di Paolo Repetto, 30 settembre 2012
Nuove forme del dominio europeo sul mondo
Dal vecchio al nuovo colonialismo
La crisi delle colonie spagnole e brasiliane in America Latina
La riorganizzazione coloniale olandese
La penetrazione della Francia in Indocina
I rapporti europei con la Cina
La Francia in Algeria e in Senegal
Esotismo e razzismo nella cultura ottocentesca
Aspetti contraddittori dell’abolizione della tratta e della schiavitù
Espansione coloniale e imperialismo
Il ruolo delle esplorazioni e delle società geografiche
Sensibilità coloniali e azioni di conquista
Inglesi e boeri nell’Africa australe
Un nuovo imperialismo: l’esordio statunitense nell’Asia orientale
La fine della centralità europea
La guerra e gli imperi periferici
Il primo dopoguerra: una nuova coscienza per i popoli soggetti
Inghilterra e Francia: due diversi sogni imperiali
Gli ultimi rigurgiti del vecchio colonialismo
Le prime reazioni: il risveglio del mondo arabo
Nuove forme del dominio europeo sul mondo
Dal vecchio al nuovo colonialismo
Nella storia del colonialismo europeo il periodo che intercorre tra la Rivoluzione Americana e la spedizione francese in Algeria costituisce una sorta di spartiacque. Nel corso di questo mezzo secolo tramonta il sistema delle piantagioni e del traffico triangolare, caratterizzato da una presenza episodica e precaria sulle coste extraeuropee (il caso spagnolo fa storia a sé) e vincolato all’iniziativa delle compagnie e dei privati, mentre vengono poste le premesse per un disegno coloniale più coerente ed aggressivo, gestito direttamente dai governi nazionali. Ad una trasformazione di questa portata concorrono naturalmente fattori di varia natura, le cui radici affondano lontano nel tempo e il cui peso non è facilmente valutabile, stanti le peculiarità che contraddistinguono i progetti espansionistici dei singoli paesi e la diversità delle situazioni locali nelle quali questi vengono calati.
In linea di massima, prima di procedere alla trattazione dei singoli punti, possiamo identificare alcuni fattori-chiave della trasformazione:
- il primo è indubbiamente l’avvento della rivoluzione industriale; il nuovo modo di produzione muta i termini del rapporto economico con i paesi dominati, rendendo anacronistico il Patto Coloniale. Diventa indispensabile aprire mercati extraeuropei che assorbano la crescita produttiva, e quindi diffondere regimi economici più moderni in tutto il globo. Ciò, assieme alla necessità di assicurarsi il controllo delle materie prime, impone alle potenze europee
- l’azione militare di conquista delle aree continentali interne, che in precedenza aveva interessato solo i territori destinati a colonie di popolamento. La penetrazione in profondità è comunque indotta anche da un altro fattore,
- l’esaurimento delle zone costiere commercialmente interessanti. Alla fine dell’epoca napoleonica esse sono ridotte per la gran parte sotto il controllo britannico: il che costituirà un ulteriore stimolo per lo sforzo espansionistico delle altre potenze continentali, prima fra tutte la Francia.
- il movimento indipendentista, che dalle colonie inglesi dell’America settentrionale si trasmette dapprima all’area caraibica e successivamente a tutto il continente meridionale. Preferiamo parlare di conquista della indipendenza, e non di decolonizzazione, perché il portato rivoluzionario si limita quasi ovunque ad un ricambio nell’egemonia politica ed economica e non intacca le strutture create dal colonialismo.
- la diffusione dei principi egualitari ed antidispotici propugnati dalla rivoluzione francese, che mettono in forse molti dei postulati su cui si reggeva la vecchia logica espansionistica: col risultato che dovranno essere formulate nuove motivazioni ideali al dominio coloniale. Essa si accompagna alla crescita in seno all’opinione pubblica di
- una disposizione umanitaria, sia laica, erede dello spirito tardo illuministico o dei portati stessi della rivoluzione, sia religiosa. Questa disposizione si esplicherà in iniziative missionarie, con la novità di un deciso impegno delle chiese protestanti, nella nascita di associazioni per l’esplorazione e l’incivilimento delle aree selvagge, e soprattutto, nella prima metà del secolo nel movimento abolizionista. La conseguenza più immediata è per l’appunto
- l’abolizione della tratta, al tempo stesso effetto della combinazione di tutti i fattori elencati in precedenza, sia economici che ideologici, e causa finale del crollo del sistema schiavista.
Scendendo nel dettaglio un rilievo non trascurabile hanno alcuni fattori che potremmo definire tecnici, intrinseci al fenomeno dell’industrializzazione e quindi già sottintesi, che tuttavia meritano di essere ricordati:
- in primo luogo il nuovo rapporto di forza determinato dall’armamento pesante. Le armi da fuoco avevano già costituito un elemento importante per le possibilità di espansione, ma in fondo offrivano, fino all’epoca degli archibugi, un vantaggio relativo e velocemente colmabile (basti pensare alla rapida riorganizzazione degli eserciti orientali). Ora siamo invece in presenza di una sproporzione ben diversa e determinante, come dimostrano le azioni di navi corazzate e l’uso dei proiettili esplosivi; il potenziale militare presuppone alle spalle un’industria pesante avviata, ciò che mette fuori causa i popoli ad economia pre-industriale.
- le tecniche di produzione. L’industrializzazione mette i produttori europei in condizioni di assoluto vantaggio per quantità, costi e, in senso relativo, qualità delle merci. L’artigianato dei paesi colonizzati cessa di essere concorrenziale, aprendo mercati immensi al prodotto manifatturiero
- i trasporti. Questo settore è letteralmente rivoluzionato dalla adozione del vapore come forza motrice nella navigazione. Non è più il regime dei venti a determinare gli scali e i tempi del trasporto. Ora si può arrivare ovunque con maggiore sicurezza, capacità di carico, velocità e regolarità.
- l’incremento demografico, quindi grossi potenziali di masse disponibili in termini militari e di migrazione.
L’insieme di questi fattori produce, oltre a quelle già sinteticamente accennate, una serie di conseguenze:
la spinta in nuove direzioni, in precedenza trascurate perché non sembravano offrire opportunità commerciali. È il caso dell’Africa, sino alla metà dell’Ottocento considerata solo un serbatoio di braccia;
l’affermazione del primato inglese, ufficialmente sancita dalla vittoria su Napoleone. Questa egemonia politica e commerciale trae paradossalmente linfa anche dai rovesci subiti nel Nord America. Gli inglesi sono infatti i primi a fare esperienza del destino autonomistico riservato alle colonie di migrazione, e adotteranno per il futuro dei correttivi, attraverso la creazione di rapporti economici particolari e la concessione sollecita delle autonomie;
il trionfo del libero scambio. È strettamente connesso al primato inglese e più in generale alle nuove esigenze imposte dal modo di produzione industriale. Solo sul finire del secolo, con l’irruzione sulla scena coloniale di altre nazioni, saranno riadottate misure protezionistiche
un temporaneo ostruzionismo verso le colonie di popolamento. Ciò vale per l’Inghilterra, l’unica nazione che possieda agli inizi dell’Ottocento territori scarsamente abitati ed adatti a questo tipo di colonizzazione. Le ragioni sono molteplici, e vanno dalla diminuita pressione religiosa al grave scacco subito dal prestigio inglese in occasione della rivolta dei coloni nordamericani. La ragione di fondo, però, sta nel fatto che ormai nella madrepatria le industrie assorbono la manodopera e sono interessate, al fine di contenere i salari, ad una sua endemica eccedenza;
infine, è da rilevare la perdita del significato strategico che le colonie avevano rivestito come pedine di scambio ai tavoli della pace. Esse assumono ormai un ben diverso valore, quali punti d’appoggio per il controllo oceanico, da un lato, e come fornitrici di materie prime per l’industria pesante, e quindi per l’armamento, dall’altra.
Al di là delle trasformazioni del modello coloniale, il periodo che va all’incirca dal 1780 al 1830 segna un momento di stanca nell’espansione europea. Il continente è impegnato nelle lotte e nelle trasformazioni interne, che assorbono tutto il suo potenziale dinamico, lasciando ben poco spazio alle iniziative rivolte all’esterno. Ma, come abbiamo visto, questa pausa è gravida di mutamenti radicali nella concezione dei modi e delle finalità della colonizzazione. Nella fase precedente colonia aveva significato zona da depredare, da sfruttare sia fisicamente, in maniera diretta, sia attraverso i monopoli commerciali; al più aveva costituito una valvola di sfogo per le eccedenze demografiche e per le minoranze dissidenti. I vantaggi per la madrepatria dovevano essere immediati a fronte di costi minimi, in termini umani e finanziari. Pertanto l’onere degli insediamenti era lasciato interamente sulle spalle di compagnie private, e i governi si limitavano a far valere il diritto dell’esclusivo, dell’obbligo cioè per la colonia di intrattenere scambi commerciali solo con la madrepatria. Ma per questo tipo di colonizzazione a carattere mercantile le zone interessanti sono piuttosto limitate: in pratica solo alcune fasce litoranee, corrispondenti ad entroterra ricchi e commercialmente organizzati. Ciò implicava da un lato un conflitto continuo tra le potenze marittime per il controllo degli scali chiave, dall’altro la presenza alle spalle di questi ultimi di organizzazioni statali indigene di un certo rilievo, capaci di bloccare ogni velleità europea di acquisti territoriali. La penetrazione all’interno si era realizzata solo eccezionalmente: ad esempio, nel caso dell’America spagnola, per l’incentivo della ricerca di metalli preziosi. Il modello di colonizzazione della prima fase non è comunque quello spagnolo, per la verità piuttosto atipico, quanto quello portoghese, ereditato poi e perfezionato dagli olandesi; esso mira a coprite vastissime aree con insediamenti strategici, limitati nel numero e nella consistenza. Le colonie nelle quali queste condizioni non si realizzano, per il prevalere di spinte migratorie (le colonie inglesi del Nord America), per la necessità di rimpiazzare i terreni depauperati dalle piantagioni (il Brasile), o per ragioni diverse (il caso appunto citato dell’America latina) sfuggono rapidamente al controllo metropolitano. Anche in questi casi comunque, al di là degli sviluppi e degli esiti anomali, le scelte economiche restano finalizzate agli interessi del commercio della madrepatria, e nel ‘700 lo sviluppo del sistema delle piantagioni consente addirittura di attivare un circuito di traffico triangolare, che è l’espressione più compiuta (cioè più remunerativa) del rapporto economico con le colonie.
Già nella seconda metà del ‘700 però le basi di questo rapporto stanno incrinandosi. Ne sono un chiaro indice la crisi nel settore dello zucchero e poi in quello del tabacco, la necessità di volgersi a coltivazioni alternative (cacao, the, ecc.), la nascita di un movimento ostile all’unica attività commerciale in pieno sviluppo, la tratta. La rivoluzione industriale crea nuove prospettive di investimento, che offrono al capitale finanziario margini di profitto maggiori e rischi minori. Per questo anche in un paese come l’Inghilterra, che agli inizi del secolo è impegnata a rinsaldare ed a organizzare i recenti acquisti nell’oceano Indiano, il bilancio di due secoli di espansione è considerato tutt’altro che soddisfacente, e almeno fino al 1850 questo giudizio ispirerà una tendenza di massima all’impegno limitato.
Una valutazione negativa dei frutti della colonizzazione è diffusa in primo luogo nell’opinione pubblica, sensibilizzata al problema soprattutto dai continui aggravi fiscali imposti dagli interventi militari. Agli occhi del privato cittadino le colonie hanno giovato solo alle grandi compagnie monopolistiche, le quali, dopo aver realizzato immense fortune, ai primi indizi di difficoltà hanno coinvolto nei loro problemi i governi metropolitani. Nel caso inglese, ad esempio, gli interessi in gioco nel settore coloniale attorno alla metà del ‘700 sono quelli dei grossi piantatori nelle Antille e della Compagnia delle Indie nel Deccan. Essi, coalizzati con la testarda miopia politica del sovrano e con le resistenze dei grossi proprietari terrieri della madrepatria, per i quali il gettito dei dazi coloniali rappresentava una salvaguardia contro gli aumenti della imposta fondiaria, conducono al disastro politico e finanziario della guerra nordamericana. Inoltre, questi interessi presentano risvolti di corruzione e di immoralità nella vita politica ed amministrativa piuttosto evidenti e tangibili per lo sfarzo ostentato dai grossi imprenditori coloniali e dai loro portavoce che siedono alle camere. In Francia esiste anche una tradizione negativa di bancarotte (la Compagnia Occidentale di Law), di scandali e di imbrogli che hanno toccato direttamente i piccoli risparmiatori, aggravata dopo la guerra dei Sette Anni dalla perdita di quasi tutti i possedimenti coloniali. Negli anni della rivoluzione il pubblico malcontento trova quindi espressione nella rinuncia ufficiale ad ogni politica coloniale (Costituzione del 1793).
Anche a livello di teoria economica il pensiero del periodo a cavallo tra le due fasi pare orientato in senso anticoloniale. Dopo più di un secolo di prassi mercantilistica, e quindi di speranze riposte nell’apporto delle colonie, nella possibilità di farne il completamento economico della madrepatria, si fanno strada il disincanto e la recriminazione. Nelle Lettres persanes (1748) Montesquieu afferma che le colonie finiscono per impoverire demograficamente il paese che le fonda: “è opportuno che gli uomini restino là dove sono”. La stessa preoccupazione avanza Boulainvilliers (Intérêts de la France mal entendus… 1754), fondandola su una stima esagerata dei costi umani pagati dalla Francia durante l’espansione. Più cauti sono i fisiocrati, come Quesnay (Tableau Economique, 1758), ma la loro valorizzazione dell’agricoltura come fattore economico primario li porta a non considerare rilevanti gli interessi commerciali marittimi legati alla colonizzazione. Pesano su questo bilancio negativo tanto il fallimento pratico del progetto coloniale quanto il tradizionale timore nei confronti di ogni prospettiva di depauperamento demografico, quello stesso che aveva indotto i fautori dell’espansione, come Colbert, ad emanare leggi restrittive sull’emigrazione.
Negli inglesi la diffidenza nei confronti di un impegno coloniale più deciso nasce da ragioni diverse, in qualche modo opposte. Si ha la sensazione di aver già superato i limiti entro i quali è possibile un efficace controllo. Già William Petty (Aritmetica Politica, 1690), aveva lamentato che la dispersione in scacchieri tanto lontani costringesse ad un costante impegno bellico la nazione, sottraendo capitali che avrebbero potuto essere meglio utilizzati ed investiti nella madrepatria. Gli economisti classici sono invece infastiditi dal disordine economico che le colonie hanno ingenerato. Adam Smith (La ricchezza delle Nazioni, 1776), afferma che i guadagni coloniali sono stati realizzati a dispetto di una gestione sconsiderata della politica espansionistica, e che comunque, in un bilancio complessivo, le colonie hanno costituito più che altro un onere, in quanto hanno stornato investimenti dalla produzione interna ed hanno gravato sulla finanza pubblica per le spese di difesa senza offrire un’adeguata contropartita in gettito fiscale (siamo all’epoca della rivoluzione americana). A ciò si potrebbe ovviare, secondo Smith, solo se i possedimenti coloniali garantissero un reddito fisso: e ipotizza quindi una sorta di federazione (Imperial Federation) in seno alla quale le contribuzioni fiscali abbiano un corrispettivo di rappresentanza politica, e sia garantita la più assoluta libertà bilaterale di commercio tra tutti i membri. Della stessa opinione, in sostanza, è David Ricardo, anche se il suo sistema offre maggiori appigli ad una interpretazione in positivo del rapporto colonizzazione-emigrazione. In teoria infatti il profitto si manterrebbe costante se terre nuove e fertili potessero essere “aggiunte” al suolo nazionale in concomitanza con ogni aumento del capitale e della popolazione. Contrari alle colonie per motivazioni più dichiaratamente politiche sono gli utilitaristi, come Jeremy Bentham e James Mill; essi ritengono che gli interessi della nazione siano stati subordinati, anche in questo caso, a quelli dei “pochi che comandano”.
A partire dai primi decenni dell’Ottocento, però, il problema comincia ad essere affrontato in termini più pratici, soprattutto per quanto concerne le nuove aree aperte al popolamento ed alla valorizzazione economica in Canada ed in Australia. È Wilmot Horthon a concepire un primo disegno organico di incentivazione e tutela dell’emigrazione verso queste terre, inteso da un lato a salvaguardare il livello dei salari in patria, dall’altro a creare mercati per l’assorbimento della produzione metropolitana. Ma il suo piano prevede un intervento finanziario iniziale dello stato, ciò che gli vale una decisa opposizione nelle sfere politiche. Sarà invece adottato in una versione meno impegnativa per le finanze pubbliche, proposta da Edward Gibbon Wakefield. Wakefield guarda soprattutto alla realtà australiana, ai suoi problemi ed alle prospettive che offrirebbe una gestione oculata della colonizzazione. A suo giudizio la stagnazione nello sviluppo della nuova colonia di popolamento è legata ad una errata politica dei prezzi della terra, mantenuti molto bassi fino al 1830. Ciò ha favorito la formazione di grosse proprietà da un lato, ed una eccessiva atomizzazione in aziende minuscole dall’altro; la forza lavoro si è dispersa e non è sfruttata in modo efficiente. L’unico rimedio può venire da un adeguamento dei prezzi d’atto o di vendita delle terre (prezzo sufficiente), che garantisca allo stato un introito considerevole da destinarsi ad agevolare l’emigrazione. In questo modo inoltre può essere garantita al capitale investito nella colonia la disponibilità di forza lavoro a costi ragionevoli. Convinto dall’esperienza americana che ogni possedimento coloniale sarebbe stato presto o tardi percorso da aneliti indipendentisti, Wakefield prevede per le colonie una forma di autonomia amministrativa: ciò solleverebbe da un grosso onere finanziario la madrepatria, e probabilmente riuscirebbe a prevenire una separazione totale.
Il metodo della “colonizzazione sistematica” proposto da Wakefield è adottato a partire dal 1834 dal governo inglese per l’Australia meridionale, e in seguito per la Nuova Zelanda. Come avremo modo di vedere non sortirà gli effetti preventivati dal suo propugnatore, ma il fatto stesso che venga adottato implica una svolta nella politica coloniale inglese, che torna ad essere dinamica, seppure all’interno della nuova logica liberista.
Nella politica coloniale britannica dell’Ottocento, infatti, la valorizzazione economica dei possedimenti già acquisiti coesiste con la volontà di impedire o limitare ogni ulteriore espansione, sia propria che altrui. Dal dominio sui mari l’Inghilterra ha assicurato il controllo di tutte le rotte commerciali: nella supremazia industriale, nella concorrenzialità delle proprie merci ha la chiave d’accesso a tutti i mercati. Può esercitare una egemonia superiore a quella garantitale da qualsiasi vincolo monopolistico, come testimonia l’andamento degli scambi con le sue ex colonie americane dopo la ribellione, e tale da avere ragione di ogni resistenza protezionistica, come è dimostrato dalla sua presenza economica nel Sud America prima dell’indipendenza, o dal fallimento del blocco continentale imposto nei suoi confronti da Napoleone. Non ha alcuna necessità di impegnare forze, capitali e prestigio nella costruzione di un impero territoriale (anche se proprio in questo periodo sta consolidando quello delle Indie, quasi costretta da una logica difensiva che si esprime in aggressività), quando con minor sforzo può gestirne uno senza confini, allargato a tutto il globo. A questo scopo le è sufficiente convincere, o all’occorrenza costringere, le altre nazioni ad accettare i vantaggi di un rapporto economico “naturale”.
L’adozione del libero scambio, a partire dal 1815, si fonda su questa consapevolezza di un margine di vantaggio industriale e commerciale sufficiente a garantire a lungo l’egemonia e, se gestito accortamente, destinato anche ad aumentare. E ad essa si ispira l’indirizzo seguito nella politica internazionale, quella pax britannica che corrisponde alla volontà di moderare o comporre ogni contrasto tra le grandi potenze, di scongiurare conflitti europei o internazionali, di appoggiare i movimenti indipendentistici, il tutto sempre in funzione del libero esplicarsi dei rapporti economici e del loro incremento.
La crisi delle colonie spagnole e brasiliane in America Latina
Nella seconda metà del Settecento i possedimenti coloniali iberici nell’America latina sono scossi con intensità e frequenza sempre maggiori da agitazioni e da rivolte a carattere autonomista, fomentate dalla aristocrazia creola. La reazione dei governi metropolitani è ormai affannosa: soprattutto essi non sono in grado di offrire, al di là della repressione immediata, prospettive per una ricomposizione del rapporto su basi nuove. Spagna e Portogallo sono assolutamente estranee alla prima fase della rivoluzione industriale, e non hanno la possibilità di dare incremento agli scambi gettando sui mercati coloniali prodotti di una industria manifatturiera concorrenziale e stimolando di converso l’esportazione dalle colonie di materie prime. Il rinnovamento che i sovrani cercano di mettere in atto sul finire del secolo XVIII si limita ad una progressiva abolizione dei monopoli ed all’attenuazione del regime dell’esclusivo: ma questo non è che il formale riconoscimento di una situazione da tempo esistente, nella quale lo scambio commerciale passava al 70% per la via del contrabbando. I porti meridionali si aprono in compenso ora non solo alle merci, ma anche alle influenze culturali provenienti dall’Europa illuminista e dalle colonie ribelli del Nord. La vittoriosa riuscita di queste ultime offre ai latinoamericani l’indicazione e l’esempio di una scelta traumatica, ma necessaria, mentre è la rivoluzione francese, con le sue complicazioni internazionali, a far precipitare la situazione.
I primi veri e propri tentativi insurrezionali, appoggiati dagli americani (Miranda in Venezuela nel 1806) o dagli inglesi (Popham a la Plata nel 1807) falliscono per la reazione delle popolazioni stesse, ancora orientate in senso lealista. Le condizioni per un distacco dalla madrepatria si verificano soltanto con l’occupazione del Portogallo e della Spagna da parte di Napoleone, il quale si illude di ottenere l’appoggio delle colonie sudamericane in cambio della concessione di ampie autonomie. Il risultato è invece opposto: il Brasile, dove si è rifugiata la famiglia reale portoghese, apre i suoi porti alle flotte inglesi, e i vicereami spagnoli rifiutano di riconoscere il nuovo re Giuseppe, ribadendo la propria lealtà allo spodestato Ferdinando VII. A Napoleone non resta che volgersi ad una soluzione separatista, e i suoi agenti diventano attivi propagandisti della piena autonomia. Nel luglio del 1811 a Caracas un congresso di cabildos delle città venezuelane proclama l’indipendenza. Nel dicembre è la volta dell’Ecuador, mentre in Argentina una giunta separatista agiva già dalla fine del 1810. Non tardano a seguirne l’esempio il Cile, l’Uruguay, il Paraguay. Solo il Perù rimane spagnolo.
La situazione è però tutt’altro che definitiva. Essa evolve assieme alle sorti della guerra in Europa, e soprattutto in relazione agli orientamenti delle grandi potenze che ne tengono le fila. Inoltre, non appena proclamata l’indipendenza si manifesta un intrico di rivalità che oppongono le varie etnie, le diverse classi sociali e le grandi famiglie creole in lotta per il potere. Quasi ovunque la rivoluzione è opera di minoranze aristocratiche, e la reazione spagnola ha buon gioco nel mobilitare contro di essa masse di meticci, di indios e di disperati che nella nuova situazione politica rischiano di trovarsi anche peggio. Tra le nuove repubbliche, poi, manca assolutamente il coordinamento e l’unità di intenti, ed anzi trionfa quel particolarismo che la natura selvaggia e accidentata del continente e le difficoltà delle comunicazioni terrestri avevano sviluppato nei secoli della dominazione
Allorché viene loro meno l’appoggio navale degli Stati Uniti, impegnati dai 1812 nella seconda guerra contro l’Inghilterra, e quest’ultima si allea con la corona spagnola per la riconquista della penisola iberica, gli insorti sono completamente isolati e non possono tener testa alla controffensiva spagnola. A tre anni dall’inizio dalla lotta solo La Plata riesce a conservare la sua indipendenza.
L’ultima fase della guerra rivoluzionaria ha inizio dopo il 1816. Ancora una volta arbitri della situazione sono i britannici, interessati alla formazione di repubbliche indipendenti in vista dei vantaggi economici che un libero mercato sudamericano può offrire. Durante gli anni della guerra europea, nella totale vacanza di un controllo metropolitano sull’economia delle colonie, il commercio inglese ha potuto allacciare rapporti diretti con l’economia latinoamericana, eliminando finalmente le mediazioni ed i problemi connessi al contrabbando.
Non è pertanto disponibile ora ad accettare una restaurazione del sistema protezionistico, sia pure mitigato da accordi preferenziali. Lo stesso ordine di motivazioni, cui comincia ad affiancarsi anche una ambizione di egemonia politica sul continente, determina l’appoggio statunitense ai nuovi moti insurrezionali.
Quando nel 1817 Bolivar muove dalla valle dell’Orinoco per passare le Ande e dare vita agli Stati Uniti di Columbia il suo esercito è formato in gran parte di reduci inglesi delle guerre napoleoniche, e la flotta americana incrocia lungo le coste, pronta ad appoggiarlo. Dal sud nel frattempo sta avanzando José de San Martin, che dopo avere a sua volta valicati i passi andini e ridata l’indipendenza al Cile punta ora sul Perù, al quale sta convergendo anche l’esercito di Bolivar. La guerra ha termine solo nel 1824, con la caduta delle ultime postazioni spagnole nel Perù: nel frattempo anche la Nuova Spagna si è sollevata, e dopo il tentativo di instaurare una monarchia indigena viene proclamata nel 1823 la repubblica messicana.
L’indipendenza brasiliana è frutto di un distacco meno traumatico. La dinastia portoghese sa conciliare le aspirazioni autonomistiche e il sentimento monarchico dell’élite creola, manovrando con l’aiuto dell’Inghilterra contro le resistenze degli interessi commerciali dell’antica compagnia lusitana. Nel 1822 è pertanto adottata in Brasile la monarchia costituzionale, nella persona del figlio stesso del sovrano portoghese.
Abbiamo accennato, in apertura del capitolo, a come il fenomeno rivoluzionario dei primi dell’Ottocento nell’America latina abbia una valenza puramente indipendentistica, e non vada ad incidere sul sistema di rapporti sociali ed economici indotti dal colonialismo. “L’indipendenza, nel caso di gran parte dei paesi latinoamericani, non solo non collima con la decolonizzazione, ma non si confonde nemmeno con l’indipendenza dei popoli autoctoni. Le secessioni delle colonie spagnole e portoghesi, che hanno all’origine portato all’indipendenza, erano state provocate dai coloni bianchi e a loro diretto vantaggio.” (De Bosschère)
I limiti del movimento di liberazione sudamericana non sono comunque relativi solo al suo carattere puramente autonomistico. Al di là del permanere di strutture di origine coloniale, c’è un vero e proprio fenomeno di ricolonizzazione economica e politica da parte dell’Inghilterra, in un primo tempo, e poi degli Stati Uniti. Nei confronti dell’America del sud l’impero britannico adotta una politica di protezione indiretta, che non si concretizza in interventi o nella creazione di dipendenze ufficializzate, ma non per questo è meno attenta e decisa. Allorché ad esempio i governi della Santa Alleanza restituiscono il potere al sovrano spagnolo, dopo i moti costituzionali del 1821, Londra li dissuade tempestivamente da ogni tentativo di restaurazione nelle ex colonie. Ed è ancora l’Inghilterra ad esercitare le sue pressioni sulle singole province indipendenti per impedire la costituzione di un grande stato panamericano (congresso di Panama, 1826) e per favorire invece un frazionamento che va molto al di là delle vecchie suddivisioni coloniali.
A loro volta gli Stati Uniti, dopo la proclamazione della dottrina Monroe (1823), che traeva spunto proprio dalla congiuntura politica di cui sopra per diffidare l’Europa da ogni intervento sul continente americano, non tardano a ridimensionare le illusioni sulla solidarietà interamericana, passando ad un atteggiamento aggressivo di cui farà le spese il paese latino americano più settentrionale, il Messico, che prima della metà del secolo si vedrà sottratto quasi un terzo dell’antico territorio del vicereame.
Gli inglesi in India
Nell’ultimo quarto del XVIII secolo la Compagnia inglese delle Indie adotta una politica di cautela e di attesa, preoccupandosi di preservare lo status quo e di procedere all’organizzazione amministrativa dei recenti acquisti territoriali. Le iniziative talvolta temerarie di Clive, ispirate dalla concorrenza con i francesi, e la successiva necessità di salvaguardare le posizioni conquistate perfezionando strategicamente le annessioni, hanno di gran lunga trasceso quello che era il progetto iniziale. L’opinione pubblica e i soci stessi della Compagnia cominciano a paventare un onere finanziario e politico che rischia di diventare insostenibile, ed esigono un controllo metropolitano più stretto sull’operato dei funzionari coloniali.
La situazione viene sbloccata ancora una volta da moventi esterni, cioè dal tentativo di Napoleone di costruire una testa di ponte in Medio Oriente per reinserire la Francia nel quadro politico ed economico dell’oceano Indiano. Il settore indiano acquista a questo punto importanza strategica, giustificando e stimolando il nuovo orientamento dinamico della Compagnia, perfettamente incarnato dal governatore Wellesley. Il progetto di massima diventa quello di un controllo su tutto il subcontinente, esercitato attraverso una rete di vincoli sia economici che politici concordati o imposti ai potentati locali. Nel frattempo, Wellesley procede agli inizi del secolo XIX all’annessione di gran parte della costa del Malabar, infliggendo anche una prima sconfitta alla potenza indiana più ostile ai britannici, la confederazione Maratha. Ancora una volta, ai successi militari in colonia fa seguito un allarme nella madrepatria, destato dal pesante bilancio finanziario di questa politica espansionistica. Ormai però la compagnia si è creata in India un’immagine aggressiva che non consente ulteriori pause di indugio, pena un arretramento che a questo punto, con le potenze indigene in allarme e con l’aria di disimpegno coloniale che circola in Europa, potrebbe diventare irreversibile. Lo sviluppo espansivo prosegue pertanto, soprattutto ad opera del governatore Hastings, col completamento della conquista della fascia nord orientale sino al Nepal, e con la sconfitta definitiva (1818) della confederazione Maratha, i cui territori vengono in parte annessi. Anche Bombay, soffocata fino a questo momento dalla presenza alle spalle di una potenza ostile, ottiene uno sbocco interno ed un collegamento terrestre con gli altri domini britannici nel Deccan. Proseguendo nel consolidamento delle posizioni acquisite, la Compagnia viene presto in urto a nord-est con la Birmania per il controllo sull’Assam, che si assicura nei 1826, e a nord-ovest con l’Afghanistan, uscendo questa volta pesantemente sconfitta (prima guerra afghana, 1839). Prima della metà del secolo gli inglesi arrivano anche ad imporre il loro protettorato sulla parte più alta del litorale occidentale, il Sind (1844), e soprattutto a conquistare il Punjab (1848), piegando il fiero popolo guerriero dei Sikh.
Tutta l’India a questo punto è in mano a britannici, che l’amministrano in parte direttamente ed in parte con il tramite dei protettorati. L’annessione delle zone interne ancora “autonome” ha ormai solo un significato formale: essa viene perseguita per vie diplomatiche, imponendo con il governatore Dalhousie il principio della “decadenza” (of lapse) che prevede il passaggio del potere alla Compagnia in assenza di un erede designato, e quello dell’“importanza capitale” (of paramountcy) col quale la Compagnia si arroga il diritto di intervento nel caso di manifesto malgoverno di uno stato. Con questo sistema nel volgere di una decina di anni molti staterelli passano sotto il dominio diretto inglese.
L’ultima grave reazione interna all’egemonia britannica viene dalla crisi del 1857, conseguente alla rivolta di alcuni reparti indigeni (i Cipayes), che innesca un disperato tentativo di riscossa indipendentistica da parte degli stati indiani. Si ripetono però le condizioni che avevano permesso l’insediamento britannico nel secolo precedente, cioè la mancanza di coordinamento e di solidarietà tra le forze autoctone; per cui, seppure a prezzo di un grosso spavento e di due anni di lotta, gli europei domano l’insurrezione. L’unico risultato positivo per gli indiani sta nei fatto che il governo inglese, allarmato dalle dimensioni della rivolta, si affretta ad assicurare i sovrani semi-indipendenti della propria intenzione di rispettare le dinastie esistenti, abbandonando la prassi del lapse e del paramountcy.
L’espansione della prima metà del secolo comporta naturalmente problemi di difesa o di potenziamento dei confini, che mettono gli inglesi di fronte a popoli e a situazioni nuove. Bloccati a nord del Bengala dal massiccio himalaiano, essi si muovono come abbiamo visto orizzontalmente. nelle due direzioni orientale ed occidentale. Ad est i problemi di frontiera connessi all’Assam portano l’Inghilterra a scontrarsi con un forte stato birmano, che può essere sconfitto solo in virtù della supremazia navale. Durante la prima campagna le navi della Compagnia riescono a forzare l’Irawadi e si spingono sino a minacciare Rangoon, costringendo l’imperatore birmano alla pace e alla cessione dell’Arakan e della regione meridionale del Tenasserim confinante con il Siam. Per un quarto di secolo la situazione rimane tesa, con i birmani decisi a riavere almeno quest’ultima regione. Nel 1851, con il pretesto di provocazioni e offese arrecate a sudditi inglesi, un secondo corpo di spedizione navale è inviato a Rangoon, mentre si procede all’occupazione di tutta la zona del Delta (1852). Ormai privo di uno sbocco sul mare, il regno birmano decade rapidamente sino a quando, accampando pretese collusioni con la Francia, l’Inghilterra non arriverà ad una definitiva invasione nel 1885. Il rapporto con la Birmania rimarrà comunque sempre particolare. È una provincia acquisita quasi controvoglia, per una interpretazione esasperata delle necessità di difesa dei confini indiani da parte degli amministratori coloniali. In effetti essa creerà notevoli problemi per la pacificazione interna e non sarà mai anglicizzata come l’India.
Sul versante occidentale l’altro nodo che tiene impegnati militarmente gli inglesi è costituito dall’Afghanistan. Anche in questo caso l’iniziativa espansionistica è motivata piuttosto da necessità strategiche che da un interesse economico. La Compagnia è messa in allarme già nei primi decenni dell’800 dalla penetrazione russa nell’Asia centrale: mira quindi a costruire una serie di stati-cuscinetto attorno ai suoi possedimenti. Un primo tentativo si risolve, come abbiamo visto, in una sconfitta disastrosa, che dissuade per qualche tempo gli inglesi da iniziative militari. Si sviluppa invece un’intensa lotta sotterranea a colpi di influenza sui sultanati locali, che si inserisce nel complesso dei rapporti diplomatici europei e ne è condizionata, dispiegandosi su di un fronte triangolare. Londra non è infatti disposta a rischiare incrinature nei rapporti con i russi per sostenere le esigenze del Dominio Indiano. Da parte loro i governatori, anche dopo l’informale estromissione della compagnia perseguono una politica estera vincolata agli interessi coloniali, e sovente cercano di forzare la mano al governo metropolitano. Se l’Afghanistan riuscirà a conservare la propria indipendenza, a dispetto anche di ulteriori tentativi militari, sarà per il prevalere di una logica d’equilibrio internazionale. Negli ultimi decenni dell’800 saranno proprio gli inglesi a farsi paladini di un Afghanistan indipendente, naturalmente in un quadro di rapporti più che amichevoli con i governanti indiani.
