Anni perduti – e da dimenticare

(appunti sparsi sullo stato mio e della nazione)

di Paolo Repetto, 24 dicembre 2022

Nel solco di una tradizione recentissima, inaugurata su questo sito solo dodici mesi orsono con lo scritto sui Buoni propositi, propongo un sintetico resoconto dell’anno che sta mestamente per chiudersi. È un bilancio da economia domestica, nel quale si mescolano le voci più disparate: ma proprio per questo credo corrisponda nella maniera più veritiera a ciò che tutti abbiamo percepito di un anno decisamente infausto.
In questa prima parte ho inserito senza aggiornarle alcune riflessioni maturate nel corso dell’estate: non vanno oltre il livello di una bozza, ma mi sembra rimangano tuttora valide. A breve saranno postate quelle più recenti. Mi propongo di sviluppare meglio in futuro alcuni degli argomenti toccati, ma prima di tutto spero di muovere anche altri ad occuparsene. A quanto pare il mio ottimismo resiste, è a prova di sanità pubblica e di imbecillità private, di crisi energetiche e di smottamenti a destra. Per questo non ho ritegno a fare (e a farmi) ancora gli auguri.

Anni perduti 01

Se esiste una mente universale,
deve necessariamente essere sana?

La Débâcle

Non piove praticamente da nove mesi. Fiumi in secca, laghi che scompaiono, ghiacciai che si sciolgono o si disintegrano a ritmi sempre più accelerati. Mentre i campi e le risaie sono bruciati dall’arsura, le sorgenti e i rubinetti cominciano a tossire. Di quando in quando, con frequenza incalzante, arriva una tromba d’aria a movimentare un po’ il paesaggio. Da qualche giorno poi hanno ripreso a crepitare anche gli incendi. La peggiore siccità dell’ultimo secolo, si dice, ma solo perché non sono possibili raffronti con quelli precedenti. Saranno anche fenomeni in larga parte indipendenti dalle attività umane, come testimonia la ciclicità delle glaciazioni, ma non si può negare che l’umanità ci stia mettendo molto del suo, con comportamenti che moltiplicano gli effetti degli sconquassi naturali.

Anni perduti 02

In compenso sono ricomparsi il covid, che s’inventa sempre nuove varianti, e l’inflazione, invocata fino a ieri come la pioggia, ma subito sfuggita di mano e schizzata a due cifre: e soprattutto la violenza, tanto quella pubblica come quella privata. Qui la natura non c’entra, facciamo tutto da soli.

La violenza internazionale è riesplosa improvvisa persino nel vecchio continente. Anche se si mantiene stabilmente “a bassa intensità”, da febbraio il conflitto tra la Russia e l’Ucraina chiede il suo quotidiano tributo di morti (di quelli russi non si sa), desertifica intere regioni e le spoglia delle loro strutture produttive, impedendo tra l’altro l’esportazione di quel grano dal quale dipende la sopravvivenza di metà della popolazione africana. Di conseguenza questa a breve si sposterà con un esodo ben più che biblico verso le coste europee. Le sanzioni inflitte alla Russia dall’occidente si sono rivelate un boomerang, stanno logorando soprattutto le economie europee e hanno spinto i Russi nelle braccia sempre tese (a prendere) della Cina.

Anni perduti 03

In questo allegro panorama le “democrazie” occidentali sono guidate da governi deboli e da classi politiche decisamente incapaci. La nostra è neppure più guidata: siamo riusciti a mandare a casa anche il meno peggio, e affideremo tra un paio di mesi il nostro destino al “paese reale”.

In situazioni come queste non esiste una terminologia capace di rendere appieno l’entità di quanto sta accadendo. Almeno nella lingua italiana, che in linea con il nostro modo di pensare bada più a lasciare spazio alle sfumature sottili di significato, consentendoci di giocare con interpretazioni ambigue o riduttive. Il francese, invece, dispone quasi sempre della parola giusta, capace di riassumere tutti i sinonimi e di andare oltre. Lo abbiamo già visto in un’altra occasione, con bêtise. Nel caso attuale la parola appropriata e definitiva mi sembra débâcle, che sta per sconfitta, disfatta, batosta, resa umiliante, disastro, sfacelo, fallimento, ecc., e sottintende un ampio margine di responsabilità umana.

Il riassunto che ho fatto è ovviamente tanto generico da sembrare banalmente superfluo: il disagio che tutti quanti stiamo vivendo è evidente, anche se si manifesta nei modi più disparati. Ogni tanto però fa bene anche sintetizzare la situazione in un quadro generale, perché di norma tendiamo a preoccuparci dei singoli problemi uno alla volta: il che è normale e comprensibile, ma finisce poi per distrarci dal guardare in faccia l’aspetto più angosciante e immediato della tragedia, che è proprio lo stato del “paese reale”.

(luglio 2022)

 

Un paese di farlocchi

Giudicato in base all’immagine che ci torna dai media, il paese reale è una jungla (secondo la stampa) o un serraglio di deficienti (secondo la televisione). Sappiamo però che i media non raccontano la verità, e allora proviamo a fidarci dei nostri occhi, del nostro intuito. Ci diciamo che questa è una falsa immagine, che in fondo a guardarci attorno siamo circondati da un sacco di gente normale, di persone che fanno il proprio lavoro, che non uccidono la moglie o i vicini di casa, non frequentano i siti pedofili e non incassano pensioni per finte invalidità.

Ed è anche vero: ma nemmeno questa è un’immagine oggettiva del paese reale. Certo, se evitiamo di frequentare le discoteche o i parchi cittadini, di uscire a fare quattro passi la sera, di andare allo stadio per partite o mega-concerti, di partecipare alle adunate politiche, di farci candidare alle amministrative o semplicemente alla rappresentanza condominiale, allora sì, abbiamo l’impressione che tutto sommato le cose funzionino. Ma se soltanto usciamo di un passo dal perimetro di sicurezza che ci siamo ritagliati, e che si riduce ogni giorno di più, allora il paese reale lo incontriamo davvero.

C’è una quotidianità che non possiamo ignorare, a dispetto dell’ottimismo della volontà cui facciamo sempre meno convintamente ricorso. Parlo delle piccole irritazioni dalle quali siamo continuamente assaliti, dal momento in cui scendiamo a buttare la spazzatura a quello in cui cerchiamo di prendere sonno a dispetto di sagre, di sfide motoristiche notturne o di cani che latrano tutta la notte alla luna, anche quando la luna non c’è. Parlo della sensazione che nulla sia più sotto controllo, che se ci è andata bene oggi già domani potremo imbatterci in un pazzo o in un cinghiale in libertà, o trovarci coinvolti in un crack finanziario di cui nessuno alla fine sarà tenuto responsabile e tutti (o quasi) pagheranno le conseguenze. Non è questione di catastrofismo: è evidente come su questa percezione pesi anche il battage dei media, ma lo è altrettanto il fatto che lo smottamento sociale procede palpabile e accelerato. Questo è il “paese reale”.

Del quale, naturalmente, facciamo parte anche noi. Ne fanno parte i piccolissimi e costanti cedimenti alla non legalità o alla non correttezza cui siamo costretti per sopravvivere (anche perché quali siano la legalità e la correttezza non è mai ben chiaro), che riusciamo a giustificare con sempre meno rimorsi e ai quali ci stiamo velocemente assuefacendo.

Da sociale dunque il problema diventa in prima battuta individuale. Lo smottamento coinvolge anche noi, già per il solo fatto, quando non troviamo una risposta credibile al “cosa posso farci io, concretamente” (di fronte all’inquinamento, ai cambiamenti climatici, al degrado sociale, culturale, scolastico, linguistico, ecc…) di assistervi inerti. E peggio ancora va quando la risposta la diamo abbracciando posizioni che non tardano a diventare ideologiche, quando chiamiamo a responsabili tutti gli altri, quelli che si ostinano a non capire, dall’alto di una nostra presunta (e presuntuosa) esemplarità.

