mi ha inoculato la passione per la storia delle prime guerre indiane, quelle che coinvolgevano Irochesi e inglesi da una parte e Uroni e francesi dall’altra, delle quali avevo comunque già avvisaglie nelle avventure a fumetti di Penna Bianca (l’amico dei Penobscott). Mi affascinavano le teste rasate col ciuffo o con la cresta a spazzolino (ho in mente un manifesto che metteva in primo piano, invece del bianco protagonista, un erculeo irochese nell’atto di attaccare col tomawack: non ricordo il film e nemmeno il titolo, ma quell’immagine è impressa da sessant’anni nella mia memoria) e anche il fatto che si trattasse di indiani senza cavalli, e che vivessero non nelle grandi pianure o nei deserti, ma nelle foreste: e ancora, cosa non secondaria, che potessero battersi con i bianchi praticamente ad armi pari, anziché farsi massacrare dal fuoco dei fucili a ripetizione. Ancora oggi i guerrieri che montano la guardia sugli scaffali della mia biblioteca, categoricamente tabù per mio nipote, sono tutti irochesi o algonkini (tra l’altro, una tipologia di soldatini un tempo introvabile).

Il cinema non mi ha deluso. Uno dei film più avvincenti che abbia mai visto è senza dubbio Passaggio a nord-ovest”, di King Vidor, del 1935.

In “Passaggio a nord Ovest” c’è un uomo che coltiva un sogno. Non è Renzi, è il maggiore Rogers che appunto vive per la ricerca del famoso passaggio. Cosa se ne farà, non è dato saperlo, e non è comunque rilevante. Ciò che importa è che Rogers si è dato uno scopo e lo persegue sino in fondo. Il film è politicamente scorrettissimo, gioca tutto su una spedizione punitiva contro gli indiani Athabasca. Marcia di avvicinamento, distruzione del campo con allegro massacro dei suoi abitanti, travagliato ritorno. L’Anabasi sulle rive dell’Ontario. Quattro idee, chiarissime. Quando chiude non senti montare dentro la voglia di massacrare gli Athabasca, cosa peraltro difficile perché non ce ne sono più, ci ha pensato appunto Rogers, ma quella di coltivare un sogno si, e magari di sperimentare un po’ dell’amicizia, della lealtà, della solidarietà che i rangers di Rogers vivono tra loro.

Ho rivisto il film almeno cinque o sei volte, lo conosco a memoria. Qualche anno dopo il primo folgorante impatto ho letto il romanzo di Kenneth Roberts da cui era stato tratto, e oggi ne possiedo tre diverse edizioni, con tanto di cartine. Spencer Tracy e i suoi rangers avevano conquistato comunque anche il resto della compagnia. Appena tornò la primavera (l’avevamo visto in una serata di neve), il primo giovedì di vacanza partimmo di buon mattino per una spedizione lungo il Piota, attraversando il torrente più volte e inoltrandoci nei boschi dell’Appennino. Io disegnavo la mappa del percorso, assegnando un nome a tutte le rocce un po’ più rilevanti e ad ogni ruscello che confluiva nel torrente. Andò a finire naturalmente che a metà pomeriggio eravamo ancora a diversi chilometri da casa, e che le nostre madri organizzarono una spedizione di soccorso, trasformata poi in punitiva non appena ci arrivarono a tiro. Ho ancora nelle orecchie lo schiocco di una zoccolata sulla testa di Kociss, e negli occhi la faccia di mia madre. La mappa l’ho poi completata da adulto (ero addirittura già padre), risalendo per due giorni il Piota e poi il Gorzente – gli equivalenti nostri di Mississippi e Missouri – con un amico, sino alle sorgenti.

Il successo di Passaggio a nord-ovest si è ripetuto per tutte le sue appendici. L’adorazione per Rogers mi ha persino spinto ad apprezzare due film girati con quattro soldi da Jacques Tourneur, probabilmente nati dal montaggio di una qualche serie televisiva mai apparsa in Italia. I film erano Guerra Indiana e Frontiere in Fiamme, girati entrambi nel ‘59 con lo stesso cast. A interpretare Rogers era Keith Larsen, assolutamente dimenticabile, ma qualcosa di buono c’era, perché essendo girati originariamente per tempi brevi dovevano condensare maggiormente l’azione, quindi risultano sotto questo profilo molto ricchi. L’unico problema erano gli indiani, che malgrado la cresta riuscivano assai poco convincenti.

Nel filone della ricerca del passaggio un altro caposaldo è senza dubbio I due capitani, (di Rudolph Maté, 1955) con Charlton Heston e Fred Mac Murray. Pur essendo più recente di vent’anni rispetto al film di Vidor passò al GIAC qualche mese prima, inaugurando una stagione favolosa. Quando lo proiettammo riuscii ad ottenere dal viceparroco di ripeterlo la serata successiva, quasi una visione privata, per dare modo agli amici che lo avevano perso di recuperarlo. C’eravamo tutti, anche quelli che già lo avevano visto, e Lewis e Clark, ma anche Donna Reed che interpretava Sacajawea, divennero popolari a Lerma prima ancora di Rogers.

Se per i miei amici questi furono dei buoni film “di indiani”, a me aprirono letteralmente un mondo, inaugurarono una passione che mi ha accompagnato poi per tutta la vita: quella per la letteratura di viaggio in genere e per la storia delle esplorazioni geografiche in particolare.

Da cosa è giustificato questo cumulo di libri? (n.b. sto riferendomi alla sezione viaggi della mia biblioteca) Al solito: da una passione degenerata in mania. Per farla breve, la curiosità per i racconti di viaggio l’ho sempre avuta; è nata da un libro su Magellano e da un film favoloso, “I due capitani”, sulla spedizione di Lewis e Clark lungo il Missouri, si è consolidata nella prima giovinezza in compagnia del “Kon-Tiki” di Heyerdhal e di “I fiumi scendevano a oriente”, e da lì si è poi riversata su ogni tipo di esplorazione.

Vorrei soffermarmi un momento sul tema viaggio. Più sopra ho parlato di Aiace. Se cerchiamo nell’epica greca gli archetipi di quella western, mentre per l’assedio il riferimento classico andava all’Iliade, qui corre naturalmente all’Odissea. O anche, come si è visto, all’Anabasi. Il tema del viaggio non è affatto nuovo, anzi, è antico come la letteratura stessa. Lo ritrovi in tutte le epopee. È naturale che sia così: da un lato testimonia la memoria dei popoli per una primordiale condizione nomade, dall’altro si presta a diventare metafora dell’iniziazione alla vita, o della vita stessa. Inoltre è un argomento che offre gli spunti narrativi ideali, perché determina le condizioni migliori per l’avventura e per il confronto con luoghi, usanze e persone diversi.

Da ragazzo l’idea del viaggio mi faceva letteralmente friggere il sangue: di “quel” tipo di viaggio, naturalmente, quello che veniva raccontato dal cinema o dai libri di Verne e di London, e subito dopo da quelli di Kerouac: il viaggio come occasione per mettersi alla prova, più che per ampliare la conoscenza. Era me stesso che volevo conoscere. E il film western in questo senso era perfetto: tutti i personaggi, i superstiti almeno, al termine del viaggio hanno di sé e del mondo una concezione diversa da quella che avevano in partenza: si riscattano se prima erano caduti, si innamorano, stringono amicizie, ecc.

Col tempo questa necessità di misurarmi con me stesso ha lasciato il posto ad una più o meno rassegnata accettazione. Una raccolta di queste dimensioni parrebbe suggerire l’immagine di un appassionato viaggiatore, carico di chilometri, di esperienze agli antipodi e magari di diapositive. Invece, come ti ho già detto, non sono nulla di tutto questo. Naturalmente anch’io mi sono mosso un po’, almeno in gioventù, sperimentando diversi modi di spostamento (soprattutto i più economici): ho vissuto letteralmente il mio “Senza un soldo a Parigi e a Londra”, ho navigato come mozzo, ho percorso a piedi la Corsica, mezza Italia e la Foresta Nera, ma tutto questo in maniera sempre episodica, con il tempo alla gola. Se volessi cercare degli alibi potrei accampare proprio la mancanza di tempo, la perenne urgenza dei lavori in campagna, nei periodi liberi dalla scuola, e la precocità dei miei impegni familiari. Potrei trovare un sacco di scuse.

Ma non mi sembra il caso: probabilmente ho viaggiato poco perché non ne avevo poi un così gran desiderio, o almeno non avevo voglia di muovermi alla maniera che mi sarebbe stata consentita, che era quella di un turismo veloce. Inoltre mi sono reso conto molto presto che nei viaggi cercavo piuttosto la conferma delle cose lette che non la scoperta di ciò che non conoscevo (e raramente la trovavo). Non ero del tutto libero, perché facevo in fondo dei viaggi di verifica, e allora tanto valeva inseguire libertà e soddisfazione sulla carta.

Con l’età sono diventato sempre più sedentario. A differenza dell’Ariosto non penso di aver già visto mondo a sufficienza; al contrario, ritengo di averne visto pochissimo. Ma credo che riuscirei a vederne poco anche se mi dedicassi d’ora in poi ad una vita errabonda, oppure che incontrerei ormai più o meno le stesse cose dovunque. Magari è solo la sindrome della volpe e dell’uva, ma arrivo persino a pensare che chi sente tutto questo bisogno di muoversi in lungo e in largo molto spesso stia solo cercando rassicurazioni – o giustificazioni – dell’essere vivo, abbia bisogno del vento in faccia per tenersi sveglio. Una cosa tipo “mi sposto, dunque esisto”. Ora, io non credo che lo spostamento sia indispensabile né al “vivere” né al “vedere”, se non in relazione alla quantità: chi ha girato tutti e cinque i continenti è probabile non abbia mai esplorato le colline dietro casa, non ne avrebbe avuto materialmente il tempo, e chi ha visto moltissime foreste difficilmente ha veduto crescere un albero. È questione di gusti. Il risultato è comunque che, in sintonia stavolta con l’Ariosto, anch’io preferisco viaggiare sulle carte, perché questo mi consente di scegliere e di muovermi nel tempo, oltre che nello spazio.

Sulle carte, ma naturalmente anche al cinema.

La trilogia dei miei grandi western “di esplorazione” avrebbe dovuto essere completata da Il grande cielo. In realtà questa rimase a lungo una casella vuota: Il grande cielo ebbe il torto di passare sullo schermo della Società Filarmonica, e non ci fu santo ad ottenere la dispensa, per una misera volta, da mia madre e dal viceparroco (oltretutto, era segnalato come “escluso”). Ho dovuto ricorrere all’immaginazione per anni, basandomi sulle confuse ricostruzioni degli amici, che malignamente, sapendo quando ci patissi ad averlo perso, ne parlavano come di un capolavoro epocale: qualcuno più fantasioso aggiungeva anche particolari suoi, così che sembrava che ognuno avesse visto un film diverso. Insistevano soprattutto su una scena che evidentemente li aveva scioccati, quella in cui, sul barcone col quale Kirk Douglas risale il Missouri, la danza francese di un suo compagno viene interrotta all’improvviso da una freccia che gli trapassa la gola. Quella scena ha continuato a girarmi in mente fino a quando, anni dopo, ho finalmente potuto completare l’album: ormai però il gioco vero era finito e ci voleva ben altro per shoccarmi. Ho molto apprezzato in compenso l’altra cosa che li aveva colpiti, che mi intrigava forse più ancora della freccia e che era con tutta probabilità il motivo della classificazione di “escluso”): le gambe della squaw indiana della quale entrambi i protagonisti si innamorano, messe in bella mostra da una minigonna che anticipava di parecchio Mary Quant. Per inciso, erano quelle di Elisabeth Threatt, e non ricordo di averle ammirate né prima né dopo in alcun altro film. Devo confessare per onestà che ho rivisto recentemente Il grande cielo, stavolta dopo aver letto lo splendido romanzo di A. B. Guthrie dal quale era stato tratto, e l’effetto è stato piuttosto deludente.

Passaggio a nord-ovest non è stato tuttavia il primo film sugli indiani delle foreste ad entusiasmarmi. L’amore per i crani crestati risale infatti a Sterminio sul grande sentiero, un lavoro senz’altro più modesto, ma non meno avvincente. Ne conservo un ricordo vago, ero davvero molto piccolo, ma ho ancora ben viva l’impressione per quelle strane acconciature. Come sempre accade (almeno, a me accade così), ero impaurito e al tempo stesso attratto da ciò che mi spaventava.

Non ho mai visto invece, neppure in tivù, L’ultimo dei Mohicani nella versione con Randolph Scott (in Italia era uscito come Il re dei Pellirosse), e per i motivi che più avanti vedremo non me ne rammarico più di tanto. Ho potuto comunque rifarmi: del capolavoro di Feminore Cooper sono state girate innumerevoli trasposizioni. Una di queste, quella che ricordo meglio, diretta da George Sherman (L’ultimo dei Moicani – sic –), si salvava solo perché Uncas era interpretato da un Michel O’Shea in splendida forma fisica (O’Shea l’ho poi rivisto in un mediocre film su Jack London, nel quale la forma non bastava). Al contrario ero rimasto molto deluso dal Calza-di-Cuoio di John Hall, un attore all’epoca piuttosto in voga e in seguito giustamente dimenticato (l’avevo già incontrato ne Sul sentiero di guerra, dove si raccontavano la vicenda di Tehcumseh e la battaglia di Tippecanoe – e neppure lì brillava molto); e anche dal fatto che nel titolo Mohicani fosse scritto senza l’acca. Fu la prima volta che constatai come nessun film tratto da un libro che ami possa ridarti ciò che ti aspetti: nulla di quello che vedevo passare sullo schermo, personaggi, luoghi, tempi dell’azione, corrispondeva a quanto avevo immaginato sognando su quelle pagine. Fece lo stesso effetto anche ai miei amici, perché L’ultimo dei Mohicani lo avevano letto quasi tutti.