Il possesso di Singapore e la successiva penetrazione in Malesia non sono riferibili alla strategia difensiva britannica nel Deccan, ma costituiscono una vicenda a se stante. L’occasione di rimettere piede nei sud-est asiatico, un secolo e mezzo dopo esserne stati cacciati dagli olandesi, è offerta agli uomini della Compagnia dalle guerre napoleoniche, nel corso delle quali gli inglesi occupano temporaneamente l’arcipelago della Sonda. In questa occasione possono rendersi conto dell’importanza che rivestirebbe ai fini commerciali una base capace di controllare il traffico degli Stretti. Alia fine della guerra, pertanto, quando debbono restituire la penisola malese, ottengono di mantenere il possesso di Singapore e dell’isoletta di Penang. Un successivo trattato con l’Olanda (1824) estende poi l’influenza inglese a tutta la Malacca e alla città omonima. Il nuovo possedimento è in un primo tempo aggregato amministrativamente al Bengala, ma presto godrà di una gestione autonoma (Straits Settlements).
La presenza inglese imprime nuovo dinamismo agli scambi commerciali, facendo del porto di Singapore uno scalo obbligato anche per gli olandesi. La penisola comincia ad attirare l’immigrazione dal continente, soprattutto dopo la scoperta di importanti giacimenti di stagno. Sono gli inglesi stessi ad incentivare l’afflusso di manodopera cinese (mentre pongono alcune restrizioni per quella indiana), e a creare in breve un dualismo ostile tra gli immigrati, che non tardano a costituire la maggioranza della popolazione, e i piccoli sultanati indigeni. Il disordine che ne consegue mette a repentaglio lo sviluppo dei traffici commerciali inglesi, fino a rendere indispensabile l’intervento della madrepatria. Anche in questo caso, come per la Birmania e per l’Afghanistan, Londra appare restia ad assumersi l’onere di una gestione diretta, preferendo attenersi alla politica di “non annessione” inaugurata in India: ma poiché l’iniziativa è lasciata in mano ai governatori della colonia, si giunge rapidamente alla costituzione di un vero e proprio protettorato (1874). Trentacinque anni dopo anche la finzione giuridica dell’autonomia dei sultanati sarà cancellata, e la sovranità sulla Malesia sarà trasferita alla corona britannica.
Già agli inizi de1 XIX secolo la Compagnia delle Indie mostra segni di cedimento. La stessa politica espansionistica perseguita dai suoi governatori ha creato grossi problemi finanziari, legati, oltre alle spese militari vere e proprie, ai pensionamenti ed ai tributi concessi ai vari sovrani semispodestati. Un nuovo colpo le viene inferto, dopo il 1815, dalla svolta della politica economica inglese in favore del libero scambio, che annulla il privilegio monopolistico su cui si erano fondate le sue fortune. Si arriva cosi, nel 1833, di fronte ad un passivo finanziario sempre più grave, ad un vero e proprio trasferimento di autorità in relazione ai possedimenti indiani. La Compagnia resta in piedi come apparato amministrativo subordinato al Board of Control, organismo già voluto da Pitt nel 1784 con funzioni di sovrintendenza sulla politica coloniale, e i suoi capitali sono trasferiti alla corona. Il passaggio delle consegne avviene comunque solo nel 1858, con il Government India Act, a seguito delle incertezze evidenziate dagli amministratori della compagnia nel prevenire e poi nel domare la rivolta dei Cipayes. Infine, nel 1877 si ha la consacrazione ufficiale della regina Vittoria a imperatrice delle Indie britanniche.
Dopo la soppressione della Compagnia l’amministrazione indiana viene riordinata sulla base di un più stretto legame con l’autorità metropolitana. A Londra è istituito un segretariato di stato per l’India assistito da un Consiglio. La rappresentanza diretta a Calcutta è affidata ad un Viceré, cui fanno capo un consiglio legislativo, formato da tutti i più alti funzionari, ed uno esecutivo. Esistono poi consigli legislativi ed esecutivi a livello provinciale, che costituiranno il primo tramite concesso agli indiani per riagganciarsi al potere. I territori amministrati direttamente (British Ray) sono suddivisi in quindici province. Essi si estendono dal Punjab a nord-ovest, giù fino alla foce dell’Indo, seguono le coste del Malabar e risalgono poi il Coromandel fino al Bengala, per ridiscendere infine lungo le coste birmane. Coprono circa i tre quarti dell’intero subcontinente, e comprendono anche Ceylon, le Andamane e le Nicobare. Prima della fine del secolo saranno annessi il Kashmir, il Belucistan e la Birmania superiore.
I principati autonomi soggetti al protettorato occupano la zona interna del Deccan. Si tratta in genere di staterelli minuscoli, per un totale di quasi 600, che amministrano poco più di un quinto della popolazione. Ufficialmente il loro vincolo politico con l’Inghilterra riguarda solo la rappresentanza diplomatica estera, ma in realtà le ingerenze sono pesanti anche nelle questioni interne, al punto che il “residente” inglese funge da vero e proprio governatore dello stato.
L’amministrazione diretta si avvale di uno speciale corpo di funzionari, l’Indian Civi1 Service, reclutati per concorso in Inghilterra. Esso è fondato già alla fine del ‘700 dalla Compagnia e può attingere alle migliori forze inglesi per i grossi incentivi di carriera, finanziari e di prestigio che offre. Dal 1853 l’organico è aperto anche agli indiani, ma di fatto costoro hanno possibilità di accesso piuttosto remote in quanto i concorsi continuano a svolgersi a Londra. La loro presenza è comunque prevista solo ai livelli burocratici inferiori, mentre sarà incentivata a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, nel tentativo di creare una classe media di funzionari indigeni coinvolta, seppure in subordine, nelle responsabilità amministrative, e quindi strettamente legata agli interessi inglesi.
Questo apparato burocratico svolge un doppio ruolo: da un lato gestisce il prelievo fiscale e agevola le attività imprenditoriali inglesi nel subcontinente indiano, dall’altro si sforza di dare un assetto amministrativo unitario a tutta l’area soggetta al dominio diretto. Quest’ultimo intento è perseguito attraverso una legislazione che, non tenendo conto alcuno delle tradizioni e del regime consuetudinario, cerca di trapiantare in India i principi del sistema giuridico inglese: ma spesso deve fare i conti con realtà di fatto insuperabili. Per l’esazione delle imposte, ad esempio, c’è inizialmente il tentativo di applicare su tutto il territorio indiano lo Zamindar settlement, imposta fondiaria permanente. Questa dovrebbe essere riscossa dagli zamindari, appaltatori d’imposta, o subappaltatori, creati dal regime mogol, che col passare del tempo sono venuti a costituire una sorta di ruolo intermedio, articolato in vari strati, tra il potere centrale e i proprietari. Gli inglesi adottano questa soluzione semplificando un rapporto amministrativo fondato su equilibri in realtà piuttosto complessi: ma essi riescono a concepire il diritto di riscossione soltanto in termini feudali europei, né hanno alcuna volontà di raccapezzarsi nell’intrico di significati e di sfumature del diritto sulla terra indotti da una stratificazione secolare di domini.
Tuttavia, l’istituto dello zamindar non aveva conosciuto alcuna diffusione al di fuori delle aree di influenza mogol, e viene violentemente contestato nelle zone costiere. Gli inglesi debbono ricorrere pertanto a sistemi d’esazione differenziati: nella presidenza di Madras, ad esempio, si opta per il Ryotwari settlement, imposta che colpisce direttamente il proprietario, mentre più tardi, nel Punjab, si adotta il Mahalwari settlement, imposta su proprietà indivise, che grava sulla struttura comunitaria di villaggio. “In realtà, fu l’Inghilterra a creare artificialmente a spese dei diritti secolari di proprietà delle comunità contadine una aristocrazia terriera, per poi, dietro le quinte, proteggere i contadini contro questi oppressori e trasferire in mani inglesi la terra illegalmente usurpata.” (R. Luxemburg). In definitiva, le esigenze fiscali inglesi introducono in India un concetto di proprietà sconosciuto alle popolazioni indigene, e complicano ulteriormente la questione dei diritti sulla terra. Esse aggravano inoltre in misura sensibile i carichi delle imposte, senza peraltro concedere ai contadini quelle possibilità di oblazione che erano previste ovunque dalla consuetudine: col risultato che la gran parte dei piccoli proprietari è costretta ad alienare la terra per far fronte alle imposte arretrate, calcolate su parametri europei (produzione per unità di superficie). Le frequenti rivolte contadine, il cui primo scopo è l’esproprio dei proprietari-appaltatori, offrono ulteriori pretesti per la requisizione di terre non coperte da titoli ufficiali di proprietà. La redistribuzione di queste terre, acquistate dai medi e grandi proprietari, crea anche nelle campagne una fascia sociale favorevole all’amministrazione inglese e ad essa vincolata, una sorta di cuscinetto sul quale va a riversarsi, in occasione delle sommosse, l’ira degli sfruttati.
L’aumento e la regolarità del gettito fiscale costituiscono nei primi decenni dell’Ottocento la preoccupazione primaria della Compagnia, che deve far fronte al grave deficit creato dagli impegni militari. In altri settori economici essa preferisce non interferire, soprattutto nel senso negativo di non sostituirsi ai governanti deposti nella manutenzione delle opere di pubblica utilità (ne risente gravemente, ad esempio, il sistema di canalizzazione, vitale per l’agricoltura indiana). A partire dal 1830 però è forzata a mutare atteggiamento. La crescita dell’industria tessile metropolitana è protetta dalle autorità inglesi con il ricorso a dazi doganali sempre più alti (fino al 75%), che colpiscono anche le stoffe indiane, voce principale delle importazioni della Compagnia, mentre le stoffe inglesi in partenza per l’India ne sono praticamente esenti. Inoltre, tutta una serie di oneri fiscali vengono imposti alle varie fasi della lavorazione, ciò che determina il crollo definitivo della manifattura specializzata indiana e la caduta dei prezzi del cotone grezzo, a tutto vantaggio dell’industria inglese.
Diventa importante a questo punto inserire appieno l’economia indiana nel circuito di quella britannica, col ruolo di fornitrice della materia prima. In questa direzione spingono soprattutto i capitali provenienti dalla madrepatria, investiti in piantagioni, imprese commerciali e manifatture di prima lavorazione. Prende pertanto il via una politica più razionale e articolata di lavori pubblici volti principalmente a snellire e a velocizzare le comunicazioni ed i trasporti (strade, ferrovie, e canali di navigazione) o a valorizzare le terre (canali di irrigazione): il tutto finanziato con un inasprimento fiscale, in senso decisamente antipopolare (la tassa sul sale, ad esempio). Alla fine dell’Ottocento l’India sarà percorsa da 35.000 km di strade ferrate, che consentono l’afflusso dei prodotti dall’interno verso i grandi porti, sia occidentali che orientali. Anche il sistema di irrigazione è funzionale in primo luogo ad una produzione specializzata destinata all’esportazione: si tratta infatti di thè, caffè, cotone, tabacco e, sul finire del secolo, gomma. Nel settore agricolo gli inglesi operano, con il loro intervento amministrativo, una vera e propria rivoluzione. Come scrive ancora la Luxemburg, “Il capitale deve annientare i rapporti di produzione preesistenti, perché una vasta parte delle terre sono in mano a forze produttive non disposte a cedere i loro prodotti o a produrre ciò che serve al capitale”. Per questo, anche là dove la razionalizzazione fiscale inglese ha riconosciuto il diritto di proprietà ai vecchi locatari, i ryotwari, coloro che lavorano la terra, non tarda ad imporsi la concentrazione fondiaria. “…una riforma agraria che non protegga i proprietari coltivatori con appropriate misure educative, politiche o economiche, specialmente nel settore, tende a risolversi per essi in un beneficio solo temporaneo. I nuovi proprietari coltivatori indiani caddero ben presto in preda ai creditori. E alla fine molti si trovarono costretti a vendere la loro terra ad un funzionario, lo zamindar, o ad altra persona ricca che, come proprietario assenteista, pretendeva un canone di fatto pari alla metà o a più della metà del raccolto” (Wittfogel).
Di pari passo con l’articolarsi degli interessi economici in India muta anche l’atteggiamento morale nei confronti della colonia. La Compagnia aveva praticato nei primi cinquanta anni del suo dominio una politica di non intervento sulla cultura e sulle tradizioni indiane, soprattutto in campo religioso. A questo fine aveva espressamente vietato l’attività missionaria, nel timore di reazioni che si ripercuotessero sui rapporti politici e commerciali. Una volta però che il dominio diretto copre la gran parte dei territorio, giungono dalla madrepatria pressioni per un maggior impegno di “civilizzazione”, proporzionale all’aumento di quello militare e finanziario. Si muovono in questa direzione dapprima le organizzazioni religiose evangeliche, poi l’assunto vien fatto proprio anche dalle correnti liberal-radicali (Mill, Macaulay), che manifestano una disposizione fortemente critica.
A tal proposito ritengono che l’unica reale possibilità di emanciparsi passi per gli indiani attraverso la completa occidentalizzazione: sono quindi fautori di una politica scolastica, giuridica e religiosa che esporti in oriente le “conquiste” del diritto e dell’istruzione inglese. Questo orientamento prevale, attorno agli anni ‘30, anche in seno alla Compagnia, che dopo aver perso i diritti di monopolio commerciale tende a conservare almeno quelli amministrativi e a giustificarli di fronte all’opinione pubblica. In effetti, i primi provvedimenti appaiono proprio destinati a colpire la sensibilità occidentale: sono le leggi contro l’obbligo al suicidio per le vedove, contro l’infanticidio femminile, pratica di equilibrio demografico molto diffusa, contro l’assassinio rituale praticato da alcune sette, ecc…
Nel 1834 è allargata anche all’India l’abolizione della schiavitù. Il consenso in patria è d’altro canto assicurato dalla concessione della libertà di propaganda religiosa (1837) e dalla proclamazione dell’inglese a lingua ufficiale dell’India. A tutto ciò si accompagna la creazione di scuole inglesi per preparare le nuove classi indigene al loro ruolo amministrativo ed economico (l’Hindu College, ad esempio), cui segue prima del 1860 la fondazione di sedi universitarie a Madras, Bombay e Calcutta.
Le reazioni indiane a questa aggressione culturale non sono uniformi. Da un lato i vecchi detentori del potere spirituale, soprattutto la casta dei brahamani, tentano una resistenza, indirizzando la loro propaganda negativa principalmente agli strati inferiori della popolazione: e sono stimolati, per contrapporsi attivamente alle blandizie offerte dalla cultura occidentale sul piano tecnico e materiale, a rivalutare elementi teoretici e pratici dell’induismo caduti da tempo in disuso. Dall’altro lato le classi borghesi indiane sono invece molto attente alle possibilità offerte dall’occidentalizzazione, non ultima quella di entrare a far parte, sia pure nei ranghi inferiori, del prestigioso Civil Service. C’è infine una reazione più mediata, sincretistica, che mira a svecchiare la cultura indiana senza rinnegarla.
La politica di assimilazione culturale è perseguita con decisione, nel massimo spregio della tradizione di costume e di pensiero indiana, fino alla metà del secolo: fino a quando cioè la rivolta del 1857 non ne denuncia il sostanziale fallimento. Gli inglesi si accorgono di aver calcato troppo la mano e si affrettano ad intraprendere un’altra strada. Nel proclama dell’India Gouvernment Act la regina Vittoria scarica sulla Compagnia le responsabilità dell’offensiva culturale, e ribadisce la volontà del governo britannico di non interferire religiosamente (“rinunciamo al diritto e al desiderio di imporre le nostre convinzioni”), quindi di rispettare le tradizioni religiose delle varie collettività, e giuridicamente, per cui viene abbandonata l’opera di sovrapposizione del diritto anglosassone alle consuetudini locali. Nel settore dell’educazione si provvede a reintrodurre lo studio delle lingue e delle culture indigene. Non è estranea a questo capovolgimento di indirizzo una sottile valutazione politica, rispondente al principio del divide et impera: nulla garantisce meglio la stabilità dell’egemonia inglese sull’India della mancanza di un sentire religioso e politico unitario.
Al di là delle svolte nei modi di gestione del potere, però, l’atteggiamento rimane improntato alla presunzione di superiorità. Allorché infatti l’ala più liberale del parlamento inglese tenterà affermare la parità di diritto degli indiani ai fini dell’inserimento negli organi amministrativi coloniali (legge Ilbert del 1883) il progetto sarà osteggiato e infine respinto, dopo un’unanime levata di scudi da parte dei coloni britannici. L’uomo bianco preferisce portare da solo il proprio fardello.
La riorganizzazione coloniale olandese
Le difficoltà attraversate dalla madrepatria agli inizi dell’Ottocento, in mezzo agli sconvolgimenti prodotti prima dalla rivoluzione francese e poi dall’espansionismo napoleonico, si riflettono pesantemente sull’impero coloniale olandese. Con l’occupazione di Singapore e di Malacca gli inglesi assumono il pieno controllo commerciale dell’oceano indiano, e agli olandesi non rimane che intensificare lo sfruttamento interno delle isole indonesiane. La vecchia Oost Kompanie, ormai cronicamente deficitaria, è messa in liquidazione nel 1799 e l’amministrazione coloniale passa direttamente nelle mani dello stato. Dopo il periodo di occupazione inglese, che aveva visto l’apertura dell’arcipelago della Sonda al libero scambio, e la costituzione di nuovi interessi con il vicino possedimento britannico dell’India, c’è un po’ di incertezza sull’indirizzo economico da seguire: fino a quando, nel 1824 viene fondata una nuova compagnia monopolistica per il controllo del commercio estero delle Indie olandesi, la Nederlandsche Handle Maatschappij. Questo inasprimento protezionistico provoca la rivolta dei sultani semi-indipendenti, e dal 1825 al 1830 Giava è sconvolta da una vera e propria guerriglia guidata dal principe Dipa Negara. Seppure vittoriosa, la campagna di repressione porta alle stelle il deficit gestionale, e impone alle autorità olandesi di individuare strumenti fiscali di recupero. D’altra parte, l’indipendenza ottenuta nel frattempo dalle province meridionali, che vanno a costituire il nuovo stato belga, impone delle correzioni d’indirizzo economico, non essendo più necessario difenderne con misure protezionistiche l’industria nascente.
L’uomo che imprime una svolta alla politica coloniale olandese è il governatore Johannes van den Bosch, nominato nel 1830, che introduce il “sistema di coltura” (culturstelsel). In pratica l’amministrazione prende a gestire in proprio una parte della coltivazione agricola: impone ai contadini di destinare un quinto delle terre alla coltivazione di prodotti che dovranno essere ceduti ad un prezzo minimo preconcordato: esige inoltre, a titolo di pagamento delle imposte, prestazioni d’opera per un quinto dei giorni lavorativi. Sulle terre di stato si sviluppano colture specializzate (caffè, indaco, zucchero, tabacco, cannella, cotone) destinate all’esportazione. I prodotti saranno trasportati in Olanda dalla compagnia di commercio, quindi ceduti all’asta ai commercianti olandesi che li redistribuiranno in Europa. Il guadagno, fatti salvi i costi di trasporto, va alle casse del tesoro olandese, a copertura delle “spese di amministrazione coloniale”.
Naturalmente, all’atto pratico le aree a coltivazione forzata rappresentano spesso quasi la metà dei terreni coltivabili, così come i giorni da dedicare ad esse diventeranno almeno un terzo. Ma gli oneri per i coltivatori indigeni non si fermano qui: essi sono costretti a pagare una imposta sulla proprietà e spesso sono soggetti ad ulteriori corvées per la costruzione o la manutenzione di opere pubbliche. Tutto ciò, la sottrazione di terre alle produzioni alimentari, il lavoro coatto, lo sfruttamento inumano nei cantieri pubblici, aggrava incredibilmente le già precarie condizioni di vita delle popolazioni delle isole. Nel 1843 e poi nel 1848 debbono essere affrontate terribili carestie, che si ripetono con frequenza crescente nel decennio successivo, dando origine a disordini e a sollevazioni degli indigeni. Pertanto a partire dalla metà del secolo il “sistema” deve essere attenuato. La sua formale abolizione è decretata dal governo olandese sin dal 1856, ma solo in rapporto ad alcune misure troppo pesantemente costrittive. Nella realtà, malgrado le pressioni di un movimento d’opinione suscitato in patria da alcune relazioni di denuncia[1], la riforma procede molto lentamente. Entro il 1870 vengono abolite le coltivazioni forzate dell’indaco, del pepe e delle spezie principali, anche perché questi prodotti hanno perso importanza sul mercato europeo. Per lo zucchero ed il caffè, ancora molto redditizi, e per l’oppio, fondamentale nel rapporto con la Cina, si dovrà attendere fino al nuovo secolo.
L’attenuarsi della pressione fiscale diretta, dell’alienazione di terra, della imposizione del lavoro coatto si accompagna al manifestarsi di una congiuntura economica favorevole per l’economia coloniale indonesiana, dovuta sia alla maggiore velocità dei trasporti, con l’apertura del canale di Suez e con la navigazione a vapore, sia allo sviluppo di alternative di produzione, legate alla coltivazione del caucciù, al rinvenimento di giacimenti di stagno e ai primi tentativi di sfruttamento del petrolio. Ciò stimola l’Olanda ad assicurarsi un controllo effettivo sulle isole solo nominalmente “protette”, onde escludere interferenze o rivendicazioni da parte di altre potenze che manifestano un sempre più attivo interesse per il sud-est asiatico. Saranno definitivamente occupate Celebes, Sumatra e, non prima degli inizi del secolo e a prezzo di un logorante sforzo militare, l’Atjeh, sull’isola di Riau.
La penetrazione della Francia in Indocina
La Francia ha una tradizione di interesse per la zona indocinese che risale alla fine del XVII secolo, all’epoca di un tentativo di ingerenza nelle lotte interne del Siam. Nel corso del secolo successivo la sua presenza in quest’area è affidata soprattutto alle missioni cattoliche, che ottengono anche successi diplomatici aiutando il sovrano dell’Annam a sedare una rivolta e spingendolo a stipulare un trattato di alleanza con le autorità francesi.
Nella prima metà dell’Ottocento l’atteggiamento degli asiatici muta però radicalmente. Per oltre cinquant’anni l’impero annamita si chiude alla penetrazione sia religiosa che commerciale dell’occidente, e la Francia non ha né la volontà né la forza di sbloccare la situazione: fino a quando i successi britannici in Birmania ed il ritorno ad una politica di prestigio con Napoleone III portano ad un mutamento di indirizzo. Una prima mossa in questo senso viene compiuta nel 1858-59, nel corso della prima guerra contro la Cina, e si conclude con l’occupazione di Saigon, sul delta del Mekong. Una volta attestati sulla penisola i francesi possono allargare il raggio d’azione, arrivando nel 1861 alla conquista della parte meridionale dell’Annam, le tre province chiamate dagli europei Cocincina. Fino a questo momento, comunque, il loro impegno rimane forzatamente limitato, per la concomitanza con l’avventura messicana, e non viene presa in considerazione l’opportunità di estendere verso l’interno la penetrazione. A forzare la mano alle autorità metropolitane è una rivolta scoppiata in Cambogia, che offre il pretesto all’amministrazione militare coloniale per intervenire ed imporre al paese un protettorato (1864). L’occupazione si rivela tutt’altro che facile: bande di ribelli e di guerriglieri tengono impegnate per anni le truppe francesi, e la situazione si aggrava allorché l’Annam settentrionale (o Tonchino) comincia ad essere percorso da bande cinesi in fuga dopo la repressione della rivolta del Tai-Ping. Nel frattempo il commercio francese scopre l’importanza del Fiume Rosso, che ha il suo delta proprio nel Tonchino, ai fini della penetrazione economica diretta all’interno della Cina. Le ambizioni coloniali della Francia si estendono quindi all’intero Annam, dando luogo già nel 1873 ad alcune iniziative militari “private”: ma ancora pesa lo shock della sconfitta subita ad opera della Prussia, e il governo di Parigi preferisce non impelagarsi in conflitti all’altro capo del mondo. Solo dieci anni dopo, sotto la presidenza del convinto espansionista Jules Ferry, sarà imposto al Tonchino il protettorato francese, al termine di una breve guerra con la Cina, la quale dovrà adattarsi ad accettare una nuova, inquietante vicinanza.
Sull’esempio della Compagnia delle Indie, anche la Francia persegue una politica di integrale assimilazione delle popolazioni asiatiche alla cultura e all’economia europea. L’attuazione di questo disegno si rivela però ancor meno facile che in India, poiché tutta la popolazione indocinese è compatta nel boicottarlo, e il tipo di presenza francese non favorisce la nascita di classi nuove cointeressate nell’amministrazione. Si tratta infatti, almeno fino al 1879, di una colonizzazione a carattere militare, affidata al “governo degli ammiragli”, ufficiali della marina francese che godono in pratica di diritti illimitati e della massima autonomia decisionale. Ciò in conseguenza del fatto che nella prima fase della conquista l’Indocina non costituisce un obiettivo primario, ma è intesa piuttosto come base d’appoggio per la flotta francese nelle sue operazioni anti-cinesi, oltre che come trampolino per l’espansione nei Mari del Sud. Dopo l’apertura forzata dei porti cinesi Saigon diventerà invece uno scalo importante per gli scambi commerciali con la Cina, e l’amministrazione francese comincerà a guardare con altro interesse alle possibilità di valorizzazione economica della provincia indocinese.
I rapporti europei con la Cina
Attorno alla metà dell’Ottocento, decaduto il privilegio monopolistico ed in presenza di dazi sempre più pesanti che difendono i prodotti metropolitani scoraggiando le esportazioni coloniali, la Compagnia inglese delle Indie deve contare per il trasferimento dei propri profitti in patria su una sola merce: il thè. Questo prodotto è importato dalla Cina, ed è pagato in oppio e cotone indiano, soprattutto col primo, ciò che consente un attivo commerciale col mercato cinese. Le autorità di Pechino vietano naturalmente l’introduzione dell’oppio in territorio cinese, e non soltanto per ragioni sanitarie: ma non sono in grado di impedire una fiorente attività di contrabbando, per un valore commerciale di gran lunga superiore a quello degli scambi ufficiali.
La situazione precipita quando i funzionari cinesi ricevono l’ordine di passare ad una decisa repressione, e cominciano a sequestrare i carichi e a catturare i contrabbandieri inglesi. È il pretesto che la Compagnia attendeva da tempo: nel 1839 passa d’attacco, sconfiggendo i cinesi e imponendo loro oltre ad un allentamento delle maglie di controllo delle frontiere, l’apertura di cinque porti (treaty ports) al commercio inglese e di una zona di libero scambio sotto protezione inglese ad Hong-Kong, nonché l’adozione di tariffe daziarie molto basse sulle importazioni. I1 commercio britannico comincia infatti a guardare con interesse all’immenso mercato cinese, soprattutto come sbocco per la produzione tessile industriale, ed è questo che induce la madrepatria ad appoggiare anche militarmente le pretese della Compagnia. D’altro canto, l’intervento appare perfettamente in linea con la politica di libero scambio propugnata (e, nel caso, imposta) dall’Inghilterra in questo periodo.
Il trattato di Nanchino (1842), che sancisce le concessioni ottenute dagli inglesi, non può lasciare indifferenti le altre potenze economiche occidentali. Analoghi privilegi ottengono due anni dopo la Francia e gli Stati Uniti, in virtù del riconoscimento dello status di “nazione più favorita”, che allarga automaticamente ad ogni paese che ne goda le concessioni ottenute dagli altri. Rimangono in vigore, però, le limitazioni alla circolazione degli europei (non possono allontanarsi, in pratica, dai porti aperti) e ai loro investimenti (non possono essere proprietari di industrie, ferrovie, ecc…). Soprattutto, la situazione non viene mai ufficialmente accettata dalle autorità cinesi, che rifiutano di ospitare rappresentanze diplomatiche, o di inviarne presso i governi europei. Questo atteggiamento, che preclude ogni possibilità di negoziare diplomaticamente l’intensificazione dei rapporti, induce le potenze occidentali a cogliere ogni pretesto ed ogni occasione di crisi interna della Cina per imporre accordi meno restrittivi. Nel 1856 pertanto l’Inghilterra approfitta del disordine creato dalla ribellione a sfondo sociale e religioso del Tai-Ping (Grande Pace) per forzare la mano alle autorità cinesi, affiancata ben presto dalla Francia. Gli europei ottengono questa volta l’apertura di numerosi altri porti, la possibilità di spostarsi su tutto il territorio cinese e di fare opera di evangelizzazione, oltre al diritto di navigare lungo lo Yang-tze e di mantenere rappresentanze diplomatiche a Pechino (trattato di Tientsin, 1858). Le clausole dell’accordo sono estese questa volta, oltre che agli americani, anche ai russi.
La politica della “porta aperta” attuata nei confronti della Cina, l’imposizione cioè di rapporti commerciali e politici sulla base di accordi unilaterali, offre l’esempio più chiaro e significativo di come il liberismo economico si coniughi, nell’interpretazione inglese (le altre nazioni vi hanno un ruolo più marginale) con un gioco equilibrato di potenza e di cautela nell’espansione. Alle “guerre dell’oppio” non è sotteso alcun disegno di conquiste territoriali, fatta eccezione per poche basi d’appoggio militari e commerciali. E questo non soltanto per la portata dei problemi militari e, in caso di successo, amministrativi che un simile progetto implicherebbe, quanto piuttosto per un preciso orientamento britannico, dettato dall’egemonia dell’industria inglese a metà Ottocento. La forma di espansione più remunerativa e meno problematica è a questo punto l’imposizione e la difesa, se occorre anche armata, dell’economia di mercato.
La Francia in Algeria e in Senegal
Nel 1830 la Francia torna ad una politica coloniale attiva, dopo un periodo di quasi settant’anni durante il quale il suo vecchio impero coloniale era andato sfaldandosi. Il sogno di una nuova fase espansionistica in direzione extraeuropea, coltivato da Napoleone all’epoca della spedizione in Egitto, era stato frustrato sul nascere dallo strapotere navale britannico: il paese esce ora dal congresso di Vienna ulteriormente impoverito nei suoi possedimenti, che comprendono ormai solo alcune isole delle Antille (Martinica, Guadalupa, Saint Pierre e Miquelon, mentre è definitivamente persa San Domingo), la Guyana, le basi commerciali del Madagascar e del Senegal, oltre a cinque agenzie in India.
A dire il vero, né la classe politica né l’opinione pubblica sembrano dolersi molto di questo ridimensionamento: ci sono problemi più urgenti relativi alla ricostruzione interna, e c’è anche alla base una tradizione di scarso entusiasmo per un’espansione che non sia quella continentale. Anche sotto il profilo economico, l’industria francese è ancora lontana dai livelli di quella anglosassone e deve preoccuparsi della riconquista del mercato interno, prima di cercare sbocchi oltremare.
I fattori che conducono all’impresa algerina appaiono quindi piuttosto anomali, nel quadro delle motivazioni colonialistiche ottocentesche. Esistono nei confronti dell’Algeria ruggini vecchie, legate alle azioni piratesche che partendo dalle basi nordafricane continuano a disturbare il traffico mediterraneo, e che si sono infittite nel periodo delle guerre napoleoniche, approfittando dello spostamento in altri settori delle flotte militari europee. C’è un pretesto più attuale, fornito da un grave affronto (un colpo di frustino) arrecato dal bey di Algeri ad un diplomatico francese, e dietro questa vicenda c’è il problema di un credito ingente aperto dal bey (o almeno, garantito da lui) allo stato francese, il quale non riesce ad onorare le scadenze del rimborso. Ma c’è, soprattutto, la tensione interna della Francia nel 1830, e la speranza che una spettacolare azione di prestigio, in un’area piuttosto vicina, possa catturare l’attenzione e fungere da diversivo. Non è un caso infatti che l’impresa venga decisa in vista della consultazione elettorale, contro il parere degli stessi militari, che non si nascondono le difficoltà di combattere in un ambiente molto diverso da quello europeo. Infine, non può essere dimenticato che su questa decisione influiscono molto anche le pressioni della Chiesa, che sta conoscendo un rinnovamento dello spirito missionario e del proprio peso politico.
La conquista, almeno per quanto riguarda Algeri, è piuttosto rapida. I francesi sbarcano attorno alla metà di giugno e ai primi di luglio il bey è costretto a capitolare. Ma questo non basta a salvare le sorti della dinastia borbonica. È così il nuovo sovrano Luigi Filippo, appena salito sul trono, a dover gestire una eredità spinosa, aggravata dalle complicazioni diplomatiche che un’azione del genere, non concordata preventivamente, rischia di sollevare con le altre potenze, prima tra tutte l’Inghilterra. Il governo francese opta per un’occupazione temporanea, limitata alle posizioni già acquisite, probabilmente in attesa dell’occasione per una ritirata dignitosa. Ma a questo punto entra in gioco la logica militare, e il rafforzamento difensivo della zona controllata porta invece poco alla volta all’occupazione di tratti sempre più ampi di costa, nelle zone di Bona e di Algeri. Di fronte all’opinione pubblica sia interna che internazionale la giustificazione data di questa escalation fa riferimento alla volontà di liberare le tribù del nord-Africa dal “giogo ottomano”. Si parla pertanto di “occupazione limitata”, che garantisce agli algerini l’assoluta libertà di religione, di proprietà, di commercio: ma nel contempo il comandante militare Clouzel comincia a fondare, contro le indicazioni dello stesso governo, delle colonie agricole. Per esse recluta in Europa vagabondi e disoccupati, facendo intravvedere al paese la prospettiva di liberarsi di masse passive e turbolente.
Solo dopo il 1834, comunque, sia pure ancora in assenza di un preciso disegno coloniale, comincia ad evidenziarsi una prassi di esproprio o di occupazioni di terre da parte di coloni europei che spinge gli indigeni alla rivolta. Trovato un capo di valore e di prestigio in Abd el Kader essi iniziano una violenta controffensiva che mette i francesi in difficoltà, al punto che nel 1840 viene deciso l’invio di un grosso contingente di truppe al comando del generale Bugeaud, con l’incarico di pacificare “ad ogni costo” la regione. I successi di questa campagna inducono il governo francese ad abbandonare la finzione dell’occupazione limitata e a dare il via ad un vero e proprio piano di colonizzazione, gestito dal ministero degli interni e dall’autorità militare coloniale. Gli insediamenti organizzati non hanno però un gran successo, mentre si sviluppa meglio la colonizzazione libera, quella cioè di civili che impiantano fattorie o addirittura villaggi nei luoghi che appaiono sufficientemente protetti dall’avanzata militare.
È in pratica questo tipo di colonizzazione ad imporre un impegno militare sempre più massiccio, a scopo di difesa e garanzia. Nel 1847 anche Abd el Kader è costretto alla resa e la rivolta perde efficacia, anche se non è del tutto liquidata. La repressione di Bugeaud è durissima, ha già tutte le caratteristiche della guerra totale: distruzione dei raccolti, sradicamento delle popolazioni più irrequiete dalle loro sedi. Il comandante francese è peraltro ostile anche ai civili europei, e vagheggia una colonia ad impostazione eminentemente strategico-militare. Col suo richiamo in patria questo indirizzo muta, ma nella sostanza fino al 1870 saranno i militari a governare l’Algeria. Come afferma Fieldhouse, l’esperienza algerina “[…] fu il terreno di coltura di un imperialismo militare che avrebbe influenzato il corso ed il carattere del colonialismo francese in molte altre parti del mondo”. Essa “[…] consacrò l’opinione che gli affari militari di province remote dovessero essere lasciati alla discrezione dei militari e che, quale che fosse la valutazione del merito della loro azione, una volta intrapreso lo scontro nemico l’esercito doveva essere appoggiato ad ogni costo, altrimenti ne avrebbe sofferto il suo prestigio e quindi quello della Francia.” Il carattere spiccatamente militare dell’occupazione spinge i francesi ad estendere progressivamente alle regioni circostanti il cuscinetto protettivo. Dalla zona costiera le truppe incalzano i ribelli fino alle montagne della Kabilia, ponendo le premesse per le future aggressioni al Sudan e al Marocco, ma soprattutto per il disegno di una presenza francese che dal Mediterraneo al golfo di Guinea copra tutta l’area nordoccidentale.