Anni perduti 04

Qualche giorno fa (per la precisione il 19 giugno) Luca Mercalli, meteorologo, climatologo e divulgatore scientifico superdecorato e onnipresente in tivù, ha tenuto a Lerma una “Chiacchierata ecologica”, per spiegare al popolo quanto gravi siano i problemi ambientali, quanto siamo in ritardo per risolverli e quali piccoli accorgimenti comportamentali ciascuno di noi può adottare da subito per dare un suo contributo. Tutte cose molto giuste e vere, supportate da fior di dati sull’oggi e di proiezioni sul domani, in una serata talmente afosa da far percepire sulla loro pelle agli astanti la portata dei cambiamenti climatici. Tanto che ad un certo punto qualcuno ha pensato di procurare a un Mercalli grondante sudore un paio di bottigliette di acqua minerale. Lo avesse mai fatto! Le bottigliette (di plastica) sono state sgarbatamente respinte dall’oratore, in coerenza perfetta quanto al merito con ciò che andava predicando sull’inquinamento, ma molto meno, quanto ai modi, con quel che pretendeva di insegnare sui comportamenti. Dubito che la chiacchierata abbia segnato qualche punto a favore della causa ambientalista. Il giorno successivo nessuno probabilmente ricordava qualcosa dell’argomento, ma tutti avevano ben presente la malagrazia dell’illustre ospite. Mi sembra un esempio palese di come ogni integralismo, anche quello applicato a giuste cause, finisca per perdere di vista quello che è il nocciolo di qualsivoglia problema sociale, ovvero la mancanza di buona educazione.

(luglio 2022)

Anni perduti 05a

Un fil di fumo

Avrei svariati motivi per sentirmi a terra. Alcuni sono indubbiamente seri, e richiedono continui e sempre più faticosi colpi di reni per rialzarsi. Altri, non meno seri, sono comuni a tutti, riguardano la situazione politica, e più ancora quella ambientale, ma sembrano ormai sfuggire ad ogni nostra possibilità di controllo e spingono alla rassegnazione. Altri ancora, invece, possono apparire decisamente futili, sono sindromi del tutto personali, ma per accumulo provocano alla lunga un’insostenibile pesantezza.

Io patisco soprattutto questi ultimi, nel senso che ai primi bene o male reagisco, mentre di fronte ai cumuli di cretinate mi sento impotente. Soffro di una sensibilità addirittura morbosa per la stupidaggine, segnatamente nei confronti di quella che viaggia col passaporto “culturale”. Mi arrabbio ad esempio se sento su RaiTre che vogliono consacrare a museo un appartamento abitato da Pasolini per qualche mese, interrompo immediatamente la lettura di un saggio filosofico sull’avventura quando vi trovo scritto che nel 1794 le truppe napoleoniche (?) marciavano sulla superficie ghiacciata del Reno, spengo il televisore se mi propone un dibattito sul sacro cuore di Maradona o un concerto polemico del maestro Muti, diserto le mostre sui cugini o sui vicini di casa degli impressionisti, ma anche quelle sugli impressionisti stessi, e le conferenze degli storici a gettone. Va da sé poi che evito come la peste i film che “devi” vedere, i libri che “devi” leggere, i musicisti che “devi” ascoltare per non sentirti fuori sintonia. Intendiamoci, ciascuno è libero vedere e leggere e ascoltare ciò che gli pare, purché non pretenda poi di dettare più o meno larvatamente un canone.

Un’attitudine di questo tipo crea naturalmente dei problemi. A volte mi sento sotto assedio, soprattutto quando vedo cannibalizzati e banalizzati a merce di consumo interessi, argomenti, personaggi che coltivo da sempre con devozione quasi religiosa. Allora trovo conforto solo nel mio frutteto, e più ancora nella mia biblioteca, che un filtro sessantennale ha reso affidabile, ma che mi spinge inesorabilmente a guardare indietro. È la depressione post-postmoderna. O forse è solo lo scotto da pagare all’invecchiamento galoppante, uno scotto nel mio caso particolarmente pesante perché si somma ad una disposizione congenita. Insomma, è dura.

Non voglio però ricominciare con le geremiadi: al contrario, voglio testimoniare che è possibile, sia pure per qualche attimo, uscire dal rigor mortis della post-modernità e da quello dell’ineluttabile consapevolezza della propria irrilevanza. Che quando sembra nulla valga più la pena di essere visto o ascoltato, tentato o sperato, basta davvero poco a squarciare la bruma grigia che avvolge il mondo.

Anni perduti 05

È accaduto la primavera scorsa. Incontro per una conversazione extracurricolare un paio di classi terminali dell’ultimo liceo che ho diretto, su sollecitazione di un docente col quale si è creata una buona sintonia. Logorroico e semirimbambito quale sono, la tiro in lungo per quasi due ore, ma constato con crescente meraviglia che non uno dei cinquanta ragazzi presenti si alza e si assenta per urgenze: il che, stante la debolezza ritentiva dei nostri giovani, è quasi un miracolo. Non solo: dal momento che amo conversare deambulando, posso realizzare che nessuno si trastulla con lo smartphone, risponde a messaggi o si addormenta con gli occhi aperti (se accadesse, non la tirerei così in lungo). I ragazzi mi seguono con lo sguardo, avanti e indietro, come in una partita a tennis al rallentatore, e non in ossequio ad ordini di scuderia, né per una particolare reverenza dovuta a un dirigente: quando sono entrati in quel Liceo me n’ero già andato da un pezzo, e non mi hanno mai visto, e comunque quella forma di rispetto per i ruoli è venuta meno da un bel pezzo. Forse è l’argomento a intrigarli, perché la conversazione viaggia un po’ fuori degli schemi, ma alla fin fine non si parla né di calcio né di Greta Thunberg, della crisi ambientale o dei problemi adolescenziali: si parla di filosofia, o meglio, delle possibili e conflittuali visioni del mondo che stanno dietro ogni nostra scelta o comportamento. Non devo interrompermi nemmeno per un secondo, malgrado in queste occasioni sia molto esigente rispetto all’atteggiamento dell’uditorio: e magari m’illudo, ma ho l’impressione che quei ragazzi capiscano tutto ciò di cui sto parlando, anche se molte delle cose tirate in ballo non sono loro affatto consuete. Insomma, ne esco stupito, mi prende persino un po’ di nostalgia dei bei tempi dell’insegnamento, cosa che non mi capitava più da quel dì.

Ora, il passaggio logico successivo, quello che ci si aspetta (e arriva inesorabilmente) nei talk show, dovrebbe essere un proclama di assoluta fiducia nei giovani e di speranza che saranno loro a salvare il mondo. Invece no. Non nutro alcuna fiducia speciale nei giovani, non ne ho motivo, ma allo stesso modo in cui non la nutro nei biondi o nei mancini o nelle persone che portano gli occhiali, o in qualsiasi altra categoria morfologica o anagrafica. I giovani oltretutto, purtroppo per loro, saranno tali solo per breve tempo. Non so se salveranno il mondo o lo affosseranno definitivamente, so soltanto che lo abiteranno nei prossimi sessanta o settant’anni e temo che non sarà uno spasso; senz’altro sarà meno facile di quanto lo è stato per noi. Credo però nelle persone educate e responsabili, e quindi intelligenti. Il passaggio successivo è dunque che mi sono stupito di trovarmi di fronte, raccolte in un’unica sala e nello stesso lasso di tempo, tante persone con queste ultime caratteristiche. Non c’ero più abituato.

Ho anche provato ad immaginare la stessa situazione retrodatandola di sessant’anni e spostandomi in mezzo all’uditorio. Che tipo di attenzione avremmo prestato io e i miei compagni? Senz’altro silenziosa, per una coazione tutt’altro che tenera alla disciplina (l’aver lasciato cadere una penna dal banco mi fece sbattere una volta fuori dalla classe, dopo una solenne lavata di capo), e magari anche un’attenzione genuinamente interessata, se il relatore e l’argomento trattato lo avessero meritato: ma non posso dimenticare che io stesso, per tanti aspetti allievo modello, seguivo le spiegazioni dei miei insegnanti con un doppio taccuino, uno per gli appunti e uno per le mie creazioni artistiche, sul quale annotavo però anche il ricorrere di certi intercalari, per determinarne in maniera quasi scientifica la frequenza e arrivare ad anticiparli; oppure sottolineavo l’uso di termini che potevano essere piegati ad un doppio senso (era il massimo della licenziosità che all’epoca potevamo permetterci). Altri si tenevano svegli con distrazioni non molto diverse. Insomma, dietro la facciata, come nei western all’italiana, spesso c’erano solo dei pali di sostegno e dei tiranti.

Per questo, se provo a mettermi nei panni dei miei insegnanti, credo che avrei nutrito forti dubbi di poter trarre qualcosa da quegli adolescenti pieni di brufoli e pateticamente presuntuosi. E invece il qualcosa è venuto fuori: non in termini di “successo”, che non considero un indicatore di rilievo, e del quale non ho mai tenuto un registro, ma senz’altro in termini di qualità umana. Non c’è un mio ex-compagno che non riveda o che non rivedrei con piacere.