Quella che maggiormente ha saputo ricreare le atmosfere del libro è forse la versione girata nel ‘93 da Michael Mann, vincitrice addirittura di un Oscar. Ma è arrivata fuori tempo massimo, quando non c’erano più animi disposti all’incanto. Quarant’anni prima sarebbe diventato un film di culto, come Passaggio a nord-ovest. Oggi i ragazzi sotto i venticinque anni nemmeno lo conoscono.

Nel novero di quelli che potremmo definire i “western a piedi”, perché gli scontri avvenivano nelle foreste, o sui laghi, e non nella prateria e nei canyons, rientrano tutti i film sulla rivoluzione americana e sulla vecchia frontiera, quella precedente l’avanzata verso l’ovest vero e proprio. Per me quello era il mondo del grande Blek, e lo ritrovai in due film girati da veri colossi, La più grande avventura, di John Ford, e Gli invincibili, di Cecil de Mille. Del primo ho ancora impressa la sequenza con Henry Fonda in fuga attraverso una radura, braccato dai pellerossa, ripresa poi pari pari da Hugo Pratt in Ticonderoga (evidentemente era rimasta impressa anche a lui). Del secondo il duello di Gary Cooper con un gigantesco indiano (era più alto una spanna di lui, che in genere quanto ad altezza non la cedeva a nessuno). Erano film girati con l’intenzione esplicita di creare un’epopea, di cuocere dei mattoni per edificare l’identità americana, allo stesso modo del primo La conquista del West (1935), sempre di De Mille. Credo fossero addirittura promossi e finanziati all’amministrazione federale, come iniezioni ricostituenti per rafforzare la fiducia della nazione dopo la grande crisi o dopo i sacrifici dell’ultimo conflitto. Ma questo lo so adesso, e non cambia comunque una virgola del mio giudizio critico, che si fonda invece su ciò che mi incuriosiva a dieci anni: fucili, pistole, abbigliamento, strani rituali, forme di tortura, tutto quello insomma che poteva essere riversato nel gioco o soddisfare una curiosità storico-antropologica rivolta soprattutto ai dettagli. In questo senso erano una miniera, perché obbligati ad una certa accuratezza nell’ambientazione storica. Quanto all’epopea, penso che paradossalmente non siano riusciti nell’intento, là dove invece ci riuscirono film dalle pretese molto più modeste, ma meno smaccatamente celebrativi. Non si tratta di simpatie personali. È probabile abbiano pesato sulla percezione il temperamento e la scafatura tipica italiana, per la quale tendiamo a dribblare o addirittura a irridere tutto ciò che puzza di retorica. Ogni operazione di questo tipo da noi, anche sul piano del mercato, si è rivelata un fiasco: basti pensare a La battaglia di Alamo o al remake de La conquista del west. E se chiedeste a qualsiasi dei miei compagni i dieci titoli di western di cui si ricordano, nessuno vi citerà questi.

Ricordo invece molti altri western “aurorali”: un insolito John Wayne col berretto di castoro, coda compresa, ne Il primo ribelle, che rievoca l’inizio della rivolta anti-inglese, e più tardi Lex Barker in due film girati esattamente nello stesso luogo (un fortino di tronchi piazzato sulla riva di un lago e destinato invariabilmente ad essere bruciato), Il riscatto degli indiani e Lo sparviero di Fort Niagara. Erano prodotti decisamente di serie B, ce ne accorgevamo anche noi, e facevamo dell’ironia riconoscendo da un film all’altro rocce, alberi e sentieri. Le storie stesse si prestavano poco ad essere riprese nel gioco: troppo complicato spiegare la differenza tra indiani alleati e indiani nemici e assegnare le parti. Non ultimo poi, per me soprattutto, il fatto che le armi di cui disponevamo risultassero anacronistiche. Rimaneva però l’incanto dei paesaggi.

Al di là della ventata di entusiasmo collettivo per le esplorazioni, che arrivò comunque dopo la fine delle elementari, devo dire che per me l’interesse per questo tipo anomalo di western è stato da subito prioritario, e lo è ancora oggi. Tale predilezione è riuscita a farmi apprezzare a volte film non eccezionali, come Il cacciatore del Missouri, con Clark Gable, o La tortura della freccia, con un Rod Steiger che non ha proprio il fisico per la prova cui si riferisce il titolo. Erano sufficienti gli abiti di pelle e i fucili a canna lunga per mettermi in sintonia. Ne caso de La tortura della freccia si aggiunse anche la scoperta di Charles Bronson, nella parte di Blue Buffalo, entrato di forza prima nell’olimpo dei nostri capi indiani preferiti e poi in quello degli attori di culto. Ho continuato anche più tardi a godere di grosse soddisfazioni con cose come I giganti del West, e ho rinnovato l’entusiasmo con il fantastico Corvo rosso non avrai il mio scalpo.

Alla categoria del western aurorale ascrivo tutti i film ambientati in luoghi diversi da quelli canonici, praterie, deserto, montagne rocciose. Quelli ambientati nelle zione paludose del sud est, ad esempio, oppure oltre il confine settentrionale, nelle sterminate foreste canadesi. Nella top ten dei film che mi sono perso, ai primissimi posti assieme a “Il grande cielo” e a “I pilastri del cielo”, c’è senz’altro Tamburi lontani. In questo caso l’assenza era giustificata, perché Tamburi lontani a Lerma non era mai passato, nemmeno sugli schermi della Società. Lo aveva visto Franco (il famoso Kociss) a Genova e ne parlava con entusiasmo. Qui non erano apparsi nemmeno i manifesti, e riusciva difficile anche fantasticarci su, dal momento che Franco come narratore era un disastro. Raccontava di paludi, di fortezze, di serpenti, di guerrieri che spuntavano dal nulla: l’unico dato certo era che si trattava di indiani particolari e misteriosi, i Seminole, All’epoca non era facile trovare altre notizie, a Lerma non non c’era una biblioteca cui fare riferimento e naturalmente nessuno di noi possedeva un’enciclopedia. Sapevo solo, per vaghi accenni, che vivevano non all’ovest, ma nel sud-est degli Stati Uniti, tra Texas e Florida. Dovetti quindi attendere, per conoscerne qualcosa di più, di veder arrivare un paio d’anni dopo Seminole.

Non sto a raccontare l’aspettativa creata dal manifesto, esposto una settimana prima, con un indiano crestato che pareva balzare fuori dalla bacheca: agli altri credo non fregasse poi più di tanto, ma per me era un evento. Il film deluse in realtà le promesse di adrenalina. I Seminole non sembravano molto diversi da altre tribù già risapute, anzi, davano una impressione un po’ stracciona, e il fatto che il capo fosse Antony Quinn, già visto nei panni di altri capi di altre tribù, annullava ogni effetto di novità. Il resto lo faceva Rock Hudson, che i produttori si intestardivano a vestire di panni western che non gli erano affatto congeniali. Di eccezionale, e strano, c’era soltanto il paesaggio: una natura lussureggiante, diversa dalle ambientazioni western cui eravamo abituati. Mi aspettavo quindi dei chiarimenti da La rivolta dei Seminole, arrivato casualmente pochi mesi dopo, ma ci ritrovai quasi esattamente la stessa storia, con qualche scaramuccia in più ma con una fotografia, e quindi un paesaggio, molto più scialbi. Cambiava solo il nome derl capo della rivolta, non più Osceola – come sarà anche in Tamburi lontani – ma Gatto Nero. Ricordo però che fui colpito da una nota stonata: il protagonista ottiene l’amore della ragazza di cui è innamorato solo dopo la rivelazione che non è un meticcio, ma ha puro sangue bianco. Fu davvero una delusione.

La morale della favola è che ho dovuto attendere vent’anni per vedere Tamburi lontani, e avere la conferma che si, era effettivamente un capolavoro. All’epoca però lo sguardo era ormai più smaliziato, e potei constatare che lo schema era esattamente quello di Passaggio a nord-ovest. Anzi, ormai avevo imparato anche a leggere “trasversalmente”, quindi realizzai che l’archetipo era un classico greco, l’Anabasi di Senofonte. E avendo apprezzato suo tempo un film di guerra realizzato qualche anno prima dallo stesso regista, Obiettivo Burma, ci voleva poco a capire che lo schema utilizzato era esattamente lo stesso (marcia di avvicinamento, battaglia, ritirata), trasportato in un’altra epoca e in un altro contesto.

Sotto il profilo della “correttezza politica” Tamburi lontani era altrettanto scorretto di Passaggio a nord-ovest. Gli indiani sono nemici, compiono incursioni, sono in combutta con avventurieri e banditi, devono ricevere una lezione. Eppure, torno a ripetere, in tutto questo non c’era alcun sentore di razzismo (ce n’era molto di più ne La rivolta dei Seminole).

Giubbe rosse e cavalieri solitari

Quella per le giubbe rosse, e per il Grande Nord in generale, è stata un’altra fissazione molto precoce. Non ricordo se sia nata prima dal cinema o dai fumetti (una delle più avvincenti avventure di Tex, uscita nei primissimi anni cinquanta, si svolge proprio nel Quebec, a fianco di Gros Jean) ma senza dubbio una particolare predilezione per la neve e per le foreste l’ho sempre avuta. Da ragazzino disegnavo solo paesaggi innevati e mi commuovevo alla lettura de Lo zio di Svezia. Poi sono arrivati London e James Oliver Curwood (Il paese di là, La foresta in fiamme, La valle degli uomini silenziosi) ed è diventata passione. Ma a quel punto c’era già un retroterra di immagini e di avventure che risalivano a Le giubbe rosse del Saskatchewan, visto molto prima del classico Giubbe Rosse con Gary Cooper. E subito a ridosso del primo era venuto L’inferno bianco, con Stewart Granger, che da allora ricordo solo con la giacca di pelle con le frange.

Non era un amore particolarmente condiviso dai miei compagni (come d’altronde quello per i sudisti). Era difficile coinvolgerli, si identificavano più facilmente con i soldati dell’Unione, con i pistoleri o addirittura con i Sioux. Giocava contro anche un equivoco di fondo, perché Giubbe Rosse erano chiamati anche gli inglesi nemici di Blek Macigno, una manica di imbranati come pochi, e a spiegare la differenza a gente che non aveva lo stesso mio amore per la storia e la geografia veniva lunga. La cosa però non mi disturbava più di tanto: in fondo è anche piacevole avere un culto tutto personale, quasi segreto.

Che cosa rendeva speciali le Giubbe Rosse? Intanto erano dei solitari. Gli effettivi erano molto ridotti, e ogni agente della polizia a cavallo doveva controllare aree immense. Questo presumeva che ciascuno fosse particolarmente in gamba, in grado di cavarsela in ogni situazione, contro uomini, orsi e lupi, accendendo fuochi in mezzo a tempeste di neve, guidando canoe su laghi immensi e slitte quando i laghi erano ghiacciati. Poi avevano un rapporto diverso con gli indiani, in verità pochini, e forse proprio per questo. Colpisce nel margine superiore del manifesto di Le giubbe rosse del Saskatchewan la scritta: “Avevano diritto la civiltà e il progresso di escludere gli aborigeni dalle loro terre?” Il che implica che nel 1954, a riprova di quello che ho già detto sopra, quanto meno il problema lo si poneva, anche se di una ‘civiltà’ erano accreditati solo i bianchi. Quella scritta comunque fu forse l’unica parte del manifesto che all’epoca non lessi. Mi interessava altro. Nel film c’erano degli scenari veramente mozzafiato (il mio Canada è rimasto proprio quello), c’era un fortino, c’era una ritirata come in Passaggio a nord-ovest, c’era soprattutto Alan Ladd, a suo agio nella giubba rossa e soprattutto a cavallo, dove non pativa troppo la bassa statura.

Alan Ladd non era un infatti un gigante, come Wayne, o Stewart, o lo stesso Cooper. Non arrivava al metro e settanta, e in mezzo a tutti quei lungagnoni deve aver patito un bel complesso di inferiorità. Ma questo non gli ha impedito di diventare un eroe simbolo, di stamparsi nel nostro immaginario davvero come un cavaliere della tavola rotonda, senza macchia e senza paura. Rapportato al mondo dei fumetti, Ladd stava a Wayne come Pecos Bill stava a Tex. Appariva gentile e deciso, veloce a sparare e bravo a menare le mani, ma tutt’altro che un sanguinario. Aveva attorno un alone quasi magico. Io a quell’epoca di Ladd sapevo già tutto: dopo aver visto Rullo di tamburi e La montagna dei sette falchi avevo trovato dall’edicolante un cineromanzo (si chiavano Star o Il vostro cinema) e mi ero divorata tutta la biografia. Quando ho letto che era stato un tuffatore eccezionale, in predicato di partecipare alle Olimpiadi prima di essere fermato da un incidente, divenne un idolo. Ma già da prima era entrato nel pantheon dei miei eroi, e non solo di quelli western,

Io ho riconosciuto l’imperativo categorico molto precocemente. Avevo si e no otto anni, e l’ho incontrato sotto le spoglie di Alan Ladd, lo Shane de Il Cavaliere della valle solitaria. Descrivere oggi cosa poteva significare un film negli anni cinquanta per un ragazzino di campagna, e un film western per di più, e quel western in particolare, è impossibile. Infatti non ci provo nemmeno, e mi limito a dire di cosa si trattava.

