Ariette 19.0: A Christmas Carol

di Maurizio Castellaro, 23 dicembre 2023

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

C’era una volta un insegnante, ormai vicino alla pensione. Questo insegnante era molto triste, perché non gli piaceva come la scuola stava cambiando negli ultimi anni.

I ragazzi non leggevano più libri, avevano difficoltà a concentrarsi, faticavano nell’amicizia e nell’amore, e da grandi volevano tutti diventare influencers.

Anche gli insegnanti non erano più quelli di quando aveva cominciato. Quando si incontravano nei corridoi nessuno più parlava di cultura, ma solo di programmi da rispettare, moduli da compilare, formazione digitale da inseguire, famiglie da cui difendersi.

Per questo l’insegnante si sentiva sempre più solo e inutile.

L’ultima ora di scuola prima delle vacanze di Natale l’insegnante propose agli alunni di fare un disegno che li rappresentasse. Thomas consegnò il suo disegno per ultimo, ed era più o meno così.

Ariette 19.0 A Christmas Carol

E questa è la spiegazione che Thomas gli dette del suo lavoro. “Vede Prof, mi sono disegnato come un pallone da calcio, perché io amo il calcio, e da grande vorrei fare il calciatore, e se non ci riesco vorrei fare il saldatore. Su questa palla ci ho fatto dei cerotti, perché nella mia vita ci sono delle ferite, ma stanno guarendo. Poi vede, questa palla è stata spezzata a metà, perché mio padre è alcolizzato, e tante volte la sera non riesce neppure a farmi da mangiare e va direttamente a dormire. E poi è spezzata anche perché mia mamma è andata via tanti anni fa quando ero piccolo, è tornata in Romania, e la sento solo per telefono. Però Prof, vede queste corde che tengono unita la palla? Una è mio fratello maggiore che con mia cognata mi aiuterà a trovare un lavoro, l’altra corda è mia sorella che tante notti mi ospita in casa da lei a dormire. Questa corda invece è la scuola, perché anche voi prof mi aiutate a crescere bene”.

Suonò la campanella e i ragazzi uscirono di corsa, finalmente in vacanza.

L’insegnante rimase con il foglio di Thomas in mano, a riflettere.

Conosceva bene la storia del ragazzo, ma non aveva mai pensato a lui come ad una palla da calcio sorridente, nonostante tutto.

E sorrise anche lui.

L’inverno del patriarca

di Carlo Prosperi, 25 novembre 2023

A quanti imputano alla cultura del patriarcato o al patriarcato stesso l’incremento (che poi, stando ai numeri, tale non è) dei femminicidi, rispondo che ciò che sta accadendo è invece dovuto al venir meno del patriarcato, al parricidio metaforico perpetrato dalla cultura sessantottina, la quale, con la scusa di combattere ed abbattere l’autoritarismo, ha cancellato ogni vestigio di autorità. In fondo, è quanto conferma Liliana Segre nel libro – scritto a quattro mani con l’arcivescovo di Milano Mario Delpini – La memoria che educa al bene (Edd. San Paolo), allorché sospetta che “oggi ai ragazzi tutto sia permesso, tutto sia lecito”: «L’educatore di una volta, soprattutto il genitore [ecco la figura paterna], usava dare anche qualche sculaccione e se ne prendeva la responsabilità: comunicava anche così, a malincuore, l’importanza di certe scelte e la gravità di certi errori. Oggi c’è forse un’eccessiva tendenza a proteggere i piccoli da ogni prova e da ogni tensione, mentre io, quando ero severa, non mi sentivo in colpa, ma ero convinta di servire, in quei momenti, un bene più grande».

C’è la tendenza, da parte dei genitori, a difendere il bullismo dei loro figli: «dopo che questi hanno odiato il bullizzato, l’hanno offeso e umiliato, i suoi (sic) li considerano ancora bravi e magari attaccano la scuola che non li sa “tenere”, “sorvegliare” e correggere [mi viene in mente, al riguardo, l’irrisione televisiva della Littizzetto a “Che tempo che fa” ai danni della docente impallinata]. In questo modo, contro tutte le migliori intenzioni, diventa una scuola dell’odio».

Lassismo, permissivismo, licenza: ma dove sono gli educatori, i κατεχοντες di turno? Manca la famiglia e manca la scuola, ma questa non può fare a meno della collaborazione di quella, di una comunanza d’intenti. La scuola educa soprattutto insegnando, non attraverso prediche inconcludenti, non attraverso competenze che non le appartengono o riducono lo spazio riservato alle discipline specifiche del tipo di scuola. Non con chiacchiere e indottrinamenti ideologici. L’educazione civica, i docenti dovrebbero insegnarla con l’esempio, con la coerenza dei loro comportamenti, richiamando di continuo al senso di responsabilità (che è sì personale ma ha ricadute sociali: sulla classe e sulla comunità), al rispetto reciproco, alla solidarietà, senza inutili nozionismi, senza discorsi astratti, senza raccomandarsi a buoni sentimenti verbalmente evocati. Insegnare è un’arte, un dialogo aperto e costante con l’individuo e con la classe: richiede sensibilità, συμπαθεια, comprensione, capacità di rapportarsi alle singole personalità senza favoritismi, moderando i superbi e gli irruenti, incoraggiando per contro i dimessi e gli introversi. Unicuique suum. Esprit de finesse. Senso della misura. Ma in un mondo che celebra solo e ad oltranza i diritti, che ai diritti equipara i desideri, che esalta ogni sfrenatezza (eh già, proibito proibire!) e attraverso media e socials propaga e propaganda violenza, di linguaggio e di azione, pare impresa francamente disperata non dico invertire, ma anche correggere la rotta. Richiamare ai doveri: che dovrebbe essere il primo compito dell’educazione.

In un mondo che ha sempre una parola di compassione e di comprensione per Caino, ma di Abele si dimentica dopo brevissima infervorazione, che indulge verso chiunque infrange leggi, norme, regolamenti, che istiga alla disubbidienza, che tollera (quando non incoraggia) tutto ciò che è trasgressivo, sembra ormai una mission impossible. Eppure il segreto sta nella lezione dei classici, degli auctores, dei padri. Dei greci soprattutto, che con la loro μετριοτης e la loro denuncia di ogni ὑβρις ci hanno insegnato a diffidare di ogni sogno o pretesa di onnipotenza: il senso del limite.

Anni perduti – e da dimenticare

(appunti sparsi sullo stato mio e della nazione)

di Paolo Repetto, 24 dicembre 2022

Nel solco di una tradizione recentissima, inaugurata su questo sito solo dodici mesi orsono con lo scritto sui Buoni propositi, propongo un sintetico resoconto dell’anno che sta mestamente per chiudersi. È un bilancio da economia domestica, nel quale si mescolano le voci più disparate: ma proprio per questo credo corrisponda nella maniera più veritiera a ciò che tutti abbiamo percepito di un anno decisamente infausto.
In questa prima parte ho inserito senza aggiornarle alcune riflessioni maturate nel corso dell’estate: non vanno oltre il livello di una bozza, ma mi sembra rimangano tuttora valide. A breve saranno postate quelle più recenti. Mi propongo di sviluppare meglio in futuro alcuni degli argomenti toccati, ma prima di tutto spero di muovere anche altri ad occuparsene. A quanto pare il mio ottimismo resiste, è a prova di sanità pubblica e di imbecillità private, di crisi energetiche e di smottamenti a destra. Per questo non ho ritegno a fare (e a farmi) ancora gli auguri.

Anni perduti 01

Se esiste una mente universale,
deve necessariamente essere sana?

La Débâcle

Non piove praticamente da nove mesi. Fiumi in secca, laghi che scompaiono, ghiacciai che si sciolgono o si disintegrano a ritmi sempre più accelerati. Mentre i campi e le risaie sono bruciati dall’arsura, le sorgenti e i rubinetti cominciano a tossire. Di quando in quando, con frequenza incalzante, arriva una tromba d’aria a movimentare un po’ il paesaggio. Da qualche giorno poi hanno ripreso a crepitare anche gli incendi. La peggiore siccità dell’ultimo secolo, si dice, ma solo perché non sono possibili raffronti con quelli precedenti. Saranno anche fenomeni in larga parte indipendenti dalle attività umane, come testimonia la ciclicità delle glaciazioni, ma non si può negare che l’umanità ci stia mettendo molto del suo, con comportamenti che moltiplicano gli effetti degli sconquassi naturali.

Anni perduti 02

In compenso sono ricomparsi il covid, che s’inventa sempre nuove varianti, e l’inflazione, invocata fino a ieri come la pioggia, ma subito sfuggita di mano e schizzata a due cifre: e soprattutto la violenza, tanto quella pubblica come quella privata. Qui la natura non c’entra, facciamo tutto da soli.

La violenza internazionale è riesplosa improvvisa persino nel vecchio continente. Anche se si mantiene stabilmente “a bassa intensità”, da febbraio il conflitto tra la Russia e l’Ucraina chiede il suo quotidiano tributo di morti (di quelli russi non si sa), desertifica intere regioni e le spoglia delle loro strutture produttive, impedendo tra l’altro l’esportazione di quel grano dal quale dipende la sopravvivenza di metà della popolazione africana. Di conseguenza questa a breve si sposterà con un esodo ben più che biblico verso le coste europee. Le sanzioni inflitte alla Russia dall’occidente si sono rivelate un boomerang, stanno logorando soprattutto le economie europee e hanno spinto i Russi nelle braccia sempre tese (a prendere) della Cina.

Anni perduti 03

In questo allegro panorama le “democrazie” occidentali sono guidate da governi deboli e da classi politiche decisamente incapaci. La nostra è neppure più guidata: siamo riusciti a mandare a casa anche il meno peggio, e affideremo tra un paio di mesi il nostro destino al “paese reale”.

In situazioni come queste non esiste una terminologia capace di rendere appieno l’entità di quanto sta accadendo. Almeno nella lingua italiana, che in linea con il nostro modo di pensare bada più a lasciare spazio alle sfumature sottili di significato, consentendoci di giocare con interpretazioni ambigue o riduttive. Il francese, invece, dispone quasi sempre della parola giusta, capace di riassumere tutti i sinonimi e di andare oltre. Lo abbiamo già visto in un’altra occasione, con bêtise. Nel caso attuale la parola appropriata e definitiva mi sembra débâcle, che sta per sconfitta, disfatta, batosta, resa umiliante, disastro, sfacelo, fallimento, ecc., e sottintende un ampio margine di responsabilità umana.

Il riassunto che ho fatto è ovviamente tanto generico da sembrare banalmente superfluo: il disagio che tutti quanti stiamo vivendo è evidente, anche se si manifesta nei modi più disparati. Ogni tanto però fa bene anche sintetizzare la situazione in un quadro generale, perché di norma tendiamo a preoccuparci dei singoli problemi uno alla volta: il che è normale e comprensibile, ma finisce poi per distrarci dal guardare in faccia l’aspetto più angosciante e immediato della tragedia, che è proprio lo stato del “paese reale”.

(luglio 2022)

 

Un paese di farlocchi

Giudicato in base all’immagine che ci torna dai media, il paese reale è una jungla (secondo la stampa) o un serraglio di deficienti (secondo la televisione). Sappiamo però che i media non raccontano la verità, e allora proviamo a fidarci dei nostri occhi, del nostro intuito. Ci diciamo che questa è una falsa immagine, che in fondo a guardarci attorno siamo circondati da un sacco di gente normale, di persone che fanno il proprio lavoro, che non uccidono la moglie o i vicini di casa, non frequentano i siti pedofili e non incassano pensioni per finte invalidità.

Ed è anche vero: ma nemmeno questa è un’immagine oggettiva del paese reale. Certo, se evitiamo di frequentare le discoteche o i parchi cittadini, di uscire a fare quattro passi la sera, di andare allo stadio per partite o mega-concerti, di partecipare alle adunate politiche, di farci candidare alle amministrative o semplicemente alla rappresentanza condominiale, allora sì, abbiamo l’impressione che tutto sommato le cose funzionino. Ma se soltanto usciamo di un passo dal perimetro di sicurezza che ci siamo ritagliati, e che si riduce ogni giorno di più, allora il paese reale lo incontriamo davvero.

C’è una quotidianità che non possiamo ignorare, a dispetto dell’ottimismo della volontà cui facciamo sempre meno convintamente ricorso. Parlo delle piccole irritazioni dalle quali siamo continuamente assaliti, dal momento in cui scendiamo a buttare la spazzatura a quello in cui cerchiamo di prendere sonno a dispetto di sagre, di sfide motoristiche notturne o di cani che latrano tutta la notte alla luna, anche quando la luna non c’è. Parlo della sensazione che nulla sia più sotto controllo, che se ci è andata bene oggi già domani potremo imbatterci in un pazzo o in un cinghiale in libertà, o trovarci coinvolti in un crack finanziario di cui nessuno alla fine sarà tenuto responsabile e tutti (o quasi) pagheranno le conseguenze. Non è questione di catastrofismo: è evidente come su questa percezione pesi anche il battage dei media, ma lo è altrettanto il fatto che lo smottamento sociale procede palpabile e accelerato. Questo è il “paese reale”.

Del quale, naturalmente, facciamo parte anche noi. Ne fanno parte i piccolissimi e costanti cedimenti alla non legalità o alla non correttezza cui siamo costretti per sopravvivere (anche perché quali siano la legalità e la correttezza non è mai ben chiaro), che riusciamo a giustificare con sempre meno rimorsi e ai quali ci stiamo velocemente assuefacendo.

Da sociale dunque il problema diventa in prima battuta individuale. Lo smottamento coinvolge anche noi, già per il solo fatto, quando non troviamo una risposta credibile al “cosa posso farci io, concretamente” (di fronte all’inquinamento, ai cambiamenti climatici, al degrado sociale, culturale, scolastico, linguistico, ecc…) di assistervi inerti. E peggio ancora va quando la risposta la diamo abbracciando posizioni che non tardano a diventare ideologiche, quando chiamiamo a responsabili tutti gli altri, quelli che si ostinano a non capire, dall’alto di una nostra presunta (e presuntuosa) esemplarità.