La stessa cosa potrebbe senz’altro verificarsi domani per i ragazzi di quelle due classi. Magari a vederli poi in giro, l’uno accanto all’altro ma ciascuno immerso nei suoi social, siamo portati a scrollare il capo e a chiederci cosa ne sarà tra vent’anni, e difficilmente ci diamo risposte positive: ma questo è accaduto dai tempi di Adamo nei confronti di ogni nuova generazione, anche se la nostra attuale perplessità parrebbe più che giustificata dalla accelerazione impressa alle trasformazioni dei costumi e dei rapporti. Forse però dovremmo avere maggiore fiducia nella capacità umana di fare fronte a cambiamenti anche traumatici, in quella che oggi con un termine abusatissimo negli pseudo dibattiti televisivi e quindi sempre più vago viene definita “resilienza” (in questo caso assunta nel suo significato originario). Se in una qualsiasi occasione questi ragazzi hanno dimostrato collettivamente intelligenza e responsabilità, significa che possono essere intelligenti e responsabili. Basta dar loro l’opportunità di esserlo. Che siano poi anche giovani è un valore aggiunto, una condizione né necessaria né sufficiente.

Dove voglio arrivare, con tutto questo giro? Semplicemente al fatto che di norma prestiamo attenzione solo a quello che non va, che non funziona, che ci disturba, mentre ignoriamo piuttosto ciò che proprio perché funziona ci sembra scontato. Ecco, io credo che il gesto veramente rivoluzionario, l’unico ancora possibile, sia quello di non dare nulla per scontato, e meno che mai le manifestazioni di una intelligente normalità. Queste andrebbero al contrario sottolineate, in maniera sobria ed efficace, puntando sull’effetto emulativo che può avere la pura e semplice ripetizione. Non si tratta insomma di riesumare il premio “Livio Tempesta”, quello che si assegnava ai miei tempi ai bimbi buoni che si prendevano cura dei loro compagni sfortunati o dei nonni, o percorrevano il mattino chilometri di sentieri con l’amico disabile a spalla per arrivare a scuola (anche se rispetto a quelli che quotidianamente si distribuiscono per le motivazioni più insensate ci starebbe tutto): il sentir ribadire ogni mattina che un comportamento intelligente paga, in termini di risultati, ma prima ancora di amicizia e di rispetto di sé, potrebbe fornire qualche rassicurazione ai molti che sarebbero portati a tenerlo, ma sono resi dubbiosi sulla propria normalità dall’esemplificazione malefica proposta in maniera martellante dai media.

Sto cercando di dire, anche se temo di non essere stato abbastanza chiaro, che a dispetto di tutto abbiamo ancora la possibilità di fare qualcosa. Come, lo vedremo la prossima puntata (e stavolta la prossima puntata ci sarà davvero).

(agosto 2022)

Anni perduti 06

Andai nei boschi e … inciampai

di Fabrizio Rinaldi, 20 giugno 2021

C’è in tutti noi un limite alla tolleranza, superato il quale c’è chi spara, chi sbraita, chi fa finta di nulla e tira dritto divenendo indifferente: e poi c’è chi scrive. In questo ultimo caso non lo si fa per trovare altri che la pensino al nostro stesso modo, o per convincerli a farlo, ma per non sparare o per non mettersi a urlare. Io il limite l’ho toccato leggendo una frase semplicissima, apparentemente innocente, che recensiva l’ennesimo libro-fotocopia di Tiziano Fratus sugli alberi: “Venite a camminare nei boschi, le foglie vi insegneranno saggezza”. A quanto pare ho soglie di tolleranza basse.

Le foglie vi insegneranno la saggezza! No, non ne posso più dei professionisti della fitness naturistica, di chi celebra le proprietà salvifiche dello stare nei boschi, di chi propina cure antidepressive basate sul vivere nel verde, di chi crede al potere rigenerante dell’abitare nelle campagne, e lo fa dal teleschermo o ingolfando le librerie.

Io in mezzo alla natura ci vivo da sempre. Sono nato e cresciuto fra le colline dell’ovadese, sin da piccolo ho rastrellato campi, zappato l’orto, vendemmiato, sfrondato rami e sistemato balle di fieno nella cascina dei nonni. Divenuto adulto, ho finito per fare altro di mestiere, ma ho perseverato nel vivere in campagna piuttosto che in città, proprio per gli indubbi vantaggi di tranquillità, benessere e, non ultimo, di un costo della vita più vicino alle mie possibilità.

Un po’ dunque la campagna la conosco, e so per esperienza che queste cose sono in parte vere. So anche, questo per un po’ di semplice buon senso, che l’essere umano nella natura ci sta a suo agio da sempre (senza che qualche sapientone glielo spieghi), e so persino che ciò è possibile, tra l’altro, per la presenza nel sottobosco, nell’orto e un po’ ovunque nell’habitat naturale, del batterio Mycobacterium vaccae che, attivando il rilascio di serotonina, riduce l’ansia e favorisce il rafforzamento del sistema immunitario.

Ci vivo, ma non sono più saggio di chi abita nella metropoli solo perché distinguo l’acero dal pino. Le foglie rastrellate in autunno non mi hanno mai svelato il vero significato della nostra effimera esistenza. Sarò insensibile ai poteri sapienziali dell’ambiente naturale (che poi di “naturale” non ha più nulla) ma, pur riconoscendo i privilegi dello stare qui piuttosto che a Marghera o a Rovereto, non ne ignoro i costi in fatica fisica e scomodità.

Quindi mi sento in diritto di dire la mia. Che non è poi solo la mia. Se proviamo a domandare a chiunque viva di prodotti agricoli – ma “viva” davvero di questo e non sia un millantatore –, dirà che sì, vivere nel verde è delizioso, ma anche che “la terra è bassa”. Che cioè per ripagarti con uno stipendio appena appena dignitoso ti chiede una gran fatica. È bello vedere ex-direttori di banca o rampolli di buona famiglia che si reinventano come imprenditori agricoli di successo: sarebbe però interessante anche capire di quali risorse, e relazioni, hanno potuto disporre, e soprattutto se tutto questo ha ancora davvero a che fare col vivere nella natura.

Andai nei boschi e inciampai (3)Perché anche già soltanto a viverci, nella natura, è fatica. Dopo una nevicata, anziché fermarmi a rimirare romanticamente il paesaggio innevato, se voglio raggiungere il posto di lavoro in tempo o accompagnare le bimbe a scuola devo armarmi di pazienza, pala, turbina e … spalare, senza contare troppo su aiuti esterni. Arrivata la primavera è necessario porre rimedio agli effetti di neve, acquazzoni, frane e altre amenità più o meno naturali, andando a tagliare gli alberi stroncati dalle gelate e dal peso dei fiocchi, a liberare i fossi, a ripristinare il muretto di contenimento e così via.

Ci sono poi i disagi nei rapporti col “mondo esterno”, quello che sta là fuori. Ad esempio, la reale velocità di internet che posso raggiungere qui: di vedere l’ultima serie su Netflix certamente me lo scordo (non che mi interessi particolarmente, però ogni tanto un film …), ed è già un miracolo che le mie figlie siano riuscite a seguire le lezioni in DAD durante la pandemia, tra continue interruzioni di rete e voli funambolici dalla connessione della saponetta internet di casa all’hotspot del cellulare.

Le distanze per fare acquisti, necessari e superflui che siano, sono oggettivamente irrisorie. Ciò che non trovo qui vicino posso facilmente trovarlo, ordinarlo e averlo in pochissimi giorni attraverso Amazon. Ma se voglio andare oltre il facile acquisto e visitare ad esempio una mostra devo spostarmi di almeno 30-50 km. Per capirci: in questi giorni è uscito un documentario intitolato “Paolo Cognetti. Sogni di grande nord”, che mi intrigava molto: ci ho rinunciato, perché lo proiettavano solamente per pochissimi giorni, e solo in alcuni cinema di Genova e di Cuneo. Non proprio a due passi.

Peccato, perché prometteva bene: l’autore di “Le otto montagne” e il suo amico Nicola Magrin (bravo illustratore dei libri di Rigoni Stern, Levi, Terzani e molti altri) raccontano il loro viaggio a piedi in Alaska, citando la gran parte degli scrittori di viaggi e natura a me cari. Potrà sembrare una piccola rinuncia, ma io ci tenevo molto. Per un motivo molto semplice.

L’aver letto i moltissimi autori che dal Romanticismo in poi hanno trovato negli spazi naturali la loro ispirazione mi aiuta ad accettare i disagi e le fatiche dello stare qui. È confortante sapere che personaggi del calibro di London, Kerouac, Chatwin (beh, lui no: si sa che era refrattario allo sforzo), Thoreau, Emerson, Frost, Krakauer e gli italiani Calvino, Pavese, Rigoni Stern, Camanni, hanno provato la fatica dello stare in natura. A ragion veduta Leopardi scriveva: “O natura, o natura / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?” (da “A Silvia”).