Una volta consolidata l’occupazione l’Algeria diventa, per la sua vicinanza con la madrepatria, una colonia di popolamento. I coloni sono attirati dalla possibilità di ottenere concessioni gratuite di terre, o di acquistarle a prezzi irrisori, approfittando degli espropri compiuti dalle autorità militari nei confronti delle tribù ribelli. Col tempo le spoliazioni ai danni dei contadini arabi diventano sistematiche, così da alienare nella quasi totalità le terre coltivabili e ridurre i fellah in uno stato di miseria e di dipendenza assoluta. Ciò, oltre ad essere una naturale conseguenza di questo tipo di colonizzazione, è perfettamente funzionale al disegno di totale assimilazione che il governo francese concepisce per l’Algeria: già nel 1848 infatti il territorio algerino è dichiarato parte integrante di quello nazionale, e assoggettato alle stesse leggi. Di qui la necessità di un trapianto massiccio di popolazione bianca e di un annichilimento culturale ed economico di quella indigena, per privarla di ogni possibilità e volontà di reazione.
La politica del popolamento ha però un risvolto che già gli inglesi avevano dovuto sperimentare: i coloni si formano ben presto una mentalità autonomistica, non accettano alcuna restrizione o legislazione protettiva dei diritti degli autoctoni e tendono ad allentare i legami amministrativi con la madrepatria. Soltanto la paura di una rivolta araba, e quindi la necessità di una consistente presenza militare, li dissuade dal cercare una soluzione drastica del rapporto. Questo atteggiamento genera però una tensione ed un divario d’intenti tra il governo centrale e gli europei d’Algeria che informerà tutta la storia della colonia, fino ad esplodere quando si giungerà al nodo della liberazione.
La conquista dell’Algeria, con le prospettive di ulteriore espansione nell’area nordafricana che ne conseguono, porta la Francia a riconsiderare l’importanza degli avamposti commerciali che ancora le rimangono sulla costa atlantica del continente, cioè il porto di St. Louis alla foce del fiume Senegal e l’isola di Gorée, a sud di Capo Verde. Questi insediamenti erano stati in pratica abbandonati a se stessi dopo l’abolizione della tratta, che ne aveva liquidato l’unica attività economica di rilievo, ma anche in precedenza essi non avevano offerto stimoli per un progetto di colonizzazione più ambizioso, in quanto le chiavi del rapporto commerciale erano saldamente in mano alle popolazioni costiere che fungevano da intermediarie con l’interno.
Ora però il Senegal acquista un preciso rilievo strategico, come base d’appoggio per una penetrazione verticale in direzione del Marocco e del Sudan. Accogliendo finalmente le richieste dei commercianti locali, il governo invia un suo delegato, Louis Faidherbe, che allarga l’influenza francese a tutto il bacino inferiore del fiume Senegal, gettando le basi per la fondazione di una colonia vera e propria. Faidherbe riesce soprattutto ad individuare l’alternativa economica che può valorizzare il possedimento, e incentiva oltre al commercio della gomma la coltivazione delle arachidi, che fornirà alle industrie francesi grossi quantitativi di oli vegetali. Dota inoltre la colonia di una sua milizia indigena, i fucilieri senegalesi, che diverrà importante per l’apporto dato alle future conquiste nell’Africa occidentale; l’identificazione di questa anomala “risorsa” di carattere militare avrà un peso considerevole anche nella determinazione dello slancio espansionistico di fine secolo.
Il Senegal non fa dunque che confermare la peculiarità che contraddistingue in questo periodo l’azione coloniale francese, in Africa o in Asia: l’essere cioè informata costantemente ad esigenze militari, quasi si trattasse dello sfogo extraeuropeo di una tradizione di egemonia militare che l’avvento di altre potenze, dall’Inghilterra alla Prussia alla Russia, ha avviato al tramonto. Una tradizione, beninteso, che non si limita ad essere spirituale ma ha alle spalle un intero settore economico che preme, tanto più importante ed influente quanto maggiore viene ad essere il peso dell’armamento bellico pesante.
Esotismo e razzismo nella cultura ottocentesca
Il concetto ottocentesco di civiltà si regge sui due cardini del progresso e del lavoro. L’idea che l’uomo progredisca verso stadi sempre superiori è un portato della modernità: era stata abbozzata da Bacone agli inizi del ‘600 e definitivamente consacrata da Fontenelle all’epoca della “querelle entre les anciens et les moderns”, per poi entrare a pieno titolo nel corredo del pensiero illuministico. Non aveva tuttavia mai trasceso la nozione piuttosto vaga di un “avanzamento dello spirito umano” inteso in senso universale, senza identificarsi in particolari tipi di società o canonizzare le modalità della crescita. Anche quando si era espressa attraverso quadri comparativi e scale di valori, questi facevano riferimento ad una “quantità” dello sviluppo o del perfezionamento. Nell’interpretazione settecentesca si supponeva infatti l’esistenza di un potenziale comune a tutti gli uomini, sul quale poi esercitavano un’azione di freno o di stimolo i fattori esterni, storici o ambientali. Agli albori del XIX secolo, però, Hegel dà del concetto una lettura spiccatamente politica, identificando la società con lo stato. La progressione dello spirito si incarna per lui in forme politico-nazionali sempre più evolute, da quella cinese a quella germanica. In questo quadro le società non politicizzate, quelle cioè che non hanno espresso una forma-stato, non meritano nemmeno di essere prese in considerazione: prime tra tutte quelle selvagge.[2] Non è una semplice rielaborazione di temi già presenti in Hobbes o in Locke: ci sono in mezzo un secolo di cosmopolitismo illuminista, poi una rivoluzione politico-sociale ed una economica, infine una guerra che relativamente all’epoca si può ben definire mondiale. L’universalità dello spirito umano è andata in frantumi, e sui suoi cocci nasce il nazionalismo.
L’altro principio chiave è quello del lavoro. La sua dignità è recente, si è affermata solo dopo una lunga lotta contro il marchio punitivo impresso dalla tradizione biblica (ma anche da quella classica greco-romana). In età illuministica i fisiocrati ne avevano ufficializzato il riscatto, ma il passo decisivo si ha solo con la rivoluzione industriale e con il mutamento di prospettiva che essa determina. Dal rapporto lavoro-sopravvivenza si passa definitivamente a quello di lavoro-valore, dove il secondo termine esprime un potenziale di creatività proiettato all’infinito. Per Hegel “il lavoro è il modo fondamentale con cui l’uomo produce la sua vita, dando inoltre una forma al mondo”. Non ha più ragion d’essere, pertanto, quella invidia e quell’apprezzamento per una società libera dalla schiavitù del lavoro che erano all’origine del mito settecentesco del buon selvaggio. La libertà non creativa diventa ozio.
Il clima culturale ottocentesco è quindi tutt’altro che favorevole al vagheggiamento dello “stato di natura” o alla rivalutazione di nazioni che sembrano aver fallito, o esaurito, il loro destino storico. L’affermazione di valori nazionalistici impone, al contrario, soprattutto nella sua espressione coloniale, di giustificare la conquista e l’acculturazione all’insegna del divario di civiltà: e metro della civiltà, nell’accezione di progresso tecnico-scientifico, è proprio il potenziale espansionistico. In quest’ottica perdono significato anche i dubbi che avevano frenato i fautori settecenteschi dell’esportazione della civiltà europea: il timore cioè di diffonderne anche gli aspetti negativi, il dispotismo, l’intolleranza, l’avidità. Per l’Ottocento anche questi caratteri sono funzionali all’incivilimento, se è vero che hanno contribuito alla crescita dell’Europa e si sono accompagnati alla sua progressiva egemonia. Basterà eliminarne i nei troppo vistosi, quelli capaci di turbare le coscienze più fragili, e comunque ormai economicamente anacronistici, come la tratta e la schiavitù, perché il quadro risulti accettabile anche moralmente. Proprio questa presunzione di essere depositari della giusta formula fa muovere all’avanguardia della nuova ondata espansionistica missionari, esploratori e commercianti, sulle cui tracce non tarderanno a rincorrersi anche i governi.
Elémire Zolla sottolinea in Eclissi dell’intellettuale come l’avanzata della rivoluzione industriale risvegli nella cultura romantica “il bisogno sempre affiorante dell’esotico come pimento tutt’affatto speciale, come nostalgia di una condizione primitiva, esente dal male che ha colpito l’occidente”. Ravvisa i sintomi di una nuova sensibilità verso i primitivi “in Chateaubriand e nel primo Melville dei viaggi per i mari del Sud, dove si ha già una tonalità diversa dai vagheggiamenti del buon selvaggio, che in Montaigne e negli illuministi erano stati essenzialmente un metro di paragone e quindi di critica delle istituzioni dell’occidente, mentre nel secolo XIX diventano nostalgia di una vita ancora schietta”. In effetti l’esotismo ottocentesco presenta un carattere nuovo, in armonia, seppure in una lettura in negativo, con l’acquisito senso della storicità: la nostalgia appunto di un mondo non contaminato dalla rivoluzione industriale, dal trionfo dello stato e dell’organizzazione sull’individuo, dall’egualitarismo anonimo e ipocrita dei nuovi rapporti sociali. La fuga dalla civiltà è la rivendicazione romantica dell’azione, la ricerca di un ambiente che offra la possibilità di un vero confronto-scontro con la natura e con l’uomo, che consenta al migliore di emergere. Una concezione per l’appunto aristocratica, e in relazione ai tempi reazionaria, che non comporta certamente nei confronti del selvaggio una disposizione più aperta di quella settecentesca. Se si eccettua il caso particolare di William Blake, la sua aspirazione a sintonizzarsi sulla sensibilità visionaria ed animistica dei primitivi, la cultura romantica usa il selvaggio unicamente come sfondo sul quale far risaltare la recuperata eccezionalità del bianco, o come pretesto ambientale nel quale evocare questo recupero.
È proprio Chateaubriand a scrivere, nella prefazione all’Atala: “[…] io non sono, come Rousseau, un entusiasta dei selvaggi … Essendo ben lontano dal condividere l’opinione che l’uomo pensante sia un animale depravato, credo proprio che sia il pensiero a fare l’uomo. Quanto a Chactas, … si tratta di un selvaggio più che mezzo incivilito”. Allo stesso modo, il selvaggio letterario ancor oggi più famoso, assieme al Venerdì di De Foe, l’Uncas dell’Ultimo dei Mohicani, non è che l’ombra del bianco Natty, ad esso fedele come un buon cane: ma un cane di razza, dalla bellezza apollinea e dal sentire aristocratico. Tra l’altro, l’ultimo di una minoranza aristocratica e pura, che nel rapporto coi bianchi non si è contaminata, come è accaduto invece agli infidi Uroni (che comunque nel romanzo rappresentano la norma dell’umanità indiana). Non a caso Uncas ha in premio l’amicizia di un bianco e addirittura l’onore di suscitare un sentimento, sia pure timido e combattuto, nel cuore di una bianca, accanto alla quale, dopo la tragica fine comune, sarà sepolto.
Ancora più evidente il nuovo nodello riesce in Taipi. I selvaggi di Melville non sono “buoni” e non sono innocenti: vivono in eterno conflitto con gli abitanti delle altre isole, e si sterminano gli uni con gli altri senza tante cerimonie. Sono selvaggi, quindi sono strani agli occhi di un occidentale, ma hanno una loro per quanto primitiva cultura, e avrebbero una loro dignità, se il contatto con i bianchi, con le loro malattie e i loro vizi non li guastasse, non ne distruggesse le tradizioni e la naturale bellezza fisica. Non sono comunque loro l’oggetto reale della nostalgia del giovane Melville, ma l’isola, il paesaggio, la possibilità di una vita lontana dalle costrizioni e dalla brutalità dell’imbarco.
È dunque un esotismo ormai prettamente ambientale, senza più nulla di culturale. Nella visione romantica non sono idealizzati gli esiti morali e sociali di un sentire primitivo, ma le possibilità di resistenza offerte da un ambiente intatto all’europeo schiacciato dalla sua stessa civiltà. Una resistenza cosciente, però, come quella che si esprime, sia pure in forme diversissime, in Thoreau, nel Canto notturno del Leopardi, nel Kubla Kahn di Coleridge, negli eroi di Carlyle, e poi in Byron, in Shelley, nell’Hugo delle Orientali, nel Flaubert di Salambo, e in infiniti altri.
Questo esotismo assume però, mano a mano che si procede nel secolo, sfumature diverse. E ciò vale tanto per gli ambienti (l’altrove) quanto per gli uomini (l’altro). L’altrove è sempre di più un luogo di fuga, come dimostrano soprattutto le vicende umane degli esploratori: ma la fuga presenta sempre meno la connotazione “aristocratica” che era presente in Chateaubriand, o nello stesso Melville, e che conserva ancora in Byron o in Scott. Si trasforma invece in una scelta di irregolarità, di trasgressione, anziché di opposizione. Lo testimoniano ad esempio i diari del viaggio orientale di Flaubert, che narrano lo scatenamento di una sensualità indiscriminata, libera dal convenzionalismo europeo, prima del ritiro ad una vita completamente votata alla scrittura; oppure, in uno spirito diverso, quelli di Richard Burton, che pure nella cultura orientale, in particolare in quella araba, entra in profondità, l’apprezza, la fa propria, ma la rielabora comunque ad uso e consumo di una prorompente personalità. La percezione del resto del mondo come luogo in cui fuggire dalle convenzioni è tanto più radicata nella seconda metà del secolo, quando si afferma non solo in Inghilterra la morale vittoriana, e continuerà ad essere tale per tutto il secolo successivo (da Lawrence a Thiesigher, da Gertrude Bell e a Marguerite Fontaine, fino a Chatwin, ecc), estendendosi dall’Oriente all’Africa (da Gide a Paul Bowles). Si tratta quindi di una immagine fortemente condizionata da una propria specifica situazione e ricerca.
Più complesso invece è il discorso per quanto concerne l’immagine dell’altro. Uscendo dall’ambito preromantico nel quale staziona ancora Chateaubriand, agli inizi dell’Ottocento si entra in quello romantico, ad esempio con Victor Hugo. In un romanzo scritto a sedici anni, Bar Jargal, ispirato dalle rivolte dei neri di Haiti, Hugo ci propone l’immagine di un non bianco che ha le stesse caratteristiche degli eroi romantici bianchi. Non è una valorizzazione del nero, tutt’altro: è una trasposizione di valori bianchi sotto pelli nere, e in questo senso appare semmai molto più realista Melville: ma implica comunque l’accettazione dei neri in un ambito molto largo, quello dell’umano. Il secolo si conclude (quasi esattamente) con l’uscita nel 1899 di Cuore di tenebra. L’atmosfera è radicalmente diversa. Al di là della critica al sistema coloniale, che è implicita, ma non è certo la finalità prima del racconto di Conrad, c’è soprattutto la constatazione della realtà ambigua e per certi versi spaventosa della coscienza dei bianchi. Le ultime parole di Kurz, “L’orrore. L’orrore” sembrano presagire tutto quello che caratterizzerà la prima metà del secolo successivo. In questo caso, però, non c’è nemmeno l’accettazione di Hugo. I nativi raccontati da Conrad rimangono dei misteriosi alieni, appartenenti ad un mondo nel quale i bianchi in cerca di rifugio o di realizzazione portano in realtà soltanto il peggio di sé: non hanno una personalità propria, ma rimandano l’immagine della condizione cui li ha ridotti la presenza dei civilizzatori, e che i civilizzatori vogliono vedere. Il Novecento si apre invece con un’altra storia, quella raccontata da Kipling in Kim e ne “L’uomo che volle farsi re”, quella del fardello di cui il bianco deve farsi carico per trascinarsi appresso un’umanità incapace di uscire dal suo stato di minorità. Fermo restando, però, che “Un uomo dovrebbe, qualsiasi cosa accada, tenere per la propria casta, razza e discendenza. I Bianchi vadano con i Bianchi, i Negri coi Negri.”[3]
In campo filosofico, invece, dopo la liquidazione del dibattito sullo “stato di natura” l’interesse torna a concentrarsi sulle realizzazioni del pensiero civilizzato, in un ambito che ormai si allarga anche alle culture extraeuropee: si sposta quindi dai popoli barbari alle civiltà pre-classiche, soprattutto a quella indiana, che comincia ad essere conosciuta in profondità attraverso la conquista inglese. Il misticismo intrinseco alla filosofia indiana offre più di uno spunto alla lettura romantica, allo stesso modo in cui il pragmatismo di quella confuciana aveva risposto alle esigenze illuministiche. In esso trovano infatti conforto soprattutto i “resistenti” contro la modernità politica ed industriale avanzate, ma ad esso attingono anche pensatori che la modernità per certi versi la fondano, e altri che addirittura la superano. In tal senso sarà la filosofia tedesca, da Hegel a Schopenhauer a Nietszche, a trarre dall’incontro le suggestioni più profonde, sia pure in una rielaborazione che rimane tutta interna agli schemi mentali propri dell’occidente.
Questo spiega l’esplosione di interesse per i Veda e per le Upanishad, ma anche per le scuole metafisiche del buddismo; interesse che si sposa e si integra con la fioritura di studi filologici, mirati alla ricostruzione delle generazioni linguistiche, e che vede in primo piano i tedeschi (Michaelis, Haller). Con la scoperta delle lingue indoeuropee, e con gli studi di linguisti del calibro del tedesco Franz Bopp, comincia a svilupparsi il “mito ariano”. Tutte le culture evolute vengono fatte discendere da un comune ceppo, da una mitica popolazione ariana, la cui lingua, l’indoeuropeo o sanscrito, viene considerata quella originaria dell’umanità, spodestando l’ebraico[4].
Gli inglesi, al contrario, dalla loro posizione di “civilizzatori” impegnati sul campo, si mostrano piuttosto sprezzanti nei confronti della cultura indiana. Il drastico giudizio dello storico Macaulay, secondo il quale “un solo scaffale di una buona biblioteca europea vale tutta la letteratura indiana ed araba” è significativo di un atteggiamento indotto dalla necessità di giustificare la conquista, che non tarderà a diffondersi al di qua della Manica non appena le altre nazioni europee si rimetteranno in corsa per l’espansione. Anche i britannici usano infatti il mito della razza ariana conquistatrice (sia pure enfatizzandolo molto meno rispetto ai tedeschi) per rendere compatibile la loro dominazione con il sistema delle caste indiano. Si sottolinea il fatto che gli antichi invasori “arii” dell’India erano popolazioni “bianche”, e che nel corso della loro penetrazione queste avevano soggiogato e spinto verso sud i popoli dravidici, più scuri e primitivi. La fondazione stessa dell’Induismo e la scrittura dei Veda vengono attribuite agli invasori, una volta insediatisi come casta dominante.
I miti dell’esotismo culturale e la loro decadenza sono spie significative di come cambi la disposizione mentale nei confronti dei non europei: ma ne riflettono in fondo solo l’espressione elitaria. Questo mutamento interessa invece la mentalità europea nel suo complesso, e sfocia in una attitudine molto meno sfumata. Le mitologie esercitano anche in questo ambito il loro influsso, sia pure indiretto: ma l’immagine che circola nella cultura di strada è desunta non dalle lettere o dalle dispute illuminate, bensì dalle narrazioni di marinai, commercianti, soldati, che hanno varcato l’oceano con una vocazione ed una curiosità ben lontane da quelle dei missionari o dei filosofi. Nei racconti delle bettole o nelle veglie familiari la diversità dei costumi si traduce in mostruosità, in barbarie, in inferiorità. Essa eccita la fantasia, ma anche lo scherno e il disprezzo. Sono i tratti paurosi e sgradevoli a calamitare l’attenzione degli ascoltatori, a costruire attorno al narratore la magia dell’avventura. Negli stereotipi che ne conseguono l’eccezionale diviene la regola: è il modo in cui si impongono sinonimie come quella tra nero e cannibale, destinate a condizionare in profondità la rappresentazione occidentale dell’altro.
Il passaggio dalla curiosità al disprezzo si velocizza mano a mano che le modalità della colonizzazione cambiano e lo sfruttamento dei colonizzati da commerciale diventa diretto. Si ripete in Asia e in Africa quanto era accaduto nel XVI e nel XVII secolo in America nei domini spagnoli, e in quello successivo nelle colonie britanniche: il presupposto per lo sterminio o per la riduzione in schiavitù delle popolazioni extraeuropee diventa la negazione della loro appartenenza al genere umano, o l’affermazione di una loro “naturale” inferiorità. È ciò di cui hanno bisogno i coloni per giustificare il loro diritto al possesso di terre strappate a chi non le faceva fruttare, o di imporre il lavoro coatto a chi il lavoro, nei suoi aspetti disumanizzanti tipicamente occidentali, non lo aveva mai conosciuto. Il nuovo corso colonialistico intrapreso dal capitale europeo nell’800 si avvarrà pertanto di una opinione pubblica pronta ad accettare le ragioni della “civilizzazione”, ma anche a farne a meno quando esse risultino troppo palesemente pretestuose.
Ad avallare definitivamente la superiorità bianca, e quindi il diritto alla conquista e allo sfruttamento, viene da ultimo la scienza. Si è già anticipato come nel ‘700 non si fosse ancora sviluppata una vera e propria concezione “scientifica” razzista. Essa era tuttavia già in nuce nella struttura conoscitiva settecentesca delle scienze naturali. Per razionalizzare l’esperienza della natura, in tutte le forme, organiche e inorganiche, immutabili e storiche, viene adottato come strumento della conoscenza il modello sistematico e classificatorio. L’ottica della nuova scienza biologica non privilegia più i dati della continuità e dell’interrelazione, ma quelli del differenziamento, funzionali ai criteri di commensurabilità e di distinzione. È un artificio conoscitivo che porta però gli schemi entro i quali la natura è percepita a imporsi rapidamente come forme intrinseche alla natura stessa.
Come abbiamo già visto, il primo grande naturalista settecentesco, Linneo, aveva fondato la sua tipologia umana su una ripartizione continentale: la specie homo comprendeva le varietà americanus, europaeus, asiaticus e afer, più le due ferus e monstruosus, che permettevano di inglobare tutte le diversità eccedenti: ciò era in perfetta linea con l’interpretazione, valida un po’ per tutti gli studiosi settecenteschi, dei mutamenti e delle varietà sulla base del clima e dell’azione ambientale. In questo quadro, pur riaffermando l’unicità monogenetica della specie umana, egli assumeva i caratteri morfologici come differenziali, desumendone anche una caratteriologia spirituale: “l’africano è pigro, negligente, dominato dalle passioni, l’europeo è muscoloso, ingegnoso, inventivo, governato dalle leggi.” Sono concetti ricorrenti nella letteratura e nella saggistica settecentesche: ma solo dopo Linneo la classificazione presume un fondamento biologico. Allo stesso modo, introducendo il concetto di razza, inteso come trasformazione (e più precisamente come degenerazione) di una stessa famiglia, Buffon gli attribuisce un carattere valutativo.
I nuovi criteri “scientifici” della disciplina antropologica incrementano sul finire del secolo lo sviluppo di branche specializzate della ricerca, finalizzate per l’appunto ad una sistemazione classificatoria e valutativa: l’antropometria e la craniometria. Le misurazioni metodiche sono intese a determinare dei caratteri medi di normalità e dei valori di classificazione, comparativi o assoluti. Ad esempio, nel definire i rapporti proporzionali tra le membra, il già citato Charles Withe rileva che nei negri l’avambraccio è più sviluppato di quanto lo sia nei bianchi, e ne evince che il negro morfologicamente è più affine alla scimmia. Altri misurano l’angolazione facciale, desumendone i valori “normali” per la specie umana dalla media europea[5]. Tutto ciò non fa che confortare la teoria “degenerativa” nei confronti delle altre razze o varietà. Lo stesso Blumenhach[6], pur riconoscendo che “non esiste alcuna varietà umana, per colore o espressione o statura ecc […], così peculiare da non poter essere collegata con altre dello stesso genere […]” e che quindi “del tutto arbitrarie, nel numero e nelle definizioni, sono state le varietà accettate da uomini eminenti”, interpreta poi secondo il modello degenerativo la diversità di colore o dei tratti fisici. Il tipo caucasico gli appare invariabilmente come il più “simmetrico” e bello, così come più naturale è il colore della sua pelle. Anche in Cuvier l’affermazione della ortodossia monogenista si accompagna ad una sottoclassificazione in tre razze fondamentali: la caucasica, adottando definitivamente il temine usato da Blumenbach, la mongolica e la negra. Nell’ambito di una stessa specie, però, “[…] i negri costituiscono la razza umana più degradata, quella le cui forme sono più vicine a quelle degli animali inferiori e la cui intelligenza non è ancora giunta a stabilire alcuna forma regolare di governo né è pervenuta a nulla che abbia la minima parvenza di una coscienza sistematica”.[7]
All’inizio del nuovo secolo cadono anche gli ultimi pudori scientifici dei naturalisti tardo-settecenteschi. Le tesi di Meiners[8] vengono sbrigativamente riassunte da Julien-Joseph Virey[9] in una formula che contrappone le “razze bianche e belle” a quelle “nere e brutte”, mentre per Lorenz Oken, che si richiama alla dottrina degli elementi, la razza nera sarebbe “scimmiesca” e associata alla terra, quella bianca “umana” e caratterizzata dal fuoco, i mongoli sarebbero associati all’aria, gli indiani all’acqua.[10]
La campagna napoleonica in Egitto crea però alcune complicazioni. Di fronte allo spettacolo delle piramidi e alla riscoperta di una civiltà tanto antica e tanto raffinata è necessario ammettere che anche i Camiti, i “maledetti da Dio”, sono evidentemente in grado di raggiungere livelli di civilizzazione elevati. De Volney, che peraltro ha viaggiato a lungo in Asia e nei paesi della sponda meridionale del mediterraneo, risolve il problema stabilendo che gli Egizi non sono veri e propri “negri”, ma negroidi, cioè camiti imparentatesi con i Greci e con i Romani.[11]
Nel corso del XIX secolo l’ipotesi di De Volney verrà sviluppata sino a fare della “razza camitica” un sottogruppo della razza caucasica, che raggrupperebbe le popolazioni non-semitiche del Nord Africa, del Corno d’Africa e dell’Arabia meridionale, e tra queste gli Egizi. A suffragare questa interpretazione interverranno, oltre alle testimonianze della storia antica, quelle degli esploratori delle regioni nilotiche, primo tra tutti John Hanning Speke, che sottolineano le differenze di livello organizzativo, oltre che morfologiche, tra le diverse popolazioni sub sahariane, e ipotizzano una certa contiguità razziale tra gli europei e alcune popolazioni africane. Nasce così la teoria hamitica, secondo la quale questa “sotto-razza”, in pratica un ramo camita della razza bianca, sarebbe emigrata anticamente anche in Africa centrale, dando origine a gruppi etnici in possesso di qualità e abilità ben superiori rispetto alle popolazioni negroidi originarie dell’Africa sub-sahariana, e dando vita in sostanza a tutti i risultati significativi nella storia africana.[12]
Queste ipotesi, ed altre egualmente contorte, che cercano di spiegare “storicamente” piuttosto che biologicamente le innegabili “continuità” tra i gruppi umani, rafforzano anziché minare l’idea di una fondamentale differenza. A favore di quest’ultima sembrano infatti andare tutti i progressi nella conoscenza scientifica e naturalistica maturati nella prima metà dell’Ottocento. La geologia di Lyell[13], coronamento e sintesi di studi che avevano iniziato ad apparire sin dai primi del settecento e che estendono gli spazi temporali entro cui situare l’origine della Terra e delle specie animali e vegetali, e la Vita di Gesù o Esame critico della sua storia (1835)[14] di David Strauss, frutto dello studio scientifico della Bibbia, liquidano definitivamente, a metà degli anni trenta, la credibilità delle Scritture come rivelazione diretta di Dio e indeboliscono la posizione monogenetica, con le sue implicazioni antirazzistiche (davanti a Dio tutti gli uomini sono eguali).
Negli anni cinquanta, poi, la scoperta dell’Uomo di Neanderthal a Düsseldorf (1856) smentisce anche per quanto riguarda la storia umana il dictum temerarium di Cuvier, in base al quale tutto ciò che c’era da sapere sulla catena dell’essere era ormai conosciuto, e apre prospettive nuove: pone le basi dello studio scientifico della preistoria e dell’origine dell’uomo, proiettata sempre più indietro nel tempo, e di primo acchito sembra screditare il monogenetismo biblico. Anche quando, di lì a poco, il moltiplicarsi dei ritrovamenti paleontologici e l’adozione di criteri per la datazione dei siti finiranno per rivolgersi contro la teoria poligenetica, facendo intravvedere profondità temporali capaci di ospitare qualsiasi trasformazione, ciò non impedirà che le teorie razziali conoscano una vera e propria “consacrazione” scientifica; e paradossalmente le argomentazioni decisive arrivano proprio dalla direzione opposta, dalla teoria darwiniana.
Con il tramonto, peraltro già annunciato dai primi dell’Ottocento, del poligenetismo, ai sostenitori della superiorità bianca viene a mancare l’appiglio di una “barriera naturale” da opporre alle mescolanze razziali. La necessità di trovarle un sostitutivo o un surrogato si rivela però tanto più urgente dopo la metà del secolo, allorché da un lato l’imperialismo europeo si accinge a lanciarsi sull’Africa, dall’altro l’abolizione della schiavitù crea problemi inediti di convivenza alle popolazioni dei possedimenti africani o asiatici o delle ex-colonie americane. La teoria darwiniana della selezione naturale[15], intesa come sopravvivenza del più adatto, sembra prestarsi magnificamente a questa bisogna: essa giustifica sul piano storico l’egemonia europea e su quello naturale il perpetuarsi, schiavismo o no, di un rapporto discriminatorio: “I1 darwinismo riscosse uno straordinario successo perché sulla base dell’ereditarietà fornì le armi ideologiche per un dominio di razza come per un dominio di classe, e si prestò ad essere impiegato pro e contro la discriminazione razziale” (Arendt). Non ha molta importanza il fatto che l’espressione “sopravvivenza del più adatto” non fosse in realtà di Darwin, ma di Spencer, e sia stata utilizzata da questi in sostituzione di “selezione naturale” per eliminare possibilità di interpretazione che implicassero un qualche intervento dall’alto: ciò che è indubbio è che agli europei non occorreva altro per convincersi di essere i più adatti.
Sebbene parlando di evoluzione per selezione naturale Darwin non miri affatto a costruire una teoria razziale, la sua opera si presta ad ogni sorta di fraintendimento, e pur muovendosi su un terreno strettamente biologico ha un impatto rivoluzionario che influenza anche il successivo sviluppo delle teorie razziali. Di per sé la teoria evoluzionistica, coerentemente sviluppata, pone in realtà fine alla controversia tra poligenetisti e monogenetisti, e consacra la tesi di questi ultimi. Tuttavia anche la posizione monogenetica si presta a derive ampiamente razzistiche, soprattutto quando viene impropriamente collegata, come vedremo, all’analisi storico-linguistica di Gobineau e combinata con i concetti di “lotta per l’esistenza” e “sopravvivenza del più adatto” introdotti già dai primi anni ‘50 da Herbert Spencer[16]. Il darwinismo sociale che ne consegue arriva alla conclusione che le razze più forti e più civili dovranno tenere a freno quelle inferiori ma numericamente preponderanti. E questo è il presupposto teorico dell’imperialismo.
Lo stesso Darwin contribuisce a rafforzarlo quando in The descent of man (1871), parla di “razze con diversi caratteri”. Avulsa dal contesto, questa espressione viene distorta sino a sottintendere l’esistenza di “qualità legate alla razza”. D’altro canto, dell’esistenza di differenziazioni razziali profonde Darwin era assolutamente convinto. Proprio in quest’opera scrive che “le razze differiscono anche in quanto a costituzione, acclimatazione e predisposizione per certe malattie. Le rispettive caratteristiche mentali sono allo stesso modo assai distinte, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti emotivi, e in parte anche le doti intellettuali. Chiunque abbia avuto l’opportunità di fare paragoni, dev’essere stato colpito dal contrasto tra i taciturni e persino scontrosi aborigeni del Sudamerica e i solari e loquaci negri”[17]. Lo scivolamento nel “razzismo” è evitato solo dal fatto che Darwin ritiene i popoli “inferiori”, se ben guidati, capaci di un “riscatto”, di portarsi cioè a livello di quelli occidentali. E che a differenza di Alfred Wallace, per il quale ogni razza aveva selezionato caratteri sia fisici che intellettuali specifici, che la rendevano perfettamente adatta a vivere in un particolare ambiente, e da ogni contaminazione aveva solo da perdere, pensa che questo riscatto sia auspicabile.
È piuttosto il suo entourage a spingersi molto più in là. Un cugino di Darwin, Francis Galton, fonda l’“eugenetica”, una disciplina che si propone il miglioramento della specie umana. L’intento è lodevole, perché l’obiettivo è quello di migliorare le condizioni di salute e di vita delle masse nelle città industriali: ma il presupposto, per il quale i fattori ereditari hanno nel degrado fisico e spirituale un peso considerevolmente maggiore rispetto a quelli ambientali, finisce per giustificare qualsiasi forma di intervento che impedisca agli individui affetti da malattie ereditarie di riprodursi. Portata alle conseguenze estreme, questa giustificazione arriverà a coprire nel Novecento prima i programmi scandinavi di sterilizzazione e successivamente quelli nazisti di eliminazione in massa. Anche se Galton è inglese, infatti, le sue idee, al pari di quelle di Gobineau, incontrano la loro massima risonanza in Germania.
Un altro clamoroso esempio, tedesco per l’appunto, della distorsione del darwinismo è rappresentato dalle teorie di Ernst Häeckel. La sua “teoria della ricapitolazione” per la quale “l’ontogenesi ripete la filogenesi” costituisce il presupposto scientifico per dimostrare la superiorità della razza ariana. Le caratteristiche fisiche dei popoli orientali testimoniano infatti a suo giudizio uno stadio evolutivo inferiore (l’uso di mongoloide come sinonimo di idiota nasce da qui). Le differenze “razziali” non sono quindi solo fisiche, ma anche intellettive. Ogni caratteristica, ogni tratto di diversità morfologica viene sottolineato e diventa sintomo di minorità morale e spirituale. “La differenza fra la ragione di un Goethe, di un Kant, di un Lamarck o di un Darwin, e quella del selvaggio più basso… è molto maggiore della differenza di grado esistente fra la ragione di quest’ultimo e quella dei mammiferi “più razionali”, le scimmie antropoidi”[18]. Il problema è che Haeckel non crede minimamente, a dispetto della sua stessa teoria, ad un “riscatto”, alla possibilità che il percorso evolutivo sia davvero simile, sia pure in tempi diversi, per tutte le razze: la minorità dei popoli di colore non è per lui una condizione di passaggio, ma uno stato senza sviluppi[19].