Anni perduti 04

Qualche giorno fa (per la precisione il 19 giugno) Luca Mercalli, meteorologo, climatologo e divulgatore scientifico superdecorato e onnipresente in tivù, ha tenuto a Lerma una “Chiacchierata ecologica”, per spiegare al popolo quanto gravi siano i problemi ambientali, quanto siamo in ritardo per risolverli e quali piccoli accorgimenti comportamentali ciascuno di noi può adottare da subito per dare un suo contributo. Tutte cose molto giuste e vere, supportate da fior di dati sull’oggi e di proiezioni sul domani, in una serata talmente afosa da far percepire sulla loro pelle agli astanti la portata dei cambiamenti climatici. Tanto che ad un certo punto qualcuno ha pensato di procurare a un Mercalli grondante sudore un paio di bottigliette di acqua minerale. Lo avesse mai fatto! Le bottigliette (di plastica) sono state sgarbatamente respinte dall’oratore, in coerenza perfetta quanto al merito con ciò che andava predicando sull’inquinamento, ma molto meno, quanto ai modi, con quel che pretendeva di insegnare sui comportamenti. Dubito che la chiacchierata abbia segnato qualche punto a favore della causa ambientalista. Il giorno successivo nessuno probabilmente ricordava qualcosa dell’argomento, ma tutti avevano ben presente la malagrazia dell’illustre ospite. Mi sembra un esempio palese di come ogni integralismo, anche quello applicato a giuste cause, finisca per perdere di vista quello che è il nocciolo di qualsivoglia problema sociale, ovvero la mancanza di buona educazione.

(luglio 2022)

Anni perduti 05a

Un fil di fumo

Avrei svariati motivi per sentirmi a terra. Alcuni sono indubbiamente seri, e richiedono continui e sempre più faticosi colpi di reni per rialzarsi. Altri, non meno seri, sono comuni a tutti, riguardano la situazione politica, e più ancora quella ambientale, ma sembrano ormai sfuggire ad ogni nostra possibilità di controllo e spingono alla rassegnazione. Altri ancora, invece, possono apparire decisamente futili, sono sindromi del tutto personali, ma per accumulo provocano alla lunga un’insostenibile pesantezza.

Io patisco soprattutto questi ultimi, nel senso che ai primi bene o male reagisco, mentre di fronte ai cumuli di cretinate mi sento impotente. Soffro di una sensibilità addirittura morbosa per la stupidaggine, segnatamente nei confronti di quella che viaggia col passaporto “culturale”. Mi arrabbio ad esempio se sento su RaiTre che vogliono consacrare a museo un appartamento abitato da Pasolini per qualche mese, interrompo immediatamente la lettura di un saggio filosofico sull’avventura quando vi trovo scritto che nel 1794 le truppe napoleoniche (?) marciavano sulla superficie ghiacciata del Reno, spengo il televisore se mi propone un dibattito sul sacro cuore di Maradona o un concerto polemico del maestro Muti, diserto le mostre sui cugini o sui vicini di casa degli impressionisti, ma anche quelle sugli impressionisti stessi, e le conferenze degli storici a gettone. Va da sé poi che evito come la peste i film che “devi” vedere, i libri che “devi” leggere, i musicisti che “devi” ascoltare per non sentirti fuori sintonia. Intendiamoci, ciascuno è libero vedere e leggere e ascoltare ciò che gli pare, purché non pretenda poi di dettare più o meno larvatamente un canone.

Un’attitudine di questo tipo crea naturalmente dei problemi. A volte mi sento sotto assedio, soprattutto quando vedo cannibalizzati e banalizzati a merce di consumo interessi, argomenti, personaggi che coltivo da sempre con devozione quasi religiosa. Allora trovo conforto solo nel mio frutteto, e più ancora nella mia biblioteca, che un filtro sessantennale ha reso affidabile, ma che mi spinge inesorabilmente a guardare indietro. È la depressione post-postmoderna. O forse è solo lo scotto da pagare all’invecchiamento galoppante, uno scotto nel mio caso particolarmente pesante perché si somma ad una disposizione congenita. Insomma, è dura.

Non voglio però ricominciare con le geremiadi: al contrario, voglio testimoniare che è possibile, sia pure per qualche attimo, uscire dal rigor mortis della post-modernità e da quello dell’ineluttabile consapevolezza della propria irrilevanza. Che quando sembra nulla valga più la pena di essere visto o ascoltato, tentato o sperato, basta davvero poco a squarciare la bruma grigia che avvolge il mondo.

Anni perduti 05

È accaduto la primavera scorsa. Incontro per una conversazione extracurricolare un paio di classi terminali dell’ultimo liceo che ho diretto, su sollecitazione di un docente col quale si è creata una buona sintonia. Logorroico e semirimbambito quale sono, la tiro in lungo per quasi due ore, ma constato con crescente meraviglia che non uno dei cinquanta ragazzi presenti si alza e si assenta per urgenze: il che, stante la debolezza ritentiva dei nostri giovani, è quasi un miracolo. Non solo: dal momento che amo conversare deambulando, posso realizzare che nessuno si trastulla con lo smartphone, risponde a messaggi o si addormenta con gli occhi aperti (se accadesse, non la tirerei così in lungo). I ragazzi mi seguono con lo sguardo, avanti e indietro, come in una partita a tennis al rallentatore, e non in ossequio ad ordini di scuderia, né per una particolare reverenza dovuta a un dirigente: quando sono entrati in quel Liceo me n’ero già andato da un pezzo, e non mi hanno mai visto, e comunque quella forma di rispetto per i ruoli è venuta meno da un bel pezzo. Forse è l’argomento a intrigarli, perché la conversazione viaggia un po’ fuori degli schemi, ma alla fin fine non si parla né di calcio né di Greta Thunberg, della crisi ambientale o dei problemi adolescenziali: si parla di filosofia, o meglio, delle possibili e conflittuali visioni del mondo che stanno dietro ogni nostra scelta o comportamento. Non devo interrompermi nemmeno per un secondo, malgrado in queste occasioni sia molto esigente rispetto all’atteggiamento dell’uditorio: e magari m’illudo, ma ho l’impressione che quei ragazzi capiscano tutto ciò di cui sto parlando, anche se molte delle cose tirate in ballo non sono loro affatto consuete. Insomma, ne esco stupito, mi prende persino un po’ di nostalgia dei bei tempi dell’insegnamento, cosa che non mi capitava più da quel dì.

Ora, il passaggio logico successivo, quello che ci si aspetta (e arriva inesorabilmente) nei talk show, dovrebbe essere un proclama di assoluta fiducia nei giovani e di speranza che saranno loro a salvare il mondo. Invece no. Non nutro alcuna fiducia speciale nei giovani, non ne ho motivo, ma allo stesso modo in cui non la nutro nei biondi o nei mancini o nelle persone che portano gli occhiali, o in qualsiasi altra categoria morfologica o anagrafica. I giovani oltretutto, purtroppo per loro, saranno tali solo per breve tempo. Non so se salveranno il mondo o lo affosseranno definitivamente, so soltanto che lo abiteranno nei prossimi sessanta o settant’anni e temo che non sarà uno spasso; senz’altro sarà meno facile di quanto lo è stato per noi. Credo però nelle persone educate e responsabili, e quindi intelligenti. Il passaggio successivo è dunque che mi sono stupito di trovarmi di fronte, raccolte in un’unica sala e nello stesso lasso di tempo, tante persone con queste ultime caratteristiche. Non c’ero più abituato.

Ho anche provato ad immaginare la stessa situazione retrodatandola di sessant’anni e spostandomi in mezzo all’uditorio. Che tipo di attenzione avremmo prestato io e i miei compagni? Senz’altro silenziosa, per una coazione tutt’altro che tenera alla disciplina (l’aver lasciato cadere una penna dal banco mi fece sbattere una volta fuori dalla classe, dopo una solenne lavata di capo), e magari anche un’attenzione genuinamente interessata, se il relatore e l’argomento trattato lo avessero meritato: ma non posso dimenticare che io stesso, per tanti aspetti allievo modello, seguivo le spiegazioni dei miei insegnanti con un doppio taccuino, uno per gli appunti e uno per le mie creazioni artistiche, sul quale annotavo però anche il ricorrere di certi intercalari, per determinarne in maniera quasi scientifica la frequenza e arrivare ad anticiparli; oppure sottolineavo l’uso di termini che potevano essere piegati ad un doppio senso (era il massimo della licenziosità che all’epoca potevamo permetterci). Altri si tenevano svegli con distrazioni non molto diverse. Insomma, dietro la facciata, come nei western all’italiana, spesso c’erano solo dei pali di sostegno e dei tiranti.

Per questo, se provo a mettermi nei panni dei miei insegnanti, credo che avrei nutrito forti dubbi di poter trarre qualcosa da quegli adolescenti pieni di brufoli e pateticamente presuntuosi. E invece il qualcosa è venuto fuori: non in termini di “successo”, che non considero un indicatore di rilievo, e del quale non ho mai tenuto un registro, ma senz’altro in termini di qualità umana. Non c’è un mio ex-compagno che non riveda o che non rivedrei con piacere.

La stessa cosa potrebbe senz’altro verificarsi domani per i ragazzi di quelle due classi. Magari a vederli poi in giro, l’uno accanto all’altro ma ciascuno immerso nei suoi social, siamo portati a scrollare il capo e a chiederci cosa ne sarà tra vent’anni, e difficilmente ci diamo risposte positive: ma questo è accaduto dai tempi di Adamo nei confronti di ogni nuova generazione, anche se la nostra attuale perplessità parrebbe più che giustificata dalla accelerazione impressa alle trasformazioni dei costumi e dei rapporti. Forse però dovremmo avere maggiore fiducia nella capacità umana di fare fronte a cambiamenti anche traumatici, in quella che oggi con un termine abusatissimo negli pseudo dibattiti televisivi e quindi sempre più vago viene definita “resilienza” (in questo caso assunta nel suo significato originario). Se in una qualsiasi occasione questi ragazzi hanno dimostrato collettivamente intelligenza e responsabilità, significa che possono essere intelligenti e responsabili. Basta dar loro l’opportunità di esserlo. Che siano poi anche giovani è un valore aggiunto, una condizione né necessaria né sufficiente.

Dove voglio arrivare, con tutto questo giro? Semplicemente al fatto che di norma prestiamo attenzione solo a quello che non va, che non funziona, che ci disturba, mentre ignoriamo piuttosto ciò che proprio perché funziona ci sembra scontato. Ecco, io credo che il gesto veramente rivoluzionario, l’unico ancora possibile, sia quello di non dare nulla per scontato, e meno che mai le manifestazioni di una intelligente normalità. Queste andrebbero al contrario sottolineate, in maniera sobria ed efficace, puntando sull’effetto emulativo che può avere la pura e semplice ripetizione. Non si tratta insomma di riesumare il premio “Livio Tempesta”, quello che si assegnava ai miei tempi ai bimbi buoni che si prendevano cura dei loro compagni sfortunati o dei nonni, o percorrevano il mattino chilometri di sentieri con l’amico disabile a spalla per arrivare a scuola (anche se rispetto a quelli che quotidianamente si distribuiscono per le motivazioni più insensate ci starebbe tutto): il sentir ribadire ogni mattina che un comportamento intelligente paga, in termini di risultati, ma prima ancora di amicizia e di rispetto di sé, potrebbe fornire qualche rassicurazione ai molti che sarebbero portati a tenerlo, ma sono resi dubbiosi sulla propria normalità dall’esemplificazione malefica proposta in maniera martellante dai media.

Sto cercando di dire, anche se temo di non essere stato abbastanza chiaro, che a dispetto di tutto abbiamo ancora la possibilità di fare qualcosa. Come, lo vedremo la prossima puntata (e stavolta la prossima puntata ci sarà davvero).

(agosto 2022)

Anni perduti 06

Ariette 12.0

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

di Maurizio Castellaro, 1 novembre 2022

Attorno al fuoco

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Ma lo troviamo o no il coraggio di dire che ne abbiamo piene le tasche di questa digitalizzazione che invade tutti gli aspetti della nostra vita? Comunicazione, lavoro, cultura, sesso, gioco. Si può smaterializzare tutto e condividere tutto con un miliardo di solitari fruitori degli stessi contenuti. Un grande risparmio, un grande guadagno. E se tutto questo alla fine non funzionasse davvero? Questo scimmiottamento del reale, questa moltiplicazione di mondi possibili, questa creazione di reti sempre più lunghe e allentate è davvero efficace? Quante amicizie, quanti amori, quante organizzazioni non hanno retto alla pandemia anche a causa dei limiti comunicativi delle chat e delle call? I danni psicologici procurati dalla DAD sui bambini si faranno sentire ancora a lungo (eppure in quei mesi sembrava che si andasse a scuola solo per acquisire contenuti, e non anche per fare preziosa esperienza di comunità). Le idee migliori vengono sempre guardandosi negli occhi, magari davanti ad un bicchiere di vino. La filosofia di Platone è dialogo tra amici in convito. Il Rinascimento a Firenze lo hanno fatto quattro geni che tutte le mattine si incontravano andando a corte o a bottega. Futuristi, Impressionisti, Dadaisti, scrivevano e litigavano nello stesso caffè. Anche il PC è nato da amici che sperimentavano in un garage. Senza radicamento non c’è profondità. Senza radicamento le lunghe reti smaterializzate non trovano alimento nella realtà e rischiano di creare mostri. Forse è il momento di superare questa sbornia di 4.0 ecc. e tornare a mettere al centro i bisogni delle persone reali. Diversamente rischiamo di diventare pile di alimentazione del mondo delle macchine, che sognano Matrix illusorie, oppure di tornare a scaldarci (analogicamente) attorno al fuoco dei sopravvissuti della guerra che sarà scatenata da potenti che non sapevano più parlarsi in presenza per risolvere i problemi.

Ariette 12 3

Assente ingiustificata

di Paolo Repetto, 16 settembre 2022

Non sono un appassionato ermeneuta di programmi elettorali. Voto da quasi sessant’anni e non ne avevo mai letto uno. Questa volta l’ho fatto. Si potrebbe pensare ad un tardivo soprassalto di responsabilizzazione civica, ma in realtà sono stato mosso da semplice curiosità: volevo verificare quanto spazio vi fosse riservato ai problemi della scuola. La mia è senz’altro una deformazione professionale: capisco che con questi chiari di luna, tra guerre, emergenze ambientali, pandemie, recessioni economiche, il degrado della scuola possa apparire ai più un problema secondario, ma per fortuna non sono l’unico a pensarla diversamente. Lo spunto per queste righe è arrivato infatti da alcune osservazioni di Nico Parodi, che ha sempre operato in tutt’altro settore e della mia deformazione non soffre.

Giorni fa Nico mi raccontava lo sconcerto di una sua nipote per il fatto che nei testi scolatici dei figli (entrambi esordienti in nuovi cicli di studi) le immagini prevalgono sulla parte scritta. Alla fine ha commentato: «Ormai si studia sulle didascalie. La conoscenza che si acquisisce è solo un cumulo di frammenti estremamente volatili, che non attivano una linea di pensiero e non abituano ai passaggi logici. Anche di questi tempi il primo problema dovrebbe essere “il modo” in cui trasmettiamo la cultura, e invece pare che di questo freghi niente a nessuno». Ha ragione, e lo dimostra l’assenza totale di questo tema dallo sciagurato “dibattito” elettorale in corso. Il primo vero problema da affrontare, quello che dovrebbe aprire ogni programma, riguarda il ruolo e la “qualità” della scuola, il tipo di cultura che trasmettiamo, perché da quest’ultima dipende poi la capacità di comprendere e affrontare qualsiasi situazione: ma nessuno se lo pone.