Mentre metto via la legna per l’inverno penso al “vecio” Rigoni intento a fare altrettanto. Quando squarcio la neve per raggiungere l’auto che ho lasciato prudentemente in cima alla salita lo faccio meglio se rivado ad una situazione simile raccontata nei fumetti di Ken Parker. Se grondo sudore a zappare mi viene in mente ciò che fece Thoreau nei primi mesi del suo isolamento: non lesse, ma piantò fagioli.

La cosa funziona: nel senso che se condivisi con i miei eroi anche i gesti più banali, i lavori più ripetitivi, acquistano subito un altro sapore. Ciò non toglie che i gesti occorra compierli e i lavori affrontarli. La saggezza, l’equilibrio, il benessere, vengono da quelli, e non dalle foglie. Quando sai che la terra è bassa ci cammini sopra in un altro modo: meno leggero, magari, ma più consapevole.

Quindi: venite pure a camminare nei boschi, ma assieme alle bibite e ai panini portatevi dietro tanto buon senso. Non sperate di vederlo colare dai rami delle piante. I boschi non insegnano nulla, ci offrono solo l’occasione di concentrarci un po’ di più su noi stessi. Lo dice anche Thoreau in Walden o vita nei boschi: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”.

“Quanto essa, la vita, e non le foglie, aveva da insegnarmi”. È noi che dobbiamo interrogare, e i testi delle domande non ce li devono scrivere i nuovi guru naturisti. E se non siamo in grado di farlo da soli, allora ce li meritiamo.

Andai nei boschi e inciampai (5)

Thoreau descrive nel suo libro una esperienza di vita appartata, lontano dai rumori e gli odori delle città, ma non al punto da impedirgli di incontrare ogni tanto qualcuno con cui dialogare. Credo che questa sia la condizione che ho cercato anch’io nel luogo dove abito. Pur ammettendo una certa affinità con Dinamite Bla che, nei fumetti Disney, dal suo Cucuzzolo del Misantropo, caccia i seccatori con l’archibugio caricato a sale, mi reputo una persona accogliente, propensa all’ascolto e ad imparare dagli altri quando hanno qualcosa da insegnargli. In me convivono la propensione a un pensiero non conformista e una sensibilità ai temi ambientali, ma ritengo che questi debbano essere vissuti nel quotidiano, in un rapporto concreto, e quindi non idealizzato, con il luogo dove vivo: solo su questa base si possono fare scelte, personali e/o politiche, fondate e non velleitarie, per non divenire preda di inciviltà. In tal caso, dietro la porta non ho il fucile, ma – a ragion veduta – l’arco e le frecce. Non si sa mai.

Andai nei boschi e inciampai (2)

Tutto sommato sono ottimista. C’è una qualche speranza di essere per il futuro in buona compagnia: negli ultimi anni è comparsa un’innegabile attenzione per i cambiamenti climatici, una consapevolezza che non esisteva negli anni del dopoguerra e del boom economico. Per i più questa consapevolezza si ferma all’acquisto di prodotti bio o alla raccolta differenziata, ma certamente ci sono anche molti che provano davvero ad attuare scelte di minor consumo, magari non acquistando l’ultimo libro che parla delle interazioni bioenergetiche fra gli alberi, bensì provando a piantar pomodori invece che comprarli.

È una scelta complessa, e sicuramente elitaria, poiché non è concepibile una popolazione intera che viva in modalità “minimalista” (non in “decrescita felice” perché – a parer mio – i termini sono incompatibili), e spersa nelle campagne e sulle montagne perché in antitesi con un’economia basata sull’acquisto di scempiaggini.

Il vero salto di qualità comporterebbe divenire parte integrante della classe politica ed imprenditoriale, per incoraggiare dall’interno queste diversità: ma temo che per questo, sempre che sia poi realisticamente possibile, ci vorrà ancora qualche scossone.

La natura i suoi avvertimenti li dà, e da un bel pezzo. Sta a noi finalmente svegliarci dal torpore del “benessere” a buon mercato, e coglierli. Ma dobbiamo farlo con la nostra testa, senza abbracciare nuovi credi e religioni. I credi e le religioni nascono tutti con buonissimi intenti, ma finiscono poi inevitabilmente per creare delle chiese, un clero, dei dogmi, e per riaddormentare le coscienze. Qui si tratta invece, ad esempio, di volere e realizzare (in qualche caso, perché no, anche imporre) delle scelte di presidio “vero” del territorio, che non può essere demandato – e lo vediamo benissimo tutti i giorni –alle istituzioni, ai carrozzoni delle protezioni civili o alle giornate di pulizia dei fiumi o dei boschi, ma va gestito direttamente (e quindi, in qualche forma non assistenzialistica) proprio dalle comunità appartate territorialmente: questo non solo per garantire la cura costante di luoghi che oggi corrono verso lo sfacelo idrogeologico, con contraccolpi anche nelle città (vedi le inondazioni che immancabilmente avvengono alla prima pisciata del cielo), ma anche per innescare fiducia in un modello di convivenza differente e possibile.

Insomma, dobbiamo finirla di guardare alle scelte di vita appartate e rurali come ad esperienze “strane”, eccezionali, buone per i servizi televisivi dei programmi “verdi”, chiuse in se stesse e riservate a pochi eletti, o ad originali e un po’ strambi con l’archibugio sempre a portata di mano, che sopravvivono grazie alle melanzane coltivate nell’orto. La valorizzazione realistica e concreta (e non la spettacolarizzazione) delle micro-economie ancora esistenti o di quelle che stanno rinascendo e delle esperienze sociali a queste connesse può offrire grossi spunti di riflessione per ragionare su un’economia fondata su differenti paradigmi e su modi diversi di stare al mondo. Leggere la diversità sociale come un gesto artistico è né più né meno come marginalizzarla. Leggerla come una possibilità concreta, diffusa, terra terra, è un antidoto alla monocultura consumistica.

Non abbiamo bisogno di nuovi evangelisti. Sono sufficienti onesti divulgatori, che non traducono il linguaggio delle foglie, ma sanno fare quattro conti su costi e ricavi “globali” dei diversi tipi di rapporto con la terra, e sanno che la terra è bassa. Alla Carlo Petrini, per intenderci.

Andai nei boschi e inciampai (4)Collezione di licheni bottone

Uomini che (si) amano troppo

di Paolo Repetto, 2011

Ho letto per la seconda volta, a distanza di un paio d’anni, la Lettera a D. di André Gorz. La prima non mi aveva convinto. Con gli scritti di Gorz non mi era mai capitato, ma in questo caso qualche perplessità poteva anche starci, perché non si trattava di un’opera di filosofia o di politica. Per questo ho lasciato decantare l’impressione immediata, con l’intento di tornarci sopra a freddo. In realtà non è cambiato nulla.

La Lettera a D. (sottotitolo: Una storia d’amore) è l’ultima opera di Gorz, pubblicata un anno prima della morte. Un’opera che ha stupito e commosso, perché apparentemente “eccentrica” (ma solo apparentemente) rispetto agli interessi politici, economici e sociali del filosofo francese. È indubbiamente il racconto di una storia d’amore (già qui, però: perché sottolinearlo? non sarebbe meglio lasciar giudicare al lettore di che cosa davvero si tratta?), la storia intensa e dolcissima che per mezzo secolo ha legato André e sua moglie Dorine, e li ha condotti a scegliere a più di ottant’anni di morire assieme. Il loro rapporto viene rivisitato dal suo nascere fino alla vigilia del drammatico finale, e si intreccia ad una vicenda intellettuale straordinaria, che ha sullo sfondo il dibattito interno alla sinistra nella seconda metà del novecento.

André (che in realtà si chiamava Gerard Hirscht, poi “arianizzato” in Horst, e apparteneva ad una famiglia dell’alta borghesia ebraica viennese) aveva conosciuto Dorine a Losanna, nell’immediato dopoguerra. Lei era una ragazza inglese con una vicenda familiare complicatissima alle spalle, sbarcata sul continente per tagliare i ponti e costruirsi una vita normale, ed era bellissima: più ancora, era dotata di quel fascino discreto e inattaccabile dal tempo che non è legato ad alcuna caratteristica fisica o intellettuale specifica, ma al perfetto equilibrio di tutte le caratteristiche (si chiama “classe”, e solo pochi, uomini o donne, lo possiedono). I due si erano innamorati immediatamente: contro ogni aspettativa di Andrè (“Eri sovrana, intraducibilmente witty, bella come un sogno. Quando i nostri sguardi si sono incrociati, ho pensato: con lei non ho nessuna possibilità”) Dorine aveva corrisposto il suo sentimento e vinte le sue paure e indecisioni. Avevano quindi convissuto alla bohémienne in anguste camere d’affitto, si erano sposati e dopo un paio d’anni si erano trasferiti a Parigi, entrando nella cerchia “esistenzialista” degli anni cinquanta. Esiste una foto stupenda di quel loro periodo: hanno alle spalle la Senna, volti da dopoguerra, tirati e malinconici, e cappotti da primissimi anni cinquanta, eleganti nella loro sobrietà. Rimandano a certe atmosfere dei film di Truffaut, ai bistrot, a camere fredde e a lettini stretti da dividersi in due. Vorrei fermare sullo sfondo questa immagine, mentre faccio velocemente scorrere il ricchissimo percorso intellettuale di Gorz.