Shane arriva con un vecchio giaccone con le frange nel tipico villaggio del West; non sappiamo da dove venga, e lui sembra non sapere dove intende andare. Trova momentanea ospitalità in una fattoria, il padre agricoltore, la moglie biondina e carinissima, un bambino più o meno della mia età all’epoca: e poi la casa in tronchi di legno, la stalla, i recinti. Si sdebita aiutando nei lavori: ma è capitato nel bel mezzo di una guerra tra contadini e allevatori, e deve prenderne atto alla veloce. Ogni volta infatti che un contadino si reca al villaggio, dove accanto al magazzino c’è naturalmente il saloon (in realtà il paese è tutto lì, magazzino e saloon), i cow boys del grande ranch escono a provocare, e scoppiano i guai. Quando ci si trova in mezzo Shane mostra di che pasta è fatto, e aiuta il suo ospite Van Heflin a dare una ripassata a suon di cazzotti ai prepotenti. I prepotenti però le lezioni non le capiscono: mandano quindi a chiamare un famoso pistolero, che non ricordo come si chiami ma è interpretato da un giovane e già cattivissimo Jack Palance, il quale non perde tempo e ammazza un colono vicino della famiglia. A questo punto Shane deve scegliere: non avrebbe alcuna voglia di essere coinvolto in una guerra, probabilmente ne è uscito da poco; non è la sua causa, non deve difendere la sua terra né la sua famiglia. Non lo riguarda sotto alcun aspetto. Sa però che tirandosi indietro manderebbe diritto a farsi ammazzare il suo nuovo amico, determinato a difendere a costo della pelle la sua terra. E allora prende la decisione: olia la pistola, indossa il cinturone, rende l’agricoltore inoffensivo e si presenta al suo posto per la resa dei conti. Naturalmente si rivela più veloce e più preciso di Jack Palance, e lo fa secco. Poi sale a cavallo, raccoglie i suoi quattro stracci, saluta il ragazzino e riparte. Camus avrebbe detto: solidaire, solitaire.

Shane agisce solo per coerenza con se stesso e con un personalissimo e insieme universale senso della giustizia. Dietro c’è l’ombra di Kant. Diceva in fondo le stesse cose, e questo spiega perché al liceo, quando ho incontrato Kant, non ho scoperto nulla, ho avuto solo delle conferme. Io tra l’altro, data l’età e un ritardo tutto mio di sensibilità per queste cose (ho sempre considerato la presenza femminile nei western un inutile impiccio), non avevo colto le implicazioni sentimentali, in realtà piuttosto intuibili, tra Shane e la moglie carina dell’agricoltore: le ho scoperte solo più tardi, leggendo il libro dal quale il film era stato tratto. Non erano un fattore secondario, rispetto alla scelta morale: Shane sceglie di rinunciare ad una donna di cui si è innamorato (e che a sua volta è combattuta tra l’affetto per il marito e un confuso sentimento che non conosceva), salvando la vita del suo uomo. Se non agisse così non avrebbe più rispetto per se stesso, lo mancherebbe agli altri, non rispetterebbe la norma. Sceglie quindi di agire nel modo più totalmente disinteressato, a dispetto dei sentimenti (l’amore, l’egoismo, la paura), delle leggi degli uomini e di quelle divine. Si comporta in modo perfettamente autonomo: è un uomo giusto, un uomo etico. Quando si tratta di prendere una decisione non è nemmeno sfiorato dal dubbio: gli è tutto evidente. Gli è evidente perché vede la situazione attraverso gli occhi del ragazzino: sa che il ragazzo lo ha eletto a suo eroe e a suo modello. Il ragazzo guarda il padre, lo ama, lo ammira, ma capisce che non è del tutto libero di agire come vorrebbe. Guarda Shane, e sa che Shane può scegliere. Il ragazzino è la voce della coscienza, una coscienza nitida, pulita, semplice. Che gli dice: tu devi. È stato tutto semplicissimo. Io ero quel ragazzino, che in prima fila fremeva: avanti, tira fuori dagli stracci questa benedetta pistola e dagli una lezione. Non era difficile capire per chi fare il tifo, la regia aveva predisposto tutto: da una parte Alan Ladd, biondo e occhi azzurri, dall’altra Palance, con il volto di cuoio e gli occhi strizzati e cattivissimi. Ma non si trattava solo di questo: da una parte c’erano la prepotenza, la slealtà, la viltà di chi se la prende coi più deboli, dall’altra il coraggio, la dignità, la generosità. Era tutto estremamente evidente. E anche se più tardi ho cambiato radicalmente i miei gusti fisiognomici, e Jack Palance è diventato uno dei miei attori preferiti, quelli etici sono rimasti tali. Il che, al postutto, non significa che poi mi sia sempre attenuto all’etica di Shane, ma che quando non l’ho fatto ero cosciente di non farlo, e non mi piacevo affatto.

Dicevo che il ragazzino capisce che Shane può scegliere perché è solo, libero da impegni affettivi o di altro genere. Shane ha per tetto un cielo di stelle, lo stesso cui Kant guardava con ammirazione e venerazione. Ma quella di Shane non è solitudine: è libertà e autonomia piena, e questa libertà, anziché sgravare dalle responsabilità, ne crea una ancora più grande, perché non consente alcun alibi. Shane non lascia un’eredità biologica, che è controllabile fino ad un certo punto, dipende dalla combinazione dei geni: ne lascia una etica, e di questa, direbbe Kant, ha il controllo totale.

L’eroe immortalato da Alan Ladd è quello più tipico della poetica western. È il solitario che sembra preferire la compagnia del cavallo a quella dei propri simili e accordare fiducia solo alle proprie pistole, ma che ha un codice morale, e non esita a sporcarsi le mani e anche ad uccidere quando si tratta di difendere i più deboli. Rappresenta un mondo al tramonto, dal quale emerge giusto il tempo di riportare la giustizia, e al quale ritorna dopo aver lasciato alla comunità un chiaro messaggio: i diritti non sono un dono del cielo, occorre averne coscienza, conquistarseli e difenderli. E anche il coraggio, occorre darselo.

A distanza di tanto tempo ho maturato tuttavia un’altra considerazione. Il modello Ladd è diverso da quello Wayne, anche se entrambi appartengono alla razza dei nomadi e degli individualisti. Lo è fisicamente, per quanto già detto prima, e lo è anche sul piano psicologico: Ladd sa anche dominarsi, avere un controllo freddo sui propri istinti, persino a costo di passare per un vigliacco: ed è significativo che l’unico a essere certo del contrario sia proprio il ragazzino, che conserva uno sguardo innocente e pulito, che non si ferma alla superfice. Wayne è condizionato dalla sua stessa fisicità: è l’eroe dalle spalle larghe, come Aiace appunto, che già al primo incontro con i cow boys del grande ranch avrebbe fatto sfracelli. Ladd attende invece che le cose precipitino, arrivino al punto di non ritorno, quello in cui è chiaro da che parte sta il torto. È il giustiziere che agisce non entro la cultura della vendetta, ma entro quella del diritto: il diritto della civiltà, della comunità, contro quello individuale o della stirpe. Gli manca la stella per essere l’uomo della legge. Quando mostra al ragazzino come si spara, si premura di ricordargli che quello è l’ultimo degli argomenti cui ricorrere, e solo in nome del giusto. Wayne ne Il pistolero insegna a sparare al figlio della sua pensionante, e gli dice solo mirare con calma. Sarà proprio quest’ultimo a portare a compimento la sua vendetta, anche se subito dopo si sbarazzerà della pistola.

***

Ero partito dalle Giubbe rosse, e il discorso è rimasto in sospeso. Lo completo dicendo che rimasi abbastanza deluso da quello che sembrava essere il prototipo di tutti i film sulla polizia del nord-ovest, il Giubbe Rosse (1940) di Cecil De Mille, atteso e sognato sui cataloghi per tanto tempo. Eppure raccontava lo stesso episodio di cui si parlava in Tex, la rivolta dei meticci franco-canadesi del Quebec. Ma non funzionava. Intanto Gary Cooper non è una giubba rossa, ma il solito sceriffo in trasferta all’estero alla caccia di un delinquente. Poi le giubbe rosse qui sono intruppate come un corpo militare, e tutte le caratteristiche di cui sopra vanno a farsi benedire. Non un fiasco totale, insomma, ma una mezza cilecca. Tra l’altro, ho poi scoperto che il film è stato incluso tra i cinquanta più brutti della storia del cinema.

Mi sono comunque rifatto gli occhi con La pattuglia delle giubbe rosse (di Lesley Selander, un regista che in un quarto di secolo ha girato più di cento film, quasi tutti western), senza grandi attori e con una storia di rivalità tra fratelli ritrita, ma pieno di fantastici laghi e di foreste.

E non è finita lì. Ricordo ancora nettamente la mezza delusione provata per La spia delle giubbe rosse: contraddicendo il manifesto, le giubbe rosse in questione erano quelle contro le quali combatteva Blek Macigno, e quindi non godevano della nostra simpatia. Il film era ambientato durante la guerra dei Sette Anni, il che piaceva anche, ma sia gli scenari che gli indiani erano assai poco credibili. In compenso era tratto (molto liberamente) da un libro di Feminore Cooper (La spia), che continuai a desiderare di leggere per anni.

L’ultimo film programmato al GIAC, tra l’altro con eccezionale tempestività, a soli due anni dall’uscita, fu L’ultima freccia. Anche questo non suscitò entusiasmi, un po’ perché Tyron Power non era tra i volti western più conosciuti, e indossava una giubba azzurra anziché rossa e un casco coloniale anziché il tipico cappello a falda larga rigida e cupola bassa, il cappello da Giubba rossa appunto; un po’ perché gli indiani erano fin troppo pacifici, addirittura paciosi (in realtà, ne avevano ben donde, perché in Canada di terra ce n’era molta e non faceva gola a nessuno, e le rare tribù sparse su un immenso territorio non vennero sterminate); infine, perché ormai ci avviavamo verso l’adolescenza, e il tempo delle bande e della Cavalla stava per finire.

A non venire meno era invece la mia passione per il grande nord. Se l’ultimo film visto al GIAC fu L’ultima freccia, tra i primi visti in Ovada ci fu I Canadesi. Anche questo era un’opera modesta, con la particolarità di essere una produzione inglese. Ma quasi tutto il film era girato in mezzo alla neve, la polizia montata portava la classica divisa e la bustina di pelo di castoro, gli indiani erano quelli fuggiti dagli Stati Uniti, quindi abbastanza stressati e incattiviti. Gli ingredienti fondamentali, insomma, anche se male amalgamati, c’erano: e c’era, soprattutto, Robert Ryan.

I buoni, i cattivi e gli antipatici

Robert Ryan mi aveva conquistato nel ruolo del pugile, come già era accaduto per Jeff Chandler. Da ragazzo andavo matto per il pugilato, seguivo alla radio le imprese di Duilio Loi e di Tiberio Mitri e sognavo di salire un giorno sul ring. In Stasera ho vinto anch’io Ryan interpretava una parte che gli calzava a pennello, dal momento che a vent’anni era stato una promessa tra i pesi massimi (ma forse c’entra anche il fatto che al termine del film avevo visto negli occhi di mio padre un luccichio di commozione). Subito dopo venne l’unico western del quale lo ricordo protagonista, Il magnifico fuorilegge: una conferma per la prestanza fisica, ma un flop per quanto concerneva l’azione: parlavano troppo e sparavano poco, anche se si trattava della banda di Quantrill. In seguito Ryan l’ho ritrovato solo come coprotagonista (in Frontiere selvagge, assieme a Randolph Scott), o nella parte di antagonista (ne Lo sperone nudo, con James Stewart). Anche nei ruoli negativi però mi piaceva molto: era un avversario coi fiocchi, capace di dare filo da torcere all’eroe senza abbassarsi a vigliaccate: e così mi è rimasto nel cuore, e ha rinverdito la mia stima con i film della vecchiaia, da I professionisti a Io sono la legge, fino a Il mucchio selvaggio, nei quali le sua interpretazioni sono autentici camei. Ryan, con Ben Johnson, anche se i due hanno recitato in ruoli opposti, ha costituito a lungo il mio ideale umano: era quello che vorresti al fianco come amico. Sotto la maschera dura e i lineamenti tirati, che esprimevano una risolutezza di ferro, dietro un fisico asciutto ed essenziale come la sua recitazione, intuivo l’intelligenza sarcastica di chi sa come gira il mondo, non ne è entusiasta, e cerca di conservare la propria dignità lasciandosi strattonare il meno possibile.

Non mi sbagliavo. La svolta nella sua carriera (era partito come un eroe positivo ed è finito poi dalla parte dei violenti), fu condizionata senza dubbio dal suo impegno politico. Come liberal convinto continuò a battersi per i diritti civili e per la pace anche nel periodo del maccartismo. E dato che Hollywood non poteva permettersi di assegnargli ruoli positivi, ma evidentemente nemmeno di perderlo, Ryan si è trovato ad interpretare killer antisemiti, poliziotti violenti, gangster, oltre naturalmente fuorilegge del west, rendendoli credibili, facendone degli esseri umani, per quanto malvagi e spietati, e non degli stereotipi o delle caricature.

Un caso apparentemente opposto è quello di Randolph Scott, l’altro protagonista di Frontiere selvagge. Scott girò una quantità incredibile di film, una media di quattro o cinque l’anno per almeno venticinque anni, interpretando praticamente sempre lo stesso ruolo, con la stessa espressione e lo stesso abbigliamento. Aveva un volto tagliato nella roccia, un fisico atletico, occhi di ghiaccio, e invariabilmente capitava in una cittadina tenuta in ostaggio da qualche prepotente, diventava sceriffo e faceva piazza pulita. I suoi film, la gran parte affidati per la regia a Budd Boetticher, il re dei B-movies, erano quasi tutti in catalogo per la San Paolo, e ne ho visti quindi una marea. Ma non l’ho mai apprezzato molto. Dicevo prima del marchio Ford. Per me c’era anche un marchio Scott, che significava divertimento moderato. Non mi convinceva. Era sempre perfettamente rasato, con camicie fresche di bucato, mai dozzinali, allacciate sino all’ultimo bottone, e portava il fazzoletto nero come una cravatta. Aveva gambe lunghe e pantaloni, naturalmente stirati a perfezione (a volte avevano anche la piega), quasi ascellari, che gli facevano un torace cortissimo. Persino il cinturone e le pistole emanavano un che di lezioso. Mi sembrava di sentire odore di lavanda.

Ho capito il tutto molti anni dopo, quando ho scoperto che era stato per anni l’amante di Cary Grant. Il mio west non era un posto per damerini, neppure se con mascella di granito.

