In capo al mondo: L’età delle scoperte

di Paolo Repetto, 30 settembre 2012

IN CAPO AL MONDO vol. I - L'età delle scoperte copertina

Perché i viaggi?

Viaggiatori nel mondo antico

Viaggiatori dell’età di mezzo

Popoli e reami immaginari …

… ma anche viaggi e paesi reali

In capo al mondo

Alle origini delle scoperte: il mito, l’economia, le tecniche

La via dei portoghesi verso l’Africa e le Indie

Gli spagnoli, Colombo e la scoperta dell’America

I meccanismi e i tempi della conquista

La scoperta degli indiani e della loro anima

Dov’è allora L’Europa?

La conquista del mondo (sec. XVI-XVII) (I)

La nuova coscienza dell’Europa nel mondo

Apogeo e crisi dei portoghesi in Asia

I portoghesi in Brasile: il ciclo dello zucchero

La colonizzazione dell’America meridionale spagnola

La difesa artificiale degli indigeni: i gesuiti nel Paraguay

La schiavitù e la tratta

L’offensiva olandese in Indonesia

Ho raccolto in questo saggio una serie di capitoli dedicati alle esplorazioni geografiche e alla colonizzazione europea apparsi in volumi diversi della “Storia d’Italia e d’Europa. Comunità e popoli” (edita in 10 tomi per i tipi della Jaka Book tra il 1980 e il 1984). Per la precisione ho ripreso ciò che già all’epoca era stato redatto seguendo una linea, sia pure approssimativa, di continuità. La collocazione originaria dei capitoli in contesti separati spiega la presenza di ripetizioni o di eventuali salti temporali.

Avevo in mente una lunga prefazione, che raccontasse della passione di tutta una vita per la narrativa di viaggio, prima e più ancora che per il viaggio vero e proprio, e magari anche di un intero settore della mia biblioteca, senz’altro il più consistente, che raccoglie il meglio della letteratura di e sul viaggio, sulla storia delle esplorazioni, ecc.

Ha prevalso invece la pigrizia. La riscrittura di questi saggi pubblicati più di trent’anni fa si limita all’aggiunta di un paio di capitoli, nei quali si dà uno schematico resoconto di quanto accaduto prima del XIV secolo, ad alcune integrazioni e all’inserimento delle note. Ho preferito aggiungere, a mo’ di prefazione e di appendici finali, alcune riflessioni specifiche sul tema del viaggio, anch’esse molto datate, che danno comunque l’idea di come questo tema abbia mantenuto intatto per me il suo interesse lungo cinquant’anni, e abbia continuato a suscitare lo stesso adolescenziale entusiasmo. È stata un’esperienza fantastica, ed è una fortuna che auguro a tutti.

Perché i viaggi?

Siamo nomadi per natura o per cultura? Si potrebbe semplicemente rispondere: per l’una e l’altra cosa. A voler essere precisi occorre però distinguere: siamo nomadi per natura, ma viaggiamo per cultura.

La storia naturale è un crocevia costante di spostamenti, migrazioni, colonizzazioni e ritirate che coinvolgono in misura e in modi diversi, con tempi e ritmi i più disparati, tutte le specie animali (ed anche quelle vegetali): è il frutto di una disposizione (per gli animali parliamo di istinto) che permea il vivente e che risponde alle leggi della sopravvivenza e della riproduzione.

Questo istinto appartiene naturalmente anche alla nostra specie: anzi, rispetto ai gruppi parentali a noi più prossimi, ad esempio quello delle scimmie antropomorfe, la connota in modo particolare. Sarà per via della postura eretta, della locomozione bipede, dell’alimentazione onnivora, tutti fattori che combinati assieme e in reciproca interazione indirizzano a modalità di esistenza non stanziali: sta di fatto che negli umani si è sviluppato ad un punto e in una direzione tali da produrre un comportamento anomalo ed esclusivo. Il nostro nomadismo ha infatti senz’altro come fondo originario quello animale ed è determinato da una serie di pressioni naturali (la necessità di ampliare i territori di caccia o di raccolta, le mutazioni climatiche, l’avvento di nuovi competitori, ecc…): ma ha indotto nel tempo risposte adattive “culturali”, che non vengono tramandate per via genetica (anche se l’attitudine a queste risposte viene geneticamente selezionata), bensì attraverso un processo “educativo”.

Quando superano una certa soglia la dominanza e lo sviluppo quantitativo di taluni caratteri determinano in tutta la scala degli esseri una differenza qualitativa. Nel caso unico e specifico della nostra specie l’effetto è addirittura reversivo: non arriviamo a controllare l’evoluzione, ma ne modifichiamo, sia pure in misura minima e temporalmente quasi irrilevante, il naturale meccanismo. Non ci spostiamo quindi solo perché questa è la nostra natura, ma anche perché questa è diventata la nostra cultura. O viceversa, se vogliamo, perché abbiamo elaborato questa cultura come conseguenza di una spiccata attitudine “naturale” alla mobilità. Alla domanda: “Perché gli uomini viaggiano?” la risposta più esaustiva sarebbe pertanto: “Proprio perché sono uomini”. Perché tutte le altre specie si muovono, si spostano, mentre gli uomini, appunto, viaggiano.

L’irrequietezza umana si è manifestata precocemente, anche in rapporto ai tempi lunghi dell’evoluzione. Da quando sono scesi dagli alberi e si sono inoltrati nelle savane originarie dell’Africa centro-orientale i nostri progenitori non hanno più avuto terraferma. Hanno cominciato ad espandersi verso oriente, dopo aver traversato l’istmo di Suez, già allo stadio dell’homo erectus, attorno a due milioni di anni fa. È probabile che più rami della nuova specie, destinati poi all’estinzione, abbiano fatto in tempi successivi un percorso analogo. Il nostro avo diretto, l’homo sapiens, si è invece diffuso nel volgere di cinquantamila anni, a partire da un centinaio di migliaia di anni fa, prima in tutta l’Asia, poi, di ritorno, in Europa. Per farlo, l’uno e gli altri hanno dovuto adattarsi a condizioni ambientali via via radicalmente diverse, combattere o convivere con altre specie, assumere comportamenti alimentari e di sopravvivenza sempre nuovi. Tutto questo, per quanto ne sappiamo, ed è veramente molto poco, è accaduto ancora sotto la spinta dominante della istintualità e della pressione ambientale determinata dai mutamenti climatici: ma al tempo stesso ha imposta la diversificazione e rallentato l’automatismo delle risposte, sino al punto da svincolarle, almeno in parte, dalla correlazione con lo stimolo immediato e di assoggettarle alla mediazione della volontà.

La trasformazione definitiva della mobilità perenne da comportamento istintuale in pratica intenzionale, ovvero nel “viaggio” quale noi oggi comunemente lo intendiamo, è avvenuta proprio nel momento in cui la spinta “naturale” si è esaurita, ovvero quando gran parte dell’umanità, con la comparsa dell’agricoltura, è diventata stanziale. Quando la mobilità non è più stata necessitata dalla pura sopravvivenza è subentrata come motore la curiosità. Le spinte “materiali” non sono venute meno, ma si sono tradotte in “motivazioni economiche”, sono state cioè incanalate in forme complesse di attività, di raccolta, di lavorazione e di scambio, o sono state “addomesticate” e riorganizzate in comportamenti religiosi o politici. L’istinto ha lasciato gradualmente spazio alla consapevolezza, la determinazione genetica alla scelta autonoma, ovvero alla cultura.

In questo senso siamo diversi da tutti i nostri parenti: dai più prossimi, gli altri primati, che sono in realtà piuttosto sedentari e legati al loro territorio; da quelli un po’ più lontani, come i lupi o i topi, o lontanissimi, come gli insetti o i batteri, che hanno colonizzato un habitat altrettanto vasto di quello umano, ma non viaggiano, si diffondono; o da quegli altri parenti con le piume, con il guscio o con le squame che compiono tutti gli anni percorsi di migliaia di chilometri, sempre sulle stesse rotte. Anche questi non viaggiano: semplicemente migrano.

Il viaggio inteso come uno spostamento frutto di scelte consapevoli appartiene dunque solo a noi. Consapevoli non significa necessariamente pacifiche e non condizionate: significa che negli umani persino la fuga non è più un gesto dettato direttamente dall’istinto, ma implica almeno in una certa misura la valutazione di più possibilità, alla ricerca non solo di una via immediata di salvezza, ma anche di garanzie e di prospettive future.

Quella della fuga rimane tuttavia la risposta ad una situazione eccezionale, nella quale l’ignoto che si ha di fronte appare meno spaventoso del noto che preme alle spalle. A caratterizzare l’uomo è invece la scelta di sfidare l’ignoto anche quando non è in gioco la sopravvivenza, di muoversi anche quando la necessità non è così impellente.

La scelta è resa possibile e consapevole dal fatto che l’uomo quando “viaggia” non ha paura di ciò che non conosce; anzi, lo cerca, e vince la paura proprio per il desiderio di incontrarlo e di confrontarsi con esso.[1] Lo fa perché la complessità del suo apparato neuro-sensoriale (ovvero, la “distanza” creatasi tra gli organi che percepiscono lo stimolo e quelli che formulano la reazione dagli innumerevoli “snodi” intermedi) consente di dosare le risposte, di vagliare e scegliere tra diversi possibili comportamenti, di prendere ogni volta coscienza di nuove potenzialità, di conservarne la memoria e quindi di moltiplicarle. Detto in termini più spicci, a differenza degli altri animali l’uomo “sa di non sapere”, ed è preparato, anche se non sempre è egualmente disposto, a incontrare qualcosa che non conosce: può pertanto prefigurarsi l’incognito con l’immaginazione, e in qualche misura già ne esorcizza la pericolosità. Questo gli consente di desiderare “altro”, di proiettarsi oltre i confini dettati dalla sua naturalità e confermati dalle sue appartenenze culturali.

Il desiderio e la scelta sono dunque le discriminanti tra il viaggio e il semplice spostamento. Il desiderio perché è volontà di sottrarsi al determinismo naturale (desiderare significa proprio sfuggire al condizionamento degli astri); la scelta perché è affermazione di libertà dalla paura, o almeno della consapevolezza di essere in grado di vincerla, e della disponibilità a mettersi in gioco.

Quando l’Ulisse dantesco apostrofa i suoi compagni con “fatti non foste a viver come bruti”, quelli già capiscono dove si va a parare. Non possono permettersi di avere paura. Non sono animali. Devono andare oltre, “seguir vertute e cagnoscenza”, correre l’azzardo di “vedere”, fosse anche nella quasi certezza di giocarsi la pelle. Molti di loro magari preferirebbero vivere davvero come bruti, e a lungo, ma il destino dell’uomo è quello di dar mano ai remi, drizzare la prua all’orizzonte e spingersi fino all’estremo: in questo caso, fino in fondo al mare.

Perché lo fanno? Perché ritengono valga comunque la pena di mettere a repentaglio la vita e le sicurezze già acquisite pur di “conoscere”. Sono pronipoti di Eva, e questa storia del prezzo da pagare per la conoscenza se la portano nel DNA.

Naturalmente non si può generalizzare. Non è così per tutti, e questa attitudine non è stata presente e diffusa allo stesso modo nell’intero arco dei tempi storici. In realtà si dice “l’uomo”, o “gli uomini”, ma si intendono sempre “alcuni uomini”: quelli paradossalmente disposti a rischiare la vita proprio perché vogliono darle sostanza e significato, e convinti che l’una e l’altro possano venirle solo dall’ignoto (evidentemente del noto non sono granché soddisfatti). Gli altri – e parlo della maggioranza – non sono attratti allo stesso modo dal fascino dell’avventura. I compagni di Ulisse non sono affatto diversi da quelli di Colombo o di Cortés: devono essere trascinati avanti con le minacce e col ricatto, non pensano di aver scelto il rischio, ma di esservi costretti dal destino, e appena possono cercano di ribellarsi e di tornare indietro. Subiscono il viaggio come fatalità e costrizione (e in effetti molti di essi sono stati reclutati a forza), anche se alla fine danno mano ai remi.

Nell’antichità non sono tuttavia solo i poveracci attaccati agli scalmi a lamentarsi. Lo fanno costantemente anche gli eroi delle epopee marinare, persino quelli che a onor del vero non sembrano aver fatto molto per sottrarsi a una sorte errabonda. Ogni esperienza di viaggio è vissuta come fato e necessità, o peggio ancora, come punizione. Nei miti di fondazione, da quelli ebraici (la parte “storica” del racconto biblico inizia con la cacciata dall’Eden, prosegue con la condanna di Caino all’erranza e si dipana poi in vari esodi e peregrinazioni) e del vicino oriente (il ciclo di Ghilgamesh) fino a quelli greci (i viaggi di Ercole e di Giasone e quelli degli eroi omerici) o latini (Enea), il viaggio costituisce il tema di fondo costante, ma il distacco dalla terra nativa è sempre vissuto con dolore e subìto come ineluttabile, imposto dalla malignità divina o da quella umana. Ad ogni nuovo ostacolo gli eroi accusano il Fato di sbatacchiarli da una terra all’altra, anche se poi, appena si offre l’occasione, sono persino disposti a scendere agli Inferi pur di dare un’occhiata. La verità è che avvertono la portata trasgressiva del viaggio e delle motivazioni reali che lo promuovono, e deprecandolo cercano di assolversi agli occhi propri e a quelli altrui.

L’attitudine negativa rispetto alla partenza, al distacco, spiega perché lo schema ricorrente del racconto di viaggio nella letteratura antica sia quello circolare, dell’andata e ritorno: il felice scioglimento della vicenda è il rientro in patria, sia negli archetipi della narrazione mitologica (i ὐὂστοι) sia in quello del racconto storico (l’Anabasi). A connotare la percezione antica del viaggio è dunque la costrizione (ma questo vale in linea molto generale: perché poi, in verità, troviamo un sacco di eccezioni che confermano la regola, da Eudosso ad Alessandro, da Erodoto a Pausania). Assistiamo per il viaggio alla stessa evoluzione e trasformazione di significato che si verifica per quanto concerne il lavoro: ciò che dagli antichi era considerato una punizione o una maledizione verrà interpretato dai moderni come uno strumento di emancipazione. L’uno e l’altro in effetti costituiscono fattori di rottura rispetto alla staticità, alla necessità naturale o sociale; con la differenza che il lavoro sarà sempre più finalizzato ad uno scopo, fino a diventare esso stesso lo scopo, mentre il viaggio si definirà col tempo come scelta volontaristica, non soggetta a scopi utilitari.

La connessione tra viaggio e libertà che diverrà tipica del mondo moderno ha una lunga gestazione nel periodo medioevale. Nel Medio Evo i “liberi” sono liberi innanzitutto di muoversi, mentre i servi sono legati alla terra o ad una residenza fissa. Lo stesso vincolo esisteva nel rapporto di schiavitù antica, ma in un contesto diverso, perché allo schiavo non era riconosciuta la piena dignità umana. Almeno in teoria il cristianesimo la garantisce invece a tutti, e lascia aperta la possibilità di conquistarla. Staccarsi, anche fisicamente, dalla propria condizione, è la strada: e il distacco passa attraverso la partenza.

Il viaggio medioevale è vissuto dunque innanzitutto come processo di purificazione, che si realizza attraverso la sofferenza; ma è una sofferenza cercata, e soprattutto è una espiazione non fine a se stessa, o legata all’arbitrio dei numi, ma finalizzata ad un riscatto. Le penitenze itineranti, che in un primo momento erano imposte dalle autorità religiose per allontanare dalla comunità l’esempio negativo del peccatore, diventano col passar del tempo sempre più espiazioni autoinflitte: il pellegrinaggio passa dal marchio di infamia a quello di santità. Allo stesso modo, mentre nell’epica antica i protagonisti dei viaggi subiscono i rischi, in quella medioevale li cercano (i cavalieri della Tavola Rotonda), inseguono l’ignoto e l’avventura.

Per poter leggere il viaggio nei termini di una scelta totalmente autonoma e almeno in apparenza non finalizzata dobbiamo comunque risalire a tempi molto più recenti: questo tipo di percezione appartiene alla modernità. Solo nell’età moderna, o meglio ancora, nell’occidente moderno, in teoria chiunque può scegliere di spostarsi a suo piacimento. All’atto pratico poi la scelta continua ad essere un privilegio di pochi, ed è indubbio che le più recenti forme di nomadismo, quelle economicamente e politicamente indotte dalla globalizzazione, ripetono su una scala ingigantita le vicende degli esodi e delle migrazioni tradizionali, così che la massa dei viaggiatori per costrizione, nella quale andrebbero compresi anche i forzati del turismo, rimane numericamente ben più consistente di quella dei viaggiatori per scelta. Tuttavia è innegabile che una differenza sostanziale rispetto al passato si pone: nel mondo antico, e ancora in quello medioevale, il viaggio rappresentava per tutti, eroi, esuli, migranti o pellegrini, una via di fuga dalla precarietà (spirituale o materiale), mentre in quello moderno è per molti fuga dalla sicurezza.

In occidente l’accezione più comune (o almeno, la più suffragata dalla letteratura) dell’esperienza del viaggio negli ultimi tre o quattro secoli è quella di un rifiuto delle garanzie e delle comodità offerte dalla “civiltà” per tornare in ad assaporare il gusto di “misurarsi” con la vita. Il viaggio diventa una sorta di fuga dalla rispettabilità, dalla pulizia, dalla legge, dai comportamenti appropriati – soprattutto in campo sessuale. Quanto più va consolidandosi un ordine stanziale, e trionfano l’urbanizzazione, il modo di produzione industriale e il modello di vita che ne consegue, tanto più la partenza diventa concretizzazione di una scelta, anziché risposta ad una necessità: scelta di sottrarsi, per periodi più o meno lunghi, a volte per sempre, alla routine sociale e familiare, alla consuetudine culturale e lavorativa. E questo vale per il Grand Tour iniziatico dei giovani rampolli inglesi come per le spedizioni esplorative, da Cook a Humboldt, per le intraprese militari e commerciali come per le missioni religiose: quale che sia la motivazione ufficiale, dietro c’è sempre un “disagio”, le cui componenti sono tanto naturali (l’istinto nomade) quanto culturali (la sensibilità ad una pressione, ad una omologazione che cresce con il consolidarsi dell’identità del gruppo, e di conseguenza la curiosità per esperienze “esterne”, meno “avvolgenti” e più coinvolgenti).

Nella concezione moderna l’intreccio tra viaggio e libertà riflette dunque l’anelito ad una generica libertà attiva di “intrapresa”, ma anche quello al disimpegno individuale, alla rottura dei legami sociali. La società “organica” che caratterizzava il mondo classico e medioevale, nella quale ciascuno aveva senso solo in funzione del “tutto” di cui faceva parte, si è dissolta tra il XV e il XVI secolo con il crollo dell’istituto imperiale e con la lacerazione dell’identità religiosa cristiana; il civis e il credente hanno lasciato il posto all’individuo, i vincoli di appartenenza alla cultura del diritto: e questo cambia radicalmente l’accezione dell’idea di libertà. Mentre per gli antichi la libertà, proprio perché condizione riservata a pochi, comportava il diritto-dovere a partecipare, nel mondo moderno, che l’ha estesa idealmente a tutti, diventa invece un guscio protettivo, il terreno di salvaguardia dell’individualità nei confronti dell’organizzazione. E mentre l’organicità, considerata come vincolo naturale o divino, non contemplava la possibilità di esistenze autonome, separate, l’organizzazione, che ha una origine umana e convenzionale, può anche essere rifiutata, o cambiata.

Il viaggio è in ogni caso, per gli antichi come per i moderni, introduzione o conoscenza della novità: ma se per questi ultimi la ricerca del nuovo appare quasi un imperativo, e oltre un certo livello diviene fine a se stessa, in fondo gli antichi cercavano nel nuovo soprattutto la continuità col conosciuto, o quanto meno la rispondenza con l’immaginato.

La novità e la diversità determinano sempre una reazione identitaria, ma sono percepite, e di conseguenza agiscono, in maniera differente a seconda della condizione dalla quale le si coglie: inducono all’arroccamento difensivo su una appartenenza quando vengono subite da una posizione di debolezza, oppure all’assunzione critica, nel senso di una messa in discussione della propria identità, di spoliazione dal pregiudizio, quando possono essere vagliate da una posizione di forza. Per mezzo del viaggio, attraverso il confronto con la differenza, matura in genere una coscienza inedita dell’identità del gruppo: ma al tempo stesso, soprattutto quando il confronto è impostato su una presunzione di superiorità, si creano anche le condizioni per “riformare” questa identità, rendendola duttile e provvisoria. Lo spostamento e l’interazione sono quindi motori tanto dell’evoluzione biologica (si mescolano geni di gruppi diversi) quanto di quella culturale. Anche questo vale per tutte le epoche, ma è decisamente più evidente per l’Europa degli albori della modernità, all’epoca dei viaggi di scoperta: conoscere i costumi altrui costringe a meditare sui propri, a scegliere ciò che di fondamentale si intende proporre agli altri o si ritiene necessario salvaguardare di contro agli altri; si definiscono i colori della bandiera sotto la quale si combatte, anzi, si adotta la bandiera unica della civiltà “occidentale”, a dispetto dei tanti stendardi dinastici o nazionali che sopravvivono. Ma la selezione di questi valori si attua attraverso il vaglio profano della critica, reso possibile proprio dalla conoscenza e dal confronto con nuovi modelli: la scelta implica pertanto già di per sé una dissacrazione.

La nuova concezione del viaggio è infine strettamente legata alla diversa coscienza del tempo che caratterizza appunto la modernità, alla percezione di una velocizzazione degli eventi, della caduta di quelli che erano i cardini strutturali sui quali si reggeva la concezione del mondo, scientifici, politici, religiosi, ecc, e quindi alla necessità di riempire il tempo il più possibile di incontri, di esperienze multiple e diverse, che possono avvenire solo dilatando gli spazi. È come se la contrazione del tempo nel movimento spaziale (che a sua volta è invece una dilatazione), la velocità con cui si percorre lo spazio, potesse idealmente annullare il tempo stesso. Il viaggio è in fondo un modo per non invecchiare. Idealmente, viaggiando ad una certa velocità si potrebbe fermare il tempo. In realtà, l’esito combinato della dilatazione degli spazi e della contrazione dei tempi risulta del tutto opposto: mentre il percorso della civiltà sembra andare in una direzione entropica, che dovrebbe eliminare non solo la necessità, ma anche ogni stimolo culturale al viaggio (se tutto è disponibile allo stesso modo dovunque, non c’è più alcun bisogno di spostarsi, e non ha senso) il paradosso è invece che ci si sposta moltissimo, ma la globalizzazione ha unificato gli spazi, quindi si è sempre fermi.

Naturalmente rimangono, anzi, a questo punto prevalgono quelle motivazioni economiche, religiose e politiche cui accennavo sopra come esito della trasformazione di un impulso in una scelta cosciente. Ma questa è la materia di cui trattano le pagine a seguire.

Devo precisare infatti che l’oggetto del presente saggio non è una storia dei viaggi, anche se questi ultimi vi hanno una parte considerevole e costituiscono il tema di partenza. È piuttosto uno studio sulle conseguenze che alcuni viaggi, quelli di scoperta che si moltiplicano tra il XV e il XIX secolo e che portano al riconoscimento di tutto il globo terrestre, hanno avuto per i popoli che li hanno promossi e compiuti e per quelli che li hanno subiti. Per i soggetti e per gli oggetti della scoperta. È la cronaca di un incontro con la diversità, del suo rifiuto, della sua negazione e da ultimo della sua apparente riscossa: e vorrebbe anche essere un modesto contributo alla comprensione del perché, a più di cinque secoli dal suo verificarsi, questo incontro continui ad essere piuttosto uno scontro, una contrapposizione, che neppure l’anestetico della globalizzazione riesce a rendere meno acuto e doloroso.

Viaggiatori nel mondo antico

La prima testimonianza documentaria di una spedizione marittima arriva da un bassorilievo del tempio di Deir el-Bahari, nella Valle dei Re. I geroglifici e le immagini raccontano di cinque navi inviate dalla regina Hatsespot, attorno alla metà del secondo millennio a.C., sino al paese dei “neri di Punt”. Uscita dal Mar Rosso la piccola flotta ha costeggiato le sponde orientali africane portandosi all’altezza di Zanzibar, per tornare poi lungo la stessa rotta, carica di incenso, di elettro, di animali esotici e di essenze.

All’epoca della regina Hatsespot i rapporti dell’Egitto con l’Africa subequatoriale (che Erodoto chiama “il paese degli alberi”) dovevano essere, se non consueti, comunque consolidati. Notizie piuttosto vaghe li fanno risalire ad almeno mille anni prima, al periodo della quinta dinastia, quando il faraone Sahure avrebbe inviato una prima spedizione navale. Probabilmente i contatti non avvenivano solo via mare. Soldati e mercanti egiziani avevano precocemente risalito il Nilo sino alla zona dei grandi laghi centroafricani, e si erano spinti ad ovest sino al lago Ciad e forse al Niger, aprendo corridoi transahariani e riportando indietro conoscenze geografiche che andranno perdute con la decadenza dell’impero, tanto che sul finire dell’epoca romana anche le terre sudanesi torneranno ad essere “incognitae”.

Novecento anni dopo, tra la fine del settimo e l’inizio del sesto secolo a.C., una spedizione inviata dal faraone Necho II avrebbe addirittura circumnavigato l’Africa, navigando da est ad ovest, doppiando il Capo di Buona Speranza, risalendo la costa occidentale e rientrando nel mediterraneo da Gibilterra. L’unica testimonianza in proposito è quella di Erodoto, ed egli stesso manifesta qualche perplessità nel fornirla, anche se alcuni particolari del racconto fanno davvero pensare ad una rotta costiera atlantica[2]: e comunque la notizia stessa di ripetute missioni induce a credere in un interesse continuativo e lascia intravvedere una conoscenza almeno grossolana della forma del continente.

Un testo greco di seconda mano, traduzione di un originale fenicio, racconta invece di un altro tentativo di circumnavigazione africana, quello compiuto tra il 450 e il 400 a.C. dal cartaginese Annone. Sulla realtà del viaggio di Annone e sull’itinerario non ci sono dubbi. Meno credibili sono i numeri: una flotta di sessanta navi avrebbe imbarcato trentamila persone (qualcosa come 500 uomini per nave!). Sono decisamente troppe, anche assumendo che si trattasse di una spedizione finalizzata a creare colonie d’appoggio per il commercio con le coste atlantiche africane. Annone provò comunque l’itinerario inverso rispetto a quello della flotta di Necho, navigando da ovest verso est. Uscito a Gibilterra seguì la costa e arrivò sino al golfo di Guinea, probabilmente sino all’altezza del monte Camerun[3], lasciandosi alle spalle piccoli insediamenti destinati a una breve sopravvivenza e a sparire velocemente dalla memoria. La spinta verso il sud non si esaurì per particolari difficoltà nella navigazione o negli approvvigionamenti, ma perché l’ammiraglio si rese conto che non c’era spazio per il commercio e che di oro, motivazione principale al viaggio, non si vedeva l’ombra. In compenso, mano a mano che scendevano i cartaginesi trovavano popolazioni sempre più nere (e ostili), arrivando anche a contatto con una tribù di “uomini pelosi”, che gli interpreti indigeni imbarcati chiamavano “όι γορίλλοι”. Non è improbabile che o all’andata o nel viaggio di ritorno abbiano toccato l’isola di Madeira, che Diodoro Siculo dà per certo conosciuta da tempi remotissimi, così come le Azzorre.

