Lamento di un visitatore di musei
Antropologia dell’estate in città
La storia con la esse minuscola
Introduzione
In certi momenti di scoramento mi viene da pensare che il destino ultimo dei libri sia la soffitta o la cantina. Allo stesso modo penso che il destino ultimo di ciò che scriviamo senza essere propriamente scrittori sia il fondo di un cassetto. Domanda: è opportuno tirare fuori dal cassetto questo materiale e fare la verifica di una sua resistenza nel tempo? Risposta: sì se questa operazione immette qualche elemento di vitalità nel nostro presente, offre uno spunto, dà qualche conforto in più, salda qualche piccolo conto o semplicemente offre un aggiustamento di tiro.
Mi ha offerto un’occasione in questo senso Paolo Repetto, che nei “Quaderni” della sua domestica editoria dei “Viandanti delle Nebbie” pubblica una coppia di miei libretti intitolati Poesie tra i Settanta e gli Ottanta e Poesie tra un millennio e l’altro, che testimoniano l’angolatura con cui ho guardato agli anni indicati nei titoli.
Soffermiamoci sul primo libretto, che è questo che tenete in mano. Mi sono accorto ancora una volta, rileggendo, di quanto l’epoca della sua stesura, dalla metà degli anni Settanta alla metà degli Ottanta, fosse piena per me di una gran quantità di paura del nulla, uguagliata soltanto da certi orrori e terrori che allora ci circondavano (un po’ come adesso). Era poi personalmente il tempo del passaggio dalle speranze colorate di chi entra nei vent’anni alla crisi di chi entra nei trenta (circolava allora il detto che non ci si doveva fidare di chi aveva più di trent’anni). Nella paura del nulla c’era anche un po’ di retorica (giocavo con le tematiche di Heidegger, care al mio fratello maggiore, per sembrare più adulto). Ma fondamentalmente la paura era sincera. Raggiunse il suo acme nel 1977. Ne venni fuori nell’estate leggendo un po’ a caso Veder l’erba dalla parte delle radici di Lajolo, che funzionò da psicoterapeuta; non chiedetemi perché.
Ma sto divagando. Vorrei soltanto dire che quando qualcuno oggi mi porta nel discorso sulle maledette domande (come le definivano gli scrittori russi), quelle sul senso della vita, tendo a tirarmi indietro e a dire: “Ho già dato”. Mi fa piacere però che di questa forma di nichilismo esistenziale sia rimasta traccia nelle poesie di questo libretto. Non vorrei spaventare il lettore: oggi vedo le cose con maggiore serenità ed equilibrio. Piuttosto un’altra cosa viene fuori da queste composizioni: il midollo della provincia più profonda, anche quando, e forse soprattutto quando, parlo di Italia e di treni. I miei viaggi sono sempre stati una ricerca della provincia, quella che ho sempre abitato, oscillante e incerto di trovarmi nel caldo cuore del mondo oppure nell’estremità slabbrata dell’universo, come diceva Fitzgerald a proposito del Middle West.
P.S. per la dedica A/da una voce fraterna
Ho pensato che la poesia è una voce fraterna che interpella la voce interiore di un fratello che risponde. Poi c’è il richiamo al mio fratello vero, che mi ha influenzato tanto nelle letture letterarie e filosofiche, richiamo che ritroverete nella dedica dell’altra raccolta di poesie. Infine ho visto che veniva fuori come gioco di parole una “Ada”, che mi ha richiamato Adele (Adelina), la mia nonna materna che non ho mai conosciuto e che è forse all’origine genetico-famigliare di questo vizio di scrivere poesie o, per lo meno, di apprezzarle molto. Di lei conservo un quaderno, intitolato Musa collegiale, manoscritto di versi composti frequentando le Scuole Normali dell’Istituto “Figlie dei Militari” presso la Villa della Regina a Torino, quaderno risalente agli anni 1884-89. Alcune poesie sono a firma di una sua amica che diventerà famosa con lo pseudonimo di Alba Cinzia, scrittrice per ragazzi (ebbe grande fortuna con La prateria degli asfodeli). Mia mamma (cioè la figlia di Adele) portava in suo onore il nome di Alba Cinzia e a sua volta si dilettava a comporre poesie giocose con la propria sorella minore, la zia Domenica.