Al momento in cui conosce Dorine André è un laureato in chimica senza una lira e senza un lavoro, ma in possesso di buone conoscenze economiche, di una decisa vocazione intellettuale e soprattutto di una discreta autostima, tutte cose che riversa per il momento in articoli non retribuiti per la stampa di sinistra. Una volta a Parigi, però, non tarda a farsi un nome come giornalista economico e politico: esordisce su Paris-Presse, per passare poi a L’Express di Jean-Jacques Servan-Schreiber. Più tardi sarà tra i fondatori de Le Nouvel Observateur e scriverà su Liberation. Nella prima fase il suo pensiero è influenzato soprattutto dalla filosofia francese degli anni trenta (il personalismo di Mounier), dalla scuola di Francoforte e dall’esistenzialismo sartriano: Marx è un riferimento d’obbligo, ma in una chiave molto “laica”. Per questo nell’opera d’esordio, un romanzo-saggio alla maniera di Sartre (Il traditore, del 1958), Gorz arriva alla conclusione che l’autonomia dell’individuo, intesa come piena autocoscienza storica ed esistenziale, che nasce “dall’esperienza della contingenza, dell’ingiustificabilità, della solitudine di ogni soggetto”, sta a monte di ogni trasformazione sociale; il che oggi magari appare scontato, ma in quegli anni non lo era affatto. Il marxismo culturalmente egemone affermava infatti esattamente il contrario, e cioè che la trasformazione sociale, e prima ancora quella del modo di produzione, quindi quella economica, sono la pre-condizione necessaria per lo sviluppo di una autonomia individuale. Fin da subito quindi Gorz viaggia in direzione di quello che potremmo definire un “umanesimo socialista”, che non c’entra nulla con la socialdemocrazia, nei confronti della quale è anzi estremamente critico, ma persegue un socialismo a misura dell’uomo, che non livelli e non neghi, ma al contrario esalti le differenti potenzialità e aspirazioni individuali. Egli stesso sintetizzerà più tardi così la sua concezione: “Noi nasciamo a noi stessi come soggetti, vale a dire come esseri irriducibili a ciò che gli altri e la società ci chiedono e ci permettono di essere. L’educazione e la socializzazione, l’istruzione, l’integrazione ci insegneranno ad essere Altri tra gli Altri, a rinnegare questa parte non socializzabile che è l’esperienza di essere soggetto, a canalizzare le nostre vite e i nostri desideri in percorsi ben definiti, a confonderci con i ruoli e le funzioni che la megamacchina sociale ci impone di assolvere.

Sono questi ruoli e queste funzioni che definiscono la nostra identità di Altro. Essi eccedono ciò che ognuno di noi può essere per se stesso. Ci dispensano o persino ci impediscono di essere per noi stessi, di porci questioni sul senso dei nostri atti e di assumerli. Chi agisce non è “io” ma la logica automatizzata delle disposizioni sociali che agisce attraverso di me in quanto Altro, mi fa concorrere alla produzione e riproduzione della megamacchina sociale. Essa è il vero soggetto. Il suo dominio si esercita sui membri degli strati dominanti altrettanto che sui dominati. I dominanti non dominano se non nella misura in cui la servono da leali funzionari. È soltanto nei suoi interstizi, nei suoi margini che sorgono soggetti autonomi attraverso i quali la questione morale può porsi. Alla sua origine, c’è sempre questo atto fondatore del soggetto che è la ribellione contro ciò che la società mi fa fare o subire …

La questione del soggetto è dunque la stessa della questione morale. Essa è al fondamento dell’etica come della politica, dato che mette necessariamente in causa tutte le forme e tutti i mezzi di dominazione, vale a dire tutto ciò che impedisce agli uomini di comportarsi come soggetti e di perseguire il libero sviluppo della loro individualità come fine comune”.

Questa posizione è anche decisamente in conflitto con la moda culturale dominante all’epoca in Francia, lo strutturalismo, che pone al centro dell’analisi la struttura, e in pratica ignora o marginalizza il ruolo del soggetto e della soggettività1. Chiamandosi fuori dal coro dell’ortodossia marxista-leninista e schierandosi contro lo strutturalismo, Gorz ha scelto autonomamente il ruolo che interpreterà poi per tutta la vita, quello appunto dell’eretico, di chi si ribella contro ciò che la società vorrebbe fargli fare o subire: ma è un eretico che fonda la sua ribellione su una profonda cultura economico-politica. Nel tempo ha anche raccolto sterminati e aggiornatissimi dossier, che gli permettono di intervenire con cognizione di causa su ogni questione economica: e qui ritroviamo Dorine. La sua presenza, discreta ma mai defilata, è determinante; Dorine è colei che in qualche modo tiene il filo con l’esterno, soccorre André nelle crisi di sconforto, lo mantiene nei periodi di magra, mette ordine nella documentazione immensa che lui raccoglie. “Hai affrontato quasi allegramente un lungo anno di difficoltà… Le difficoltà ti davano le ali. Facevano cadere me nella depressione. Non ti ho mai detto all’epoca le ragioni del mio umore cupo. Me ne sarei vergognato. Ammiravo la tua sicurezza, la tua fiducia nell’avvenire, la tua capacità di afferrare gli istanti di felicità che si presentavano. Avevi più amici di me. Per me la vita difficile aveva un volto angosciante”. Anche nell’elaborazione intellettuale Dorine non è una semplice appendice, e meno che mai una distrazione o un freno. Pensa con la propria testa (“A poco a poco hai rifiutato di lasciarti influenzare. Meglio: ti ribellavi contro le costruzioni teoriche e in particolare contro le statistiche… Avevo bisogno di teorie per strutturare il mio pensiero e ti obiettavo che un pensiero non strutturato minaccia sempre di sprofondare nell’empirismo e nell’inconsistenza. Tu rispondevi che la teoria minaccia sempre di diventare un peso che vieta di percepire la fluida complessità del reale”), oppone ai vagheggiamenti teorici e agli eccessi introspettivi di André una sana concretezza, senza zavorrarlo coi problemi della quotidianità. “Quel giorno ho realizzato che tu avevi più senso politico di me. Tu coglievi la realtà che mi sfuggiva, a meno di corrispondere alla mia griglia di lettura del reale. Sono diventato un po’ più modesto”. È anzi la garante della sua autonomia di pensiero: intanto perché da brava inglese, con un robusto corredo storico-genetico di pragmatismo e di liberalismo, non gli concede alibi per le ubriacature ideologiche (“Tu osservavi con ansia, e a tratti con collera, la mia evoluzione procomunista”); poi perché per un sottile gioco psicologico avere al fianco una come Dorine mette Gorz in posizione di forza (prima di tutto, direi, proprio rispetto al gioco al massacro sentimentale ed intellettuale che si svolge nella cerchia di Sartre, che coinvolge anche Simone de Beauvoir e del quale sono vittime quasi tutti i devoti – e più ancora le devote – del “maestro”), in quanto la sua “rivolta” non può essere ricondotta ad alcun sospetto di revanscismo contro le iniquità della natura o contro l’alea di una nascita e di una appartenenza “marginale”. André è un uomo sentimentalmente appagato, anche nella più maschilista delle vanità: “Tutto adesso sarebbe potuto diventare semplice. La più radiosa creatura della terra era pronta a dividere la sua vita con me. Gli amici mi invidiavano, gli uomini si voltavano dietro di te quando camminavamo mano nella mano”. Ancora non lo sa, o meglio, come vedremo, rifiuta di ammetterlo, ma è questo che gli consente di percepire quanto siano importanti i rapporti interpersonali e affettivi, oltre e più di quelli di produzione (“Tu non avevi bisogno di scienze cognitive per sapere che senza intuizioni né affetti non c’è né intelligenza né significato”. Nel suo legame con Dorine si realizza l’ideale di due soggetti che perseguono un fine comune nel libero sviluppo della loro individualità.