Non è una novità. L’ultima riforma scolastica che esplicitava una “idea” del ruolo della cultura, e di conseguenza delle finalità della scuola, risale giusto a sessant’anni fa. Fu un mezzo disastro, perché quell’idea era equivoca, si era in pieno boom economico e la scuola veniva piegata a rispondere pedissequamente alle esigenze della “crescita”, dietro la facciata della democratizzazione e della promozione sociale; ma almeno testimoniava una consapevolezza del mutare dei tempi e una sia pure confusa volontà di affrontare il problema. I continui aggiustamenti venuti dopo non hanno fatto che accelerare la deriva: si sono persi completamente di vista la realtà scolastica e lo spirito che dovrebbe informarla.

Mi importava però capire se di quella consapevolezza rimane qualche traccia negli odierni programmi elettorali. Li ho dunque sfogliati e confrontati, limitandomi ovviamente a quelli dei partiti o dei raggruppamenti percentualmente più significativi, almeno a dar retta ai sondaggi. Ho trovato quello che era prevedibile, ovvero il nulla, ma cucinato in salse diverse. Ne do schematicamente conto qui di seguito, a beneficio di altri improbabili pignoleschi esegeti della letteratura propagandistica. Potranno tranquillamente risparmiarsi la fatica e la noia.

Nota tecnica. Nella disamina procedo in senso orario, a partire dalla estrema sinistra, come da rappresentazione classica dei posizionamenti parlamentari. La collocazione sui lati o al centro non è esattamente quella rivendicata dai diversi schieramenti, ma quella che io percepisco.

Alleanza Verdi-Sinistra. Il documento consta di 38 pagine. Si apre con un’ampia dichiarazione d’intenti, poi passa alla “politica verde” (si a rinnovabili, no a nucleare e trivelle; incentivi per la coltivazione della canapa, ecc…) ai diritti civili (cittadinanza femminile), al fisco, alla biodiversità, alla protezione degli animali (riduzione dell’aliquota IVA su cibo per animali e prestazioni veterinarie, oggi soggetti a tassazione come “beni di lusso”), alle migrazioni e all’accoglienza. Metà del testo è dedicata alle recriminazioni rispetto alle politiche dei famigerati governi di Draghi e di Renzi. Curiosamente non viene mai citato il doppio mandato di Conte.

La scuola arriva solo a pagina 22, e occupa tre pagine. Si parte bene: “Occorre ribaltare la funzione prevalentemente produttivistica del sapere, nel linguaggio come nella sostanza; una logica aziendalista nella gestione, una quantificazione esecutiva nelle metodologie, un prevalente economicismo nelle finalizzazioni”. Ma poi non viene chiarito in che direzione dovrebbe andare il ribaltamento, se non affermando che “La formazione e la ricerca, la loro libertà, la qualità e le finalità che le orientano sono una grande questione democratica. Sono, anzi, componente essenziale delle democrazie”. Infatti. Ma allora occorre spiegare a cosa si sta pensando quando si scrive che “È necessario far sì che la scuola torni a essere un vettore di mobilità sociale e non che certifichi, cristallizzi o addirittura moltiplichi le disuguaglianze in essere”. Quello di “mobilità sociale” è un concetto che si presta a interpretazioni ambigue: ciò che qui si intende è chiaro, ma rischia di degradare la scuola a veicolo per il successo. Se questo è il tipo di riscatto inteso dalla sinistra-sinistra (odio questa auto-rappresentazione presuntuosa, mi ricorda l’uso di sapiens sapiens per indicare un livello più alto dell’evoluzione), temo che abbiamo sempre parlato lingue diverse.

Non va meglio quando si passa dai propositi alle proposte. La “riduzione a un massimo di 15 alunni per classe e il recupero di spazi pubblici per le nuove aule” sono più che condivisibili, così come “l’estensione del tempo scuola (tempo pieno e tempo prolungato, a seconda dei diversi ordini di scuola) in tutte le scuole del territorio nazionale”. Tutte bellissime cose. Non fosse che per applicarle sarebbe necessario disporre di un organico ad occhio e croce almeno doppio rispetto a quello attuale, e il problema non si risolverebbe “assumendo un numero molto più ampio di docenti a tempo indeterminato,” e meno che mai “stabilizzando coloro che insegnano precariamente da più tempo”. L’uno e l’altro provvedimento inciderebbero solo in senso quantitativo (e comunque, quanti insegnanti si potrebbero assumere, se già oggi si fatica a reperirli anche andando a raschiare il fondo delle graduatorie?), mentre il problema è di ordine qualitativo. Le assunzioni indiscriminate di docenti che “insegnavano precariamente da più tempo” sono già state fatte, anche recentemente, col governo Renzi: il risultato è stata l’immissione in ruolo di un sacco di gente che vantava requisiti di anzianità anziché di competenza. La distorsione ottica della sinistra riemerge sempre: la “mission” della scuola non è quella di creare posti di lavoro, ma di educare persone e cittadini responsabili.

Assenze 02a

Insieme per un’Italia democratica e progressista. (Ma “insieme” a chi?) Il programma del PD occupa 35 pagine fitte fitte, suddivise in quarantaquattro schede tematiche. Undici di queste pagine sono dedicate a un preambolo e a una “Cornice” che incorniciano davvero di tutto, dall’Europa alle amministrazioni comunali. Il tono è decisamente volitivo (Vogliamo proteggere, vogliamo riaffermare, vogliamo approvare, vogliamo impedire, ecc). Quando è assertivo non si scosta dalle formule rituali (Due devono essere i protagonisti del rilancio del Paese: le donne e i giovani).

In compenso la scuola arriva solo a pag 22 (come sopra) e occupa una paginetta scarsa. “La nostra proposta sulla scuola come motore del Paese parte da qui (era ora). Vogliamo rimettere al centro la scuola e restituire al mestiere dell’insegnante la dignità e centralità che merita, garantendo una formazione adeguata e continua e allineando, entro i prossimi cinque anni, gli stipendi alla media europea”. Quindi, la dignità e la centralità dell’insegnante si garantisce con la formazione continua. Altra ricetta magica, e segreta e vaga come quelle della perbureira e della lotta all’evasione fiscale. Ora, chi come il sottoscritto ha lavorato nella scuola per oltre quattro decenni sa benissimo a cosa si riduce la formazione continua: quando va bene vengono fornite due nozioni basilari per l’uso di nuove tecnologie, che diventano obsolete nel giro di un paio d’anni e che i docenti davvero motivati acquisiscono in genere per conto proprio, con largo anticipo sulle tardive proposte ministeriali: quando va male, piovono mappazzoni propinati da pedagogisti, psicologi, sociologi, di tutto esperti tranne che di pratica didattica, che spiegano come ci si rapporta con gli allievi problematici: in sostanza assecondandone tutte le ribalderie e le furbate, loro e dei loro genitori. A meno che non rientrino tacitamente negli intenti degli estensori anche i corsi di difesa personale contro le aggressioni. In mancanza di questi ultimi, si compensa con l’adeguamento degli stipendi.

A non essere mai presa in considerazione è l’idea che la dignità al loro “mestiere” gli insegnanti veri, quelli che hanno i requisiti per essere davvero tali, sono in grado di restituirla da soli, purché si consenta loro di farlo. E questo non dipende dall’entità dello stipendio (che sarà pure da fame, ma non diversamente da quelli di tutti gli altri dipendenti), quanto piuttosto dal fatto che ad un aumento esponenziale delle loro responsabilità non didattiche (devono farsi carico anche di quelle un tempo demandate a una varietà di agenzie educative, la famiglia, la chiesa, ecc…) ha corrisposto la graduale spoliazione di ogni strumento di correzione e di controllo. In un clima ambientale normale l’autorevolezza fa a meno dell’autorità, ma chi opera oggi nella scuola sa benissimo che il clima non è affatto normale, sia per la diseducazione dei giovani coi quali ci si confronta, sia per le interferenze incrociate dall’interno e dall’esterno dell’istituzione. Insomma, se in Inghilterra alcune scuole private sono arrivate al punto di reintrodurre le punizioni corporali (a quanto pare incontrando il gradimento dell’utenza parentale, che si è tradotto in un notevole aumento delle iscrizioni) un motivo ci sarà.

Di questi problemi (non delle eventuali punizioni corporali, ma nemmeno del disagio profondo da impotenza vissuto dai docenti), nel documento non si fa minimamente cenno. Si va giù invece con le proposte e le promesse, da quelle sensate ma economicamente insostenibili (l’accesso universale e gratuito di bambine e bambini alle mense scolastiche, l’aumento dei docenti di ruolo di sostegno per affiancare nel percorso scolastico tutte le persone con disabilità, l’estensione del tempo pieno, con particolare attenzione al Sud – dove peraltro sarebbe già un successo realizzare il tempo ordinario), a quelle decisamente peregrine (Fondo nazionale per i viaggi-studio, le gite scolastiche, il tempo libero nel doposcuola e l’acquisto di attrezzature sportive e strumenti musicali), per arrivare al rilancio del vecchio sogno del ministro Berlinguer – un computer su ogni banco, quando i banchi mancavano – (permettere l’acquisto di un computer a tutti gli studenti delle scuole (medie e superiori) e delle Università). Dimenticando che durante due anni di scuola a distanza tutti gli alunni hanno già operato attraverso il computer, il che fa presumere che ne siano già in possesso.

Applicando il modello veltroniano di infausta memoria (così, ma anche …) dopo il colpo al cerchio viene quello alla botte. La scuola digitale strizza l’occhio al vecchio mondo cartaceo e si rispolverano antichi menù. «Occorre rafforzare il “Piano nazionale per la promozione della lettura”, favorendo virtuose sinergie tra reti di scuole, biblioteche, archivi e luoghi della cultura». Ho partecipato ad un progetto analogo nel 2000, lanciato con grandi squilli di fanfare e abortito dopo neanche un anno nella più totale indifferenza (cfr. La gran crollo del muro di carta). Per l’occasione è stato ripreso letteralmente perfino il refrain: favorendo virtuose sinergie, ecc…. Nel frattempo, con le restrizioni da Covid che sembrano essere rimaste in piedi solo per le biblioteche, le sinergie da virtuose che erano sono diventate addirittura frigide. Provate a frequentare una biblioteca oggi: nemmeno Fort Knox è così blindato.

Il resto è ancora peggio. Si annaspa a vanvera per insaporire cibi già scaduti da un pezzo o scongelati momentaneamente ad ogni tornata elettorale (far ripartire i “Giochi della Gioventù”, favorire l’utilizzo delle palestre scolastiche in orario extra-curricolare o quando le scuole sono chiuse).

Insomma per tagliar corto: poiché “conoscere è potere”, “via a un piano da 10 miliardi con aumento degli stipendi agli insegnanti, edilizia scolastica sostenibile, libri, mense e trasporti pubblici gratis per gli studenti con redditi medi e bassi”. I dieci miliardi, sempre ammesso che poi si trovino, non basterebbero nemmeno per mettere a norma gli edifici esistenti, e dubito comunque che quel tipo di interventi, se non agganciati ad una idea di ciò che la scuola deve essere e rappresentare, sposterebbero di una virgola il problema.

Assenze 03a

Azione-Italia viva. Il movimento creato dalla strana coppia Calenda-Renzi distende il proprio programma addirittura su 68 pagine e lo suddivide in venti punti. Anche in questo caso, neanche a farlo apposta, la parte relativa alla scuola arriva a pagina 22. È il solo punto in comune coi due programmi precedenti: per il resto, le priorità sono decisamente diverse.

Si va subito al sodo. “1. A scuola fino a 18 anni e tempo pieno per tutti. Proponiamo un riordino complessivo dei cicli scolastici ed in particolare: portare l’obbligo scolastico da 16 a 18 anni, al termine del percorso di scuola superiore. Rivedere i cicli scolastici a parità di tempo scuola frequentato: da 13 a 12 anni, con termine delle superiori a 18 anni e anticipo dell’ingresso dei giovani all’università e nel mondo del lavoro, allineandoci agli standard europei.” Se ho capito bene, si tratta di ridurre a quattro i cinque attuali anni di frequenza delle superiori, aumentando di un quarto il monte ore di ciascun anno. Spalmare questo monte ore sui sette precedenti non avrebbe infatti alcun senso (e non sarebbe fattibile). Ora, se lo scopo ultimo della scuola fosse certificare la frequentazione per un certo periodo delle aule e dei banchi, potrebbe andare benissimo. Se invece la sua funzione è leggermente meno prosaica, Calenda ha fatto i conti con i fagioli. Non è necessario un computer per arrivarci. Attualmente il monte-giorni minimo di frequenza è di duecento l’anno, distribuiti su circa nove mesi. Aggiungerne cinquanta significa portare il monte a duecentocinquanta giorni frequentati, pari a 50 settimane “corte” (sette ore per cinque giorni), ai quali ne vanno sommati altri 100 di fine settimana, più 8 (o 9) di festività infrasettimanali religiose o civili. Il totale dà 358 giorni, che ne lasciano liberi ben 7, comprensivi però degli attuali giorni di vacanza agganciati alle feste natalizie e alla Pasqua. Una pacchia.

Distribuire invece le ore in più sugli orari esistenti sarebbe altrettanto demenziale, dal momento che già adesso, con la scelta scellerata del sabato libero compiuta dalla quasi totalità degli istituti, gli allievi frequentano di norma per sette ore al giorno. E anche ripristinando la settimana di sei giorni, le sei ore quotidiane diverrebbero sette. Il sistema non reggerebbe nemmeno considerando definitivamente la scuola come un parcheggio.

Il problema vero è però un altro. Sta nel fatto che a nessuno sembra passare per l’anticamera del cervello la necessità di considerare l’efficacia della didattica in certe condizioni. Ragazzi che hanno soglie di attenzione più brevi di uno spot televisivo sono già refrattari ad assimilare qualsiasi conoscenza dopo un paio d’ore, figuriamoci dopo cinque o sei. Ed eventuali rientri pomeridiani, con tempo pieno alla svedese o alla danese, al di là dei problemi logistici che creerebbero, se anche fossero accettati dagli studenti (cosa impensabile, non si concilierebbe con i vari impegni extrascolastici, sportivi o di qualsivoglia altro genere, cui sono avviati sin dall’infanzia) potrebbero essere dedicati solo allo studio o a eseguire gli esercizi assegnati, attività che oggi svolgono tra le mura domestiche, e non ad un ulteriore aggravio didattico.