Ho voluto dunque fare una dedica famigliare e contemporaneamente trovare una giustificazione allo scrivere poesie, come a dire: scusate, non è colpa mia, è un condizionamento genetico (dalle nostre parti mandrogne lo scrivere poesie è una cosa un po’ disdicevole).
La metropoli e il nulla
Compagno Eliot
The winter evening settles down
With smell of steaks in passageways…
The morning comes to consciousness
Of faint stale smells of beer…
Eliot, Preludes
Gravida d’erbe, di germogli teneri
lievita la città; nella pozzanghera
si mescolano le automobili col cielo.
Sceso in stazione ho visto
angeli azzurri (dai manifesti
la luce impietosa del tempo
ha tolto ogni altro colore)
un uomo – elefante
con dietro pesanti valige
e una vecchia signora festosa
col muso di bambina.
Da una graticola,
incenso quotidiano,
sale uno sconveniente
odore di minestra.
Quindi incedendo s’alzano
e poi s’abbassano le cose,
lo specchio altalenante di me stesso.
È un’ora e una stagione
in cui nel viale
le foglie son davvero
verdi e assolute,
sembrano lampadine
nella giornata scura.
Mucillagine è il cielo,
denso come melassa
e all’improvviso
aspettando al semaforo mi accorgo
(con dispiacere; ma già, che mi credevo?)
che tutto questo è il mondo
e la sua spiegazione.
Provinciale in città
Sbarcato nella città degli umani
procedo senza più grandi piani
per una via che si fa sempre più stretta
accompagnato dal viaggio
delle nuvole sopra la mia testa.
Qui subito famelica
la vita viene incontro, avanza contro me,
mostra impudentemente le sue doglianze:
la donna che quasi rotola,
grassa, ormai sfatta,
il discorso accalorato
del rachitico sulla soglia
della bottega, lo sventurato
che disinvolto si porta sulle spalle
il peso del creato.
Tutto è stato previsto?
Tutto inesorabile si svolge,
anche in fondo alla via
l’azzurro dell’aprile, i verdi
e i gialli saturi sotto il bel sole
e quanto mi rimane di futuro
fino a tutte le eventualità
del dopo morte.
Fermo immagine
Esordio del ricordo
Gridava l’anima al di là
dello scompartimento, oltre il finestrino
e ora come ora non saprei
dire come si sommuoveva
la liquida aria di primavera
in conseguenza dell’avviso del tuo volto:
sapevo solo dei coni
di fiori dell’ippocastano
(certi alla ventura dei giorni)
che m’avrebbero d’ora in poi
avvertito di ogni richiamo di te,
pensavo solo a tutte quelle cose
che mi danno una forte sensazione
d’immortalità.
Fervori del mattino
Mattino presto: la città
è dei pochi che ci passeggiano.
Lasciano andare i cani
a scorrazzare nel parco,
di fronte all’infilata
delle palazzate
(nell’aria stupore e mesto decoro).
Il viale come un aereo,
vaporoso tunnel
finisce lontano in un foro di luce.
Alla fermata, col segnale rosso,
scappa la lepre-felicità. Prendila!
Ma incerto se per le orecchie
o con il sale sulla coda,
ecco, scappa di mano,
è già al punto di fuga.
Una maschera aveva col tuo volto.
Esorcismo per un’immagine
Anche solo nel ricordo tu consoli
dell’esistenza, mentre impossibilitati
nel ritorno, un puro vuoto,
fantasmi sono ormai i ricci neri,
gli occhi e le guance mossi
da un sorriso iniziale,
risonante, giocondo
di una gioia segreta
ed il tutto di te, festosamente
instabile nel mondo
ed impazientemente uscita
da un demiurgo stanco
della solita creta.