Ad analoghe conclusioni arrivano anche coloro che procedono in senso inverso rispetto al darwinismo, come James Pritchard, che interpreta la variazione come un processo di perfezionamento, quindi come un passaggio dal tipo negroide originario a quello bianco evoluto; o chi parte dal presupposto poligenetico di una origine multipla, richiamandosi alla relativa giovinezza della specie umana che non consentirebbe di spiegare mutamenti tanto accentuati e ormai radicati nei caratteri fisici. Quest’ultima teoria si presta anche all’individuazione di tratti peculiari delle varie razze, non solo morfologici ma anche psicologici o caratteriali, delle vere e proprie “vocazioni”, insomma: come quella dei negri alla schiavitù, sostenuta dagli americani Josiah Nott e G.R. Giddon nel loro Indigenous Races of the Eart (1857). Al di li di queste forzature, che denunciano la destinazione libellistica contro la crociata abolizionista, la biologia e l’antropologia della prima metà dell’Ottocento appaiono comunque orientate a favore della canonizzazione scientifica della diseguaglianza razziale. Al punto che nel 1863 il presidente della società antropologica di Londra, James Hunt, può presentate una comunicazione su The negro’s place in Nature nella quale l’inferiorità dei negri è “pienamente dimostrata”, a partire dai dati antropometrici fino ad arrivare agli esiti storico-culturali.
Una decina d’anni prima, nel 1854, Joseph-Arthur de Gobineau, aveva pubblicato l’Essai sur l’inégalité des races humaines. L’opera, vastissima, non introduce alcun argomento “scientifico” nuovo, ma organizza e riconduce a un filo unitario idee sino a quel momento disperse e contraddittorie. Per farlo il diplomatico francese pesca dappertutto, dall’antropologia e dalla storia, dalla filosofia, dalla religione e dalla linguistica, finendo per disegnare un quadro complesso e ambizioso che ruota attorno ad un’unica spiegazione, l’ossessione della razza. Sebbene cattolico, e quindi legato alla narrazione biblica della creazione, Gobineau aggira la tesi monogenetica postulando l’esistenza di un “uomo primitivo” (adamitico), dal quale sarebbero poi derivate le diverse “razze”. Riproponendo l’idea di un ordinamento gerarchico tra “razze” superiori (bianca) e inferiori (nera) fa propria la gerarchia razziale già disegnata dagli illuministi, ma non ne deduce le stesse conseguenze.
Gobineau scrive con l’intento dichiaratamente reazionario di contrapporre ai principi egualitari diffusi dalla rivoluzione le ragioni aristocratiche della purezza del sangue. Le sue teorie hanno radici nella stessa nostalgia romantica che ispira Chateaubriand e Carlyle, De Maistre e Ruskin: ma i temi ricorrenti della purezza della discendenza come indice di nobiltà, del diritto del più forte a dominare, si coniugano in lui alle risultanze degli studi linguistici della prima metà del secolo, che hanno identificato la matrice comune indoeuropea, suffragando, in una interpretazione estesa, il concetto di ceppo etnico o razziale distinto.
Gli unici creatori di cultura e di civiltà sono per lui i bianchi, in quanto dotati di qualità morali che mancano agli altri: ma solo nella loro componente “ariana”, e solo fino a che questa si mantiene pura. Lo strumento cui Gobineau fa ricorso più spesso è appunto la dimostrazione di una “superiorità” linguistica, e si avvale per questa degli studi dei linguisti tedeschi. Dalle caratteristiche linguistiche desume poi quelle spirituali. Nel caso degli ariani queste si riassumono principalmente nel senso della libertà e dell’onore, caratteri che hanno trovato la più compiuta combinazione nella nobiltà europea medioevale, capace di governare in virtù di un’autorevolezza derivante dall’effettivo valore, e non della forza, e che sono poi andati scomparendo con la nascita del moderno stato centralizzato e col passaggio del potere nelle mani della borghesia. Il declino della razza bianca, che Gobineau considera inarrestabile, nasce proprio dalla perdita di purezza delle idealità, che si accompagna a quella del sangue. Le mescolanze non potranno produrre nulla di buono, porteranno solo degenerazione, come dimostrano gli esiti dell’antica diffusione di popolazioni bianche nel continente africano, che dopo aver dato vita ad importanti civiltà si sono contaminate con i neri, perdendo ogni creatività culturale (Gobineau avvalla in sostanza la teoria hamitica).
La razza gialla, secondo Gobineau, è materialista, mossa solo da un “forte, ma non creativo impulso verso il benessere materiale”. La sua stessa lingua risulta incapace di esprimere pensieri metafisici. È quindi destinata a realizzarsi solo nell’ambito economico, nel commercio e negli affari, e assomma in sé tutte quelle caratteristiche negative che Gobineau attribuisce alla borghesia, principale responsabile della distruzione della vera Francia, quella dell’ancien régime.
Anche i neri vengono classificati dal conte in funzione delle sue idiosincrasie politiche. Gobineau identifica in essi le caratteristiche che diverranno tradizionali nel pensiero razzista, scarsa intelligenza e sensualità sviluppata all’eccesso, il che li apparenta secondo lui alle masse plebee scese in campo durante la rivoluzione francese. La loro conclamata inferiorità si traduce quindi in una potenziale energia distruttiva ed eversiva.
Un’eccezione la fa solo per gli ebrei: riconosce loro di essere stati anticamente un popolo libero, forte e intelligente, di contadini, di sapienti e di guerrieri, prima che di mercanti. Ma anche gli ebrei, come gli ariani, si sono progressivamente contaminati; nel corso della loro eterna diaspora hanno mescolato il loro sangue con quello di razze inferiori.
L’ascesa e la caduta delle civiltà è quindi un dramma che vede protagonista non gli uomini o le religioni o gli stati, e neppure l’ambiente o gli sconvolgimenti naturali, ma lo scontro razziale: e in questo scontro la posta in gioco è ormai la sopravvivenza stessa della razza bianca. Il rischio è enorme. Considerando la razza gialla materialista e abile specialmente nel commercio, Gobineau prova timore per la crescita economica che, a dispetto dello sfruttamento occidentale, si sta realizzando in Asia orientale. La Cina arriverà secondo lui un giorno a mettere l’Europa in pericolo, perché dispone di una notevole abbondanza di materie prime e di una inesauribile forza lavoro a buon mercato. Non si può negare che ci avesse azzeccato, ma neppure si può ignorare che proprio qui, in un’opera che si fonda sul disprezzo del nuovo modello economico, produttivo e sociale dell’occidente, il razzismo denuncia chiaramente la sua connessione con le fobie di natura economica.
Molte delle affermazioni (e delle nefandezze) attribuite a Gobineau in realtà nel suo saggio non ci sono (non c’è ad esempio l’idea che le “razze superiori” debbano difendersi da quelle inferiori attraverso vere e proprie “guerre etniche”, oppure praticando una selezione eugenetica, o arrivando al genocidio; e nemmeno ci sono accenti di antisemitismo, come abbiamo visto): ma, come si è già costatato per Darwin, non è difficile farle discendere, forzando un po’ la lettura, da quanto Gobineau effettivamente dice. È esattamente ciò che avviene quando il pensiero di Gobineau viene sviluppato in Germania (in Francia la sua opera non sarà molto conosciuta, almeno sino agli trenta del Novecento). Le idee di Gobineau sono infatti apprezzate da Wagner, che vi trova una conferma clamorosa delle proprie posizioni razziste. Attraverso Wagner e la sua cerchia vengono diffuse nei circoli della destra tedesca[20], in una versione che vede però dirottare sugli ebrei la condanna che Gobineau aveva espresso nei confronti dei neri e dei gialli. Non essendo ancora la Germania una potenza coloniale, il problema della diversità esterna non si pone, mentre é molto sentito quello di una “degenerazione” ad opera di un agente interno. Inoltre, Gobineau si presta a giustificare uno specifico orgoglio e un senso di superiorità per la discendenza ariana dei tedeschi.
Al contrario, piace poco alla destra francese, e a Maurice Barrès in particolare, intanto perché non sostiene un’idea nazionalistica, ma un’idealità aristocratica, e poi proprio per il suo manifesto filogermanesimo. Le sue idee quindi filtrano attraverso la mediazione di altri: soprattutto attraverso quella di Georges Vacher de Lapouge, che le combina con una infarinatura di darwinismo, quel tanto da dare loro un crisma di pseudoscientificità. Lapuge condivide la visione apocalittica di Gobineau, parla di degenerazione della razza e denuncia il predominio di una plutocrazia. Ne “L’aryen, son rôle social”, del 1899, egli identifica la razza superiore con l’homo europeus: sostiene che gli ariani si sono diffusi nel mondo intero, e lo hanno anzi conquistato, ma stanno già pagando il prezzo di questa conquista, che è la perdita della purezza razziale. Ne “Les sèlections sociales”, del 1896, Lapouge auspica che venga proibito ogni incrocio, perché questa strada conduce inevitabilmente alla contaminazione della razza; addirittura, i frutti del meticciato dovrebbero essere eliminati, il che significa praticare l’eutanasia. Ma i fattori di degenerazione non sono solo gli incroci: altrettanto degradanti risultano la massificazione dell’urbanesimo e il dominio della plutocrazia ebraica basati sulla cupidigia e il predominio ebraici.
Prima ancora che Gobineau editi il suo saggio, nel 1849 il dibattito sulla razza ha già interessato con varie sfumature il mondo anglosassone. Il filone più importante è quello alimentato dalla contrapposizione tra lo storico reazionario Thomas Carlyle e il filosofo liberal-democratico John Stuart Mill. Considerando la condizione dei negri delle Antille britanniche, il primo liquida la questione attribuendo una “naturale” superiorità ai padroni bianchi e inserendo in una scala discendente dei valori i neri (che ostentatamente definisce niggers, utilizzando la forma dispregiativa) più o meno al livello dei cavalli o dei muli.[21] Stuart Mill invece riconosce la differenza, e implicitamente la superiorità dei bianchi in fatto di civiltà, ma attribuisce il ritardo dei neri (che chiama negroes) a ragioni storiche: il che significa che tale ritardo potrà essere recuperato, se si faranno partecipare i neri della cultura dei bianchi (è quanto pensa anche Darwin). [22]
Se Carlyle rappresenta la voce più rozza del razzismo, quella che non ha spazio, almeno ufficialmente, nei salotti buoni della cultura, anche se è probabilmente condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione, la visione paternalistica di Mill è quella che alimenta il mito della funzione civilizzatrice, del kiplinghiano “fardello dell’uomo bianco”: e una volta fatta propria da politici liberali come Gladstone diverrà il maggior puntello ideologico dell’imperialismo inglese a cavallo del Novecento. Ma non sono solo i liberali ad abbracciarla. Nella stessa direzione si muovono anche i socialisti. Ai primi del Novecento l’eugenista Karl Pearson ritiene che solo il socialismo potrà assicurare la perpetuità della razza senza infermità ereditarie e segni di degenerazione, promuovendo una politica eugenica. Altri socialisti suoi contemporanei, come i coniugi Sidney e Beatrice Webb, pensano che il deterioramento della razza anglosassone possa portare ad un declino della fecondità, e che questo costituisca un pericolo per il socialismo. A loro giudizio la razza più adatta a costruire il socialismo è proprio quella inglese, e il meticciato finirebbe per allontanare indefinitamente la prospettiva di una società più equa.
La storia del razzismo del secondo Ottocento sembra dunque caratterizzata dal fatto che riferimenti teorici in sé “neutri” vengano poi utilizzati in forma distorta. Ma abbiamo già visto che dietro la presunta neutralità della scienza c’è sempre un atteggiamento conoscitivo, un paradigma che induce particolari esiti. Nel caso del razzismo la lettura della teoria darwiniana della selezione naturale alla luce delle idee di Spencer e nella distorsione prospettica di Haekel o di Galton, il tutto filtrato con gli occhiali scuri di De Gobineau o suffragato dal positivismo socialista, dà origine ad un modello di pensiero che diviene rapidamente dominante in tutta l’Europa e in America, finendo per condizionare ogni ambito della cultura, dalla psicologia[23] alla sociologia, dall’antropologia alla letteratura (Zola). La divulgazione di questo modello a livello delle grandi masse è assicurata dal proliferare, nella seconda metà del secolo, delle riviste dedicate ai viaggi, come la Revue des Deux Mondes in Francia o il Giornale illustrato dei viaggi in Italia. Sono esse, in ragione del grande successo popolare e del clima che riescono a creare attorno all’avventura dell’esplorazione, a trasmettere il modello di una superiorità bianca, di costumi barbari o infantili delle popolazioni extraeuropee, di una missione civilizzatrice da compiere usando, nel caso, anche il bastone. Questo modello trova poi espressione nelle ideologie politiche apparentemente più lontane, dal nazionalismo imperialistico al socialismo. Giustifica tanto lo scontro sociale quanto le guerre imperialistiche, consacra il convincimento dell’esistenza di razze inferiori e della legittimità del loro sfruttamento, e trova applicazione all’interno nell’antisemitismo, che traduce l’odio di classe in odio razziale.
Aspetti contraddittori dell’abolizione della tratta e della schiavitù
Paradossalmente, tuttavia, (ma solo in apparenza: perché in realtà si dovrebbe scrivere “conseguentemente) nello stesso secolo in cui l’interpretazione della diversità si connota di significati decisamente razzisti, nei possedimenti europei o nelle ex-colonie giunge al termine, almeno ufficialmente, la lunga vicenda di oppressione e di sofferenze dello schiavismo. Le prime voci di denuncia del fenomeno avevano già cominciato a levarsi sul finire del ‘600, per farsi poi più frequenti agli inizi del secolo successivo, quando le dimensioni raggiunte dalla tratta erano meglio evidenziate dal volume di scambi raggiunto dal traffico triangolare: si trattava comunque di prese di posizione isolate, in mezzo ad un atteggiamento generale di indifferenza o di consenso[24]. Più diffusa era piuttosto la preoccupazione per le rivolte periodiche e cruente che sconvolgevano le colonie, e che portavano alcuni amministratori moderati ad invocare l’esercizio di maggiore equità e buon senso nel trattamento degli schiavi da parte dei piantatori.
Nella seconda metà del Settecento prende corpo invece una opposizione radicale all’istituto schiavistico, della quale si fanno animatori principalmente alcuni gruppi religiosi, quaccheri e metodisti in testa, che intervengono con una nutrita campagna libellistica ma più ancora con iniziative concrete.[25] Già nel 1775 negli Stati Uniti è fondata un’associazione che ha la finalità di riscattare quanti più schiavi possibile e di rimpatriarli in libere enclaves costituite sulle coste africane, mentre una “Società di amici dei negri” sorge in Francia nel periodo rivoluzionario (e proprio Condorcet ne è il primo presidente). I maggiori consensi e i risultati più concreti il movimento antischiavista li ottiene però in Inghilterra. Gran parte del merito va indubbiamente attribuito alle capacità degli uomini che ne sono alla guida, da Granville Sharp a William Wilberforce. Partendo da una valutazione realistica della situazione e della forza degli interessi in gioco essi si muovono per tappe, di volta in volta puntando agli obiettivi più immediatamente raggiungibili. Nel 1772 Granville Sharp ottiene da un tribunale la prima storica sentenza (il Somerset Case) che dichiara incompatibile lo status di schiavo con la legislazione civile inglese, in pratica decretando la liberazione di tutti i negri tenuti in regime di schiavitù sul territorio metropolitano e l’emancipazione automatica di qualunque schiavo fuggito dalla colonie che riesca a calcare il suolo inglese. Il clamore suscitato dall’episodio vale alla causa abolizionista importanti adesioni, da quella di Adamo Smith a quella di Robertson e, al di là dell’oceano, del polemista Thomas Paine; soprattutto però muove un ampio consenso nell’opinione pubblica. L’eco di questo primo successo provoca una reazione a catena. Nel 1783 i quaccheri inglesi promuovono la prima associazione per la liberazione degli schiavi (Abolition Society) e molte delle ex colonie, a partire dal Massachuset, includono nelle loro costituzioni un pronunciamento antischiavista[26]. Ciò non impedisce tuttavia che la Costituzione degli Stati Uniti entrata in vigore nel 1789 legittimi lo schiavismo in un gran numero di stati, in particolare naturalmente in quelli del Sud.[27]
A sua volta, l’indipendenza americana favorisce la crescita del movimento in Inghilterra, in quanto tronca quei diretti legami che univano gli ambienti finanziari britannici alle piantagioni coloniali. Quasi in risposta alla Costituzione americana nel 1789 viene fondata la Society for Effecting the Abolition of the Slave Trade (“Società per l’abolizione della tratta”), guidata, oltre che da Wilberforce, dall’attivista Thomas Clarkson, e sostenuta dallo stesso primo ministro William Pitt.
Un effetto frenante per gli sviluppi anglosassoni dell’abolizionismo ha invece la rivoluzione francese. Il sollevamento dei mulatti prima e degli schiavi poi nei possedimenti francesi delle Antille crea viva preoccupazione nell’opinione pubblica britannica, raffreddandone gli entusiasmi umanitari. All’indomani dell’abolizione votata il 4 febbraio 1794 dalla Convenzione, che riconosce libertà immediata a tutti gli schiavi senza prevedere tappe di emancipazione progressive e indennizzi ai proprietari, gli inglesi attaccano Haiti, dove sta nascendo il primo stato nero extra-africano sotto la guida di Toussaint Louverture. Dietro la motivazione strategica della conquista di una colonia nemica è evidente la volontà di isolare il fenomeno, scongiurando il pericolo di una sua diffusione epidemica nell’area dei Caraibi. Del resto, sono gli stessi bianchi dell’isola, “traditi dal nuovo governo della madrepatria”, a invocare la protezione inglese. Di li a poco, comunque, il ruolo di gendarmi della sicurezza e della dominazione bianca è nuovamente assunto dai francesi, con il Direttorio prima e poi con Napoleone. Quest’ultimo nel 1802 ripristina la legislazione schiavista prerivoluzionaria, senza peraltro riuscire a soffocare il movimento spontaneo di emancipazione, che sfocia nel 1803 nella indipendenza haitiana.
Nel frattempo sono andati maturando degli elementi di crisi intrinseci al sistema schiavista, che in concomitanza con le nuove esigenze economiche indotte dalla rivoluzione industriale spianano la strada al movimento abolizionista, accelerando i tempi della sua affermazione. Sul finire del Settecento comincia ad esempio a denunciare sintomi di stagnazione la produzione zuccheriera antillana, per l’esaurimento dei terreni nuovi sfruttabili a piantagione e l’impoverimento di quelli già occupati: questo mentre si affaccia in Europa la concorrenza dello zucchero da barbabietola, il cui processo di estrazione è stato solo di recente messo a punto. Ciò determina un calo nella richiesta di manodopera servile africana di rimpiazzo, già ridimensionata dalla politica di valorizzazione demografica delle loro “scuderie” intrapresa nel Settecento dai piantatori stessi, soprattutto nelle colonie nordamericane. D’altro canto, anche la resa economica della tratta è in declino: le zone di approvvigionamento per le navi negriere si restringono, la qualità della “merce”, dopo due secoli di spopolamento, va decadendo, e soprattutto diventa più remunerativa la traversata verso l’America con carichi di emigrati bianchi.
Ciò spiega come nel primo decennio dell’800 non solo l’Inghilterra (1807)[28], ma anche il governo degli Stati Uniti, la cui flotta si era specializzata nel commercio negriero, giunga all’abolizione della tratta. Il Congresso di Vienna impone poi a tutte le nazioni europee la cessazione dell’infame traffico[29], ma gli inglesi, che si assumono il compito di far rispettare concretamente sui mari il divieto, dovranno lottare mezzo secolo per stroncarlo definitivamente. Più lenta, e più contrastata, sarà la tappa successiva, quella dell’abolizione della schiavitù. Essa è allargata a tutte le colonie inglesi nel 1833, mentre i francesi l’adotteranno solamente dopo la rivoluzione del 1848, gli olandesi nel 1863 e i possedimenti iberici nel 1880. Negli Stati Uniti la resistenza degli stati meridionali all’emancipazione degli schiavi sarà vinta soltanto, com’è noto, dopo la guerra di secessione (1865).
All’origine del movimento abolizionista vi è paradossalmente quell’affermazione di una sinonimia tra Europa e civiltà che ha portato agli esiti più compiutamente razzisti: la scoperta e la classificazione della diversità etnica. L’umanitarismo ottocentesco nasce dalla acquisizione di una certezza, la superiorità morale e civile del bianco, e ne trae come conseguenza l’obbligo alla educazione e alla protezione delle razze più deboli. Prescindendo dalla buona fede e dall’onestà di intenti che anima tanti missionari, esploratori, polemisti e filantropi, l’assunto si presta alle interpretazioni più ambigue. Esso stimola intanto la ripresa delle iniziative di esplorazione, questa volta dirette all’interno dei continenti, in modo particolare all’Africa, aprendo le vie della futura penetrazione politica e commerciale: e in questo senso va anche lo sviluppo delle missioni, che oltre a costituire fonti preziose di informazioni o di contatti offriranno spesso il destro ai governi per interventi di difesa o di rappresaglia, primo passo verso l’occupazione.
La figura del missionario-esploratore è tutt’altro che inedita, ha costituito già per secoli l’avanguardia silenziosa dell’espansione, ma viene ad assumere ora una fisionomia ed un peso nuovi. Molto spesso intanto nell’operato missionario c’era una componente di resistenza contro i guasti prodotti dalla civilizzazione negli animi semplici degli indigeni: e comunque la predicazione aveva lo scopo unico di diffondere il cristianesimo, gli elementi morali e dottrinali della fede, che potevano essere esportati in situazioni di civiltà diverse da quella europea. Ora invece l’esploratore missionario si muove nel preciso intento di preparare la strada all’avvento della civiltà occidentale, in tutte le sue componenti, non solo spirituali, ma anche, e preventivamente, sociali ed economiche. Sono sempre più difficilmente pensabili esperimenti sul tipo di quello delle reducciones paraguaiane e canadesi.
È inoltre fondamentale l’eco che queste iniziative hanno nell’opinione pubblica, attraverso lo spazio loro dedicato dalla informazione stampata: ciò che si traduce in una attenzione tempestiva e diffusa, nell’esaltazione dello spirito umanitario di queste imprese, nell’esecrazione dei fallimenti dovuti alle resistenze della superstizione indigena, in una tensione e in una fame di notizie coltivate ad arte, come dimostra il caso Livingstone-Stanley. Perciò, quando dopo la metà dell’800 saranno i governi a sostituirsi ad esploratori e missionari nell’opera di incivilimento, l’idea della necessità di questo intervento superiore sarà tanto radicata da giustificare qualsiasi barbarie e falsità.
L’Europa padrona del mondo
Espansione coloniale e imperialismo
Dal 1871, dopo la rapida conclusione della guerra franco-prussiana, per quasi mezzo secolo il suolo dell’Europa occidentale non è insanguinato da conflitti tra le grandi potenze. Per il vecchio continente si tratta di un periodo di pace insolitamente lungo, durante il quale maturano i contrasti e le tensioni destinati poi ad esplodere nel primo conflitto mondiale. L’antagonismo egemonico, in luogo di attenuarsi, si complica ulteriormente con l’entrata in scena di nuovi contendenti, anche non europei. Vengono sconvolti i vecchi equilibri diplomatici e si sfalda il sistema delle alleanze delineatosi durante le guerre napoleoniche, determinando connubi inediti, e fino a qualche decennio prima impensabili. Unico fondamento della pace rimane il timore reciproco, alimentata dalle incognite che i progressi della tecnologia bellica introducono nella valutazione del rapporto di forze.
Per questo motivo ogni aumento della tensione, anziché risolversi in uno scontro diretto, cerca sfogo in direzione extraeuropea, rinnovando l’aggressività concorrenziale nei confronti del resto del mondo. Il conseguente incremento dell’attitudine espansionistica che si realizzava a cavallo tra i due secoli è quantificabile, almeno in termini generali, attraverso i dati percentuali della presenza colonizzatrice europea nel globo. Agli inizi dell’800 gli europei hanno o hanno avuto sotto il loro controllo circa il 35% delle terre emerse (già si è resa indipendente l’America del nord, e nel volgere di un quarto di secolo farà altrettanto quella meridionale, ma almeno l’area settentrionale può considerarsi a pieno titolo occidentalizzata). Nel 1878, al momento del congresso di Berlino, siamo già al 67%; alla vigilia del conflitto mondiale la percentuale è dell’84,4%. Ancor più significativi, per comprendere le direzioni e il senso nuovo dell’espansione, sono i dati relativi ai singoli continenti. Per l’Africa si passa dal 10,8% del 1876 al 90,4 del 1914. Nell’Oceania dal 56,8% al 98%. Nello stesso periodo appare invece proporzionalmente più contenuta l’espansione in Asia, con una percentuale di territorio controllato che aumenta dal 51 al 56% (va ricordato, comunque, che l’impero cinese, pur nella formale indipendenza politico-amministrativa, subisce il condizionamento economico attraverso l’imposizione della “porta aperta”.
Per quanto concerne la presenza coloniale delle singole potenze europee, è sempre l’Inghilterra a fare la parte del leone: nel 1914 essa estende la sua autorità, in forme diverse, su più di 31 milioni di chilometri quadrati e su quasi 400 milioni di abitanti, mentre la Francia ha un impero di dodici milioni di Kmq e di circa 59 milioni di abitanti. La Russia ha praticamente completato la sua espansione in Asia centrale, anche se continua ad erodere territori di confine alla Cina: il suo immenso impero asiatico si estende per oltre 18 milioni di Kmq. I restanti territori coloniali sono suddivisi tra olandesi, tedeschi, belgi, portoghesi, spagnoli e italiani: ma già si affacciano alla ribalta le nuove potenze, come gli Stati Uniti e il Giappone, destinate a soppiantare l’Europa nel molo di protagonista dell’espansione. Anche ammettendo, come afferma Fieldhouse, che il tasso medio annuale di espansione per gli anni successivi al 1870 (in migliaia di Kmq) rapportato a quello dei cinquant’anni precedenti non conosca un’impennata, l’esistenza attorno alla fine del secolo di una vera e propria corsa al possedimento coloniale è pienamente verificabile.
Vanno ridimensionati invece sia la portata sia la novità del fenomeno, perché un’attitudine decisamente espansionistica, almeno per quanto concerne Inghilterra, Francia e Russia, era già manifesta da almeno mezzo secolo; e questa attitudine a sua volta ha aperto la strada agli indirizzi economici e alle risposte politiche dell’ultima età coloniale. Come dice Fieldhouse, “[…] dobbiamo individuare la novità dell’imperialismo del tardo Ottocento nella globalità e nella rapidità dell’espansione, e non nel semplice fatto che essa ebbe luogo. Fu la fine di una vecchia storia, non l’inizio di una nuova.”[30] In altri termini, la classica interpretazione che riconduce l’imperialismo alla matrice unica delle nuove esigenze produttive e di mercato del capitalismo industriale tradisce la complessità del fenomeno, il suo dispiegarsi diversificato nel tempo e nello spazio.
In effetti, la presunta novità dei rapporti economici non è riscontrabile ovunque. Per molte aree non si danno sostanziali mutamenti nella qualità del rapporto: si può al più parlare di una intensificazione quantitativa. In taluni casi la trasformazione ha già avuto luogo in precedenza (in India, ad esempio, o in Indocina) ed è semplicemente aggiornata con aggiustamenti graduali, che mantengono il sistema compatibile con le istanze di volta in volta emergenti sia sul piano economico che su quello socio-politico. Esistono infine delle zone per le quali, indubbiamente, col crescere della richiesta di nuove materie prime (oli vegetali, petrolio, concimi, gomma, minerali, ecc …) si deve parlare di una trasformazione del rapporto economico e del tipo di sfruttamento: nei confronti dell’intero continente africano, toccato in precedenza solo indirettamente dall’influenza europea (commercio litoraneo, tratta degli schiavi), la conquista coloniale si presenta immediatamente sotto le specie del dominio e dello sfruttamento imperialistico.
L’aggressività europea di fine Ottocento è quindi un dato reale, ma ha origine in una disposizione economica, politica e ideologica che era venuta maturando lungo l’intero secolo, e le sue radici risalgono oltre al mutamento degli equilibri mondiali evidenti dal finire del XVI secolo. L’accelerazione decisiva è impressa poi da una serie di fattori concomitanti, riconducibili in prospettiva al nuovo assetto industriale dell’occidente, e tuttavia da valutarsi singolarmente se si vogliono cogliere nel loro reale significato le diverse sfumature, a volte anche le apparenti contraddizioni, della politica coloniale. È il caso, ad esempio, del ritorno massiccio al protezionismo, legato alla guerra concorrenziale tra le varie industrie nazionali. L’abbandono della prassi liberista porta a rivalutare il ruolo dei possedimenti d’oltremare, come mercati o come fonti di approvvigionamento, ma anche quali teste di ponte per la penetrazione in profondità nelle aree ancora libere. Questo vale per i paesi che operano una scelta decisamente protezionistica, come la Germania o gli Stati Uniti, ma finisce per valere anche per l’Inghilterra, che pure fino alla fine del secolo rimane la paladina del libero scambio. È anzi l’esigenza stessa di garantirsi l’accesso ad ogni mercato che induce gli inglesi ad estendere il più possibile la propria influenza, per sottrarre le residue aree “libere” ad ipotetici futuri regimi doganali. Indirizzi opposti di politica economica alimentano pertanto un comune incremento dello sforzo di colonizzazione.
Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, è raro che l’assunzione di impegni di intervento e di gestione coloniale si configuri come risposta diretta alle sollecitazioni del nuovo modo di produzione industriale. In quasi tutti i paesi europei l’opinione pubblica conserva una certa diffidenza, quando non è aperta ostilità, nei confronti delle iniziative espansionistiche coloniali: è ancora vivo il ricordo dei fallimenti delle grandi compagnie, ed è acuta la consapevolezza del peso finanziario e morale di una conquista. Le pressioni dei gruppi economici che coltivano interessi oltremare in genere trovano resistenze nell’ambiente politico. Può capitare, come nel caso italiano, che l’ambizione di costruirsi una presenza coloniale coinvolga i governi in avventure impopolari: ma di norma, anche perché si tratta di compagini ancora espresse dal vecchio sistema economico agricolo-commerciale, c’è una notevole riluttanza a sobbarcarsi gli oneri e le responsabilità di un’amministrazione diretta.
Queste riserve vengono sciolte più agevolmente quando si profila la minaccia di una contiguità concorrenziale: in tal caso l’urgenza di salvaguardare futuri margini economici o strategici ha la meglio sulla valutazione degli orientamenti della pubblica opinione. Per l’Inghilterra, ad esempio, si ripete in Africa, di fronte all’invadenza francese e tedesca, quanto era già avvenuto in Asia nei confronti della Russia: la necessità di conservare le proprie sfere d’influenza si risolve in una politica di espansione “difensiva”. Sfruttando lo spauracchio della presenza altrui commercianti e gruppi finanziari mirano a difendere i propri interessi contro possibili mutamenti, quando operino in zone soggette ad una semplice penetrazione economica, oppure a garantirsi la possibilità futura di ampliarli, quando si tratti di zone già acquisite a colonia, entro aree ancora libere.
In un primo tempo sono quindi gli interessi particolari e periferici, più che le trasformazioni macroeconomiche, a premere per una politica coloniale più vivace. Ad essi si assommano via via altri elementi di spinta di indubbio peso. Ad esempio, il contatto prolungato con gli europei, pure a livello di semplice rapporto economico, destabilizza i vecchi sistemi di potere, creando nuovi gruppi indigeni di interesse, nuove attività, nuovi rapporti sociali. Stravolgendo i ruoli e incrinando i fondamenti tradizionali dell’autorità e della socialità, questa scossa innovatrice finisce per attentare alla sicurezza e alla continuità stessa del rapporto economico. Di qui, automaticamente, le richieste di protezione che dai gruppi coloniali piovono sul governo metropolitano, giustificate da interessi acquisiti che per la classe politica hanno un valore vincolante.
Inoltre, la progressiva accentuazione del divario tecnologico e produttivo rischia di rendere impossibile l’interscambio, e crea la necessità di modernizzare i sistemi economici e politici delle società non europee. Il problema assume altri aspetti nelle aree a livello commerciale e istituzionale più arretrato, ma anche qui l’esigenza crescente di sfruttamento delle materie prime postula l’assunzione del controllo territoriale diretto.
Non è indifferente, infine, il ruolo giocato nell’espansione dallo sviluppo della navigazione a vapore. La propulsione meccanica velocizza i traffici, dà la possibilità di accedere a nuovi approdi e di penetrare nei bacini fluviali, moltiplica le rotte: ma implica anche la creazione, e la difesa, di scali strategici per i rifornimenti di carbone, quindi una più capillare presenza di ogni singola nazione sul globo intero.
Questi fattori, assieme ad altri di natura politica, strategica, culturale, dei quali si farà cenno oltre, costituiscono nella fase iniziale la forza trainante del “nuovo colonialismo”. Ad essi solo nel nuovo secolo si sovrapporrà la tendenza economica più propriamente identificabile come “imperialismo”: nel senso che, una volta acquisite le colonie queste diventano anche l’occasione per una diversificazione degli investimenti, resa necessaria dalla crisi che investe il capitale europeo, ed acquista importanza il loro duplice ruolo di fornitrici di materie prime e di mercati di sbocco per l’industria. La vera fase nuova del colonialismo sarà proprio questa, e non sarà legata ad una espansione territoriale o alla conquista: anzi, essa non sarà intaccata nelle sue linee portanti neppure dalla perdita dei territori e dalla formale liquidazione del rapporto coloniale. In tal senso l’espansione di fine Ottocento è la fine di una storia; l’effetto psicologico d’insieme delle motivazioni generali accennate e di quelle che singolarmente interessano particolari paesi o zone d’espansione porterà poco alla volta i governanti, e con essi l’opinione pubblica europea, a convincersi della necessità di una politica coloniale di segno nuovo.
L’Africa disvelata
A monte di questa trasformazione c’è una vera e propria epopea, scritta nel corso di mezzo secolo, spesso col sangue, da un manipolo sempre più folto di spiriti avventurosi ed irrequieti, trascinati in Africa dai moventi più svariati. A differenza di quanto accadeva nel secolo precedente a spingerli non è più lo spirito di ricerca naturalistica, perché di fronte ad un continente ancora quasi del tutto inesplorato la prima urgenza è piuttosto quella del riconoscimento geografico, che nelle nuove condizioni e nei mutati rapporti di forza è immediatamente sotteso alla finalità politica. C’è anche un’altra novità: come già si è accennato, uno dei motori della corsa all’esplorazione dell’Africa è infatti il grande “risveglio” che porta le chiese evangeliche e protestanti nella prima metà dell’800 a rilanciare in grande stile l’azione di apostolato. I loro missionari subentrano alla soppressa Compagnia di Gesù, ritagliandosi quasi un monopolio dell’evangelizzazione in ogni parte recentemente conosciuta del mondo, e anche in quelle ancora da conoscere. Li ritroviamo così in Oriente, dall’India al Pacifico, nell’America latina e in quella settentrionale, e soprattutto nel continente ancora vergine. Sarà lo spirito evangelico, insieme al chinino[31] e al vapore, a forzare le ultime resistenze del continente nero.