Un altro cartaginese, Imilcone, fu incaricato qualche anno dopo di superare le colonne d’Ercole e volgere la prua a nord, per esplorare le coste europee dell’Atlantico. Sappiamo poco del tentativo, da una fonte tarda e indiretta[4], secondo la quale Imilcone avrebbe toccato sia l’Irlanda che la gran Bretagna. Ma anche in questo caso il fatto stesso che la spedizione sia stata intrapresa ci dice molto sulle ambizioni oceaniche dei Cartaginesi.

Per supportare queste ultime i Fenici d’occidente potevano avvalersi di imbarcazioni molto solide, con alberatura semplice a vela quadra, munite di un rostro anteriore e di un parapetto per salvaguardare le merci; i rematori erano piazzati su una larga cornice esterna, che serviva anche a parare le onde e a dare maggiore equilibrio alla nave. Per orientarsi utilizzavano un rudimentale ma efficace sistema di allineamento, traguardando i punti presi a riferimento sulla costa o nella volta celeste. Queste tecnologie e le conoscenze astronomiche ne fecero gli indiscussi dominatori del mediterraneo fino al V secolo; ma anche in seguito continuarono a fornire i migliori comandanti ed equipaggi a tutte le flotte dell’antichità precristiana.

Erano fenicie, ad esempio, anche le navi che Salomone inviava annualmente, nel X secolo a.C., sino a Tartis, e che di là tornavano cariche di ricchezze. Dove si trovasse Tartis è difficile da stabilire. Fino a qualche tempo la si identificava con Tartesso, sulla costa atlantica della penisola iberica, ma è molto più probabile che il nome stia ad indicare una località posta da tutt’altra parte, quasi sicuramente sulle coste della penisola araba. I fenici non si limitavano comunque all’esplorazione navale. Lo storico Ateneo (II secolo) parla di mercanti cartaginesi che attraversarono a più riprese il Sahara, alla ricerca di oro e di avorio.

Il motore principale di questi viaggi era proprio l’oro. Ma la storia di Annone ci conferma che quando l’aspettativa economica veniva delusa potevano emergere motivazioni meno prosaiche. Arrivato ad un certo punto, e ormai consapevole del fallimento di quello che era il compito ufficiale della missione, il comandante cartaginese sembra inventarsi di volta in volta mete e scopi provvisori, nell’intento di fondo di arrivare comunque sempre un po’ più in là.

La caratteristica che accomuna i viaggi degli egizi e dei fenici, così come quelli compiuti per ordine dei sovrani persiani[5], è l’aver lasciato scarsissima traccia nella memoria geografica. Si trattava pur sempre di spedizioni finalizzate ad una conoscenza di tipo militare o commerciale, e quindi ad un sapere che doveva essere gelosamente custodito nel segreto, partecipato solo ai pochi intimi che gravitavano attorno al potere. Il che significa che ad ogni mutamento dinastico o con la caduta di regni e potenze queste conoscenze erano destinate a tornare nel dimenticatoio.

La volontà di salvaguardare la segretezza delle informazioni fu tipica soprattutto dei cartaginesi, impegnati a battere la concorrenza di sempre nuovi competitori esterni, gli etruschi prima e i romani dopo, ma anche quella tra le diverse colonie sparse sulle due sponde del Mediterraneo, e ad un certo punto anche su quelle atlantiche.

Le cose cambiano invece con i viaggi dei Greci. Se l’oro era il fine dei Fenici, per i Greci il motore dei primi viaggi sembrano essere stati invece soprattutto lo stagno, indispensabile per le leghe di bronzo, e il ferro. Micenei e cretesi si spingevano già attorno alla metà del secondo millennio a.C. al mar Tirreno e nel Mediterraneo occidentale, risalendo la penisola italica sino all’isola d’Elba, proprio in cerca di ferro. Il racconto dell’Odissea conferma la buona conoscenza delle rotte mediterranee occidentali diffusa tra gli Achei nell’XI secolo: il percorso di Ulisse può essere ricostruito con esattezza, riconoscendo sotto le spoglie mitologiche ogni singola isola e ogni approdo.

Ulisse stesso è il simbolo della connaturata irrequietezza ellenica. Dai racconti di Erodoto e degli storici successivi emerge che non solo i mercanti, ma anche i filosofi, gli artisti e i letterati non avevano terraferma. Dopo aver sistemato le cose ad Atene, Solone intraprese attorno al 580 a.C. un viaggio di dieci anni in Egitto e in Asia Minore, per conoscere le leggi di quei popoli (e al ritorno si affrettò ad introdurre anche in Atene una sorta di denuncia dei redditi). Anche Pitagora e Democrito avrebbero viaggiato, spingendosi secondo la tradizione fino alla Mesopotamia, oltre che in Egitto e sulle coste asiatiche dell’Egeo, e venendo a contatto con i magi caldei. La compulsione al viaggio dei pitagorici è del resto testimoniata fino ad epoca tarda, nel primo secolo d.C., dal racconto fatto da Filostrato delle peregrinazioni di Apollonio di Tiana, che prima di girovagare per l’Italia si recò a mietere saggezza in Mesopotamia, in India e in “Etiopia”.

Famosi sono anche i viaggi di Platone, quelli decisamente dubbi in Egitto e quelli certi, ma fallimentari, verso la Sicilia, affrontati nel tentativo di realizzare a Siracusa la repubblica ideale. Il percorso inverso venne invece intrapreso da Parmenide e da Zenone, provenienti dalla Magna Grecia, oltre che da un largo stuolo di sofisti che da ogni angolo dell’Ellade e dalle colonie orientali e occidentali finirono per convergere su Atene.

I veri e propri viaggi greci di scoperta sono però legati, almeno in origine, a motivazioni molto più prosaiche. La più antica testimonianza dell’attraversamento delle Colonne d’Ercole riguarda Caleo di Samo, spinto nel settimo secolo nell’Atlantico da una tempesta. Ma fu un marinaio greco di una colonia occidentale, Pitea di Marsiglia, a compiere uno dei viaggi più straordinari dell’antichità. Il racconto è tramandato da Dicearco, allievo di Aristotele, ma è ripreso poi anche da Diodoro Siculo, da Plinio, da Polibio e da Strabone. Dopo essersi lasciato alle spalle Gibilterra Pitea, che cercava di stabilire un contatto diretto con le aree bretoni di produzione dello stagno, costeggiò la Spagna e la Francia sino alla Manica. Di qui entrò nel Mare del Nord e risalì la costa orientale inglese, fino alle Orcadi; a questo punto era intenzionato a veleggiare ancora verso settentrione, alla ricerca della mitica Thule, ma dovette desistere per le condizioni climatiche. Più complicata è la ricostruzione del viaggio di ritorno. Secondo Diodoro dopo aver circumnavigato le isole britanniche rientrò nella Manica, imboccò il Reno e finì addirittura in Ucraina. Il che non è del tutto impossibile, postulando un trasporto via terra della nave dall’alto Reno all’alto Danubio, e di qui al mar Nero, con risalita del Don e rientro poi nel Mediterraneo attraverso i Dardanelli: ma è senza dubbio altamente improbabile. Più verosimile è magari l’ipotesi di una penetrazione nell’Europa continentale per via fluviale partendo dal Baltico.

In questo caso, più ancora che in quello di Annone, siamo di fronte ad un viaggio in cui la curiosità esplorativa ha preso il sopravvento sopra ogni altra motivazione.

L’altra spinta determinante è naturalmente quella militare, e di viaggi a scopo di conquista è piena la storia greca. All’inizio del V secolo a.C. un esercito di mercenari greci al soldo di un satrapo persiano, Ciro, si inoltrò per più di 1500 miglia all’interno dell’Anatolia e della Persia. Dopo la morte in battaglia di Ciro e l’assassinio a tradimento dei comandanti ellenici i soldati elessero a loro guida un discepolo di Socrate, Senofonte. Il resoconto delle peripezie del ritorno che quest’ultimo fece nell’Anabasi costituisce un vero e proprio capolavoro della narrativa di viaggio, e fornisce lo schema (baldanzosa avanzata e tempestosa ritirata) destinato a ispirare un intero settore della letteratura successiva. Ma, al di là del valore letterario, l’Anabasi ci parla dell’esplorazione di oltre duemila miglia di territorio sino ad allora sconosciuto.

La spedizione più famosa rimane però quella di Alessandro Magno, che si spinse con un’avanzata protrattasi per dieci anni sino all’Indo, e dovette rinunciare ad andare oltre per un vero e proprio ammutinamento del suo esercito[6]. Mentre la vicenda di Senofonte e dei mercenari suoi compagni è in gran parte involontaria, in questo caso a prevalere è l’altro aspetto che ritroveremo nel raccontare l’espansionismo europeo, la sete di conquista¸ ma una grossa parte la gioca senza dubbio anche la curiosità. Nel corso dell’avanzata Alessandro affidò a diversi suoi generali, tra i quali Nearco, l’esplorazione parallela delle coste tra il Golfo Persico e l’Indo e la circumnavigazione della penisola araba. Ogni nuova terra conquistata veniva cartografata, sia pure alla maniera rudimentale dell’epoca, e ne venivano rilevate le principali caratteristiche orografiche e idrografiche, a fini militari, ma anche per organizzare le comunicazioni. Alessandro voleva arrivare alla conoscenza più completa delle terre conquistate perché aveva capito, molto più dei sovrani orientali suoi contemporanei e avversari, che la conoscenza è già di per sé una forma di dominio.

E tuttavia, come si è anticipato sopra, abbondano anche le sfide pure e semplici all’ignoto. La storia più accidentata è quella di Eudosso di Cizico, greco della Ionia, esperto navigatore delle rotte arabo-indiane, che attorno alla metà del II secolo a.C. riprese il disegno cartaginese di circumnavigare l’Africa da occidente ad oriente. Secondo Strabone durante il ritorno da un viaggio in India era stato sbattuto sulla costa africana ad una latitudine molto bassa, e lì aveva trovato i resti di una imbarcazione chiaramente riconoscibile come punica, che gli indigeni affermavano essere arrivata da occidente. Da quel momento si dedicò testardamente a tentare di ripetere l’impresa, e dopo un primo fallimento, causato dall’ammutinamento dell’equipaggio all’altezza delle coste del Marocco, ma compensato da un probabile approdo a Madera, riprovò, solo per sparire definitivamente nell’oceano. La determinazione che lo spingeva verso sud aveva senz’altro a che vedere, come anche per i cartaginesi, con la volontà di evitare gli intermediari arabi ed egiziani e commerciare direttamente con l’India: ma strada facendo, com’era accaduto per Annone e per Pitea prima di lui, la meta era divenuta più importante del fine, e quest’ultimo si era ridotto a puro pretesto.

La curiosità pura è invece sin dall’inizio il motore di una vicenda narrata dal solito Erodoto, che ha un peso del tutto marginale nella storia delle esplorazioni, ma che la dice lunga sulle motivazioni che possono spingere gli uomini ad affrontare l’ignoto e sulla loro sete di conoscenza. Lo storico racconta[7] che tra la fine del VI e la prima metà del V secolo cinque giovani Nasamoni (popolazione stanziata sulle coste della Cirenaica), scelti a sorte, furono inviati in esplorazione al di là del deserto. Lo scopo era esattamente questo: andare a vedere cosa ci fosse. Una volta attraversato il deserto i cinque erano stati catturati da uomini di pelle nera e di bassa statura, che attraverso un interminabile intrico di paludi li avevano condotti ad una loro città. Con ogni probabilità i giovani Nasamoni arrivarono sino al lago Ciad, che all’epoca si estendeva su una superfice dieci volte più ampia di quella attuale, o forse addirittura sulle sponde del Niger. Non sappiamo se tutti e cinque abbiano fatto ritorno, ma qualcuno di loro è senza dubbio tornato, dal momento che la sua storia è arrivata sino ad Erodoto. E non c’è ragione di dubitare della veridicità del racconto: i pur vaghi indizi geografici consentono di ricostruire una traversata del Sahara lungo un percorso da nord-est a sud-ovest, che conduce appunto sulle sponde del lago Ciad.

Quella dei giovani Nasamoni è una vicenda significativa. Come si è visto, altri avevano già attraversato il deserto o si accingevano a farlo, ma sempre con motivazioni economiche o militari. In questo caso Erodoto parla addirittura di “stravaganze” di nobili rampolli di famiglie altolocate, che intraprendono la traversata per una sorta di scommessa. I giovani non sono inviati dal sovrano, ma “dai loro coetanei”: oggi si direbbe che sono mossi da spirito sportivo. Sembra di sentir raccontare di una sfida nata in un club vittoriano, un’anticipazione delle storie raccontate da Verne (e basate peraltro anch’esse su fatti reali).

Erodoto stesso, d’altronde, incarna questo spirito. Anche se all’origine dei suoi spostamenti ci sono motivazioni politiche (deve lasciare Alicarnasso perché oppositore del tiranno Ligdami) e anche se molti storici dubitano che abbia realmente visitato la gran parte dei paesi da lui descritti (del resto, lui stesso precisa che molte delle cose narrate le ha apprese di seconda mano)[8], rimane il fatto che quella della conoscenza geografica, o meglio ancora la conoscenza tout court, divenne col tempo la molla unica dei suoi vagabondaggi, che lo portarono dall’Asia minore all’Africa e alle terre degli Sciti. E in questa conoscenza rientrava proprio tutto, dalle vicende storiche ai costumi dei popoli, dalle religioni alle piante e agli animali straordinari, dalle tecniche ai presagi e ai prodigi. Un enciclopedico che non si accontentava di lavorare a tavolino, ma voleva vedere coi propri occhi tutto il possibile: il che ci fa tornare alle motivazioni che spingevano i filosofi e legislatori suoi connazionali.

Dopo la conquista dell’Egitto e la fondazione dell’impero anche nei romani, tutt’altro che inclini per formazione e tradizione ad inseguire fantasticherie, si risvegliò un certo interesse per le esplorazioni. Essi arrivarono, attraverso il Sahara occidentale, sino al Niger, e si spinsero alla confluenza del Nilo Bianco col Nilo Azzurro. Seneca e Plinio furono testimoni diretti di una spedizione esplorativa, voluta da Nerone, che portò due ufficiali sino alla zona dei grandi laghi e delle “montagne d’argento”: il che induce a credere che le sorgenti del Nilo fossero siano state individuate dagli occidentali milleottocento anni prima di Spike.

Nel loro caso lo spirito sportivo c’entra poco: si trattava di spedizioni militari, mirate a riconoscere i confini naturali del loro dominio e a prevenire eventuali pericoli dall’esterno. Lo stesso discorso vale per le spedizioni marittime al nord (quella promossa da Augusto nel 5 d.c, che toccò le coste meridionali della Svezia, e quella voluta da Agricola nell’85 d.C., che circumnavigò le isole britanniche – per la prima volta, dice Tacito, dimostrando di non essere a conoscenza del viaggio di Pitea – e arrivò in vista di una non meglio identificata Thule). Erano ricognizioni mirate ad un servizio di informazioni e di sicurezza, preparatorie di campagne militari o semplicemente di missioni commerciali. E tuttavia, l’esistenza stessa dell’impero, la sua enorme estensione finì per rendere accessibili luoghi che erano rimasti nel desiderio e nel mito per tutta l’antichità, o il cui ricordo era stato perso (oppure non erano mai stati resi noti, per la segretezza che copriva ad esempio gli itinerari commerciali dei Cartaginesi).

Anche un mercante greco di nome Diogene, secondo quanto riporta Tolomeo, toccò verso la fine del primo secolo d.C. i Monti della Luna e le sorgenti del Nilo. Ci arrivò quasi per caso, sbattuto da una tempesta sulle coste somale mentre stava veleggiando verso l’India, in un percorso dal mar Rosso alla penisola del Deccan che era diventato ormai abituale. Dalla costa un esercito romano guidato da Elio Gallo attraversò invece i deserti del Negged e dell’Asir, penetrando nello Yemen (e uscendone poi velocemente, prima di essere annientato), mentre Cornelio Balbo ripeté nel 20 a.C. l’impresa dei cinque Nasamoni, raggiungendo l’ansa del Niger dopo essere partito da Tripoli con un piccolo corpo di spedizione, aver sconfitto Numidi e Garamanti e avere attraversato diagonalmente il Sahara. Nel 42 d.C., Svetonio Paolino, sempre nell’ambito di un’azione militare, compì la traversata lungo la diagonale opposta, valicando la catena dell’Atlante e raggiungendo il paese degli Etiopi. Tolomeo attesta persino che un certo Giulio Materno, unitosi ai Garamanti in una spedizione punitiva, sia arrivato in quattro mesi alla terra dei rinoceronti.

Con la riscoperta del regime dei monsoni (che era già stato intuito da Eudosso) da parte del (mitico?) nocchiero Ippalo[9], le rotte per l’India si erano moltiplicate e erano diventate talmente agevoli da ospitare un traffico da e per l’Egitto di centinaia di navi l’anno, valutato da Plinio nell’ordine di centomila sesterzi (con un saldo commerciale negativo per gli occidentali, che acquistavano molte più merci di quante ne scambiassero)[10]. L’amministrazione imperiale romana giunse a distaccare nei porti del mar Rosso (ma forse anche in quelli dell’Oceano indiano) dei funzionari preposti all’esazione di imposte sui traffici. Lo stesso Plinio racconta che all’epoca di Augusto il liberto di uno di costoro, Annio Plocamo, approdato fortunosamente sulle coste di Ceylon (ma la descrizione che ne dà il naturalista si attaglia meglio a Sumatra), raccontò tali mirabilie dell’impero ai governanti locali da indurli ad inviare quattro ambasciatori a Roma (attorno al 20 a.C.): ed egli stesso è testimone di un’ambasceria del re di Ceylon giunta a Roma nel 50 d.C., attraverso la quale ricava notizie non solo dell’India, ma anche delle terre che stanno al di là della catena himalayana: “Essi narrano che al di là delle montagne Emodiche abitano i Seri, con i quali sono in rapporti dio commercio.” Tra l’altro questi Seri “sono un popolo di notevole statura, di capelli biondi, occhi azzurri e una voce assai roca […]”: descrizione che darà luogo in seguito ai più disparati travisamenti, sino a costituire negli ultimi due secoli uno degli elementi fondanti del mito della razza ariana.

È ancora Tolomeo invece a raccontare del viaggio del mercante greco Alessandro, che dalla costa del Coromandel si inoltrò nell’oceano indiano sino a costeggiare Sumatra, risalire lungo il Borneo e le Filippine, toccare Taiwan e approdare infine in Cina.

Tentativi di allacciare rapporti con quest’ultima, soprattutto per aprire una “via della seta”, vennero fatti anche via terra. A cavallo tra il primo e il secondo secolo un ricco mercante macedone, Mäes Titianos, cercò di forzare il blocco dei Parti, determinati ad impedire ogni contatto diretto tra le due superpotenze, che avrebbe tolto loro i cespiti dell’intermediazione, inviando alcuni suoi emissari lungo percorsi diversi. Nel secondo e nel terzo secolo i tentativi si moltiplicarono, assumendo anche forma di ambascerie ufficiali; ma di queste ultime fanno menzione solo le fonti cinesi, ciò che induce a sospettare un millantato credito da parte di mercanti intraprendenti e spregiudicati.

A proposito di millantatori va citato, se non altro come nota di colore, un singolare personaggio, Claudio Nebridio. Ancora un greco. Di lui si sa pochissimo, rimangono solo pochi cenni in autori del tardo periodo imperiale e del medioevo. Ma da questi cenni viene fuori una vicenda che, se fosse confermata, ne farebbe il più grande viaggiatore dell’antichità. Nebridio ha infatti raccontato in una cinquantina di opere, nessuna delle quali ci è giunta, una vita di viaggi straordinari, che lo avrebbero portato nella seconda metà del IV secolo prima in Cina, in Mongolia e in Indonesia, poi al centro dell’Africa e infine nelle terre dei Vichinghi, sino all’Islanda. La convinzione degli studiosi è che nella maggior parte dei casi Nebridio abbia ripreso e rimpinguato con la sua fantasia resoconti altrui: ma rimane il fatto di un interesse e di uno spirito che sembrano in contrasto con l’atteggiamento timoroso e chiuso degli occidentali nel periodo del tardo impero. Quanto all’immaginazione, riempie con essa i vuoti di conoscenza, secondo una tradizione ben collaudata, già operante in Erodoto e paradossalmente sempre più sviluppata nell’età romana: non fa altro insomma che aprire la strada al prevalere della fantasia nel Medioevo.

Merita infine un cenno un’altra forma di viaggio e di contatto con l’oriente: quella delle migrazioni forzate. Mentre sui viaggi di Nebridio i dubbi sono più che giustificati, appare invece certa a partire dai primi secoli della nuova era la presenza di cospicue colonie ebraiche non solo nel Medio Oriente e in India, ma anche all’interno della Cina. Queste colonie si erano andate formando in seguito alla diaspora del 70 d.C., quando dopo la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito l’intera popolazione ebraica di Palestina era stata ridotta in schiavitù o aveva dovuto forzatamente migrare. Una forte presenza ebraica in territorio cinese è testimoniata dal mercante andaluso Soliman, a metà del IX secolo, e sarà successivamente confermata da Marco Polo e da Ibn Batuta, oltre che dagli annali cinesi della dinastia Yuan. Gli ebrei erano stati accolti benevolmente dalla dinastia Han , che stava cercando da tempo di operare un’apertura verso i mercati e le culture occidentali, e ripagarono ampiamente la fiducia. Sul ruolo da essi assunto nella tessitura dei rapporti tra est e ovest, e quindi implicitamente nella circolazione delle conoscenze, è significativo quanto scrive nell’880 il geografo arabo Ibn Khordabeh, nel “Libro delle strade e dei paesi”: “I mercanti giudei parlano persiano, greco, arabo, franco, spagnolo e slavo. Da Oriente essi si spingono in occidente, e da Occidente tornano in Oriente, a volte per terra, a volte per mare. Dall’Europa trasportano eunuchi, schiave, ragazzi, pellicce, dall’Oriente seta ed armi. Dal mare occidentale sulla terra dei Franchi essi veleggiano alla volta di Farama (alla foce del Nilo). Di qui trasportano le loro merci a dorso d’animale verso Colzom (vicino a Suez) Quindi si imbarcano sul mare orientale e da Colzom veleggiano alla volta dell’Heggiaz e di Gedda, da dove si spingono verso Sind (regione dell’Indo) e verso l’India e la Cina “.

Allo stesso modo, dopo il concilio di Efeso e il bando comminato a Nestorio, i seguaci di quest’ultimo si sparsero rapidamente non solo per tutta l’Asia Minore, ma anche in quella centrale, arrivando sino all’India. Molto più tardi, nel IX secolo, si diffuse in Europa la leggenda di una evangelizzazione in terra indiana ad opera di san Tommaso, ma la presenza di forti comunità nestoriane nel Deccan era già testimoniata agli inizi del VI secolo[11]. Inoltre, una stele bilingue, sul tipo di quella di Rosetta, incisa con caratteri cinesi e siriani e databile attorno al 720 d.C.[12], racconta di un vescovo che avrebbe introdotto la religione “cristiana” (chiaramente nella versione nestoriana) in Cina centocinquant’anni prima, quindi attorno alla metà del VI secolo.

Al pari degli Ebrei i nestoriani mantennero vivi, almeno per un certo periodo, i contatti tra le varie colonie, e segnatamente con quelle del vicino oriente: attraverso questi contatti continuarono a circolare informazioni che in molti casi andavano ad alimentare le vecchie leggende o a crearne di nuove, ma che senz’altro, almeno negli ambienti dei mercanti, furono preziose per mantenere vivo un minimo di reciproca conoscenza geografica anche nel periodo del collasso occidentale.

Questo ci riporta a chiederci: fino a che punto tutti questi spostamenti si traducevano però in conoscenza diffusa? E quale immagine della terra ci hanno trasmesso in definitiva gli antichi?

I primi a tentare una collocazione di quest’ultima rispetto agli altri corpi celesti furono gli egizi, e con essi i sumeri e i babilonesi: le loro rilevazioni erano già sorprendentemente precise, ma si basavano sul presupposto che la terra fosse una sorta di disco piatto, circondato ai bordi dall’oceano e sovrastato da una sorta di cupola stellata. Nel mondo greco invece, almeno a partire dal VI secolo a.C. e dai naturalisti ionici, era già acquisita la sfericità della terra. Anassimandro ipotizzava un globo posto esattamente al centro dell’universo, che si reggeva per l’azione uguale e contraria di forze centripete convergenti. Tentò anche di condensare questa sua intuizione in una rappresentazione cartografica, che può essere considerata la prima mappa del mondo. In essa la terra era però ancora rappresentata alla maniera babilonese, su una superficie piatta e circolare, divisa a metà dal Mediterraneo in Europa e Asia. La sua carta venne aggiornata e migliorata nel secolo successivo dal milesio Ecateo, mentre qualche tempo dopo Dicearco di Messina introdusse quale punto di riferimento per la localizzazione un diaframma, ovvero una linea più o meno corrispondente all’attuale equatore.

Anche Pitagora affermava che la terra è una sfera piazzata al centro dell’universo, attorno alla quale ruotano tutti i corpi celesti: teoria poi ripresa e confermata da Aristotele. Il culmine della conoscenza cosmologica antica fu comunque toccato da Aristarco di Samo, che agli inizi del III secolo a.C. poneva questa sfera in un’orbita attorno al sole, anticipando Copernico di diciotto secoli. Cent’anni dopo Eratostene ne misurò anche la circonferenza, arrivando ad un risultato sorprendentemente vicino a quello esatto, e ne offrì una rappresentazione sulla quale si basarono tutti i geografi successivi. La sua mappa dell’ecumene andava dall’Atlantico al Gange e dal mare del Nord all’Etiopia (con questo nome si definiva tutta l’Africa). Furono però il greco Marino di Tiro[13] e l’alessandrino Claudio Tolomeo, nel II secolo d.C., a fissare al ribasso le conoscenze geografiche per i millequattrocento anni successivi; il primo disegnando una carta di tutto il mondo conosciuto, nella quale le coordinate geografiche erano calcolate per la prima volta in gradi, ma l’estensione della terra abitata da ovest a est era valutata in 225°, quasi il doppio della misura reale: il secondo accettando nella sua Introduzione alla Geografia una stima del diametro della terra di un terzo inferiore alla misura reale, e considerando gli oceani come mari chiusi (il che escludeva ogni possibilità di circumnavigazione dei continenti), con una estensione totale delle acque molto minore rispetto a quella della terraferma. La rappresentazione di Tolomeo è l’unica che ci sia pervenuta, o meglio, l’unica che sia stato possibile ricostruire sulla scorta dei dati e delle posizioni indicate negli scritti, e fu riscoperta solo agli inizi del Quattrocento, contribuendo, malgrado tutto, a rilanciare gli studi geografici e rimanendo sin quasi alla fine del XVI secolo il modello di riferimento più diffuso e conosciuto. Il merito di Tolomeo fu infatti quello di aver immaginato delle linee (i meridiani e i paralleli) che consentivano di determinare le coordinate geografiche, e di avere in pratica dettato una metodologia per una disciplina che veniva interpretata prima di lui in termini solo empirici.