Così faccio il tifo per te,
per la costanza della tua presenza
nella mia memoria, perché già solo
da questa astratta compagnia
acuito è il mistero
dei gesti e dei momenti
da ora fino alla fine
o al principio del tutto.
Ci incontreremo per davvero
in altre vite?
Alla maniera degli antichi
Oggi piovono i morti sul parabrezza
e la terra dai campi trasuda dolori.
Uguale e vuoto torna ad apparire
il futuro dei giorni,
come un bianco lenzuolo.
A cosa mi aggrapperò? Annaspo.
Una frasca annudata si dibatte
ma non mi racconsola col pensiero
di tutte le maliose ebbrezze
dell’inverno che viene,
dei fuochi, degli interni, dei tepori
perché tutte le gioie del mondo
sono inferni, ricchezze devastate
se penso a come le avrei assaporate
accanto a te.
Fine di una storia
Torna il vecchio fantasma di febbraio
a impaurirmi la vita. Un cane abbaia
alle morte stagioni e alla presente
giù nella strada: inaugura
il tempo fallito di carnevale?
Un sole falso perdura
nell’osceno letargo
del tardo inverno.
Uroboros
Di lunedì
Doloroso assistevo lo spuntare del giorno
in quel tratto di via dalle serrande chiuse.
Già forte e risvegliata dall’attesa
per un errore commesso mi avevi richiamato
e poi subitamente perdonato
mentre l’ora tingeva di chiaro
il cielo tra le case
e una nuvola come un pan caldo
usciva dai forni dell’alba.
Non ben sveglio il cervello vagava
tra chimere indistinte e felici,
iridi arcane, sogni stralunati
della mia prima età.
Indietreggia, accelera, riparti
ed ecco incominciato il lunedì.
Meccanismo vitale
La vita sarà, maledetta, sempre uguale:
un’infante accompagnata a scuola
per i giri urbani segnati
dai lividi giallisporchi dell’alba,
qualche volto butterato dal sonno.
Ma lascia che s’alzi il sole
tra il viale, i giardini, la ghiaia e le rotaie.
Basterà l’esca di un discorso:
abbandonata l’Essenza
entrerai anche tu nella finzione,
t’immergerai
nel tiepido bagno di ciò che passa,
senza pensarci.
Ricordo e istinto
Dov’era l’orologio floreale
ora sono avanzi, gerbido e opere del male.
Tra le trame di un sole mal schermato
ammicca dal battuto di cemento
il ricordo di music hall lontani,
rimette in discussione
gli sviluppi di adesso,
mi parla del futuro di allora
incantato fra tranquilli lampadari
di pioggette autunnali.
Ma imbrattato così della mia storia
procedo nell’avanti e non mi serve a niente.
Invano prendo treni, rovisto giovinezze
perdute, rigusto le certezze
tali solo per ieri
(oggi soltanto delle pene in più)
Mentre il piccione che becca sotto la panchina
sa già tutto dell’inverno che viene.
Inceppo alla routine
Nella piazza meravigliosa
si effondeva tutta l’attesa della primavera.
Tra bancarelle di libri usati compravo
gioia, amore, promessa, futuro
e stringevo la mano al passato.
Improvvisa questa immagine mi assale
e così viva da poter tornare
indietro al bivio che si apriva,
prendere di quelle due la via giusta
e ciò che sono oggi è solo errore
di facile rimonta, di chi ha sbagliato strada:
basta fermarsi a chiedere (con sgomento da poco),
tornare indietro, girare l’isolato.
Ma è questione di un attimo.
L’immagine sospesa già ricade
come gioia appartenuta ad un altro.
Ottuso, indifferente, la rifagocita in un subito
l’affanno del presente.