L’incarnazione più famosa di questo spirito è costituita senza dubbio da David Livingstone, e vale la pena raccontare la sua vicenda scendendo un po’ più nel dettaglio, ad esemplificare il fervore e l’intreccio di interessi politico-economici e di motivazioni personali e ideali di una stagione di ricerca che ha il suo pari forse solo nella corsa ai poli. Livingstone è un medico autodidatta, affiliatosi alla chiesa evangelica, che approda in Sudafrica nei primi anni quaranta. Tra il 1843 e il 1849 percorre per dritto e per traverso il territorio della colonia, fonda missioni all’interno e si urta pesantemente con i Boeri, ai quali contesta il trattamento disumano nei confronti dei nativi (e i Boeri ricambiano il suo odio al punto da distruggere, durante una delle sue assenze, la sua missione).[32] Poi, nel 1849, dà inizio alla sua carriera di esploratore, attraversando il deserto del Kalahari e arrivando al lago Ngami. Nel 1851 si rimette in marcia, questa volta portandosi appresso tutto il nucleo familiare (la moglie incinta e tre figli tra uno e quattro anni); viene abbandonato dalle guide ed è salvato in extremis dai Makalolo, che lo prendono in simpatia e lo guidano in salvo allo Zambesi. A questo punto decide di rimpatriare in Inghilterra tutta la famiglia (nel corso del viaggio è nato il quarto figlio): vuole mano libera per un nuovo grande progetto, la traversata dalla costa orientale all’Atlantico, duemila miglia da percorrersi in un territorio assolutamente sconosciuto.[33] Lo spirito dell’esploratore ha ormai avuto la meglio su quello missionario.
Partito nel 1853 con i fidati Makalolo risale tutto lo Zambesi, supera lo spartiacque e penetra nel bacino del Congo superiore, in territorio portoghese. Quando ormai è allo stremo sono proprio i portoghesi ad aiutarlo e a scortarlo sino a Luanda[34]. In sei mesi la traversata è compiuta. Il tempo di riprendere le forze e si riparte in senso inverso. Questa volta la traversata dura quasi un anno, ma la pausa di sosta è nuovamente breve: parte infatti immediatamente per un altro viaggio all’interno, nel corso del quale vede, primo tra i bianchi, le cascate Vittoria.
Ormai la sua fama si è diffusa anche in patria, alimentata dalla moglie e dai resoconti di viaggio che comincia a pubblicare. Egli stesso ha inviato al governo inglese una memoria nella quale auspica la creazione di una grande colonia inglese in Africa centrale. Quando torna in Inghilterra, quindi, riceve una sorta di mandato ufficiale a persistere nelle esplorazioni, con spedizioni adeguate e con l’ausilio di un naturalista, John Kirk. Con lui riparte nuovamente la moglie. Risalgono per l’ennesima volta lo Zambesi, poi un suo affluente, lo Sciré, e arrivano al lago Niassa (oggi Malawi), al quale pochi mesi dopo approderà un altro esploratore, il tedesco Albert Roscher (morto poi durante il prosieguo dell’esplorazione)[35].
Con la successiva spedizione, nel 1861, tocca ancora il lago Niassa. Questa volta nel corso del viaggio di ritorno la moglie soccombe alle fatiche e alla malaria, ragion per cui è costretto a rientrare in Inghilterra. Ma non per molto: sistemati i figli, nel 1866 è nuovamente in Africa, in tempo per partecipare alla corsa alle sorgenti del Nilo. Nel 1867 arriva al lago Tanganika, che era già stato scoperto anni prima da Burton e Speke, e prosegue verso ovest; scopre nuovi laghi (il Moero e il Bangweulu) e taglia praticamente i ponti tra sé e la civiltà. Per anni in Europa non si avranno sue notizie. Poi, nel novembre del 1871 ad Ugigi, in Uganda, ha luogo il celeberrimo incontro con Henry Morton Stanley, un giornalista americano dal passato avventuroso inviato alla sua ricerca per conto di una grande testata. Per alcuni mesi i due compiono assieme la ricognizione delle coste del lago Tanganika; ma di lì a poco Livingstone riparte solo, intenzionato a dimostrare che l’emissario del Bangweulu è la sorgente principale del Nilo. Muore nel 1873, ma la notizia della sua morte non arriverà in patria che due anni dopo.
Tra coloro che si incaricano nuovamente di cercarlo c’è Victor Cameron. Cameron incontra la carovana che sta riportando la salma di Livingstone verso la costa, prende atto della scomparsa e prosegue nella ricognizione del Tanganika, fino a scoprire che l’emissario di quest’ultimo volge non a nord ma verso il bacino del Lualaba (il nome indigeno del Congo nella sua parte superiore), e quindi verso l’Atlantico (1875). Quasi contemporaneamente Stanley, divenuto famosissimo per il resoconto del ritrovamento di Livingstone e ormai totalmente acquisito alla causa dell’esplorazione africana, partito dalla costa orientale raggiunge il Congo, lo discende in tutta la sua parte inferiore e nel 1877 arriva sulla costa atlantica. Nel frattempo, però, a partire dal 1875 hanno cominciato a muoversi anche i francesi, che fino a questo momento nella fascia equatoriale erano rimasti solo spettatori. Pietro Savorgnan di Brazzà esplora per anni i bacini dei diversi affluenti di destra del grande fiume, compiendo un lavoro metodico e dettagliato di ricognizione topografica e creando i presupposti per una rivendicazione di possesso francese.
Vedremo più oltre come Leopoldo II del Belgio, venuto a conoscenza del nuovo viaggio di Stanley, affidi a quest’ultimo una missione esplorativa per conto dell’Associazione Internazionale di studi sul Congo. Di fatto nel 1879 Stanley è nuovamente alla foce del Congo, alla testa di una spedizione armata sino ai denti e perfettamente organizzata, dotata persino di un battello smontabile per poter superare le rapide che caratterizzano l’ultimo tratto del fiume. Risale fino alle cascate che portano il suo nome, dove la navigazione non è più possibile e il fiume volge a sud. Nell’avanzare procede ad una vera e propria pacificazione armata e organizzazione del territorio, oltre che alla ricognizione geografica della parte sinistra del bacino. Alle spalle si lascia migliaia di morti e villaggi distrutti, ma anche una catena di stazioni commerciali con residenti europei (quelle evocate da Conrad in “Cuore di tenebra”). In questa operazione si avvale in qualità di collaboratori di molti ufficiali tedeschi, che fanno le prove per il futuro colonialismo germanico. In Germania infatti, una volta uscito di scena Bismarck, che proclamava “la mia Africa è ad est dell’Elba”, c’è molta volontà di correre alla costruzione di un impero coloniale.
L’ultimo tentativo di Livingstone era mirato a identificare le sorgenti del Nilo. Andava dunque ad inserirsi nella storia di un enigma millenario, al quale avevano cercato di rispondere in molti, a partire dagli antichi egizi stessi. Del problema si torna a parlare nel XVIII secolo. James Bruce riteneva già nel 1768 di aver individuate per primo sull’altipiano etiopico le sorgenti del Nilo Azzurro, in realtà conosciute fin dall’inizio del ‘600 da padre Pedro Paez, gesuita portoghese (ma, come sempre, la relazione di quest’ultimo era rimasta riservata). Agli inizi dell’800, a seguito della spedizione egiziana di Napoleone, tra l’Eritrea e l’altipiano etiopico si sviluppa una intensa attività esplorativa, legata ad ambizioni francesi su quell’area. Ma è soprattutto Mehemet Alì, dal 1805 viceré d’Egitto, a prendere le redini dell’iniziativa. Avendo intrapreso grandi opere idrauliche per regolarizzare la portata del Nilo, intende arrivare a controllare la maggior parte possibile del corso del fiume. Per riconoscere il territorio e per occuparlo si avvale per l’appunto di militari e di scienziati francesi, che si spingono sino alle propaggini dell’acrocoro centrale. Nel frattempo un paio di missionari tedeschi, Ludwig Krapf e Johann Rebmann, che si sono inoltrati verso l’interno partendo dalla costa oceanica orientale, raccontano di avere intravisto catene montuose con montagne innevate.[36] Anche se in un primo momento i due non vengono creduti, poiché si ritiene che all’altezza dell’equatore non possano esistere ghiacciai, le loro testimonianze confermano l’esistenza dei favolosi Monti della Luna, già presenti nella carta di Tolomeo (il quale a sua volta si appoggiava sulla antica testimonianza di un viaggiatore greco).
Nel 1857, quando Livingstone è già operativo da un quindicennio, il governo inglese incarica Richard Burton, famoso per aver attraversato pochi anni prima mezza Arabia e per essere penetrato alla Mecca travestito da pellegrino, di cercare le sorgenti del Nilo Bianco. Con lui c’è John Hanning Speke. I due scoprono l’anno successivo il lago Tanganika, ma devono tornare indietro, debilitati dalle febbri. Appena ripresosi Speke parte da solo, e questa volta arriva al lago Vittoria, che ritiene essere la sorgente prima del Nilo. Rientrato in Inghilterra nel 1859, e rotti completamente i rapporti con Burton, col quale peraltro non era mai andato d’accordo e che ora contesta la localizzazione delle sorgenti, Speke torna in Africa un anno dopo con James Grant. Si spinge nuovamente sino al lago Vittoria, per stabilire una volta per tutte che proprio di lì, dalle cascate Rippon, prende corpo il Nilo. È una ricognizione minuziosa e travagliata, nel corso della quale la spedizione incrocia un altro inglese, Samuel Baker, che accompagnato dalla moglie sta compiendo la stessa ricerca: Baker ha scoperto il lago Alberto, e ritiene che sia questa la seconda sorgente del Nilo[37].
Il ritorno di Speke in Inghilterra è tragico. Contestato ancora una volta da Burton, che gli rimprovera di non aver seguito l’intero corso superiore del Nilo, e quindi di non poter affermare di averne individuate le sorgenti, Speke scompare tragicamente durante una battuta di caccia, proprio alla vigilia di un pubblico confronto con Burton organizzato per dirimere una volta per tutte la questione. Il sospetto di un suicidio, alimentato da Burton stesso, continua ad aleggiare sulla sua fine. In compenso le successive ricognizioni del fiume, protrattesi sino alla fine dell’Ottocento, hanno dato ragione a Speke. Le sorgenti del Nilo Bianco sono effettivamente da individuarsi nel lago Vittoria.[38]
La conquista francese dell’Algeria promuove naturalmente una nuova intensa stagione nell’esplorazione del Sahara, che in precedenza era stato attraversato solo dai cercatori di emozioni a Timbuctù. Ma non è tanto il governo francese, che ha già i suoi problemi a controllare le zone occupate, a spingere. Si tratta, almeno inizialmente, di iniziative del tutto private, sul solco di quelle di Caillé o di Alexander Laing. Un giovane studioso tedesco, Heinrich Barth, viaggia a piedi per due anni dal Marocco all’Egitto (1845), lungo un tragitto assolutamente inedito, per studiare le popolazioni mediterranee. Nel 1849 si unisce poi alla spedizione dell’inglese Richardson, che punta al lago Ciad. Quando lo stesso Richardson e un altro compagno di avventura muoiono, Barth prosegue verso il Niger e arriva a Timbuctù, dove si ferma sette mesi per studiare. Le sue peregrinazioni durano cinque anni, durante i quali non dà notizia di sé, e ad un certo punto vengono inviate un paio di spedizioni sulle sue tracce. Barth incontra quindi a sud del lago Ciad Edward Vogel, uno dei soccorritori, che prosegue poi per conto proprio e di lì a poco muore. Barth invece riattraversa il Fezzan, torna a Tripoli e di lì rientra sano e salvo a Berlino, dove si vede assegnata una meritatissima cattedra di geografia.[39]
Le orme di Barth vengono seguite da Gherard Rohlfs, uomo d’azione prima che studioso, temprato da sei anni di servizio nella legione straniera, che comincia a scorrazzare per il Sahara nel 1861 e cinque anni dopo riesce a compiere la traversata diretta dal Mediterraneo al Golfo di Guinea. Per tutto il decennio successivo continuerà ad aggirarsi nel Sahara orientale e poi in Abissinia. Un altro tedesco, Gustav Nichtigal, proprio alla fine degli anni sessanti arriva sino al Tibesti, viene fatto prigioniero dai tuaregh e riesce a fuggire, e compie infine la traversata dal bacino del Niger a quello del Nilo, percorrendo tutta la parte meridionale del grande deserto.
Questa vivacissima e quasi dominante presenza tedesca, che abbiamo già incontrata nell’esplorazione del bacino del Congo, ha riscontri anche in altre parti del globo, nello stesso periodo (si vedano ad esempio i fratelli Schlagintweit in Tibet). È frutto indubbiamente di una tradizione che vantava viaggiatori come Forster e Humboldt, ma è animata da uno spirito nuovo: come se prima di fare la Germania si anelasse a fare i tedeschi. Sino all’ultimo ventennio dell’Ottocento l’esplorazione tedesca non ha una dichiarata finalità politica, che come abbiamo visto era decisamente osteggiata da Bismark, ma ha l’impronta di una rivendicazione spirituale alla eccezionalità: di lì a poco Nietzche nella filosofia e Lammer nell’alpinismo predicheranno modelli di vita di per sé diversissimi, ma comunque ugualmente ispirati al superomismo.
Di altro tenore, ormai tutta interna ad una logica imperialista, è l’attività esplorativa dell’ultimo ventennio del secolo. Nel 1890 un patto tra Francia e Inghilterra aveva riconosciuta alla prima una sfera di influenza su tutto il Sahara occidentale. Sette anni dopo al capitano Marchand viene affidata la missione di risalire il Congo, poi il suo affluente Ubanghi, di attraversare sino al Bar-el Gazal, un affluente del Nilo, e di lì discendere sino a Fascioda, sulle sponde di quest’ultimo, che non è esattamente nel Sahara occidentale. La presenza francese alle porte del Sudan non può naturalmente essere tollerata dagli inglesi, che si affrettano a far accorrere Kirtchener, reduce dalla campagna contro il Mahadi, e a far sloggiare dopo qualche momento di tensione il capitano Marchand. Questi in realtà non torna indietro, ma risalendo un affluente di destra del Nilo attraversa l’Etiopia e arriva a Gibuti, completando la traversata orizzontale dall’Atlantico al Mar Rosso. Il suo non è neppure un record, perché già nel 1880 un italiano, Pellegrino Matteucci, aveva compiuto la traversata in senso inverso, partendo dal Mar Rosso e scendendo lungo il Niger.
Matteucci è il primo italiano citato in questa rapidissima rassegna: ma non è certo il primo e neppure il più famoso degli esploratori italiani. Prima di lui Giovanni Miani, reduce dalle delusioni del 1848 e da una serie di peregrinazioni nel Vicino Oriente e per l’Europa, ha dato inizio già nei primi anni cinquanta ad una serie di campagne esplorative in Nubia e nell’Alto Nilo, percorrendo tutto il Sudan[40]. Carlo Piaggia ha intrapreso a partire dal 1856 una sua personalissima ricerca delle sorgenti del Nilo, dapprima accompagnandosi ad Orazio Antinori e poi a Romolo Gessi, e tra l’uno e l’altro dimorando a lungo tra i Niam Niam.[41] Gessi, nella seconda parte di una vita avventurosissima che lo vede combattere con Miani nella difesa di Venezia, con i Circassi contro lo zar, con Garibaldi nella seconda guerra di indipendenza, si arruola all’inizio degli anni settanta nell’armata egiziana di Gordon. Su incarico dell’inglese esplora il corso superiore del Nilo, appunto in compagnia di Piaggia, rilevandone per primo la derivazione del lago Alberto: e con Matteucci tenta di penetrare nel territorio dei Galla.[42]
Fino alla metà degli anni settanta il giovane stato italiano ha altro cui pensare che avviare una strategia coloniale. E quando comincia a farlo, quasi per provare a se stesso e all’Europa una raggiunta maturità nazionale, si muove come vedremo in maniera pasticciata e confusa, pestando i piedi alle potenze già solidamente insediate nel continente africano e andando ad impattare nelle uniche popolazioni che dispongono di una organizzazione politica e di una parvenza di stato.
Una volta partita la corsa alla spartizione dell’Africa l’incarico di marcare il territorio piantando le bandierine tricolori nei luoghi “inesplorati” viene affidato a Vittorio Bòttego, un ufficiale che percorre parte della Dancalia (1888), poi risale il Giuba (1892) ed esplora la zona adiacente il lago Rodolfo (1895), finendo trucidato dai Galla durante quest’ultima spedizione[43].
Sono questi i nomi più famosi, ma il quadrante nord e centro-orientale dell’Africa brulica tra la metà e l’ultimo decennio del secolo di avventurieri ed esploratori provenienti dalla penisola, quasi tutti reduci insoddisfatti delle guerre risorgimentali. Gli altri si chiamano Giovanni Chiarini, ucciso anch’egli dai Galla, il suo compagno d’avventura Antonio Checchi, l’uomo che si mise da solo alla loro ricerca, l’impareggiabile Augusto Franzoj[44], i subalterni di Bòttego, Carlo Citerni e Luigi Vannuttelli, sopravvissuti al loro comandante[45], Gustavo Bianchi, esploratore dello Scioà massacrato dai Dancali, il già citato Orazio Antinori, garibaldino a Roma e poi naturalista, tassidermista, cacciatore, segretario della Società Geografica Italiana, esploratore in proprio e organizzatore instancabile di spedizioni geografiche e naturalistiche. Buona parte di loro in Africa ci muore: quelli che ne tornano alimentano del continente un’immagine esotica che la stampa e la letteratura non mancano poi di enfatizzare, preparando gli animi ai sogni di conquista coloniale e spingendo la nazione a collezionare una serie di umilianti rovesci militari e di brutte figure internazionali. Non mancano nemmeno, con l’eccezione forse di Carlo Piaggia, che nel corso del suo soggiorno tra i Niam Niam ha maturato un profondo rispetto per gli africani, di alimentare i semi di un razzismo strisciante che comincia a circolare anche in Italia. Gessi lo manifesta apertamente, e lo applica anche, quando si distingue nella repressione di una rivolta nel Darfur per la spietatezza nei confronti dei nativi. Lo stesso vale per Bòttego: mentre Citerni, autore di un manualetto ad uso degli esploratori, riassume così l’immagine che nel migliore dei casi i nostri esploratori vanno a diffondere. “Nelle relazioni coi neri – scrive – il dir sempre la verità finisce per diventare un’astuzia raffinata. Essendo egli menzionieri per istinto e attribuendo a voi il medesimo difetto, credono sempre il contrario di ciò che dite: e, agendo in conseguenza, finiscono per essere ingannati da loro stessi. […]”[46].
Il ruolo delle esplorazioni e delle società geografiche
Una “Associazione per promuovere l’esplorazione delle zone interne dell’Africa” era sorta a Londra già nel 1778, con l’esplicito assunto di combattere la tratta degli schiavi e di ampliare le conoscenze geografiche e commerciali relative al continente nero. Solo dopo la fine delle guerre napoleoniche però, col ravvivarsi dell’interesse per l’esplorazione delle masse continentali extraeuropee, in particolare di quella africana, sostanzialmente inviolata, cominciano a costituirsi anche in altri paesi europei vere e proprie società geografiche, sotto la cui egida si muovono le principali iniziative d’esplorazione della prima metà dell’800. Queste associazioni si preoccupano di fondare su basi scientifiche e sistematiche la penetrazione ed il riconoscimento delle aree inesplorate, patrocinando le spedizioni, coordinandole e raffrontandone i risultati: mirano inoltre ad ampliarne la risonanza, organizzando conferenze ed incontri con gli esploratori e, soprattutto, curando l’edizione di memorie di viaggio.
Fino alla metà del secolo, comunque, la presenza di società geografiche è ancora alquanto ridotta: nel 1850 non ne esistono in tutta l’Europa più di una decina, in stretto rapporto con gli ambienti universitari più avanzati, Londra, Parigi, Berlino … Conservano loro malgrado molti tratti delle vecchie accademie secentesche e dei circoli aristocratici del secolo precedente, pur essendo aperte a filantropi, scienziati, missionari e, necessariamente, a quegli uomini dal sentire e dalla cultura piuttosto irregolare che sono gli esploratori. In esse convivono le idealità illuministiche dell’acquisto e della divulgazione della conoscenza e le suggestioni romantiche dell’avventura e dell’esotismo: e si rivelano di norma determinanti, almeno all’atto costitutivo, le argomentazioni umanitarie propugnate dai circoli abolizionisti e dalle innumerevoli congregazioni missionarie sia cattoliche che protestanti che sorgono nella prima metà del secolo. Ma in questo umanitarismo l’anelito religioso all’evangelizzazione sfuma ormai decisamente in una vocazione più genericamente “civilizzatrice”, nell’obbligo morale indotto dalla superiorità nei confronti di genti primitive, barbare, miserabili per fame e malattie: la concretizzazione tecnico-scientifica della razionalità occidentale non consente più dubbi, fissa i parametri di valutazione della civiltà ed i suoi itinerari obbligati. Come afferma il geografo francese Jomard, “[…] il genio intraprendente dell’Europa civilizzata non si placherà prima di aver sollevato il velo tutto intero, prima di aver chiamato popolazioni immense e sconosciute a partecipare ai frutti dei suoi lumi, ai beni e ai mali della sua civiltà” (cit. da C. Zaghi).
Nel contempo si fanno strada anche, e in maniera esplicita, i significati economici e politici di questa superiorità, che implicitamente danno un senso nuovo alla esplorazione geografica: “Noi vogliamo che l’Africa, assieme al resto del mondo, paghi il suo tributo alla nostra industria: ch’essa versi i suoi tesori, i suoi prodotti, i suoi metalli preziosi… Siano dunque l’amore dell’umanità o la sete della scienza, gli interessi della morale o quelli della nostra politica, ad animare lo spirito della scoperta, poco importa”. Per il momento, tuttavia, il terreno di scoperta e di penetrazione del capitale, sotto la specie del nuovo modo di produzione industriale, rimane l’Europa, e l’interesse economico per le aree coloniali si mantiene, dopo il tramonto della grande stagione dei traffici, piuttosto tiepido. Gli stessi governi europei appaiono estremamente riluttanti ad appoggiare iniziative in questa direzione: i problemi interni suscitati dalla trasformazione del quadro sociale e dall’affermarsi delle indennità nazionali hanno la precedenza, e la scelta economica liberista sembra favorire il “versamento del tributo” senza contropartite di responsabilità amministrative.
Ciò spiega come mai in questo periodo le società geografiche debbano spesso lamentare disponibilità finanziarie inadeguate alle ambizioni, e siano talora costrette a ripiegare sull’incoraggiamento ad intraprese private. Tuttavia i risultati dell’attività esplorativa che fa capo alle società geografiche non mancano d’essere rilevanti.
I protagonisti della seconda ondata di esplorazioni, che inizia con Livingstone e prosegue con Burton, Speke e Cameron, con i tedeschi Barth, Rolf e Nactingale, coi francesi Du Chaillou e Savorgnan di Brazzà, per chiudersi col celeberrimo Stanley (e nella quale come abbiamo visto trovano spazio anche gli italiani) si inoltrano nel cuore dell’Africa attraverso vie aperte negli anni Venti e Trenta, si giovano delle esperienze maturate dai loro precursori, spesso possono valersi dell’ascendente da questi acquisito presso le popolazioni indigene: ma, soprattutto, hanno alle spalle una situazione organizzativa ben diversa. Nella seconda metà dell’Ottocento infatti l’incremento quantitativo, sia nel numero delle società geografiche che nella partecipazione di affiliati e sottoscrittori, è rilevante e accompagna, o meglio determina, una profonda trasformazione della loro natura e delle loro finalità. Esse non sono più semplici appendici dell’ambiente universitario, e conoscono una straordinaria fioritura nei principali nodi commerciali (Napoli, Marsiglia, Amburgo, Rotterdam, ad esempio) o industriali (Lione, Liegi, Milano…). La stessa denominazione ufficiale in genere muta: è abbandonata la neutrale copertura dello spirito “geografico”, e si fondano istituti, comitati o associazioni esplicitamente “coloniali”, quasi a sottolineare la diversa ottica all’interno della quale si pongono ed intendono operare. Abbiamo così significativamente la nascita di organizzazioni come l’Union Coloniale Francaise, la Societé Francaise de Colonisation et d’Agricolture coloniale, la Compagnia coloniale tedesca, l’Associazione Coloniale tedesca, il Royal Colonial Institute, per citare solo le più famose. In Italia sorge a Milano la Società di Esplorazioni Commerciali. E anche quando la denominazione conservi una ambigua connotazione filantropica, come nel caso dell’Association Internationale Africaine fondata nel 1876 da Leopoldo II del Belgio per combattere la tratta, la sostanza non cambia. Del resto, la stessa crociata antischiavista condotta nell’Africa centrale presenta risvolti che nulla hanno a che vedere con l’umanitarismo: si trattava piuttosto di dare preminenza a nuovi interessi produttivi, diversi dagli interessi pur sempre economici, che sostenevano la forma schiavista. Nel caso specifico del Congo, l’assunto abolizionista in nome del quale verrà condotta una violenta campagna contro i mercanti arabi della zona orientale ha evidentemente una pura funzione propagandistica, alla luce del regime inumano di lavoro forzato cui i sudditi africani di Leopoldo II sono sottoposti.
L’evoluzione di intenti e di potenziale delle associazioni geografiche ha una sua spiegazione molto semplice. Negli elenchi dei fondatori e dei sottoscrittori ricorrono ora i grandi nomi della finanza e dell’industria, da Krupp a Rotschild a Thys (e per l’Italia Pirelli, Erba, Rossi, Gondrand, Rubattino …), nonché le onnipresenti Camere di Commercio, gli Istituti di credito, le compagnie di navigazione, le alte gerarchie militari. Con l’ingresso del capitale non arrivano soltanto i supporti finanziari, ma anche precise direttive sulle zone di interesse e sui tipi di rilevamento da effettuarsi, relativi agli accessi commerciali per via terrestre o fluviale, al potenziale produttivo dei terreni o umano, alle risorse minerarie. Gli stessi esploratori mettono in primo piano il risvolto “concreto” della loro missione, attribuendo all’opera di civilizzazione il significato primario di apertura ai commerci e alla penetrazione economica. Livingstone afferma apertamente: “Ho una doppia meta: cerco il benessere dei pagani e il nostro profitto. Per obbedire al vangelo dobbiamo incoraggiare gli africani a lavorare per i nostri mercati; essi ci possono dare le materie prime per le nostre fabbriche.” Con qualche eufemismo in più, Stanley così riassume gli scopi della sua missione, che aprirà la strada allo sfruttamento selvaggio delle risorse e degli abitanti del Congo: “Il nostro progetto è triplice: filantropico, scientifico e commerciale. È filantropico, inquantoché nostra mira principale è di rendere accessibile l’interno, divezzando le tribù da quello stato selvaggio e sospettoso in cui ora giacciono, ed invitandole a prestarci volonterosamente il loro aiuto materiale… È parimenti scientifico, giacché noi intendiamo fare uno studio sistematico di tutto il paese e determinare con esattezza le posizioni di tutti i villaggi, le città importanti e i luoghi principali che possono interessare il geografo ed il mercante. I nostri fini sono pure commerciali, volendo noi esperimentare ho a che punto ci si può avventurare in relazioni mercantili con le tribù suddette, invitandole a scambiare i prodotti che posseggono con i manufatti delle nazioni europee […]”. Come si vedrà, queste relazioni mercantili non tarderanno a degenerare nell’aperto saccheggio, e l’invito a “prestare volonterosamente l’aiuto materiale” si tradurrà in un vero e proprio lavoro forzato, e in una dura pressione fiscale sui villaggi.
Stanley ha tralasciato, tra le finalità elencate, quella che è implicita proprio nel suo operato, magari suo malgrado, e per effetto reattivo: l’acquisizione di territori e popoli sui quali esercitare un dominio politico, e dai quali trarre un prestigio militare e diplomatico, oltre ai vantaggi economici. È questo aspetto a caratterizzare la terza fase, se così possiamo chiamarla, dell’esplorazione, e ad informare l’associazionismo geografico di fine secolo. In realtà, già prima degli anni ‘80 personaggi come Louis Faidherbe avevano concepito l’espansione in termini di conquista e di gestione amministrativo-strategica direttamente dipendente della madrepatria. Si era trattato però di vocazioni unilaterali, che non avevano trovato corrispondenza negli ambienti governativi metropolitani. La missione di Stanley dà la stura invece ad una serie di iniziative di esplorazione che hanno moventi e mandanti decisamente politici. Savorgnan di Brazzà, Marchand, Binger per la Francia, Karl Peters per la Germania, Gordon e Gessi per gli angloegiziani, Von Wissman per il “Libero Stato del Congo”, Bianchi, Matteucci e Bottego per il governo italiano, operano ricognizioni che rispondono prima di tutto all’esigenza di conformarsi alla clausola della “occupazione effettiva” sancita dalla conferenza di Berlino. Dietro questi uomini si muovono compagnie commerciali o associazioni geografiche che hanno ormai abdicato alla vecchia avventurosa indipendenza, e agiscono come emissari dei rispettivi governi (è il caso ad esempio delle compagnie commerciali tedesche, o della Società Geografica Italiana), o di grandi trusts finanziari che hanno ottenuto concessioni di sfruttamento su intere regioni: e i personaggi che animano le vicende africane del tardo Ottocento sono del calibro di Cecil Rhodes, abile affarista ma anche teorico della totale britanizzazione dell’Africa, e magari dell’intero globo; di Georg Goddie, fondatore ed anima della Royal Niger Company, che in pratica acquisisce al dominio inglese il possedimento sul delta nigeriano; di Desbordes, Gallieni e Archinard, successivi governatori del Senegal francese, fautori di una espansione a carattere militare, che porta la Francia a guerreggiare per vent’anni con gli stati indigeni dell’entroterra occidentale; di Luderitz, che crea i presupposti per la penetrazione tedesca nell’Africa del sud-est, e per il mutamento di rotta di Bismarck; tutti accomunati da saldi legami coi rispettivi governi, quando non si tratti addirittura di funzionari, più o meno ufficiali, degli stessi. E se anche i loro successi sembrano scaturire dai colpi di testa, da iniziative prese contro le disposizioni governative, dal superamento di resistenze, incomprensioni e diffidenze della madrepatria, in realtà sono resi possibili proprio dal mutato atteggiamento politico nei confronti delle colonie.
Sensibilità coloniali e azioni di conquista
Per la Francia l’evoluzione politica in senso decisamente espansionista è piuttosto precoce, giunge in eredità alla Terza Repubblica direttamente dal programma imperiale di Napoleone III: ne è tramite ed ispiratore l’esercito, assurto durante l’impero a perno della bellicosa politica napoleonica d’intervento, in Europa e fuori, e sopravvissuto al suo fallimento. Anzi, la sconfitta ha paradossalmente creato dei sensi di colpa nei confronti delle forze armate, e gli ambienti militari godono, almeno sino alla crisi boulangista e allo scandalo Dreyfus, di particolare prestigio. Da essi giungono pertanto gli stimoli e le indicazioni per una indiretta revanche nei confronti dei rivali europei, e gli uomini di governo non esitano a farsene portavoce. Ciò spiega la facilità con cui il parlamento è indotto ad approvare grossi stanziamenti per finanziare la conquista, e ad addossarsi gli oneri della gestione amministrativa delle colonie. Jules Ferry pone in questi termini la questione coloniale di fronte al parlamento: “ La politica di raccoglimento che si impone alle nazioni provate da grandi sventure deve necessariamente risolversi in abdicazione?“ E più oltre esplicita quel movente strategico che in effetti ha enorme importanza per l’espansionismo francese: “Affermo che la politica coloniale della Francia … si è ispirata ad una verità: vale a dire che una marina come la nostra non può rinunciare ad avere sui mari solidi porti di rifugio, difese, centri di rifornimento”. Naturalmente la penetrazione francese in Africa, come quella nel sud-est asiatico e in Oceania, presenta anche tutti i connotati dell’imperialismo economico, ed ha alle spalle i cartelli industriali e finanziari, nonché le grandi società di noli marittimi e le ditte di importazione-esportazione. Rimane tuttavia quale suo carattere distintivo quello di una avanzata scandita dalle campagne contro i regni indigeni occidentali, sudanesi e malgasci, militare prima che commerciale, e di modelli di amministrazione elaborati e gestiti dagli stati maggiori coloniali.
I governanti dell’impero britannico arrivano invece molto più tardi a convincersi dell’opportunità di una politica di espansione africana. Anche quando Disraeli afferma che “nessun ministro fa il suo dovere in questo paese se trascura la più piccola occasione di ampliare il nostro impero coloniale nella massima misura possibile”, il suo pensiero è volto ai possedimenti asiatici. L’intervento in Africa è concepito solo in funzione dell’egemonia sul mar Rosso (come nel caso egiziano) e lo dimostra il fatto che all’epoca del suo gabinetto le compagnie che operano sulla costa occidentale del continente nero, nel golfo di Guinea, non ottengono le garanzie di protezione politica che sono invece assicurate a quelle operanti, ad esempio, nel Borneo.
Col ritorno al potere di Gladstone, poi, tra il 1880 e il 1886, proprio nel momento in cui le altre potenze scatenano le loro ambizioni coloniali, una estrema cautela caratterizza la politica londinese, con la sola eccezione dell’intervento in Egitto. È un periodo nero per l’imperialismo britannico, osteggiato dall’interno (“Noi combattiamo l’imperialismo, anche se i nostri cuori sono con l’impero”, dice Gladstone), e sconfitto sia diplomaticamente, alla conferenza di Berlino, sia militarmente, nella prima guerra contro i boeri, nel 1881, e nella campagna sudanese del 1886. Le conseguenze vengono così denunciate dalla Camera di commercio di Liverpool, nel 1892: “In Africa occidentale nell’ultimo decennio i governi inglesi si sono lasciati superare dalla Germania e dalla Francia; il Gambia ha perso territori, il Camerun è stato perso: due potenze straniere si sono inserite tra Lagos e la Costa d’oro… La Camera è dell’avviso che in ogni caso in cui esisteva una prevalenza commerciale inglese nei territori africani ancora autonomi, gli interessi inglesi avrebbero dovuto essere difesi dichiarando detti territori come appartenenti alla sfera d’influenza inglese.” (cit. da Fieldhouse). La verità è, tuttavia, che anche gli ambienti economici britannici rimangono a lungo allineati sulle posizioni governative del non impegno. Solo nell’ultimo decennio del secolo si ha la conversione pressoché unanime ad un’attitudine espansionista, indotta da un lato dalla fondata sensazione che la supremazia ormai secolare sia vacillante, e suffragata dall’altro dal diffondersi del mito nazionalista della “razza dominatrice”, del destino imperiale iscritto nella grandezza e unicità, “per sangue, leggi, lingua e religione”, del popolo britannico.
Alla conferenza di Berlino le potenze coloniali tradizionali devono prendere atto dell’entrata in lizza, quale nuovo e temibile concorrente, della nazione ospitante. La vocazione coloniale tedesca non ha in effetti alcuna radice anteriore al 1880. Negli schemi della politica estera bismarckiana aveva sempre prevalso il principio che le colonie costituissero un inutile onere sia economico che strategico, e non a caso dopo il 1870 il cancelliere aveva incessantemente tramato per spingere sulla via dell’espansione d’oltremare la Francia, onde distrarla da tentazioni revansciste e impegnarla comunque su fronti lontani e dispersivi. A partire dal 1883, però, questa valutazione negativa lascia il posto ad una spregiudicata prassi interventista che si concretizza, già l’anno successivo, nella richiesta di riconoscimento del protettorato tedesco su fasce della costa guineana e sudoccidentale. È difficile valutare il diverso peso dei fattori che portano a questa conversione di tendenza; essa è frutto dell’assommarsi di problemi interni (le pressioni dei gruppi politici nazionalisti ed imperialisti), di istanze nuove, emerse sul piano internazionale, in relazione allo sviluppo degli interessi commerciali tedeschi, che in alcune zone africane avevano acquisito proporzioni di rilievo, e al surriscaldamento dei rapporti provocato dall’iniziativa di Leopoldo II nel Congo. Inoltre, mentre per il passato l’esistenza di zone ancora franche garantiva almeno teoricamente a tutti i paesi spazi commerciali paritari, dopo il 1880 l’espansione territoriale francese e belga, con la conseguente reazione inglese, e l’imposizione di regimi tariffari doganali differenziati minacciano di estrometterli dal commercio africano. Quindi interessi che avevano potuto essere coltivati anche in assenza di incoraggiamento della madrepatria necessitano ora di un supporto politico. Resta comunque il fatto che proprio l’iniziativa della Germania, indotta ad agire dal timore di vedersi preclusa ogni prospettiva commerciale, spinge definitivamente le nazioni concorrenti sulla strada dell’annessione e del predominio monopolistico.