In sostanza, dall’opera di Tolomeo, ma anche da quelle di Strabone, di Pomponio Mela e di Plinio risultano conosciute all’occidente classico le coste atlantiche dal Marocco alle isole Orcadi, quelle dell’Africa orientale dal mar Rosso alla Somalia, quelle asiatiche, sia pure in maniera molto approssimativa, sino alla penisola di Malacca. A nord erano note le coste del Baltico e la parte meridionale della penisola scandinava, mentre verso est, una volta usciti dalle pianure della Russia centrale, procedendo oltre il Mar Caspio sino ai confini della Cina e della Mongolia, le conoscenze lasciavano progressivamente spazio alle più stravaganti e paurose fantasie[14]. E tuttavia, anche queste fantasie avevano in genere un remoto fondamento, o erano la residua testimonianza di remoti contatti. Quando ad esempio Plinio parla dei deserti della Siberia, dove vivono gli Arimaspi, uomini con un solo occhio in mezzo alla fronte, costantemente in lotta contri i grifoni, ibridi dal corpo di leone e con la testa d’aquila, si basa su un frammento di soli sei versi di Aristeo di Proconero, che sono comunque la testimonianza di un antichissimo rapporto commerciale esistente tra la zona del mar Nero e l’estremo nord orientale. Tanto gli Arimaspi quanto i grifoni, a loro volta, è probabile siano stati partoriti dal ritrovamento di scheletri di mastodonti restituiti dai ghiacci alla fine dell’ultima era glaciale, in una fase di riscaldamento del territorio.

Era un mondo eurocentrico e totalmente autoreferenziale, com’è normale che fosse e come d’altronde accadeva per le contemporanee civiltà indiana e cinese. In una rappresentazione indiana della terra databile ai primi secoli della nuova era al centro stanno il monte Meru, la montagna sacra dell’induismo, e l’Himalaya, e di qui si dipartono i grandi fiumi che dividono quattro continenti: l’Europa, situata a margine del quadrante nord-occidentale, non è assolutamente riconoscibile dai contorni, e la si intuisce solo vagamente attraverso la decifrazione dei simboli e dei nomi.

Un’analoga insignificanza veniva riservata al nostro continente dai cartografi cinesi, almeno nel periodo corrispondente al nostro medioevo. In una mappa dell’XI secolo, ruotante naturalmente attorno alle terre del celeste impero, all’Europa non si fa neppure cenno. E questo malgrado l’interscambio commerciale instaurato con Roma (e decisamente passivo per quest’ultima) già prima dell’età imperiale, sia pure sempre attraverso l’intermediazione delle popolazioni mediorientali. Ancora nei planisferi disegnati nel ‘600 dai gesuiti per la corte imperiale il rilievo dato all’ecumene cristiano rimane minimo, in omaggio ad un sinocentrismo non meno radicato di quello europeo.[15]

Eppure, come abbiamo già visto, lo sforzo di conoscenza geografica prodotto dagli imperatori delle dinastie che si succedettero dal II secolo a.C. al XVI d.C., dagli Han ai T’ang, dai Sung ai Ming, rimase pressoché invariato, e non conobbe il lungo periodo di stasi che caratterizzò invece l’occidente. Proprio l’esportazione della seta, verso Roma prima e verso il mondo bizantino e quello arabo poi, avevano indotto precoci spedizioni esplorative per individuare le linee di traffico più sicure e più veloci (quella che diverrà la “via della seta”). Già nel 138 a.C. Chang Chien, un incaricato dell’imperatore, aveva esplorato il percorso che aggirando a nord il Takla Makan e il Pamir conduce a Peshawar, e di lì al golfo persico. Altri dopo di lui avevano aperto la via settentrionale che passa per Samarcanda e che divenne successivamente quella principale. Da una parte e dall’altra erano anche state inviate ambascerie ufficiali, ma nessuna aveva mai raggiunto la meta, per l’ostilità dei Parti e degli Unni, che controllavano il tratto mediano degli itinerari via terra e che per motivi sia commerciali che militari non vedevano di buon occhio l’apertura di contatti diretti tra le due potenze. Da queste spedizioni i cinesi avevano quindi riportato, per quanto concerneva l’Europa mediterranea, solo conoscenze di seconda mano, ma sufficienti a consentire loro, in una Storia della dinastia Han posteriore ricostruita nel IV secolo d. c. sui documenti originali degli archivi di corte, di fornire una minuziosa descrizione di Ta T’sin, come veniva indicato l’impero romano.

La tradizione dei viaggi commissionati dall’imperatore era peraltro proseguita sino agli inizi dell’epoca moderna, quando alla dinastia Ming era subentrato il partito confuciano, più chiuso nei confronti dell’esterno, ma le direttrici erano cambiate e le aree di interesse si erano ristrette all’Asia centrale o a quella peninsulare. L’esplorazione cinese del mondo aveva trovato il suo apice nelle spedizioni navali dell’ammiraglio Cheng Ho, che avevano consentito nella prima metà del XV secolo una ricognizione completa e minuziosa delle coste dell’Oceano indiano, del golfo persico e dell’arcipelago della Sonda[16]. A quella delle spedizioni ufficiali si affiancò una consuetudine di viaggi religiosi o filosofici, indotti dalla diffusione in Cina del buddismo, a partire dal I secolo d.C. Il più grande viaggiatore cinese dell’antichità è proprio un monaco buddista, Hsuan Tsang, che a partire dal 620 d.C. peregrinò per sedici anni verso occidente prima, fino a Samarcanda e Taskent, poi nelle vallate afgane e pakistane e infine nella penisola indiana, arrivando sino a Ceylon, alla ricerca delle fonti originarie della sua religione.

Quando i Polo si presentarono alla corte da Qubilai Khan, pertanto, i cinesi non erano del tutto digiuni di conoscenze rispetto all’occidente, ma disponevano di informazioni vaghe e ormai obsolete, né più né meno come quelle occidentali relative alla Cina. La prolungata decadenza economica e politica dell’Europa e i continui rivolgimenti della zona centrale asiatica avevano da tempo interrotto i flussi commerciali e i rapporti culturali, e spostata l’attenzione delle ultime dinastie verso altre aree.

Il distacco e la reciproca ignoranza tra Cina ed Europa andarono quindi aumentando almeno fino alla seconda metà del XIII secolo: la curiosità greco-romana venne ereditata e sviluppata in questo periodo da altri popoli, segnatamente dagli Arabi, oppure rivolta dalle popolazioni emergenti, come quelle vichinghe, in direzione dell’Atlantico. Occorreva attendere Marco Polo e i fratelli Vivaldi per veder riemergere la tentazione più antica e profonda dell’Occidente.

 

Viaggiatori dell’età di mezzo

Popoli e reami immaginari …

Dal momento in cui ha inizio la lunga agonia dell’impero romano fino all’XI secolo l’Europa “cristiana” o “post-latina” non è più protagonista nei rapporti con l’esterno. Per sette secoli subisce pressioni congiunte che arrivano da sud, da est e da nord, mentre ad ovest l’Atlantico, nella sua ampiezza e violenza, non è agibile con le competenze nautiche e con i mezzi dell’epoca.

La perdita dell’iniziativa non è dovuta solo a cause esterne; dall’interno agiscono un frazionamento politico capillare, una depressione economica che dimezza le produzioni, riducendo al minimo gli scambi, ed una profonda crisi demografica. Vengono quindi meno le spinte naturali per l’espansione e l’interesse geografico che le accompagna, e la scienza geografica dell’alto medioevo europeo conosce non soltanto un arresto, ma addirittura un regresso. Ci si dimentica dell’esistenza di località che erano perfettamente note al mondo classico, o al più il loro ricordo si perpetua al di fuori di una ubicazione precisa e assume connotazioni fantastiche. È il caso, ad esempio, di Madeira, delle Azzorre e delle Canarie, che scompaiono dalla memoria geografica per quasi un millennio per essere poi riscoperte solo nel XIV secolo, ma la cui presenza permane nell’immaginario mitologico attraverso l’identificazione con le romane “isole della Fortuna”.

Tanto gli apporti della geografia araba quanto le intraprese nautiche dei popoli del nord non hanno ricadute significative nelle conoscenze geografiche europee. Solo dopo il mille, quando la pressione esterna si allenta, i nuovi rapporti militari e commerciali indotti dalle Crociate fanno conoscere con una certa precisione le aree più prossime, e permettono alla fantasia ed all’interesse di spingersi oltre.

Il mito di un oriente favoloso viene rilanciato anche dal recupero di opere della tarda latinità, che spesso tornano a far parte del patrimonio della cultura occidentale in versioni largamente contaminate, dopo aver conosciuta in Asia una diffusione ininterrotta. È il caso ad esempio dei “romanzi” su Alessandro Magno, la cui fonte più prossima pare essere un romanzo ellenistico del IV secolo, attribuito allo Pseudo-Callistene, ritradotto nel IX secolo dal persiano in greco e volto poi nel X in latino. Nella sua circolazione asiatica il romanzo si è arricchito di figure mitologiche e di eventi prodigiosi mutuati da altre tradizioni, tanto da perdere ogni contatto con una realtà storica spazialmente e temporalmente definita e da trasformarsi poco alla volta in un eccezionale repertorio della favolistica alto-medievale. La fonte della giovinezza, l’albero secco del sole e della luna, i popoli mostruosi dei pigmei e dei giganti, sono tutti elementi avvertiti come perfettamente consoni ad una vicenda che ormai ha assunto i connotati del mito, lontana com’è nel tempo e dalle potenzialità dell’epoca.

Naturalmente il fatto che opere come questa conoscano una nuova fortuna non comporta un’automatica inversione di tendenza: si rinnova l’interesse per l’oriente, ma la sua effettiva conoscenza non ne trae alcun beneficio. In linea di massima a fino al XIII secolo l’Europa non sembra particolarmente curiosa nei confronti dei “diversi”. Lo testimoniano i resoconti degli storici delle crociate, che riservano una notevole attenzione alle vicende belliche ma non lasciano trapelare alcuna curiosità geografica ed etnologica. È molto significativa al riguardo anche un’annotazione di Brunetto Latini nel Tresor, dove si racconta di scambi commerciali tra i mercanti dei due mondi caratterizzati dal più assoluto mutismo: quasi che l’una e l’altra parte intendessero difendere, al di là dell’operazione mercantile, la propria identità culturale.

Di fatto dunque fino a tutto il XII secolo non c’è una crescita né qualitativa né quantitativa del sapere geografico occidentale. Nell’XI secolo il Baltico stesso è ancora pieno di incognite, se Adamo di Brema[17] può parlare dell’Estonia e della Curlandia come di due isole. Le grandi opere di sintesi geografica dei secoli XII e XIII, anteriori ai viaggi asiatici, offrono un panorama estremamente ristretto, desunto nella quasi totalità dai classici (Plinio, Pomponio Mela, Strabone, nella riduzione enciclopedica operata da Isidoro di Siviglia). In esse non è ancora confluita la somma dei nuovi dati acquisiti da mercanti e missionari. Nel Mappamondo di Pierre de Beauvais (datato al 1217-18) alla divisione del mondo nei classici tre continenti si accompagna la localizzazione nord-occidentale di un’enorme distesa ghiacciata, un “mare concreto” tale da precludere ogni ulteriore navigazione: eppure da almeno tre secoli i vichinghi avanzavano verso ponente, incontrando sulla loro rotta monasteri di missionari irlandesi che risalivano al VI o al VII secolo.

L’Imago Mundi (1240 circa) offre uno spaccato perfetto di quello che a metà del XIII secolo è lo stato ufficiale delle conoscenze geografiche. La forma della terra è rotonda, all’insegna della perfezione divina, ma non è possibile la circumnavigazione per l’esistenza di ostacoli della natura più svariata. Solo un quarto del globo è abitato, nella parte appunto corrispondente ad Europa, Asia ed Africa. Al di là dell’Asia, nel vero e proprio oriente, è situato il paradiso terrestre, da cui si dipartono i quattro grandi fiumi delle civiltà: il Gange, il Nilo, il Tigri e l’Eufrate. Una cortina di fiamme lo rende inaccessibile e le zone più prossime sono inabitabili per la presenza di belve feroci e rettili velenosi. La più lontana terra abitata è l’India, con due estati e due inverni annuali, terra dell’oro e delle pietre preziose, dei draghi e dei grifoni, dei pigmei che vivono solo sette anni e dei bramini che si gettano tra le fiamme. A nord dell’India, in una regione aspra e selvaggia, sono confinati i popoli di Gog e Magog, che praticano il cannibalismo e sono stati chiusi entro invalicabili montagne da Alessandro Magno; non molto lontano risiede il popolo delle feroci Amazzoni.

In questa descrizione l’India non costituisce un’entità geografica: non ha confini definiti e sembra arrivare a comprendere ogni regione asiatica sino all’Egitto. È piuttosto una localizzazione fantastica del pensiero, in cui vanno a concretizzarsi le più immaginifiche invenzioni e ibridazioni di animali e di piante (le sirene, i cinocefali, i ciclopi …). Avanzando verso ovest i riferimenti diventano gradualmente più precisi, anche se sopravvive il repertorio prodigioso di origine biblica o mitologica (la torre di Babele in Caldea); curiosamente però l’Italia e la Spagna vengono comprese nell’Africa, mentre all’Europa vengono attribuite le zone a nord delle Alpi e dei Pirenei. La fantasia e il mito tornano poi a prevalere nella descrizione delle isole e delle terre dell’Atlantico, tra le quali l’Atlantide di platonica memoria, l’isola Perduta scoperta da san Brandano e la mitica Thule dalla vegetazione lussureggiante.

L’Imago Mundi è una sorta di manualetto divulgativo, ma proprio per questo riflette una immagine del mondo diffusa almeno ai livelli medi di istruzione (è presumibile che tra i villici, che erano la stragrande maggioranza, l’interesse non andasse oltre la cresta dei rilievi più vicini). D’altra parte nessuna delle opere geografiche o comunque scientifiche coeve (oltre ai trattati geografici, i lapidari, i bestiari, fino al Tresor di Brunetto Latini) appare meglio informata e più attendibile; il che significa che non esiste un sapere scientifico specialistico contrapposto ad una cosmologia fantastica popolare. La differenziazione significativa dei livelli è posteriore, senz’altro successiva all’età dei grandi viaggi commerciali e religiosi nell’Asia. Fino ad allora, in assenza di conoscenze geografiche scientificamente o empiricamente fondate, tutti possono continuare a favoleggiare di mondi ignoti e misteriosi, colmi di meraviglie e di pericoli.

Il favoloso nasce dalla non conoscenza, ma concorrono poi a svilupparlo atteggiamenti e fattori diversi. C’è prima di tutto la naturale “enfatizzazione” che va messa in conto quando le informazioni sono fortemente mediate. In questo caso sono quasi sempre attinte a fonti arabe o nordiche, o comunque non europee, anch’esse in genere di seconda mano. Nel passaggio alla versione europea agisce, al di là dei travisamenti linguistici e della difficoltà di trasporre concetti e schemi mentali non consueti, una più o meno inconscia selezione, che privilegia proprio gli aspetti di “diversità” e di “abnormità”. I dati e le differenze vengono ingigantiti ad ogni rielaborazione successiva, proporzionalmente alle distanze e in funzione da ultimo della sensibilità e delle aspettative del mondo occidentale. Si arriva in questo modo a leggere come eccezionali realtà culturali che alla fonte erano sembrate perfettamente rispondenti all’ambiente naturale e sociale, e che lungo il percorso hanno assunto i connotati del fantastico e del mostruoso.

Spesso si instaura anche una sorta di transfert dettato dalla primordiale spinta alla sopravvivenza e alla speranza, che va ad alimentare le più piacevoli fantasticherie: la quotidianità della miseria, della fame, della fatica, dei soprusi, dell’angoscia, viene ribaltata in negativo in questa dimensione fantastica, che promette l’eliminazione del bisogno e della paura, l’abbondanza e la libertà dal lavoro. Nascono così delle utopie geografiche che sono la trasposizione secolare del grande fermento ereticale del basso Medioevo. Persino quando insiste sul mostruoso la fabulazione finisce per rivestire una funzione esorcistica e consolatoria: l’idea che esistano regni della sofferenza e del terrore, quando sono remoti e nebulosi, fa da contrappeso ad una situazione di perenne tensione forse più di quanto non contribuisca ad alimentarla.

La tipologia dei luoghi fantastici è poi estremamente varia. Dipende dalle motivazioni che inducono a immaginarli, dalle matrici culturali che hanno alle spalle e dall’humus in cui vengono trapiantate, dalla diversa disposizione del secolo e, in qualche modo, anche dal fatto che siano localizzati in oriente o in occidente.

Quando la tendenza demografica si inverte, alimentando la crescita di classi intermedie (cavalieri e mercanti) e conseguentemente la ricerca di più ampi spazi d’azione, le spinte a forzare l’ignoto, prima con la fantasia e poi concretamente, si moltiplicano. Dopo l’XI secolo, una volta che l’Europa ha superate le paure suscitate dall’impatto con arabi, ungari e vichinghi, i paesi immaginari rispondono a nuovi bisogni ed aspettative. Acquistano connotati ben più concreti e realistici, perdono il significato di una trascendenza paradisiaca o infernale e si trasformano in luoghi ricchi, civili, aperti all’iniziativa mercantile, straripanti di vitalità economica; e soprattutto sono là, subito dietro l’ostacolo dell’oceano o dei deserti, a portata di mano.

L’utopia fantastica, la via di fuga e l’aspettativa palingenetica tendono nel basso Medioevo ad essere localizzate sempre più ad occidente. Al mistero “orientale” è associata piuttosto la sfera dell’orrifico e del mostruoso: là il meraviglioso è strettamente connesso all’idea di pericolo, l’eteronomia si confonde con la degenerazione. Ciò che di positivo viene dal levante è di natura terrena (l’oro, i gioielli, le sete, gli animali esotici…), mentre quel che attiene al soprannaturale è emanazione demoniaca (il popolo di Gog e Magog, l’anticristo …); e quando anche non sia tale, è inaccessibile (il regno del prete Gianni).

L’ovest, invece, sulla traccia di una tradizione già invalsa nell’età classica (Atlantide, le isole Fortunate), sembra prestarsi ad una liberazione benefica della fantasia, e questo malgrado il tabù delle colonne d’Ercole venga recuperato nella mentalità cristiana, quasi a rappresentare concretamente l’idea dei limiti della conoscenza sensoriale. Mentre infatti da un lato l’oceano sembra racchiudere e proteggere la dimensione ultramondana, dall’altro la spinta alla ricerca e al contatto con una realtà soprannaturale impone di infrangere questi confini, di spingersi al largo lasciando alle spalle le miserie terrene. Il mito della rinascita morale e fisica, e di una “vita nuova”, connesso all’incognito occidentale, non verrà meno neppure quando alla ricerca dell’esperienza mistica si andranno gradualmente sostituendo le motivazioni profane. Troverà anzi una rinnovata vitalità dopo la scoperta del nuovo mondo, incanalando alla volta di quest’ultimo la diaspora europea dei sognatori e degli scontenti.

Esistono naturalmente le eccezioni, e il paradiso terrestre lo troviamo ancora localizzato sulle carte e raccontato nei testi un po’ in tutto globo, antipodi compresi. Ma la differenza d’attitudine rispetto ai due emisferi è evidente, ed ha una profonda motivazione culturale. Il mistero orientale è contaminato infatti dalle esperienze maturate in contatti millenari, anche se non continuativi, e questo in qualche modo imbriglia la fantasia più di quanto non la scateni, e ne disturba il libero corso. Nei confronti dell’ignoto asiatico continua in fondo a far testo l’eredità delle conoscenze geografiche classiche, che costituiscono la base anche delle più recenti fabulazioni di matrice cristiana. L’esperienza storica è poi tutt’altro che rassicurante. Le vicende successive alla caduta dell’impero romano non consentono all’uomo medievale di prospettarsi il bene in una direzione dalla quale non sono arrivati che guai.

La “diversità” del mare occidentale pone invece problemi d’altro ordine. In questo caso l’impenetrabilità non è dovuta a presenze ostili umane o animali, ma a fattori naturali (o soprannaturali), che al di là delle apparenze lasciano maggiore spazio alla lotta. All’uomo particolarmente ardito e intelligente, o particolarmente santo, è sufficiente per intraprendere questa direzione una eccezionale fiducia nelle proprie capacità, o in Dio: superare se stesso, vincere il vecchio uomo pieno di paure e di remore, è la condizione unica per toccare le sponde dell’isola della felicità.

Nella narrazione dei viaggi mitici, come quelli di san Brandano o di san Colombano, si fondono il modo di sentire dei Celti e quello dei cristiani, lo spirito celtico del meraviglioso e quello mistico dell’Europa medioevale. La meta soprannaturale di queste navigationes non è semplicemente quella prospettata dal cristianesimo primitivo. In essa elementi di remota origine germano-gaelica si permeano della spiritualità di ascendenza orientale. Si tratta senz’altro di un oltremondo: ma dal momento che i limiti di separazione dal mondo reale sono alquanto incerti, le zone di contatto tra l’uno e l’altro si moltiplicano. Le vecchie leggende celtiche si trasformano quindi in viaggi di ricerca del paradiso cristiano, di isole ove tutto è perfezione e felicità, nel senso religioso del termine: e il presupposto è che a compierli siano degli spiriti eletti.

La leggenda assegna al viaggio di San Brandano (487-578) una precisa motivazione religiosa. Il santo vuole visitare il luogo in cui, senza il tradimento di Adamo, tutti gli uomini avrebbero il diritto di risiedere: si sente in pratica defraudato dell’eredità primigenia dell’uomo. Rapportato all’epoca il suo desiderio non ha in realtà nulla di eccezionale e rientra in certo qual modo nell’uso della “peregrinatio pro amore Dei” diffuso dal monachesimo irlandese: invece che a portare conoscenza, l’abate di Clonfert va questa volta ad acquistarla. La sua peregrinazione in compagnia di quattordici confratelli dura sette anni, nel corso dei quali vengono toccate una serie di isole sconosciute, abitate da animali fantastici e popolate di santi o di demoni[18]. Dopo aver costeggiato anche l’Inferno la spedizione giunge sino all’Eden, paradiso delle delizie, vede la scala che dà accesso al cielo e riprende la via del ritorno. La narrazione si dispiega in un grande quadro allegorico, nel quale intervengono con frequenza simboli ormai codificati della tradizione biblica e cripto-cattolica. Tuttavia, la fusione di questi elementi con il patrimonio leggendario celtico da un lato e con la concreta esperienza maturata in un’attività itinerante dall’altro fa si che per tutto il medioevo si attribuisca alla leggenda il valore di realtà geografica, al punto che l’isola del “paradiso di delizia” è segnata sulle carte e viene persino venduta dai Portoghesi, che si sono affrettati a rivendicarne il possesso, al re di Spagna.

I viaggi di san Brandano, e allo stesso modo quelli di san Colombano, altro esploratore religioso del sovramondo atlantico, approdano comunque ad una dimensione che anche nei suoi connotati geografici terrestri rimane divina, inaccessibile a chi non possieda il crisma della santità. Soltanto dopo l’XI secolo, in un mondo che si va progressivamente desacralizzando, le localizzazioni fantastiche cominciano a privilegiare i caratteri “terreni” e concreti dell’ignoto, aprendo l’accesso a quest’ultimo con le semplici e umanissime armi della volontà e del coraggio. Pur rimanendo in un ambito altrettanto vago e indeterminato, le leggende successive, del prete Gianni, di Avalon, del Vinland, delle isole Fortunate, e mille altre ancora, avranno quindi un effetto ben diverso sulla psicologia e sulla mobilità dell’uomo medioevale.

Le crociate danno un enorme impulso ai rapporti tra oriente e occidente, ma ne cambiano anche la natura. Il confronto continua ad essere armato, ma a differenza di quanto avveniva in precedenza ora i contendenti giocano ad armi pari: e questa è la condizione perché l’incontro, o lo scontro, abbia luogo in un clima di reciproco rispetto. I contatti sono quindi espressione di una vitalità bilaterale, che investe anche la dimensione qualitativa degli scambi. Se infatti la ripresa espansionistica europea non tarda a far venire allo scoperto le sue motivazioni economiche, non va dimenticato che a indirizzare i passi e le speranze verso terre ignote e popolazioni ostili c’è anche un sentimento religioso profondamente rinnovato, che chiede una controffensiva missionaria e che si nutre, oltre che delle notizie di una riscossa in Terrasanta, della diffusione di voci e credenze sull’esistenza di comunità cristiane nell’estremo oriente.

Le notizie non sono del tutto prive di fondamento storico, perché in seguito all’avanzata mussulmana si era determinata una cospicua migrazione, soprattutto dalla Siria, di elementi e di gruppi cristiani di fede nestoriana. Costoro si erano spinti ad est, arrivando a disperdersi tra le popolazioni mongoliche, ma mantenendo viva una tradizione di riti e di credenze non scalfita dall’adattamento alla cultura indigena. I contatti col mondo occidentale erano venuti meno durante il periodo di massima espansione dell’Islam, ma con il riproporsi della presenza europea nel vicino oriente non tardano a riallacciarsi. Ed è nel loro ambito che nasce la leggenda di un favoloso regno all’altro capo del mondo, nel quale le prerogative mitiche e fantastiche, pur presenti, lasciano però ampio spazio all’idea di una reale e possibile localizzazione terrena.