Si prosegue poi con “2. Sistema nazionale di valutazione. Va ripreso il percorso interrotto dai governi Conte, perché non può esserci autonomia senza valutazione. E solo un sistema nazionale di valutazione efficace può consentire di individuare le aree su cui è necessario migliorare”. È molto significativo dell’idea di scuola che sta a monte. Valutazione efficace significa in questo caso essenzialmente valutazione dell’efficacia. Ma quali sono i parametri? Le prove Ocse, che nella loro “oggettività” ci piazzano regolarmente agli ultimi posti in ogni graduatoria, ma sono poi smentite ad esempio dai successi all’estero dei nostri ricercatori; il numero di allievi che arrivano al diploma, che è troppo basso, o quello dei promossi alla maturità, che è troppo alto? E una volta fatte le valutazioni, come si interviene? La valutazione presenta un sacco di ambiguità, già nella concezione, che preconizza un clima concorrenziale da libero mercato in uno spazio in cui il mercato non dovrebbe entrare affatto, ma anche nell’ambito di quella stessa visione, nei modi in cui applicarla. Ad esempio: migliorare come? Elargendo più finanziamenti a chi è indietro? In questo caso si arriverebbe al paradosso di premiare le scuole che funzionano peggio.

Gli altri otto punti non meritano commenti. Sono proposte già sentite, che ricorrono ritualmente in tutte le dichiarazioni di intenti relative alla scuola, ma reinterpretate con un occhio di riguardo sempre all’efficienza “produttiva”.

Un’ultima considerazione. Come tutto il resto del documento, la sezione dedicata alla scuola tende decisamente alla prolissità. Il che è anche comprensibile, dal momento che Azione si presenta come la “novità” che viene a scuotere la politica, e deve costruirsi una identità. Quella che vien fuori di qui è però sostanzialmente una identità per l’appunto solo “prolissa”.

Movimento Cinque Stelle. I grillini – ormai dovremmo dire i contiani – hanno scelto una modalità comunicativa più articolata. Esistono due versioni del programma, quella completa (250 pagine, in formato slide) e quella breve (13 pagine). Nella sostanza la prima non dice molto di più della seconda. Anzi, in quella breve nell’intestazione di ogni pagina campeggia lo slogan Cuore e Coraggio per l’Italia di domani, mentre a piede di pagina viene ribadito Capo della forza politica Giuseppe Conte. È un abstract elettorale, ma serve giusto anche a chiarire i ruoli recentemente ridefiniti.

Va da sé che della versione completa ho letto solo la parte concernente la scuola (6 pagine). Mi ha colpito il fatto che dopo le solite proposte rituali e un azzardo quasi originale (“Scuola dei mestieri. Spingere affinché le aziende dei medesimi settori si mettano in rete e creino le scuole dei mestieri, con l’obiettivo di incentivare i giovani a sviluppare l’expertise artigianale e a mantenere il savoir-faire tradizionale”), venisse un capitoletto dal titolo: “Strategia per la Cultura”.

L’esordio era promettente: “Risulta fondamentale un nuovo umanesimo che ponga il benessere dell’Uomo e del pianeta al centro di ogni politica. Ciò presuppone che accanto alla transizione ecologica e digitale si sviluppi di pari passo una transizione culturale che ci indichi la strada per un nuovo modo di co-abitare il pianeta e affrontare pacificamente i cambiamenti”.

E subito sotto: “La cultura è dunque politica laddove è la politica a immaginare un futuro, forte della conoscenza del passato, la cui eredità va protetta, conservata e trasmessa alle generazioni future”.

Sino ad arrivare a: “Proponiamo, accanto allo sviluppo di capacità legate al problem solving e ai meccanismi di ricerca, una maggiore attenzione per l’insegnamento della lingua italiana, della storia e della geografia anche come elementi che favoriscono la coesione e l’integrazione sociale”.

Mi sono detto: “Alè, ci siamo”: ma l’allerta è rientrata subito. Intanto non ho trovato una volta, nelle cinque paginette dedicate, il sostantivo responsabilità, l’aggettivo responsabile e il verbo responsabilizzare (né nella forma transitiva né in quella forma riflessiva). Poi mi sono reso conto che al dunque le strategie diventano quelle virtuali del Risiko. “È importante istituire una dote educativa in sinergia con i patti di comunità educanti (!?) Le comunità educanti possono diventare una misura strutturale di contrasto alla povertà educativa e culturale, con esperienze dirette di outdoor, con le discipline sportive, le competenze artistico-creative, educazione civica e professionale”. Ah, ecco, volevo ben dire. Ma non basta: “Occorre creare equipe di psicologi, educatori e pedagogisti a scuola che, dismettendo la loro funzione in modalità sportello, diventino figure strutturali a supporto della comunità scolastica”. Mancano i docenti e i bidelli, oltre che gli spazi, ma potremo sempre ovviare con le equipe di psicologi. “Proponiamo il potenziamento del tempo pieno (5 giorni la settimana) su tutto il territorio nazionale, con un investimento che ampli l’offerta pomeridiana e di mense, affiancando ciò ad un adeguato programma di educazione ad una corretta alimentazione”. Lì ti volevo, si va verso le mense vegane.

Ora, tutto questo e altro che non sto a riportare rientra piuttosto nelle soluzioni tattiche che non nel disegno strategico. E la strategia? Vola molto più alto. «La “Strategia per la Cultura” del M5S “ si articola lungo tre pilastri che attraversano tre grandi questioni quali la sostenibilità, il contrasto, la mitigazione e l’adattamento all’impatto dei cambiamenti climatici sul paesaggio e sui beni culturali; le competenze, le infrastrutture sociali, digitali e le risorse umane necessarie per consentire a tutti i territori di valorizzare e gestire il patrimonio culturale in chiave sostenibile e con l’obiettivo di generare benessere sociale ed economico; le tutele per i lavoratori e la valorizzazione delle nuove professioni culturali e creative legate alle competenze digitali, tecnologiche e ambientali».

Col che tanti saluti al recupero delle competenze “tradizionali” e delle modalità tradizionali della loro trasmissione. Infatti: “Incentivare le case editrici a realizzare versioni digitali dei testi necessari allo studio e alla formazione e fornire agli istituti i formati eBook dei testi scolastici ed universitari attraverso la formula del prestito digitale. Bisognerebbe concedere un contributo ad ogni studente per l’acquisto di dispositivi e-reader”. Non so cosa sia l’e-reader, ma so che non mi piace.

Nell’insieme, questa parte del programma non sembra essere stata molto curata. Forse dipende dal rapporto conflittuale che sin dall’inizio i pentastellati hanno avuto con l’istruzione e la cultura in genere, avvertiti come strumenti subdoli del dominio e della mistificazione. Non a caso quelli che nel frattempo hanno “studiato”, sia pure con esiti tutti da verificare (vedi Di Maio), sono stati bollati come corpi estranei ed allontanati.

L’attenzione per la scuola è comunque una novità in assoluto. Nel programma elettorale del 2018, quando capo del movimento figurava lo stesso Di Maio, questa voce proprio non c’era, non compariva in alcuna delle quarantotto pagine, tutte dedicate alla difesa, all’immigrazione, alla sicurezza, alla giustizia e allo smantellamento della troika. Un confronto tra i due testi sarebbe interessante (lo lascio fare ad altri), ma per quel che riguarda lo specifico del mio assunto manca del tutto la materia con cui confrontarsi.

Assenze 04

Centro Destra. Il testo di “Per l’Italia –Accordo quadro di programma per un Governo di centrodestra” è il più stringato in assoluto. Trattandosi di un documento comune, stilato da tre forze politiche tenute assieme solo dalla convenienza elettorale, è normale che rimanga molto sul generico, senza dare troppe spiegazioni. In 15 pagine sono sviluppati in maniera telegrafica, sotto forma di slides, quindici punti.

Scuola, università e ricerca arrivano al quattordicesimo, e vedono in mezzo alle consuete litanie (formazione e aggiornamento dei docenti, ammodernamento e nuove realizzazioni di edilizia scolastica, eliminazione del precariato, ecc…) un paio di proposte che danno il tocco caratterizzante, ci avvertono che stiamo camminando in territorio di Destra.

Si parla infatti di “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico” (sul come siamo lasciati nell’incertezza) e di “Valorizzare e promuovere le scuole tecniche professionali volte all’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro”.

Tutto qui. Per saperne qualcosa di più ho dovuto rivolgermi direttamente ai programmi dei singoli partiti facenti parte della coalizione.

Il programma di Fratelli d’Italia ha un titolo che la dice lunga sulle aspettative di chi è alla guida del partito. Un bel Pronti fa da didascalia ad un accattivante primo piano della Meloni. Sono 40 pagine, piuttosto sobrie, per non dire generiche (ma un codice qr rimanda per ciascun tema agli Approfondimenti), due delle quali sono dedicate a scuola e università. Una particolarità: nel testo, fatta eccezione per il preambolo, non vengono usati i verbi, o vengono coniugati solo all’infinito. Sembra un manifesto futurista: concretezza e velocità.

Molta concretezza. “La scuola prepara il futuro di una Nazione, l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani, la crescita economica e la consapevolezza di essere cittadini e parte di una comunità.” L’ordine in cui sono esposte le finalità della scuola parla da solo.

Poi si va nello specifico, almeno per quel che concerne le linee guida. “Rimettere il merito al centro del sistema scolastico e universitario, per alunni e corpo docente”. Di per sé è un’idea che andrebbe riconsiderata, ma esposta così ricorda i toni di certi slogan scritti in nero che campeggiavano sui muri quasi un secolo fa (e che ogni tanto riemergono dagli intonaci scrostati).

Valorizzazione degli Istituti tecnici e riforma dei Percorsi trasversali per le competenze e l’orientamento (Pcto). Ripristinare gli indirizzi di studio abilitanti al lavoro. Istituzione del liceo del Made in Italy.” Un po’ di praticità, perdio. Meno filosofia, più competenze artigianali.

Raggiungimento dell’obiettivo della piena padronanza della lingua inglese per tutti gli studenti”. Quella dell’italiano è probabilmente data per scontata, visto che non se ne parla. O forse per obsoleta. Il che in realtà mal si concilia con la vocazione “nazionalista” del movimento.

Verificare la praticabilità di ridurre di un anno il percorso di studio scolastico, a parità di monte ore totale, per consentire ai giovani italiani di diplomarsi a 17-18 anni.” Ci risiamo. E per che fare dopo?

Acquisto e utilizzo dei libri di testo in formato elettronico per diminuire il costo sostenuto dalle famiglie”. La famiglia è giustamente il terzo valore della famosa triade (la più citata negli slogan di cui sopra) e va coinvolta con un occhio di riguardo. Per questo il programma di Fratelli d’Italia si apre proprio col “Sostegno alla natalità e alla famiglia”, e per questo tra i principi da affermare nella scuola è importante includere “che la formazione si svolge principalmente in aula e che i compiti a casa devono essere gestiti con misura e buonsenso”.

Sottolineo una dimenticanza strana, o che almeno mi è parsa tale per un partito che del passato vorrebbe nutrirsi. Manca qualsiasi riferimento all’insegnamento della storia. Ma forse non è una stranezza. La crescita recente di questo partito può spiegarsi proprio con l’ignoranza, o meglio ancora col rifiuto, della storia. In compenso si promette “Più sport nelle scuole, con nuovi impianti, piscine e palestre”. Altro che Giochi della Gioventù: tornano i Littoriali.

Bisogna ammettere che la Lega non ha badato a spese. Presenta un programma di 200 pagine, sia pure piuttosto smilze, nel quale l’Istruzione arriva a pagina 108 (e occupa tre paginette).

Il nostro programma per la scuola prevede cinque interventi fondamentali: • sviluppare gli istituti professionali come scuole di alta specializzazione; • conciliare inclusione e valutazione studenti; • prevenzione sanitaria, mai più didattica a distanza; • garantire specializzazione sostegno; • superare il precariato, coprire carenza personale docente e Ata, adeguare gli stipendi.”

Queste cose più o meno le abbiamo già viste tutte altrove, magari complete di articoli e preposizioni. Più caratterizzanti sono invece altre proposte. Ad esempio: “Riorganizzare il curricolo di studi dell’istruzione tecnica e professionale potenziando laboratori e prevedendo un’area territoriale, che consenta di adattare il percorso di studi alle esigenze del contesto territoriale e delle filiere produttive che lo caratterizzano”. Vale a dire, se vivi in un territorio che produce patate sarà bene che la scuola ti insegni in primo luogo a produrre patate.

Oppure: “Inserire l’educazione finanziaria in tutto il sistema di istruzione e formazione”. Ovvero: anche il produttore di patate che ha imparato a lavorare bene ed è entrato nella filiera deve poter allargare i suoi orizzonti, diventare trader di se stesso e azzardare qualche speculazione (se poi andrà male, ci penserà lo stato a rimborsarlo). O tenere in proprio la contabilità aziendale e fiscale, realizzando a livello individuale quel massimo di autonomia che a livello istituzionale rimane un sogno nel cassetto. L’emancipazione economica come finalità priorità.

Da notare che nei paragrafi meno “dedicati” tornano i modi verbali: o meglio, tornano soprattutto l’indicativo e il gerundio, perché il congiuntivo è usato con estrema parsimonia (è scivoloso) e il condizionale proprio non è previsto.

Il programma di Forza Italia (36 pagine, senza indice) esordisce giustamente coi temi del fisco (Per una seria riforma fiscale) e della giustizia (Per una giustizia imparziale). Prima di tutto sistemiamo le grane di casa. Della scuola si occupa alle pagine 18 e 19, con proposte perfettamente in linea con la visione del mondo che rappresenta.

  • Campus di scuole secondarie superiori con laboratori scientifici, centri sportivi.
  • libertà di scelta delle famiglie attraverso il buono scuola.
  • Formazione di una nuova generazione di docenti (più tutor e più coach).
  • Introduzione del coding e della didattica digitale, con copertura con la banda larga.
  • Più formazione professionale (sistema duale) e più tecnologi del futuro.
  • Istituzione della figura dello psicologo scolastico e dello psicologo per l’assistenza primaria.
  • Introduzione nel programma scolastico di un’ora curricolare di educazione emotiva utile per avere un confronto con i genitori non solo sulla didattica ma anche sulla personalità degli alunni
  • Potenziamento dell’Orientamento dei giovani in età scolare con particolare attenzione all’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Questo si chiama parlare chiaro. Dritti alla sostanza, scompare anche l’infinito verbale. Altro che storia e geografia e filosofia. Formazione professionale, orientamento calibrato sulla domanda-offerta, didattica digitale, meno docenti e più tutor, coach e psicologi, tecnologi. Persino l’educazione emotiva, per controllare e indirizzare produttivamente anche le emozioni. Oggettivamente, gli estensori di questo programma non si sono sprecati granché. E hanno fatto bene, perché erano consapevoli del fatto che nessuno si sarebbe mai preso la briga di andare a leggerlo (non avevano previsto il sottoscritto, ma io costituisco un’anomalia). Gli elettori di Forza Italia il programma lo scaricano quotidianamente, da una batteria di canali televisivi che nemmeno più fingono un salto tra gli spot commerciali diffusi e lo spottone esistenziale continuativo (e di questo va reso loro merito. Bando all’ipocrisia).