Anche il giovane stato italiano non è certamente sospinto nell’arengo coloniale da una tradizione di espansionismo d’oltremare, a meno di voler considerare tale l’antica presenza commerciale mediterranea di genovesi e veneziani. Nell’età moderna, comunque, questa presenza, sia pur radicata, aveva forzatamente dismesso ogni carattere colonialistico, ricevendo piuttosto nuovi stimoli dal prevalere di un regime di libero scambio. Anche dopo il compimento dell’unità il paese non appare affatto motivato ad espansioni di sorta, e tanto meno sembra in condizioni tali da arrischiarle, con un bilancio quasi cronicamente deficitario, una industria che stenta a decollare, un esercito reduce da prestazioni deludenti ed una miriade di problemi connessi agli squilibri socio-economici tra le varie aree e alle trasformazioni in atto nel quadro sociale.
È vero che qualcuno già lamenta il ritardo accumulato in questo settore dall’Italia nei confronti delle altre nazioni occidentali, e predica la necessità di un pronto riscatto: ma a controbilanciare queste posizioni c’è il retaggio dell’idealità risorgimentale, fondata sul rispetto delle indipendenze nazionali, alla quale è fedele soprattutto quella destra che esprime fino al 1876 le compagini governative. Ciò malgrado il problema comincia a porsi già a partire dagli anni Settanta, se non altro a livello politico, e in termini molto particolari. Le spinte economiche hanno un peso modesto in questa prima fase della vicenda coloniale italiana. Esse sono legate soprattutto d’apertura del canale di Suez, e si combinano con l’esigenza, condivisa da tutte le potenze europee, di assicurarsi degli scali “strategici” sulle coste del mar Rosso. È anzi proprio questa esigenza, divenuta imprescindibile per il governo italiano dopo l’estromissione dalla Tunisia, a rivalutare un investimento coloniale che sotto il profilo economico si era rivelato fallimentare.
C’è quindi una prevalente incidenza delle ragioni politiche sul mutamento di rotta che la politica italiana subisce nell’ultimo quarto di secolo. Il nuovo atteggiamento filo-espansionista comincia a diffondersi dopo il 1876, con la salita al potere della sinistra. La sconfitta dei conservatori, espressione della grande proprietà fondiaria ed ostili alle avventure militari e finanziarie, determina un nuovo orientamento economico, aperto alle sollecitazioni provenienti dagli ambienti industriali e commerciali, e quindi incline ad inquadrare in una prospettiva extra-nazionale lo sviluppo del paese. Di qui l’impegno per dotare l’economia italiana delle strutture necessarie all’espansione, che si concretizza ad esempio in finanziamenti ed agevolazioni particolari per la marina mercantile, nell’adozione del protezionismo nell’ambito della guerra commerciale tra i paesi industrializzati, nell’attenzione dedicata ai problemi dell’emigrazione, e infine nei riconoscimento della necessità di assicurare alla produzione italiana spazi futuri fuori del vecchio continente. Agiscono anche, in questo periodo, suggestioni d’altra natura, come il fascino esercitato dall’esotismo soprattutto sulle classi borghesi, attraverso quella schiera sempre più folta di italiani che, chiuso il periodo eroico del Risorgimento, inseguono gloria, avventure e fortuna in Africa. Questi esploratori, da Piaggia, a Miani, a Gessi, non a caso tutti ex garibaldini, contribuiscono a diffondere dell’Africa un’immagine accattivante, che agli occhi di governanti ed imprenditori si traduce in possibilità di investimenti, di prestigio politico o di capitali. Un sostenitore delle necessità espansionistiche italiane, Gustavo Chiesi, così sintetizza le argomentazioni che cominciano a prendere piede a cavallo tra i due secoli anche nella penisola: “Le vergini e nuove regioni dell’Africa da occuparsi, da colonizzarsi, da lavorarsi, da ripopolare, da civilizzare, da elevare a sempre migliori tenori di vita significano assicurare per le metropoli le antiche fonti di attività, di lavoro, in pericolo di languire ed estinguersi; significa crearne delle nuove, in relazione ai nuovi bisogni fatti sorgere nelle colonie. Col progredire, con l’incremento delle colonie, abbisogneranno costruzioni navali, costruzioni e materiale ferroviario, e prodotti delle industrie meccaniche, delle industrie tessili, delle industrie chimiche e delle industrie alimentari. E nuove industrie, nuove sorgenti di lavoro potranno svilupparsi per la preparazione e la trasformazione dei prodotti coloniali, che direttamente verranno importati nella madrepatria secondo le necessità del consumo, compreso effettivamente tutto, in questo sfondo radioso”, e vengono più oltre prese in considerazione anche le conseguenze morali, la fecondazione di nuove idealità per le giovani generazioni e la funzione equilibratrice dell’assetto sociale. Buona parte della classe politica italiana è però consapevole dei rischi e della inopportunità di lasciarsi coinvolgere in diversivi coloniali. Lo stesso Pasquale Stanislao Mancini, firmatario nel 1882 della convenzione d’acquisto del primo possedimento italiano, la baia di Assab (già proprietà, dal 1869 dell’imprenditore genovese Rubattino) non ha esitazione due anni dopo a condannare ogni velleità espansionistica: “reputerò sempre imprudente o dannoso consiglio eccitare l’Italia, giovane nazione che più di ogni altra ha bisogno supremo di sicurezza, di pace, di feconda attività interna per consolidarsi, a slanciarsi in avventure dispendiose e perigliose in lontane contrade, per iniziare quella che vuol chiamarsi politica coloniale”. (cit. da Battaglia).
Eppure proprio l’acquisto di Assab apre una porta secondaria all’Italia per mettere piede, sia pure con un giro piuttosto largo, sulla quarta sponda. La via diretta, quella della Tunisia, caldeggiata in verità in alcuni ambienti governativi già agli inizi degli anni Settanta, non era stata percorsa all’epoca del congresso di Berlino in seguito alle resistenze degli altri governi europei. L’intervento francese del 1881 mette ora fuori causa definitivamente il governo italiano, costringendolo a “cercare nel mar Rosso le chiavi del Mediterraneo”, ma in realtà determinandone una decisa volontà ed un più specifico obiettivo coloniale. È così che nel 1885 la presenza sulle coste del mar Rosso viene consolidata con lo sbarco a Massaua, concordato con gli inglesi, che a dispetto del clima da operetta in cui si svolge proietta definitivamente lo stato italiano tra le potenze “colonizzatrici”.
I1 giovane regno del Belgio ed il suo sovrano Leopoldo II sono protagonisti di una vicenda coloniale piuttosto atipica, che ha per teatro l’importante bacino fluviale del Congo. Sull’estuario del fiume erano presenti da alcune decine d’anni agenzie commerciali inglesi, francesi e olandesi, ma nessun tentativo serio di penetrazione economica era ancora stato operato verso l’interno. Per contro, l’area aveva richiamato l’attenzione di missionari ed esploratori da Livingstone a Stanley, che l’avevano percorsa a scopi umanitari o di riconoscimento geografico, ma non avevano mancato di rilevarne anche il potenziale produttivo e la ricchezza mineraria.
Stanley, reduce da una spedizione durata quattro anni, nel corso della quale, partendo dalla costa orientale, aveva disceso il fiume sino all’Atlantico, cerca di attivare l’interesse inglese per la regione, ma si scontra con l’orientamento anti-imperialista del governo Gladstone. Le sue relazioni suscitano invece l’entusiasmo di Leopoldo II, re del Belgio. Ambizioso ed irrequieto, insofferente dei limiti impostigli dal ruolo di monarca parlamentare di un paese neutrale, il sovrano belga concepisce da tempo il disegno di una colonizzazione direttamente subordinata alla propria autorità, realizzabile giocando d’astuzia sulla rivalità tra le grandi potenze. A tal fine ha già preparato una copertura scientifica per i suoi progetti, riunendo a Bruxelles nel settembre del 1876 una Conferenza internazionale di geografi e di colonialisti, ed autocandidandosi, in pratica, a guidare una crociata “civilizzatrice” nel cuore del continente nero. Lo strumento creato ad hoc per questa operazione è I’Association Internationale Africaine, “quartier generale del movimento civilizzatore”, il cui carattere internazionale dovrebbe garantire la ‘neutralità’. All’atto pratico è il comitato belga dell’associazione a reggere il timone, e proprio da esso, trasformatosi in ‘Comitato studi sull’Alto Congo’, è affidato a Stanley nel 1882 l’incarico di risalire il fiume dalla foce, attuando una ricognizione geografica e commerciale dell’intero percorso e stipulando trattati d’amicizia e di scambio con le popolazioni indigene, quasi in rappresentanza di uno stato sovrano. Vengono così poste le basi per il controllo dell’intero bacino: esordendo con lo stabilire una serie di postazioni militari e commerciali lungo il fiume, esso si consoliderà poi con la fondazione di vere e proprie città (Leopoldville) e con la costruzione di un tronco ferroviario di raccordo dal centro della regione all’estuario.
La rapidità, e indubbiamente anche la temerarietà dell’iniziativa coloniale leopoldina (che in effetti nella sua prima fase risulta fallimentare sotto il profilo economico), che colgono di sorpresa le grosse potenze europee, trovano sanzione ufficiale a Berlino (1884-1885), dove viene creato il “Libero Stato del Congo”, posto direttamente sotto la personale giurisdizione del sovrano. Nel nuovo stato i belgi, come amministratori, e, particolarmente, come coloni, troveranno un importante fondamento per arricchire il proprio paese, e potersi collocare nel novero delle nazioni “portatrici di civiltà”.
Inglesi e boeri nell’Africa australe
L’ex-colonia olandese del Capo di buona Speranza, annessa dagli inglesi alla fine della rivoluzione francese, dopo che di fatto si era già resa indipendente dalla madrepatria (1795), e conservata poi con un trattato del 1815, conosce nella prima metà dell’Ottocento un’eccezionale fioritura, legata all’incremento dei traffici navali con le Indie.
L’importanza acquisita dallo scalo richiama mercanti e coloni, crea nuovi fabbisogni alimentari, soprattutto per i rifornimenti alle navi, e determina una spinta in profondità, alla ricerca di nuove terre, per gli allevatori e gli agricoltori di origine olandese, tedesca o francese, i boeri. Le relazioni tra questi ultimi e i nuovi arrivati inglesi sono subito difficili: il governo britannico non vuole correre rischi, in un insediamento così lontano ed isolato, e cerca di evitare contrasti con le popolazioni indigene, mentre i boeri possono acquistare terre solo strappandole ai nativi. Londra tenta inoltre di introdurre una legislazione che salvaguardi i diritti dei “sudditi” neri, e nel 1835 estende alla colonia del Capo l’abolizione della schiavitù. È più di quanto i Boeri siano disposti ad accettare. Con una migrazione di massa (il grande Treck), che ricorda quelle delle popolazioni da essi cacciate, si spostano verso la zona nordorientale, dove fondano veri e propri stati: il Natal, lo stato libero di Orange, e il Transvaal. Mentre il primo è immediatamente rioccupato dall’amministrazione inglese (1842), gli altri due sono tacitamente riconosciuti dopo il 1852. Ciò perché si tratta di stati dell’interno, senza sbocchi al mare, che non possono entrare in concorrenza commerciale con Città del Capo né creare problemi strategici: ed anche perché in effetti si tratta di stati estremamente poveri, con economia basata essenzialmente sull’allevamento. La situazione muta quando nel Transvaal vengono scoperti giacimenti auriferi e di diamanti, e la repubblica boera, arricchitasi, diventa un polo d’attrazione anche politico per gli afrikanders del Capo. Dal 1850 infatti la colonia del Capo gode dell’autonomia, come il Canada e le province australiane, ed il gruppo di più antica immigrazione vi esercita una notevole influenza politica. Londra arriva a paventare un distacco che la priverebbe del suo fondamentale punto d’appoggio sulla rotta per le Indie, e tenta di approfittare di una invasione di popolazioni zulu per annettersi nel 1877 il Transvaal: ma la reazione dei boeri è decisa. Gli inglesi debbono battere in ritirata e giungono al riconoscimento anche formale dell’indipendenza del Transvaal (1881).
La situazione torna a deteriorarsi, questa volta definitivamente, nell’ultimo decennio del secolo. L’evoluzione politica al Capo e nel Transvaal ha proceduto in direzioni assolutamente inconciliabili. Da una parte il protagonista e l’ispiratore della politica sudafricana è Cecil Rhodes, arricchitosi con le miniere diamantifere, che ottiene la concessione di una compagnia a carta per la zona dello Zambesi, e concepisce il disegno di una grande Africa inglese, le cui fondamenta debbono essere gettate dalla creazione di un dominio continuativo tra il Cairo e il capo di Buona Speranza. Per parte sua egli contribuisce come presidente della compagnia ad annettere un enorme territorio, la Rhodesia appunto, e stringendo poi, quando diviene primo ministro al Capo, il Transvaal in una morsa soffocante. I Boeri sono quindi stimolati ad uscire dall’accerchiamento cercando appoggi presso le altre potenze europee: e non tardano a trovarlo nella Germania post-bismarckiana, che va perseguendo una politica anti-inglese piuttosto temeraria e provocatoria, e che soprattutto ha precisi interessi nel sud-est africano. Quando il progetto di una linea ferroviaria tra Joannesburg e Dar-es-Salam, il porto principale del Tanganika tedesco, rischia di creare uno sbocco alternativo alle produzioni minerarie dell’interno, l’Inghilterra non può più indugiare.
La guerra anglo-boera scoppia nel 1899, e vede ancora una volta Londra impegnata in un conflitto coloniale contro una popolazione di origine occidentale, ciò che suscita l’unanime esecrazione e la denuncia dell’ “imperialismo” inglese. Nessuno si muove però concretamente per appoggiare i boeri, e nel 1902 la repubblica è costretta a capitolare, entrando a far parte dell’impero britannico. La guerra non chiude in realtà il problema boero: gli afrikanders riusciranno dopo la prima guerra mondiale a riprendere dall’interno le redini della politica sudafricana, e piloteranno sia il progressivo distacco dal Commonwealth sia l’adozione di un modello di convivenza decisamente segregazionista.
Un nuovo imperialismo: l’esordio statunitense nell’Asia orientale
Nello stesso periodo, nell’estremo lembo insulare dell’Asia orientale, fa il suo esordio ufficiale una potenza che nel volgere di pochi decenni diverrà la protagonista dell’imperialismo economico e militare. In realtà gli Stati Uniti, pur continuando a professare la loro avversione di principio ad ogni forma di colonialismo e la loro simpatia per i popoli soggetti, non avevano mai esitato a mettere in atto all’occorrenza politiche di conquista (la guerra contro il Messico del 1846), di annessione (la California), o di progressiva e brutale occupazione di territori altrui (il West e le guerre indiane), declinando nella maniera più spiccia la dottrina del destino manifesto. Dalla metà del XIX secolo, da quando erano state tracciate le vie carovaniere che collegavano le due coste, e soprattutto dopo il completamento delle grandi linee ferroviarie transcontinentali, il loro interesse aveva cominciato a volgersi verso il Pacifico. Il nuovo corso si era concretizzato nei trattati commerciali imposti alla Cina dopo le guerre dell’oppio (nel 1853), e nell’apertura forzata dei porti giapponesi sotto la minaccia delle cannoniere dell’ammiraglio Perkins nel 1863. Alla fine del secolo l’attivismo delle altre potenze coloniali, Inghilterra e Francia in primis, ma anche della Germania e della Russia, che minaccia di diventare il competitore ufficiale nel nord-pacifico, portano il governo nordamericano a rompere gli indugi. A spingere sono le grandi lobbies che manovrano il partito conservatore, che non vogliono perdere il treno dei potenziali enormi mercati asiatici e premono per l’adozione di forti scudi daziari e di una politica estera aggressiva.
In un primo tempo questa aggressività tenta il canale della diplomazia commerciale, mirando a creare accordi doganali e monetari panamericani: ma questa strada viene sbarrata dalla giustificata diffidenza dell’America latina (congresso di Washington del 1889). Nel contempo si manifesta però anche in una muscolare riproposizione della dottrina Monroe, in occasione del tentativo inglese di annettersi una parte del Venezuela (1894) e di quello tedesco di imporre condizioni ad Haiti. In entrambi i casi il presidente Cleveland fa chiaramente capire che gli Stati Uniti non sono disposti ad assistere passivamente, e ottiene il dietrofront degli europei.
Sul versante del Pacifico il primo obiettivo sono le Hawai, a metà strada sulla rotta per la Cina: come insegna il modello inglese, nelle isole viene fomentata una lotta per la successione, che si risolve inevitabilmente in una richiesta di protettorato statunitense (1893). Cleveland però ancora in questo caso preferisce usare cautela, soprattutto per la posizione decisamente contraria dei democratici, e l’annessione è rimandata di qualche anno.
La situazione precipita proprio nel lago di casa, il Mar delle Antille. Nel 1895 scoppia a Cuba un’insurrezione che covava da lungo tempo. Per reprimerla la Spagna adotta il pugno duro, attuando una politica concentrazionaria che in pratica spopola le campagna ed ha effetti devastanti sulla popolazione, provocando numerosissimi morti per fame e per malattie. Ciò offre agli Stati Uniti, ormai risoluti ad una interpretazione estensiva della dottrina Monroe, una splendida copertura di immagine: l’intervento contro una vecchia potenza coloniale a sostegno delle rivendicazioni indipendentistiche di un popolo americano oppresso. Dall’altra parte, il richiamo di Cleveland al rispetto dei diritti dei cubani e la raccomandazione a concedere loro un’ampia autonomia vengono accolti dagli spagnoli come insulti, e ciò non fa che surriscaldare i rapporti. I poteri economici hanno quindi buon gioco ad orchestrare una violenta campagna di stampa antispagnola, che vince anche la riluttanza iniziale del nuovo presidente McKinley, repubblicano.
Il pretesto decisivo è fornito dall’esplosione di una nave da guerra statunitense nel porto de L’Avana, le cui cause reali non sono mai state chiarite. Con una breve campagna navale e terrestre il corpo di spedizione statunitense si impadronisce dei punti chiave dell’isola, costringendo la Spagna a riconoscere, con la pace di Parigi del dicembre 1998, l’indipendenza cubana. Nella stessa occasione la Spagna cede agli Stati Uniti, dietro un indennizzo di venti milioni di dollari, l’isola di Portorico, Guam e le Filippine.
Anche nel grande arcipelago filippino era infatti in corso da un paio d’anni una rivoluzione antispagnola, che aveva dato origine nel 1897 ad un primo governo autonomo, operante in semiclandestinità e presieduto da Edoardo Aguinaldo. Con lo scoppio della guerra ispano-americana Aguinaldo si schiera con gli Stati Uniti, le sue truppe occupano tutto il territorio filippino, tranne Manila, e viene ufficialmente proclamata l’indipendenza e la nascita della prima repubblica filippina. Col trattato di Parigi, però, agli Stati Uniti è conferita una sorta di “successione” coloniale, sotto forma di protettorato. Il governo filippino non riconosce l’accordo e gli Stati Uniti si trovano a questo punto a recitare un ruolo esplicitamente coloniale, laddove sino a quel momento avevano esercitato la loro influenza, sia in America latina che nel Pacifico, solo con le armi diplomatiche ed economiche. La guerra, presto diventata guerriglia, si protrae per diversi anni, nel corso dei quali a fronte di circa cinquemila caduti tra le fila americane si contano oltre mezzo milione di morti tra i civili filippini. La campagna viene condotta dalle truppe statunitensi all’insegna della repressione più dura, adottando la tecnica della terra bruciata, delle rappresaglie e del concentramento di fette della popolazione in “zone protette”, oltre che della tortura e dell’esecuzione sommaria nei confronti dei resistenti armati.
Dopo una decina d’anni di questo trattamento le Filippine sono completamente “pacificate”. Nel 1905 il protettorato si è trasformato in vero e proprio dominio coloniale (le Filippine diventano “territorio incorporato”), mentre viene avviato un programma di radicale “civilizzazione”, perseguito soprattutto attraverso l’imposizione dell’inglese quale lingua ufficiale (in un paese che oltre ai dialetti locali parlava da secoli lo spagnolo) e la liquidazione di ogni ruolo e potere della chiesa cattolica, così da poter fare affermare al segretario statunitense per le Filippine che “il miglioramento che iniziò con l’occupazione statunitense risultò nello sviluppo di selvaggi nudi in uomini educati e colti”.
La novità dell’impegno coloniale non riscuote però il consenso unanime dell’opinione pubblica statunitense. Al di là delle motivazioni etiche, che sono comunque forti in una nazione nata da una guerra anticoloniale, esistono anche e soprattutto ragioni pragmatiche, di ordine interno ed internazionale, sia economiche che politiche, che sconsigliano ogni coinvolgimento diretto in qualsivoglia area. E le opposizioni crescono a tal punto da indurre il Congresso a garantire nel 1916 l’indipendenza delle Filippine entro un trentennio (arriverà, in effetti, solo al termine del secondo conflitto mondiale).
Nel frattempo, attraverso la contemporanea acquisizione delle Isole Hawai, gli Stati Uniti hanno ormai posto le basi per il futuro controllo del Pacifico. Gli antagonisti del momento rimangono ancora le vecchie potenze coloniali, alle quali si è aggiunta la Germania [47]. Ma già sulla scena si affaccia un popolo nuovo, ed un imperialismo che ha per la prima volta tratti non occidentali. Comincia l’era del Giappone.
Il tramonto del colonialismo
La fine della centralità europea
La prima guerra mondiale fa da spartiacque tra due distinti periodi storici, segnando il passaggio dalla supremazia europea sul mondo ad un sistema “mondiale” della politica e della cultura.
Il conflitto 1914-18 non fu semplicemente la prosecuzione del gioco politico con altri mezzi: esso siglò la fine di “quel” gioco e l’inizio di un’altra partita, con nuove regole e nuovi giocatori, su una scacchiera ben più complessa. Apparve come “un evento distruttore di natura irreversibile, una vera esplosione, che sconvolse i precedenti equilibri politici, economici, sociali e militari, che non poterono più essere ripristinati”. (Silvestri). La ricerca di questi equilibri aveva caratterizzato tutta la moderna storia europea, finendo poi, nel corso dell’800, per coinvolgere il mondo intero in tensioni la cui matrice rimaneva quella del confronto di potenza nel vecchio continente. Al passaggio del secolo il trasferimento su scala mondiale degli equilibri di potere europei sembrava realizzato, e in maniera relativamente indolore. Le situazioni conflittuali erano dirottate e scaricate in altri emisferi, nella lotta per la creazione o per la conservazione degli imperi periferici: e la “civiltà” occidentale, diffusasi in ogni parte della terra in virtù della superiorità militare e commerciale, esercitava un condizionamento uniformante su culture, modi di produzione, rapporti sociali e sistemi politici delle popolazioni più diverse. “Il predominio della civiltà occidentale attraverso il mondo, alla vigilia di quel fatale 1914, era in verità recente e, insieme, senza precedenti. Era senza precedenti nel senso che, sebbene molte civiltà prima di quella europea avessero esteso il loro raggio d’azione molto oltre le terre d’origine, nessuna, anteriormente, aveva gettato la sua rete tutt’attorno al globo.” (Toynbee). Tuttavia, l’ampiezza stessa di questa rete era destinata a comprometterne a brevissimo termine la tenuta, almeno sul piano della supremazia politica. Essa imponeva alle potenze europee uno sforzo crescente d’adeguamento ad esigenze economiche e militari in continua evoluzione, finendo per incidere anche sugli equilibri sociali e sulla coesione interna dei singoli stati. Accentuava pertanto, offrendo loro spunti sempre nuovi, le tensioni nazionalistiche, e al tempo stesso favoriva l’insorgere di un nuovo fattore disgregante, il socialismo. Lo straripamento extraeuropeo conduceva inoltre all’urto con potenze di dimensioni continentali, rimaste estranee alla competizione per l’egemonia fino a quando questa aveva riguardato l’Africa, ma che erano spinte a prendere attivamente posizione dallo spostamento in Estremo Oriente del teatro della contesa.
La convinzione che gli schemi delle relazioni internazionali potessero rimanere invariati, ancorati alla centralità decisionale politico-economica europea, era quindi illusoria: illusoria e pericolosa, perché impediva una realistica valutazione preventiva delle dimensioni e delle conseguenze di un conflitto aperto, e induceva l’Europa a giocare con forze che non era ormai più in grado di controllare. Paradossalmente, erano proprio gli europei i più lontani dal rendersi conto di cosa veramente comportasse la nuova dimensione politica mondiale che essi stessi avevano creata.
Eppure, i sintomi dell’imminente sconvolgimento nel quadro dei rapporti internazionali erano già più che evidenti nel decennio a cavallo tra i due secoli, allorché erano emerse tra le aspiranti al rango di grandi potenze due nazioni non europee, gli Stati Uniti e il Giappone. L’intervento statunitense non si limitava ad imbrogliare ulteriormente la matassa degli equilibri nell’Estremo Oriente, imponendo una ridistribuzione delle sfere d’influenza. Esso inaugurava una prassi imperialistica di segno nuovo, meno brutale di quella europea sotto il profilo dell’ufficialità diplomatica, pur se altrettanto pesante sul piano pratico, nella quale il formale ossequio alla “vocazione” anticoloniale, connessa all’origine stessa della nazione nordamericana, si sposava con una più moderna e disinvolta visione dei rapporti politico-economici mondiali. Ponendo l’accento sui moventi anticolonialistici e civilizzatori delle proprie conquiste, e conseguentemente sul carattere temporaneo di queste ultime, l’atteggiamento americano minava alla base i presupposti di solidità del sistema coloniale, fondato sulla presunzione di un dominio estensibile ad un futuro lontano: al tempo stesso anticipava i criteri che sarebbero poi divenuti comuni all’imperialismo occidentale, e che predicavano l’esercizio di una supremazia economica non complicata da un diretto coinvolgimento amministrativo.
Diverso era invece l’atteggiamento dell’altra potenza emergente, il Giappone. Nell’impero del Sol Levante il nuovo regime che faceva capo alla dinastia Meij si era fatto promotore di uno straordinario processo di modernizzazione delle strutture economiche e politiche, incentrato sullo sviluppo forzato del modo di produzione industriale. Una trasformazione di questa portata aveva generato grossi squilibri, avviando reazioni a catena che trovavano il loro sfogo obbligato in una aggressiva politica espansionistica. L’incremento demografico, con conseguente aumento del fabbisogno alimentare; la necessità di reperire materie prime per le industrie e mercati di sbocco per i manufatti; il prestigio e il potere crescenti della classe militare, la prima a beneficiare dell’occidentalizzazione — questi ed altri fattori concorrevano a produrre la spinta all’acquisto di aree continentali di sfruttamento. Né i giapponesi erano impacciati da remore ideologiche, da idiosincrasie nei confronti del colonialismo, avendo bene o male saputo evitare l’esperienza diretta della sudditanza agli occidentali; questo permetteva loro di guardare con ammirazione ed interesse, ma senza alcun complesso d’inferiorità, allo sviluppo tecnico occidentale, ma soprattutto di acquisirne sollecitamente la padronanza.
L’oligarchia nipponica non aveva trascurato di adeguare costantemente le ambizioni della politica estera ai risultati della modernizzazione interna. Il mantenimento della piena indipendenza e l’eliminazione dei privilegi doganali strappati da alcune potenze occidentali erano stati le molle dello sforzo di rinnovamento, ma a questi obiettivi si era aggiunta ben presto la rivendicazione di una più vasta identità territoriale ed etnica della nazione, ciò che significava inglobare tutte le terre abitate da giapponesi o appartenenti geograficamente all’arcipelago. Di lì a poco, infine, si sarebbe giunti alla teorizzazione di un “diritto” giapponese allo sfruttamento delle aree meno progredite, teoria che ricalcava in forma brutalmente esplicita i modelli ideologici del colonialismo europeo.
Quando a Tokio si era deciso di passare all’esecuzione del progetto imperialistico, attaccando la Cina, la reazione europea non era stata eccessivamente allarmata. Per gli ambienti politici e militari del vecchio continente si trattava pur sempre di uno scontro tra “popoli di color”, e l’immediata coalizione degli interessi europei era stata sufficiente a ridimensionare alquanto le ambizioni dei vincitori, privati in effetti di quasi tutte le loro conquiste. Il fatto stesso che l’Inghilterra avesse cercato un’alleanza paritaria con il Giappone, gratificando per la prima volta nell’epoca moderna una nazione non occidentale di un simile trattamento diplomatico, era inteso, e non a torto, come una conseguenza dell’isolamento britannico nel consesso europeo, e della necessità per Londra di aggrapparsi a tutto ciò che potesse riequilibrare la situazione in Estremo Oriente. Ma dopo la battuta d’arresto che i giapponesi avevano imposto all’espansionismo russo l’Europa non poteva più permettersi di ignorare la realtà di una ‘minaccia gialla’ alla propria egemonia. La stessa Inghilterra era turbata dall’eccessiva intraprendenza del proprio partner, che l’avrebbe condotto prima o poi a sconfinare dalla zona d’influenza concordata, mentre altre potenze, prima tra tutte la Francia, valutavano l’opportunità di inaugurare a loro volta rapporti diplomatici più stretti con Toldo. Ciò che gli europei non sapevano, ma avrebbero dovuto constatare a loro spese molto presto, era che la sconfitta russa non poteva essere riassorbita tranquillamente, come un infortunio eccezionale ed irripetibile, nell’ambito di un sistema consolidato di dominio sul mondo, perché ad essa avevano guardato con altrettanto stupore, ma con sentimenti decisamente opposti, tutti i popoli soggetti al colonialismo.
Dalla guerra russo-nipponica veniva un’altra importante indicazione, pure essa non immediatamente recepita, che riguardava il superamento anche sul piano della forma del vetusto cerimoniale diplomatico europeo, il tramonto di una gestione aristocratica, nei modi e nei protagonisti, dei rapporti internazionali. Il governo giapponese aveva spazzato via d’un sol colpo tradizioni e rituali che risalivano ai codici d’onore medioevali, o più oltre ancora; molto pragmáticamente e molto modernamente aveva stroncato gli avversari senza neppure darsi la pena di dichiarare la guerra. Paragonato al balletto degli ultimatum, delle consultazioni, delle note di protesta e delle altisonanti dichiarazioni di solidarietà che avrebbero preceduto la prima guerra mondiale, l’attacco a freddo dei giapponesi parlava il linguaggio essenziale e prosaico della nuova epoca.
Rapportata a questo contesto, nel quale l’imperialismo si caratterizzava per strategie ed obiettivi proiettati su scala mondiale, la conquista italiana della Libia nel 1911 sembrava costituire un’anacronistica appendice del colonialismo ottocentesco. In effetti tutta la vicenda coloniale italiana in Africa rispondeva, più che ad una logica di sviluppo espansionistico complementare alla crescita economica, ad una combinazione originale di fattori ideologici e politici. Si è già visto il ruolo giocato da questi fattori nella promozione dell’avventura abissina. Da un lato la ricerca di un prestigio internazionale, di carte da giocare al tavolo della diplomazia, e quindi anche di un credito militare che la nazione aveva perso da secoli e che le lotte risorgimentali non erano state sufficienti a ricostruire; dall’altro l’assunzione in termini quasi “messianici” del retaggio e dei destini storici dell’Italia, e l’interpretazione in senso imperialistico dell’eredità morale del Risorgimento. Questi moventi continuavano a sussistere un quarto di secolo più tardi, attualizzati dalla volontà di riscattare le ingloriose batoste rimediate in Etiopia e dall’alterazione degli equilibri nel Mediterraneo, provocata dall’imposizione del protettorato francese sul Marocco. Li avvalorava anche la presunzione di un facile successo, radicatasi negli ambienti militari sulla scorta delle ultime disavventure belliche dell’impero ottomano, e fatta propria poi dal governo e dalla stampa (si parlava di una “passeggiata militare” di un paio di settimane, con un corpo di spedizione limitato), nonché un’orchestrata campagna di denuncia dei crimini del regime turco e dell’oppressione esercitata sulle popolazioni arabe.
Un ulteriore impulso espansionistico veniva ora dall’impennata demografica che la nazione aveva conosciuto sul finire del secolo, e che aveva portato il fenomeno migratorio a dimensioni critiche: la ricerca di uno sbocco alternativo, che evitasse alla nazione una pesante ed irreversibile emorragia di forza lavoro, era resa più urgente dalle limitazioni e dai contingentamenti sull’immigrazione adottati dagli Stati Uniti.
Esistevano infine delle motivazioni economiche, anche se gli interessi italiani già consolidati in Libia non raggiungevano una consistenza tale da giustificare una guerra di conquista. Era piuttosto l’evoluzione del sistema economico mondiale a premere, in quanto il generale ritorno al protezionismo minacciava di escludere l’Italia dai mercati internazionali e spingeva verso la ricerca di aree “sicure” per l’approvvigionamento di materie prime a buon mercato, per la collocazione dei manufatti industriali e per investimenti ad alto margine di profitto. Sotto questo profilo, a dispetto della propagandistica immagine di una “terra promessa” che la stampa dell’epoca finiva per dare della Libia, decantandone le fantomatiche ricchezze minerarie (fosfati e zolfo), la potenziale fertilità e la vocazione a regina dei traffici carovanieri con l’interno del continente, è difficile credere che i governanti italiani si attendessero dalla conquista della regione vantaggi economici significativi. Essi si trovavano in realtà di fronte all’ultima opportunità rimasta di mettere piede sull’altra sponda del Mediterraneo e di tenere aperto un varco verso il mondo coloniale africano, visto l’arenarsi delle precedenti iniziative nel Corno d’Africa. Coglierla significava sottrarsi alle immancabili ripercussioni negative che un’ennesima rinuncia avrebbe provocato nell’opinione pubblica, e al tempo stesso coagulare attorno ad una possente immagine esterna un paese profondamente lacerato e ineguale nel suo interno.
Date queste premesse, si arrivò alla guerra attraverso un curioso sforzo da parte dei governanti per convincere se stessi ed il paese della sua necessità, ed essa divenne ineluttabile proprio per il battage che la precedette. Gli interessi italiani erano concentrati soprattutto in Tripolitania, dove per un certo periodo avevano goduto di un trattamento di favore da parte dell’autorità locale. Le cose erano però mutate allorché alle loro spalle aveva cominciato a profilarsi l’ombra di possibili rivendicazioni politiche. Il governo turco era infatti passato ad ostacolare apertamente le attività commerciali e gli investimenti italiani, incoraggiando nel contempo lo sviluppo di interessi concorrenziali, nel tentativo di giocare sulle tensioni interne al consesso europeo. Questa politica era destinata però a non sortire effetti, per l’esistenza di un accordo compensativo per il Mediterraneo tacitamente accettato da tutte le maggiori potenze, che lasciava mano libera all’Italia nella regione libica.