Già nel 1122 un sacerdote indiano di fede nestoriana rende nota a papa Callisto II l’esistenza di un culto diffuso presso Madras, che fa riferimento alla presunta tomba dell’apostolo Tommaso. Ne1 1145 un vescovo siriano riaccende la speranza nei partecipanti alla seconda crociata annunciando che un re cristiano della stirpe dei Magi ha inflitto una pesante sconfitta ai mussulmani in Persia; questo gli permetterà di avanzare per soccorrere i regni cristiani di Terrasanta. Neppure la sequenza di insuccessi che porterà nel 1187 alla caduta di Gerusalemme farà venir meno l’aspettativa, perché nel frattempo queste nebulose indicazioni sembrano essere clamorosamente confermate. Nel 1165 viene infatti messo in circolazione un misterioso documento, che sotto la denominazione di “Lettera del prete Giovanni” è fatto pervenire alle massime autorità temporali e spirituali dell’epoca (papa Alessandro III, Federico Barbarossa, Manuele Comneno, ed altri ancora). Dietro la comparsa di questo documento ci sono in realtà motivazioni polemiche legate allo scontro tra papato e impero, farcite con le più suggestive rielaborazioni della mitologia animale e geografica medioevale. Non diversamente da quanto avviene in tutta la letteratura politica dell’epoca, anche nella dimensione utopica si fa spazio l’idea di una sovranità capace di riunire la duplice dignità, monarchica e sacerdotale, per assicurare il benessere e la tranquillità dei sudditi. Il titolo stesso che il sovrano si attribuisce, quello infimo di “prete”, sottintende un’umile coscienza della propria funzione, umiltà che non caratterizza di certo i “vicari” cui è rivolta la missiva.

Sull’origine del documento si possono soltanto formulare ipotesi, sulla base di una comparazione con la letteratura “scientifica” e sistematica del tempo. Su quella del nome si è tentata una spiegazione, collegando il “Joannes” del testo latino con il mongolo Wang (pron. Uàng), titolo nobiliare in uso a livelli di potere molto alti: in questo modo si arriverebbe a collegare la credenza con l’esistenza reale dei popoli (i Turchi Juguri) di fede nestoriana, che occupano posizioni di rilievo nell’orda tatara.

La lettera colpisce l’immaginazione del mondo cristiano: è una risposta perfetta alla dilagante curiosità per l’esotico, alla sete di novità e di meraviglie che caratterizza il risveglio europeo. Il regno descritto è una variante del paradiso terrestre e offre un eccezionale campionario di ricchezze e di presenze prodigiose. L’autore ha mescolato il meraviglioso con l’orrido, lo spettacolare col pauroso, spogliando animali e cose di ogni valenza che non sia quella fieristica. Ma al di là della pirotecnia e dell’enfasi favolistica, ciò che lascia il segno è soprattutto il clima diffuso di abbondanza, di fraternità, di protezione disinteressata. Al documento è prestata anche una attenzione ufficiale: Alessandro III detta nel 1177 una risposta, nella quale invita il “prete Gianni” a riconoscere l’autorità pontificia manifestando la propria sottomissione. In questo modo avvalla ufficialmente la credenza, così che quando nel 1229 Gengis Khan muoverà alla conquista dell’Asia occidentale si vorrà riconoscere in lui un figlio o discendente del misterioso sovrano. Salvo poi, non appena le orde tartare si affacceranno in Europa, fare i conti con la brutale realtà, che infligge un duro colpo al mito regno cristiano d’oriente. Poco alla volta, il tentativo di storicizzare la figura del prete Gianni finisce anche per spogliarla dei connotati più fantastici, e persino della primitiva positività. Come vedremo, nel 1248 due messaggeri mongoli provenienti dalla Persia giungono al campo di Luigi IX, impegnato nella crociata, per stringere accordi in vista di un attacco coordinato contro i mussulmani. Nel loro racconto il prete Gianni viene confondendosi con la figura storica di Togrul, potente sovrano tataro, il cui figlio si sarebbe dapprima alleato e poi contrapposto a Gengis Khan, fino ad uscirne sconfitto. Questa è la versione asiatica della leggenda, e in questi termini, o con leggere varianti, viene riportata dai primi viaggiatori occidentali in particolare da Guglielmo di Rubruck e da Marco Polo. A suggellare comunque la fine della localizzazione asiatica del mito abbiamo da ultimo l’investitura conferita da fra Giovanni da Montecorvino al re Giorgio degli Ongut, ritenuto l’ultimo discendente nestoriano del re Gianni: nella sua figura di secondaria importanza, e nella realtà di una potenza assai limitata, si dissolve una speranza che ha nutrito per secoli gli animi dell’occidente.

La presunta identificazione geografica e storica del regno non mette fine comunque alla sopravvivenza del mito. Una nuova versione inizia a circolare con sempre maggiore insistenza a partire dal XIV secolo. Rimane inalterato il gusto per il favoloso e l’esotico, ma l’aspettativa si trasferisce ad un altro continente: l’Africa. Anche in questo caso è possibile il riscontro con una realtà cristiana che perdura, in piena espansione islamica, nella regione etiopica, e della quale l’occidente medievale ha notizie alquanto nebulose. La fase africana del mito è senz’altro posteriore a quella asiatica, e con ogni probabilità nasce proprio col venir meno degli elementi che erano sottesi alla prima. Questa versione proietta infatti il regno in contrade più remote, attribuendogli un’esistenza conchiusa ed autonoma, del tutto estranea a un qualsivoglia interesse per i problemi dell’Europa cristiana. Ciò non toglie che siano frequenti i tentativi di identificazione del mitico paese anche in questa direzione. Giovanni Cataloni di Severac e Jean de Marignolle fanno riferimento, nel 1340, al termine Zan, indicante in etiopico la funzione sacerdotale e regale dell’imperatore, per spiegare l’etimologia di “prete Gianni”. Per tutta la seconda metà del XIV secolo, e fino al termine del XV, tutte le spedizioni navali e carovaniere verso e dentro l’Africa hanno tra gli altri scopi quello di cercare contatti con il favoloso regnante. Soprattutto i portoghesi prendono molto sul serio questo impegno: la loro attività marittima del penultimo decennio del ‘400, quella che li porta ad aprire la nuova via per le Indie con Vasco da Gama, è in gran parte motivata da questa ricerca. Nel 1484 la spedizione di Diego Cao, che risale per un lungo tratto il fiume Congo, reca notizie di un misterioso e potente sovrano, il re Ogane. A lui versano tributi tutte le popolazioni della baia del Benin e dell’interno, e nessuno lo ha mai potuto vedere. Sulla scorta di questo risveglio di interesse nel 1485 viene organizzata una spedizione, agli ordini di Alfonso di Payna e di Pedro di Covillac, con il preciso scopo di cercare contatti con il re Gianni, dirigendo la ricerca nella duplice direzione asiatica (nell’India, secondo le indicazioni di Giovanni da Pian del Carpine) e africana. Durante il viaggio che lo porta a doppiare il capo di Buona Speranza (1486) lo stesso Bartolomeo Diaz indaga insistentemente presso gli indigeni costieri, per trovare qualche riscontro.

La scoperta delle Americhe liquida ogni residuo interesse per il favoloso regno del Prete Gianni. All’occidente, affascinato dall’oro sudamericano e dalle fertili terre del nord, si aprono altri orizzonti ed altre speranze.

Il sogno si trasferisce, e si realizza, in occidente.

… ma anche viaggi e paesi reali

 

Nel trattare dell’immaginario geografico medioevale abbiamo visto come fantasie e miti, di nuovo conio o lasciti dell’antichità, si intreccino e si sovrappongano a straordinarie e concrete esperienze di viaggio e alle testimonianze che ne scaturiscono. Per un lungo periodo però, in pratica per tutto l’Alto Medioevo, queste esperienze rimangono interne al continente, e la mobilità è soprattutto quella involontaria delle fughe, degli esodi e delle migrazioni imposti dalle carestie o dalle incursioni esterne. A muoversi per scelta sono soltanto i monaci fondatori di nuovi ordini, i chierici in cerca di collocazione presso piccole o grandi corti, i mercanti più avventurosi, che esercitano comunque la loro attività entro limiti territoriali molto ristretti.

La situazione comincia a cambiare dopo la metà dell’XI secolo. Si sono consolidati i grandi poteri, quello della Chiesa e quello imperiale, che pur in conflitto tra loro garantiscono un certo controllo del territorio; si è esaurita la prima fase dell’avanzata islamica e si è allentata la pressione dei popoli del Nord; si addolciscono persino le condizioni climatiche, e l’aumento demografico innesca una poderosa ricolonizzazione di immense fette di territorio già abbandonate.

A partire dagli inizi del XII secolo, sulla scia della predicazione delle crociate, si verifica anche un risveglio dell’antica attitudine europea alla mobilità “esplorativa”, che si concretizza nelle forme classiche della spedizione militare e di quella commerciale o sotto le nuove specie del pellegrinaggio. La Terrasanta e l’intera Asia Minore, soprattutto la parte ancora sotto il controllo dell’impero bizantino, diventano meta di cavalieri a caccia di gloria e di bottino e di monaci, di esaltati e di penitenti che anelano all’espiazione, seguiti o spesso preceduti da spregiudicati commercianti in cerca di nuovi mercati. Col tempo, e a dispetto del precoce esaurirsi dell’iniziativa militare, il flusso si stabilizza, soprattutto quando il controllo dei movimenti via mare è assunto dalle due potenze marittime che proprio su esso hanno creato le loro fortune, Genova e Venezia.

Dalla sponda asiatica del Mediterraneo, nella prossimità, nello scambio e nel confronto quotidiano con interlocutori di razze, paesi e lingue tanto diversi, l’immagine dell’Oriente si complica, diventando da un lato più realistica ma alimentando dall’altro nuove aspettative e fantasie. La confusione stessa che si determina nell’alternarsi delle campagne militari, delle alleanze e dei passaggi di mano delle città e dei territori contesi favorisce l’apertura di nuove zone franche, territoriali o convenzionali, che assicurino comunque una certa continuità nei rapporti e delle quali beneficeranno non solo i mercanti, ma anche i religiosi (il salvacondotto dei pellegrini). Ad approfittarne sono naturalmente per primi quei soggetti che per il loro particolare status non sono coinvolti direttamente nel conflitto tra cristianità ed islam, ad esempio gli ebrei, che i contatti e i rapporti li avevano bene o male mantenuti anche nel corso di tutto l’Alto Medioevo (in territorio cinese sono stato i rinvenuti manoscritti ebraici risalenti all’VIII secolo). Un rabbino spagnolo, Beniamino di Tudela, visita nel XII secolo tutte le comunità ebraiche del mondo, dal Nordafrica al Vicino Oriente e all’Asia centrale, lasciando descrizioni dei popoli e dei paesi e candidandosi a primo grande viaggiatore medioevale. Come accadrà per i portoghesi, però, le conoscenze ebraiche relative a percorsi e a contatti non vengono divulgate tra i cristiani, e qualora anche lo fossero non troverebbero particolare attenzione.

A ridestare definitivamente l’interesse degli europei per il lontano oriente sono però le vicende legate all’esplosione mongolica, col suo carico alterno di terrore e di speranze per l’occidente e con le trasformazioni cui va incontro l’immagine delle popolazioni protagoniste. In un primo momento infatti, quando filtrano vaghe notizie del crollo dei sultanati islamici dello Khwarezm e della Trasoxiana, si vuol cogliere nei Mongoli il riscontro alle leggende che circolano da mezzo secolo sul Prete Gianni; ma dopo le irruzioni nell’est europeo l’eco della loro spietatezza e delle distruzioni apportate li trasforma velocemente in demoni vomitati dal Tartaro, che vanno piuttosto ad inverare la leggenda delle porte di ferro e dei popoli di Gog e Magog. Per quarant’anni i Mongoli seminano inarrestabili il terrore, generando negli europei una desolante sensazione di impotenza e di imminente apocalisse: fino a quando nel 1241 la morte di Ogadei, il primo successore di Gengis Khan, frena improvvisamente la loro irresistibile azione di conquista. Le manovre per la successione richiamano tutti i capi dei diversi popoli e clan in Mongolia, e l’Europa può respirare. Quando l’avanzata verso occidente riprenderà ad essere investiti saranno i califfati medio-orientali. Per i due decenni successivi l’avversario sarà l’Islam, i cui capisaldi mediorientali verranno rapidamente travolti ed assoggettati. Adottando il principio transitivo per cui un nemico in comune è già una base sufficientemente solida per un’amicizia, gli occidentali, o almeno quelli che non avevano esperita direttamente la violenza mongolica, tornano a sperare che sia arrivata l’occasione di infliggere congiuntamente un colpo all’Islam, basandosi questa volta non sulla leggenda di un misterioso popolo cristiano, ma sulla realtà di una popolazione che pur non essendo cristiana potrebbe un domani diventarlo. Di qui il proliferare di iniziative missionarie che si susseguono a ritmo ravvicinato, approfittando anche del fatto che anziché chiudere le strade per l’Oriente la pax mongolica le ha aperte: i Mongoli infatti, una volta stabilita la loro supremazia, sono indifferenti ai diversi credi religiosi, e quindi tolleranti. Sono inoltre apertissimi ai traffici e, come vedremo, agli scambi culturali.

A partire dalla metà del ‘200 si apre quindi una stagione di viaggi nel cuore dell’Asia destinata a durare almeno un secolo. Già nel 1245 un legato pontificio, il francescano Giovanni da Pian del Carpine, parte da Lione munito di lettere papali per il Gran Khan. Seguendo un itinerario che attraversa la Boemia, la Polonia e l’Ucraina arriva l’anno successivo ad un accampamento mongolo sulle sponde del Volga. Di lì la delegazione riparte con una scorta di Tartari verso il campo imperiale di Karakorum (ad un centinaio di chilometri dall’odierna Ulan Bator), dove arriva dopo quindici mesi, al termine una faticosissima traversata di tutta l’Asia centrale. Giovanni deve in sostanza sondare le intenzioni dei Mongoli, e verificare se davvero alcune tra le popolazioni che compongono l’Orda sono cristiane. Nel novembre del 1347, dopo un viaggio di ritorno altrettanto terribile, compiuto per la gran parte in mezzo alla neve, il frate è di nuovo al cospetto del pontefice con la risposta del successore di Ogadei; una intimazione ai cristiani di riconoscerlo come signore del mondo. Non è certo quel che il papa e i sovrani europei si aspettavano, ma intanto il racconto del francescano, che viene esplicitamente richiesto dal pontefice sotto forma memoria scritta e che viene redatto da Giovanni con le poche forze che gli rimangono prima di morire (ha intrapreso la sua missione a sessant’anni suonati) fa un po’ di luce ed arreca preziose informazioni su questo popolo misterioso e terribile. La conclusione è decisamente realista e scettica: esclude qualsiasi possibilità di accordo con quelle popolazioni, descritte come barbare e brutali e assolutamente non interessate all’insegnamento cristiano. L’unico dato positivo riguarda la relativa facilità e sicurezza con la quale la delegazione ha raggiunto il campo, cui fanno da contrappeso però le fatiche, la fame e il freddo sofferti nel viaggio.

Sei anni dopo, nel 1253, è la volta di una seconda missione, caldeggiata in questo caso da Luigi IX, reduce da una sonora sconfitta da parte dei saraceni in Terrasanta, e finalizzata esplicitamente alla ricerca di una alleanza militare[19]. È ancora un francescano a guidarla, Guglielmo di Rubruck, che ha la metà degli anni di Giovanni e sceglie un itinerario diverso: da Costantinopoli si dirige in Crimea, e di lì poi raggiunge e supera il Volga, per arrivare ad un primo campo mongolo. La speranza, alimentata da voci diffuse in Europa proprio da emissari mongoli, è addirittura questa volta di trovare tutta la popolazione, o almeno i capi, convertiti al cristianesimo e ansiosi di allearsi con l’occidente contro il comune nemico islamico. Guglielmo ha preparato il viaggio con cura, fermandosi un anno a Gerusalemme per impratichirsi delle lingue e dei costumi orientali. Una volta entrata in territorio asiatico la delegazione viene prelevata e condotta, in uno stato di quasi prigionia, verso l’interno dell’Asia, costeggiando il mar Caspio e attraversando le steppe del Kazakistan e della Kirghizia. I legati giungono al campo invernale alla fine di dicembre, semicongelati e debilitati dalla fame e dalla fatica: e l’incontro con il nuovo Gran Khan, Mangu, si rivela altrettanto infruttuoso di quello precedente, risolvendosi in ulteriori lettere intimidatorie da recare al re di Francia. Dopo altri sei mesi di patimenti, i superstiti della missione arrivano in Terrasanta nell’estate del 1254, solo per apprendere che Luigi IX è rientrato in patria.

Guglielmo riporta dalla sua esperienza la sensazione che la cristianità sia ormai in netto ritardo rispetto all’Islam: quest’ultimo dispone di interi quartieri in tutte le città dell’impero, ovunque sono sorte moschee e i mussulmani sono gli interlocutori privilegiati del potere mongolo. Le speranze in un’alleanza in funzione anti-saracena possono a suo giudizio essere abbandonate. In compenso fornisce un mare di notizie utili e verosimili, corregge errori e false credenze geografiche, come quelle relative al mar Caspio e al suo collegamento con l’oceano settentrionale, e sfata una dietro l’altra le leggende relative ai costumi dei popoli dell’estremo oriente.

Ma ormai non sono solo più i religiosi a intraprendere le vie dell’oriente (e probabilmente non lo erano stati neppure prima: ma mancano i riscontri certi). Nel 1260 ha inizio un’altra missione, questa volta con intenti commerciali. I fratelli Niccolò e Maffeo Polo, mercanti di gioielli, muovono da Venezia per stabilire contatti commerciali con i Mongoli. Il loro intento originario è quello di arrivare sino al khanato del Volga, dove in effetti si fermano un anno: ma poi, allettati da prospettive che si rivelano promettenti, si inoltrano in territorio asiatico sino a Bukhara, dove arrivano nel 1263. Qui soggiornano per tre anni, apprendono la lingua tartara e maturano l’idea del salto finale, che li condurrà nel cuore dell’impero. Dopo un altro anno di viaggio sono a Khanbalék (il nome mongolo di Pechino), presso il nuovo Gran Khan Qublai. Il clima di corte è favorevole: il Khan li prende a benvolere e, una volta conclusi i loro commerci, li rimanda indietro con un salvacondotto e con una richiesta al papa di inviare sacerdoti o quantomeno uomini di cultura, per addomesticare un po’ i costumi del suo popolo. I Polo impiegano ulteriori tre anni per il ritorno, e sono nuovamente a Venezia solo alla fine del 1269.

La sosta dura poco. I buoni affari realizzati e l’accoglienza ricevuta inducono i Polo a ripartire già due anni dopo, nel 1271, portandosi appresso il figlio diciassettenne di Niccolò, Marco. Il secondo viaggio dei Polo è destinato a durare un quarto di secolo. Partiti da Alessandretta, sulle coste siriane, essi costeggiano a Sud l’Armenia, attraversano la Mesopotamia e arrivano a Hormuz. Di lì prendono la direzione nord, attraverso il deserto del Dasht-e-Luth e si inerpicano sull’altipiano del Pamir, passando dal caldo rovente ai venti glaciali dei quattromila metri, fino a giungere a Kashgar, fin dai tempi dei romani avamposto occidentale sulla via della seta. Ancora un altro deserto terribile, il Takla Maclan, una breve sosta ed un altro mese di deserto assoluto, quello di Gobi. Entrati finalmente in territorio cinese sostano per un anno a Khan Chou, e raggiungono infine Qublai Khan a Shang Tu. Hanno impiegato oltre tre anni.

Trovano un’accoglienza favolosa, perché Qublai è curioso della cultura occidentale (si fida poco, e non ha un’alta considerazione, dei cinesi) e non tarda a prendere Marco sotto una sua speciale protezione. Due anni dopo il loro arrivo il giovane ha già imparato il cinese, e parla il persiano e il turco. Qublai lo invia con una ambasceria nella Cina meridionale, ai confini con l’Annam e la Birmania. Marco risponde perfettamente alle aspettative, perché è un osservatore acuto e relaziona minuziosamente al khan sui costumi e sulle attitudini dei diversi popoli. Negli anni successivi viene quindi incaricato di altre missioni, che lo portano a discendere per quasi tutta la sua lunghezza il fiume Giallo, a percorrere il Tibet, a discendere il Mekong, a visitare l’India e il Karakorum.

Ripartono solo nel 1292, via mare, scendendo per lo stretto di Formosa e attendendo poi i monsoni a Sumatra. Di qui attraversano il golfo del Bengala, sono a Ceylon e nell’India meridionale, poi nel Golfo di Oman e quindi finalmente di nuovo a Hormuz. Via terra guadagnano Trebisonda, sul mar Nero, quindi Costantinopoli e Venezia, dove arrivano nel 1295.

Il viaggio dei Polo sarebbe eccezionale anche oggi. A differenza di quelli dei francescani è caratterizzato dall’immersione totale in un mondo straordinariamente diverso e fantastico, affrontato, soprattutto dal giovane, con uno spirito aperto, assetato di conoscenza, libero da pregiudizi. Come straordinario viene percepito immediatamente dai contemporanei, e la relazione che Marco ne farà nel Milione conoscerà un successo “di pubblico” strepitoso per l’epoca. Molto più tiepida è l’accoglienza degli storici e dei geografi del suo tempo, che non ritrovandovi conferma delle conoscenze antiche sospettano sia per la maggior parte frutto di invenzione.

La sostanziale differenza rispetto alle relazioni dei viaggiatori che lo hanno preceduto e di quelli che lo seguiranno sta nel fatto che le sue descrizioni non sono finalizzate ad alcuno scopo religioso, politico o militare. Trasmettono meraviglia allo stato puro, disinteressata e quasi sempre positiva. L’amicizia e la devozione per Qublai, il fatto stesso di essersi maturato proprio a contato con civiltà diverse portano Marco ad adottare uno sguardo superiore, comprensivo e partecipe. La aiuta in questo anche la sua scarsa cultura: non essendo condizionato dalla conoscenza dei classici non paragona ciò che vede con i suoi occhi a ciò che dovrebbe attendersi. L’eccentricità, o meglio quella che apparirà tale ai lettori suoi contemporanei, dopo un po’ diventa per lui la regola: e se la rileva e la sottolinea non è per giudicarla, ma solo per testimoniarla.

È presumibile che il corridoio aperto dalla dominazione mongolica sia stato percorso nel mezzo secolo successivo da molti altri mercanti: ma dei loro viaggi non è rimasta traccia. Sono ancora i missionari cristiani invece a raccontare all’Europa i misteri e le meraviglie dell’estremo oriente. Giovanni da Montecorvino si mette in viaggio nel 1289, con lo scopo dichiarato di convertire Qublai, e dopo un viaggio marittimo sino al Golfo del Bengala arriva a Pechino nel 1293. Non riesce nell’intento, anche perché Qublai muore di lì a poco, ma avvia un processo di evangelizzazione che porterà al battesimo di molte migliaia di Cinesi. Non farà mai più ritorno in Europa, e continuerà ad inviare da Pechino una serie di corrispondenze nelle quali, al di là del resoconto dell’azione di proselitismo, fornisce preziosissime testimonianze sui costumi, sulla storia e sulla geografia dell’oriente.

Direttamente per mare arriva invece in Cina nel 1318 Odorico da Pordenone, sbarcato a Canton dopo aver toccate le coste indiane e visitati Ceylon, le Andamane, Sumatra e il Borneo: di qui risale via terra lungo le coste del mar della Cina, e arriva a Pechino, dove prende contatto con Montecorvino. Ma non si trattiene a lungo. Intraprende infatti una serie di viaggi che lo portano prima ad inoltrarsi nelle steppe mongole e poi a scendere verso sud-ovest, raggiungendo forse la stessa Lhasa. Quando farà finalmente ritorno in Italia saranno trascorsi sedici anni.

Il corridoio sta però diventando sempre più stretto. Nei trent’anni successivi a quest’ultimo viaggio la situazione cambia nuovamente, e in peggio. Nel 1338 parte l’ultima grande ambasceria papale, guidata dal fiorentino francescano Giovanni Marignolli. Questa volta l’incontro è stato sollecitato direttamente dall’imperatore mongolo, l’ultimo della sua dinastia, che assiste alla disgregazione del suo impero proprio a partire dalle estreme periferie occidentali e chiede una maggiore continuità nelle relazioni, memore delle profferte di alleanza pervenute dall’Europa nel secolo precedente. Marignolli segue i consigli formulati da Giovanni di Montecorvino, che riteneva più rapida la via di terra rispetto a quella marittima: ma impiega in realtà più di tre anni per arrivare a Pechino, anche perché lungo il percorso visita tutti gli avamposti della cristianità nel cuore dell’Asia, rimpiazzando i missionari. Si ferma a Pechino dal 1242 al 1246, e impiega ben sette anni per essere di ritorno ad Avignone.

Con lui si chiude in pratica la grande stagione medievale dei viaggi in oriente. Nel 1368 la dinastia mongolica viene cacciata, e in Cina salgono al potere i Ming, xenofobi e determinati a chiudere tanto agli europei come ai mussulmani i confini dell’impero. Nel frattempo è anche accaduto che l’intera Asia Centrale e la Persia sono passate all’Islam, divenendo terre proibite per i cristiani. In Egitto e in Siria si sono instaurati i Mamelucchi, mentre a Nord l’Orda d’Oro ha adottato la religione musulmana. La Terrasanta è già stata definitivamente persa alla fine del 1200 (nel 1291 è caduto S. Giovanni d’Acri). Nel corso della prima metà del ‘300 un’altra tribù, quella degli Osmanli (o ottomani) conquista quasi per intero l’Anatolia, liquidando di fatto il vecchio impero bizantino, e passa in Europa, impadronendosi dei Balcani (nel 1389 la definitiva vittoria di Kossovo).

C’è infine, e non ultima, l’esplosione della peste, che investe il Mediterraneo a partire dal 1348, e di lì si propaga a tutto il continente. Il crollo demografico che ne consegue, unito ad uno shock psicologico destinato a condizionare almeno tre generazioni, produce a sua volta povertà, angoscia e fine delle speranze. I cristiani hanno altro cui dedicarsi, e paure ben più prossime che quella dei Mongoli.

Nell’altra direzione che calamita i sogni e le aspettative medioevali, quella atlantica, salpano nel 1291 i genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi. Dietro la loro spedizione c’è la famiglia Doria, che affida ai fratelli due galee col preciso intendimento di arrivare ad partes Indiae per mare Oceanum. Le navi e gli equipaggi scompaiono nel nulla, e il tentativo non farebbe storia, al pari di molti altri delle quali non ci è giunta nemmeno notizia, se non fosse stato rinvenuto sei secoli dopo un documento trecentesco, l’Itinerario di Antoniotto Usodimare, che offre una fantasiosa ricostruzione degli avvenimenti (l’equipaggio di una delle due navi sarebbe stato raccolto sulle coste africane orientali da una popolazione cristiana, naturalmente governata dal Prete Gianni), ma inserisce in essa precise indicazioni geografiche (che conducono almeno fino al golfo di Guinea). Questa versione viene ripresa anche da testimonianze successive (e altrettanto dubbie), tra le quali quella di un religioso che afferma di aver raccolto personalmente sul luogo notizie di navigatori catturati e trattenuti in Somalia, e parrebbe supportata dal fatto che il figlio di Ugolino, Leone Vivaldi, raggiunse Mogadiscio per mettersi alla ricerca dei suoi parenti all’interno dell’Etiopia. Di certo ci sono soltanto la partenza e la meta dichiarata della spedizione, che tuttavia ci dice parecchio delle conoscenze marittime dei genovesi e della loro convinzione che l’Africa fosse circumnavigabile: come per Colombo, anche per Diaz e per Vasco da Gama, a scavare nelle testimonianze del passato c’è sempre qualcuno che è arrivato prima.