Non sempre chi si muove nel West lo fa per andare incontro ad una vita nuova e dimenticare il passato. Spesso e volentieri questo passato lo incalza, si porta appresso ricordi terribili, e può essere chiuso solo con un atto sacrificale, con una vendetta che riequilibri una giustizia violata. Le Erinni della prateria non danno tregua all’eroe che ha subito una infamia, e chiedono sangue. Il tema della vendetta corre più o meno sotterraneo in tutto il genere, ma spesso si propone come motore esplicito dell’azione. I casi più comuni sono quelli di uomini che hanno avuta uccisa la moglie, o il figlio, o un fratello, e sono in caccia degli assassini.

Sul finire della carriera, quando viaggiava verso i sessant’anni, Scott infilò con Boetticher una serie di film che sembravano villette a schiera, quei B movies che oggi, nel clima di riciclaggio postmoderno, vengono rivalutati e celebrati dalla critica, ma che all’epoca persino noi ragazzi consideravamo solo dei mappazzoni. Le varianti nella sceneggiatura erano minime, quelle nell’espressività di Scott assolutamente nulle: e tra le costanti c’era quella di portare alle donne una sfiga pazzesca. Gli uccidono la moglie ne I sette assassini e ne L’albero della vendetta, ma anche in Decisione al tramonto e ne I tre banditi: e se le sue donne non muoiono, comunque lo lasciano, come ne Il cavaliere del deserto e I senza Dio, (dove la moglie è Angela Landsbury, la futura signora in giallo). Oppure sono rapite dai Comanches, come ne La valle dei Mohicani. A posteriori mi è venuto il sospetto che fosse lui stesso a inserire la morte (o la fuga) delle consorti come condizione per girare i film, con la complicità di Boetticher. Un 117 amico non troppo sveglio mi chiese una volta se era sempre della stessa moglie che voleva vendicarsi. Un pregio comunque gli va riconosciuto. Nei duelli era implacabile. Niente preamboli, ammonimenti o tentativi di conciliazione. Non era necessario tirarlo per la giacca. Come vedeva muoversi una mano verso il basso sparava, e non mirava a disarmare l’avversario, ma a fargli male. Forse doveva rispettare i tempi stretti e i costi bassi della produzione, ma senz’altro riusciva efficace.

Senza dubbio molto più efficace di Audie Murphy, l’altro capocannoniere della serie B (ha interpretato più di trenta western). Murphy ce la metteva davvero tutta, e aveva ottime credenziali: un’infanzia poverissima, una gioventù da vagabondo, una sfolgorante carriera militare nel secondo conflitto mondiale, che gli aveva valso ben trentadue medaglie al valore, la fama di tiratore infallibile. Tutte queste notizie le avevamo apprese da All’inferno e ritorno, il film autobiografico da lui interpretato dieci anni dopo la fine della guerra, diventato immediatamente a Lerma un cult movie del genere bellico, secondo solo a Obiettivo Burma. Gli mancava però il fisico (era un metro e sessantacinque), e soprattutto il carisma. Aveva i tratti del bravo ragazzo (anche se nella realtà era rissosissimo), ma nessun magnetismo: e, soprattutto, aveva commesso l’errore di interpretare La storia di Tom Destry, uno sceriffo che girava senza pistola, e questo, con tutta la comprensione e l’ammirazione per un eroe di guerra, non potevamo perdonarglielo. Persino ne Il forte delle amazzoni la cedeva come credibilità alle pioniere. Dopo i primi due o tre western suoi neppure i manifesti e i titoli creavano più grandi aspettative.

Tutto sommato, né Scott né Murphy mi erano tuttavia antipatici. Lasciavano il tempo che trovavano. Un po’ come Buster Crabbe, un ex nuotatore con due metri di torace, specializzato nei film di Tarzan ma interprete anche di numerosissimi western, che come categoria militava però nella serie C. Non potevi non rimanere impressionato quando si toglieva la camicia, e se la toglieva spesso, ma dava l’idea di una scarsa confidenza con le pistole, che nelle sue manone sembravano giocattoli.

Una decisa antipatia avevo invece maturato per Glenn Ford. Tutta colpa di un solo film. Il primo da lui interpretato che avevo visto, Il traditore di Fort Alamo, mi aveva già convinto poco. Ero un ragazzino, ma della storia americana sapevo già molto, e di quella del West quasi tutto. Parlando di Alamo mi aspettavo quindi scenari e personaggi alla Davy Crockett, e invece trovavo una storia approssimativa ed una ambientazione piuttosto grigia. Non sapevo allora che il regista anche qui era Boetticher, e che quella della storia tirata via alla svelta, a basso costo, era la sua cifra. Il protagonista, scampato al massacro di Alamo perché se ne era venuto via prima, girava con una faccia perennemente contrita, patendo il disprezzo dei concittadini che lo consideravano un codardo: e se alla fine liquidava l’intera banda di delinquenti che gli avevano massacrata la famiglia, faceva solo il suo dovere: ma non riusciva a catturarti.

Il crollo vero venne però con La pistola sepolta. Ho letto una dichiarazione di Sergio Leone, che lo considerava un grande western. O aveva visto un altro film, oppure si era addormentato durante la proiezione. Dalle mie parti lo ricordano ancora come la boiata del secolo: e ha inferto un colpo durissimo alla mia autorevolezza. Ho detto sopra della rivalità tra le due sale cinematografiche lermesi. Quando vidi la locandina da esporre per la settimana successiva, con il protagonista in primissimo piano che impugna la pistola e fior di duelli sullo sfondo, mi affrettai a pubblicizzare l’evento tra gli amici, anche perché in programma alla Filarmonica c’era un Totò di fortissimo richiamo. Ci ritroviamo quindi la domenica a vedere un tizio che è stato un grande pistolero, che ancora saprebbe sparare da dio, ma che ha giurato di non impugnare mai più le armi. Il suo passato però lo insegue, e richiama in paese un bravaccio che vuole misurarsi con lui. Tormento interiore, moglie sempre in lacrime, ritirate di fronte alle provocazioni, soprassalti d’orgoglio di fronte al voltafaccia degli ex-amici. Una pena che va avanti per un’ora e mezza. Ma il peggio arriva quando finalmente si decide, con un sospirone della platea: allaccia il cinturone e muove contro l’avversario, gli è di fronte a pochi passi. Qui il regista ha un colpo di genio. Non vediamo il duello, ma cambia la scena e assistiamo in un cimitero alla cerimonia funebre per il nostro eroe: che però è lì, mescolato ai cittadini intervenuti. Si sta celebrando un finto funerale, per tenere lontani altri possibili sfidanti.

Credo di non essermi mai vergognato tanto. Mi sentivo responsabile di aver ammannito una storia così penosa, quasi fosse colpa mia. Le quotazioni di Glenn Ford non sono mai più risalite, anche quando l’ho rivisto in film decisamente migliori, a partire da Quel treno per Yuma, e nel ruolo del cattivo. Ormai era classificato come assolutamente inadatto: il marchio G. Ford funzionava a rovescio rispetto a quello J. Ford, e dispetto di locandine che promettevano sfracelli. Non c’entrava però solo la débâcle de La pistola sepolta. Il fatto è che Glenn Ford ha interpretato nei western tutti i ruoli possibili: mandriano, pistolero, bandito, sceriffo, guida di carovane, pecoraio, giornalista, militare, droghiere: gli mancano solo l’indiano e il cavallo. E questo significa che aveva magari una professionalità duttile, ma che non possedeva una personalità spiccata. Lo immaginate John Wayne nella parte del pecoraio, del giornalista o del droghiere? Come ci si poteva identificare con Ford? Con quale dei tanti personaggi, cui peraltro prestava un’unica espressione? Confesso che ci rimasi male quando venni a scoprire che tra gli attori hollywoodiani era davvero il più veloce a estrarre, sparare e colpire (meno di mezzo secondo), e che Wayne era solo terzo. Quando diventai un po’ più grandicello poi le perplessità aumentarono, perché sembrava che Ford piacesse molto alle donne. Non capivo cosa potessero trovarci: forse suggeriva un modello di maschio che poi non scappa, abbastanza banale da non farsi tentare dalle sirene di terre lontane.

L’ultima parola è alla pistola (o al fucile, ai coltelli, ai pugni). Dove non arriva la giustizia degli uomini vige il “giudizio di Dio”. È un confronto dall’esito già scontato, perché del dio giudice e lettore gli eroi del western sono la mano armata: eppure ogni scontro è ugualmente drammatico e ogni vittoria ci riconforta nella speranza di un mondo più pulito. Anche perché ogni duello che si rispetti, nel racconto a fumetti come nel film, ha un antefatto, una “prova generale” il cui sviluppo ci ha fatto dubitare dell’invincibilità dell’eroe. Quando non si chiude con un pareggio, o con una sconfitta ai punti per il nostro (dovuta ad inganno, a impreparazione, a sproporzione delle forze), la prima fase della sfida lascia comunque in piedi il malvagio, più che mai incattivito e determinato alla rivincita. Solo lo scontro ultimo ricompone quell’equilibrio che l’entrata in scena del male aveva turbato, e ci trasmette un piacevole effetto adrenalinico, un brivido finale di sollievo e di soddisfazione.

Quanto alla storia del pistolero stanco, costituisce un capitolo abbastanza corposo della storia del western, e certamente uno dei meno avvincenti. Anche sparare logora, ma rifiutarsi per tutto il film di non sparare a degli imbecilli che non cercano altro logora lo spettatore. Ho detestato decine di ex-pistoleri. L’unico degno di rispetto mi era parso il Gregory Peck de Il fuorilegge del Texas, che quando si rendeva conto di non poter uscire dal gioco si faceva coscientemente ammazzare. Al contrario, ricordo che con Johnny Guitar Sterling Hayden, resuscitato da Alamo, perse un sacco di punti ed uscì dalle mie classifiche di gradimento.

Glenn Ford non è naturalmente l’unico attore del quale ho sofferto la presenza. Una patente di mediocrità se l’era guadagnata anche John Payne. Payne era un tizio dotato al solito di un gran fisico – molto esibito nei manifesti e nelle locandine – ma assolutamente legnoso. Recitava tenendo costantemente la muscolatura contratta, e lo si vedeva benissimo già da come impugnava la pistola. A partire dal nome, sembrava la copia mal riuscita di John Wayne. C’era in lui qualcosa di innaturale, sembrava a disagio nei panni western, anche letteralmente. Non aveva l’eleganza di Randolph Scott né la naturalezza di Ryan. In effetti arrivava dalla commedia musicale (sembra fosse dotato di una bella voce, come Jeff Chandler: ma era la sola cosa che avevano in comune) e certe impronte ti rimangono addosso. Non mi era neppure antipatico come Glenn Ford, mi lasciava assolutamente indifferente. Payne aveva interpretato nei primi anni cinquanta diversi western di seconda o terza categoria, buoni per il catalogo della San Paolo perché molto tranquilli e corretti (oltre che a buon prezzo), che quindi arrivavano con una certa frequenza sullo schermo del GIAC. Ma dopo che ci eravamo sorbiti La campana ha suonato, che tra l’altro è considerato il suo western migliore, non riuscì più a riguadagnare punti, neppure con Satank, la freccia che uccide. Ne La campana ha suonato Payne è un onesto cittadino, in procinto di sposarsi, che viene ingiustamente accusato di rapina e omicidio da un falso agente federale (Dan Duryea, lui sì a proprio agio nei panni del fetentone, che ha rivestito per tutta la carriera e che gli sembravano cuciti addosso – mentre nella vita reale era invece la persona più mite di questo mondo). Si rifugia su un campanile e resiste sino a quando non viene fuori tutta la verità, con il povero Duryea che muore nella polvere, credo per la cinquantesima volta. Ho saputo molto tempo dopo che il film era stato letto come una metafora del maccartismo (il cattivo si chiama per l’appunto Mc Carty), e questo probabilmente spiega sia l’apprezzamento che oggi gli riserva la critica, sia la velocissima eclisse dell’astro di Payne. Ma non cambia una virgola del mio ricordo: rimane uno dei film più noiosi della storia western, secondo solo a La pistola sepolta (almeno qui qualche volta sparano): a conferma del fatto che quando voleva caricarsi di impegno e trasmettere dei messaggi che non fossero quelli già impliciti al genere, il western usciva dalle righe e tradiva la sua missione.

In effetti, a ripensarci, non ero poi così di bocca buona: erano molti gli attori che mi sembravano capitati lì per caso, o per sbaglio, dal già citato Tyrone Power (dimenticabile anche in Jesse James) a Ray Milland, da James Cagney (egualmente poco credibile come Il terrore dell’Ovest) a Rock Hudson. Facce assolutamente inadatte per quel mondo. Poi c’erano altri, che pure hanno avuto una lunga frequentazione con il genere, ma hanno lasciato una traccia debolissima.

Robert Taylor, ad esempio, vestiva quasi come Randolph Scott, ma non ne aveva l’essenzialità e la decisione. Poteva interpretare ruoli diversi (lo ricordo cattivissimo ne L’ultima Caccia, e devo dire che lì mi era piaciuto), ma non bucava lo schermo, non scendeva in platea a prenderti per mano. Come protagonista di Donne verso l’ignoto qualche credito se l’era guadagnato, ma non c’era verso, continuava a sembrarmi la versione americana di Amedeo Nazzari, che ho visto passare identico a se stesso per anni. Taylor ebbe anche il demerito di interpretare l’unico western che mi sono perso consapevolmente, nel senso che ho proprio rifiutato di vederlo pur avendone le possibilità, Un napoletano nel far west. Il titolo non c’entra assolutamente con la storia (nell’originale è Many Rivers to Cross), è una furbata della distribuzione italiana, di napoletani non c’è ombra. Sarebbe un film ambientato tra i cacciatori di pellicce, ma in chiave di commedia, una sorta di Bisbetica domata, e fin qui, compatibilmente con la verve di Taylor, potrebbe starci. Ma la furbata si è spinta oltre, e il doppiaggio è stato eseguito facendo parlare agli interpreti il dialetto napoletano. Quando vidi il trailer quasi mi mettevo a piangere. I miei compagni non vollero perderlo, qualcuno riuscì anche a divertirsi, ma lo dimenticarono immediatamente. Io, che non l’ho visto, non l’ho mai dimenticato, e credo si dovrebbe rimediare ancora oggi, stante la moda di restaurare i film, con un doppiaggio decente.