Assenze 05 1

Ormai lanciato, volevo dare un’occhiata anche alle schegge impazzite della destra, e non ho trovato di meglio che il programma di ITALEXIT. Devo ammettere che é frutto di uno sforzo intellettuale notevole (122 pagine, delle quali cinque riservate alla scuola), reso ancora più meritorio dalla evidentemente scarsa dimestichezza dell’estensore o degli estensori con la grammatica e la sintassi. Al di là di questo, però (lo so che non è un particolare di scarso rilievo, ma da un movimento no vax, no green pass, no Europa, no OMS, no Ucraina, ecc. ti devi anche aspettare il no alle concordanze dei generi e dei numeri e quello alla costruzione sensata dei periodi), è l’unico programma nel quale venga adombrata una certa idea del ruolo della scuola. Non dà le risposte che darei io, anzi, non ne dà proprio, ma almeno pone le domande.

Dice infatti: “Un punto critico riguarda il fatto che la scuola deve preparare i ragazzi per una società in cui vivranno in futuro, senza sapere esattamente come evolverà la società. Ciò pone un primo grande dilemma, con ricadute importantissime sulla stessa organizzazione concreta dei curricoli, delle materie da insegnare, di quali competenze sviluppare, delle metodologie innovative da introdurre”. Il che sostanzialmente è vero. Ma allora occorre riflettere sull’importanza di una linea di continuità culturale, di un filo d’Arianna che consenta di procedere in avanti ma anche eventualmente di tornare indietro quando la direzione imboccata risulti un vicolo cieco.

È quanto il programma del movimento creato da Paragone sembra perseguire nella pars destruens: “Riteniamo indispensabile rivedere gli aspetti normativi delle riforme scolastiche: Berlinguer, Moratti, Gelmini e legge107 di Renzi, che hanno impresso una dimensione aziendalistica e dirigistica, determinando la diffusione di una cultura solipsistica e sempre più performativa, con la progressiva disumanizzazione degli operatori dell’istruzione e dei loro stessi utenti finali. Ripristino delle materie di studio funzionali al percorso formativo che sono state tolte o ridotte nell’orario”.

E ancora: “Non siamo d’accordo con l’uso sempre più pervasivo della tecnologia digitale, che riduce la relazione nella dimensione fisico-corporea, fondamentale per le persone in crescita e rischia di favorire disturbi da iperconnessione che colpiscono i giovanissimi, ai (?) rischi del ritiro sociale, al senso di insicurezza fino agli attacchi di panico.(sic) Vogliamo ridurre l’inutile e ridondante burocrazia (Ptof, Pdp, Clil, Rav) che hanno (sic) standardizzato e spersonalizzato la funzione docente”. (copyright Cinquestelle)

Oppure: “I sistemi valutativi basati su quesiti a risposta multipla allenano solo la capacità di risolvere quesiti di questo tipo e insinuano il pericoloso concetto che per ogni situazione vi sia sempre e solo un limitato numero di opzioni e una sola risposta semplice ed esatta, che rappresentano solo meri adempimenti burocratici”.

Quella construens parte bene: “Va ricostruito un clima scolastico serio e propositivo, va tutelata la figura dell’insegnante, vanno migliorati i programmi sia in direzione di un recupero della nostra cultura umanistica e civica. (? sic) […]. Bambini e bambine, ragazzi e ragazze si trovano a essere posti di fronte a scelte importanti, difficili e a volte controverse eticamente. Essi devono, perciò, essere aiutati a individuare un’etica che serva come bussola durante le loro vite, come esseri umani, cittadini, elettori, lavoratori. ) […] I bambini e i ragazzi devono poter sviluppare la capacità di diventare consapevoli dei problemi, delle contraddizioni e delle manipolazioni: costruire, cioè, uno sguardo avvertito e critico sul mondo”.

Ma poi si ferma lì. Il ghostwriter che ha scritto queste cose non se l’è sentita di specificare quali siano le materie di studio formative eliminate dagli orari, di azzardare un’ipotesi di “conservazione intelligente”: il committente, Paragone, probabilmente non lo sa nemmeno. Nel suo caso quelle materie sembrano non essere servite a molto.

Assenze 06 1

Bene, questo è il panorama. Il bilancio complessivo è quello di una sconfortante povertà di idee, anche spicciole, dell’assoluta mancanza di una visione realistica della scuola e, peccato originale, dell’incapacità di concepire la cultura come valore a sé, come promozione individuale non finalizzata, di autocoscienza, di autoresponsabilizzazione. Chi volesse maggiori dettagli può andarseli a cercare. Nella rete c’è tutto. E non credo di dover aggiungere altri commenti. Come intendo io la scuola l’ho già ripetuto e spiegato in più occasioni (in particolare cfr. Sul futuro delle nostre scuole, La scuola al tempo della crisi, Una modesta proposta, Il supplente nella neve).

Si è rivelata comunque un’indagine pericolosa, nel senso almeno che rischio perla prima volta di non andare a votare. Se dicessi che è stata anche divertente mentirei, ma interessante si, lo è stata: per arginare la noia delle identiche formulette che si ripetevano ho cercato di leggere il più possibile tra le righe. Ne è venuto fuori un romanzo dell’orrore, il quadro inquietante della più verosimile delle distopie, e della più prossima.

Ci siamo già dentro.

Rifiuti

di Paolo Repetto, 26 aprile 2022

Due settimane di forzata semi-immobilità fiaccano qualsiasi resistenza. Negli ultimi giorni ho cominciato a giocare coi tasti del telecomando e a fare lo slalom tra le pause pubblicitarie, per rivedere per l’ennesima volta vecchi film western ed episodi del primo Barnaby. Ma ho anche seguito i telegiornali e le rassegne stampa, su quattro o cinque canali diversi, illudendomi di accedere a una varietà di opinioni e trovando invece le stesse discussioni oziose e addirittura gli stessi ospiti che si avvicendavano da una rete all’altra, dando prova di una straordinaria ubiquità. Risultato: tra virologi e psicologi e sociologi e generali in pensione, le nuove star degli ormai onnipresenti talk di “approfondimento”, ho capito che della situazione sanno tutti più o meno quanto me.

Se voglio fare un paio di riflessioni non devo dunque tenere conto delle notizie principali, quelle che occupano la gran parte dei servizi televisivi e le prime dieci pagine dei quotidiani, la guerra in Ucraina e la persistenza del Covid, né della mattanza strisciante che si consuma sui luoghi di lavoro o tra le mura domestiche. Mi concentro invece su alcuni episodi di cronaca spicciola, che vengono segnalati ed esecrati, ma sui quali si riflette poco o si fanno solo stucchevoli discussioni da salotto.

Dunque. Negli ultimi quindici giorni ho appreso che:

  • a Napoli un anziano sceso in strada per buttare la spazzatura è stato aggredito e strattonato da un gruppo di giovinastri, e cacciato alla fine lui stesso nel cassonetto. Il tutto, comprese le urla e le richieste di aiuto della vittima e le risate dei persecutori, filmato e messo in rete da spettatori evidentemente molto divertiti.
  • Sul treno Genova-Torino una carrozza con posti riservati e prenotati per un gruppo di disabili è stato occupata da altri passeggeri, che si sono rifiutati non solo di sgomberare ma persino di lasciarsi identificare dai poliziotti intervenuti. I disabili hanno dovuto attendere i treno successivo.
  • A Milano uno psicologo sessantenne è stato aggredito mentre passeggiava per strada e colpito con un pugno in pieno viso da un giovane staccatosi da una banda che sopravveniva in direzione opposta. Tutto questo senza alcuna motivazione, probabilmente come gesto di iniziazione. Lo psicologo rischia ora di perdere la vista da un occhio.

Rifiuti 02

Mi fermo qui, ma potrei continuare all’infinito, perché episodi di questo tipo, che in fondo appaiono secondari di fronte alle continue esplosioni di violenza omicida per un posteggio, per uno sguardo storto in discoteca o per una lite condominiale, sono comunque ormai la quotidianità, e vengono riportati in genere solo sui giornali o nelle emittenti locali. In realtà secondari non sono affatto, perché non sono nemmeno “giustificati” da una pur futile motivazione. Sono il frutto di stupidità pura, di assenza di qualsivoglia sensibilità civica, della presunzione (purtroppo fondata) di godere di una totale impunità. Cinquant’anni fa sarebbero state notizie da prima pagina, e avrebbero suscitato uno sdegno unanime. Oggi sembrano accettate con una passiva rassegnazione.

Quello che colpisce è appunto il tipo di reazione: rassegnata, come ho già detto, da parte dell’opinione pubblica, e totalmente passiva da parte di quelle istituzioni che dovrebbero garantire un minimo di sicurezza. Nello stesso periodo non ho letto né visto infatti che qualcuno dei protagonisti negativi sia stato identificato, malgrado provvedano essi stessi in genere a diffondere le immagini delle loro gesta. E meno che mai che sia stato sbattuto in galera o, come io auspicherei, messo alla gogna (non quella mediatica, ma quella reale) o preso a calci nel sedere o lasciato alla mercé delle vittime. Ho saputo invece di macchine della polizia assediate e danneggiate, di vigili e conducenti di autobus massacrati, di raid per le vie principali delle grandi città, in pieno giorno, da parte di bande che quando va bene si danno appuntamento per scontri a bastonate e coltellate, e quando va male danno la caccia ai passanti. Tutto questo è intollerabile, sento ripetere ad ogni nuovo episodio: ma in realtà continua ad essere tranquillamente tollerato. Sono vicende assimilate ormai ai fenomeni atmosferici: accadono e non possiamo farci niente, salvo lamentare nebulose responsabilità “sociali”.

Le responsabilità invece non sono affatto nebulose. Se le forze dell’ordine non intervengono, o se quando intervengono non sembrano avere alcun potere di dissuasione, è anche perché ad ogni randellata distribuita dalla polizia si levano immediatamente accuse di uso eccessivo della violenza e scattano provvedimenti che dissuadono gli agenti da un impegno che (e questo costituisce un altro aspetto del problema) è già di per sé piuttosto scarso. È perché qualsiasi delinquente arrestato, a meno che non abbia sterminato una famiglia e sia stato beccato con il coltello insanguinato o con la pistola fumante, viene “denunciato a piede libero”, così che possa riprovarci dopo mezz’ora, come è appunto accaduto un paio di volte in questi giorni. È perché personaggi con curriculum delinquenziali impressionanti girano impuniti per strada, colpiti da provvedimenti ridicoli e inapplicabili come il daspo, che sembra essere diventato una patente per stalker e persecutori e potenziali assassini. È infine perché magistrati animati da un malinteso spirito di redenzione (o semplicemente da una interpretazione lassista delle leggi) concedono disinvoltamente scarcerazioni o libertà condizionate ad assassini efferati.

Ora, queste cose parrebbero scritte da Belpietro o da Feltri, ragionamenti da osteria, e proprio qui sta il nocciolo del problema: sta nel fatto che si lascino cavalcare questi problemi, fingendo che non esistano o liquidandoli con uno sbrigativo sdegno rituale, agli esponenti della reazione più becera o ai nostalgici del manganello, a quelli che poi paradossalmente della violenza di strada sono in realtà i principali supporter. Paiono ragionamenti da osteria perché per queste cose la sinistra dei salotti non ha tempo. Soprattutto, non ha la voglia né la capacità di operare un ripensamento che scenda un po’ più terra terra, per cogliere le motivazioni spicciole, le necessità immediate, senza perdersi nell’aria fritta del “disagio sociale”.

Se questa violenza esiste, argomenta infatti la sinistra diligente e dottrinaria, è perché essa manifesta un disagio “sociale” crescente: quindi occorre agire sul disagio e sulla società. Perfetto. Tranne per un paio di fatti. Il primo è che poi quella stessa sinistra non esprime una minima idea concreta di come “agire sulla società”, e riserva le sue priorità alle problematiche oziose del numero dei generi o alla “correttezza politica”. Il secondo è che questo disagio diventa una giustificazione riservata ai soli persecutori, mentre non viene mai considerato quello delle vittime. La società, alla fin fine, sono gli altri. Attribuire la responsabilità alla società è come dire che se qualcuno sbaglia la colpa è di chi gli sta attorno. In quest’ottica il vecchietto, i disabili e il passante un po’ se la sono meritata. Non sto scherzando; c’è tutta una frangia, nemmeno tanto ristretta, dell’estrema sinistra demenziale, che giustifica Cesare Battisti (il brigatista, non l’irredentista) come un combattente per la libertà. È l’ennesima interpretazione distorta del dettame evangelico, di quel “chi è senza colpa scagli la prima pietra” che mi ha sempre lasciato perplesso, perché si presta a troppe interpretazioni di comodo.

Parliamoci chiaro. Se un adolescente viziato, figlio in genere di genitori distratti o protettivi ad oltranza, o un energumeno frustrato o un semplice idiota in vena di bravate si aggirano per le strade, non c’è dubbio che costoro abbiano alle spalle situazioni di disagio, ma non raccontiamoci che queste nascono dalla povertà, dal bisogno, dallo sfruttamento, ecc. Stiamo parlando di gente che vive né più né meno lo stesso disagio che viviamo io e la maggioranza degli umani, aggravato nel nostro caso dal fatto di scoprici anche potenziali e inconsapevoli vittime del primo idiota di passaggio.

Rifiuti 03

E allora, occorre ammettere innanzitutto che qualcuno nasce più stupido o più carogna degli altri. L’ambiente, l’educazione, la famiglia, le compagnie, faranno poi il resto, ma il dato di fondo rimane una inclinazione particolarmente perversa (dico “particolarmente” perché la natura egoistica è comune a tutti gli uomini: qui non si tratta però di semplice egoismo, ma di violenza gratuita e insensata). Questa inclinazione può essere nella maggior parte dei casi contenuta o persino corretta quando gli strumenti di integrazione sociale (quelli appunto che ho citato prima) funzionano: trova invece libero sfogo quando quegli strumenti sono essi stessi allo sfacelo. Hobbes aveva visto giusto. Lasciati a se stessi gli umani finirebbero per scannarsi a vicenda, non fosse altro perché la presenza di soggetti particolarmente aggressivi o squilibrati innescherebbe reazioni a catena di autodifesa. Se si vuole evitarlo occorre riservare il monopolio della violenza ad una “istituzione” superiore. Questo non è un portato della nostra “specificità” umana (e qui Hobbes sbagliava, ma in buona fede, perché i comportamenti sociali degli animali all’epoca sua non erano affatto conosciuti): è un modello naturale che troviamo in tutte le società delle antropomorfe, e non solo. Il portato umano, la differenza che rende unica la nostra specie, sta piuttosto negli strumenti di controllo che la “civilizzazione” ha sviluppato per controllare e limitare i possibili abusi di questo monopolio. Ovvero, il diritto individuale, la coscienza “civica”, la partecipazione diretta o indiretta al potere.