Nei primi anni sessanta Gorz è chiamato da Sartre a collaborare a Les Temps Modernes. In breve arriva ad ispirare la linea politica della rivista, aprendola alle posizioni del gruppo “operaista” italiano (i vari Tronti, Garavini, Magri e soprattutto Trentin). I suoi interlocutori non sono i partiti storici della sinistra, ma il movimento sindacale e i gruppi della dissidenza “consiliare” e spontaneista. È il periodo nel quale la “nuova sinistra” idealizza una presunta volontà di palingenesi del proletariato, che non può che essere guidata dalla parte socialmente più cosciente di quest’ultimo, quella operaia, e che vede come oppositori non solo il sistema capitalistico, ma anche il progressismo tradizionale, accusato di aver operato da cinghia di trasmissione del modello produttivista e consumistico. A leggerlo oggi, il Gorz de “Le socialisme difficile” (1967) sembra in verità, a tutta prima, piuttosto “allineato”, almeno rispetto a quell’ossessione per una rilettura filologica di Marx nella quale si cercava l’imprimatur all’antiriformismo e ad una nuova prospettiva rivoluzionaria: parla di sindacalismo, di autogestione, di ruolo del partito, di rivoluzione necessaria e imminente, di terzomondismo, di quei temi insomma sui quali la sinistra si avvitava (e si sbranava) prima del sessantotto. È anche comprensibile che Dorine si preoccupasse e ci si arrabbiasse. Ma è necessario “storicizzare”, o come si dice oggi, “contestualizzare” la posizione di André nel clima di quegli anni. Ci si rende allora conto che il continuo rimando a Marx somiglia molto al richiamo alla purezza della dottrina originaria, alla lettera del vangelo, tipico degli eretici di ogni tempo, ma che l’esegesi talmudica dei testi sacri gli sta parecchio stretta. Questo spiega come mai nel sessantotto Gorz sposi con entusiasmo l’anti-istituzionalismo spontaneista dei contestatori, a differenza di quanto fanno ad esempio, da posizioni diverse, Adorno e Timpanaro, e in linea invece con Marcuse (col quale ultimo ha parecchie affinità, e coltiverà una sincera amicizia): per lui è la liberazione dalla necessità di “certificare” ogni idea, ogni proposta, col marchio di garanzia della parola di Marx. E spiega anche perché si affretti a denunciare la deriva autoritaria, negatrice di ogni autonomia individuale, che appare insita nel “maoismo” dominante all’interno della nuova sinistra francese. Questa posizione lo porta in pratica a rompere con Sartre, anche se sino all’ultimo riconoscerà il debito intellettuale nei suoi confronti (“Senza Sartre, probabilmente non avrei trovato gli strumenti per pensare e superare quel che la storia e la mia famiglia mi avevano fatto2), e con la sinistra movimentista. Nel 1974 si dimette da “Les temps modernes” e prosegue il percorso come battitore libero.

In realtà il distacco dall’operaismo si è già consumato da un pezzo. Nei primi anni settanta Gorz è entrato in contatto con Ivan Ilich e ha iniziato a focalizzare la sua attenzione sulle tematiche ecologiche, contribuendo a fornire al nascente movimento ambientalista dei solidi fondamenti teorici. Insieme a Dorine ha inoltre compiuto un viaggio negli Stati Uniti che gli ha fatto scoprire “una specie di controsocietà che scavava le sue gallerie sotto la crosta della società apparente, aspettando di poter emergere in pieno giorno. Mi ha aiutato a capire che le forme e gli obiettivi classici della lotta di classe non possono cambiare la società, che la lotta sindacale doveva spostarsi su nuovi terreni”. È caduta quindi un’altra pregiudiziale, quella che impediva all’epoca agli intellettuali europei di attendersi alcunché di buono dalla cultura americana. Il contatto diretto con un mondo nel quale lo sviluppo produttivo ha già toccato la sua punta massima, senza che le sue “contraddizioni” abbiano avviato qualsivoglia processo di consapevolezza e di risveglio proletario, sposta necessariamente l’angolazione prospettica: il problema reale non è quello del controllo dei mezzi di produzione, ma quello stesso della produzione. In Écologie et politique, del 1975, attacca da una posizione che potremmo definire eco-marxista la sottomissione della società, tanto di quella capitalistica quanto di quella comunista, agli imperativi e alla logica della ragione economica. Attraverso un pensiero fondamentalmente anti-produttivista (“Qualsiasi produzione è anche distruzione. Ma fintanto che lo sfruttamento produttivo delle risorse naturali non arriva al limite della irreversibilità, questo fatto può rimanere nascosto: e le risorse sembrano allora inesauribili … Gli effetti della distruzione sembrano interamente produttivi. O meglio. La distruzione è la condizione stessa della produzione”), egli combina il rifiuto della logica dell’accumulo di materie prime, di energie e di lavoro ad una critica del consumismo.

L’ecologismo di Gorz non è né un vezzo, una fuga in avanti a sottolineare la propria differenza e originalità né una diversione di percorso; è anzi perfettamente conseguente alla sua originaria rivendicazione del valore sociale della persona e dell’autonomia dell’individuo. L’ambiente di cui parla è un ambiente “umano” (e in questo si dissocia dall’ecologismo sistemico, che prescinde da ogni centralità umana): ciò che nuoce all’ambiente, che lo stravolge, è la logica del produttivismo e del profitto, sia essa declinata in senso capitalistico o collettivista; la stessa logica che condiziona e inquina i rapporti umani. (“La crisi attuale mostra dimensioni nuove che i marxisti, tranne qualche rara eccezione, non avevano previsto, e alle quali ciò che fino adesso si è inteso per socialismo non sa dare una risposta: crisi del rapporto tra gli individui e la stessa base economica, crisi del lavoro; crisi del nostro rapporto con la natura, col nostro corpo e poi con l’altro sesso, la società, la nostra discendenza, la storia; e crisi della vita urbana, del territorio, della medicina, della scuola, della scienza”). Il problema è quindi per Gorz la dominanza del pensiero economico, tanto nella tradizione marxista come in quella liberale.

La “rivoluzione ecologica” è da lui intesa come un cambiamento che non si limita a sovvertire i rapporti di produzione, ma investe i modi, e non solo quelli di produrre, bensì e anzitutto quelli di pensare. In “Écologie et Liberté” (1977) scrive: “Tutti coloro che, a sinistra, rifiutano di affrontare sotto questo aspetto la questione di una eguaglianza sociale senza sviluppo, dimostrano che il socialismo, per loro, non è che la continuazione, attraverso altri sistemi, dei rapporti sociali e della civiltà capitalistica, del modo di vita e dei modelli consumo borghesi (dai quali, d’altra parte, la borghesia intellettuale finisce per distaccarsi per prima, sotto l’influenza dei suoi figli e delle sue figlie)”: dove del marxismo tradizionale è rimasto solo qualche tratto del linguaggio. Questo non significa abiurare il marxismo, ma rileggerlo svincolati da ogni sudditanza verso le interpretazioni canoniche (e anche nei confronti di quelle tradizionalmente ereticali): “Il capitalismo dello sviluppo è morto. Il socialismo dello sviluppo, che gli somiglia come un fratello, ci rimanda l’immagine deformata non del nostro futuro, ma del nostro passato. Il marxismo, per quanto rimanga insostituibile come strumento di analisi, ha perso il suo valore profetico”. Il che permette a Gorz di ribaltare le accuse di utopismo (“L’utopia oggi non consiste affatto nel preconizzare il benessere attraverso la decrescita economica e il rovesciamento dell’attuale modo di vita; l’utopia consiste nel credere che lo sviluppo continuo della produzione sociale possa ancora portare ad un miglioramento delle condizioni di vita, e che tutto ciò sia materialmente possibile”) e di recuperare un tema dell’anarco-socialismo originario, quello dell’abolizione del lavoro salariato. Questo tema è presente in Adieux au prolétariat (1980), che è stato letto dalla sinistra tradizionale come una vera e propria apostasia, mentre in realtà è una contestazione del culto “liturgico” del proletariato, e viene ripreso e sviluppato in Misères du présent, richesse du possible, del 1997. Invece di abbandonarsi ad una rassegnata desolazione, quella che si risolve nella sinistra tradizionale in una difesa ad oltranza dell’indifendibile, Gorz cerca di evidenziare le possibilità che proprio lo stato ormai endemico di crisi economica sta facendo emergere. Se il lavoro si avvia a diventare un privilegio, e se questa situazione si presta ad essere utilizzata dal sistema per sopravvivere alle proprie devastanti contraddizioni, attuando la strategia del divide et impera nei confronti delle masse, occorre uscire dalla “società del lavoro”; il che non significa tutti al mare, ma tutti liberi dai “ruoli” sociali e dalle identità che nella società moderna, ormai agonizzante, erano conferiti proprio dal lavoro. Se fino a ieri è stato il lavoro a distribuire dignità e cittadinanza sociale, a gradi e in misure diverse a seconda delle tipologie e dei livelli di attività, e se oggi viene meno la possibilità per tutti persino di aspirare a questo tipo di asservimento, da domani l’espulsione dai ruoli produttivi dovrà essere spinta sino alle estreme conseguenze, sino all’emancipazione dall’obbligo lavorativo, liberando e coltivando le possibilità di scelte di attività autonome e individuali. “Occorre che il lavoro perda la sua centralità nella coscienza, nel pensiero, nell’immaginazione di tutti: bisogna imparare a guardarlo con occhi diversi: non pensarlo più come ciò che si ha o che non si ha, ma come ciò che facciamo. Bisogna osare voler riappropriarci del lavoro”. Il che non è, come Gorz non si stanca di sottolineare, un sogno utopistico, ma l’unica vera strategia di contrasto ad un futuro “tecnocratico” o all’apocalisse sociale.