* * *
Nel lento viale domenicale
(ottobre incombe tra nebbia e sole)
vagola col giornale
il giovane padre di famiglia
occidentale.
Tra Iran e Iraq come andrà a finire?
(corrono avanti le figliole infanti).
La giornata, tra partite e paste,
si presenta liscia come l’olio.
Scacciato lesto via
si affaccia nella mente
un dubbio sul gasolio.
Routine del pendolare
La sorpasso in macchina
sempre allo stesso punto
la ragazza un po’ goffa
di CORSO CARLO MARX
UOMO POLITICO.
In giubba, pantaloni e tacchi alti
sembra che porti un secchio,
cammina sulle uova.
Se mette la gonna
mi cambia la giornata.
Tra il negozio di arredi e il benzinaio,
alle ore sette e trenta del mattino
compagna di tre secondi per un anno!
Tante belle cose
Il concetto di Paradiso
La bambinetta che dal lunotto
posteriore dell’autobus
guarda passare i manifesti,
le nuvole, la gente,
trascorre rapidamente alla mia vista.
Tutto svapora in lei
di questa sua qualsiasi
domenica infantile:
il tempo (non sa cos’è)
e insieme i pini neri del giardino.
Così ce lo sogniamo il Paradiso?
Archetipica
Garrisce il drappo rosso della cattedrale
e senza un’apparente connessione
a terra un uovo di piccione infranto
è subito moneta, tesoro,
lacerto, traccia, memoria di futuro.
Bassignana e Stazzano per me nomi di fiaba
riodo declamare per le scale
sonore ai giochi di nascondersi e rialzo.
Dall’insegna RIVENDITA LEGNAMI
giunge un odore di bosco e di frescura.
Scioglie i legami, gonfia l’orizzonte
lo “zefiro gentile” dei libri di lettura.
Padrona delle forze, più allettante
del muretto di un viottolo campestre
la primavera mi ridà la corda.
Le cose prendono lo statuto di persone
e tutto si ricompone.
Illuminazione
Ho incontrato la figlia dei fiori
in ritardo sui tempi, la gonna ventosa,
veniva da dove cominciava il ricordo,
fendeva i flutti di un’ora operosa.
Dietro di lei sono giornate estive,
campi da tennis, fiori di ligustro,
gli ippodromi scavati dalle bombe
dove commerciavamo figurine
di popoli e costumi
(la mia primeva America del Sud!),
gli opifici fumanti del nostro meridione
tra l’ottanta e il novanta,
legati per me a puri suoni:
Nitti, Crispi, Giolitti,
tutti pensieri in scatola,
roba di tempi buoni,
e i vecchi archimandriti
per le strade di sole dell’Egitto
usciti dal monocromo confine
nocciola o grigio di estinte cartoline.
Estati urbane
Esaurimento virtuoso
(Refrigerio alla calura n. 1)
Nello spazio anonimo del corso
si aprono le nuvole alla sera.
Le piante a scacchi
(una bianca e una nera)
si alternano con sapienza risaputa.
Nei giardinetti il falso grano,
curvo e folto, ormai secco,
invade già tutto, infiamma
nel suo rogo una vecchia seduta.
I casamenti sono,
come i rari volti,
sfatti dalla giornata;
la stanga della panchina è staccata,
il passero attracca al balcone,
io sono al mondo.
Il concetto di fraternità
Sono le otto dell’ “ora estiva”,
tempo di cena col sole ancora alto.
Sotto il portico di città
bevono i piccioni
l’acqua del fioraio,
che ha ritirato i vasi.
La luce s’è approfondita
nel portico.
Li salva dal riverbero
l’ombra dell’architrave.
Gargarizzano, smorzano la sete.
Miei parenti, fratelli.
Via Tonso
Forte bussa il trambusto
della solitudine
in mezzo agli orti occidui
di periferia
di questa mia città
piena di abitudine
(una di quelle, fatte con lo stampo,
dell’Italia senza storia di nord-ovest).