C’erano tuttavia anche attori presi in prestito dal western che riuscivano a calarsi ottimamente nella parte. William Holden, già apprezzato ne L’assedio delle sette frecce, non era uno che riempiva la scena: ne occupava solo una parte, ma lo faceva con stile. Sembrava destinato a recitare sempre al fianco di partner forti, uomini come John Wayne in Soldati a cavallo o donne come Jean Artur in Arizona. Anche ne Il vagabondo della foresta, dove addirittura è biondo e dovrebbe essere protagonista, al centro della vicenda c’è in realtà una donna, Loretta Young, mentre l’antagonista è un Robert Mitchum in grande spolvero. Holden ha tuttavia illuminata retrospettivamente tutta la sua carriera western con l’interpretazione di Pike ne Il mucchio selvaggio. Ha recitato anche in film da oscar, ma nella storia del cinema ci rimarrà per quello.

Anche Richard Wydmark, interprete di film di peso, come Il grande sentiero, Cavalcarono insieme e Ultima notte a Warlok., faceva con coscienza il proprio lavoro. Forse non aveva i requisiti fisici per diventare un’icona western, ma credo pesasse soprattutto il fatto che all’esordio si era caratterizzato nei ruoli negativi, ad esempio in Cielo Giallo e ne La lancia che uccide, e nelle vesti del farabutto era bravo quanto Dan Duryea (gli somigliava anche un po’); per cui quando lo ritrovammo eroe positivo ne L’ultima carovana un po’ di diffidenza continuavamo a nutrirla. Queste inversioni di ruolo erano cose che spiazzavano. Un ragazzino di dieci o dodici anni ha bisogno di certezze: poche cose ma chiare. Una volta che ha visto Shane o Ringo in azione, sa per certo che Alan Ladd e John Wayne non lo tradiranno mai. E anche se interpretassero la parte del cattivo non sarebbero credibili. Sospetterà sempre che siano agenti federali o rangers travestiti e infiltrati, e che alla fine vengano fuori. Allo stesso modo, nessuno avrebbe accettato di vedere James Stewart uccidere un uomo alle spalle. Da Wydmark, dal momento che già glielo avevi visto fare, potevi aspettarti invece di tutto.

Errol Flinn era negli anni quaranta il divo per eccellenza, buono per tutti i generi (il che implica per nessuno in particolare), dal cappa e spada ai film di guerra, da Capitan Blood alla Carica dei Seicento. Dalle nostre parti Flinn un qualche segno lo ha lasciato anche nel western, nel decennio successivo, malgrado lo preferissimo tutti come spadaccino. Non ho mai capito perché non fosse nella hit parade dei nostri eroi. Forse non riuscivamo a stargli dietro, interpretava troppe parti in tutti i rami dell’avventura e non potevamo identificarlo con nessuna. A pelle, si avvertiva un certo decalage: si sentiva in lui il “signorino” che rimane tale anche al palo della tortura o accerchiato dagli indiani.

Il primo western in cui lo ricordo è I pascoli dell’odio, che in effetti era abbastanza movimentato, ma raccontava una storia troppo complessa per riuscire comprensibile ad uno spettatore italiano, e men che mai ad un ragazzino. Soprattutto non si capiva per chi tifare, dato che i due protagonisti alla fine si schieravano su sponde opposte, ciascuno con le sue brave motivazioni. In questo film Ronald Reagan interpretava il giovane Custer, contribuendo a mio giudizio non poco al discredito e all’antipatia del personaggio storico. Per cercare di riparare al danno due anni dopo, ne La vera storia del generale Custer, la parte del colonnello biondo venne affidata proprio a Flynn. La storia veniva completamente falsata, ma non era questo, all’epoca, a turbarci. Era il fatto che nessuno, quando giocavamo, voleva mai interpretare Custer. D’accordo, doveva morire, ma anche Crockett ad Alamo doveva morire, eppure ogni volta si tirava a sorte per poterlo impersonare.

A proposito: chi sostiene che John Wayne avesse una sola espressione, con la variante del cappello o senza, non ha mai visto un film con Joel Mc Crea. Mc Crea non aveva nemmeno quella. Un bietolone totalmente inespressivo. Non lo reggevo allora, ed è rimasto un mistero anche dopo, soprattutto quando ho scoperto che il suo successo era legato al fascino che esercitava sulle donne, che svenivano al vederlo in costume. A me sembrava solo inutilmente molto alto e robusto. Forse l’ho visto nei film sbagliati (Gli amanti della città sepolta, senza dubbio, e Duello alla pistola: gli altri li ho volutamente dimenticati), ma anche quando l’ho ritrovato in Sfida nell’Alta Sierra, tra l’altro un film di Peckinpah, non ho potuto che rivalutare il coprotagonista, l’onnipresente Randolph Scott.

Un caso a parte è costituito da Robert Mitchum, altro attore di culto di mio padre (assieme a Clark Gable e a Gary Cooper), che lo apprezzò persino in Vento di terre selvagge, perché amava solo i noir o i drammoni sentimentali. In effetti quel film più che un western sembrava un poliziesco, e concedeva molto più al conflitto di sentimenti che a quelli a fuoco.

Mitchum mi stava simpatico a dispetto dei suoi personaggi, sempre in qualche modo sfuggenti. Erano l’aria sorniona, l’atteggiamento cinico e disincantato, che facevano però sospettare come all’occasione potesse diventare pericoloso come un serpente a sognali. Sembrava non prendere del tutto sul serio quello che stava facendo, e probabilmente era proprio così, ma in una maniera diversa da Gary Cooper. Aveva una presenza che si imponeva comunque. Anche il suo western più famoso, Notte senza fine, all’oratorio di Lerma non suscitò entusiasmi: oggettivamente la trama era piuttosto complessa, e nella nostra ottica del gioco non offriva grossi spunti. Ho però ancora impresse alcune scene, come quella del bivacco notturno e del temporale.

Alcuni tra i film più interessanti che ho sin qui citati vedono protagonista Charlton Heston: da I due capitani, La freccia insanguinata e Il giuramento dei Sioux sino a quello che idealmente chiude il mio periodo d’oro, Sierra Charriba. Eppure, stranamente, Heston non è mai entrato nel mio pantheon. Nel mio, e nemmeno in quello dei miei compagni, a quel che ricordo, anche se i requisiti sembrava averli tutti: un fisico imponente, delle storie sempre interessanti (in effetti non ne ricordo una sbagliata). Sembra persino che Galeppini si sia ispirato a lui per disegnare Tex Willer. Ma evidentemente gli mancava qualcosa: o forse, come per Glenn Ford, lo avevamo conosciuto nel film sbagliato, I violenti, che non manteneva affatto le promesse del titolo e delle locandine, dato che in realtà non sparavano mai.

Per quanto concerne me c’entrano soprattutto I dieci comandamenti. Dopo averlo visto per venti ore nel ruolo di Mosè e quasi altrettante in quello di Ben Hur non riuscivo a immaginarlo in nessun’altra parte. Ecco, penso che a fregarlo siano stati proprio i personaggi interpretati (ci si è aggiunto poi Michelangelo), tutti troppo “storici” e importanti per lasciare spazio ad una sua personalità autonoma, per lasciarla intravvedere. James Stewart era se stesso anche quando interpretava i film di Hitchcock o la vita di Lindbergh, piegava i personaggi alla sua personalità, Wayne poteva farne a meno perché i personaggi già gli nascevano addosso, così come Alan Ladd, ma persino Randolph Scott, e Audie Murphy. Quelli come Heston interpretavano invece di volta in volta personaggi diversi, sia pure senza grandi mutamenti d’espressione, e alla fine non li identificavi con nessuno.

Infine, due che nel mio ricordo viaggiano in coppia, Douglas e Lancaster, e che a quanto sembra erano legati da una sincera e forte amicizia. Burt Lancaster non può essere certamente considerato un attore in prestito al western, perché ha interpretato un po’ tutti i possibili ruoli, compreso, come abbiamo visto, l’indiano, e a differenza di Glenn Ford e di Charlton Heston ha portato in tutti una personalità spiccata. Ma devo ammettere che ai fini di questa mia storia nessuno dei suoi film degli anni cinquanta, compreso Vera Cruz, che pure era pieno d’azione e persino di rivoluzionari messicani, mi aveva impressionato. Forse il primo Lancaster sorrideva troppo: aveva splendidi occhi e magnifici denti, e probabilmente i produttori puntavano su quelli per conquistare anche il pubblico femminile, senza darsi troppo pensiero dei loggionisti del GIAC. Al contrario, ha poi iscritto di diritto il suo nome nell’albo d’oro del genere con tre magistrali interpretazioni della tarda maturità, Io sono la legge, Io sono Valdez e Nessuna pietà per Ulzana. È entrato tardi nel mio immaginario, ma ancora in tempo utile.

Un percorso opposto ha compiuto invece il suo sodale Kirk Douglas. Dopo avere iniziato bene, con cose come Il grande Cielo, Sabbie rosse e L’uomo senza paura, ha poi finito per prendersi troppo sul serio (spesso era anche produttore), caratterizzando pesantemente le sue interpretazioni. Al contrario di Lancaster, che invecchiando ha trovato la misura, diventando sempre più credibile e indistinguibile dai suoi personaggi, Douglas ha preteso di imporre lui la misura ai suoi film, ed è rimasto solo un bravo attore.

Il sapore della vendetta

Non sempre chi si muove nel West lo fa per andare incontro ad una vita nuova e dimenticare il passato. Spesso e volentieri questo passato lo incalza, si porta appresso ricordi terribili, e può essere chiuso solo con un atto sacrificale, con una vendetta che riequilibri una giustizia violata. Le Erinni della prateria non danno tregua all’eroe che ha subito una infamia, e chiedono sangue. Il tema della vendetta corre più o meno sotterraneo in tutto il genere, ma spesso si propone come motore esplicito dell’azione. I casi più comuni sono quelli di uomini che hanno avuta uccisa la moglie, o il figlio, o un fratello, e sono in caccia degli assassini. Sul finire della carriera, quando viaggiava verso i sessant’anni, Randolph Scott infilò con Bud Boetticher una serie di film che sembravano villette a schiera, quei B movies che oggi, sull’onda della corsa postmoderna al riciclaggio, vengono rivalutati e celebrati dalla critica, ma che all’epoca persino noi ragazzi consideravamo solo dei mappazzoni. Le varianti erano minime nella sceneggiatura e assolutamente nulle nelle espressioni di Scott: mentre tra le costanti c’era quella di portare alle donne una sfiga pazzesca. Gli uccidono la moglie ne I sette assassini e ne L’albero della vendetta, ma anche in Decisione al tramonto e ne I tre banditi : e se le sue donne non muoiono, comunque lo lasciano, come ne Il cavaliere del deserto e I senza Dio, (dove la moglie è Angela Landsbury, la futura signora in giallo). Oppure sono rapite dai Comanches, come ne La valle dei mohicani. A posteriori mi è venuto il sospetto che fosse lui stesso a inserire la morte (o la fuga) delle consorti come condizione per girare i film, con la complicità di Boetticher. Un amico non troppo sveglio mi chiese una volta se era sempre della stessa moglie che voleva vendicarsi. Comunque i film di Scott al GIAC passarono quasi tutti: la sua misoginia non era sgradita alla San Paolo.

Per altri la moglie da vendicare era spesso un’indiana, come in Tomawak, scure di guerra (dove però Jim Bridger rinuncia alla fine alla vendetta): il che aggravava la faccenda, perché c’erano di mezzo anche complicazioni razziali. Accadeva ad esempio anche ne Il giorno della vendetta (che ricalca nella trama Quel treno per Yuma – e infatti il titolo originale è Last train from Gunn Hill), dove a vendicare la moglie violentata e uccisa era Kirk Douglas. Quando si tratta della violenza e dell’uccisione di una ragazza indiana, ad esempio ne I conquistatori, gli abitanti del villaggio non esitano a consegnare il colpevole alla giustizia dei pellerossa (più che altro, però, per evitarsi grane).

Nella smania di vendicarsi a volte si prendono anche delle cantonate. In Bravados Gregory Peck uccideva tre uomini credendoli gli assassini della moglie, per scoprire poi che non c’entravano nulla. Erano dei mascalzoni, destinati comunque alla forca per altri delitti, ma il film evidentemente voleva proporre un caso morale. In realtà non ricordo una particolare indignazione tra gli spettatori, meno che mai tra noi ragazzi. Ci andava bene così.

A proposito di Peck: non è mai stato un’icona del cinema western, almeno a Lerma, nemmeno dopo L’avamposto degli uomini perduti. Forse era anche colpa di drammoni come Duello al sole (che ho visto solo molto più tardi, perché Jennifer Jones al GIAC entrava solo come Bernadette: ma gli amici mi assicuravano che non mi ero perso niente). La sua immagine venne poi definitivamente rovinata ai miei occhi da Il grande paese, dove davvero rappresentava l’antitesi “civile” al mondo della frontiera: e infatti rischiava di farsi ammazzare rifiutando di uccidere il proprio avversario (col risultato di costringere a farlo, in nome della lealtà, il padre di quest’ultimo). Fiutavo a distanza gli “uomini dell’est”, quelli che arrivavano col treno o con la diligenza, e viaggiavano in carrozzino. Sentivo che venivano a seppellire sotto le scartoffie un mondo nel quale valeva solo la parola data e la legge non scritta. Peck impersonava il lato buono della civiltà, quello legalitario, ma sapevo bene che sulla stessa diligenza viaggiavano gli affaristi e gli avvocati.