Messa così, la questione non si riduce più ai discorsi da osteria o alle sparate populiste dei vari Belpietri, ma va a toccare quei delicati equilibri di convivenza che la nostra cultura e nostra civiltà in particolare hanno saputo trovare con laboriose e secolari alchimie, e che non saranno la perfezione, ma andrebbero comunque difesi strenuamente, perché al momento non siamo in grado di immaginarne altri. Questi equilibri sono basati sul giusto dosaggio di molteplici ingredienti, che si chiamano libertà, legalità, diritto, giustizia sociale, autorità, democrazia, ecc… Possono e debbono certamente essere migliorati, adeguandoli alle sempre più veloci trasformazioni ambientali, culturali ed economiche, ma non possono essere semplicemente ignorati o addirittura rifiutati, come invece sta accadendo, in nome di un “liberi tutti” che azzera tutti i valori e che nella foga di riconoscere pari legittimità ad ogni cultura ne cancella in realtà le differenze maturate storicamente.

Mi sono spinto in un discorso che può sembrare troppo complesso e scivoloso per essere affrontato in quattro righe, dal quale esco subito ma che va comunque tenuto presente per leggere entro un quadro di sfondo anche le situazioni “spicciole” da cui sono partito. Intendo dire che gli equilibri cui accennavo sopra prevedono una linea abbastanza netta di demarcazione tra i comportamenti, e che i comportamenti che si pongono al di là di questa linea comportano l’esclusione dal contesto sociale, se si vuole evitare che questo contesto esploda. Che abbiano poi una origine “culturale” (nel senso negativo dell’assenza di una cultura o di un suo distorcimento) o siano dettati semplicemente dalla stupidità, all’atto pratico immediato importa poco.

Importa invece che siano sanzionati prontamente e adeguatamente. Prontamente perché una comunità il cui equilibrio è stato violato deve sentirsi rassicurata e rafforzata da fatto che esso viene immediatamente ripristinato. Questo significa in pratica, almeno allorché l’evidenza del reato e l’identità dei protagonisti sono fuori discussione, evitare le lungaggini procedurali e gli eccessi di guarentigie che servono solo a “raffreddare” l’impatto emozionale della vicenda, a farla dimenticare sotto l’incalzare di altre vicende analoghe: quando invece è proprio l’effetto emozionale ad avere una valenza educativa. Lo sdegno si rafforza e agisce psicologicamente sia sui singoli che sulla comunità, nel senso che ribadisce l’esistenza di valori condivisi e la necessità di difenderli, quando riceve una risposta immediata: in caso contrario lascia il posto solo alla rassegnazione, alla sensazione di impotenza, alla sfiducia nei confronti dell’appartenenza.

Per essere efficaci, inoltre, i provvedimenti debbono essere adeguati: ovvero evidenti, tangibili e possibilmente anche investiti di una carica simbolica. Personalmente, come cultore dell’“occhio per occhio”, avrei in mente un sacco di punizioni con queste caratteristiche. Ma anche rimanendo nei limiti di un equilibrio superiore dettato dalla civiltà e dalla cultura del diritto, la prevalenza del bene comune sugli egoismi e sulle intemperanze individuali può essere ribadita senza scendere allo stesso livello degli stupidi o dei delinquenti. Ad esempio: per i buontemponi che si divertono a cacciare gli anziani nei cassonetti, dopo un opportuno soggiorno in galera per schiarirsi le idee potrebbe riuscire molto educativo collaborare (e non alla patetica maniera attuale dei “lavori socialmente utili”, ma in un regime di lavoro forzato modello “Nick mano fredda”), alla raccolta dei rifiuti lasciati per strada e allo svuotamento, al lavaggio, alla manutenzione dei contenitori stessi. Col triplice vantaggio di rendere coscienti i balordi di un grosso problema sociale, di costringerli a collaborare per risolverlo e di raffreddare di molto in loro gli entusiasmi per i cassonetti. Non so quanto poi questa “coscienza civile” in certe teste e in certi animi possa attecchire, ma senza dubbio quella delle vittime e di tutti coloro che in queste ultime possono identificarsi ne uscirebbe rinsaldata. Sempre, appunto, che l’intervento sia tempestivo, visibile e senza sconti.

Rifiuti 04

Tutto ciò che ho scritto sin qui non ha naturalmente alcun valore propositivo. So benissimo in che mondo vivo. E per certi aspetti ne ho maturato esperienze molto significative, che possono essere applicate al nostro discorso. Ho assistito infatti per anni (e cercato, nei limiti delle mie funzioni, di oppormi) al disfacimento del sistema scolastico e all’avvicendarsi di riforme che non andavano a scalfire minimamente la sostanza dei problemi, che hanno anzi definitivamente liquidato ogni parvenza di autorità e autorevolezza del corpo insegnante, con ogni mezzo, a partire dai sistemi di reclutamento sino ad arrivare alla sudditanza totale nei confronti di alunni e genitori. So che da una scuola del genere non possono uscire che individui totalmente fuori controllo, ignari di vincoli e di doveri nei confronti degli altri, abituati ad essere difesi e tollerati ad oltranza, a dispetto di ogni loro idiozia o carognata. Una scuola che impone l’educazione civica come materia obbligatoria, confessando così apertamente di non essere in grado di trasmetterla, come sarebbe ovvio e doveroso, attraverso tutti i suoi contenuti e il suo modo stesso complessivo di operare, rende vana ogni speranza di poter agire non solo sugli individui ma su tutte le istituzioni successive con le quali gli individui si troveranno a confrontarsi.

Credo che la scuola sia proprio lo scenario più significativo al quale guardare per avere una immagine del presente. E che sia diventata addirittura, nelle condizioni presenti, il laboratorio nel quale la prevaricazione nei confronti di compagni e insegnanti e il senso di totale impunità vengono coltivati in provetta. Sarò catastrofista, ma una scuola nella quale una insegnante che ha sgridato gli alunni perché avevano lordato tutti i bagni con i loro escrementi viene licenziata in tronco, lascia sperare poco. Spero almeno che li abbia anche presi a ceffoni, e auspico che le nostre povere vittime ripetano a casa le loro imprese.

Finale alla Feltri, me ne rendo conto: ma queste considerazioni vanno prese per ciò che sono: uno sfogo, che consenta almeno di rappresentare con parole (spero) chiare lo stato d’animo di chi si ostina credere nella possibilità di una convivenza civile, e si accorge che sono sempre meno quelli che condividono la sua ostinazione.

Rifiuti 05a

Ariette 6.0

di Maurizio Castellaro, 1 novembre 2021

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

Ariette 6 01Ciascuno cresce solo se sognato (a Danilo Dolci)

Il sogno del seme di pisello è diventare pisello, il sogno del bruco è diventare farfalla. Una direzione univoca, un progetto definito. Per i cuccioli d’uomo le cose non sono mai così semplici. La parte migliore delle storie di formazione è quella che racconta di quando l’eroe non sa ancora di essere tale. Dell’eroe in formazione incanta la densità delle infinite possibilità che racchiude, una densità che comprende anche il fallimento, e che non si risolve con una pianificazione deterministica, ma con la ricerca di un’ispirazione che indichi la rotta attraverso l’oscura nuvola atomistica delle combinazioni infinite che ci abitano e ci attraversano. Nei primi voli rischiosi dei cuccioli d’uomo le luci dei Maestri rischiarano strade possibili e promettono un porto sicuro, anche se provvisorio. Fortunati i futuri eroi che hanno occhi in grado di scorgere i loro segnali e coraggio per abitare e crescere nei loro inesausti sogni di levatrici.

Ariette 6 02

Di corsa (a Giancarlo Soldi)

Il padre lo sognava ciclista, ma Giancarlo preferiva scegliersi da solo le salite da affrontare, e infatti si sognava pittore. Ma in fondo, nel suo modo saggio e bambino, Giancarlo il sogno di papà lo ha realizzato negli infiniti ciclisti che ha disegnato nella sua vita. Nel suo gesto incantato il quadro dei corridori in corsa somiglia un po’ alla vita: veloce, faticosa, fuori controllo, piena di colori e bellissima.

Conversazione semi-immaginaria sul tempo dove non siamo

di Marco Moraschi, 28 marzo 2021

“Mi sa che voi sulla terra sprechiate il vostro tempo a chiedervi troppi perché.
D’inverno non vedete l’ora che arrivi l’estate, poi d’estate avete paura che ritorni l’inverno. Per questo non vi stancate mai di viaggiare, di rincorrere il posto dove non siete…
dove è sempre estate.
Non dev’essere un bel lavoro.”
(La leggenda del pianista sull’oceano)

–    Sai, mi manca il Politecnico.
–    Sei impazzito?
–    Forse sì.
–    Perché dici così?
–    Non so, è una sensazione.
–    Ma scusa, quando facevi l’università non ne potevi più …
–    Si, si, hai ragione, me lo ricordo, però a distanza di tempo rimangono solo ricordi piacevoli. È un po’ come quando muore qualcuno, dicono sempre tutti che era una brava persona.
–    E cosa ti manca?
–    Gli amici, le pause caffè, i libri che leggevo al posto di studiare, …
–    Beh, sono cose che puoi ancora fare.
–    Lo so, ma non è la stessa cosa.
–    Perché?
–    Non lo so, ogni tempo porta via con se’ qualcosa di unico, qualcosa che anche se lo rifai in futuro non è più com’era prima …
–    Perché tutta questa malinconia? Non stai bene ora?
–    Si si, sto benissimo, sono felice della mia vita e ho tutto quello che mi serve, era solo una riflessione sui tempi passati.
–    Inizi a parlare come i vecchi.
–    Beh, lo sto diventando, ho già ventisei anni, quasi ventisette!
–    Ma smettila…
–    Com’è successo che all’improvviso abbiamo già ventisette anni?
–    Dev’essere la birra che hai bevuto ieri sera …
–    No, no, seriamente, ricordo i tempi del liceo, non ne potevo più e non vedevo l’ora di fare l’università, lì si che avrei finalmente scelto cosa studiare. A volte sogno ancora le interrogazioni di inglese!
–    A chi lo dici, io le versioni di greco!
–    Poi ho iniziato l’università e passata la novità iniziale sono emersi i nuovi problemi, gli esami che non mi piacevano, i professori, lo studio … e ho ricordato con piacere i tempi del liceo, non l’avrei mai immaginato!
–    Io invece mi ricordo benissimo sia l’università sia il liceo, non tornerei indietro per niente!
–    Nemmeno io, non credere! Poi quando facevo l’università pensavo che non ne potevo più di studiare, sarebbe stato molto meglio lavorare! E poi d’un tratto eccomi qui, tutto finito, liceo e università, e mi trovo a ricordare con piacere quei periodi. Comincio a capire i miei genitori, me lo dicevano spesso, “vedrai che poi rimpiangerai certi momenti”. Io in realtà non è che li rimpiango, però non mi sembrano più così terribili come mi sembravano allora … la nostra vita è sempre talmente proiettata in avanti che finiamo per non accorgerci di quello che abbiamo in questo momento.
–    Hmmm …
–    Sai, ho sbagliato. Il periodo del liceo è durato cinque anni e non ho sempre saputo apprezzarne gli aspetti positivi. L’università anche. Sono passati più di dieci anni in totale senza che quasi avessi il tempo di rendermene conto. Ora lavoro già da un po’, non voglio commettere lo stesso errore, perché stavolta la posta in gioco è molto più alta, saranno i prossimi quarant’anni della mia vita. Mi aiuterai?
–    Sì, ti darò un colpo sulla testa la prossima volta che inizierai un discorso così.
–    Promesso?
–    Sì, ti amo.
–    Anche io.
[…]
–    E adesso cosa fai?
–    Scrivo.
–    Quando litighiamo ti viene sempre l’ispirazione per scrivere.
–    Hai ragione, forse dovremmo litigare più spesso.

Archimede sulla spiaggia di Ortigia

di Maurizio Castellaro, 11 dicembre 2020,

Ho trovato in rete la foto di questa aula scolastica. Al centro della parete troneggia una lavagna digitale, ai lati due piccole lavagne di ardesia. Manca il videoproiettore, quindi il dispositivo è di fatto un grosso pezzo di metallo inutilizzabile. Immagino che la lampada del videoproiettore si sia bruciata e non sia più stata sostituita (costa parecchio). Presumo allora che le attività didattiche in classe trovino sfogo sulle due lavagne ai lati, piccole e poco visibili ancelle del metallico totem silenzioso che è stato posto sull’altare (sopra di lui infatti resiste solo il crocefisso). L’immagine è chiaramente un simbolo del fallimento delle velleitarie politiche di digitalizzazione della scuola, ma ora non ho in mente questo.

Vorrei tentare un confronto tra lavagna digitale e lavagna analogica (quella tradizionale di ardesia, per capirci), basandomi semplicemente sulla mia esperienza di insegnante. Se voglio spiegare ai ragazzi come si calcola ad esempio il minimo comune denominatore tra frazioni devo: mettermi accanto alla lavagna, controllare il tono di voce, cercare gli sguardi dei ragazzi, coinvolgere i più distratti, chiedere ai più fragili se han capito, fare ridere tutti con qualche battuta scema, gratificarli per le risposte giuste, accogliere quelle sbagliate, rispiegare tre volte in modi diversi. Insomma, il solito armamentario che già raccomandava Socrate, maestro dell’ascolto e della domanda, e che oggi chiamiamo causalità circolare, feedback, tranfert, ma che è insomma sempre quella roba lì. In questo processo la lavagna di ardesia è un’alleata discreta. Non fa rumore, è immediatamente pronta all’uso, consuma poco (due o tre gessi all’ora) e non ha memoria.

Proviamo ora ad immaginare la stessa spiegazione con una lavagna digitale. Se sono riuscito ad accendere PC, lavagna e proiettore, e a far partire il programma di gestione, devo verificare che le licenze d’uso siano ancora attive, che la penna digitale non abbia le batterie scariche e che non cada a terra danneggiandosi, che gli studenti, indecifrabili nella penombra, non si distraggano troppo (è noto che la lavagna digitale è nemica del sole, come i vampiri). Tutti gli attori sono rivolti al totem luminoso, mentre la concreta gestione del dispositivo viene a interporsi nella relazione insegnante/classe, rendendola più faticosa. Così descritta la lavagna digitale può essere definita un medium che si mette in mezzo, non un facilitatore, ma un ostacolatore della relazione, che cerca macchinosamente di riprodurre la fluida dimensione analogica dell’apprendimento. Facile e immediata l’obiezione: e l’accesso alle infinite risorse della rete dove lo mettiamo? A parte che ormai i ragazzi hanno accesso illimitato a internet grazie ai cellulari che tengono spenti nello zaino (la scuola, monoteista e monocratica, vede i cellulari individuali come possibili tentazioni ereticali, anche se sono utilizzati per imparare), vogliamo parlare dell’efficienza della rete nelle scuole? Nelle scuole che conosco anche la linea più performante ha, nell’ultimo tratto che porta agli utilizzatori finali, un’efficienza che è paragonabile a quella delle attuali gallerie sull’A26 nel tratto tra Ovada a Masone. Se a questo si aggiunge l’ulteriore dispersione del segnale conseguente alla connessione wi-fi di decine di dispositivi in contemporanea, si hanno come risultato lezioni di DAD che assomigliano spesso a commedie degli equivoci disperanti perché mal scritte, che tutti sperano finiscano prima possibile, dato che alzarsi e andarsene è maleducazione.