Ora che il giorno ha cotto tutto quanto,
all’improvviso come una fanfara
erompe da un balcone aperto
la sigla del telegiornale.
Prende d’infilata la via
il vento dal vialetto.
Ecco, non mi aspetto più niente:
mi attacco alla giornata,
mi spendo con lentezza i suoi avanzi.
Lamento di un visitatore di musei
Ignoto come l’Aemilius
della lapide del civico museo,
il mio unico vantaggio è quello
di non essere ancora morto.
Antropologia dell’estate in città
(Occidente europeo – seconda metà del sec. XX)
Ed ecco sbuca fuori
l’estate di città:
esce rovente dai tombini aperti
per i lavori in corso,
irradia traspirante
dai bianchi casermoni periferici,
esala dagli asfalti
di vie fuori mano
e poi, amica della spiga
del campo suburbano,
mi porta le notizie dei raccolti,
s’insinua ardentemente
nei vecchi polverosi manufatti
di civici giardini fine secolo.
Se esco e le vado incontro
(come faceva con la primavera
quell’antico poeta orientale
di una consunta antologia ginnasiale)
sturo ferie rionali
di vino con la fetta di limone
e di pesci in carpione:
anni cinquanta finalmente normali
dopo tutte quelle guerre mondiali,
vacanze a domicilio
sul tavolo da pranzo
di piccoli borghesi,
di operai in pensione.
Inquieto come allora riguadagno,
forte di un’amnistia
dal tempo concessa da giorni distesi,
la campagna dei passaggi a livello,
frequento i capolinea, cerco
una lontananza che sia mia,
oppure, infuriato il mezzogiorno,
mi concedo una gioia transitoria:
penso alle sieste della mia preistoria,
a un’ombra proiettata sul soffitto
(si muove con mia grande meraviglia),
a me che stavo zitto
nello scuro della camera da letto.
Quando nel cielo il sole supera
lo zoccolo duro del meriggio,
mi accoccolo al rinfresco di memorie
di vecchie immagini pubblicitarie:
Chinina Migone,
pagliette d’occasione,
avvisi economici centenari
letti nella sezione ebdomadari
di una biblioteca aperta
anche col solleone.
Poco ancora convinto dell’oggi
mi congedo il ristoro
di docce immaginarie
in mezzo alle macerie
dei bagni popolari
progettati con aulici richiami
(benché ci fosse la ciminiera,
arieggiavano Treviri,
gli antichi romani)
da un insigne ingegnere ricordato
con la sua lunga barba da archiatra
nei necrologi del bollettino
di storia patria.
Sosto ad auspicio e viatico del viaggio
nel primo pomeriggio
tra gli aromi e gli armadi
dei negozi fermi nel tempo
di generi coloniali,
dove le lenti di zucchero sono
multicolori mosaici orientali.
Poi ancora una volta riattraverso
i terreni e le case iacipì,
ex nuove vie intitolate
a meteorologi e botanici
di asfittica provincia:
là su bassi muretti si arrampicano
bambini piccolissimi
che suonano ai citofoni,
unici ammodernamenti possibili
di ingressi e giardini squallidi
dove esorbita la sassifraga
attorno a un abete
del Natale trascorso.
Se apro il barattolo della mia sete
traboccano per terra
le foglie del viale
di un anonimo recente ingrandimento
urbano senza storia
e quello stordimento dopo pranzo
che provavo, fatto
di tovaglie bianche,
di un cortile esangue
dove nell’assenza
delle ore meridiane
si chiudevano le persiane,
della cartolina
dal riflesso di vetrina
della credenza.
Nei fondi prosciugati
delle rare fontane
tra mosche, zanzare e fermenti,
nello scroscio di fontanelle lontane
sei giunta finalmente cara estate;
riproponi roventi agli abitanti
le cose dell’altro mondo:
un inferno in vacanza a cielo aperto,
un intrico di gambe, verdure,
orti innaffiati a sera
e l’orizzonte in posa controsole,
calmo nell’ora alta
tra la lunga bava verde scura
dei pioppi, là dove c’è il fiume.