Negli ultimi due decenni del Novecento le idee di Gorz hanno avuto eco anche al di fuori della Francia: è diventato un maître à penser, di nicchia, ma con un suo spazio non marginale di influenza. La sua analisi della deriva antiumanistica del capitalismo e delle conseguenti trasformazioni del mondo del lavoro e della società tout court viene oggi clamorosamente confermata dalla crisi di sistema in atto, e comincia ad essere riciclata in salse diverse, da destra e da sinistra.

A noi interessa però sapere cosa è stato, nel frattempo, del rapporto con Dorine. Di lì sono partito, ed è lì che voglio tornare. «Il senso (di questi anni) … è quello di una crescente condivisione delle nostre attività e nello stesso tempo una crescente differenziazione delle rispettive immagini di noi. Tu eri sempre stata più adulta di me e lo diventavi ancora di più. Decifravi nel mio sguardo una “innocenza” da bambino; avresti detto “ingenuità”». Lungo tutto il percorso che ho descritto Dorine ha continuato a fungere, oltre che da assistente, da moderatrice e da ispiratrice del pensiero di Gorz: nella parte finale assumerà sempre più quest’ultimo ruolo, purtroppo anche suo malgrado. Li abbiamo lasciati a Parigi, alla fine degli anni sessanta. Le loro condizioni economiche sono migliorate; pur continuando a condurre una vita volutamente spartana la coppia può cominciare a cercarsi un vero nido, fuori città. Con poca fortuna. Non hanno ancora terminato di sistemare la casetta in campagna fortemente desiderata da entrambi, e soprattutto da Dorine, che inizia nei pressi la costruzione di una centrale nucleare. Devono migrare altrove, il che li porta ad allontanarsi ulteriormente da Parigi e dai luoghi ufficiali di “produzione del pensiero”. La loro esistenza cambia, diventa sempre più appartata, e conseguentemente simbiotica; ma cambia anche la prospettiva dalla quale Andrè affronta il problema della condizione umana nella società capitalistica. L’episodio della centrale, la delusione, la rabbia, il senso di impotenza contro le logiche del profitto e della produttività, le ambiguità del pensiero progressista rispetto a questi aspetti del dominio del sistema, accrescono la sua insofferenza per lo sterile massimalismo della gauche post-sessantottina. Fuori dal pollaio dove le “avanguardie intellettuali” girano in tondo e si azzuffano su teorie e tecniche della rivoluzione ventura il mondo presenta ben altri problemi e urgenze. Questi vengono scoperti durante i viaggi all’estero, esperienze sempre condivise e tanto più ricche perché affrontate dai due con sguardi diversi ma complementari, attraverso gli incontri con Ilic e con altri “irregolari” del pensiero alternativo, o semplicemente nello scontro con la realtà banale e quotidiana della sofferenza. Il legame con Dorine si fa infatti ancora più stretto quando lei scopre di essere affetta da una malattia degenerativa indotta dai farmaci. A questo punto come abbiamo visto non è più il problema dello sfruttamento ad occupare tutta la scena, non è più l’operaismo: l’analisi si allarga a tutto l’ambiente, ad ogni tipo di rapporto, primo tra tutti in questo caso quello con la medicina e poi con ogni altra istituzionalizzazione del dominio capitalistico, dalla scuola alla cultura. Grazie a Dorine il privato è diventato politico per Gorz con largo anticipo; anzi, lo è sempre stato.

Mi sono soffermato a lungo sulla ricostruzione di questo percorso perché in una scala da uno a cinquemila, e saltando qualche passaggio (quello ad esempio dell’operaismo sessantottesco) è stato anche il mio. E anche perché un buon tratto di strada l’ho percorso proprio sulle orme di Gorz. Ma adesso, dopo aver riconosciuto i debiti, voglio arrivare finalmente a quel che non mi ha convinto della Lettera a Dorine.

Sarò franco, quasi tutto. Ho cominciato a scrivere queste righe proprio per darmene una spiegazione, dal momento che invece il libro è piaciuto a tutti coloro che l’hanno letto, in Italia come in Francia. Ci sono persino rimasto male, e ho dubitato che fosse un problema mio di insensibilità o di pignoleria. Forse in qualche modo lo è. Confesso infatti che esiste da parte mia un pregiudizio che sta monte di Gorz e della sua storia. Probabilmente nasce dal fatto che io penso in dialetto, e nel mio dialetto l’espressione “ti amo” non esiste nemmeno. Il che non significa che non esista il sentimento: semplicemente, c’è pudore ad esprimerlo. Non è paura: è rispetto per qualcosa che appartiene alla sfera dell’indicibile, o comunque del privato. Io credo che una vera storia d’amore non si possa e soprattutto non si debba raccontare. E questo, entro certi limiti, sembra ammetterlo anche Gorz: “Ero al secondo volume del saggio che doveva differenziare i rapporti con gli altri secondo una gerarchia ontologica. Ho avuto molte difficoltà con l’amore (al quale Sartre aveva dedicato circa trenta pagine di L’Essere e il Nulla), perché è impossibile spiegare filosoficamente perché si ama e si vuole essere amati da quella precisa persona con l’esclusione di tutte le altre. All’epoca non ho cercato la risposta a questa domanda nell’esperienza che stavo vivendo”. La risposta magari poi Gorz l’ha avuta, perché l’amore lo ha senz’altro conosciuto: avrebbe però dovuto anche capire, proprio perché l’ha trovata in un’esperienza unica, irripetibile, incomunicabile, che non solo non è possibile la spiegazione filosofica, ma nemmeno il puro e semplice racconto.

Non ritengo giusto che la storia la racconti uno dei protagonisti, perché questi ci fornisce la sua versione, e nulla garantisce che sia uguale a quella dell’amato. Anzi, non può assolutamente esserlo, perché ciascuno vive e sente l’amore a suo modo. Se si chiedesse a due innamorati di raccontare cosa cercano e cosa trovano nel loro rapporto sarebbe opportuno poi non far conoscere all’uno la versione dell’altro, perché l’amore finirebbe subito. Ma in definitiva, il fatto è che l’amore non può essere raccontato: quando davvero esiste è una cosa talmente intima, talmente viscerale che non può essere tradotta in linguaggio. Non c’è linguaggio che sappia raccontare l’amore. Quello che si racconta diventa subito letteratura: che è uno specchio della vita, che può essere una fuga o un’estensione della vita, ma non è la vita.

Meno che mai poi una storia vera può raccontarla un terzo, per ovvi motivi. Parrebbe possibile magari ricostruirla attraverso una corrispondenza, dove esistesse; ma anche qui, se le lettere sono sincere hanno un ben preciso e unico destinatario, e non dovrebbero essere divulgate, mentre se sono state scritte già prevedendo più o meno consapevolmente l’eventualità di una pubblicazione non sono sincere. Ergo, come dice Wittgenstein, di ciò che non si conosce (o si conosce solo parzialmente, aggiungo io) bisogna tacere.

Eppure di amore hanno scritto quasi tutti, da sempre (in verità non hanno scritto dell’amore, ma dei tormenti, delle delusioni, dei tradimenti, ecc…, tutti corollari, per lo più negativi, dell’amore: oppure hanno teorizzato, spiegato, analizzato, smontato il sentimento nei suoi sintomi, nelle patologie, negli effetti collaterali, tanto più sentendosi autorizzati a discettarne quanto meno capaci di provarlo o di viverlo – riuscite a immaginare Sartre che scrive trenta pagine sull’amore!). Cos’è che li spinge? Non sono Sartre né Sthendal, non lo so, e in linea di massima nemmeno mi interessa. Mi interessa invece, in questo caso specifico, capire cosa ha indotto proprio uno come Gorz a congedarsi scrivendo del suo amore.