Spesso e volentieri sono i reduci dalla guerra civile a voler saldare dei conti: soprattutto ex-confederati che hanno perso i loro congiunti o le loro proprietà. Il colonnello Hollister vuole uccidere chi gli ha bruciato la casa, mentre ne I ribelli del Kansas Fess Parker vuole vendicare la moglie uccisa dai nordisti. Ma le motivazioni parentali alla vendetta sono naturalmente svariate. Dopo le mogli, a dover esser vendicati erano soprattutto i fratelli: in Uniti nella vendetta Wendell Corey dà la caccia a due sudisti che gli hanno ucciso il fratello, e lo stesso fanno John Agar ne La carne e lo sperone ed Henry Fonda ne Il vendicatore di Jess il bandito.

In Stirpe maledetta è invece il padre a essere ucciso e ne Il sentiero della vendetta sono entrambi i genitori. Lo stesso vale per Audie Murphy (ne La mano della vendetta) un altro che quanto a vendette fa il paio con Scott. Ne La signora dalle due pistole è invece una ragazza a cercare, e alla fine uccidere, gli assassini dei genitori.

Vale però anche la legge dell’amicizia. Ne I bandoleros il solito Randolph Scott in versione celibe (molto più credibile) dà una caccia spietata agli assassini di un amico. Lo stesso faceva Robert Taylor in Terra selvaggia, nella parte di Billy the Kid.

La vendetta ha comunque le sue regole. Non si spara alla schiena, ma si guarda negli occhi l’avversario: e non è questione di lealtà, o almeno, non è solo quella: è che deve sapere perché sta per morire. Altrimenti non c’è gusto. Quindi la vendetta giusta si compie attraverso il duello.

L’ultima parola è alla pistola (o al fucile, ai coltelli, ai pugni). Dove non arriva la giustizia degli uomini vige il “giudizio di Dio”. È un confronto dall’esito già scontato, perché del dio giudice e lettore gli eroi del western sono la mano armata: eppure ogni scontro è ugualmente drammatico e ogni vittoria ci riconforta nella speranza di un mondo più pulito. Anche perché ogni duello che si rispetti, nel racconto a fumetti come nel film, ha un antefatto, una “prova generale” il cui sviluppo ci ha fatto dubitare dell’invincibilità dell’eroe. Quando non si chiude con un pareggio, o con una sconfitta ai punti per il nostro (dovuta ad inganno, a impreparazione, a sproporzione delle forze), la prima fase della sfida lascia comunque in piedi il malvagio, più che mai incattivito e determinato alla rivincita. Solo lo scontro ultimo ricompone quell’equilibrio che l’entrata in scena del male aveva turbato, e ci trasmette un piacevole effetto adrenalinico, un brivido finale di sollievo e di soddisfazione. Al di là delle nostre preferenze di ragazzini per le storie ariose, devo dire che al pubblico del GIAC il western di vendetta non era affatto sgradito. Pesavano ancora le ferite degli ultimi anni della guerra, e quello che vedevamo al cinema si era vissuto purtroppo dal vero anche nostre campagne solo una decina di anni prima. Ci spiacevano le soluzioni buoniste (peraltro piuttosto rare), nelle quali l’eroe alla fine fa il superiore e rifiuta di prendersi la sua rivincita cruenta, ma agli adulti la cosa suonava ancora più inverosimile. Il perdonismo era ben al di là dall’essere di moda. Ricordo i mugugni all’uscita dalla proiezione de L’ultima conquista, dove proprio un irriconoscibile Wayne rinuncia a vendicarsi degli assassini del padre per amore di una bella quacchera, e l’incavolatura del viceparroco che difendeva invece la cristianità di quell’atteggiamento. Malgrado la ragazza fosse davvero carina, per noi il compimento della vendetta rimaneva un dovere sacrosanto.

Per questo i vendicatori riluttanti ci facevano perdere la pazienza. Erano i meno credibili in assoluto tra tutti i personaggi del western, i più ambigui. Ne L’uomo che non voleva uccidere, ad esempio, c’è ancora un giovane quacchero che pare un seminarista, ma quando è costretto a prendere in mano finalmente una pistola spara come un professionista, e ti chiedi dove abbia imparato.

Tutta questa storia della vendetta è comunque molto più seria di quanto appaia. Se mi fosse richiesto di esprimere a bruciapelo una posizione sulla pena di morte – una posizione secca, si o no – la mia risposta sarebbe senz’altro positiva. Poi sentirei magari il bisogno di spiegare, di argomentare, e alla fine probabilmente di ritrattare, invertendo il segno. Ma così, di primo acchito, la posizione sarebbe quella. Mi rendo conto che la cosa può sembrare scandalosa, ma vado oltre. Più scandaloso ancora, soprattutto per uno che si professa un kantiano convinto, sarebbe infatti il motivo dell’eventuale ripensamento: perché alla base non ci sarebbe una motivazione etica, ma semplicemente una sfiducia pratica. Non metterei insomma in discussione la liceità del provvedimento, quanto piuttosto l’adeguatezza dell’apparato che dovrebbe deciderlo e dargli esecuzione. In altre parole, potrei escludere la pena di morte non perché la ritenga ingiusta per principio, ma solo perché non ho alcuna fiducia che a comminarla possano essere uomini giusti.

La cosa è oggetto di discussione da almeno due secoli, da Beccaria in poi, e le motivazioni portate a sostegno della sua abolizione sono tra le più nobili e razionali che l’uomo abbia mai prodotto. Con un piccolo particolare, però: si tratta di motivazioni valide e condivisibili sotto il profilo sociale, perché una cultura della vendetta apre scenari apocalittici, e il suo superamento è stato uno dei passi fondamentali dell’umanità verso l’incivilimento, e lo sono anche sotto il profilo freddamente “utilitaristico”, perché l’uccisione di un carnefice non ridà vita alla vittima, e perché anche sotto il profilo dell’esemplarità della pena non risulta che davvero funzioni come deterrente. Manca però un aspetto, che è quello del risarcimento morale alla vittima, o meglio, alle vittime, perché un’azione gravemente delittuosa tocca da vicino non solo chi ne è oggetto ma anche coloro che hanno con lui dei legami.

Ora, questo della scarsa considerazione riservata alla vittima, in nome di un ipotetico interesse sociale superiore, mi sembra la caratteristica negativa per eccellenza della società moderna, e ho già avuto modo di trattare questo tema. Ma non era questo a interessarmi quando avevo dodici anni: semplicemente pensavo che se qualcuno avesse fatto del male ai miei, ai miei genitori o ai miei fratelli, lo avrei fatto fuori senza tante storie. Crescendo sono diventato senz’altro più razionale, ma ho anche avuto dei figli, e la mozione “sentimentale” si è fatta ancor più urgente. Resto dell’idea che non potrei vivere sapendo che qualcuno che ha fatto loro intenzionalmente del male è in circolazione o potrà tornarci. Vivrei solo per aspettarlo e presentargli il conto.

Il mio preferito, Wayne, è paradossalmente il meno vendicativo di tutti gli eroi western, al contrario ad esempio di Stewart, che arriva ad esplodere dopo che gliene hanno fatte di tutti i colori. Ma Wayne è il meno vendicativo perché non consente che gli pestino i piedi, e quindi è raro che abbia qualcosa di cui vendicarsi. Diciamo che preferisce prevenire piuttosto che vendicare. Questa è una lezione che mi è sempre piaciuta. Il buonismo crea vittime. Machiavelli diceva che a volte una lezione ben data subito salva dal doverne dare di molto più cruente dopo. Ora, è evidente che nella vita non si può procedere a randellate, anche perché è facile trovare chi ha un randello più grande del tuo: ma è anche vero che a tirarsi indietro nel segno di “chi più ne ha più ne metta” si corre il rischio di lasciare andare troppo avanti le cose e di subirne danni ancora peggiori. Questo vale per il singolo individuo, ma vale anche per il corpo sociale: e anzi, quando il corpo sociale ha le sue giuste e tempestive reazioni, evita al singolo individuo di dover poi tirar via le castagne dal fuoco da solo.

Questa è un’altra grande lezione del western.

 

Orizzonti dell’avventura

Il western è per antonomasia racconto degli spazi liberi, delle grandi distese pianeggianti della prateria o del deserto, oppure delle gole, dei canyon propizi all’agguato, delle foreste sterminate del nord, o dei picchi delle Montagne Rocciose.

Ma in questi vuoti si individuano dei punti nodali, i luoghi dell’incontro o dello scontro, dell’insidia o della sicurezza, del lavoro o del piacere. E questi luoghi sono uniti tra loro da linee incerte e variabili, come le piste delle carovane, delle mandrie o delle diligenze, segnate solo dalle ossa degli animali o degli umani, o da linee dritte, continue, come quella della ferrovia, che tagliano gli spazi, li avvolgono in una rete e li riconducono nell’ambito della civiltà.

Gli eroi della frontiera vivono questa duplice contradditoria condizione: sono coloro che tracciano queste linee, e sono poi anche quelli che cercano di sfuggire costantemente alla rete che queste linee vanno tessendo. Fuggono la civiltà, ma se la portano appresso nella loro fuga.

Sin da bambino ho trascorso lunghissime ore alla finestra della mia camera (oggi diventata il mio studio), che guarda a sud, verso l’Appennino. La casa è situata proprio sulla cima della collina lungo la quale si arrampica il paese, su una terrazza naturale che si spinge all’esterno, lasciando l’abitato alle spalle. Di lassù lo sguardo non incontra più segni di presenza umana, ma subito boschi e collinette e pianori, poi il luccichio del fiume, e al di là di questo i contrafforti della Colma, che disegnano la linea naturale di demarcazione con la Liguria. Sullo sfondo, a sinistra, campeggia l’inconfondibile sagoma del Monte Tobbio. Per centottanta gradi si spazia su una natura che persino oggi, almeno da questa distanza, appare incontaminata. Ho avuto la fortuna di poter godere di questa vista da sempre, in ogni stagione dell’anno, nel rigoglio della primavera, nelle serate tiepide d’estate, nei colori sgargianti dell’autunno e nella pace bianca e silenziosa dell’inverno. E di notte ho visto la luna spuntare dietro il Tobbio e illuminare progressivamente di una luce lattea i boschi, e riflettere sulla corrente del Piota la sua luce. Ho udito sullo sfondo il brusio incessante del fiume, rotto ogni tanto dall’abbaiare dei cani che arrivava da cascine lontane, sparse sul fianco sulla Colma, rivelate nel buio da fievoli lumicini. E in primavera e in autunno ho ascoltato di notte, affascinato e inquieto, il fruscio del vento, e spesso ho temuto la sua violenza: mentre nei giorni di malattia mi facevano compagnia i battibecchi degli uccelli, merli e fino a qualche anno fa anche usignoli, e in estate il frinire ossessivo delle cicale.

Non sto parafrasando Leopardi. Cerco semplicemente di spiegare, e di spiegarmi, perché mi fosse così facile andare e venire dal mondo del western, anzi, abitarci quasi stanzialmente. In qualche modo nel sogno io davvero ci vivevo già, ad occhi aperti, quando non mi rompevano le scatole con la scuola o con i compiti o con lavoretti e commissioni. E ho continuato a viverci anche dopo, quando dall’altra parte della collina con la natura ho dovuto precocemente confrontarmi, questa volta quella addomesticata, quella educata a vigneto. Se prima ero io ad evadere nel western, ho cominciato allora a trasferire il west nella quotidianità. Era sufficiente pensare che i sarmenti e la legna o la frutta da raccogliere fossero indispensabili per affrontare il lungo inverno del Montana, che i fossati da scavare o i pali da piantare fossero a difesa della capanna in mezzo alla radura, che le ore trascinate ad azionare la pompa a mano per irrorare fossero trascorse sullo Yukon o sul Missouri a pagaiare, perché tutto prendesse un’altra dimensione.

So che può sembrare indice di una enorme confusione mentale, e probabilmente lo è, ma garantisco che per un ragazzo di dieci o dodici anni non c’è modo migliore per dare un senso a quello che sta facendo di malavoglia. E posso anche aggiungere che in almeno in un caso questo transfert mi ha salvato la pelle, molto tempo dopo, in una notte di tregenda, in mezzo ad una tempesta di neve come dalle nostre parti mai si era vista (caddero centoventi centimetri di neve in due giorni), dopo che ero in giro da otto ore lungo strade ormai invisibili, nel buio, nel silenzio e nella solitudine più totale, e il corpo chiedeva ad ogni passo di riposare. In quell’occasione mi vennero in soccorso il ricordo di Inferno Bianco e dei racconti di London, ad ammonire che se mi fossi fermato anche un solo momento non sarei più ripartito. Me lo ripetevo ad alta voce, mi imponevo di pensare a quelle immagini, e ad un certo punto ero davvero in mezzo al grande Nord. Appena varcata la soglia di casa svenni, e mi risvegliai a letto diverse ore dopo.

Come i due sogni finissero necessariamente per coincidere è testimoniato da un sacco di episodi o di circostanze che mi si affollano nella mente. Quando dalla finestra guardavo la corona della Colma, immaginavo le valli che stavano al di là, i torrenti che le segnavano, i boschi di querce o di castagni che le ammantavano. Oltre quella siepe orografica mi ero costruito poco alla volta un paesaggio immaginario ma realistico, popolato anche di rare case, e di persone. Ad un certo punto, quando avevo già superata l’adolescenza, quel paesaggio ha cominciato a ricorrere nei sogni notturni, sempre in un clima di molta dolcezza e felicità, creando un incredibile struggimento al risveglio. Non una o due volte, ma moltissime. Sempre lo stesso. Fino a quando, rivedendo dopo diversi anni Il cavaliere della valle solitaria, ho constatato con sorpresa che il paesaggio, o almeno la casa che compariva nel sogno, era proprio quello.

E per tetto un cielo di stelle (se non è nuvolo). Ma anche l’ombrello di una quercia secolare, un colonnato di sequoie giganti, l’ombra della mesa che incide un paesaggio lunare, il circolo dei carri addormentati, l’inquieto tramestio della mandria nel vallone: o, se piove, una sporgenza rocciosa o un telo gettato tra alti arbusti. Il bivacco è un segno di interpunzione tra un’avventura e l’altra, il momento dei ricordi, delle meditazioni, a volte delle rivelazioni. Non è necessariamente la quiete: attorno può muoversi il pericolo, dal buio può spuntare l’insidia, magari sotto le spoglie dello sconosciuto che chiede un po’ di caffé. Ma è senza dubbio il coagulo delle amicizie più profonde, quelle libere da ogni costrizione, da ogni sorta di muro e di barriera difensiva.