L’interesse genovese per le rotte atlantiche aumenta nel XIV secolo, quando dopo un iniziale predominio i liguri cominciano ad essere espulsi dai mercati orientali. Il monopolio veneziano del commercio mediterraneo della seta e delle spezie spinge i capitali genovesi (e quelli fiorentini) a cercare altre opportunità di investimento in occidente. Vengono stipulati accordi tra la corona portoghese e alcune grandi famiglie mercantili, e sono marinai e legni genovesi a “riscoprire”, sotto la guida di Lanzarotto Malocello e di Niccoloso da Recco, prima le Canarie e poi Madera e le Azzorre. Genovesi ed ebrei saranno anche i primi animatori della scuola navale di Sagres, creata nel XV secolo da Enrico il Navigatore e dalla quale prenderà l’avvio la grande stagione delle scoperte geografiche.

Le avventure rinascimentali nel nuovo mondo e in estremo oriente che ci accingiamo a raccontare conoscono dunque una lunga incubazione e presumibilmente diversi prologhi medioevali, dei quali però, per un’attitudine portoghese (e genovese, appunto, e più che mai ebraica) alla segretezza, che ricorda quella dei cartaginesi, sappiamo davvero molto poco.

Questo rapido excursus non può chiudersi senza un omaggio ad una delle due culture che raccolsero nel medioevo il testimone della sete di conoscenza e dell’intraprendenza esplorativa greco-latina: quella arabo-mussulmana. Dell’altra, quella dei popoli del Nord, avremo modo di parlare più avanti.

I limiti estremi raggiunti dalla conquista islamica nel settimo secolo diventano immediatamente dei punti di partenza per mercanti, eruditi e missionari della nuova fede. Dalle coste del golfo di Oman o dalle steppe dell’altopiano iranico personaggi come Al Masudi o Al-Biruni viaggiano incessantemente (in Cina, India, Ceylon, Madagascar il primo, in India, Cina, Nepal e Tibet il secondo) e soprattutto raccolgono le loro osservazioni in importanti opere di geografia e di astronomia. Al-Idrisi, arabo occidentale, originario del Marocco e cresciuto in Spagna, compila a metà del XII secolo per il re normanno Ruggero II il Libro del re Ruggero, nel quale aggiorna alla luce delle più recenti conoscenze la geografia tolemaica, e disegna un mappamondo che sarà inciso su una lastra d’argento.

Ma il più grande, il viaggiatore più instancabile di tutti i tempi, è senz’altro Ibn Battuta. La sua carriera di giramondo ha inizio con il rituale viaggio alla Mecca, intrapreso a ventun anni, nel 1325, nel corso del quale attraversa partendo da Tangeri tutto il Nord Africa, risale il Nilo, affronta il deserto nubiano e guadagna la sponda africana del mar Rosso: ridisceso il Nilo, risale per il Sinai sino a Damasco e finalmente scende lungo la costa dell’Heggiaz fino a giungere alla Mecca. Di lì, avendo nel frattempo maturato il proposito di visitare tutte le contrade islamiche, attraversa il cuore deserto dell’Arabia per raggiungere Baghdad, segue l’Eufrate sino a Bassora e prosegue poi via mare per Shiraz e Isphahan, da dove si spinge nell’Azerbajan. Tornato alla Mecca, riparte per lo Yemen e arriva ad Aden, dove si imbarca per la costa africana. La segue e la esplora sin oltre Zanzibar, per poi tornare sulle coste arabiche dell’Oman, e di qui ancora in Persia. Percorre in lungo e in largo l’Anatolia e la Siria, arriva sul mar Nero per passare in Crimea e di lì nella steppa russa, quella che un tempo era la terra degli Sciti ed ora è dominata dai turchi dell’Orda d’Oro: quindi riattraversa il Caucaso, torna a Costantinopoli e prosegue per l’Hindukush, via Bukhara e Samarcanda, percorrendo l’Afganistan e il Pakistan sino a raggiungere la valle dell’Indo e spingendosi poi a Dehli. Qui si ferma per otto anni, entrando al servizio del sultano islamico, e come era già accaduto a Marco Polo riceve da questi ripetuti incarichi per ambascerie in Cina e in Indonesia. Visita quindi Goa e Calicut, Ceylon, l’Assam, Sumatra e le altre isole della Sonda. Torna infine via mare, dopo un ennesimo scalo in Arabia, dove compie la sua quarta visita alle Mecca, sulla costa africana, risale sino al Mediterraneo, tocca le coste della Sardegna e dopo ventiquattro anni rivede Fes. Ma non si ferma. Incaricato di una nuova missione dal sultano del Marocco, attraversa la catena dell’Atlante e si inoltra nel Sahara alla ricerca del fiume Niger, arrivando sino a Timbuctu.

Per elencare i nomi delle località più importanti da lui toccate non basterebbe un’ora: a visitarle Ibn Battuta spese l’intera vita. Conobbe almeno quarantaquattro stati diversi, percorrendo all’incirca centoventimila chilometri, con tutti i mezzi di trasporto possibili. Ciò che maggiormente colpisce nella lettura delle sue peripezie, affidate al Tuhfat al-nuzzar (la traduzione completa del titolo è Un dono di gran pregio per chi vuole gettare uno sguardo su peripli inconsueti e città d’incanto) è che non vengono mai sottolineati gli aspetti drammatici o avventurosi del viaggio, ma solo quelli conoscitivi o curiosi. È lo spirito che già aveva animato Erodoto e Marco Polo, e che sarà poi del grande Alexander von Humboldt.

Sulla cultura e sulle conoscenze occidentali la sua opera non ebbe nell’immediato alcuna influenza, perché venne tradotta solo nell’ottocento: lo dimostra il fatto che ancora nel XVI secolo nella cartografia europea risultano malamente conosciute ed indicate zone che Ibn Battuta aveva descritto e localizzato con dovizia di particolari. D’altro canto è però probabile che almeno una parte dell’immensa messe di informazioni da lui raccolte, soprattutto quelle relative alle coste africane e all’oceano Indiano, siano pervenute, magari attraverso la mediazione ebraica, a quei navigatori italiani e portoghesi che si apprestavano nel Quattrocento a violare i segreti del Mare Oceano.

 

In capo al mondo

Alle origini delle scoperte: il mito, l’economia, le tecniche

Al momento dello sbarco sulle rive del nuovo mondo Colombo non rappresenta solo la corona di Spagna o gli investitori genovesi e fiorentini: pone il suggello ufficiale ad una spinta che, come abbiamo visto, percorre la storia europea sin dai suoi albori.

L’Europa ha conosciuto un insediamento umano diffuso piuttosto tardi. I più recenti ritrovamenti archeologici ci parlano di culture paleolitiche databili a centinaia di migliaia di anni addietro, ma quella di cui siamo i diretti eredi risale a soli dieci o dodici mila anni fa, quando alla fine dell’ultima grande glaciazione il clima addolcito ed il ritrarsi delle acque, alle quali succedono fertili pianure, richiamano dalle aree centro-meridionali e orientali della massa continentale euro-asiatica nuove popolazioni, spesso incalzate dal progressivo inaridimento delle loro sedi primitive. Lungo tutta l’epoca arcaica e classica questo flusso migratorio in direzione occidentale rimane costante, e in ondate successive, ora lente, ora violente ed impetuose, si frange sull’estremo lembo dell’Eurasia. Disturbato ed ostacolato per quasi un millennio dal costituirsi di solidi argini militari ed istituzionali (la civiltà ellenica, l’impero romano), esso riprende vigore nell’epoca delle grandi invasioni, convogliando questa volta anche popolazioni provenienti dalle aree nord-orientali, e dilaga per tutto il medioevo oltre i confini ancora incerti della nascente Europa. Dall’est vengono i popoli che sconvolgono l’assetto etnico del continente e raccolgono l’eredità dello spirito “occidentale” greco e latino: i goti, i longobardi, i franchi, ecc. E vengono anche, successivamente, altre pressioni etniche, in parte assorbite, come nel caso degli Ungari, in parte rigettate e destinate a far crescere per contrapposizione la coscienza di una identità europea: arabi, mongoli, turchi. Gli stessi Vichinghi, quando muovono dai loro fiordi alla ricerca di lidi più ospitali e più ricchi, volgono dapprima ad ovest la loro spinta espansionistica (Inghilterra, Irlanda, Islanda).

All’epoca della penetrazione nel nuovo emisfero l’assetto etnico e demografico dell’Europa è ormai definito. La vittoria di Lepanto (1571) viene soltanto a sancire tardivamente un’inversione di tendenza già evidenziata dalle Crociate, dai viaggi di Marco Polo e dei missionari trecenteschi, nonché dalla politica marittima di veneziani, genovesi e portoghesi. L’occidente europeo ha cessato da un pezzo di essere la meta dei grandi spostamenti migratori: da esso parte ora un nuovo movimento che ripercorre in direzione contraria le vie delle antiche migrazioni e ne apre di nuove, quelle che porteranno al dominio politico, culturale ed economico su tutto il globo.

Anche nelle epoche più remote, tuttavia, l’ovest non ha costituito semplicemente l’orizzonte reale della conquista e della migrazione: esso ha rappresentato a lungo il luogo dei sogni, delle speranze in una vita ulteriore. Sia nella religione egizia come nelle credenze funebri degli arcipelaghi dell’Oceania le navicelle dei defunti viaggiavano verso ponente: a ponente sono localizzate l’isola bianca degli induisti, la montagna sacra della cosmologia persiana, ecc. Per gli europei, in particolare, bloccati sulle rive dell’oceano, la direzione occidentale è rimasta aperta soltanto al vagheggiamento fantastico o alla condizione ultramondana. La credenza in un mondo senza l’ovest era esplicitamente sostenuta da sant’Agostino, secondo il quale “se esisteva una quarta parte di mondo (oltre al nord [Europa], al sud [Libia] e all’est [Asia]) non poteva essere un territorio abitato o abitabile da coloro per cui Cristo era morto, ma soltanto una distesa d’acqua vietata a tutti eccetto che agli spiriti, subumani o soprannaturali che fossero” (Fielder)

I cristiani sono comunque soltanto gli eredi di una mitologizzazione dell’ovest già diffusa nel mondo classico, e non sempre necessariamente ispirata a sogni o speranze di matrice religiosa. Spesso anche i saggi, gli studiosi, i filosofi sono attratti dall’incognita occidentale e amano popolarla di nazioni ricche, laboriose e civili, che dimorano su terre fertili e baciate dall’abbondanza: così le Esperidi dei greci, le Isole Fortunate del latini, l’Atlantide platonica, l’ultima Thule e tutti gli altri topoi leggendari sottratti al concetto classico di regressione della storia. Manilio, autore degli Astronomicon Libri tres, partecipe di una tradizione che risale oltre Platone, sino ad Esiodo e alla mitologia ellenica più antica, sintetizza così la speranza-convinzione che percorre l’epoca classica: «Mentre qui da noi il sole volge un ultimo sguardo alla terra tramontando, là il giorno appena levatosi risveglia la città addormentata» (Astronomicon, I).

Per le popolazioni più prossime alla barriera oceanica queste localizzazioni metageografiche delle terre del sogno e della felicità si infittiscono. È il caso dei celti, dalle cui mitologiche isole di Hy Brazil (in gaelico, l’isola dei beati) o di Avalon (l’isola dei meli, ove dorme Artù in attesa del definitivo risveglio) discende nella versione cristianizzata il trasferimento ad occidente del paradiso terrestre: e la cui epopea navigatoria del Voyage of Bran diviene in una trascrizione popolarissima nel medioevo la Navigatio Sancti Brendani.

La tematica della Navigatio ha un ruolo centrale nella cultura cristiana medioevale: è quella della ricerca di una felicità perduta, del ritorno all’origine, alla condizione anteriore al peccato di Adamo ed Eva. Si tratta di un motivo già ampiamente presente in epoca classica nella coscienza europea: il dramma della scomparsa di Atlantide simboleggia in Platone la separazione dell’Europa da una superiore cultura occidentale, dalla civiltà al livello della sua piena attuazione, quindi una caduta ed un regresso dell’umanità. È un motivo che trapassa sotterraneo, come si è visto, dal sentire pagano alla concezione cristiana del mondo, e che si rivela in quest’ultima anche attraverso l’idea di un impedimento d’ordine sovrannaturale, di un divieto divino gravante sull’ovest: nonché attraverso il significato di trasgressione e di profanazione che investe ogni tentativo di inseguire il sole al di là dell’orizzonte (è il caso, ad esempio, dell’Ulisse dantesco). [20]

Forse il cammino del sole non è estraneo a questa valenza salvifica attribuita all’occidente. «I sole diventa il prototipo del “morto che risuscita ogni mattina” [….] il tramonto non è percepito come “morte” del sole, bensì come una discesa dell’astro nelle regioni inferiori, nel regno dei morti. I1 sole scende ogni notte in questo regno: d’altra parte, può contemporaneamente guidare le anime attraverso le regioni infernali e ricondurle alla luce l’indomani. Funzione ambivalente di psicopompo uccisore e di ierofante iniziatico». (Eliade).

L’iniziazione ottenuta seguendo il sole nel suo cammino verso ponente altro non è che la salvazione, la rigenerazione ad una vita di livello superiore, felice ed immortale. All’ovest si realizza una condizione superumana, il raggiungimento della perfetta comprensione del reale, e conseguentemente della beatitudine. Eliade osserva ancora a questo proposito come nel “regime diurno dello spirito”, dominato dal simbolismo solare, prevalga un atteggiamento razionalistico: e come questo atteggiamento favorisca presso le popolazioni che privilegiano il culto solare un’autentica organizzazione politica, arrivando a concludere che non si può non riconoscere una certa concordanza tra la supremazia delle ierofanie solari e i destini ‘storici’. Si direbbe che il sole predomina dove, grazie ai re, agli eroi e agli imperi, “la storia è in cammino”. Queste considerazioni, che Eliade stesso propone con le debite cautele, si attagliano comunque molto bene ad alcuni tratti caratteristici della “civiltà” occidentale: il razionalismo, appunto, e la presunzione di un “destino storico”, quella stessa che varrà a giustificare nel corso della colonizzazione ogni sorta di soprusi.

La spinta ideale ad ovest rimane comunque bloccata per lunghi secoli sulle coste dell’Atlantico. Il deserto d’acqua che si stende oltre appare immenso, minaccioso, definitivo. Non si possiedono i mezzi per tentarlo, ma mancano soprattutto le motivazioni a distogliere l’attenzione dall’oriente. È questo, infatti, l’interlocutore obbligato degli europei: da lì vengono le pressioni militari e religiose, ma anche le mercanzie che stanno alla base di tutto il movimento commerciale. È quindi la via dell’oriente a calamitare gli sforzi e le aspettative materiali. Lungo tutto il medioevo, fatta eccezione per i vichinghi, i cui viaggi occidentali hanno comunque scarsa risonanza, l’oceano si limita ad accogliere i sogni dei mistici e dei letterati. La nuova mentalità mercantile giustifica l’avventura solo quando quest’ultima sia mirata ad obiettivi pratici remunerativi e sufficientemente garantiti.

Paradossalmente sarà proprio l’esigenza di aprire verso l’estremo oriente una via più agevole e redditizia, assieme all’acquisizione di tecniche nuove nelle costruzioni navali e nella navigazione stessa (vele manovrabili, ponte coperto, astrolabio, ecc.), a determinare la spinta decisiva in direzione del mare occidentale. Fino a tutto il Quattrocento gli europei rimangono praticamente esclusi dal commercio con l’Asia orientale e indiana. I contatti sporadici stabiliti per via terra non consentono di attivare il potenziale degli scambi economici già intravisto dai viaggiatori del XIII e del XIV secolo. Troppi ostacoli si frappongono allo sviluppo di un flusso commerciale diretto. La via terrestre risulta economicamente impraticabile, oltre che per le difficoltà materiali dei viaggi e per la limitata possibilità di carico, anche per la stretta dipendenza dalle contingenze politiche, e soprattutto dalla volontà mussulmana di eliminare ogni concorrenza sui mercati orientali.

Le materie di importazione da oriente, e le spezie in primo luogo, hanno tuttavia ormai assunto un’importanza tale nel circuito commerciale europeo da sollecitare e giustificare un approvvigionamento diretto alle fonti, aggirando le speculazioni del mercato mussulmano e dei suoi interlocutori più diretti e privilegiati, i veneziani. Questi ultimi, in forza dei loro rapporti particolari con l’impero latino d’oriente prima e coi turchi poi, godono di una situazione di monopolio quasi assoluto per ciò che concerne l’introduzione delle merci orientali sulle piazze europee. Dalla metà del XIV alla fine del XV secolo, favoriti dalla decadenza delle altre potenze marinare medioevali, che non sono state in grado di assicurarsi le spalle sulla terraferma, e in assenza di una politica marinara delle grandi formazioni nazionali emergenti, dominano incontrastati le rotte commerciali mediterranee.

Già in questo periodo comunque gli armatori genovesi e i banchieri fiorentini, esclusi o posti in condizione di scarsa competitività sui mercati del levante, premono per la ricerca di una rotta non mediterranea alle Indie. Non disponendo in patria delle coperture politiche e militari indispensabili a sostenere uno sforzo espansionistico anti-mussulmano, essi mirano a coinvolgere i sovrani europei, prospettando e propagandando i vantaggi connessi all’apertura di scambi diretti con le Indie.

Nella seconda metà del ‘400 in effetti il mercato delle spezie presenta sintomi di ripresa, dopo aver conosciuto un lungo periodo depressionario. Quello che per alcuni secoli era rimasto un consumo elitario si allarga ora anche alle classi medie. La crisi demografica e l’aumento del volume dei traffici creano eccedenza nell’offerta, e conseguentemente una sensibile caduta dei prezzi: e ciò consente alle spezie, una volta scese alla portata di borse più modeste, di affermarsi come componente non secondaria del regime alimentare europeo, soprattutto per il loro impiego nella conservazione dei cibi. È quindi un mercato in espansione, che compensa largamente attraverso i maggiori consumi e un flusso più regolare ed immediato la perdita di pregio (peraltro relativa) della mercanzia.

I primi a convincersi delle prospettive aperte da questi mutamenti sono i portoghesi: e proprio essi, con l’ausilio del capitale genovese e fiorentino che trova finalmente uno sbocco alla sua crisi nell’area mediterranea, diventano nel giro di pochi decenni la maggior potenza nel settore, arrivando a controllare più di un terzo del movimento commerciale mondiale. La loro ascesa economica è accompagnata anche sul piano teorico da un notevole impegno innovatore. Enrico il Navigatore fonda la scuola navale di Sagres, dalla quale vengono novità e perfezionamenti nelle tecniche costruttive, nella cartografia nelle scienze nautiche, ecc. Inoltre i portoghesi danno inizio alla colonizzazione intensiva delle isole atlantiche scoperte nel XIV secolo (le Azzorre, Madeira), nelle quali viene sperimentata la prima coltivazione di “importazione” coloniale, quella della canna da zucchero. Anche la canna da zucchero è una novità e un’abitudine alimentare introdotta in Europa dai veneziani, importatori dello zucchero della Palestina. Dalle isole mediterranee, alle quali è approdata nel basso medioevo, la coltivazione si estende in questo periodo agli arcipelaghi tropicali atlantici, in attesa di trovare il suo ambiente ottimale definitivo nel nuovo mondo e nell’Africa.

La produzione e l’importazione in Europa dello zucchero rimangono tuttavia a lungo per i portoghesi attività in subordine nei confronti del commercio delle spezie. La coltivazione della canna, infatti, comporta un tipo di colonizzazione residenziale, estesa all’interno e abbastanza capillare, che rende necessario un notevole impiego di capitale umano da parte dei colonizzatori. Al contrario, la colonizzazione puramente commerciale legata al traffico delle spezie si riduce all’impianto di stazioni di scambio dove, in base agli accordi coi potentati locali, affluiscono le merci prodotte all’interno: e per una nazione dal potenziale umano estremamente ridotto come quella lusitana è una scelta quasi obbligata.

Uno stimolo non secondario alla conquista dell’Atlantico, legato anch’esso come le spezie e la canna da zucchero ai mutamenti intervenuti nel regime alimentare europeo, è infine costituito dall’importanza nuova della pesca d’alto mare. Il pesce era già presente nella dieta medievale, in particolare in quella dei religiosi, che prevedeva in alcuni giorni della settimana o per lunghi periodi dell’anno l’interdizione del consumo della carne: ma se si eccettuano le zone rivierasche esso ricopriva un semplice ruolo integrativo, ed era per lo più riservato alle classi sociali superiori, in quanto lo sfruttamento del patrimonio ittico d’acqua dolce, insieme ai diritti sulla caccia, rimase sino alle soglie dell’età moderna uno dei privilegi più accanitamente difesi dalla nobiltà e dai monasteri. Con l’adozione in larga scala dei procedimenti conservieri di essiccazione e di salatura il consumo del pesce d’acqua salata, non soggetto ad alcuna restrizione tradizionale, se non a quelle dei costi e delle distanze, si diffonde anche nelle aree non costiere.

Il pesce conservato arriva dal nord, dai paesi baltici in particolare e da quelli che si affacciano sull’Atlantico oltre una certa latitudine. Nel XV secolo è ormai entrato stabilmente nell’uso alimentare delle popolazioni continentali, e ciò dà un enorme impulso alla pesca del merluzzo e quella delle aringhe, al punto da esaurire i banchi costieri del mare del Nord ai quali tradizionalmente, da millenni, attingevano tanto gli scandinavi quanto i gallesi e i bretoni. Sono proprio questi ultimi, che a partire dalla metà del ‘400, quando l’Islanda viene annessa alla corona danese, si trovano estromessi dalle antiche aree di pesca, ad inoltrarsi sempre più nel nord Atlantico, alla ricerca di fondali particolarmente ricchi ma anche, in particolare per quanto riguarda il merluzzo, di terre d’appoggio per una essicatura che deve essere quasi immediata; e in questa maniera si avvicinano già ben prima di Colombo alle coste del nuovo mondo[21].

Altri fattori concorrono comunque alla spinta europea in direzione occidentale, primo tra tutti il deterioramento dei rapporti politici con l’Islam e col vicino oriente, determinato dal violento espansionismo dei turchi ottomani: una crisi che raggiunge il suo acme con la caduta di Costantinopoli e che rinnova nella cristianità europea paure vecchie di secoli e mai definitivamente fugate. Al di là dell’esistenza di una oggettiva monopolizzazione delle relazioni commerciali col Mediterraneo orientale da parte veneziana, occorre tener presente che le nazioni marinare emergenti, Spagna e Portogallo, escono da una lotta secolare contro l’Islam, e sono pertanto poco propense a patteggiamenti di qualsiasi tipo coi mussulmani. Le loro spedizioni marittime saranno sempre caratterizzate, almeno ufficialmente, da un forte anelito di evangelizzazione, e le vicende medioevali hanno insegnato che il verbo cristiano non trova spazio presso le popolazioni già soggette alla legge del Corano.

Un importante impulso alle scoperte viene anche dalla carenza di metalli preziosi, indispensabili per la circolazione mercantile e soprattutto per gli scambi con gli orientali. Questa scarsità non è dovuta soltanto all’esaurimento delle miniere europee e alle accresciute esigenze mercantili: è da mettere in conto anche la larga utilizzazione di metalli preziosi nella rinata oreficeria tardo-medioevale e rinascimentale. Il ritorno ad una considerazione positiva dei valori terreni, estetici ed etici, riporta in auge il godimento di oggetti belli e preziosi, nonché la funzione qualificante del loro possesso. Alle soglie del Rinascimento la fame di oro diventa quindi endemica: imprese commerciali, opere d’arte e gioielli, sogni imperialistici di sovrani e imperatori alimentano il bisogno e la speranza di rinvenire il mitico Eldorado.

Nello stesso periodo sono in atto in molti paesi europei, in primo luogo nella penisola iberica, profondi rivolgimenti sociali. La recessione demografica della seconda metà del XIV secolo ha lasciato tra i suoi strascichi una forte diminuzione della produzione agricola, alla quale si accompagna una progressiva svalutazione monetaria che colpisce le rendite fisse. Interi ceti sociali, quelli che avevano costituito in precedenza il settore più parassitario o comunque meno intraprendente della popolazione, sono spinti dal bisogno all’avventura commerciale e militare. I protagonisti della fase iniziale della conquista del nuovo mondo appartengono nella maggioranza a questi strati tradizionalmente inerti: cadetti dell’aristocrazia, piccoli e medi proprietari terrieri, ecc. Lo stesso capitale finanziario, che le disavventure del secolo precedente avevano indotto ad investimenti poco remunerativi ma solidi (soprattutto beni immobili e terre), trova nei viaggi di scoperta e nei guadagni favolosi che essi sembrano prospettare l’incentivo a rischiare nuovamente. Spesso, quando anche non siano entusiasti di queste avventure, i grossi gruppi finanziari si muovono nella speranza di garantirsi, attraverso le eventuali concessioni regie, sui prestiti già concessi ai sovrani e di aggirare la cronica insolvenza di questi ultimi.

Alle spinte di ordine politico ed economico se ne affiancano altre di matrice psicologica, il cui peso spesso non è altrettanto determinabile, ma non va affatto trascurato. L’uomo rinascimentale ha una nuova fiducia nelle proprie forze e nella propria capacità di dominio sulla natura: è pervaso da una inquietudine nuova, frutto non più del timore, ma della volontà di conoscenza. E questa spinta alla ricerca può ora sostanziarsi in risultati concreti: lo dimostra nel nostro caso la svolta decisiva nella navigazione oceanica, consentita dall’avanzamento delle tecniche di costruzione navale e di governo delle navi stesse, nonché dallo stato delle conoscenze geografiche. Nel corso del medioevo lo strumentario del navigatore diviene sempre più idoneo alle lunghe traversate. L’adozione della bussola e dell’orientamento celeste (astrolabio) rende possibile l’uscita dalle familiari acque mediterranee, ed elimina la necessità del cabotaggio. Alla terraferma che sparisce dall’orizzonte si rimane uniti da calcoli e da linee immaginarie.