Io non sono esperto di neurofisiologia, ma penso che la storia della nostra evoluzione abbia stretto un nodo indissolubile tra il modo in cui funziona il nostro cervello e il modo in cui funzionano le nostre dita. Prima ancora della scrittura penso ai meravigliosi disegni dei primitivi nelle grotte, e prima ancora ai frammenti di pietra e di osso afferrati e lavorati grazie ai nostri pollici opponibili. Stiamo parlando di milioni di anni di esperienze di manipolazione e concettualizzazione racchiuse nel nostro DNA, in cui il sistema del pensiero ha affinato la capacità di interconnettersi con il sistema della motricità fine, in un rapporto di interdipendenza, in cui il pensiero rimanda al gesto e al segno, per poter produrre nuovo pensiero. È quello il nostro linguaggio macchina, fondamento di tutti gli altri linguaggi derivati. Se volete una prova immediata di tutto questo, pensate al valore in termini di interiorizzazione dell’apprendimento garantito dal “copia/incolla” dalla rete che gli studenti propinano da anni a insegnanti inconsapevoli o conniventi, e confrontatelo con il livello di apprendimento che si ottiene sintetizzando lo stesso testo a mano su un foglio di carta, utilizzando frecce, colori, sottolineature, cancellature. E’ evidente, non c’è partita. In fondo se ci facciamo caso lo stesso mondo del digitale è ben consapevole della sua subalternità alla realtà analogica. Imita il libro di carta, la tavoletta dello scriba, la tavolozza del pittore, lo strumento del musicista. Intendiamoci, io questi programmi li uso da anni per lavoro e li trovo indispensabili, e credo che in infiniti settori della nostra vita il digitale e la rete ci stiano migliorando la vita. Però se pensiamo al mondo dell’educazione e dell’apprendimento, e soprattutto alla fase evolutiva degli studenti, dobbiamo ammettere che, dopo l’entusiasmo iniziale, sempre più numerosi ci scopriamo a pensare che forse a questo meraviglioso flusso di silicio fatto di zero e uno, in fondo, manchi qualcosa. Forse è la profondità, forse è il tempo, forse è il peso della materia che viene piegata dal gesto. E allora mi ritrovo a ipotizzare che tra vent’anni quella lavagna digitale da cui siamo partiti, inutilizzato e arrugginito simbolo di una fase della nostra cultura dell’educazione, verrà finalmente smontata e depositata in scantinato, mentre nel frattempo milioni di piccoli gessetti bianchi, grazie alle due piccole e umili lavagne di ardesia, avranno comunque aiutato i cervelli di decine di migliaia di ragazzi a capire il calcolo del minimo comune denominatore tra frazioni, e forse anche altre cose non meno importanti.

Archimede di Siracusa, sulla spiaggia di Ortigia, traccia segni sulla sabbia con uno stecco. Sta lavorando ad un nuovo teorema, ma per ora la soluzione gli sfugge. Corregge e cancella col palmo della mano, riscrive e cancella ancora. Ora si è preso una pausa, sa che le idee arriveranno, prima o poi. Si sofferma a guardare un attimo il tramonto e sorride tra sé e sé. 

Raccontare storie a colori

di Paolo Repetto, 21 maggio 2020

La storia non è soltanto ciò che è stato,
ma anche ciò che se ne è fatto
Marc Bloch, Apologia della storia

Durante una delle interminabili passeggiate alessandrine con Mario Mantelli, di ritorno dall’appuntamento rituale delle sedici al Libraccio (accadeva quasi sempre che mi accompagnasse sin sotto casa, e fossi poi io a riaccompagnare lui alla sua, perché non si poteva lasciare il ragionamento a metà) sentii parlare per la prima volta di Michel Pastoureau, del quale fino a quel momento ignoravo persino il nome (non aggiungo “colpevolmente” perché, insomma, non si può pretendere di conoscere tutto). Il tema quella sera era il significato simbolico dei colori, e in effetti su quell’argomento il suo “Medioevo simbolico” è oggi una Bibbia. Ma io, ripeto, non lo sapevo, e a non saperlo mi sentivo in quel momento davvero un po’ colpevole, perché sulle simbologie medioevali più di quarant’anni prima avevo fatto approfondite ricerche (dopo la scoperta del Medioevo fantastico di Jurgis Baltrušaitis mi si era aperto tutto un mondo, nonché un modo diverso di pensare la storia). Mi sono assolto solo quando ho verificato che gli studi di Pastoureau sono apparsi attorno all’inizio del nuovo secolo, quando ormai i miei interessi viaggiavano in altre direzioni.
L’importanza che Mario attribuiva a questi studi e l’ammirazione che tributava a Pastoureau mi hanno però spinto a tornarci su: in sostanza, sono andato a leggermi prima “Nero. Storia di un colore”, e poi “Medioevo simbolico”. Con enorme diletto, devo dire, e con altrettanto profitto. Ora, però, non ne farò qui la recensione: conviene che leggiate gli originali, se già non lo avete fatto. Ne prendo spunto, invece, per alcune riflessioni sull’insegnamento della storia, su quello “che se ne è fatto”, come scriveva Marc Bolch, e su quello che attualmente se ne fa. E parto necessariamente dalla mia esperienza didattica e più in generale dalle mie velleità di divulgatore.
Ho insegnato Storia (uso sempre la maiuscola quando mi riferisco alla disciplina di studio) per trentadue anni, ho scritto di Storia entro quello che potremmo definire il circuito “ufficiale” per un breve periodo, ho raccontato Storia (o storie) per il resto della mia vita. Lo sto facendo anche adesso. Questa esperienza mi ha lasciato la convinzione che la storia dalle nostre parti sia conosciuta poco o male perché coloro che dovrebbero raccontarla lo fanno in genere nella maniera sbagliata (non che altrove sia conosciuta molto meglio, ma questo avviene per altri motivi).
Questa affermazione potrebbe sembrare quanto meno opinabile: esiste oggi un’offerta ricchissima, addirittura esorbitante, di divulgazione storica, e quest’ultima viene praticata con tutti gli strumenti e su tutti i supporti possibili, dalla conferenza al racconto per immagini, documentario, cinematografico o informatizzato. Ma non è una questione di quantità: “quella” storia trattata come una “merce” culturale qualsiasi, venduta a pezzi come il muro di Berlino, truccata, imbellettata, sia pure, nel migliore dei casi, coi “documenti d’archivio”, insomma condita e precotta e confezionata per il pronto consumo come i quattro salti in padella, non è la stessa cosa di cui parlo io. Io parlo di “senso” storico, inteso naturalmente come sensibilità educata nel soggetto conoscente, e non di un significato intrinseco all’oggetto conosciuto.
Ho scritto sensibilità “educata” perché il primo approccio serio con la storia si ha a scuola: è lì che nasce, o muore, l’imprinting, e la nostra scuola in tal senso non è affatto attrezzata a preservarlo. Ne ho già trattato a più riprese altrove. Non che manchino gli strumenti didattici, anzi, ce ne sono a mio parere sin troppi, e si fa troppo affidamento sul loro ruolo. Ma paradossalmente questi strumenti, anziché contribuire a creare una atmosfera “speciale”, a coltivare un apprendimento che entri sottopelle e circoli in vena, adattano e livellano questo apprendimento ai modi della quotidianità, ad una percezione confusa e indistinta della realtà. Col risultato che la narrazione storica finisce per confondersi e assimilarsi alle altre infinite narrazioni che passano attraverso schermi, teleschermi e monitor.
Faccio un esempio banalissimo. Le scelte iconografiche che corredano oggi i libri di testo delle elementari, giustificate con l’intento di educare gli allievi ad un rapporto e a una dimestichezza precoci con le “fonti documentali”, ottengono l’effetto opposto. Il valore evocativo di un dagherrotipo d’epoca che ritrae Nino Bixio è infinitamente minore rispetto a quello che aveva un tempo la figurina disegnata di un garibaldino, o di Bixio stesso, con la sua brava camicia rossa: illustrazione che avrebbe potuto essere trasposta di sana pianta in uno dei fumetti di capitan Miki o di Tex, o presa da esso, e che rimandava alla dimensione dell’avventura (alimentando peraltro la voglia di andare più tardi a scoprire che faccia aveva davvero quel garibaldino, e di cercare quindi il dagherrotipo). È evidente che oggi le stesse immagini non evocherebbero più nulla, perché nessun ragazzino legge più Miki o Tex, ma ciò che è andato a sostituirle non ha assolutamente un altrettale potere di suggestione, e non potrebbe averlo anche se usato nel migliore dei modi: semplicemente perché su quel versante la mente dei ragazzini è già colonizzata da ben altri effetti speciali.
Il discorso deve dunque spostarsi sul fattore umano. Occorre riscoprire finalmente la centralità della famigerata “lezione frontale”. E qui il problema si presenta nel suo vero aspetto. Ciò che davvero manca sono gli insegnanti, i narratori capaci di trasmettere quel senso di “pervasione del tutto” che solo giustifica e rende possibile la vera conoscenza storica. Mancano perché coloro che si confrontano oggi con i ragazzi a loro volta la storia non la conoscono, o la conoscono male, o ne hanno una conoscenza parziale in termini quantitativi e partigiana in quelli qualitativi. La loro impreparazione è frutto di quarant’anni di improvvisate e raffazzonate riforme dei piani di studio, che hanno sconvolto la tradizionale scansione delle tappe dell’apprendimento per sostituirla con modelli completamente sganciati dalla realtà. La sgrossatura che un tempo era affidata alla scuola elementare, e che con tutti i suoi limiti offriva quantomeno l’idea di un percorso “storico”, di una cavalcata attraverso i tempi, ha lasciato il posto ad una pretesa approfondita “immersione” (l’intero terzo anno dell’odierna primaria dedicato alla preistoria, i due successivi alle civiltà classiche) che rompe i ritmi e ingenera nella mente dei ragazzini – abituata per altri versi ai tempi rapidi di comunicazione degli spot o a quelli frenetici dei videogiochi – un senso di saturazione e un sostanziale disinteresse. Contemporaneamente, il preteso ribaltamento del punto di vista eurocentrico, la pregiudiziale messa sotto accusa della civiltà occidentale e l’ambizioso proposito di trattare sullo stesso piano tutte le civiltà (delle quali chi insegna sa naturalmente ancor meno che della nostra) ha creato un approccio disordinato, velleitario e inversamente “negazionista”.
Chi si è formato in una babele didattica di questo genere non può non essere confuso e inadeguato. Intendiamoci: non sto dicendo che “un tempo” tutti gli insegnanti di storia fossero bravi a raccontarla, o obiettivi nella trattazione, e nemmeno che lo fosse la maggioranza: io stesso ho incontrato nel mio percorso scolastico dapprima una esposizione arida, noiosa e nozionistica, e successivamente una “imposizione” fortemente ideologizzata e altrettanto nozionistica, e ho anche pagato, in termini di valutazioni, i miei timidi tentativi di rendere il tutto un po’ meno insipido aggiungendo qualche grano di sale. Ma quegli insegnanti avevano comunque di fronte degli allievi che il nozionismo, per forza d’abitudine, erano in grado di digerirlo, e di cavarne quindi alimento anziché tossine. Anche quello meno bravo, se appena appena faceva un po’ il suo dovere, qualche plinto di fondazione riusciva a gettarlo. Poi ciascuno, in base alle sue capacità e alle sue disposizioni, ci costruiva sopra l’edificio che voleva. Oggi l’utenza è diversa, e non è certo con i giochini spettacolari offerti da nuovi media, coi quali gli allievi hanno una consuetudine ben superiore a quella dei loro docenti, che si conquista la loro attenzione. Con quelli, quando va bene, li si tiene buoni per qualche mezz’ora. Quindi non si scappa: o si reimpara a narrare, pur con tutti gli ausili e i supporti che si vuole, o si condannano le nuove generazioni all’ignoranza storica.
Naturalmente non mi sto riferendo alle capacità affabulatorie: quelle o si possiedono o no, anche se un buon allenamento può dirozzare o ammorbidire la tecnica di esposizione. Parlo invece di una disposizione mentale che in parte può essere un regalo di natura, ma per il resto va costruita. Ciò che maggiormente difetta, infatti, è la capacità di fare storia con tutto, e quindi di far comprendere ai ragazzi che tutto fa storia. Per rimanere nella metafora gastronomica di cui sopra, manca la capacità che aveva mia madre di costruire piatti appetitosi partendo sempre dagli stessi quattro ingredienti poveri di cui disponeva. Il che significa non essere onniscienti, ma avere la capacità di cogliere in qualsiasi ambito un potenziale di indagine, di chiarimento o di spiegazione storica. Che equivale a dire: di divertirsi e di abituare a un divertimento intelligente chi ti segue.
Conviene però a questo punto passare immediatamente agli esempi, per evitare di girare a vuoto tutto attorno e di strangolarmi da solo. E anche per spiegare il riferimento iniziale. Pastoureau entra in questo discorso perché i colori hanno fatto la loro parte di storia (e lui l’ha raccontata), ne sono stati testimoni e ne sono a loro modo anche motori. Vediamo come. Senza riassumere Pastoureau, ma sviluppando le indicazioni di metodo che ha fornito.
Quando si racconta agli allievi la vicenda della Riforma protestante è difficile appassionarli al dibattito teologico, al problema del libero arbitrio, della grazia o non grazia, della validità o meno dei sacramenti, ecc… Il che non significa che non si debba parlarne, al contrario: ma occorre farlo portandoli a toccare con mano le conseguenze tangibili, immediatamente visibili, delle diverse scelte. Questo lo si può ottenere, ad esempio, comparando la diversa presenza dei colori in un’opera fiamminga della seconda metà del cinquecento e in una del seicento: Brueghel e Rembrandt, tanto per andare sul sicuro. Credo non ci sia nulla che faccia immediatamente percepire il salto di mentalità meglio del passaggio dagli abiti variopinti e chiassosi de la Danza nuziale a quelli neri, uniformi, rigidi della Lezione di Anatomia. Il nero è negazione della varietà dello spettro cromatico, della diversità, della possibile coesistenza di differenti concezioni del mondo: quindi spiega la caccia alle streghe, le guerre di religione, le intolleranze reciproche, ecc … L’uniformità stessa del colore degli abiti rimanda immediatamente all’idea di “uniforme”, nelle accezioni sia sostantivale che aggettivata, e quindi all’operazione di intruppamento dei corpi e delle menti perseguita tanto dai riformatori come dai controriformisti, gli uni e gli altri avendo alle spalle i nascenti stati moderni. E l’associazione nella cultura occidentale del nero col demoniaco, con il pericolo, con la violenza, con il lutto, può magari anche aiutare a far comprendere fenomeni come quello del razzismo.
Allo stesso modo, un piccolo excursus sulle simbologie negative del rosso o del giallo può diventare intrigante, e al tempo stesso, se ben pilotato, sgombrare il terreno da pregiudizi popolari radicati. Quando è associato a tratti morfologici, come il colore dei capelli o della pelle, il rosso connota tradizionalmente una disposizione negativa. Sono rossi i capelli e la barba di Giuda, ad esempio, così come ricorrono nella pittura medioevale (e sopravvivono in quella successiva), ma anche quelli di numerosissimi personaggi biblici o mitologici, o dei reprobi dei poemi cavallereschi, fino a quelli della letteratura romantica, e oltre (il Rosso Malpelo di Verga). Ora, questa valenza simbolica negativa ha un’origine facilmente identificabile: presso quasi tutte le etnie del mondo, con la parziale eccezione dei popoli scandinavi, gli individui di pelo rossiccio rappresentano delle esigue minoranze, e sono quindi percepiti immediatamente come dei “diversi”, alla stessa stregua ad esempio dei mancini. Non a caso, nella rappresentazione iconografica (ancora Giuda) e letteraria i due attributi marciano spesso di conserva. Il rosso diventa quindi per antonomasia il colore che connota, in progressione negativa, una differenza, una anomalia, un pericolo, il male. Diventa il colore di Satana. E l’identificazione simbolica finisce alla lunga per prescindere dal suo movente originario, al punto da imporsi anche presso quelle culture (le nordiche di cui sopra) nelle quali la motivazione della differenza morfologica non ha senso.
Altrettanto intriganti e rivelatori sono poi i risvolti attuali di questo simbolismo. Perché ad un certo punto quello dei reprobi da simbolo infamante diventa invece vessillo di riscatto ed è adottato come bandiera, e questo malgrado il rosso rimanga convenzionalmente associato al pericolo e alla devianza (la bandiera rossa sulle spiagge, il segnale rosso dei semafori, la sottolineatura degli errori su questo computer, le zone rosse dei contagi, ecc). Anzi, è proprio il messaggio di pericolosità connesso al simbolo ad essere rivendicato (le camicie rosse dei garibaldini, l’Armata rossa – cui la reazione oppone naturalmente quelle bianche), e usato come un monito minaccioso da mandare ai nemici. Nello stesso modo in cui viene fatto proprio, e ribaltato nelle sue valenze etiche e politiche, il simbolismo connesso a tutto ciò che concerne la “sinistra”.
Anche qui, una passeggiata nell’iconografia, in particolare in quella sacra, si rivela particolarmente istruttiva. Si considerino ad esempio le trasformazioni avvenute nell’abbigliamento della madonna, nel quale a partire dalla Controriforma il rosso tende a cedere sempre più il posto al bianco, sino alla definitiva affermazione di quest’ultimo dopo il dogma dell’immacolata concezione. La madonna pellegrina che io stesso ho visto nei primi anni cinquanta transitare per Lerma, nel corso di un pellegrinaggio preelettorale che coprì palmo a palmo tutto il territorio nazionale, per esorcizzare il pericolo del fronte popolare, era rigorosamente ammantata di bianco e azzurro: il rosso campeggiava solo nei manifesti che proponevano l’immagine terrificante dell’orso bolscevico.
Dal canto suo, anche il giallo ha conosciuto una associazione simbolica negativa, solo appena più sfumata. Nell’iconografia medioevale, ma anche in quella successiva, è il colore del tradimento e della menzogna, come tale identificato non tanto nei tratti morfologici (ché, anzi, dopo le conquiste normanne il colore biondo dei capelli diventa il tratto distintivo della nuova nobiltà di spada) quanto nell’abbigliamento (dietro il quale, appunto, ci si nasconde). La veste di Giuda è spesso gialla, così come gialla è la stella identificativa degli ebrei, e tali sono molti capi di abbigliamento degli ebrei stessi, o dei buffoni di corte e dei saltimbanchi. In questo caso ad essere sottolineata è una diversità non “naturale”, ma sociale e culturale.
Come si vede, le potenzialità di sviluppo di un discorso di questo tipo sono infinite. Il filo principale può essere svolto, per esempio, partendo dai colori primari, pieni e nitidi, usati da Giotto e nella pittura francescana, passando per quelli opulenti del Beato Angelico e di Benozzo, risalendo a quelli più sfumati della pittura rinascimentale, che coincidono con la liberazione del pensiero da contorni troppo netti e marcati; e si dipana poi, dopo il barocco, con un ritorno al cromatismo vivace, alle tinte pastello nel Settecento, e successivamente con l’utilizzo di tonalità più cupe, e il ritorno al nero degli abiti, nel Romanticismo. Insomma, la storia della nostra civiltà può essere riassunta anche attraverso il filtro cromatico.
Per inciso, in un discorso di questo genere rientrano, naturalmente su un piano diverso, proprio le escursioni storico-antropologiche di Mario Mantelli nel mondo delle impressioni infantili: sia pure circoscritte apparentemente a un microcosmo provinciale, e ad un periodo molto particolare, ma allargate oltre che alle immagini e ai colori anche ai sapori e agli odori, raccontano l’educazione “sensoriale” prima che sentimentale di una intera generazione (tema sul quale Mario è tornato anche recentemente): e questo racconto vale più di qualsiasi dotta indagine o dissertazione per spiegare le scelte ideologiche o esistenziali dei nostri coetanei.