Fu il nostro rito di passaggio. Presso alcune popolazioni tribali il passaggio di condizione avviene attorno ai tredici-quattordici anni, quando l’adolescente lascia il villaggio e deve sopravvivere più giorni nella foresta e nella savana per tornare uomo (se torna). A Lerma non ci sono foreste, e tantomeno savane, ma ci sono immediatamente a ridosso del paese i primi boschi dell’Appennino. Noi l’adolescenza l’avevamo appena iniziata, e quindi optammo per una prova più leggera: una notte nel bosco della Fracellazza, sopra il campo sportivo. In origine dovevamo essere una dozzina, poi vari veti parentali e contrattempi e strizze improvvisamente intervenute ci ridussero a quattro. Armati di una coperta e di una borraccia d’acqua ciascuno e di una torcia elettrica in comune, andammo dopo il crepuscolo di una splendida giornata estiva a cercare una radura nella quale trascorrere la notte. Negli intenti doveva essere un vero bivacco, quindi avevamo con noi anche i fiammiferi e un po’ di carta per accendere un eventuale fuoco: ma dopo averci riflettuto decidemmo che, conoscendo la stronzaggine dei nostri compaesani di qualche anno più anziani, era preferibile non rendersi visibili.

Le prime ore furono fantastiche. Le trascorremmo a rievocare i bivacchi che avevamo visto nei western più amati, quelli all’interno dei cerchi di carri o a fianco delle mandrie e quelli dei cow boys solitari, come Robert Mitchum in Notte senza fine. Io aggiunsi qualche spezzone delle avventure di Hukleberry e Tom Sayer, che ormai erano la mia Bibbia. Poi, quando dal campanile era ormai arrivata la mezzanotte e la foga delle rievocazioni cominciava a venir meno, sentimmo i rumori. Erano fruscii, piccoli schianti, voci di uccelli notturni. Nulla di particolare, ma appena ci zittivamo un attimo tutto attorno a noi sembrava animarsi. Ci eravamo rassicurati a vicenda, prima di metterci in marcia, ripetendoci che nel bosco non c’erano animali pericolosi (a quell’epoca i cinghiali erano scomparsi), al più qualche volpe o faina, o un tasso, che si sarebbero ben guardati dal farci visita. Ma sul posto la faccenda sembrava molto diversa.

Quando provammo a stenderci sotto le nostre coperte eravamo irrequieti. Io lo ero per un motivo particolare: temevo che qualche chiacchierone del nostro gruppo originario si fosse lasciato sfuggire qualcosa con i più grandi, e di vederli spuntare all’improvviso. Non sopportavo le loro prese in gire e la loro prepotenza, e rischiavo anche di buscarle. Per gli altri credo fosse proprio fifa da buio. Verso l’una il bivacco aveva perso ogni attrattiva, e avevamo ormai tutti solo una gran voglia di tornarcene a casa: ma nessuno naturalmente voleva cedere per primo. La soluzione arrivò quasi da sola. Chiacchierando e scherzando avevamo bevuta tutta l’acqua, e qualcuno cominciò a lamentare una insopportabile e contagiosissima sete. Non ci volle molto a decidere, anche se io finsi una certa resistenza. Davanti alla sete non si scherza, c’è gente che ci muore: e così giurammo che l’esperienza sarebbe stata ripetuta al più presto, questa volta con scorte d’acqua e di viveri adeguate. Ci avviammo silenziosamente per tornare, e solo a metà della salita del campo sportivo uno di noi ebbe il coraggio di parlare. In fondo, disse, la maggior parte della notte l’avevamo trascorsa fuori, d’estate albeggia presto e mancavano poche ore alla luce. Era sufficiente dire agli altri, il giorno dopo, che eravamo tornati alle quattro, e nessuno avrebbe potuto eccepire nulla. Fu così che diventammo uomini con un mezzo trucco, e non tornammo più alla Fracellazza.

Nell’economia del western il paesaggio è fondamentale. Deve essere comunque maestoso, perché fa da sfondo a vicende epiche. Ma non è solo un fondale: è parte viva della vicenda. In fondo, la gran parte delle storie western, e quelle con gli indiani tutte, ruota sul possesso di un territorio particolare, e dell’uso opposto che i due popoli vogliono fare delle sue risorse. Non è affatto importante che sia del tutto realistico, anche se ho continuato a chiedermi, da buon contadino, perché cavolo i pionieri dei film di Ford, ad esempio quelli di Sentieri selvaggi, scegliessero per stanziarvisi delle terre aride e desertiche, dove era evidente che non sarebbe cresciuta una foglia di insalata o sopravvissuta una capra. È importante invece che dia l’idea dello spazio. La fuga degli eroi western è sempre in direzione di spazi nuovi, non contaminati dalle presenze soffocanti dei coloni. Ho capito dopo che per Ford c’era anche una componente un po’ maniacale, ma che in generale era una scelta quasi obbligata, perché le zone fertili erano chiaramente molto più antropizzate e non offrivano gli ampi spazi di cui il western aveva bisogno.

Un’altra lezione implicita nella filosofia western è quella ambientalista. Così come ci veniva inoculato sottopelle il diritto degli indiani a resistere alla colonizzazione bianca, eravamo anche educati a guardare alla terra non solo in funzione dello sfruttamento: e questo, per figli di contadini affamati di terra come eravamo, era una lezione non facile da digerire: ma passava lo stesso.

Non voglio forzare l’interpretazione del genere attribuendogli intenti che non aveva. Ma è indubbio, ad esempio, che attraverso temi come quello dello sterminio dei bisonti, che tornano in più di un film, si arrivasse a sensibilizzare parecchio le nostre coscienze. L’ultima caccia è già dal titolo un western ambientalista. All’epoca non conoscevamo sapevamo il termine ambientalismo, probabilmente non era nemmeno stato coniato, e il film ci intrigava soprattutto per l’onnipresente Debra Paget in versione squaw indiana (ma anche Robert Taylor nella parte del fetentone non sfigura, mentre Stewart Granger malgrado le frange è un bietolone). Il messaggio comunque c’era, ed entrava sottopelle.

The end

THE END

Questo omaggio ha finito per somigliare ad una commemorazione. Ed è giusto sia tale, perché il cinema per come lo intendevo io, e il western in particolare, è morto da un pezzo. Il suo epitaffio era già stato dettato alla fine degli anni sessanta, quando Hollywood aveva prodotto più di cinquemila film ascrivibili al genere e in Europa si sfornavano surrogati sempre più scadenti. La fine del western ha coinciso con lo scatenamento delle potenzialità più deteriori del cinema, gli effetti speciali, il trash, il porno, i cinepanettoni, la comicità demenziale: tutte cose che non costruivano più una dimensione parallela, ma fotografavano esasperandole le miserie di quella reale. Anziché alimentare la voglia di sognare, con l’effetto poi di indurre a ribellarsi a ciò che non corrispondeva al sogno, il cinema ha accampato per un breve periodo un ruolo di testimone attivo che non gli era proprio, che veniva vanificato dai tempi e dai mezzi necessari per la produzione. Al sogno cercava di sostituire l’incubo, ma gli incubi, per fortuna o almeno per una naturale difesa, non sono destinati a durare, mentre i sogni si. Uccidendo il sogno non si lasciava in vita nemmeno la speranza, l’utopia di un cambiamento.

Il western non ha fatto eccezione: anzi, proprio per la sua natura mitopoietica particolare è stato il primo tra i generi ad accusare il cambiamento dei tempi. Un po’ per l’aria che tirava nella seconda metà degli anni sessanta, un po’ per il mutato gusto del pubblico, indotto dalla televisione a rivolgere altrove la propria domanda di consolazione, anche il cinema western è passato dal raccontare favole e dal pretendere di essere favola ad un “impegno”, vero o presunto, di carattere storico e sociologico. O forse si è trattato solo di un naturale esaurimento della fantasia. Ciò ha significato ribaltare completamente la propria funzione e adeguarsi a quella colossale ipocrisia che passa sotto il nome di “politicamente corretto”. Anche grandi registi come Ford hanno finito per allinearsi al nuovo corso, e questo spiega perché Il grande sentiero, pur rimanendo un nobilissimo film, non suscita le stesse emozioni di Ombre Rosse o de I cavalieri del Nord Ovest.

Il passo finale è stato compiuto negli ultimi due decenni del secolo scorso. Abbandonata ogni velleità di fabbricare miti o di criticare quelli costruiti in precedenza, nell’era del digitale il cinema si è ridotto a contenitore di immagini invece che di storie, a produttore di sensazioni anziché di emozioni, esasperando i ritmi e gli effetti speciali. Nel western gli spruzzi di sangue, i rimbalzi dei corpi colpiti dalle pallottole, le efferatezze delle torture hanno relegato in second’ordine la linearità del racconto e hanno spostato sempre più in alto la soglia della tollerabilità della violenza da parte dello spettatore, finendo per renderlo del tutto indifferente, o addirittura creandogli sempre nuove e più pesanti aspettative.

Quanto al nuovo millennio, è sufficiente dare un’occhiata a ciò che è passato per western negli ultimi mesi, cose tipo Revenant o i film di Tarantino, per rendersi conto di cosa è cambiato. Per il primo c’è la possibilità di un confronto con Uomo bianco vai col tuo Dio, che racconta la stessa storia senza bisogno di effetti speciali, e la rende plausibile. I secondi sono solo un esercizio formale, ma ad uso di palati molto grossolani. Con il mio West, e con il mito collettivo che ha caratterizzato una generazione, non hanno più nulla a che vedere.

Va preso atto che è finita un’epoca. Già per i nostri figli il cinema in generale è stato un divertimento secondario rispetto alla televisione. Per i nipoti rappresenta oggi solo una delle tante varianti interne al pensiero unico dettato dal supporto unico. Non è scomparso, ma è altra cosa: come accadeva ai divi imbolsiti, è passato dapprima a ruoli di comprimario e poi di comparsa.

In mezzo, tra me e mio nipote, ma anche tra me e i miei figli, ci sono state un’evoluzione tecnologica spaventosa, una trasformazione sociale senza precedenti, la “virtualizzazione” progressiva di quasi ogni nostra azione e relazione, e c’è stato, per quanto riguarda il mito del west, soprattutto il ‘68. Nel corso degli anni ‘60 l’America è diventata, da luogo del sogno, il luogo dei disvalori, e il genocidio degli indiani la madre e il simbolo di tutte le nefandezze, il peccato originario. È stato intonato un ipocrita coro di mea culpa dell’uomo occidentale, che non riguarda solo il trattamento inferto ai pellerossa, e per estensione a tutti i popoli colonizzati (cosa che nella giusta misura ci starebbe), ma chiama in causa ancestrali mozioni e sentimenti che hanno accompagnato l’uomo da sempre, e non soltanto quello occidentale, e continuano ad accompagnarlo: “il western è stato un genere che ha esposto come accettabili – sul serio, e non come caricatura – sentimenti e comportamenti che oggi scandalizzano l’ipocrita massa mondiale dei benpensanti volenterosi; e cioè, di quelli che si sforzano con diligenza di allontanare da sé, condannandole, una serie di passioni connaturali all’umanità di tutte le epoche. Nel western l’odio non è malvisto, né l’ansia di vendetta, né l’ambizione, né l’ostinazione infinita nell’inseguire un nemico, il desiderio di fargli male o di ucciderlo, né la ricerca di riparare un’offesa, e anche di giustizia a volte”. (Javier Marìas)

Il western, come genere cinematografico, è morto: ogni tanto rispunta, e magari scodella anche opere eccellenti. Ma è, per l’appunto, un genere, mentre io volevo parlare di un mito. Che è tutta un’altra cosa.

Postfazione

Dovessi riscriverla oggi, a distanza di soli due anni, forse questa rievocazione non partirebbe nemmeno. Durante questo periodo quasi tutti i film di cui parlo sono passati in tivù, e li ho rivisti. Confesso che anche al netto di ogni possibile tara, delle diversissime modalità della fruizione, del piccolo schermo, delle interruzioni pubblicitarie, la sensazione non è stata esaltante. Se collocati fuori dallo speciale contesto che ho cercato di rievocare, la maggior parte di essi vale davvero poco. Tolti una decina di veri capolavori, gli altri mi sono sembrati lenti, scontati, quasi sempre improbabili.

Tutto sommato dunque è andata bene così (almeno a me): ho fatto a tempo a ricordarli per come li avevo amati, per le emozioni che mi avevano procurato, e penso che questo sia in fondo l’unico criterio di giudizio da adottarsi rispetto a ciò che davvero ha avuto un peso nella nostra vita.

Anche se non è una storia del cinema western, un minimo di apparato filmografico questa narrazione lo esige. Le scelte non sono naturalmente dettate da criteri critici, ma da suggestioni emozionali. In sostanza elenco solo i film che ho visto, di cui mi ricordo e che sono comunque citati nel testo. Per le schede, i cast e le trame rimando invece alla rete, oppure ai dizionari e alle enciclopedie indicate nella bibliografia. Consiglio però di diffidare delle recensioni, o quantomeno di ricordare che ciascuno ha il suo west, e vi cerca, e vi trova, emozioni, eroi e significati diversi.