Il senso di colpa, verrebbe da dire a tutta prima. Il libro è concepito come una sorta di tardivo risarcimento dovuto da André a Dorine, per non essere stato in grado di capire prima quanto importante fosse effettivamente il loro rapporto. Gorz si autoaccusa di scarsa sensibilità, di egoismo, e insiste lungo tutto il racconto in questo autò da fé. Intendiamoci: non l’ha mai tradita (se lo ha fatto non lo dice: ma in questo andrei sul sicuro. Era veramente cotto come una pera, quel tipo di cottura che non ti consente di immaginare nemmeno lontanamente la possibilità di un’altra donna. E Dorine era innamorata di lui, molto più saggiamente ma non per questo meno intensamente.). Il senso di colpa riguarda qualcosa di più sottile. André era talmente innamorato da essere persino infastidito da questo amore, dalla perfezione di lei: aveva bisogno di sminuirla in qualche modo per non sentirsi inadeguato, per vincere la paura di non meritarla (“Avevo la sensazione di non essere alla tua altezza. Tu meritavi di meglio”). È per questo che nel primo saggio-romanzo l’ha descritta come fragile, insicura, dipendente da lui. La ama perché è esattamente l’opposto, ma ha voluto raccontarla, a sé e agli altri, in questa luce, quasi a difendersi dal sentimento che provava, e che razionalmente pativa come eccessivo. Ora confessa: “Tu eri ed eri sempre stata più ricca di me. Ti sei schiusa in tutte le tue dimensioni. Eri a tuo agio nella vita: mentre io avevo sempre avuto fretta di passare al compito seguente, come se la nostra vita non dovesse cominciare veramente che più tardi”. Come a dire: tu avevi già capito tutto, senza dover passare attraverso tutti i giri che io ho fatto: io lo sapevo, o quanto meno lo intuivo, e non ho mai voluto ammetterlo, perché questo avrebbe tolto senso a tutta la mia ricerca («Tenevo conto delle tue critiche mugugnando “perché devi sempre avere ragione!”»). E fin qui, se uno sente proprio il bisogno di questa confessione, ci sta anche. È invece il fatto che l’autofustigazione avvenga in pubblico, debba essere esibita, a darmi veramente fastidio.

Scrive che noi “siamo esseri irriducibili a ciò che gli altri e la società ci chiedono e ci permettono di essere”. Perfetto. Che all’origine della questione morale “c’è sempre questo atto fondatore del soggetto che è la ribellione contro ciò che la società mi fa fare…” Sono d’accordo. Sente di essere in debito con la compagna di una vita: e diciamo che gli fa onore, anche se la contabilità sentimentale mi lascia sempre un po’ perplesso. Ma gli altri, i lettori, che sono poi i veri interlocutori cui si rivolge, perché altrimenti avrebbe scritto davvero una letterina e non un libro, cosa c’entrano? Non sarà che questa voglia essere, consapevole o meno, la ditata su una torta che poteva sembrare sin troppo perfetta, e che così diventa più commestibile, più umana, quindi più bella ancora?

E allora: per me è evidente che Gorz scrive questo libro per parlare non tanto di Dorine quanto di sé. È comunque lui il protagonista, nel bene e nel male, e con questo racconto sembra voler prendere possesso della storia nella sua totalità, per farne la tessera finale di un magnifico puzzle che ci restituisce la sua immagine. Sembra un omaggio, e invece è una rapina. Un modo per dire: con questo chiudo i conti, mi porto in pari, ti ho chiesto perdono. Adesso l’ho capito, tu sei la “Dorine senza la quale nulla sarebbe”. Quando scrive: “Non posso immaginarmi continuare a scrivere se tu non ci sei più. Tu sei l’essenziale senza il quale tutto il resto, per quanto importante mi sembri fin che ci sei tu, perde il suo significato e la sua importanza. Te l’ho detto nella dedica del mio ultimo scritto”, Gorz sembra significare: c’è altro che posso aggiungere? Hai bisogno di altre prove del mio sentimento? E comunque, ricorda che queste cose te le ho già dette!

Ma non era sufficiente dirgliele nell’intimità? Perché la necessità di farlo pubblicamente? Non so se Dorine si sia sentita davvero gratificata da questa lettera. Probabilmente la Dorine “bella come un sogno” non lo sarebbe stata. Gorz ha monopolizzato questo amore, ha voluto lasciarci la sua versione. È indubbio che si sia accorto ad un certo punto che “in questo gioco eri tu che tenevi le fila”, che a non poter vivere separato da lei era lui: ma il proclamarlo così in realtà è ancora una ribellione, un tentativo di sottrarsi a questa dipendenza.

La storia di André e Dorine mi sembrava così bella. Non ne sapevo quasi niente, avevo visto solo quella foto bellissima, mi aveva commosso il loro ultimo gesto. Tutto quello che racconta la Lettera lo potevo già immaginare da quei volti, e mi piaceva. La Lettera ha rovinato tutto: perché al centro non c’è lei, c’è sempre lui, che col pretesto della confessione parla di sé, di come ha sbagliato, di quanto è stato cieco, di quanto l’abbia amata e la riami ancora: ma, soprattutto, di quanto è capace di mettersi in discussione e di assumersi le sue responsabilità. Mi sembra un estremo atto di egoismo, e getta anche un’ombra su quella fine tanto romantica quanto drammatica. Quasi lui abbia voluto tenere fede ad un impegno pubblicamente preso.

So di essere ingiusto. André era davvero innamorato, ed era uomo molto migliore di quanto potrebbe sembrare io lo stimi. La sua ansia di far sapere a Dorine quanto bene le volesse era sincera. Ma porca miseria, per una volta che uno trova una donna che invece di lamentarsi e di mettergli i bastoni tra le ruote gli dice “Scrivi. Questo solo sai fare, e vuoi fare. E allora scrivi”, che è il gesto d’amore più grande che si possa immaginare, dal momento che non c’è sottinteso: io mi sacrificherò al tuo fianco, ma piuttosto: ti voglio così, mi piaci così, ti amo per quello che sei, non per come vorrei diventassi o cercherò di farti diventare; ripeto, uno che ha una donna così al fianco non capisce che non deve scusarsi di nulla, che lei lo ha scelto e lo ha amato per come era, e che non vuole le sue scuse, anzi le fanno male, perché allora significa che di lei non ha capito nulla.

Caro André, è un vero peccato. Spero soltanto che Dorine, quando hai scritto la lettera, fosse ormai così debilitata dal male da non averla letta, o da non averla capita: perché davvero questo profluvio di scuse e di ringraziamenti sarebbe stato per lei troppo umiliante. O forse ha letto, ha capito, e ha sorriso, perché continuavi ad essere quello che eri sempre stato e che lei aveva sempre amato: un uomo molto intelligente, molto democratico, molto innamorato. Soprattutto di se stesso (come tutti noi, del resto).

Per conoscere davvero Gorz è meglio naturalmente rivolgersi alle sue opere. Le principali sono anche state tradotte. Quelle cui si si fa riferimento nel testo e dalle quali sono stratte le citazioni sono:
Le Traître (Le Seuil, 1958),
La Morale de l’histoire (Le Seuil, 1959
Stratégie ouvrière et néocapitalisme (Le Seuil, 1964),
Le Socialisme difficile (Le Seuil, 1967 – Laterza 1968)
Réforme et révolution (Le Seuil, 1969)
Écologie et politique (Galilée, 1975)
Écologie et Liberté (Galilée, 1977 – Feltrinelli 1977)
Fondements pour une morale (Galilée, 1977)
Adieux au prolétariat (Galilée, 1980)
Les Chemins du paradis (Galilée, 1983– Edizioni Lavoro 1984)
Misères du présent, richesse du possible (Galilée 1997 – Manifesto98)
Écologica (Galilée, 2008 – Jaka Book 2009)
e naturalmente
Lèttre a D.: histoire d’un amour (Galilée, 2006 – Sellerio 2008)

1Le posizioni del Gorz “anni cinquanta”, la necessità di superare la tradizionale analisi totalmente economicistica del marxismo e di emancipare la società dalla soggezione e alle alienazioni prodotte dalla “ragione economica”, sono riassunte nella sua prima vera opera di saggistica, La morale della storia, del 1959

2In “L’écologie politique, une éthique de la libération” EcoRev, n. 21, 2005