Innovazioni fondamentali si hanno anche nell’attrezzatura velica: l’alberatura si infittisce, i velieri presentano di norma tre alberi attrezzati con vele mobili, che consentono di bordeggiare controvento, sottraggono le imbarcazioni alle limitazioni del vento in poppa e permettono di superare correnti aeree e marine contrarie. Gli scafi si rafforzano con l’abbandono della costruzione a fasciame sovrapposto, che rendeva le chiglie tozze e pesanti, e l’adozione di una tecnica nuova, detta “a caravella”: oltre a garantire una maggiore resistenza all’urto delle onde oceaniche, quest’ultima favorisce un disegno più agile ed elastico, e quindi un galleggiamento ed un equilibrio migliori. Altre modifiche di rilievo riguardano la copertura delle stive con ponti integrali, leggermente incurvati per garantire un rapido deflusso dell’acqua attraverso i bocchettoni delle murate: ciò che elimina gli inconvenienti comuni del continuo allagamento e rende più confortevoli i viaggi di lunga durata.

Costeggiando l’Africa, inoltre, i navigatori oceanici hanno modo di prendere confidenza con alcuni venti costanti (gli alisei) che creano problemi per la circumnavigazione del continente, ma risulteranno essenziali per superare l’Atlantico. Al tempo stesso cominciano a far conoscenza con le forti correnti provenienti dal Centro America. Ha un suo peso infine anche l’evoluzione della tecnica cartografica, malgrado sul viaggio della scoperta vera e propria abbia influito piuttosto una errata valutazione dei geografi del tempo che non una reale rispondenza delle loro conoscenze alla navigazione oceanica.

La via dei portoghesi verso l’Africa e le Indie

La polemica che a partire dal secolo scorso si era accesa sul dato puro e semplice della “scoperta” del nuovo mondo pare oggi definitivamente sopita. È ormai assodato che i vichinghi toccarono per primi le coste americane, ma è altresì riconosciuto il fatto che i loro viaggi non ebbero alcuna risonanza storica o comunque conoscitiva nell’Europa medievale. Si può parlare soltanto di rapporti accidentali con l’altro emisfero, nei quali non interviene la coscienza delle terre raggiunte.

Secondo le saghe scandinave (principalmente quella di Erik il Rosso), il nuovo mondo fu costeggiato da Bjorn Heriolfsson nel 986, e toccato per la prima volta da Leif Erikson attorno all’anno mille.[22] I vichinghi avevano già da tempo consuetudine con le acque dell’Atlantico settentrionale, e si erano spinti a riprese successive sempre più ad ovest, fondando colonie anche in Groenlandia. Leif sbarca in tre luoghi diversi, a latitudini sempre inferiori, (Helluland, la terra delle rocce piatte, Markland, la terra delle foreste, e Vinland, la terra dell’uva e del vino) e decide infime di svernare nell’ultimo, tornando in patria l’anno successivo. Dopo Leif, sono suo fratello Thornwald e il cognato Karlsefui ad insistere nelle esplorazioni e a tentare attorno a 1025 un primo vero e proprio insediamento, durato tre anni e fallito per l’aperta ostilità degli indigeni. L’esito altrettanto sanguinoso di una successiva intrapresa convince i vichinghi a desistere, e dopo il 1050 i contatti con le terre d’oltreoceano si fanno sporadici, anche se non cessano totalmente. Non vengono meno però il ricordo e l’impressione destati da queste scoperte, che esercitano una singolare suggestione sui nordici in quanto relative a zone fertili, ricche di legname e adatte alla colonizzazione. Del Vinland e del Markland si torna a parlare nelle cronache di Adamo di Brema (seconda metà dell’XI secolo), nella Relazione del Vinland dell’islandese Are Frode, negli annali d’Islanda per gli anni 1121, 1285 e 1347.

La terra favolosa del vino e dei verdi pascoli (secondo un’interpretazione meno diffusa Vinland significherebbe “terra erbosa”) non conosce una grossa fortuna in Europa. I vichinghi stessi, al di là dell’epopea delle saghe, tendono a dimenticarne l’esistenza e a dedicarsi piuttosto alla conquista di terre ricche di bottino, dissodate e facilmente accessibili. La prospettiva transoceanica è ancora troppo avventurosa, sia pure al livello superiore di abilità e di tecnica nautica dei nordici nel medioevo, per potersi concretizzare in una migrazione massiccia o in un rapporto continuativo. Bisognerà attendere la congiuntura favorevole tra le motivazioni economico-sociali e l’effettiva capacità di spostamento perché il continente americano sia nuovamente calpestato da piedi europei.

Prima però di volgersi ad ovest e di incontrare sul loro cammino il nuovo mondo, gli occidentali profondono tutto il loro impegno nello sforzo di contattare direttamente le terre estreme del levante, le favolose Indie. Protagonisti della fase esplorativa e dei primi esperimenti di colonizzazione sono, come si è accennato, i portoghesi. La nazione portoghese si libera precocemente dei problemi interni (unificazione, consolidamento del potere monarchico, riconquista anti-islamica) che in varia misura sono comuni all’epoca a vari stati europei, e può dedicarsi ad una intensa politica di espansione marittima e commerciale. Centri d’interesse di questa espansione sono dapprima le coste atlantiche nord-africane, per la ricerca di zone di pesca più ricche e di mercati per l’approvvigionamento cerealicolo. A mano a mano che l’esplorazione si spinge più a sud, acquistano importanza altre materie di grosso pregio sulle piazze europee: oro, avorio, gomma. In seguito diverrà prioritario il commercio delle spezie, e quindi il rapporto con le Indie: ma l’Africa rimarrà, col suo ruolo nuovo di serbatoio di mano d’opera servile per la coltivazione della canna da zucchero, la garanzia più solida della sopravvivenza economica portoghese.

I portoghesi sono gli eredi naturali della potenza marittima genovese, spiritualmente, per il loro antagonismo con Venezia, e concretamente, perché vedono convogliato nelle loro imprese il capitale umano e finanziario dei liguri. I primi esploratori atlantici di rilievo sono stati del resto proprio i genovesi. Già alla fine del XIII secolo infatti Ugolimo e Vadino Vivaldi avevano tentato la circumnavigazione dell’Africa alla ricerca di un passaggio per le Indie, senza più dare notizia di sé e finendo pertanto nella leggenda. Come abbiamo visto sono ancora dei genovesi al servizio della corona portoghese, come Lanzarotto Malocello, a “riscoprire” le Canarie (1312), o come Antoniotto da Noli a giungere verso la metà del ‘400 alle isole del Capo Verde. Sulla loro scia nel corso del XIV secolo tutte le isole e gli arcipelaghi costieri fino al golfo di Guinea sono raggiunti, anche se soltanto nel secolo seguente si passerà ad una vera e propria colonizzazione, con l’introduzione dapprima della coltura del grano e poi di quella della canna da zucchero.

Esplorate a piccoli balzi le coste dell’Africa atlantica, i portoghesi si spingono in profondità nel continente, limitandosi ad installare delle stazioni commerciali che forniscono anche l’appoggio per la penetrazione nell’oceano Indiano. Lo sforzo decisivo in questa direzione è compiuto negli ultimi due decenni del XV secolo, coi viaggi di Diogo Cao fino al Congo (1482) e col superamento del capo di Buona Speranza da parte di Bartolomeo Diaz (1487), per concludersi infine con l’impresa di Vasco de Gama, che nel 1497, quando ormai sembra essere stata rinvenuta una via atlantica occidentale, stabilisce i primi contatti diretti via mare con l’India. Nell’oceano Indiano i portoghesi scoprono che l’Islam si estende molto più ad oriente di quanto supponessero, che non è pensabile aggirarlo, ma occorre combatterlo[23]. La rotta circumafricana comincia ad essere solcata da regolari spedizioni, mirate in principio alla conquista e al controllo di alcune zone strategiche o di scali di notevole interesse commerciale. È lo stesso de Gama che nel 1502-1503 torna nell’oceano Indiano con una grossa flotta da guerra, e dà inizio a quella prassi terroristica che tanta parte avrà nel determinare il successo finale portoghese. “Avendo incontrata di fronte a Calcutta una flotta araba con un carico di riso, de Gama fece tagliare il naso, le orecchie e le mani a tutto l’equipaggio: 800 uomini. I mutilati furono poi reimbarcati a bordo delle loro navi, a cui i portoghesi appiccarono il fuoco.” (Hauser). L’uso sistematico di tecniche di distruzione (bombardamenti di città, incendi dei raccolti, saccheggi e massacri) consentirà in effetti ai lusitani di imporsi a popoli il cui livello di civiltà è senz’altro pari, se non superiore, a quello europeo dell’epoca.

Naturalmente, né i veneziani né i mussulmani sono disposti ad accettare una intrusione che minaccia il loro monopolio assoluto. Sotto l’egida veneziana si forma una lega navale, comprendente oltre gli arabi del mar Rosso anche numerosi potentati indiani. La flotta alleata è però intercettata e distrutta da Francisco de Almeida al largo di Diu (1509): da questo momento l’espansione portoghese si sviluppa soprattutto per il vigoroso impulso datole dal secondo viceré, Alfonso de Albuquerque. Egli blocca il mar Rosso e il golfo Persico, isolando in tal modo l’oceano Indiano dall’influenza mussulmana, quindi intraprende la conquista diretta dei mercati e dei luoghi di produzione delle spezie. Nel 1507 ha già sottomessa Ceylon, fondando la città di Colombo. Nel 1510 è la volta di Goa, che per la sua posizione diviene sede del vicereame e punto d’appoggio per l’ulteriore avanzata; Malacca, la Nuova Guinea, le Molucche entrano a far parte del dominio portoghese già dall’anno seguente. Con la conquista di Macao, nel 1517, inizia la penetrazione a sud del mare della Cina, e venticinque anni dopo i “demoni del sud” instaurano rapporti anche col Giappone. Nel volgere di un cinquantennio il Portogallo arriva a disporre di un vero e proprio impero, dalle caratteristiche anomale, privo di reali confini e fondato sulla incontrastata talassocrazia.

Con una popolazione che supera a malapena il milione e mezzo di abitanti, lo stato portoghese non è in grado di impiantare vere e proprie colonie di popolamento. Il divieto di emigrazione per le donne portoghesi favorisce i matrimoni misti e l’integrazione razziale, ma fa anche sì che nella maggior parte dei casi i coloni optino per un insediamento temporaneo, e tornino a sistemarsi nella madrepatria non appena accumulata una certa fortuna. D’altro canto, le zone su cui il dominio lusitano si esercita sono tutt’altro che desertiche e primitive: in esse esistono un’organizzazione statale complessa, una distribuzione della proprietà, una rete commerciale tessuta dai mussulmani, che si mantengono intatte nelle loro articolazioni più capillari anche sotto i nuovi padroni. Gli insediamenti prendono quindi il carattere di avamposti militari o di terminali di raccolta per le merci destinate all’occidente. Anche per questa ragione non si sviluppa alcuna forma particolare di autonomia delle colonie nei confronti di Lisbona.

Il traffico commerciale tra le basi orientali e la madrepatria è gestito monopolisticamente dalla Casa da India e da Guiné. Nei suoi magazzini di Lisbona sono depositate le spezie e i tessuti in arrivo dall’Asia, i diamanti, i minerali preziosi e lo zucchero d’Africa, delle isole atlantiche e del Brasile. La Casa si occupa della distribuzione, trattenendo una percentuale pari a circa un terzo, per il re e per la chiesa: inoltre, il pepe e lo zucchero sono considerati proprietà del sovrano, che usa il primo addirittura come moneta di scambio. La Casa cura anche l’organizzazione delle spedizioni: reperisce i finanziamenti, arma le navi e le approvvigiona. A partire dalla metà del ‘500, per aumentare i volumi di carico a parità di viaggi, sostituisce le caravelle con le più possenti e capienti caracche (che stazzano tra le 1500 e le 2000 tonnellate), già utilizzate da oltre un secolo nel Mediterraneo dalle potenze marittime italiane: ma questi scafi, tozzi, pesanti e poco manovrabili, si riveleranno alla lunga assai poco adatti alla navigazione oceanica, e indurranno la Casa a ripiegare nuovamente su stazze inferiori alle 500 tonnellate.

L’impegno finanziario richiesto dal crescente volume dei traffici è divenuto nel frattempo troppo gravoso per i gruppi armatoriali che avevano fornito la spinta iniziale. Genovesi e fiorentini non sono in grado rispondere da soli al fabbisogno di capitali indotto dalla costruzione di naviglio ad alto tonnellaggio. Ad essi si affiancano, già alla fine del ‘400, i tedeschi, nella duplice qualità di finanziatori delle imprese e distributori per l’Europa delle merci importate. La creazione di questo rapporto privilegiato col capitale germanico, al quale vengono assicurate anche speciali concessioni per il traffico diretto con le Indie, risulterà estremamente importante per i portoghesi: consente loro infatti di impegnarsi a fondo nel controllo delle fonti di produzione e delle rotte di importazione.

Il successo portoghese coglie gli altri stati europei in una fase particolarmente delicata della loro storia, ciò che li costringe sulle prime a tollerare passivamente i successi dell’intraprendenza lusitana. Gli spagnoli stanno portando a termine la reconquista; i sovrani francesi sono impegnati a fronteggiare le ultime espressioni di autonomia feudale (il ducato di Borgogna) e a dare una strutturazione unitaria al nuovo stato uscito dalla Guerra dei Cento Anni; l’Inghilterra si sta faticosamente riavendo dalle distruzioni della guerra nobiliare intestina. Sul teatro europeo, inoltre, non tardano ad affacciarsi gli sconvolgimenti delle lotte per l’egemonia in Italia e della riforma protestante. La situazione internazionale si mantiene pertanto, lungo quasi un secolo, propizia allo sviluppo incontrastato dell’iniziativa portoghese.

Gli spagnoli, Colombo e la scoperta dell’America

Impegnati a raggiungere l’oceano Indiano aggirando l’ostacolo continentale, i portoghesi non esplorano l’Atlantico in funzione di una rotta alternativa. La scoperta delle Azzorre, tuttavia, sembra dare conferma alle antiche leggende che narravano di favolosi arcipelaghi atlantici, e rende credibili le più disinvolte fantasie dei cartografi medioevali. Nel corso del ‘400 diverse spedizioni si addentrano nell’oceano, alla ricerca della mitica Antilia, regolarmente munite della concessione regale di sfruttamento “per diritto di scoperta”. Nessuna di esse ha però la ventura di superare la barriera oceanica dei venti e delle correnti, e di approssimarsi al nuovo mondo.

Forse proprio il fatto di non navigare sotto le insegne lusitane è determinante per il successo dell’impresa di Colombo. A differenza dei comandanti portoghesi egli non salpa dalle Azzorre, ma dalle Canarie spagnole: si trova cosi in poppa per la gran parte del viaggio gli alisei di nord-est, mentre quelli, partendo da una latitudine superiore, incocciavano nei venti di ponente e nella corrente del Golfo. Se è il caso ad offrire al navigatore genovese il trampolino più adatto, è comunque senz’altro la sua determinazione a consentirgli dapprima di intraprendere e poi di portare a termine un’impresa che agli occhi dei contemporanei appare insensata. Colombo in realtà fonda la sua sicurezza su alcune valutazioni geografiche condivise all’epoca da non pochi studiosi e navigatori, vale a dire sulla convinzione che la sfericità della terra consenta una via occidentale alle Indie, che questa via non presenti ostacoli di natura diversa dalle difficoltà intrinseche alla navigazione oceanica e, soprattutto, che la distanza tra le coste orientali ed occidentali sia relativamente limitata. Quest’ultima opinione ha origine da un duplice errore, relativo tanto alla misura della circonferenza terrestre quanto all’estensione longitudinale dell’Eurasia. Diminuendo il valore in miglia del grado di longitudine e attribuendo alla massa continentale asiatica una lunghezza molto maggiore di quella reale, i geografi medievali erano giunti a costringere in meno di 140° (pari a 7000/7500 miglia) la distesa atlantica, concepita come un continuum unico tra Europa ed Asia.

Colombo è indotto a rischiare, oltre che da queste stime erronee, dalla conoscenza e dal rispetto profondo che nutre per le opinioni degli antichi, da Eratostene a Strabone, fino a Seneca. E non solo: nella sua incerta biografia sembra anche potersi collocare un viaggio al nord, nel 1477, durante il quale avrebbe toccato il porto di Bristol e quello di Galway, in Irlanda (qualche studioso azzarda anche l’ipotesi di una circumnavigazione dell’Islanda), e avrebbe avuta notizia non solo dei riferimenti vichinghi al Vinland ma anche di misteriosi approdi in Islanda di “uomini del Cathay” (probabilmente inuit) su imbarcazioni di fortuna.

Le sue convinzioni hanno infine il conforto di una voce autorevole, quella di Paolo dal Pozzo Toscanelli, che già si era espresso favorevolmente sulle possibilità di forzare l’Atlantico in un parere sollecitato dalla corte portoghese. Armato di queste credenziali scientifiche e di una irriducibile pertinacia, il ligure compie presso la corte di Lisbona i primi tentativi di ottenere finanziamenti ed investitura ufficiale. Ma i portoghesi, che pure, come dimostra la richiesta di un parere ufficiale al Toscanelli, non escludono dai loro progetti l’apertura di una rotta transoceanica, sono già impegnati a fondo nella circumnavigazione africana, e non intendono al momento stornare navi e capitali dall’impresa. Colombo ripete la trafila delle anticamere, delle spiegazioni, delle richieste alle corti inglese e francese, con gli stessi risultati. Solo in Spagna trova credito, non senza riserve e tentennamenti.

Può quindi finalmente fare vela da Palos, il 3 agosto del 1492, con tre caravelle procurategli dalla benevolenza della regina e da una società armatoriale appositamente costituita con capitale spagnolo, genovese e fiorentino. Dopo un lungo scalo alle Canarie, per riparare un’avaria della Pinta, si avventura ad Occidente e tocca terra il 12 ottobre nell’arcipelago delle Bahamas, sull’isola subito ribattezzata San Salvador. Successivamente la spedizione approda a Cuba e ad Haiti. Il viaggio di ritorno è affrontato agli inizi dell’anno successivo con due sole navi (la Santa Maria, l’ammiraglia, essendosi sfasciata su di un fondale haitiano) e si conclude dopo altri due mesi circa di navigazione (dal 16 gennaio al 4 marzo).

I regnanti spagnoli han di che essere soddisfatti: colmano Colombo di onori, ma soprattutto si preoccupano immediatamente di far omologare sul piano internazionale i propri “diritti” sulle terre scoperte. Già ai primi di maggio dello stesso 1493 il papa Alessandro VI attribuisce agli spagnoli, con due bolle successive, non solo il dominio sui luoghi effettivamente toccati ma anche il diritto esclusivo su tutte le terre da scoprire ad occidente della raya, ovvero di un ideale meridiano di demarcazione corrente a cento miglia ad ovest delle Azzorre. Alla prassi delle bolle papali di ratifica avevano fatto ricorso in precedenza anche i portoghesi, per sancire la legittimità dei loro possessi in terra africana, ma Alessandro VI, legato a doppio filo alla monarchia aragonese, opera in questo frangente in maniera sfacciatamente partigiana. Già di per sé la riuscita della spedizione di Colombo costituisce per i portoghesi un grosso smacco, tenendo conto del fatto che il ligure torna con la convinzione di aver toccate le coste asiatiche e che i loro sforzi per raggiungere l’oceano indiano navigando ad est non sono stati ancora coronati da successo. Essi reagiscono quindi vivacemente, per ottenere almeno lo spostamento della raya. Nel maggio del 1494 la linea di demarcazione è definitivamente stabilita a 340 leghe ad occidente delle isole di capo Verde (trattato di Tordesillas), ciò che consentirà al Portogallo di esercitare il diritto di scoperta sulle coste orientali dell’America del sud. Lo stesso Colombo esprimerà in seguito la convinzione che il sovrano del Portogallo fosse informato, sia pure in maniera vaga e confusa, dell’esistenza di un territorio d’oltremare (il Brasile) facilmente raggiungibile.

L’ammiraglio genovese nel frattempo è ripartito per l’emisfero occidentale (settembre 1493), con una flotta di diciassette navigli. Mantiene una rotta simile a quella del viaggio precedente e tocca stavolta le piccole Antille e la Giamaica. È al culmine del successo: unico cruccio, quello di non aver ancora stabilito i contatti coi favolosi regni delle spezie, alla cui ricerca era partito. Già nel terzo viaggio (1498), però, la sua stella è in declino: un ispettore regio inviato a controllare il suo operato di governatore lo rispedisce in Spagna in catene, assieme al fratello Bartolomeo. Dopo aver conosciuta l’umiliazione del carcere ha modo di compiere un ultimo viaggio nel 1502. La spedizione persegue negli intenti del genovese un disegno particolarmente ambizioso: quello di trovare un passaggio che conduca “all’altro mare”, al Pacifico. Colombo anticipa, e non si capisce sulla base di quali conoscenze o intuizioni, il sogno che per tre secoli spingerà in avventure disperate navigatori di tutte le nazioni. Il viaggio si risolve comunque in un disastro. Le quattro navi con le quali ha salpato da Siviglia naufragano l’una dopo l’altra, lasciandolo sulle coste del Venezuela, assieme a pochi superstiti. Solo una spedizione di soccorso miracolosamente richiamata dall’isola di Hispaniola lo salva dalla morte.

Colombo ha probabilmente, forse fin dal terzo viaggio, la coscienza di aver toccato un nuovo continente, ma questa coscienza non trova riscontri testamentari. Piuttosto essa si sposa a confuse suggestioni religiose, facendo maturare il lui la sensazione di essere approdato ai lidi del Paradiso terrestre. Parla in talune sue lettere del Gange, dei fiumi dell’Eden, della montagna della penitenza, che sarebbero stati riconosciuti nel corso delle sue esplorazioni: ciò che induce i destinatari a considerarle come le farneticazioni di un pazzo. Più credito si dà invece ad altre sue affermazioni, dalle quali traspare la convinzione di essere in presenza delle isole estreme del Cipango (Giappone).

Pure in mezzo alle perplessità suscitate dalla condizione primitiva delle terre raggiunte e dagli scarsi esiti commerciali, l’importanza del viaggio di Colombo è presto avvertita in Europa: anche gli altri stati cominciano a muoversi, nel timore di essere ancora una volta esclusi dai traffici con l’oriente. Incuranti del trattato di Tordesillas gli inglesi affidano a Giovanni Caboto il compito di raggiungere le Indie lungo una rotta molto più settentrionale di quella di Colombo. Il veneziano parte da Bristol nel 1497 e dopo soli tre mesi è di ritorno in Inghilterra: nel corso della spedizione costeggia il litorale dell’odierna Nuova Scozia, riportandone la convinzione di essere in presenza del Catai, ed è in effetti il primo europeo a mettere piede, dopo i Vichinghi, sulla massa continentale americana. Anche i fratelli portoghesi Corte-Real esplorano nel 1499 le coste settentrionali del continente, mentre lo stesso anno due spagnoli, Vincente e Alonso de Ojeda, fanno rotta al sud sbarcando sulle spiagge del Venezuela e forse del Brasile. Quest’ultimo è “ufficialmente” toccato da Pedro Alvarez Cabral, portoghese, che nel corso di una spedizione circumafricana alle Indie orientali compie una deviazione ad ovest in pieno Atlantico. Cabral assicura in questo modo alla monarchia il diritto di sfruttamento e di colonizzazione. Nel frattempo Amerigo Vespucci, che ha compiuto un primo viaggio nel 1499, partecipa ne1 1501 ad una spedizione guidata dal portoghese Nino Manoll, sempre sulle coste brasiliane. Il fiorentino ha una parte di scarso rilievo nell’opera concreta di esplorazione, ma le sue relazioni di viaggio lo rendono famoso e al tempo stesso diffondono l’interesse per i viaggi oceanici, suscitando nuove aspettative.

Vespucci non è il primo, ma è certo tra i primi a rendersi conto che quello cui gli europei si trovano di fronte è un continente nuovo, ignoto tanto agli occidentali quanto agli asiatici, che nulla ha a che fare con le Indie. Nella lettera sul “Mundus Novus”, indirizzata a  e data alle stampe, scrive: “possiamo giustamente chiamarlo un Nuovo Mondo … è un continente più densamente abitato e più ricco di animali dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa.” Allorché comincia a farsi strada questa constatazione, mentre da un lato cresce la curiosità e l’attenzione per le scoperte dall’altro si rinnova l’impulso a superare la barriera e a guadagnare comunque le tanto favoleggiate coste asiatiche. La mentalità sottesa ai primi viaggi transoceanici non contempla infatti progetti di colonizzazione intensiva: del rapporto con gli abitanti si dirà più oltre, ma sulle prime le terre toccate non sembrano in grado di offrire valide alternative economiche al commercio delle spezie. Già nel 1513 pertanto Vasco Nunez de Balboa si affaccia, in nome della corona spagnola, sull’oceano Pacifico, dopo aver attraversato l’istmo di Darien ed essersi lasciato alle spalle senza incontrarla la civiltà azteca.

L’esplorazione delle coste continentali prosegue comunque intensissima, a dispetto dei primi negativi riscontri, facilitata ora dal poter fare base nelle isole caraibiche. Centinaia di navi ripercorrono, già nel primo quarto di secolo successivo alla scoperta, con qualche variante, la rotta tracciata da Colombo. Portano soldati, mercanti, funzionari regi, ma soprattutto avventurieri in cerca di una occasione. Juan Diaz de Calis e Vincente Pinzon toccano nel 1509 i litorali dell’Honduras e dello Yucatan. Juan Ponce de Leon naviga invece più a nord, sbarcando in Florida, mentre Hernandez de Cordoba riconosce nel 1517 le coste orientali messicane. Ci si spinge anche molto più a sud: nel 1516 Juan Diaz de Solís scopre l’estuario del Rio de la Plata, tra l’Argentina e l’Uruguay, e una decina d’anni più tardi Sebastiano Caboto esplora il fiume Paranà.. Hanno luogo anche i primi insediamenti continentali: Santa Maria del Antigua e Portobello nel 1509-1510, Panama nel 1517. Sono per il momento soltanto piccoli fortilizi isolati, moli e depositi ove si incontrano per gli scambi gli indigeni e i mercanti provenienti dalle isole.

Tocca invece a Ferdinando Magellano, portoghese al servizio degli spagnoli, doppiare l’estrema propaggine meridionale del continente americano e forzare per primo il nuovo, sconosciuto oceano. Finanziato dallo stesso Carlo V, Magellano salpa il 20 settembre 1519 con cinque navi, già ridotte a tre al momento di penetrare nel Pacifico. Trova un varco molto più a sud di quanto avesse sperato, nello stretto che porta il suo nome, e punta poi decisamente a nord-ovest, approdando alle Marianne il 6 marzo 1521. Ha navigato per quasi diciotto mesi con la prua rivolta costantemente ad ovest, gli ultimi quattro senza la possibilità di alcuno scalo, dovendo fronteggiare equipaggi sempre sul piede dell’ammutinamento, ma godendo in compenso di un mare e di una situazione meteorologica estremamente tranquilli (di qui la denominazione di Pacifico, presto smentita dalle peripezie di altre spedizioni). Non ha però le ventura di portare a termine il viaggio, perché rimane ucciso alla fine di aprile nelle Filippine, in un’imboscata tesagli dai nativi. Le due navi superstiti intraprendono l’ultima parte del viaggio mantenendo la rotta ad ovest, per doppiare il capo di Buona Speranza e rientrare nell’Atlantico: ma una soltanto, con diciotto sopravvissuti su 265 partenti, attracca nel settembre dell’anno successivo in un porto spagnolo, dopo aver compiuta la prima circumnavigazione completa del globo terrestre.