Restituisci ai rari residenti
tutte le loro infanzie:
cavalcavia, giardini e montagnole,
figurine, birille e castagnole,
nascondersi, a rialzo,
a prendersi, lasagna,
battaglie e forti, giornalini e assalti.
E a me talvolta,
al fresco di cantina o di soffitta,
restituisci gli oggetti ritrovati,
le possibilità concesse
seppure per un attimo,
le alternative perse
nello scarico del tempo senza fondo,
come l’acqua sporca del bucato
di quando, ancora rasoterra,
inventariavo il mondo.
La storia con la esse minuscola
Castelli in aria
(Refrigerio alla calura n. 2)
Dall’ora mattinale in piena grazia,
tra ville appena alzate,
si srotola la lingua dolce del passato
e la favella mette in moto dell’ex vita.
Quella nostra giovane compagna
che passava col cane ogni mattina
potrebbe uscire adesso dal portone
proprio là dove si compravano i giornali.
Ma quel gruppo accanto al bar nel sessantotto
e quelle cose qualsiasi che pure
mi impressionavano per tutta la giornata
ora son polvere che stagna nel cervello.
Scende a giravolte il parco, rifrequentandolo,
in direzione dell’acqua, proprio come allora.
È l’ora ancora fresca
del mattino canicolare,
ma oltre la Palazzina
delle Belle Arti è già sera
e ancor più giù, verso il fondo,
al Castello Medioevale,
l’umidore diacciato delle frasche e del fiume
è come buia notte di spento ideale.
Guasti al treno
Refrigerio alla calura n. 3
Il treno è fermo: là in fondo
verso il fiume annaffiano
ancora i campi e gli zampilli
ormai per poco
son saturi del cielo serale.
Com’era bello nascere in gamba e forti
a godimento pieno della vita
e a maggiore edificazione
di se stessi e degli altri!
Allora sì che la morte colpirebbe
senza rimpianti ed al momento giusto.
Forse qualcuno esce così alla vita
ma la maggior parte
con miserevole impudicizia sciorina
la vasta gamma degli impedimenti.
Per cui sempre più spesso,
avanzando nel tempo, nel cuore ristagna
l’insensato progetto: “Se nasco un’altra volta!”
E non ci accorgiamo dicendo così
che questo è tutto ciò che ci rimane
dell’Al di là.
Epoché
Domenica d’agosto. Il treno ferma
per non so quale inciampo
tra l’espansione urbana anonima
di una lontana cittadina dove
avrei potuto non passare mai.
Stranamente
(per il giorno, per l’ora e per il luogo)
un omino lontano là cammina
con la sua ombra
lungo il muro moderno
di una fabbrica di poche fortune:
uno dei tanti
sulla terra nei secoli.
Viaggio in Italia
La piazza di Empoli
Ci sarò stato due volte in vita mia
tra un treno e l’altro e forse
non ci andarò mai più
nella piazza di Empoli
verminante nel meriggio di porte chiuse
e di lavori rinviati al dopopranzo.
Ci andai, ovviamente, per la Collegiata
e, senza pianta com’ero,
memorizzavo il percorso
per poter ritornare alla stazione.
Passavo per vie dove si alternava
al vecchio albergo glorioso di provincia
il negozio nuovo, sfacciatamente moderno
(come svelta si compirà
la corruzione della sua modernità).
La piazza si presentò deserta:
fontana gorgogliante,
aria vuota, azzittente.
Ma dentro all’aria vuota
procedevan le larve
del passato cotto e ricotto.
Vecch’Italia di burattini e di rendite,
portico di passeggi, cimitero
di pettegolezzi, quotidianità
risapute! Ma cantava davvero
fra le case la Collegiata di Empoli?