La campagna doveva comunque rivelarsi molto più impegnativa di quanto le strategie elaborate a tavolino avessero fatto sperare. Essa tenne impegnato per oltre un anno un contingente di quasi centomila uomini, appoggiati da un grosso spiegamento navale, vide il progressivo allargamento della zona d’operazioni dall’Africa all’Egeo e finì per coinvolgere, sia pure indirettamente, tutte le grandi potenze europee. La resistenza incontrata in Libia indusse infatti il governo italiano a forzare i tempi portando l’attacco direttamente nel cuore dell’impero ottomano, dapprima col bombardamento dei porti chiave dell’Asia Minore e successivamente con l’occupazione del Dodecaneso. La conseguenza fu la chiusura da parte dei turchi dello stretto dei Dardanelli, ciò che andava a colpire la più importante via di traffico marittimo da e per la Russia, e il crescere del malumore e del sospetto nei confronti dell’impresa italiana negli ambienti governativi francesi e britannici, date le preoccupazioni dei primi per i loro interessi nel Levante e dei secondi per il controllo della rotta di Suez. Inoltre, in luogo dell’appoggio e della ribellione contro il regime turco, che erano dati per scontati alla vigilia delle ostilità, le truppe italiane incontrarono una decisa resistenza da parte delle popolazioni indigene, le cui efficaci azioni di guerriglia provocarono repressioni spesso spropositate, destinate a lasciare il segno sui futuri rapporti. Questa spietata conduzione delle operazioni fu stigmatizzata costantemente dai corrispondenti di guerra, che riuscirono a far circolare ampie testimonianze a dispetto della rigida censura attuata dal comando d’occupazione, e orientarono contro gli aggressori l’opinione pubblica mondiale, già sensibilizzata alla causa dei popoli coloniali dalle denunce delle atrocità belghe nel Congo e dei massacri tedeschi nell’Africa orientale. Anche dopo la chiusura ufficiale delle ostilità (ottobre 1912) le forze italiane non ebbero mai il completo controllo territoriale e il conflitto, soprattutto nell’interno, non conobbe soluzione di continuità fino al 1914, quando la proclamazione della guerra santa panislamica da parte di Costantinopoli fece divampare nuovamente la rivolta generale, ricacciando gli occupanti sulle coste. Ma già si trattava ormai di un’altra guerra.
L’impresa del 1911 aveva invece il senso di un tardivo allineamento ad un sistema in declino, e la retorica delle ascendenze classiche di cui in patria la si era condita, prima e durante lo svolgimento, contribuiva a conferirle un sapore di cosa d’altri tempi, pur se condotta con le tecniche belliche più moderne. Essa si compiva entro orizzonti già antichi, quelli del Mediterraneo, e all’insegna di una visione eurocentrica del mondo che i fatti avevano ormai superata.
La guerra e gli imperi periferici
A determinare il tramonto dell’“età classica dell’imperialismo” (come Fieldhouse definisce la fase tardo ottocentesca, dell’espansione europea) concorrono l’esaurimento degli spazi aperti alla conquista e i mutamenti intervenuti nell’ambiente delle relazioni internazionali, ma anche la rapida evoluzione in atto nel contesto economico occidentale. Lo sviluppo di nuovi settori industriali (siderurgico e chimico in testa) spinge le potenze coloniali a modificare la portata e la direzione del loro impegno extraeuropeo. Le forme tradizionali dello sfruttamento, quella agricola in primo luogo, tipica della colonia di piantagione, e quella commerciale, perdono gradatamente d’importanza a favore di una intensa valorizzazione delle risorse minerarie. Le merci che avevano arricchito nella prima fase dell’espansione gli importatori europei, le spezie, gli oli vegetali, e poi il cotone, il tabacco, il cacao, passano ora in subordine, mentre il tè e il caffè sono colpiti da una pesante caduta dei prezzi, dovuta anche all’espandersi delle coltivazioni in aree diverse del globo. Nuovi protagonisti dello scambio coloniale sono, assieme al caucciù, i prodotti d’estrazione: carbone, petrolio, ferro, stagno, fosfati… La prosperità stessa del rapporto non si misura più come in precedenza sul volume degli scambi, ma su quello degli investimenti: e l’estrazione, il trasporto, l’imbarco di queste materie prime postulano appunto strutture attrezzate, ferrovie e porti, e conseguentemente investimenti altrettanto remunerativi, ma di ben diversa entità da quelli armatoriali dei secoli precedenti. Ad ispirare l’espansione e a beneficiare dei suoi frutti sono quindi in questa nuova fase le banche, o meglio i grandi consorzi bancari, talvolta allargati alla partecipazione internazionale, come quello creato per lo sfruttamento delle risorse cinesi nel 1912, ma più spesso operanti come finanziarie dei grossi cartelli industriali metropolitani. In questa nuova prospettiva le zone di effettivo interesse per il capitale europeo all’interno degli imperi già costituiti vanno restringendosi, e in esse si concentrano gli investimenti; mentre per converso si delinea la priorità economica di zone che in precedenza erano state trascurate, come il medio-oriente, in quanto assolutamente irrilevanti alla luce dei vecchi parametri della produttività agricola e del potenziale demografico.
La guerra mondiale consolida l’inversione di tendenza, accelerando i ritmi dell’innovazione tecnologica e facendo lievitare le importazioni di materie prime per l’industria pesante. Essa contribuisce inoltre a far decantare le residue pregiudiziali economiche ed ideologiche sopravvissute alla trasformazione del rapporto coloniale, sfata quei vecchi miti strategici ottocenteschi (ad esempio, quello dell’importanza primaria della supremazia navale, e della conseguente necessità di scali d’appoggio in ogni parte del globo; o quello della “force noire”) che tanta parte avevano avuto nell’orientare l’espansione, ed induce ad identificare significati, obiettivi e modi nuovi del dominio sulla scorta delle indicazioni offerte dall’emergenza bellica (il controllo della produzione petrolifera, ad esempio).
Sul piano strettamente militare, le appendici extraeuropee del conflitto hanno in verità un rilievo modesto. Entro il primo anno di guerra la presenza coloniale germanica è praticamente cancellata, dagli anglofrancesi in Africa e nel Pacifico, dai giapponesi in estremo oriente. A Berlino non si prende neppure in considerazione l’ipotesi di distogliere truppe dai fronti europei per tenere posizioni indifendibili, soggette in partenza ad accerchiamento ed isolate dalla superiorità navale degli avversari. La strategia tedesca nel teatro coloniale si limita quindi all’azione di disturbo, affidata ad iniziative isolate, ma piuttosto efficaci, di guerriglia difensiva, con lo scopo unico di tenere impegnate forze nemiche, e più ancora ad una intensa azione propagandistica all’interno degli imperi coloniali altrui, che gioca sulle affioranti tensioni nazionalistiche, razziali e religiose. In effetti i domini europei sono scossi durante la guerra da diversi tentativi insurrezionali: nell’Africa del Sud, gruppi di irriducibili boeri riprendono le armi; in Egitto, nel nordafrica francese e in Libia opera il movimento indipendentista panislamico, mentre nell’India settentrionale c’è una violenta recrudescenza terroristica. Dietro ognuno di questi episodi c’è un’intensa attività di sobillazione, di coordinamento e di assistenza finanziaria prestata direttamente dagli agenti del governo tedesco, o col tramite degli alleati turchi.
Dal canto loro le potenze dell’Intesa puntano decisamente alla conquista territoriale, sia pure concepita, almeno in un primo tempo, come una carta diplomatica da giocare in eventuali trattative di pace. Lo sforzo maggiore è comunque riservato da ambo le parti all’unico settore non europeo che riveste un effettivo peso strategico, quello mediorientale. Qui lo scontro segue e rispecchia fino al 1918 l’andamento del conflitto continentale, talora condizionandone gli sviluppi, e al tempo stesso crea i presupposti per una svolta negli interessi imperialistici occidentali. L’offensiva anglo-franco-italiana contro l’impero ottomano è volta nell’immediato ad alleggerire la pressione sull’esercito russo con l’apertura di un terzo fronte nei Balcani, nonché a prevenire un’eventuale diversione tedesca in direzione dell’India (l’attacco al cuore dell’impero è una vecchia fobia britannica, riacutizzata agli inizi del ‘900 dalla costruzione della ferrovia di Bagdad): ma l’obiettivo reale finisce per essere il controllo pieno delle zone di produzione petrolifera. Anche l’Intesa, dopo l’esito disastroso della campagna dei Dardanelli, è portata a ripiegare su un progetto di destabilizzazione dall’interno dello stato turco, facendo leva sul risveglio dei nazionalismi arabi in Siria, in Mesopotamia e nel Negev. Sotto il profilo strategico all’operazione arride un pieno successo: sono gli stessi arabi a sostenerne tutto il peso e a determinare lo sfaldamento dell’impero, mentre gli occidentali si assicurano il controllo delle zone nevralgiche e tessono le fila della futura ristrutturazione dell’area. Come scrive T. E. Lawrence “…Quando fummo vittoriosi, all’alba del nuovo mondo, gli uomini vecchi tornarono fuori e ci tolsero la vittoria, per ricrearla nella forma del mondo vecchio che essi conoscevano. Balbettammo che avevamo combattuto per un nuovo cielo ed una nuova terra, ed essi ci ringraziarono cortesemente e conclusero la loro pace”. Ma assieme agli istruttori e alle armi gli occidentali hanno esportato presso questi popoli ideali e speranze che la guerra contribuisce a temprare, e che solo per breve tempo potranno essere sacrificati ai superiori disegni della diplomazia europea.
Più di quanto non sia direttamente interessato dalle vicende militari, il mondo coloniale è coinvolto nel conflitto attraverso un massiccio apporto dato allo sforzo bellico sul suolo europeo, in uomini come in risorse economiche. Le truppe d’oltremare non giocano certamente quel ruolo determinante che la dottrina strategica francese da decenni andava per esse preconizzando, e che aveva fatto guardare alle colonie come ad enormi serbatoi di potenziale umano, di carne da guerra: è tuttavia indubbio che nel lungo periodo anche il peso numerico dei non europei abbia contribuito a far pendere la bilancia in favore dell’Intesa. Per la Francia combattono infatti in Europa quasi mezzo milione di coloniali, mentre l’Inghilterra ne getta nella mischia più di un milione, utilizzandoli però principalmente sul fronte mediorientale. Un consistente apporto viene inoltre agli inglesi dai dominions: Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica forniscono circa un milione e mezzo di combattenti. È la prima volta, dall’apertura dei traffici transoceanici, che la direzione del flusso si inverte: negli ultimi quattrocento anni l’Europa aveva visto partire torme di avventurieri, mercanti, emigranti, soldati, missionari, ma dall’esterno aveva accolto solo qualche isolato viaggiatore, o qualche schiavo. La guerra determina il primo impatto di massa dei non europei con l’epicentro di quella civiltà che hanno dovuto subire, o di cui sono gli eredi. Non è un incontro sereno: il continente mostra nell’occasione il suo volto peggiore, e i reduci riporteranno al di là del mare, assieme al conto dei morti e dei feriti da presentare agli amministratori coloniali, l’immagine di un continente prostrato, ricaduto in preda alle barbarie. Sarà un duro colpo per quella presunzione di superiorità sulla quale gli europei avevano fondato e difeso il loro diritto alla conquista, e alla quale i popoli dominati avevano finito in fondo per adeguarsi.
La credibilità e il prestigio dell’occidente sono intaccati dagli orrori dei campi di battaglia, ma vanno definitivamente in frantumi sotto il peso del cinismo e della malafede degli ambienti diplomatici. Le dimensioni assunte dal conflitto, e più ancora la sua durata, inducono i belligeranti a procacciarsi ogni possibile appoggio e contributo: ciò che porta nell’arco dei cinque anni di guerra a continui riaggiustamenti nel gioco delle concessioni e delle pretese. Prima ancora che le ostilità abbiano termine vengono però allo scoperto le ambiguità e le contraddizioni entro le quali si sono disinvoltamente mossi governi ed alti comandi, suscitando contrasti nel campo stesso dei vincitori, ma soprattutto alimentando la delusione e le recriminazioni dei popoli non europei chiamati a dare un attivo sostegno alla lotta. La palma dell’intrigo spetta senz’altro in questo frangente all’Inghilterra, che mentre aizza ed inquadra militarmente il nazionalismo arabo in Mesopotamia e nel Negev (e lo soffoca in Egitto), non si fa scrupoli a promettere un “focolare” palestinese agli ebrei (dichiarazione di lord Balfour, novembre 1917): e nel frattempo si accorda con il governo francese per la suddivisione in zone d’influenza dell’Asia ex-ottomana. Il disegno britannico (e, in subordine, quello francese: ma i francesi guardano con maggior interesse all’Africa) è tra l’altro favorito dalla rivoluzione russa: la temporanea uscita di scena della tradizionale rivale nello scacchiere asiatico non elimina soltanto un concorrente nella spartizione del medio-oriente, ma consente di riaprire il discorso espansionistico alle frontiere nord-occidentali dell’impero indiano.
All’atto della cessazione delle ostilità, pertanto, un primo bilancio autorizzerebbe le potenze coloniali uscite vincitrici dal conflitto a diagnosticare un eccellente stato di salute per i propri imperi, giustificando non solo l’ottimismo sulla loro futura tenuta, ma anche le ambizioni di ulteriori ampliamenti. Il dominio europeo esce in apparenza rafforzato dalla prova. Le rivolte, pur numerose, hanno caratterizzato aree circoscritte e non hanno mai raggiunto dimensioni preoccupanti. I popoli soggetti si sono attenuti nella maggior parte dei casi ad un corretto lealismo, sopportando sacrifici economici ed umani non indifferenti e concedendo fiducia agli occidentali e alle loro promesse di revisione del rapporto. In più, al tavolo della pace i vincitori si trovano a spartire il cospicuo bottino territoriale realizzato ai danni della Germania e del dissolto impero ottomano: ciò consente loro di integrare e consolidare strategicamente una presenza già di per sé rafforzata dalla cancellazione dei rivali più temibili.
Gli obiettivi di massima della politica coloniale britannica nel 1918 appaiono largamente realizzati. In Asia l’espansionismo difensivo che nella seconda metà dell’Ottocento aveva avuto una funzione eminentemente anti-russa va ora ben oltre i suoi scopi, ed è favorito proprio dal venir meno di quella concorrenza che lo aveva alimentato. Ottenendo il mandato sull’Iraq, sulla Palestina e sulla Transgiordania, mantenendo l’occupazione della Persia, conquistata a titolo cautelativo durante la guerra, e riducendo a più miti consigli l’Afghanistan, che nel 1919 tenta di innescare una nuova guerra santa, l’Inghilterra si assicura in pratica il controllo di tutta la fascia mediana asiatica, fino alla Birmania. Le preoccupazioni difensive relative all’impero indiano sono solo un ricordo: è piuttosto l’Anglo-Iranian Oil Co. ad ispirare le direttrici dell’espansione, che coincidono con le aree di trivellazione e con i percorsi degli oleodotti. In Africa, intanto, con l’accorpamento dell’ex-Africa orientale tedesca si realizza il vecchio sogno di Cedi Rhodes di un dominio territoriale continuativo dal Cairo a Città del Capo. L’altro possedimento tedesco nell’emisfero meridionale, l’Africa del sud-ovest, viene invece concesso in amministrazione al dominion sudafricano.
La Francia ottiene a sua volta il Togo e il Camerún, rafforzando la sua egemonia nel settore centro-occidentale dell’Africa, e attraverso il mandato sulla Siria e sul Libano mette piede finalmente nel Vicino Oriente, dove la chiamano sia i vecchi interessi commerciali sia le nuove prospettive aperte dallo sfruttamento petrolifero. In quest’area, tuttavia, i rapporti con gli alleati d’oltremanica si deteriorano immediatamente: questi ultimi sono tentati infatti di disattendere il piano di spartizione concordato durante la guerra, la cui rivelazione ha suscitato scalpore nel mondo arabo e rischia di alienare loro le simpatie e l’influenza acquisite nel corso della rivolta anti-ottomana, e caldeggiano la nascita di una Grande Arabia, suddivisa in regni affidati alla dinastia hascemita, legata a doppio filo alla politica ed agli ambienti economici inglesi. Per affermare i loro ‘diritti’ nel Levante, sanciti dal mandato della Società delle Nazioni, i francesi sono costretti ad intervenire militarmente ed a cacciare da Damasco l’emiro Feisal, pedina chiave del progetto pan-arabo e del gioco britannico. La situazione si stabilizza pertanto temporaneamente sulla base dell’accordo Sykes-Picot del 1916.
Di questo banchetto agli altri alleati non rimangono che le briciole. Ma se il Giappone raggiunge in sostanza i suoi scopi, subentrando ai tedeschi nella zona d’influenza dello Shandung, in Cina, e candidandosi all’egemonia sul mar Giallo, l’Italia trarrà dal suo trattamento motivi di recriminazione tali da accomunarsi in futuro agli sconfitti nella richiesta di revisione del trattato di Versailles. Aspirazioni coloniali assolutamente confuse e contradditorie portano il governo italiano ad inviare corpi di spedizione in Anatolia, ad occupare l’Albania, ad avanzare pretese sul mar Rosso e sulle ex-colonie tedesche: col risultato di doversi accontentare, dopo aver sgomberato tutte le zone occupate, di compensazioni territoriali infime sulle strisce confinarie della Libia e della Somalia. Gli Stati Uniti si tengono invece volontariamente al di fuori della mischia, in ossequio ai principi wilsoniani ed in conformità al modello di espansione neocoloniale per il quale hanno optato, che li porterà tra le due guerre ad imporre la loro leadership economica sull’America latina, proprio a spese dei concorrenti europei.
Il primo dopoguerra: una nuova coscienza per i popoli soggetti
Dopo che a Versailles è stato ratificato il riassetto coloniale l’espansionismo europeo sembra perdere la sua carica propulsiva e si attesta su posizioni di contenimento. Le potenze imperialistiche sono uscite stremate dalla guerra, e la loro capacità di controllare imperi divenuti ancor più vasti si è, al di là delle apparenze sensibilmente indebolita. Viceversa, il conflitto ha rafforzato economicamente, oltre che moralmente, i paesi colonizzati. In alcuni casi l’emergenza bellica ha imposto ai dominatori di avviare un embrionale sviluppo industriale, invertendo la prassi che aveva visto in precedenza le amministrazioni coloniali scoraggiare ogni tentativo di imprenditoria manifatturiera indigena. È il caso dell’India, dove il governo inglese stesso stimola la creazione di impianti siderurgici per ridurre la dipendenza del paese dalle importazioni britanniche, e al tempo stesso per costituire una base autonoma di rifornimenti per il teatro di guerra orientale. In altri casi l’incentivo è dato dal vuoto d’offerta che viene a crearsi in taluni settori, come quello tessile, per la concentrazione delle industrie metropolitane nella produzione di guerra. Tutto ciò implica grossi mutamenti anche nelle strutture sociali, come “lo sviluppo dell’urbanesimo, di una classe operaia che poteva essere mobilitata all’occorrenza per un’azione politica e di centri d’affari abbastanza ricchi da poter finanziare i moti per l’indipendenza.” (Barraclough). Su queste nuove basi sociali si innestano i portati ideologici dell’occidentalizzazione. Il nazionalismo si nutre, una volta terminato il conflitto, anche della necessità per la nuova classe industriale indigena di garantire i propri interessi contro la politica discriminante delle amministrazioni coloniali. La stessa causa coinvolgerà anche le classi operaie, sia pure in un’ottica diversa e permeandosi di significati ed istanze che troveranno rispondenza in una forma anomala di socialismo, dalla forte caratterizzazione nazionalistica.
Alla diffusione ed al radicamento dell’idealità indipendentistica la guerra ha contribuito naturalmente anche sotto altri aspetti. Si è già fatto cenno all’azione propagandistica svolta da entrambi gli schieramenti nei territori coloniali degli avversari, nonché alle concessioni e alle promesse elargite con dovizia ai propri soggetti sotto l’incalzare della necessità. Né vanno sottovalutate la carica morale, la forza di autoconvincimento indotte nei popoli coloniali dalla partecipazione al conflitto. Essi sono stati coinvolti, blanditi e responsabilizzati, hanno versato un contributo di sangue, hanno appreso a combattere a fianco degli occidentali, ma soprattutto contro altri occidentali, liberandosi d’ogni residuo complesso d’inferiorità. Sono pronti ora a ritorcere la determinazione e le capacità tecniche e militari acquisite contro i loro istruttori, e ad usarle a sostegno delle proprie rivendicazioni.
Dall’occidente stesso è venuta, peraltro, la riaffermazione del diritto di ogni popolo all’autogoverno. Essa ha trovato una larga eco nel mondo coloniale sia nelle formulazioni liberali di Wilson e di Lloyd George, sia in quella anti-imperialistica di Lenin; il fatto che le dichiarazioni di principio siano state poi tranquillamente eluse e corrette con l’adozione della formula del “mandato” non fa che allargare il fossato tra i due mondi, determinando i coloniali a contare per il futuro unicamente sulle proprie forze e a rifiutare le soluzioni compromissorie. D’altra parte, pur nei suoi limiti e nella sua ambiguità di fondo, il sistema mandatario implica l’accettazione ufficiale di un principio rivoluzionario per l’ideologia coloniale, quello della temporaneità del dominio, già anticipato dagli americani all’inizio del secolo. Le potenze europee sottoscrivono un impegno che non hanno alcuna intenzione di rispettare, ma che è contratto davanti agli occhi di tutto il mondo e non può non riverberarsi sui loro rapporti con le altre popolazioni coloniali.
Sempre dall’Europa viene ai movimenti indipendentistici del terzo mondo un altro importante stimolo, quello offerto dalla rivoluzione bolscevica. Il nuovo regime russo non si limita ad esportare contributi teorici ed esortazioni alla ribellione, ma cerca di fornire ad ogni fermento rivoluzionario un appoggio diretto e concreto e di coordinare lo sviluppo del moto anticoloniale. Non a caso nell’URSS, a Baku, ha luogo nel 1920 la prima conferenza dei popoli orientali, all’indomani della quale sorgono quasi contemporaneamente in tutti i paesi asiatici i vari partiti comunisti nazionali. L’attrazione immediatamente esercitata dall’ideologia comunista sul mondo orientale si spiega, oltre che per il riconoscimento a protagonista attivo della storia che questa gli riserva, per la prospettiva che gli apre di una accelerazione del progresso economico e sociale. Mentre il mandato affida agli occidentali il compito di “educare” alla libertà i popoli asserviti attraverso una sorta di riscatto economico, e quindi in definitiva consente ad essi di gestire a tempo indeterminato i modi dell’emancipazione, la dottrina bolscevica, traendo spunto proprio dall’esempio russo, non considera l’arretratezza economica come un fattore impedente lo sviluppo politico. L’indipendenza e il socialismo sono per Lenin realizzabili senza alcun bisogno della tutela occidentale; il problema economico, affrontato con misure drastiche, sia pure con gli alti costi che una pianificazione totale comporta, appare risolubile in tempi molto più ravvicinati che non lasciando libero corso alle “leggi economiche”, peraltro dettate dai colonialisti stessi. Inoltre l’impatto del credo comunista presso le popolazioni coloniali non è condizionato dai timori concernenti la restrizione delle libertà personali, che al più potrebbero avere un senso per ristrettissime élites, e che comunque sono estranee nella loro accezione giuridica alla forma mentis sociale dei non europei. Per usare le parole di Barraclough, “le forme di aggregazione politica proprie del comunismo sono molto affini al sistema tradizionale asiatico di stato autoritario, che è l’incarnazione della legge assoluta. D’altra parte le libertà civili e politiche di tipo occidentale hanno meno peso di quanto noi ci possiamo figurare in società dove si è sempre ritenuta naturale per i governi l’imposizione di tasse e di obblighi, piuttosto che la salvaguardia dei diritti individuali”. Naturalmente, l’influenza ideologica del comunismo e quella politica delle organizzazioni che ad esso si ispirano non si esercitano nella stessa misura e non incontrano eguale successo presso le diverse società coloniali. Là dove esistono movimenti nazionalisti già organizzati ed attivi prima della rivoluzione russa (come nel caso dell’India) nei quali l’iniziativa è stata assunta dai ceti borghesi e industriali, esse incontrano una naturale resistenza, e difficilmente riescono ad affermarsi; trovano invece uno spazio ben diverso in quelle situazioni che non hanno visto lo sviluppo di una classe borghese indigena, e per le quali non è ipotizzabile una mediazione “liberale” al post-colonialismo.
Nel periodo tra le due guerre Mosca diventa comunque, per chi è impegnato nella lotta per la decolonizzazione, un riferimento quasi obbligato, come lo era stato Tokio alla vigilia del primo conflitto mondiale. Soprattutto negli anni Venti gran parte dei quadri dei movimenti nazionalistici a carattere rivoluzionario si formano alla scuola bolscevica, dove ricevono istruzione militare e politica: e in molti casi non si tratta di militanti comunisti. La scelta strategica dei dirigenti della terza internazionale di diversificare gli obiettivi (lotta al capitalismo in occidente, lotta al colonialismo in Asia e in Africa) consente alle organizzazioni anticoloniali di ispirazione comunista di far leva contemporaneamente sulla duplice identità indipendentistica e sociale, e di fungere da tramite per il coinvolgimento delle masse nella lotta rivoluzionaria. Ciò determina l’avvento di una fase nuova nel processo di decolonizzazione, che vede la base del movimento allargarsi con l’ingresso delle classi operaie e contadine, per l’innanzi piuttosto estranee; i suoi obiettivi ampliarsi dalla conquista dell’autonomia politica alla liberazione dallo sfruttamento del capitale straniero; infine i modi della lotta radicalizzarsi col passaggio alla guerriglia clandestina o alla vera e propria guerra di popolo. La convivenza con organizzazioni di indirizzo più conservatore è spesso tutt’altro che pacifica, come dimostrano i casi della Cina e dell’Indonesia, ma nei momenti cruciali sono in genere proprio i partiti comunisti a dimostrare una maggiore elasticità tattica, accantonando le pregiudiziali sulla ricostruzione sociale a favore di una azione anticoloniale unitaria.
La politica perseguita dal nuovo stato sovietico induce anche all’interno delle sinistre occidentali un riesame ed un approfondimento del problema, sul quale i vecchi partiti socialisti avevano mantenuto spesso un atteggiamento ambiguo. Prima della guerra mondiale sia i socialdemocratici tedeschi che una larga parte dei socialisti italiani e francesi si erano pronunciati in favore della colonizzazione, dandole magari una connotazione “proletaria” col vedere in essa una soluzione ai problemi occupazionali metropolitani e teorizzandone l’indispensabilità ai fini della realizzazione futura del socialismo nelle società sottosviluppate. L’analisi leninista non lascia invece dubbi: la lotta antimperialistica deve concernere tutti gli aspetti dell’imperialismo stesso, il più vistoso dei quali è proprio la persistenza di un sistema coloniale. I movimenti di liberazione extraeuropei si trovano quindi a disporre per le loro rivendicazioni di una cassa di risonanza all’interno del mondo occidentale stesso, che dovrebbe aprire la strada al crescere di una vera e propria solidarietà.
II fatto che poi quest’ultima nel concreto finisca per avere un peso molto relativo, o per limitarsi ad uno sterile appoggio morale, è legato all’equivoco di fondo che caratterizza l’interpretazione occidentale del problema coloniale. Fanon sintetizzerà così l’argomento: “Nei paesi coloniali, si diceva, il popolo colonizzato e la classe operaia del popolo colonialista hanno interessi comuni. La storia delle guerre di liberazione condotte dai popoli colonizzati è la storia della non verifica di questa tesi”.
Inghilterra e Francia: due diversi sogni imperiali
Non è solo il campo dei dominati a respirare nel dopoguerra un’atmosfera nuova. Anche l’opinione pubblica occidentale guarda ormai al problema in un’ottica diversa. Una maturazione in questo senso aveva cominciato a prodursi già nel decennio precedente, come si è constatato a proposito della conquista italiana della Libia; ma un forte impulso è venuto poi dalla propaganda bellica, che ha provveduto a screditare con la rivelazione di vere o presunte nefandezze la politica coloniale di entrambe le parti in lotta. Inoltre, e non è certo l’argomento di minor peso, tra i colonizzatori si vanno facendo strada i dubbi sugli effettivi vantaggi economici comportati dagli imperi periferici, o almeno sull’opportunità di mantenere inalterato il rapporto per aree con le quali lo scambio appare ormai poco proficuo. Il ritorno al liberismo che caratterizza l’economia mondiale nell’immediato dopoguerra rende più attuale e conveniente l’adozione di forme indirette d’influenza. Gli ambienti politici ed economici più lungimiranti cominciano pertanto ad orientarsi verso uno sganciamento progressivo da impegni politico-amministrativi, da realizzarsi naturalmente in tempi e in modi tali da non compromettere la continuità del controllo economico.
In questa direzione va ad esempio la trasformazione dell’impero britannico in Commonwealth, che si attua proprio mentre è in corso la prima guerra mondiale. Per quanto concerne le colonie di immigrazione si tratta soltanto della ratifica di una situazione di fatto ormai consolidata. Nei loro confronti Londra ha adottato da tempo il principio del “governo responsabile”, della concessione cioè di una sostanziale autonomia amministrativa nella sfera prettamente “coloniale”, dalla quale sono escluse le competenze relative alla politica estera ed al commercio transoceanico, riservate alla madrepatria. Di questo status hanno goduto già nella seconda metà dell’Ottocento la federazione canadese, le colonie australiane e la Nuova Zelanda, mentre è riconosciuto al Sudafrica solo nel 1910. Esso viene riassunto all’inizio del secolo nel termine di Dominion (adottato alla conferenza coloniale del 1907) col quale si ribadisce il mantenimento del legame imperiale, in un ambito però paritario e di rispetto della statualità delle singole colonie. La condiscendenza inglese ad un graduale allentamento dei vincoli coloniali è il frutto della lezione appresa con la perdita delle colonie nordamericane, e mira a garantirsi la lealtà delle popolazioni di ceppo anglosassone trapiantate oltreoceano anche a prezzo del riconoscimento di una loro nuova identità nazionale. A dire il vero, si fa strada prima della guerra negli ambienti imperialistici inglesi anche la tentazione assimilazionista di stampo francese, l’idea cioè di creare una grande federazione fondata sull’uniformità linguistica, giuridica e culturale, soprattutto in vista di una contrapposizione diretta in termini di potenza economica e militare con la Germania: ma è la guerra stessa, poi, a far emergere la soluzione più logica, offrendo al lealismo dei Dominions l’occasione di manifestarsi con l’apertura di ampi crediti e l’invio di truppe sui fronti europei e coloniali, e confermando l’opportunità di non mortificarne l’orgoglio autonomistico. La Conferenza imperiale di guerra del 1917 sostituisce pertanto la dizione di Commonwealth a quella di Impero, per quanto riguarda i rapporti con i cosiddetti stati-figli, mantenendo quale elemento unificatore la sola corona e riconoscendo ufficiosamente l’indipendenza dei Dominions. Questi ultimi ottengono infatti di firmare separatamente la pace di Versailles, ed entrano a far parte della Società delle Nazioni come membri autonomi, anche se solo nel 1926 la nuova situazione viene ufficializzata nella formula adottata da lord Balfour alla conferenza imperiale: “I Dominions sono comunità autonome all’interno dell’impero inglese, eguali nella condizione, senza quindi essere subordinate le une alle altre in alcuni aspetti della loro politica interna o estera, quantunque siano unite in vincolo comune con la Corona, e liberamente associate come membri del British Commonwealth of Nations”. Almeno fino alla seconda guerra mondiale, tuttavia, i Dominions non si avvalgono per quanto concerne la politica estera delle loro prerogative di stati sovrani: essi riconoscono implicitamente una sorta di ruolo-guida all’Inghilterra, apprezzando i vantaggi, anche per la loro sicurezza, di una forza diplomatica unitaria. I rapporti economici restano inalterati, caratterizzati da un interscambio molto alto, che tende anzi ad incrementarsi durante il periodo della grande depressione, quando sono i dominions stessi a sollecitare uno scudo protezionistico ed un sistema preferenziale di scambi intorno a “l’area della sterlina”.
Il problema di un mutamento nell’immagine e nella sostanza del rapporto coloniale, dopo una guerra combattuta in nome dei principi di libertà e di autodeterminazione dei popoli, si pone per gli inglesi anche nei confronti delle loro colonie afro-asiatiche di colore. L’ipotesi dell’allargamento a questi territori della condizione di dominions è ancora considerata, dagli ambienti di governo come dalla pubblica opinione, impraticabile: manca infatti quel presupposto della “comunità di origine, razza, lingua e civiltà” che garantisce per i dominions bianchi la coesione attorno alla madrepatria e l’integrazione spontanea nel sistema del Commonwealth. Al tempo stesso, però, l’espandersi delle agitazioni e la crescita dei movimenti di emancipazione nazionale impone di adottare un atteggiamento conciliante, almeno in parte improntato alla realizzazione delle premesse autonomistiche formulate durante il conflitto. È in questo frangente, nel momento in cui si pone per la prima volta seriamente il problema della sua conservazione, e quindi si rende necessaria una chiarificazione relativa al suo significato e al suo futuro, che l’impero sembra acquistare concretezza e tangibilità agli occhi di tutta la nazione.
Si vedranno più oltre nel dettaglio gli sviluppi della politica coloniale britannica nell’età della decolonizzazione: ma forse è opportuno qui anticipare sinteticamente quali ne siano i presupposti, e su quali direttrici essa si muova. Si è arrivati a parlare, per l’espansione inglese in Asia e in Africa, di “imperialismo controvoglia” e di “un impero costruito in un accesso di distrazione”, con riferimento alle giustificazioni “difensive” delle conquiste, ma anche alla sostanziale estraneità che l’opinione pubblica sembra conservare nei confronti delle vicende coloniali. I modi e i tempi stessi dell’espansione sembrano accreditare l’immagine di un impero materializzatosi sotto la pressione delle spinte esterne (conquiste effettuate per giocare all’anticipo sulla concorrenza) e di interessi periferici che forzano la mano alla madrepatria. Ed effettivamente il governo di Londra si è mostrato più di una volta riluttante di fronte all’assunzione di nuove responsabilità di dominio, ignorando le istanze difensive delle amministrazioni coloniali. Lord Salisbury affermava che “alle preoccupazioni dei militari bisogna dare un peso relativo: sarebbero capaci di voler occupare la Luna, per difenderci dagli attacchi di Marte”. In realtà l’idea imperiale non è solo “nella mente e nel cuore” di Disraeli, di Kipling e di Cecil Rhodes (il quale ultimo, quasi a conferma dell’asserzione di Salisbury, scriveva: “se potessi… annetterei i pianeti”): essa si radica, lentamente ma in profondità, nello spirito nazionale, a partire almeno dalla seconda metà dell’Ottocento, allorché di fronte alla rivolta indiana del 1857 vien meno la fiducia in una rigenerazione morale degli indigeni indotta dal contatto con la religione e con la cultura europee. Tale fiducia aveva costituito un assunto fondamentale per le tesi del liberismo economico, ed implicava di considerare l’esercizio del controllo politico come assolutamente transitorio (“Commerciare con individui civilizzati è infinitamente più vantaggioso che governare selvaggi”, affermava T. B. Macaulay). Il brusco risveglio dal sogno missionario, ma più ancora il mutamento della situazione economica e politica internazionale (ritorno al protezionismo, concorrenza nell’espansione e necessità di difesa dei domini acquisiti), portano verso la fine del secolo gli ambienti intellettuali e di governo a capovolgere il proprio atteggiamento, dando corpo i primi ad una prolifica attività di teorizzazione imperialistica, i secondi ad una politica che, al di là delle posizioni di principio che si alternano al potere, finisce per essere coerentemente finalizzata alla difesa e all’ampliamento dell’impero. Questa disposizione non tarda a trasmettersi al grosso pubblico, che comincia a sentirsi coinvolto negli avvenimenti della “periferia imperiale” attraverso le corrispondenze telegrafiche sulla stampa quotidiana e popolare. Gli affari coloniali escono dal chiuso dei gabinetti governativi e dagli uffici delle compagnie commerciali per diventare patrimonio comune, e influenzano l’opinione pubblica, o ne sono influenzati.