Il rinvenimento di un immenso oceano al di là del nuovo continente fa naufragare le speranze in una via occidentale più agevole per le Indie sulle rotte meridionali. Rimane da accertare, invece, la possibilità di un contatto facilitato lungo la rotta settentrionale: ed ha quindi inizio la ricerca del favoloso “passaggio a nord-ovest”. In essa si impiegano soprattutto le nazioni escluse dal trattato di Tordesillas, Francia e Inghilterra. I francesi, spronati dalla rivalità che li oppone all’impero spagnolo, operano anche alcuni tentativi di insediamento nelle coste sudamericane: ma ne sono dissuasi dall’energica reazione del Portogallo, che in forza del trattato stesso sta spingendo in profondità la colonizzazione dell’area brasiliana. Rimane aperta soltanto la zona costiera del nord, tra l’altro più accessibile per le navi provenienti dai porti della Bretagna e dell’Inghilterra, che evitano su questa rotta la spinta contraria della corrente del Golfo e dei venti occidentali. Nei 1524 Giovanni da Verrazzano, già famoso per aver catturato l’anno precedente la nave che trasportava il tesoro di Cortés in Spagna, esplora per conto del re di Francia le coste occidentali del nord America, risalendo dal primo approdo presso Cape Fear sino al Maine e alla Nuova Scozia, alla ricerca di una via d’acqua che consenta la penetrazione nel Pacifico. Crede anche di averla trovata quando si imbatte nella laguna interna di Pamlico Sound, che descrive come una propaggine dell’altro oceano. Più tardi i tentativi proseguono con Jacques Cartier, che in tre viaggi successivi tocca la foce del San Lorenzo e dà inizio all’insediamento coloniale francese.

In questo periodo l’Inghilterra persegue una politica di esplorazioni più cauta, affidandosi soprattutto al figlio di Giovanni Caboto, Sebastiano.[24] Dai suoi viaggi, alcuni dei quali compiuti al servizio della Spagna, Caboto trae però la convinzione dell’impossibilità, o perlomeno della scarsa convenienza, di raggiungere l’oriente per una via marittima nord-occidentale. Diviene fautore piuttosto della ricerca di un passaggio a nord-est, seguendo rotte già frequentate fino ad una certa longitudine dagli scandinavi. Gli inglesi rimangono comunque persuasi dell’esistenza di un varco occidentale. Sir Humprey Gilbert, fratellastro di Raleigh, pubblica nel 1576 un Discorso comprovante il passaggio a nord ovest per il Cataio e per le Indie orientali nel quale sostiene, quanto meno per ragioni di simmetricità, l’esistenza di uno stretto – lo stretto di Anian – che consente l’accesso da nord al Pacifico, così come lo stretto di Magellano lo consente da sud. Si intensificano di conseguenza i sondaggi in questa direzione. Martin Frabisher, protetto di Gilbert, nel corso di tre successivi (1576, ‘77, ‘78) scopre il canale d’ingresso alla Baia di Hudson, prende contatti (poco amichevoli) con gli esquimesi e riporta in Inghilterra tonnellate di pirite, convinto di aver scoperto un vero Eldorado (determinando in realtà il fallimento del gruppo che lo finanzia, la Compagnia del Catay). Nel decennio successivo (1585, ‘86, ‘87) John Davis si spinge sino al 72° di latitudine nord, costeggiando e poi esplorando l’isola di Baffin e tornando in patria con la convinzione che il passaggio sia “di facile esecuzione”.

Una ricognizione organizzata di questa zona del mondo non è però ancora presa in considerazione dalla corona britannica: essa si affida piuttosto alle imprese o alle scorrerie isolate, come quella che porta Francis Drake tra il 1577 e il 1580 a ripetere per primo dopo Magellano la circumnavigazione del globo. Drake arriva a compiere il periplo terrestre per necessità, in quanto, dopo essere penetrato nel Pacifico in cerca di bottino ed aver saccheggiato i porti e abbordato tutte le navi spagnole nelle quali si imbatte, risale le coste occidentali americane sin oltre la California, ma non trova il varco sul quale contava per rientrare in Atlantico. È costretto pertanto a buttarsi decisamente ad occidente, facendo scalo a Ternate e a Giava e facendo danni anche ai portoghesi, fino a rientrare in patria dopo tre anni carico di bottino e di gloria.

Il suo percorso, e in pratica la sua avventura, sono ripetuti dieci anni dopo da Thomas Cavendish, anch’egli mosso non da motivazioni esplorative ma dallo spirito corsaro, che ha già in mente però sin dalla partenza la circumnavigazione e la porta a compimento nel tempo record di due anni.

Anche le indicazioni di Sebastiano Caboto su un possibile itinerario nord-orientale non sono comunque del tutto ignorate. Già nel 1553 una flotta di tre navi, sotto il comando di sir Hugh Willoughby, penetra in quello che sarà il mare di Barents e arriva sino alle isole della Novaja Zemlia. Due delle navi vengono intrappolate dal ghiaccio e gli equipaggi scompaiono dopo averle abbandonate. La terza, guidata da Richard Cancellor, riesce a riguadagnare un approdo in Russia, e getta le fondamenta di un interscambio marittimo con il nascente impero moscovita, che si concretizza nella fondazione di una “Compagnia per la scoperta di regioni, isole e luoghi sconosciuti”, altrimenti conosciuta come Compagnia di Moscovia. Sono tuttavia gli olandesi, in piena rivolta antiasburgica e determinati a trovare una rotta per il Pacifico non disturbata da spagnoli e portoghesi, a spingere più decisamente innanzi l’esplorazione a nord est. Nel corso di due spedizioni (1595, 1596), l’ultima delle quali si conclude tragicamente con la morte per scorbuto dello stesso comandante, William Barents spinge l’esplorazione sino al mare di Kara, a 76° 10’ N. Anche questa via risulta però, almeno per il momento, impraticabile.

Nel frattempo, forti delle loro basi d’appoggio americane e facilitati, rispetto ai francesi e ai nordeuropei che tentano la via del nord, anche dalla ridotta ampiezza della massa continentale meridionale, gli spagnoli si lanciano alla conquista del Pacifico. Andrés de Urdaneta nel 1565 effettua la prima traversata fino alle Filippine, trovando la rotta ideale col favore degli alisei occidentali e saggiando la navigabilità di quelle acque. Due anni dopo è affidato ad Alvaro de Mendana il compito di rinvenire la fantomatica terra australe che dovrebbe stendersi a sud della Terra del Fuoco: la ricerca finisce invece per diventare una triangolazione del Pacifico, nel corso della quale vengono toccate per la prima volta da europei le Salomone e le isole Marshall. Una seconda spedizione guidata da Mendana quasi trent’anni dopo (1595) ha uno scopo esplicitamente colonizzatore. Le quattro navi imbarcano infatti intere famiglie, artigiani, contadini. La conduzione dell’impresa è però disastrosa. Alle Salomone gli spagnoli ripetono per filo e per segno le modalità di rapporto con gli indigeni già sperimentate nelle Americhe: si abbandonano ad insensati massacri e alle faide interne, fino a quando Mendana muore e il comando viene preso da Pedro de Quiros. Questi raggiunge Manila e torna poi in America mantenendo una rotta molto meridionale, nella speranza di toccare quella che lui stesso battezza per primo, senza averla mai vista, Australia. Dieci anni più tardi (1605) sarà proprio questa la sua meta, e crederà di averla raggiunta quando approda alla maggiore delle Nuove Ebridi. Risospinto al largo da una tempesta, non è più in grado di tornare a completare l’esplorazione e rientra ad Acapulco. Una delle sue navi, però, al comando di Luis Vaez de Torres, rimasta staccata dal resto della flotta, prosegue verso occidente, scopre la Nuova Guinea, la costeggia lungo il litorale meridionale passando attraverso stretto che oggi porta il nome del navigatore e avvistando (ma non riconoscendo) il lembo più estremo della costa australiana. Torres non rientra in America, e conclude il suo viaggio, nel corso del quale ha perduto un solo uomo, a Manila. Nel frattempo però le motivazioni iberiche ad una ulteriore esplorazione del Pacifico si sono esaurite: soprattutto è venuto meno quel dominio dei mari ispano-portoghese che aveva caratterizzato tutto il secolo precedente. I protagonisti sono ora altri, primi tra tutti, in ordine di tempo, gli olandesi.

I meccanismi e i tempi della conquista

Vedremo più avanti come spagnoli e portoghesi si siano impadroniti della parte centro-meridionale del nuovo continente; ma in un primo periodo anche il loro sforzo è volto alla ricerca di tesori, di minerali preziosi e di merci d’alto pregio, ricerca che è ben lungi dal rispondere ad un preciso piano d’insediamento e di sfruttamento. Lo shock della scoperta è superato molto lentamente: le nuove terre e le popolazioni che le abitano creano problemi giuridici, religiosi, filosofici, ai quali non si era preparati. D’altro canto, ciò che ancora il continente nasconde è troppo nei confronti di quanto già si conosce, per poter elaborare disegni precisi. Occorre prima che l’esistenza di queste immense regioni vergini o quasi entri a far parte definitivamente dell’abito mentale degli europei.

Le isole caraibiche, ed in particolare le Grandi Antille, prime propaggini del nuovo mondo toccate dagli europei, conoscono precocemente gli effetti della colonizzazione. Su consiglio dello stesso Colombo gli spagnoli hanno proceduto, subito dopo la firma del trattato di Tordesillas, ad una esplorazione intensiva nella speranza soprattutto di trovare ricchi giacimenti auriferi. Oltre che per i giacimenti di oro alluvionale, le isole vengono sfruttate per la loro fertilità, introducendo piantagioni di canna da zucchero. È il primo grande dramma della conquista. Nel giro di mezzo secolo gli indigeni sono sterminati dalle disumane fatiche cui vengono costretti e dalla crudeltà messa in mostra dai colonizzatori. Alcuni tentativi di rivolta sono stroncati con massacri che accelerano l’estinzione di un intero popolo. Quando a rimpiazzare la forza-lavoro che va rapidamente scemando cominciano ad essere introdotti gli schiavi africani, ben diversamente resistenti allo sforzo ed alle restrizioni della cattività, il destino degli ultimi tainos sopravvissuti è segnato: essi diventano “inutili” a tutti gli effetti.

Gli spagnoli non desistono affatto dalla ricerca dell’Eldorado: soltanto, la trasferiscono sul continente. Nel 1519, dopo che altre spedizioni hanno fallito nell’impresa, il governatore di Cuba affida ad Hernan Cortés il compito di creare basi stabili sulla costa messicana, in vista di una futura penetrazione. Cortés ha a sua disposizione 11 navi, 16 cavalli e circa 600 uomini. Ha raccolto nei porti caraibici voci e testimonianze sull’esistenza di una civiltà continentale ben superiore a quella dei miti e primitivi tainos. È certo di trovare non soltanto miserabili villaggi, ma anche città vere e proprie, favolosamente ricche, e un’organizzazione statale evoluta. Sulla base di queste convinzioni una volta sbarcato sul continente e fondata la città di Vera Cruz, non si limita ai semplici approcci e agli scambi commerciali previsti dal suo incarico. Riceve gli ambasciatori di Montezuma, che recano oro e gioielli, e decide di arrivare direttamente, e per primo, alla fonte di tanta ricchezza. Per assicurarsi contro le diserzioni e gli ammutinamenti rende inutilizzabili tutte le navi, legando così indissolubilmente al suo destino i compagni: quindi inizia la penetrazione verso l’interno.

Una marcia velocissima lo porta a Città del Messico (Tenochtitlan) in meno di due mesi, consentendogli di battere sul tempo l’organizzazione difensiva degli Aztechi. Sul suo cammino trova le popolazioni totonache, recentemente sottomesse al dominio azteco e tutt’altro che dome, che opportunamente sobillate si ribellano e si schierano al suo fianco. La marcia di Cortés non è una vera e propria offensiva. Gli Aztechi, un po’ perché impressionati dalle armi da fuoco e dai cavalli, un po’ fidando nella propria schiacciante superiorità numerica, lo lasciano giungere a Messico pressoché indisturbato. Una volta nella capitale il conquistador, grazie ad una ambigua politica di minacce alternate ad adulazioni, riesce praticamente a sequestrare Montezuma, facendone un ostaggio e ribaltando la sua situazione di ospite-prigioniero. Scoperta poi l’esistenza di un immenso tesoro imperiale è ben deciso a rischiare il tutto per tutto per impadronirsene. Prima, però, deve affrontare una spedizione inviata dal governatore di Cuba, al comando di Diego de Narvaez, per ricondurlo all’obbedienza. Con astuzia si guadagna il favore della maggior parte degli ufficiali della spedizione, fa eliminare Narvaez e si trova così con effettivi raddoppiati. Al ritorno a Tenochtitlan trova una situazione drammatica. Gli Aztechi, indignati per un inutile massacro perpetrato dalla guarnigione spagnola lasciata nella città, sono passati all’ostilità aperta. Cortés è costretto a fuggire, forzando l’accerchiamento con una disperata sortita. Solo nel 1521, dopo aver riorganizzate le proprie forze ed aver cinta d’assedio per tre mesi la città, riesce a prevalere; ne segue, naturalmente, un massacro. La civiltà azteca è completamente distrutta, ma il successo riserva agli spagnoli anche una cocente delusione: la gran parte del tesoro di Montezuma è scomparsa e ossessionerà i sogni di gloria e di ricchezza degli avventurieri per secoli; quello che rimane è destinato a giungere solo in parte in Spagna, perché i corsari francesi se ne impadroniscono in alto mare.

L’impresa di Cortés, al di là di quanto appare da questa succinta narrazione, è tutt’altro che agevole; più volte l’avventuriero spagnolo è sul punto di soccombere e solo l’indecisione dei suoi antagonisti gli permette di riprendersi. A suo vantaggio giocano però numerosi fattori, di ordine sia tecnico che psicologico. Egli si avvale intanto di una mentalità tattico-strategica ben diversa da quella degli Aztechi. Tra gli scopi principali delle guerre azteche c’è infatti la cattura di prigionieri da usarsi nei cruenti sacrifici umani e quale manodopera servile: ciò crea consuetudini di combattimento che favoriscono gli spagnoli, avvezzi dal canto loro allo sterminio indiscriminato. Pesa notevolmente anche lo shock provocato dalle armi da fuoco e dai cavalli, nonché la superiorità delle armi bianche spagnole in acciaio n ei confronti delle spade e delle lance di ossidiana degli amerindi. Cortés, inoltre, può profittare delle divisioni e delle rivalità interne allo stato azteco, che ha due soli secoli di vita e non è riuscito a creare un amalgama tra le popolazioni soggette: al momento decisivo si troverà quindi a disporre di sei o settemila alleati indigeni decisi a vendicare le stragi sacrificali dei loro recenti dominatori.

Non va sottovalutato infine un ultimo, importante elemento che favorisce l’avanzata dei conquistadores. Gli europei portano con sé dal vecchio continente i bacilli del vaiolo e della febbre polmonare, malattie sconosciute agli indigeni del nuovo mondo, i cui fisici, non avendo sviluppato gli anticorpi specifici, vengono falcidiati con una facilità impressionante. Sono proprio le epidemie a dare il colpo di grazia agli aztechi, così come avverrà nei secoli successivi per le popolazioni delle praterie del nord o per gli indios delle foreste meridionali.

L’opera di Cortés viene completata, negli anni successivi, da altri conquistadores calati nell’America centrale dalle isole caraibiche o direttamente dalla Spagna. La costa settentrionale del golfo del Messico viene esplorata tra il 1539 e il 1542 da Hernàn de Soto, che penetra nella Florida e ridiscende lungo il Mississippi: mentre negli stessi anni Coronado[25] si addentra negli altipiani centro-meridionali del Colorado e Alvarado costeggia le Montagne Rocciose. Lo stesso Cortés discende lungo lo Yucatan, fino al Guatemala e all’Honduras, venendo a contatto con gli ultimi residui di quella che era stata la grande civiltà dei Maya.

La conquista del Messico, col suo alone di avventura, di gloria e di bottino, accende vieppiù la fantasia e la brama di quanti sono stati gettati sulle coste americane dalla volontà di far fortuna a qualsiasi prezzo. Nel contempo induce le autorità spagnole ad appoggiare ogni tentativo di penetrazione all’interno del continente, nella speranza di venire a contatto con nazioni altrettanto ricche e potenti come quella azteca. Nel 1522 Pascal de Andogoya ha notizia di un favoloso Regno d’Oro, che sorgerebbe al sud, molto all’interno, nella zona che gli spagnoli chiamano Derù o Perù. Ne parla a Panama con Francisco Pizarro, squattrinato soldato di ventura venuto qui a cercare la sua occasione, il quale si convince di avere finalmente la fortuna a portata di mano. La prima spedizione di Pizarro, nel 1524, si conclude miseramente: egli perde una nave e cento uomini, ma non le speranze. Ritenta infatti già nel 1526, arrivando stavolta a contatto con la civiltà incaica: è seguito però da soli 16 compagni, e deve ancora rinviare i suoi progetti di conquista. Tornato in Spagna, relaziona al sovrano sull’esistenza di uno stato notevolmente organizzato sulle Ande, e riceve il titolo di viceré ed aiuti militari. Torna in Perù nel 1532, e trova stavolta condizioni favorevoli ai suoi progetti. Il paese infatti è in subbuglio per la guerra civile scoppiata tra Huascar, dodicesimo inca, e Athaualpa, pretendente al trono, che ha il sopravvento. Col tradimento Pizarro cattura Athaualpa e ne chiede un ingente riscatto: ma una volta che questo è stato pagato, fa uccidere l’inca. L’impero incaico viene debellato, grazie anche al concorso di quei fattori di cui si è fatta menzione per gli aztechi, dopo due anni di scontri. Ma essendo esso molto più saldamente organizzato e radicato ormai al di sopra delle differenze tra i popoli soggetti, occorreranno agli spagnoli altri quarant’anni per liquidarne le sopravvivenze. Gli Incas si organizzano infatti in uno stato libero sulle alture andine e resistono strenuamente sotto la guida di Manco Capac e di Tupac Amaru. Questa volta sono i contrasti interni tra i conquistadores, che vedono opposti prima Pizarro stesso e Diego de Almagro, poi il figlio di quest’ultimo, che vendica il genitore uccidendo Pizarro, e le forze del sovrano, ad agevolare gli indios nella loro guerriglia.

Dopo la disgregazione dello stato incaico e la conquista di Cuzco gli spagnoli dilagano comunque per tutta la zona andina. Da Cuzco risalgono al nord, fondando Quito, e si spingono a sud (fondazione di Santiago, 1541). Superano le Ande a diverse latitudini, discendendo con Orellana[26] il Rio delle Amazzoni fino alla foce, e penetrando con Almagro nella pampa argentina.[27] Prima della metà del secolo i lineamenti del dominio coloniale spagnolo nel nuovo mondo sono tracciati: a sud, tutta la costiera andina che si affaccia al Pacifico (la foresta amazzonica ferma la penetrazione verso oriente): al centro, oltre all’originaria zona caraibica, tutta l’area dell’istmo e l’altipiano messicano, da un oceano all’altro.

Le conquiste, da un lato stimolate e agevolate dalla corona, creano dall’altro la necessità di nuovi strumenti amministrativi e giuridici per una tempestiva regolamentazione. Il comportamento di Cortés, che non tiene in alcun conto le direttive del governatore di Cuba ed, anzi, entra in aperto conflitto con lui, costituisce un esempio ed un precedente troppo pericoloso per non destare preoccupazione presso la corte madrilena. I conquistadores, pur professando ufficialmente la più completa sottomissione ai voleri regali, manifestano di fatto la tendenza a dare vita ad una sorta di feudalesimo coloniale, ritagliandosi grossi margini di autonomia amministrativa ed economica. Prima che il fenomeno possa dar luogo a sviluppi pericolosi, la corona provvede quindi ad inquadrare i nuovi territori in una struttura amministrativa di stretta obbedienza metropolitana. Il primo ad essere ridimensionato è proprio Cortés, al quale vengono lasciati soltanto incarichi militari ed esplorativi (del che il conquistador si lamenterà, ricordando al sovrano di aver guadagnate più terre di quante la corona ne possedesse, tra Spagna e Germania, in Europa). La colonia è retta per un breve periodo da un comitato, per poi passare alle dipendenze di un viceré. Il controllo da parte della madrepatria è strettissimo, e viene esercitato da un apposito Consejo das Indias, organismo creato nel 1524 al quale vengono demandati in pratica tutti i poteri amministrativi, legislativi e giuridici sulle terre d’oltreoceano (ma già dal 1511 il Consiglio di Castiglia si occupava degli affari delle Indie). Ad esso possono appellarsi le Audiencias, consigli locali delle colonie, il cui compito fondamentale, anche se non esplicito, è di bilanciare il potere dei funzionari. “Le Audiencias, sorta di parlamenti costituiti da oydores e da fiscales (procuratori), dal potere più o meno collegiale, diretti da un presidente, vanno sempre più affermando la loro importanza. Nel XVI secolo queste cariche erano ricoperte dai letrados, spesso di origine giudeo-cristiana, che assicuravano una giustizia imparziale. Ma dal secolo successivo il potere cade progressivamente nelle mani dei creoli” (Meyer). Questo mutamento nella composizione delle audiencias è il riflesso delle contraddizioni che caratterizzano l’amministrazione coloniale spagnola fin dai suoi esordi. Il sovrano è infatti intenzionato a trasferire tali e quali sul nuovo continente gli ordinamenti amministrativi della madrepatria. Ma la sua volontà deve venire ad un compromesso con la situazione emersa dalla conquista, con un quadro cioè di rapporti intercorrenti fra i vari gruppi assolutamente anomalo, al quale non è adattabile un ordinamento di tipo europeo. Si salvano pertanto le apparenze con l’adozione delle normative e delle strutture espresse dal potere metropolitano: ma nella prassi quotidiana si afferma sempre più l’influenza della piccola e media amministrazione, rappresentata appunto nelle audiencias e gestita dai creoli, con tendenze ad esercitare un potere parallelo e reale.

Per le due popolazioni, quella bianca o meticcia e quella indigena, vigono sistemi giuridici diversi. Ad esempio, gli alcaldes e i corregidores, autorità locali, hanno teoricamente potere solo sulla prima, mentre per la seconda sono responsabili speciali organismi demandati soprattutto alla cura dei religiosi. In realtà, quei sudditi “speciali” della corona che sono gli indigeni prima di tutto, e per loro disgrazia, sono sudditi dei creoli. Il rapporto di colonizzazione iniziale passa infatti attraverso il sistema delle encomiendas. Un affidatario spagnolo riceve in appalto la riscossione dei tributi di un villaggio o di una zona: si impegna da parte sua a favorire le conversioni, a mantenere il clero residenziale, a dare aiuto e protezione materiale agli abitanti. Nella realtà, egli ha potere di vita e di morte sugli amerindi, e mette in atto una spogliazione ed uno sfruttamento privi di qualsiasi contropartita, aggravati anzi dall’imposizione di modelli culturali, etici e religiosi assolutamente estranei allo spirito delle popolazioni indigene. Contro gli encomenderos, i loro privilegi e i loro abusi verranno dalla madrepatria ordinanze a ripetizione. Ma il sistema dell’encomienda, pur se ufficialmente abolito, sopravvive per tutto il XVI secolo. “Di fronte alla buona volontà del re e dei suoi consigli, il sistema creolo, fondato sul rifiuto del lavoro manuale, non frenerà i propri appetiti di potenza che nella sola misura dei suoi interessi e dell’evoluzione economica. Passa al sistema della grande piantagione zuccheriera e a quello dell’hacienda soltanto sotto la pressione economica» (Meyer).

I territori acquisiti alla corona spagnola vengono divisi in due vicereami: quello della Nuova Spagna, istituito nel 1535, comprendente tutto il Messico e la zona dell’America centrale: e quello della Nuova Castiglia, o Perù, istituito nel 1543. Ogni vicereame è a sua volta suddiviso in province, corrispondenti per lo più alle competenze territoriali delle singole audiencias.

Sul piano economico, già dal 1503 è attiva la Casa de Contractaciòn, che al pari della Casa da India portoghese detiene il monopolio dei commerci da e per le colonie.

 

 

La scoperta degli indiani e della loro anima

Nel resoconto dei suoi primi approcci con gli indigeni delle Antille, Colombo ci anticipa attraverso alcune significative considerazioni i tratti che caratterizzano l’atteggiamento futuro dei colonizzatori. Egli annota: “Prendevano tutto quello che loro si regalava, e davano assai volentieri di tutto quello che avevano; ma parvemi che potessero dare ben poca cosa, e fosse gente sotto ogni aspetto molto povera.” Più oltre: “[…] essi debbono essere molto servizievoli e di buon carattere”. E poi ancora: “Mi sembra che se potrebbe fare subito dei cristiani, perché pare che non abbiano alcuna religione”. Infine: “Non hanno ferro. Le loro zagaglie sono bastoni senza ferro … conoscono male l’uso delle armi […] cinquanta soldati sarebbero sufficienti a renderli inoffensivi e a far fare loro ciò che si vuole”. C’è in primo luogo la preoccupazione di fondo, che concerne il movente principe della spedizione, quello economico. Gli indigeni sono disponibili allo scambio, e probabilmente la loro ingenuità consentirebbe traffici assai vantaggiosi: ma non possiedono nulla di ciò che muove l’interesse degli europei: né l’oro, né le spezie. Colombo non può fare a meno di rilevarlo, sia pure marginalmente, e lasciando appena trapelare la constatazione in mezzo all’entusiasmo per il compimento della traversata e alla curiosità per l’incontro con i nativi. Deve prendere atto che sotto il profilo economico l’impresa si sta rivelando fallimentare: in Spagna i suoi finanziatori attendono carichi di pepe, di cannella, di chiodi di garofano, oppure di tessuti o di preziosi, non certo pappagalli o selvaggi piumati da esibire. I suoi rivali portoghesi hanno trovato sulla rotta orientale l’oro della Guinea, e sono comunque certi di approdare prima o poi direttamente ai mercati indiani. L’ammiraglio non può ammettere che la “sua” via e le scoperte risultino antieconomiche: gli indigeni hanno poco da offrire, ma sono “molto docili e servizievoli”, e di lì a poco verrà proprio da lui la proposta ai sovrani di utilizzarli o di venderli come schiavi. Per il momento si limita a reclutare nei loro villaggi delle mogli per i propri uomini, e a portarne alcuni con sé, in Europa, come campionario.