Cantava davvero come diceva
il famoso scrittore nell’inserto
del rotocalco oppure semplicemente
prendeva posto casa fra le case,
repertorio di vita, strumento quotidiano,
religione indispensabile tanto
quanto il mercato per condurre a termine
giorno per giorno, come si deve, la vita?
Cantava? Non so. Tra la pollina e il guazzo
dei piccioni presso alla fontana
bianca e verde cupo mi apparve
come candore che produca
marcia speranza, inerte e indifferente
come un negozio di commestibili.
Tuttavia mi esaltavo sforzandomi,
forse credevo ancora un poco.
Nella piazza di Empoli quell’anno
(credo proprio che non ci passerò mai più)
tenne ancora l’anima,
si articolarono i nessi degli eventi
(prima dello sfascio),
azzardai, a congedo, l’equilibrio del mondo.
Poi tornando al treno, vidi esseri umani,
animali miei simili compagni
in queste vicende di questi
anni, di questa vita
(ma da me distanti come i cani o i gatti)
che mai più avrei rivisto
nella mia esistenza terrena.
Poi ad Ancona
Dopo il mare di Jung l’apparizione
della piccola acropoli del duomo.
E poi i buoni, vecchi morti medievali
ridenti tra le arcate di facciata,
una nuvola in cielo sciorinata
che sovrastava a luglio
quel mio interno indefinibile subbuglio.
Poi dopo in cima a San Francesco delle Scale
stingeva il bruto senso del reale:
sembrava un gioco potere restaurare
della vita tutto l’essenziale.
Di poi nella sera adriatica radente,
in quella lunga piazza ascendente,
mangiando mi pensavo allo scoperto
nel mezzo del cammino della vita
come dentro ad un guado chi è incerto
tra il tornare indietro e la sortita.
Ma poi nel buio a festa del passeggio,
uscendo all’aria aperta mi accorgevo
che la vita poteva essere ancora buona,
che c’era del futuro in quel corso d’Ancona.
Profondo centro
Estate al cimitero di Spoleto:
non è un bel posto, ma tanto
per paragonare
la vita personale
con evi e medioevi,
per azzardare
se sarà corta o lunga la sequela
delle vacanze estive
che tendono asintoticamente
verso il nulla.
Epilogo a Siena
Accaldati si giunge ai giardinetti
di Santa Maria dei Servi.
Qui Siena, oltre il muro, è una scommessa.
Al cenno acuto di un odore
cimiteriale di sempreverde
eccoci ossessionati dal pensiero
di tornare ad essere
ossa, frontoni, cippi,
forse nemmeno quello.
Ecco perché la gente
fa le vacanze in spiaggia.
Non qui.
Anche le cose hanno un’anima
Stato di grazia intorno al mezzogiorno
quella volta a Bologna.
Dal San Francesco aperto,
col portale maggiore spalancato,
in diretta connessione
con l’ombra del sagrato,
la splendida ancona marmorea
di Pietro Paolo dalle Masegne
prendeva aria, faceva le sue ferie.
Calendarietto
I
Tutto un biancore
la strada, il cielo, i campi.
I gelsi neri
II
Gocciola pioggia
la foglia d’aspidistra.
È Carnevale!
III
Uova e lattuga
posate sul lavello:
lavacro a marzo
IV
Odor di fritto
per l’aria più leggera.
Fiera d’Aprile
V
Come la neve
il cotone dei pioppi.
Che sfrontatezza!
VI
Campi di grano
dove adesso è città.
I primi giochi!
VII
Tace un attimo
la cicala del viale.
Solo un attimo
VIII
Attacca il tarlo
nella casa dei vecchi.
Notte d’estate!
IX
Memoria antica,
in carta da zucchero
luna a settembre!
X
Più intenso a sera
l’odor d’uva fragola
dai pergolati
XI
Caduti i frutti
rimane il pettirosso.
Ad un altr’anno!
XII
Freddo guanciale
la notte dicembrina.
Santa Lucia!