Ma la storia non è solo colorata: può essere anche “colorita”. E qui entra in gioco l’uso dell’aneddotica. Tutti i miei studenti ricordano ancora oggi che Cavour voleva prendere a calci nel sedere Vittorio Emanuele II dopo l’armistizio di Villafranca (storico: testimoniato da Costantino Nigra). Magari ricordano solo quello, e non le date di san Martino e Solferino, ma almeno sanno chi erano Cavour e Vittorio Emanuele, e che rapporti intercorrevano tra i due, e che è stato stipulato un armistizio a Villafranca, e che quindi in precedenza c’era stata una guerra, e perché questa guerra era stata combattuta. Sarei curioso di fare oggi un test a campione sugli studenti usciti dalla scuola secondaria da un paio di anni, per verificare che conoscenza hanno di quei personaggi e di quelle vicende. Lo stesso valore di chiodini nel muro della memoria possono assumere un sacco di altre informazioni, al limite del pettegolezzo, che riescono ad accendere l’attenzione per la loro curiosità e a mantenerla poi desta anche sui fatti essenziali cui sono collegate. Non si tratta di “banalizzare” la storia, cosa che accadrebbe se si raccontassero solo i pettegolezzi, ma di vivacizzarla un po’, di farla uscire dal recinto sacro della disciplina di studio e farla entrare in quelli dell’interesse e del divertimento.
Un discorso analogo vale per la proposta di approcci un po’ sfalsati e marginali rispetto a quello canonico e rituale. La Storia può essere raccontata ad esempio passando attraverso l’esame delle risorse, a partire da quelle alimentari per arrivare alla disponibilità di materie prime indispensabili al processo industriale. Sapere che nell’area mediterranea e mediorientale erano presenti in natura trentadue delle cinquantasei specie erbacee domesticabili ad uso alimentare, contro le undici delle Americhe, le sei dell’Africa subsahariana e dell’Asia orientale e le due dell’Australia, aiuta i ragazzi a capire le ragioni dei diversi tempi di sviluppo di queste zone, e il conseguente fenomeno della dominazione europea, molto più della conoscenza in dettaglio dei rapporti internazionali, o perlomeno consente di spiegare molto meglio questi ultimi. E così, un minimo di storia dell’alimentazione, quel tanto sufficiente a far comprendere che senza l’introduzione in Europa del mais e delle patate forse non ci sarebbe nemmeno stata la rivoluzione industriale, o sarebbe avvenuta in altri luoghi e con altri tempi, rende molto più semplice e chiara la situazione. Allo stesso modo, la sostituzione del petrolio al carbone come fonte energetica primaria spiega la decadenza dell’Europa, e la presenza solo in Africa di elementi come il litio o il coltan ci fa immediatamente intuire perché quel continente non abbia pace.
In definitiva: io credo che la strategia per riaccendere nei giovani, o almeno di una parte di essi, l’interesse per la storia passi in primo luogo per la segnalazione di diversi possibili percorsi: una segnalazione che, se gestita con criterio, scegliendo i momenti e profittando degli agganci opportuni, non confonde affatto le idee dei ragazzi, ma al contrario, apre le loro menti alla curiosità e all’autonomia di pensiero. Il resto, l’apertura agli “eventi”, la ricognizione dei “luoghi storici”, le conferenze dei professionisti della divulgazione, i supporti multimediali, tutto lo strumentario al quale oggi sembra affidarsi e ridursi la didattica, ha valore solo in quanto usato all’interno di questo piano, né più né meno di come lo avevano le carte geografiche appese ai muri delle nostre aule. Ma fin qui credo di non dire in fondo nulla che almeno teoricamente non sia già contemplato nelle linee di indirizzo periodicamente diffuse anche nella nostra scuola. Di nuovo, anzi, a dire il vero, di antico, c’è che questo progetto di riscatto presuppone da un lato, negli allievi, un sostrato essenziale ma solido di conoscenza degli eventi (leggi: nozioni, date, nomi, luoghi) e di competenze nel loro inquadramento cronologico; dall’altro, nei docenti, la capacità di non ridurre il tutto ad imbonimenti autoreferenziali o a pappine precotte. I percorsi possibili vanno suggeriti, assistiti, esemplificati quanto basta, ma lasciati poi aperti e incompiuti. Con le stesse cautele possono anche essere azzardati degli schemi interpretativi che consentano agli studenti non soltanto di guardare alla storia con occhiali diversamente colorati, ma anche di scegliersi particolari postazioni di lettura. Cito, per fare qualche esempio, quelli relativi alla contrapposizione per il passato remoto tra popoli nomadi e popoli sedentari, o tra civiltà particolaristiche “democratiche” e civiltà idrauliche dispotiche; per quello più prossimo, tra popoli che guardano alla terra e popoli che guardano al mare.
Ecco, suggestioni di questo tipo sono, come dicevo, materia estremamente delicata, e vanno trasmesse assieme alla consapevolezza che si tratta di possibili modalità di lettura della storia, e non di chiavi magiche che aprono al suo senso: e che ogni angolo prospettico va confrontato con gli infiniti altri, non per contraddirli o negarli, ma anzi, per trarne conforto e ulteriori stimoli. È una cosa meno facile di quanto possa sembrare: le idee forti, i modelli interpretativi ad alto tasso di assertività esercitano un’indubbia attrattiva sulle menti adolescenziali (e non solo su quelle), che hanno bisogno di spiegazioni semplici, di un “senso” all’interno del quale e in funzione del quale collocare gli eventi storici. Ma d’altro canto queste suggestioni “integraliste” sono una tappa obbligata nel cammino di chi va alla scoperta della storia. Importante è che non rimangano l’ultima: cosa che invece accade quando le alternative offerte non sono altrettanto seducenti.
Per chiudere torno dunque al colore e al mio sussidiario di terza elementare. In esso anche gli opliti di Leonida o i legionari romani erano rappresentati con figurine coloratissime, quanto attendibili nella ricostruzione dell’abbigliamento non so, ma senz’altro capaci di colpire la fantasia, tant’è che ancora le ricordo. In quello di mio nipote le figurine sono state sostituite da fotografie di statue o di monumenti classici, molto belle, per carità, ma tendenti a indurlo a pensare che gli uomini dell’antichità fossero di marmo e che Atene e Roma fossero imbalsamate in un sudario bianco. E come tali, ben poco vivaci e interessanti. Allo stesso modo, per riallacciarmi a quanto dicevo sopra a proposito dell’aneddotica, sono scomparsi dalla narrazione Muzio Scevola e Attilio Regolo, col risultato che della divisione in tribù e in curie, meticolosamente descritta, e dei comizi curiati o centuriati non ricorda già ora nulla, e nemmeno gli è rimasta traccia di quegli episodi simbolici che trasmettevano comunque l’idea di un certo modo di concepire il rapporto tra individuo e stato.
Quindi? Quindi l’argomento è troppo complesso per essere affrontato e liquidato in quattro paginette. Ma anch’io, che pure adolescente non sono più da un pezzo, ho conservato alcune idee semplici e forti, e approfitto di ogni occasione per ribadirle. Non devo argomentare e giustificare l’utilità dello studio della Storia, lo hanno già fatto moltissimi altri, a partire almeno da tremila anni fa, da quando una rudimentale coscienza storica è comparsa a connotare in maniera ancor più netta la “diversità” del genere umano. E neppure intendo entrare nel merito di “cosa” della storia si è fatto, altro tema dai risvolti infiniti. No, semplicemente volevo esprimere la mia preoccupazione per l’uso che se ne farà una volta che nella stragrande maggioranza degli umani quella coscienza storica si sarà atrofizzata: perché questo è il processo in atto, non so dire quanto sapientemente guidato o quanto irresponsabilmente accettato. La riduzione della Storia a spettacolo, a merce culturale, ne rappresenta oggi l’aspetto più fastidioso, in quanto più immediatamente visibile: ma dietro ci sono la sostanziale cancellazione della conoscenza storica, la sua perdita di profondità, il suo appiattimento sul presente, il leopardiano (ma già omerico) “trascolorar del sembiante”, e quindi la sua continua possibile riscrittura su richiesta (on demand, si usa oggi) dei nuovi committenti: dietro c’è un futuro senza conoscenza, e quindi senza coscienza storica.
Non posso assistere inerte a questa deriva, anche se di quel futuro ne vedrò poco. Credo sia doveroso ostinarsi a chiarire, a sé e agli altri, che le colorazioni con filtri speciali, del tipo di quelle operate sui vecchi film western, rovinandoli e falsandone completamente l’aura, così come gli interventi di restauro radicale, che cancellano quella patina del tempo che della storia è segno distintivo, non sono affatto dei rimedi, e la deriva anziché arginarla l’accelerano. Ridare colore alla storia non significa cambiare l’ordine degli eventi o ricalibrarne la rilevanza. Significa molto più semplicemente ricaricare lo sguardo che ad essa rivolgiamo di quello stesso stupore e di quella curiosità che l’hanno originata.