Filmografia personale (per anno di uscita)

1930 IL GRANDE SENTIERO (The Big Trail)

1936 LA CONQUISTA DEL WEST (The Plainsman)

1936 L’ULTIMO DEI MOHICANI – IL RE DEI PELLEROSSA

1939 OMBRE ROSSE (Stagecoach)

1939 LA PIÙ GRANDE AVVENTURA (Drums Along the Mohawk)

1939 IL PRIMO RIBELLE (Allegheny Uprising)

1939 IL TERRORE DELL’OVEST (The Oklahoma Kid)

1940 CAROVANA D’EROI (Virginia City)

1940 GIUBBE ROSSE (North West Mounted Police)

1940 I PASCOLI DELL’ODIO (Santa Fe Trail)

1940 L’UOMO DEL WEST (The Westerner)

1940 IL VENDICATORE DI JESS IL BANDITO (The Return of Frank James)

1941 GLI INDOMABILI ((Frontier Marshall)

1941 LA RIBELLE DEL SUD (Belle Starr)

1941 LA RIBELLE DEL WEST (The Lady from Cheyenne)

1941 LA STORIA DEL GENERALE CUSTER (They Died With Their Boots On)

1941 TERRA SELVAGGIA (Billy the Kid)

1943 ALBA FATALE (The Ox-Bow Incident)

1943 DESPERADOS (The Desperadoes)

1944 LA VALLE DELLA VENDETTA (Valley of Vengeance)

1945 IL MAGNIFICO AVVENTURIERO (Along Came Jones)

1946 I CONQUISTATORI (Canyon Passage)

1946 SFIDA INFERNALE (My Darling Clementine)

1946 IL VIRGINIANO (The Virginian)

1947 GLI INVINCIBILI (Unconquered)

1947 I BANDOLEROS (Gunfighters)

1947 NOTTE DI BIVACCO (Cheyenne)

1947 NOTTE SENZA FINE (Pursued)

1947 L’ULTIMA CONQUISTA (Angel and the Badman)

1948 CIELO GIALLO (Yellow Sky)

1948 IL FIUME ROSSO (Red River)

1948 IL MASSACRO DI FORT APACHE (Fort Apache)

1948 SANGUE SULLA LUNA (Blood on the Moon)

1948 IL SOLITARIO DEL TEXAS (Albuquerque)

1948 IL VAGABONDO DELLA FORESTA (Rachel and the Stranger)

1949 GLI AMANTI DELLA CITTÀ SEPOLTA (Colorado Territory)

1949 I CAVALIERI DEL NORD OVEST (She Wore a Yellow Ribbon)

1950 L’AMANTE INDIANA (Broken Arrow)

1950 ANNA PRENDI IL FUCILE (Annie Get Your Gun)

1950 BILL IL SANGUINARIO (The Kid from Texas)

1950 LA CAROVANA DEI MORMONI (Wagon Master)

1950 IL COLONNELLO HOLLISTER (Dallas)

1950 LE FURIE (The Furies)

1950 I PREDONI DEL KANSAS (Kansas Raiders)

1950 RIO BRAVO (Rio Grande)

1950 ROMANTICO AVVENTURIERO (The Gunfighter)

1950 IL SENTIERO DEGLI APACHES (California Passage)

1950 WINCHESTER ‘73

1951 L’AVAMPOSTO DEGLI UOMINI PERDUTI (Only the Valiant)

1951 L’ASSEDIO DI FORTE POINT (The Last Outpost)

1951 IL CACCIATORE DEL MISSOURI (Across the Wide Missouri)

1951 DONNE VERSO L’IGNOTO (Westward the Women)

1951 IL FUGGIASCO DI SANTA FÉ (Cattle Drive)

1951 IL MAGNIFICO FUORILEGGE (Best of the Badmen)

1951 IL VENDICATORE SILENZIOSO (Smoky)

1951 LA MASCHERA DI FANGO (Springfield Rifle)

1951 LA RIVOLTA DEGLI APACHES (Apache Drums)

1951 ROTAIE INSANGUINATE (Santa Fe)

1951 SABBIE ROSSE (Along the Great Divide)

1951 TAMBURI LONTANI (Distant Drums)

1951 TOMAHAWK – SCURE DI GUERRA (Tomahawk)

1951 IL TERRORE DEI NAVAJOS (Fort defiance)

1952 DAN IL TERRIBILE (Horizons West)

1952 IL GRANDE CIELO (The Big Sky)

1952 INFERNO BIANCO (The Wild North)

1952 LÀ DOVE SCENDE IL FIUME (Bend of the River)

1952 KOCISS L’EROE INDIANO (The Battle at Apache Pass)

1952 LA MASCHERA DI FANGO (Springfield Rifle)

1952 MEZZOGIORNO DI FUOCO (High Noon)

1952 RANCHO NOTORIUS

1952 LA REGINA DEI DESPERADOS (Montana Belle)

1952 LA CARICA DEGLI APACHES (The Half Breed)

1952 SQUILLI AL TRAMONTO (Bugles in the Afternoon)

1952 IL TESORO DEI SEQUOIA (The Big Trees)

1952 L’ULTIMA FRECCIA (Pony Soldier)

1953 L’ASSEDIO DELLE SETTE FRECCE (Escape from Fort Bravo)

1953 BALLATA SELVAGGIA (Blowing Wild)

1953 LE FRONTIERE DEI SIOUX (The Nebraskan)

1953 BILL WEST FRATELLO DEGLI INDIANI (The Great Sioux Uprising)

1953 CAVALCA, VAQUERO! (Ride, Vaquero!)

1953 IL CAVALIERE DELLA VALLE SOLITARIA (Shane)

1953 LA CITTÀ DEI FUORILEGGE (City of Bad Men)

1953 LA FRECCIA INSANGUINATA (Arrowhead)

1953 IL GIUSTIZIERE (Law and Order)

1953 HONDO

1953 L’INDIANA BIANCA (The Charge at Feather River)

!)%£ IL MAGGIORE BRADY (War Arrow)

1953 LA PATTUGLIA DELLE GIUBBE ROSSE (Fort Vengeance)

1953 LA RIBELLE DEL WEST (The Redhead from Wyoming)

1953 SEMINOLE

1953 LO SPERONE NUDO (The Naked Spur)

1953 IL TRADITORE DI FORTE ALAMO (The Man from the Alamo)

1953 LA VENDETTA DI KOCISS (Conquest of Cochise)

1954 L’ASCIA DI GUERRA (The Yellow Tomahawk)

1954 LA CAMPANA HA SUONATO (Silver Lode)

1954 CAVALCATA AD OVEST (They Rode West)

1954 IL FIGLIO DI KOCISS (Taza, Son of Cochise)

1954 LE GIUBBE ROSSE DEL SASKATCHEWAN (Saskatchewan)

1954 HONDO

1954 JOHNNY GUITAR

1954 LA LANCIA CHE UCCIDE (Broken Lance)

1953 I PIONIERI DELLA CALIFORNIA (Southwest Passage)

1954 LA REGINA DEL FAR WEST (Cattle Queen of Montana)

1954 RULLO DI TAMBURI (Drum Beat)

1954 SETTE SPOSE PER SETTE FRATELLI (SEVEN Brides for Seven Brothers)

LA STRAGE DEL 7º CAVALLEGGERI (Sitting Bull)

1954 TERRA LONTANA (The Far Country)

1954 L’ULTIMO APACHE (Apache)

1955 ALAMO (The Last Command)

1955 IL CACCIATORE DI INDIANI (The Indian Fighter)

1955 L’ASCIA DI GUERRA (The Yellow Tomahawk)

1955 FURIA INDIANA (Chief Crazy Horse)

1955 IL KENTUCKIANO (The Kentuckian)

1955 LA STRAGE DEL SETTIMO CAVALLEGGERI (Sitting Bull)

1955 UN NAPOLETANO NEL FAR WEST (Many Rivers to Cross)

1955 SATANK, LA FRECCIA CHE UCCIDE (Santa Fe Passage)

1955 L’ARMA CHE CONQUISTÒ IL WEST (The Gun that Won the west)

1955 SANGUE DI CAINO (Thr Road to Denver)

1955 SEGNALE DI FUMO (Smoke Signal)

1955 LA STRANIERA (Strange Lady in Town)

1955 UOMINI VIOLENTI (The Violent Men)

1955 L’UOMO DI LARAMIE (The Man from Laramie)

1955 LA VERGINE DELLA VALLE (White Feather)

1956 CAROVANA VERSO IL WEST (Westward Ho, the Wagons!)

1956 FRATELLI RIVALI (Love Me Tender)

1956 IL MIO AMANTE È UN BANDITO (The Maverick Queen)

1956 LA PISTOLA SEPOLTA (The Fastest Gun Alive)

1956 LA PRINCIPESSA DEI MOAK (Mohawk)

1956 FAME DI GLORIA (Massacre at Sand Creek)

1956 LA SAGA DEI COMANCHES (Comanche)

1956 SENTIERI SELVAGGI (The Searchers)

1956 SETTIMO CAVALLERIA (7th Cavalry)

1956 TRAMONTO DI FUOCO (Red Sundown)

1956 L’ULTIMA CACCIA (The Last Hunt)

1956 L’ULTIMA CAROVANA (The Last Wagon)

1956 VENTO DI TERRE LONTANE (Jubal)

1957 DECISIONE AL TRAMONTO (Decision at Sundown)

1957 IL FORTE DELLE AMAZZONI (The Guns of Fort Petticoat)

1957 CAROVANA VERSO IL WEST (Westward Ho, The Wagons!)

1957 PASSAGGIO DI NOTTE (Night Passage)

1957 QUARANTA PISTOLE (Forty Guns)

1957 QUEL TRENO PER YUMA (3:10 to Yuma)

1957 SFIDA ALL’O.K. CORRAL (Gunfight at the O.K. Corral)

1957 LA TORTURA DELLA FRECCIA (Run of the Arrow)

1957 LA VERA STORIA DI JESS IL BANDITO (The True Story of Jesse James)

1958 BRAVADOS (The Bravados)

1958 IL CAVALIERE SOLITARIO (Buchanan Rides Alone)

1958 DOVE LA TERRA SCOTTA (Man of the West)

1958 IL FORTE DEL MASSACRO (Fort Massacre)

1958 FURIA SELVAGGIA (The Left-handed Gun)

1958 GLI UOMINI DELLA TERRA SELVAGGIA (The Badlanders)

1958 LAMPI NEL SOLE (Thunder in the Sun)

1958 IL SENTIERO DELLA VIOLENZA (Gunman’s Walk)

1958 L’URLO DEI COMANCHES (Fort Dobbs)

1959 L’ALBERO DEGLI IMPICCATI (The Hanging T ree)

1959 UN DOLLARO D’ONORE (Rio Bravo)

1959 DUELLO ALLA PISTOLA (The Gunfight at Dodge City)

1959 IL GIORNO DELLA VENDETTA (Last Train from Gun Hill)

1959 LA GUIDA INDIANA (Yellowstone Kelly)

1959 I RIBELLI DEL KANSAS (The Jayhawkers!)

1959 SOLDATI A CAVALLO (The Horse Soldiers)

1960 I DANNATI E GLI EROI (Sergeant Rutledge)

1960 GLI INESORABILI (The Unforgiven)

1960 I MAGNIFICI SETTE (The Magnificent Seven)

1961 I CANADESI (The Canadians)

1961 CAVALCARONO INSIEME (Two Rode Together)

1961 I COMANCHEROS (The Comancheros)

1962 SFIDA NELL’ALTA SIERRA (Ride the High Country)

1962 L’UOMO CHE UCCISE LIBERTY VALANCE (The Man Who Shot Liberty Valance)

1965 RIVOLTA INDIANA NEL WEST (Oklahoma territory)

1965 SIERRA CHARRIBA (Major Dundee)

1966 I PROFESSIONISTI (The Professionals)

1968 COSTRETTO AD UCCIDERE (Will Penny)

1969 IL MUCCHIO SELVAGGIO (The Wild Bunch)

1970 IO SONO LA LEGGE (The Lawmen)

1971 IO SONO VALDEZ (Valdez Is Coming)

1972 CORVO ROSSO NON AVRAI IL MIO SCALPO (Jeremiah Johnson)

1972 I COWBOYS (The Cowboys)

1972 FANGO, SUDORE E POLVERE DA SPARO (The Culpepper Cattle Company)

1972 NESSUNA PIETÀ PER ULZANA (Ulzana’s Raid)

1975 STRINGI I DENTI E VAI (Bite the Bullet)

1976 IL PISTOLERO (The Shootist)

Bibliografia essenziale

AA VV – Il western – Feltrinelli 1974

BARBOUR, A. G. – John Wayne – Milano libri 1979

BOGDANOVIC, P. – Il cinema secondo John Ford – Pratiche 1990

BOSCO, A.– Rizzi, D. – I cavalieri del West. Storia, cinema, leggenda – Le Mani 2011

BRUNO, E (a c. di) – Western: ottant’anni di cinema – Lanterna Magica 1983

BRUNETTA, G. P – Geografia del western – (in Storia del cinema mondiale vol 2) Einaudi 1999

COHEN Clélia – Il western. Il vero volto del cinema americano – Lindau 2006

D’ANGELA, T. (a cura di) – Il cinema western da Griffith a Peckinpah – Falsopiano 2004

DI MARINO, S. – TETRO, M. – Guida al cinema western – Odoya 2016

FARINOTTI, P. – Dizionario dei film western – SugarCo 1993

FRASCA, G. – C’era una volta il western – UTET 2007

GABERSCEK, Carlo – Sentieri del western. Dove il cinema ha creato il West. 2 Vol. – La Cineteca del Friuli (1995)

KEZICH, T.– Il mito del Far West – Il Formichiere 1980

LIGUORI, G.– Non sparate sul pianista. Viaggio nel cinema western – Skira (2016)

LUCCI, G. – Western – Electa 2005

MALAN, D. – Storia illustrata del cinema western –Melita 1985

SCAPOLLA, FLa leggenda del western Melangolo (2016)

VIGANÒ, A. – Storia del cinema western in cento film – Le Mani 1994

 

Sul mito del West e sul cinema western in particolare segnalo inoltre due notevoli saggi:

Leslie Fielder Il ritorno del pellerossa, Rizzoli 1969

Eric Hobsbawm Il cowboy americano: un mito internazionale? (in La fine della cultura, Rizzoli 2013)

e la riflessione di Javier Marìas comparsa su “La Repubblica” il 7 agosto 2011 “Il politicamente corretto ha ucciso i nostri eroi / Se il selvaggio west è diventato buono”.