L’orgoglio imperiale diventa la sciovinistica risposta dell’Inghilterra alla perdita del primato e della centralità in seno al mondo occidentale. L’impero assume il ruolo di un guscio protettivo, capace di offrire riparo dalla tempesta che aleggia sull’Europa, o meglio consente di rimanerne al di sopra e di fare politica in una prospettiva mondiale. Al tempo stesso costituisce un impegno morale di civilizzazione (il “fardello”) il cui significato è ben diverso da quello della “missione” cristiana e liberale. Nell’ottica del darwinismo sociale imperante la civiltà viene identificata proprio col dominio inglese, con la “pace della regina” che esso è in grado di assicurare, con l’esemplarità amministrativa (il “buon governo” del viceré Curzon) che sa esprimere nelle colonie: e l’ipotesi di ritirarsi, di trasmettere la responsabilità dell’autogoverno a popolazioni reputate costituzionalmente incapaci di efficienza e concordia viene giudicata assolutamente criminale, alla luce delle “catastrofi tremende ed inimmaginabili” (J. Seeley) cui darebbe luogo. La definizione di un convinto imperialista come Winston Churchill, secondo la quale “il potere coloniale inglese è come una macchia d’olio, che tiene libero da tempeste un vasto e profondo oceano dell’umanità”, riassume perfettamente l’immagine che la dominazione britannica ha di se stessa, e cerca di offrire all’esterno. Sotto questa specie l’idea imperiale si afferma nell’animo della nazione, agevolata anche dal fatto che il sistema coloniale inglese, a differenza ad esempio di quello francese, consente di assumere nei suoi confronti posizioni sfumate. Non è cioè necessario accettare il dominio in tutte le sue implicazioni, o rifiutarlo in blocco: è possibile anche essere fautori di una forma particolare di controllo coloniale, tra le molte nelle quali si configura la presenza imperiale britannica. Il risultato è che “pochissimi in Inghilterra dubitavano dell’importanza dell’impero, e tutti, alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento, erano ben decisi a non perderlo: questa presa di posizione era diffusa in ogni partito, e in questo senso rappresentò un genuino consenso dell’opinione nazionale”. (M. Edwards).
Le incertezze cominciano a sorgere proprio nel dopoguerra, anche se non concernono ancora l’eventualità di una dissoluzione dell’impero, ma solo le forme di una sua possibile ristrutturazione. Viene alla luce, in presenza delle rivendicazioni autonomistiche, la confusione dei significati e degli scopi di cui l’impero è stato di volta in volta investito, e la differenza tra l’attiva strategia imperialistica delle minoranze al potere e l’orgogliosa ma difensiva visione imperiale delle masse. Proprio il carattere “sofferto” di questa investitura imperiale, l’onere morale che comporta, insieme al presupposto su cui si fonda (quello della non assimilabilità delle popolazioni di colore), agli strumenti coi quali opera (un forte decentramento amministrativo, una politica paternalistica e segregazionista, l’adozione dell’indirect rule nelle situazioni che lo consentono, la responsabilizzazione degli indigeni nei ruoli amministrativi inferiori e locali, la contrapposizione sapientemente coltivata delle diversità etniche e culturali) e agli esiti particolari cui dà luogo (lo spazio lasciato ai funzionari coloniali, e quindi all’emergere delle personalità singole) concorrono a mantenere su un piano distinto per il popolo inglese le sorti dell’impero da quelle della nazione: l’impero rimane per esso un’appendice, un capolavoro di costruzione e gestione amministrativa nel quale sono state profuse le forze e le doti migliori, ma che non ha intaccato mai la coscienza di una origine e di una identità strettamente nazionali. È proprio questo che renderà meno traumatica, quando verrà il momento, la separazione.
Anche la nazione francese sembra apprezzare solo dopo la guerra mondiale il fatto di disporre di un impero, e la sua importanza. Ma si tratta in questo caso per il grosso dell’opinione pubblica effettivamente di una scoperta, che fa seguito ad un lungo periodo di assoluta estraneità: sia i motivi di questa nuova coscienza che le sue conseguenze sono molto diversi da quelli accennati per il caso inglese. Là si realizzava il passaggio da “un dominio fondato sulla segretezza”, secondo la teorizzazione di Curzon, ad una pubblica assunzione della responsabilità imperiale, che comunque era stata già tacitamente accettata dalla nazione; qui viene invece proposta ex novo (o quasi: un primo tentativo era stato fatto da Napoleone III) al paese l’ipotesi di allargarsi ad entità sovra-nazionale, di costituire una “plus grande France” garantita militarmente da un potenziale di cento milioni di abitanti, ed economicamente autonoma. Quest’ultima condizione assumeva un’importanza decisiva alla luce dei problemi di rifornimento incontrati durante la guerra, della dipendenza dalle importazioni e soprattutto del forte indebitamento contratto con gli americani.
In precedenza, almeno fino alla fine del XIX secolo, le ambizioni coloniali erano rimaste circoscritte a gruppi ristretti, soprattutto ai circoli militari e alle compagnie commerciali, che avevano saputo gestire l’espansione lasciandone il paese quasi all’oscuro. Più di una volta il parlamento aveva affrontato il problema, ma in genere il dibattito non concerneva la scelta e l’impostazione di una politica coloniale conseguente, e finiva piuttosto con l’essere una ratifica a posteriori delle annessioni operate. La scarsa pubblicità data alle vicende d’oltremare teneva conto di una disposizione negativa avverso gli impegni di colonizzazione, diffusa nel paese da antica data (già ai tempi di Colbert aveva ispirato la legislazione restrittiva sull’emigrazione) e dettata da preoccupazioni di ordine demografico (di fronte al bassissimo tasso di crescita della popolazione francese ogni flusso migratorio verso le colonie avrebbe rappresentato un vero salasso). Comunque, attorno al passaggio tra i due secoli la sfera degli interessi aveva cominciato ad allargarsi, per i motivi connessi allo sviluppo dell’informazione già citati, ma anche perché alle spinte strategiche o commerciali iniziali si erano andati sovrapponendo più complessi disegni d’investimento e di sfruttamento. L’importanza di disporre di zone d’approvvigionamento di materie prime direttamente controllate si evidenzia infine durante la prima guerra mondiale, avviando negli anni immediatamente successivi un vasto dibattito sull’opportunità di una “valorizzazione” agricola e mineraria delle colonie, in funzione del raggiungimento della piena autonomia economica all’interno dell’“impero”. A questo fine si elabora anche un nuovo ordinamento doganale, al cui regime vengono subordinati la gran parte dei possedimenti d’oltremare, con l’eccezione di quelle aree, in genere di recente acquisto, come il Marocco e la Tunisia, nelle quali si sono già affermati interessi piuttosto consistenti di altre potenze. Le colonie hanno quindi libero accesso al mercato francese, il che entro certi limiti aiuta anche le loro economie a decollare, mentre per le importazioni dall’esterno si adottano tariffe protettive molto alte.
È un progetto di integrazione economica che marcia di pari passo con la politica dell’assimilazione, e che dà alla visione “imperiale” francese connotati del tutto originali. Proprio mentre l’Inghilterra accetta l’individualità culturale delle proprie colonie, e almeno per quanto concerne i dominions anche quella statale, la Francia punta ad un ampliamento del territorio metropolitano, inserendo direttamente negli schemi culturali e politici nazionali gli abitanti dei possedimenti coloniali. Il presupposto dell’operazione non è meno razzistico di quello inglese, in quanto implica un’affermazione di superiorità della civiltà francese rispetto a quelle indigene: ma il fine è ben diverso, perché essa si propone di realizzare una più vasta e coeva comunità nazionale. «Se l’Inghilterra e la Francia dopo la prima guerra mondiale spacciavano la loro futura politica coloniale come progressiva concessione di libertà, il concetto di libertà ricevette allora un significato diverso da quello precedente: mentre nell’impero britannico si riferiva ai territori e alle comunità politiche, che dovevano ottenere l’autogoverno, nella concezione francese “libertà” poteva solo significare libertà individuale entro la “plus grande France”, cioè equiparazione della popolazione delle colonie a quella della metropoli.» (R. Von Albertini).
La politica dell’assimilazione, che sarebbe incompatibile con la visione del rapporto coloniale comune a tutti gli altri popoli europei, non è ostacolata invece in Francia da remore ideologiche. L’egualitarismo di principio cui si informa è infatti di molto corretto col subordinare la concessione della cittadinanza a condizioni e a prestazioni ben precise (che vanno dalla conoscenza della lingua francese all’adempimento del servizio militare e, soprattutto, alla rinuncia allo status socio-culturale precedente), e col mantenere di fatto la distinzione dei due livelli civici di “attivo” e “passivo” (sujet), ciò che consente di salvare la forma ma di garantire ai bianchi ed alle élites coloniali un margine di differenziazione. È una politica inoltre non occasionata da una contingente situazione di necessità, ma che ha riscontro in atteggiamenti e tendenze già caratteristici della prima fase di colonizzazione ad occidente e consolidati poi nel periodo rivoluzionario: ha quindi salde radici nell’esperienza storica.
Le difficoltà nascono però al momento dell’attuazione pratica, e sono tali da determinare dapprima la messa in mora e infine il fallimento globale del progetto. Esistono in primo luogo problemi d’ordine economico, connessi alla situazione concorrenziale che si determina, in regime paritario, tra alcuni prodotti coloniali, come lo zucchero delle Antille o il vino della Tunisia e dell’Algeria, e le analoghe produzioni metropolitane. Non potendo sedare il malumore degli agricoltori francesi con interventi protezionistici, pena la reazione dei piantatori coloniali e il pericolo di iniziative secessionistiche (che già a più riprese si è manifestato, durante il XIX secolo, in Algeria), il governo finisce per barcamenarsi tra concessioni contraddittorie e fumosi piani di contingentamento, col solo risultato di scontentare gli uni e gli altri. La recessione economica vanifica inoltre il progetto di un fondo di sviluppo per l’incentivazione programmata della “messa in valore”, riducendo in pratica la politica economica coloniale della Francia al tradizionale sfruttamento. Nell’insieme, il livello dell’interscambio con le colonie non raggiunge infatti mai valori paragonabili a quelli del Commonwealth britannico.
Anche ai livelli amministrativo e culturale i risultati sono di gran lunga inferiori alle attese e all’impegno, in questo caso effettivamente profuso, col quale si persegue il programma di scolarizzazione primaria e di creazione di quadri amministrativi e politici indigeni totalmente acculturati. La gran parte dei possedimenti coloniali francesi, soprattutto di quelli asiatici, è costituita da aree di antica civiltà, con un alto livello ed una solida tradizione di cultura, e con regimi economici e di proprietà ben definiti. È pertanto difficile operare interventi che scendano in profondità, sia per le resistenze che il programma è destinato ad incontrare in loco, sia per quelle che suscita in patria, dati gli oneri finanziari che comporta. A ciò va poi aggiunta la sfavorevole disposizione dei funzionari e dei piantatori bianchi, che nell’estensione del diritto di cittadinanza e della scolarizzazione vedono un attentato ai loro privilegi ed al loro prestigio.
Il risultato per la politica coloniale francese tra le due guerre è una situazione di stallo, nella quale al dibattito e alla teorizzazione sui criteri della naturalizzazione e sulle forme istituzionali da adottarsi corrispondono poi soltanto indugi o caute iniziative miranti al temporaneo contenimento. “Il contrasto tra esigenze e realtà era relativamente grande e, in campo politico, sfociava nell’immobilismo, perché alla concezione della ‘più grande Francia’ non corrispondeva alcuna riforma politica e prospettiva per il futuro, tali da rispondere alle difficoltà contenute nella concezione e da realizzare gradualmente l’invocato avvicinamento delle colonie alla madre patria” (Von Albertini). Al contrario di quanto avviene in Inghilterra, dove la strada del progressivo decentramento dell’impero è concordemente accettata, anche se divergono le opinioni sul punto al quale ci si debba fermare, e ispira quindi una strategia nei rapporti coloniali che darà buoni frutti, in Francia la scelta dell’integrazione si rivela alla prova dei fatti troppo impegnativa e onerosa per essere percorsa sino in fondo, e non consente d’altro canto soluzioni intermedie accettabili per i colonizzati. Saranno pertanto questi ultimi, in assenza di prospettive in una direzione o nell’altra offerte dai dominatori, a sciogliere con le loro lotte le incertezze.
Gli ultimi rigurgiti del vecchio colonialismo
La fase di violenta recessione apertasi per l’economia mondiale alla fine degli anni Venti mette bruscamente fine al nuovo corso liberistico che era stato inaugurato subito dopo la guerra mondiale. Le grandi potenze coloniali stringono attorno ai loro imperi nuove barriere protezionistiche, isolandoli dal sistema internazionale del mercato e creando zone di scambio privilegiate; ciò non fa che ingigantire i problemi delle nazioni industriali prive o quasi di aree proprie di influenza o di sfruttamento, che sentono soffocata dagli equilibri esistenti la loro vitalità politica ed economica. Negli anni Trenta si assiste quindi ad un colpo di coda dell’imperialismo classico, che pareva ormai definitivamente superato e torna invece alla carica in una forma più che mai brutale ed esplicita. È un colonialismo dalla forte impronta razzistica, che disdegna le coperture e le giustificazioni della missione civilizzatrice e l’assunzione di qualsivoglia “fardello”, operando invece all’insegna dei destini storici e della conquista di quegli “spazi vitali” negati a Versailles dall’egoismo dei vecchi imperialismi. Sono quindi i grandi esclusi dalla spartizione postbellica, Germania, Italia e Giappone, a farsi protagonisti di quest’ultima impennata del moto coloniale. Ma la Germania, che non ha avuto il tempo di maturare una tradizione coloniale, e che in realtà non ha mai abdicato all’ottica bismarckiana (“La nostra Africa è oltre l’Elba”) informa la propria espansione ad una ipotesi di dominio sull’Europa orientale le cui matrici ideologiche ed economiche sono difficilmente riconducibili agli schemi pur vari delle interpretazioni classiche dell’imperialismo. Anche il Giappone, che a partire dal 1931 rinnova la sua pressione sulla Cina, strappandole la Manciuria, e che dal 1937 muove all’occupazione progressiva di tutto il paese, persegue una logica di sistemazione economica e politica dei territori conquistati che non ha riscontri nei modelli coloniali europei.
La guerra portata dall’Italia all’Etiopia e l’integrazione di quest’ultima nell’impero fascista appaiono invece ancora una volta, e pur in presenza di fattori nuovi ed originali, più assimilabili ai tipi della conquista coloniale ottocentesca. Si tratta veramente dell’estremo sussulto di un sistema in agonia, che sembra determinato a violare, prima del tracollo, l’unico paese africano che aveva saputo resistere alla penetrazione. Come tale la vicenda finisce per caricarsi di significati che vanno ben oltre la sua reale portata militare e diplomatica. È una guerra che rievoca, per i luoghi e per lo spirito con cui viene combattuta dalle due parti, fasti o miserie del passato, creando nell’opinione pubblica europea, ma anche in quella delle colonie, reazioni contrastanti. Se infatti negli ambienti occidentali che hanno maturato una maggiore sensibilità alle ragioni dei popoli oppressi si depreca la brutalità dell’aggressione, il dispregio dei trattati e lo scavalcamento degli organismi internazionali di mediazione (e la condanna è amplificata poi dalla propaganda ufficiale), l’azione italiana raccoglie invece il plauso dei circoli conservatori delle potenze coloniali, soprattutto di quelli anglosassoni, o delle frange ultranazionaliste, come l’Action Française, che esprimono rammarico per i cedimenti nei rapporti con i popoli soggetti e additano come esemplare il comportamento dell’amministrazione coloniale fascista. Quest’ultima si è infatti attenuta ad un criterio rigidamente segregazionista ed accentratore, evitando così l’insorgere di quel ceto economico, politico ed intellettuale indigeno che altrove si è fatto portavoce delle istanze nazionalistiche; inoltre fa ricorso in più di una occasione a duri interventi repressivi che stroncano sul nascere l’agitazione indipendentistica. Anche tra i popoli di colore la reazione non è unanime. Un’emozione profonda percorre infatti i movimenti per la decolonizzazione alla caduta dell’ultimo baluardo dell’indipendenza in Africa, divenuto agli occhi dei soggetti alla dominazione europea un simbolo ed un referente morale, con implicazioni a sfondo religioso che arrivano sino all’America Latina; ma ad essa fa da contraltare, soprattutto nei paesi islamici, una crescita del prestigio delle dittature europee, con il conseguente sviluppo di gruppi nazionalistici dalla forte connotazione paramilitare e di ispirazione azionista. In questo senso spinge anche la calcolata politica filo-islamica del fascismo, che nello specifico della vicenda etiopica fa leva sulla protezione della minoranza musulmana contro l’oppressione copta, e nelle sedi diplomatiche internazionali appoggia costantemente le rivendicazioni nazionalistiche arabe contro i governi investiti del mandato.
La frattura in seno all’opinione pubblica, assommata naturalmente a considerazioni d’opportunità diplomatica ed economica, rendono esitante il comportamento delle grandi potenze, e di conseguenza inefficaci i provvedimenti sanzionistici adottati a Ginevra. È principalmente la Francia, timorosa di spingere gli italiani nelle braccia di Hitler, a premere per il ridimensionamento dell’embargo: ma anche il governo di Londra, dopo un irrigidimento iniziale, procede con scarsa convinzione. L’intervento semiabortito della Società delle Nazioni riesce quindi doppiamente controproducente, in quanto offre a Mussolini il destro per denunciare davanti al suo popolo “l’invidia delle nazioni plutocratiche e capitaliste” e per stringerlo attorno al regime, mentre ai popoli coloniali dà la definitiva conferma della inattendibilità delle dichiarazioni di principio degli occidentali, così come delle organizzazioni erette a salvaguardarle, e della sostanziale connivenza intereuropea nell’oppressione imperialistica.
Le prime reazioni: il risveglio del mondo arabo
Le prime serie spallate all’edificio coloniale europeo vengono inferte nell’immediato dopoguerra dal mondo islamico. Le popolazioni di fede musulmana sparse dal nord-Africa all’India avevano raccolto solo in piccola parte l’appello alla guerra santa lanciato nel 1914 da Costantinopoli, e avevano finito per trovarsi a militare in campi avversi. Il progetto di una rifondazione panislamica vagheggiato dai Giovani Turchi era già naufragato prima del conflitto mondiale, in quanto andava in direzione esattamente opposta alle tendenze centrifughe e nazionaliste che si stavano affermando presso i singoli popoli musulmani, e in misura particolare nella nazione araba. La guerra offre quindi a quest’ultima l’occasione per emanciparsi definitivamente dal dominio turco, sia pure a prezzo dell’alleanza con i colonialisti europei; in seguito, la dissoluzione dell’impero ottomano e la costituzione di uno stato turco a carattere nazionale, su basi laiche e progressiste e con uno spiccato orientamento occidentalizzante, contribuiscono a far identificare più strettamente la causa islamica con il panarabismo.
Il risveglio del mondo arabo si attua all’insegna di una duplice idealità, quella del recupero nella loro primitiva purezza della spiritualità e della cultura islamica e quella della costituzione di uno stato arabo unitario, esteso dalla Palestina al golfo Persico e capace di far rivivere gli splendori e la potenza del passato. Il progetto politico è apparso molto vicino a realizzarsi allorché la rivolta nel deserto ha condotto l’hascemita Feisal e l’inglese Lawrence, nell’autunno del 1918, ad entrare vittoriosi in Damasco: tanto maggiore è quindi la delusione quando, all’atto della pace, divengono pubblici gli accordi anglo-francesi sulla spartizione, e alla promessa indipendenza è sostituita la tutela delle potenze occidentali. Il sogno cade a pezzi, e gli arabi si avvedono di aver collaborato ad un semplice cambio di padrone: la resistenza di Feisal a Damasco è soffocata a cannonate, le potenze mandatane manipolano a loro piacimento governo e confini, i rappresentanti della Persia e quelli dell’Egitto sono tranquillamente ignorati alla conferenza di Parigi. Il mondo arabo possiede tuttavia delle caratteristiche che gli consentono una reazione immediata e decisa. In primo luogo, fatta eccezione per quelle del nordafrica le popolazioni arabe non hanno mai patito la dominazione europea, e il loro status all’interno dell’impero ottomano non era assimilabile a quello di colonizzati. L’identità religiosa le poneva allo stesso livello, se non un gradino al di sopra, dei dominatori, e la soggezione era limitata al piano militare e amministrativo. Conservano quindi intatto uno spiccato senso della dignità etnica e dell’indipendenza. Nei confronti degli europei esistono anzi dei precedenti storici di senso inverso, un lungo periodo durante il quale questi ultimi sono stati tenuti in soggezione culturale, e in parte anche territoriale, e hanno contratto con il mondo islamico un debito di civiltà; ciò comporta l’assenza di ogni complesso d’inferiorità da parte araba, e al tempo stesso la possibilità di acquisire i portati della modernizzazione tecnico-scientifica senza nulla rinnegare del proprio passato, considerandoli frutti di uno sviluppo del quale il mondo islamico stesso è stato protagonista. Lo sforzo di ammodernamento e di rinnovamento dell’Islam ha pertanto la caratteristica peculiare di essere finalizzato ad una più efficace difesa del patrimonio tradizionale essenziale, quello religioso e linguistico, e di rafforzarne l’impermeabilità, sottraendo in parte il mondo musulmano al processo di acculturazione e alla perdita di identità che hanno segnato le altre civiltà investite dagli europei.
Paradossalmente, sono proprio gli ex-dominatori ottomani a scuotere con l’esempio la nazione araba dopo la delusione. Sotto la guida di Kemal Ataturk essi respingono le mutilazioni territoriali contemplate dal trattato di Sèvres, si uniscono in uno stato nazionale e impongono con le armi agli europei il suo riconoscimento, dando l’avvio ad una reazione a catena che interessa tutto il Vicino e il Medio Oriente. In Egitto la rivolta contro la dominazione britannica era già esplosa durante la guerra, preparata dalla propaganda del movimento panislamico e innescata definitivamente dalla decisione di Londra di trasformare in protettorato l’occupazione di fatto che durava dal 1882. Tra boicottaggi e terrorismo da un lato, e repressione poliziesca dall’altro, la situazione si trascina sino al 1922, quando il governo inglese, onde evitare un deterioramento irreversibile dei rapporti, abolisce unilateralmente il protettorato. La piena indipendenza sarà restituita però all’Egitto solo nel 1936. Si tratta a dire il vero di una sovranità per molti aspetti nominale, in quanto gli europei si riservano il controllo del canale di Suez e della regione sudanese, oltre ad una sorta di mandato morale “per tutelare il paese dalle ingerenze straniere”. Nello stesso periodo in Persia un colpo di stato militare conduce il paese ad una formale autonomia, anche se non lo sottrae allo sfruttamento neocolonialistico delle grandi compagnie petrolifere. Più fortunata è la politica inglese in Mesopotamia, dove dopo un fallito tentativo di rivolta viene creato un regno iracheno, assegnato all’emiro Feisal ma amministrato in pratica dall’Iraq Petroleum Cy e dall’Anglo-Iranian Oil Company. Anche in questo caso il riconoscimento formale dell’indipendenza del paese, che arriva nel 1930, maschera il persistere della sudditanza economica nei confronti degli interessi britannici. Una frattura più decisa si verifica invece con l’Arabia, indipendente in pratica già prima della guerra ma governata fino al 1926 dagli hascemiti, strettamente legati alla politica britannica: qui il colpo di mano che porta al potere una nuova dinastia apre la strada agli imperialismi concorrenti, in modo particolare alle compagnie americane.
L’amministrazione mandataria britannica incontra comunque i problemi maggiori in Palestina, dove il movimento sionista è deciso a porre le basi di un vero e proprio stato ebraico, secondo l’interpretazione più estesa della dichiarazione Balfour, mentre gli inglesi intendono soltanto creare una comunità autonoma. Gli arabi palestinesi avevano intuito già prima della guerra il pericolo che l’insediamento ebraico avrebbe finito per costituire, data la manifesta tendenza degli immigrati ad isolarsi in entità autonome, rifuggendo da ogni forma di integrazione. Esso era parso però allora remoto, soprattutto per l’esiguità della colonia straniera, e facile a fronteggiarsi una volta eliminato il dominio turco e realizzata la confederazione araba. Ma nel dopoguerra, delusi nelle speranze indipendentistiche, i palestinesi si ritrovano ad affrontare il problema da una posizione di forza molto peggiore. Il riconoscimento internazionale costituito dalla dichiarazione Balfour rafforza i propositi degli ebrei, che cominciano a darsi organismi locali di autogoverno con il beneplacito delle autorità britanniche, mentre l’immigrazione conosce un’eccezionale impennata. Tra il 1919 e il 1931 quasi centoventimila nuovi ebrei si stanziano in Palestina, triplicando la consistenza della colonia rispetto all’anteguerra. Grazie alle rimesse della diaspora e all’appoggio dell’organizzazione sionista essi sono in grado di acquistare i terreni più fertili. Inoltre la possibilità di investire grossi capitali nelle tecniche agricole più moderne, la creazione di sistemi cooperativistici di produzione e di distribuzione, il controllo delle prime forme di industrializzazione, fa crescere a vista d’occhio il divario economico nei confronti degli arabi. L’ostilità di questi ultimi non tarda a manifestarsi in forme violente: se all’inizio si tratta semplicemente di tumulti, negli anni Trenta la tensione sfocia in una vera e propria guerriglia, condotta da formazioni terroristiche e paramilitari clandestine, alle quali gli ebrei rispondono con la creazione della Haganah (corpo di difesa). Da parte loro gli inglesi, pur reprimendo la rivolta araba, debbono prendere atto della ingovernabilità della situazione, e soprattutto dei riflessi negativi che la loro politica filoisraeliana ha in seno all’opinione pubblica islamica. Allorché un loro piano di spartizione della Palestina viene respinto proprio dagli ebrei, sono costretti ad adottare una soluzione di forza imponendo nel 1939 un tetto all’immigrazione ebraica, nella misura massima di un terzo della popolazione totale della regione. Ciò equivale a chiudere in pratica immediatamente le frontiere, proprio mentre dall’Europa sta affluendo l’ondata dei profughi che cercano di sottrarsi all’avanzare del nazismo. L’Inghilterra salva con questa sterzata politica la propria influenza nel mondo arabo, ma lascia assolutamente irrisolto un problema che le atrocità della guerra sono destinate ulteriormente ad aggravare.
Su questo fosco scenario si chiudeva nella “Storia d’Italia e d’Europa” la serie degli interventi dedicati all’espansione europea e al colonialismo. La prima ormai in fase decisamente recessiva, il secondo in procinto di mutare pelle e di ripresentarsi, a partire dall’immediato secondo dopoguerra, sotto le specie del neo-colonialismo, con protagonisti, strumenti di conquista, strategie di controllo e obiettivi nuovi e diversi. Manca un raccordo finale, che renda conto di quanto accaduto negli anni cinquanta e sessanta, con la rapida decolonizzazione dell’Africa e la destabilizzazione conseguente e con la salita alla ribalta di potenze non occidentali (Giappone e Cina). Ma credo che in qualche modo l’interruzione possa essere giustificata. Con la seconda guerra mondiale e con il suo esito ha inizio veramente un altro capitolo della storia mondiale, nel quale il ruolo dell’Europa si riduce, se non a quello di spettatore, almeno a quello di attore non protagonista.
[1] Con lo pseudonimo di Multatuli E.D. Dekker, funzionario dell’amministrazione coloniale indonesiana, pubblica nel 1860 il romanzo satirico Max Havelaar, mettendo sotto accusa lo spietato trattamento riservato alla popolazione indigena.
[2] Il che spiega la sua delusione per ciò che trova nelle Alpi bernesi, durante un breve tour sulle orme di Rousseau (cfr Hegel, Viaggio nelle Alpi bernesi,)
[3] (da Beyond The Pale)
[4] Dopo una prima localizzazione centro-asiatica la rosa dei popoli creatori e portatori della civiltà si restringe poi agli indoeuropei del Nord (gli ‘indogermani’), ai Germani, ai Celti e agli Slavi (così sosteneva ancora H. S. Chamberlain), per ridursi poi in Germania ai soli Germani e ai loro discendenti, i Tedeschi.
[5] In An Account of the Regular Gradation in Man (1799) White sostiene l’esistenza di 4 razze.
[6] De generis humani varietate, 1795
[7] Tableau élémentaire de l’Histoire naturelle des animaux, 1798
[8] Regne animal distribué d’après son organisation 1817
[9] nella Histoire naturelle du genre humain (1801)
[10] Anche nella Anthropologie (1822) di Henrik Steffens ogni razza risulta associata a uno dei quattro elementi, in una progressione gerarchica crescente articolata nel modo seguente: terra (negri), acqua (indiani), aria (asiatici mongolici), luce (europei). E ancora, Carl Gustav Carus, in Über die ungleiche Befähigung der verschiedenen Menschenstämme für höhere geistige Entwicklung (1848), distingue quattro “razze” – aurorale (gialla), diurna (bianca), crepuscolare (rossa) e notturna (nera).
[11] Recherches nouvelles sur l’histoire ancienne (1814);
[12] È quanto sostiene Charles Seligman in The Races of Africa, del 1930
[13] Principles of Geology 1833The geological evidence of the antiquity of man with remarks on Theories of Origin of Species by variation (1836).
[14] Das Leben Jesu kritisch bearbeitet, 1835
[15] Esposta nel 1859 in On the origin of species
[16] Social Statics (1851)
[17] La simpatia per i neri è a più riprese manifestata da Darwin: “È impossibile vedere un negro e non sentirsi ben disposti verso di lui, verso modi così spontanei, onesti e cordiali e corpi finemente muscolosi”. Allo stesso modo non nasconde il suo disprezzo per altri popoli, ad esempio per i fuegini: “la pelle rossa, sudicia e untuosa, i capelli intricati, le voci discordanti, la gestualità truce e senza la minima dignità. vedendo uomini siffatti è difficile pensare che siano nostri simili, nati e cresciuti nel nostro stesso mondo”.
[18] Natürliche Schöpfungsgeschichte(La storia dellka creazione) (1868)
[19] In Anthropogenie: oder, Entwickelungsgeschichte des Menschen (“Anthropogenia: ovvero, La storia evolutiva dell’uomo”) del 1874, Haeckel arriva, con un percorso che combina il darwinismo con le teorie linguistiche di August Schleicher, a sostenere una sorta di poligenetismo. In una specie ancestrale preumana (l’Urmenschen), già staccatasi da quelle delle antropomorfe, l’acquisizione del linguaggio (e quindi del pensiero simbolico) avrebbe indotto sviluppi diversificati, determinando l’evoluzione di razze distinte. In qualche modo Haeckel riprende una teoria avanzata anche da Wallace.
[20] Viene persino fondata da un membro del circolo di Bayreuth, Ludwig Scheemann, una Società Gobineau.
[21] Occasional discourse of the Nigger question, 1849
[22] The Negro question, 1850
[23] Ne L’uomo delinquente (1876) Cesare Lombroso espone la teoria della criminalità innata, sostenendo tra l’altro che il crimine è più diffuso nelle razze nere e gialle.
[24] Nell’Encyclopédie, alla voce “Tratta dei negri” (1776) Louis de Jaucourt condanna la schiavitù e il commercio degli schiavi come contrari alla religione, alla morale, alle leggi e a tutti i diritti naturali dell’uomo.
[25] Il primo paese ad abolire lo schiavismo nei confronti dei nativi delle sue colonie è tuttavia il cattolico Portogallo, nel 1750. In compenso la tratta sarà abolita dai portoghesi (e dagli spagnoli) solo nel 1817.
[26] Ma già nel 1770 i quaccheri della Nuova Inghilterra avevano preso posizione. Nel 1774 la schiavitù è proibita nel Rhode Island, nel 1777 nel Vermont
[27] Uno dei suoi articoli permette ai proprietari di schiavi di calcolare il numero dei voti a partire dall’equazione: 1 nero = 3/5 di un bianco.
[28] Con lo Slave Trade Act, ennesima proposta di legge presentata da William Wilberforce, che entra in vigore dal 1 gennaio 1808
[29] Dichiarazione contro la tratta dei negri, dell’8 febbraio 1815.
[30]David Fieldhouse, L’età dell’imperialismo, 1975
[31] Gli effetti benefici della corteccia degli alberi di China per la prevenzione e la cura delle febbri malariche erano già conosciuti in Spagna dalla metà del XVII secolo: ma solo nella prima metà dell’800, quando i suoi alcaloidi vengono sintetizzati sotto forma di sali, la chinina (o chinino) viene adottata come terapia sistematica.
[32] Livingstone continua a dedicare i suoi sforzi all’evangelizzazione dei nativi, ma le conversioni non sono affatto il suo principale scopo: piuttosto, si impegna a denunciare e a debellare la tratta e a creare avamposti dai quali si diffondano sia le competenze tecniche per sfruttare le possibilità del paese che un modello culturale e sociale per sottrarlo al primitivismo.
[33] Un primo tentativo di questo genere era stato fatto nel 1787 da una spedizione portoghese, ma era fallito.
[34] Li ringrazierà scrivendo nei suoi diari:” In nessun luogo, in Africa, vi è altrettanta buona comprensione tra europei e indigeni”.
[35] Nel 1859, Albert Roscher di Amburgo è il primo europeo a sbarcare in Mzizima (“città sana”).
[36] Poi identificate con il Kenya e il Kilimangiaro.
[37] Baker era tutt’altro che entusiasta di farsi seguire dalla moglie. Ma non era facile liberarsi della coraggiosa e volitiva Florence: “In qualsiasi luogo voi andiate io verrò con voi. La terra su cui voi morrete mi vedrà morire ed io sarò sepolta dove lo sarete voi” gli scrisse.
[38] In realtà il lago è alimentato da un immissario, il Kagera, il cui bacino ha una lunghezza di 690 km. Le vere sorgenti sono state scoperte dall’esploratore Burckhart Waldecker nel 1934: si trovano nella parte meridionale dell’altopiano del Burundi, a est del lago Tanganica.
[39] Forse alla buona sorte di Barth non fu estraneo il suo atteggiamento nei confronti dei nativi. Sosteneva infatti, al contrario di quasi tutti i suoi contemporanei, che il modo migliore di trattare con essi fosse un comportamento rigorosamente rispettoso dei loro costumi e della loro cultura.
[40]Giovanni Miani, Spedizione alle origini del Nilo,1860
[41] Carlo Piaggia, Due anni tra i cannibali, 1871
[42] Romolo Gessi, Sette anni nel Sudan egiziano, 1891
[43] Vittorio Bòttego, Il Giuba esplorato, 1895
[44] Augusto Franzoj, Continente nero, 1885. Franzoj, con un passato da romanzo d’avventura, nel 1882 parte tutto solo alla ricerca di Giovanni Chiarini, attraversa l’intera Etiopia, recupera le spoglie dell’esploratore trucidato e le riporta in un sacco ad Assab, dopo aver percorso 3.000 chilometri tra le popolazioni più bellicose dell’Africa orientale.
[45] C. Citerni – L. Vanvitelli, Lomo: viaggio di esplorazione nell’Africa Orientale, 1899
[46] Carlo Citerni, Come si viaggia in Affrica, 1913
[47] Che occupa le Isole Salomone, le Samoa, le Caroline e le Marshall oltre all’arcipelago Bismarck e ad una parte della nuova Guinea