Dai prosaici calcoli commerciali, la cui momentanea frustrazione non induce affatto un declino delle speranze, si passa a più elevate preoccupazioni di promozione spirituale. Gli amerindi, privi almeno in apparenza di un culto religioso, offrono una notevole occasione missionaria. I dubbi sulla loro appartenenza o meno al genere umano sorgeranno più tardi, quando sarà ormai comprovato l’isolamento del continente americano e non si riuscirà a farli rientrare in alcuna delle stirpi bibliche. Dall’evidente vacanza di una religiosità “positiva” organizzata, Colombo deduce invece soltanto che gli indigeni non hanno un dio. La sua fede non è formale e convenzionale: egli è fermamente convinto del dovere di diffondere la “vera religione”, con le buone o con le cattive: “se ne potrebbe fare subito dei cristiani”, appunto.

Infine, visto che il livello di organizzazione politica e militare è ben diverso da quello che ci si attendeva (Colombo era munito di lettere dei sovrani per il Gran Khan), emerge anche il dato tutt’altro che trascurabile dell’estrema debolezza bellica dei nativi: armi primitive e spirito fondamentalmente pacifico. Anche se l’ammiraglio sarà parzialmente smentito dalla feroce resistenza offerta dai Caribi, la sostanziale innocuità degli indigeni sarà uno dei fattori di maggiore stimolo per il moltiplicarsi delle spedizioni transoceaniche.

Sugli iniziali contatti con gli abitanti del nuovo mondo pesa tutto il retaggio di sogni, speranze, paure, fantasticherie liberatorie o paurose di cui gli europei hanno da sempre caricato il mistero occidentale. In un primo tempo è presente anche, e lo abbiamo accennato per Colombo, l’inquietudine generata da una supposta profanazione: non ha forse i tratti dell’Eden, questa terra dal clima incredibilmente mite, che nutre i suoi abitanti senza spremere il loro sudore, che appare come un immenso giardino per la varietà e la ricchezza della sua flora? La sensazione di aver violato un mondo estraneo al tempo e alla storia umana resiste anche alla concreta presa di possesso delle nuove terre, alle delusioni che essa arreca e alla nuova barbarie che sembra eccitare negli animi degli europei.

L’innocenza, la semplicità, la gioia di vivere che traspaiono dai primi resoconti sugli indigeni ravvivano l’immaginazione dei contemporanei di Machiavelli (ma non quella del segretario fiorentino), troppo mortificata dalla realtà torbida e violenta in cui sono immersi. Li eccita la libertà e al tempo stesso la naturalezza sessuale, della quale favoleggiano, secondo un inveterato costume, i marinai di ritorno: così come li affascina l’idea di un’esistenza sottratta alla schiavitù del lavoro, fondata sul piacere e sull’abbondanza. Nella fantasia di chi ascolta le meraviglie della fertilità del suolo, del tepore perenne, della debolezza e della cordialità dei nativi entrano in circuito le fabulazioni medioevali sulle Indie, assieme al sogno paganeggiante di una rinnovata età dell’oro, diffusa tra gli umanisti quattrocenteschi (Colombo è contemporaneo di Machiavelli, ma anche di Botticelli). Il nuovo mondo dà linfa al fiorire dell’utopia: da un lato fornisce modelli esotici, sia di felice anarchismo che di efficiente organizzazione politico-amministrativa, cui attingono da Moro in avanti tutti i propugnatori di società “perfette”; dall’altro offre spazi concreti alla sperimentazione e alla realizzazione di “controsistemi” ispirati a nuovi rapporti con la natura e tra gli uomini. Del sogno utopico modifica comunque sostanzialmente i tratti. Le isole fortunate si moltiplicano, ma esse non vanno più alla deriva sugli oceani del mondo, e i loro colori sono familiari.

Al di là comunque delle fantasie liberate, la realtà dell’impatto procura agli europei più di una delusione. Si attendevano un’organizzazione politica, militare e soprattutto commerciale di alto livello, e si trovano di fronte, almeno inizialmente, ad un mondo primitivo, privo di una qualsivoglia struttura economica che consenta traffici regolari e remunerativi. Gli stessi missionari, aggregatisi sin dalla prima ora ai naviganti e ai conquistadores, nella prospettiva di immense greggi da condurre in seno alla chiesa, debbono constatare che i nativi sono riottosi alla conversione e tendono a dimenticare velocemente gli insegnamenti cristiani per tornare alla pratica dei loro culti tradizionali. I più comprensivi tra i religiosi manifestano l’impressione di trovarsi di fronte ad un popolo fanciullo, che dovrà attendere parecchio prima di giungere alla maturità. Esitano talvolta addirittura ad ammetterli ai sacramenti in cui entri in gioco una maggiore responsabilizzazione personale, come l’eucarestia. Ci sono anche coloro che, disgustati della promiscuità sessuale, delle usanze sacrificali, o semplicemente della impermeabilità dimostrata nei confronti della “vera fede”, rinunciano all’opera di evangelizzazione, affermando che “Dio mai creò gente tanto intrisa di vizi e di bestialità, senza mescolanza di bontà o urbanità”. (Tomaso Ortis).

D’altro canto, i problemi di coscienza e gli entusiasmi per il rinvenimento di una umanità più libera e felice sembrano propri soltanto di coloro che col nuovo mondo hanno rapporti puramente intellettuali o sentimentali. Chi invece ad esso concretamente approda è sospinto in genere da motivazioni che non consentono di apprezzare la “qualità della vita” degli indigeni. Al contrario, forti dell’impressione suscitata dalle armi da fuoco e dall’acciaio, ed anche del fatto che i nativi appaiono ingenui, fiduciosi e poco combattivi, gli europei non tardano a mettere in atto una spogliazione ed uno sfruttamento sistematici, improntati al più bestiale misconoscimento di ogni principio umano di carità o di giustizia. Cosa abbia significato per gli amerindi l’incontro con la “civiltà” europea lo dicono chiaramente le cifre. Nel volgere di un secolo una popolazione calcolata attorno ai venti milioni nella sola America Centrale, si riduce a circa un milione: e quella totale del continente, valutata sui quaranta milioni al momento dell’arrivo di Colombo, è ridotta alla fine del ‘500 a meno di dieci.[28] In questo sterminio hanno una gran parte le malattie, soprattutto quelle polmonari e il vaiolo, diffuse dai bianchi; ma senza dubbio la crudeltà, i massacri, le fatiche inumane imposte dai colonizzatoti rimangono il fattore principale. Nulla meglio della testimonianza di Bartolomeo de Las Casas, strenuo difensore della umanità degli Indios e del loro diritto alla libertà, può darci un’idea di ciò che avviene dopo la scoperta e nel corso della “civilizzazione”. Nella Brevisima relacion de la destruccion de las Indias troviamo descritte atrocità ai limiti del credibile. “I cristiani con cavalli e spade e lance cominciarono ad uccidere e usare indicibili crudeltà nei loro confronti. Entravano nelle terre, sventravano e squartavano senza risparmiare né ragazzi, né vecchi, né donne incinte, come se assaltassero degli agnelletti nelle loro mandrie. Scommettevano a chi con una coltellata fendeva un uomo in due, o gli tagliava lo testa di un colpo, o gli scopriva le viscere. Staccavano i neonati dalle poppe delle madri, prendendoli per i piedi, e li sfracellavano con la testa nelle rupi I signori e la nobiltà li uccidevano normalmente in questo modo. Costruivano graticole di legno sostenute da forchette, e ve li legavano sopra, e sotto attizzavano .un fuoco lento: onde poco a poco, gettando tra quei tormenti urla disperate, davano fuori l’anima queste cose e altre assai, che fanno fremere l’umanità, vidi io con questi occhi; ed ora ho appena il coraggio di raccontarle, desiderando io stesso non crederle, e supporre che sia stato un sogno”. Egli attacca violentemente anche gli encomenderos: “Finite le guerre, divisero tra loro gli uomini e così ripartiti li davano a ciascun cristiano col pretesto che dovesse ammaestrarli nelle fede cattolica: onde costoro, per lo più uomini ignoranti e crudeli, avidissimi e viziosi, eccoli divenire parrocchiani delle anime. La cura e il pensiero che ne ebbero fu di mandare gli uomini nelle miniere a estrarre oro, che è una fatica intollerabile: e le donne nelle capanne, per dissodare e coltivare il terreno, fatica da uomini molto forti e robusti. Non davano da mangiare né agli uni né alle altre, se non erbe e cose prive di sostanza … È impossibile riferire le some di cui li caricavano, di tre o quattro arrobe, facendoli camminare cento o duecento leghe sempre si servivano di loro come bestie da soma […] La tirannia che esercitano gli spagnoli contro gli indiani per cercare o pescare perle è una cose più riprovevoli e crudeli che siano al mondo. Non vi è sulla terra vita così infernale e disperata che possa paragonarsi a questa […] li mettono in mare, tre, quattro, cinque braccia al fondo, dalla mattina al tramonto. Stanno sempre nuotando a cercare le ostriche. Vengono a galla con alcune reticelle piene di queste a respirare, e lì vi è un boia spagnolo in una barchetta, e se cercano di riposarsi li percuote coi pugni, e pigliandoli per i capelli li butta nell’acqua, perché tornino a pescare”. Las Casas mostra di avere una esatta percezione delle dimensioni dell’etnocidio, quando afferma: “Daremo per certo e reale che, nei detti quarant’anni, per le tirannie e le infernali sevizie dei cristiani sono morti ingiustamente e tirannicamente più di 12 milioni di persone, uomini, donne e bambini; ed io credo in verità, né penso di ingannarmi, che passino i quindici milioni”.

Le divergenze tra la madrepatria e i coloni sul trattamento da usare nei confronti degli indigeni risalgono già ai primi anni della conquista. I sovrani, Isabella in particolare, sono decisamente contrari all’idea dell’asservimento, caldeggiata tra gli altri da Colombo. A Nicolàs de Ovando, primo governatore inviato alle Indie spagnole, fanno pervenire più di un richiamo a non eccedere nella coercizione degli indigeni al lavoro e a retribuirli “pagando loro il salario giornaliero che sia da voi fissato: e ciò facciano e compiano come persone libere come sono, e non come servi”. L’Ovando risponde che l’unico mezzo per far fruttare le terre scoperte è proprio il lavoro coatto: i nativi, pigri e disordinati per indole, necessitano in ogni attività produttiva di una guida e di uno stimolo costante. Una soluzione accettabile per entrambe le parti sembra essere rappresentata dall’encomienda, istituita nel 1503 nell’intento da parte dei sovrani di salvaguardare i diritti degli indigeni, senza venire a contrasto con i colonizzatori e senza rinunciare alle entrate che lo sfruttamento delle isole caraibiche prospetta. L’encomienda, come si è visto dalla testimonianza di Las Casas, si rivela una forma di schiavizzazione totale e tra le più disumane. Gli indios non “appartengono” all’encomendero, non costituiscono un suo bene o possesso, anche se costui li utilizza come tali: e ciò rende la loro situazione assai più penosa, perché neppure il senso della proprietà interviene in qualche modo a salvaguardarli. Essi sono sfruttati fino a che possono produrre, e quindi lasciati perire di stenti o di malattia; altri, bisognosi d’essere istruiti nella vera fede e “protetti”, li sostituiscono. Las Casas narra di un ufficiale cui furono affidati trecento indios, e nel giro di pochi mesi li ridusse a trenta; ottenuto un ulteriore affidamento, si ritrovò in breve tempo nella stessa situazione: e cosi continuò, dice il narratore, finché il diavolo se lo portò via.

Le prime voci ad alzarsi in difesa degli indios sono quelle dei missionari, in modo particolare quelle dei domenicani. Un religioso giunto da poco a Santo Domingo, Antonio da Montesinos, indignato per la barbarie di cui si trova ad essere spettatore, inizia nel 1511 a denunciare con violente predicazioni l’ipocrisia e la ferocia degli encomenderos. Ottiene al momento soltanto di venire in odio ai suoi vecchi compatrioti, che ne sollecitano l’allontanamento presso la corte e i superiori. Il germe di una diversa coscienza del problema indiano è comunque gettato. Tornato in patria, Montesinos si fa assertore intrepido all’interno del suo ordine e di fronte al consiglio della corona dei diritti degli indios e del rifiuto di qualsiasi forma di schiavitù; e non lotta invano, se nelle disposizioni date ai missionari domenicani è compreso da allora il rifiuto dell’assoluzione per gli encomenderos indegni. Più tiepidi al riguardo appaiono invece i francescani, che hanno nelle isole particolari concessioni e tendono a salvaguardarle sostenendo la necessità di una “tutela” ampia da esercitarsi sugli indigeni.

Nel 1514 inizia la battaglia di Las Casas. Già encomendero al seguito di Ovando, prende i voti in età matura, a 36 anni, e si trova a parteggiare, al momento dello scompiglio suscitato da Montesinos, per i coloni. Non tarda però a provare disgusto, toccato da quella predicazione, per il comportamento dei suoi compatrioti, e a rilevare Montesinos stesso nella difesa degli amerindi presso il consiglio delle Indie, fino ad ottenere il titolo di Protector de Los Indios.

In seguito alle sue sollecitazioni viene inviata ai Caraibi una commissione d’inchiesta, che prende atto della veridicità delle denunce, ma arriva a concludere che la soggezione degli indios, sia pure in forme mitigate, è indispensabile per la resa economica di quelle terre. Tutt’altro che domo, Las Casas si impegna allora a dimostrare concretamente il contrario. Ottenuta una concessione imperiale, nel 1520 impianta egli stesso una colonia mista di popolamento a Cumana, sulla costa del continente, fondandola sulla parità di diritti tra le due razze. L’esperimento non ha successo, soprattutto per la scarsa disponibilità alla convivenza egualitaria da parte dei bianchi; esso si risolve addirittura in un massacro, causato dalle provocazioni continue dei coloni, cui fa seguito un’immediata, crudelissima rappresaglia.

Neppure questo fallimento riesce tuttavia a far desistere Las Casas da quella che ormai considera la sua missione particolare. È un momento particolarmente difficile per la causa degli indios. Le remore morali che avevano in qualche modo condizionato il comportamento iniziale dei conquistatori, o lo avevano comunque fatto oggetto di riprovazione, sembrano venute meno. Dopo la morte di Isabella la corona si è mostrata scarsamente sollecita nella difesa della libertà degli indigeni. L’assuefazione all’idea di un loro legittimo asservimento induce un altro assioma, quello della loro inferiorità.

Nel 1524 il francescano Tomaso Ortis presenta al consiglio delle Indie una relazione molto esplicita in questo senso. Gli indios vengono in essa descritti nelle tinte più fosche: “…Mangiano carne umana e sono sodomiti più di qualunque altra popolazione non provano né amore né vergogna, sono bestiali ed incostanti, incapaci di apprendimento e di correzione, traditori, crudeli, vendicativi, ostilissimi alla religione: sono stregoni, negromanti, indoviniNon hanno arte né abilità da uomini.” La loro resistenza alla predicazione e all’evangelizzazione è tra le colpe più gravi: “Quando si scordano delle cose della fede che hanno imparato, dicono che esse vanno bene per la Castiglia e non per loro, e che non vogliono mutare né costumi né dei”. Persino le costumanze estetiche sono interpretate come perversioni: “sono senza barba, e se gliene cresce un po’ se la tagliano”. Le accuse di cannibalismo e di sodomia sono le più ricorrenti nelle descrizioni “in negativo” delle popolazioni amerinde. La seconda è di prammatica, in tutto il corso della civiltà occidentale, nei confronti di qualsivoglia diversità o dissenso (soprattutto all’interno dei gruppi religiosi o politici). La presenza effettiva del cannibalismo, invece, pratica attribuita nel medioevo solo alle popolazioni leggendarie, colpisce profondamente l’immaginazione europea, che ingigantisce un fenomeno peraltro sporadico e di significato soprattutto rituale. Già nel 1511 un anonimo inglese dà questa descrizione degli indigeni: “…Non hanno re, né signore, né dio, possiedono tutto in comune e vanno coperti solo di piume, come bestie senza ragione vivono mangiandosi l’un l’altro e appendono le salme per affumicarle come noi la carne di maiale”; dove la mancanza di senso dell’autorità e della proprietà è associata, in un comune significato di depravazione, all’antropofagia.

Nel 1526 Gonzalo Fernandez de Oviedo dà alle stampe un suo Sumario de la natura1 Istoria de las Indias, nel quale vengono ribadite le tesi di Ortis, nel dichiarato intento di giustificare il comportamento degli encomienderos. Las Casas si sente vieppiù spronato nella sua opera di denuncia e di divulgazione delle atroci realtà della conquista. Continua a presentare memoriali al Consiglio delle Indie, e pubblica nel 1542 la Brevisima relaciòn, dalla quale abbiamo tratto i passi sopra riportati. Nel frattempo la chiesa si è espressa ufficialmente sul problema con la bolla Sublimis Deus, emanata da Paolo III nel 1537, nella quale si sancisce la piena umanità e razionalità degli indigeni, e conseguentemente il divieto di privarli della libertà. È una posizione che a molti riesce assai difficile accettare. Las Casas conduce una disputa quasi ventennale con Juan de Sepulveda, teorizzatore di un diritto delle nazioni “civili” a soggiogare quelle primitive, e a condurre quelle ultime alla civiltà “con qualsiasi mezzo”. Al tempo stesso, però, affianca all’impegno teorico l’azione concreta, svolta nelle terre in questione. Riesce a strappare a Carlo V, proprio con la relazione sulla distruzione delle popolazioni indigene, le Nueuas Leyes de Indias, con le quali viene abolito l’istituto dell’encomienda, lasciando in vigore solo le concessioni esistenti fino alla morte dell’affidatario. È un provvedimento un po’ tardivo per gli indigeni, ormai decimati: così come quello successivo delle Ordenanzas sobre discubrimiento del 1573; inoltre, nella realtà, la situazione muta ben poco.

Nell’ideale dibattito che lungo tutto il Cinquecento ha luogo intorno all’“umanità” degli indiani e al livello della loro civiltà, appaiono emblematici gli atteggiamenti di due tra i maggiori protagonisti della cultura dell’epoca: Montaigne e Shakespeare. Il primo ha una posizione nettamente anticolonialistica, fondata su premesse ben diverse da quelle missionarie di Las Casas. Non gli interessa che gli indiani siano in grado di abbracciare e di praticare la fede “superiore” come e più dei bianchi. La sua idea di umanità è talmente ampia da comprendere le manifestazioni più eterogenee del vivere umano, e da accettarle di per sé, senza rapportarle a paradigmi particolari di civiltà, nella fattispecie a quella europea. “Mi sembra che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi: sembra infatti noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa”. La sua amara riflessione sullo snaturamento e l’artificiosità dei rapporti umani lo spinge anzi a scorgere nello “stato di natura” degli amerindi un livello superiore di esistenza. “Quei popoli mi sembrano barbari in quanto sono stati in scarsa misura modellati dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano sempre le leggi naturali, non ancora troppo imbastardite dalle nostre… Possiamo dunque ben chiamarli barbari, se li giudichiamo secondo le regole della ragione, ma non confrontiamoli con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie”. Smantella e ribalta persino le accuse che maggiormente si prestavano a suffragare l’imputazione di barbarie, come quella della pratica cannibalesca: “Non lo fanno, come si può pensare, per nutrirsene, ma per esprimere una superiore vendetta […] Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che ne1 mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente … e sotto il pretesto della pietà religiosa)”. Ed esprime il suo rammarico per uno stato di purezza e di tranquillità che nell’incontro con gli europei è andato irrimediabilmente perduto: “Temo molto che avremo assai affrettato il suo declino e la sua rovina col nostro contagio, e che gli avremo venduto a caro prezzo le nostre opinioni e le nostre arti […] Quanto a religione, osservanza delle leggi, bontà, liberalità, franchezza, ci è stato molto utile non averne quanto loro: essi si sono rovinati per tale superiorità e venduti e traditi da soli”.

Nel suo ultimo dramma, La Tempesta, Shakespeare ci offre una metafora ben diversa dei rapporti tra barbarie e civiltà. Se pure all’inizio sembra abbracciare tesi anticolonialistiche (“Se colonizzerò quest’isola, farò tutto al contrario niente traffici, niente magistrature… né poveri, né ricchi, e tantomeno schiavi nessuna legge né contratto... niente recinti, né lavoro, ecc…”), l’antitesi tra Calibano (anagramma di cannibale) e Prospero si rivela ben presto come lo scontro tra cultura, nella sua espressione superiore, ovvero europea, bianca, e natura, nel significato deteriore di animalità. Alcune affermazioni sembrano riecheggiare le relazioni di Tomaso Ortis, più ancora che le teorie di Sepulveda: “È un demonio, un demonio nato, sulla cui natura l’educazione non potrà mai fare presa”. C’è una componente nuova, nel disprezzo che i bianchi shakespeariani mostrano nei confronti di Calibano: è qualcosa che odora decisamente di razzismo: “[…] ma la tua bassa natura, per quanto imparassi, era tale che gli onesti non potevano sopportare di avvicinarla”. Shakespeare ha probabilmente letto il saggio di Montaigne: ma l’immagine che ha dell’uomo naturale è tutt’altro che edenica. Per lui l’essere umano è comunque soggetto alla corruzione e alla malvagità. Lo stato di natura è imperfetto, è una condizione subumana, che l’uomo civile deve correggere ed educare. Nel caso specifico poi Calibano, nero di origine africana, “a savage and deformed slave”, personifica la bruttezza, che si contrappone alla bellezza di Miranda, la malvagità bestiale opposta alla gentilezza e alla civiltà, e ciò spiega e legittima la sua condizione di schiavitù.

E tuttavia, anche dietro un ritratto così negativo spuntano alcune consapevolezze che rendono ambigua la posizione di Shakespeare. Calibano si rivela infatti violento e malvagio solo dopo aver subito prevaricazioni e provocazioni, mentre all’inizio appare gentile e ben disposto; il suo cambiamento è quindi anche frutto della corruzione portata dall’uomo civilizzato, la cui bassezza può essere persino peggiore della bestialità del selvaggio. Non tutti i bianchi sono come Prospero: anzi, la gran parte dei protagonisti de La Tempesta è di tutt’altro stampo. La malvagità è comune a entrambi i mondi.

La colpa di Calibano sta soprattutto nel desiderare la fanciulla bianca; e naturalmente, in quanto selvaggio e colorato, il suo desiderio non si esprime nella forma civile dell’ “aspirare alla mano”, ma nella bestiale ignominia dello stupro. Dopo che per un secolo gli spagnoli, i portoghesi e da ultimo anche i francesi si sono prodigati a ripopolare il nuovo mondo di meticci, la prospettiva di una mescolanza razziale appare ora, a chi sta per soppiantarli nel dominio coloniale, abominevole. Calibano è in fondo la proiezione di tutte le paure che gli abitanti del vecchio mondo hanno nei confronti del nuovo, e degli stereotipi che inventano per esorcizzarle.

Questa visione anticipa dunque, e condensa, lo spirito nuovo del colonialismo, lascia trapelare una diversa inquietudine: “La tempesta è la formulazione di un giudizio, oltre che storia in forma mitologica; è l’Europa che giudica e rifiuta non solo l’indigeno americano, l’indiano, ma tutti gli americani bianchi futuri, che inevitabilmente si trasformano a immagine dell’indiano. E pure il rifiuto non è totale, in quanto quasi all’ultimo momento il portavoce della cultura europea riconosce che il nuovo uomo nato dalla potenza delle tenebre è in qualche modo derivato anche da lui”. (Fielder).

Shakespeare non è nuovo a questa ambiguità. È la stessa che troviamo infatti nella vicenda di Otello, e prima ancora in quella di Shylock.

Nella storia del moro di Venezia il vero protagonista negativo è un bianco, un occidentale. Umanamente il povero Otello ispirerebbe piuttosto simpatia; è innamorato, ed è orgoglioso di essere amato da una donna bianca. Ma proprio qui è il discrimine: fin dove arriva l’amore, e dove invece l’orgoglio? Il tragico finale ci dice che è il secondo a prevalere, e questo in qualche modo avvalora il disagio, il sospetto vero che Shakespeare, attraverso Jago, ma non solo lui, insinua: più che l’amore qui sembra in gioco una rivalsa o un riscatto razziale. Non importa che Otello appaia più moderno e più aperto di tutti i suoi nemici (anche se poi, quando gli viene istillato il sospetto lascia libero corso alla sua natura primitiva). La sua colpa non è di aver commesso qualcosa, ma di essere quello che è. E proprio questo è significativo.

Allo stesso modo, ne Il mercante di Venezia Shylock risponde all’immagine demonizzante dell’ebreo già diffusa a partire dal Basso medioevo in tutta l’Europa, ma rafforzata in età controriformistica sia nei paesi cattolici che in quelli protestanti. E tuttavia, le parole che gli sono messe in bocca, alla fine del ‘500, non possono non lasciarci un sapore amaro in bocca, che guasta il “lieto” fine. “Sono un Ebreo. Non ha occhi un Ebreo? Non ha mani un Ebreo, organi, membra, sentimenti, affetti, passioni? Non si nutre con lo stesso cibo, si ferisce con le stesse armi, è soggetto alle stesse malattie, è curato con gli stessi metodi, non sente freddo d’inverno e caldo d’estate come un Cristiano? Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? E se ci fate un torto non vogliamo vendetta? Se noi siamo come voi in tutto il resto, vi rassomiglieremo anche in questo.”

Dov’è allora L’Europa?

La tradizione storiografica fa coincidere l’inizio dell’età moderna con la penetrazione europea nell’emisfero occidentale. Si tratta, come ovvio, di una datazione simbolica, che sintetizza in un evento particolarmente pregnante un insieme ben più complesso ed articolato di trasformazioni del sentire e dell’agire. Tuttavia, l’incontro col nuovo mondo costituisce davvero la chiave dello sviluppo egemonico della civiltà occidentale, lo sbocco obbligato di quel potenziale economico e culturale e di quella tensione espansionistica che erano maturati in cinque secoli di “ricostruzione” europea, e al tempo stesso la condizione imprescindibile per l’attuarsi di tali potenzialità. Da questo momento l’Europa coinvolge nella sua crescita, o meglio subordina ad essa, il resto del mondo. Con Colombo e con Magellano l’avventuroso spirito dell’occidente che era salpato dalle rive dell’Egeo compie e conclude il suo periplo terrestre: ed esaurita la fase esplorativa, dà l’avvio a quella del dominio.

La circumnavigazione ha un significato eccezionalmente liberatorio per la mobilità degli europei: all’inquietudine per i pericoli dell’ignoto e alla paura della trasgressione si sostituisce la padronanza geografica del globo, e conseguentemente una profana e dissacratoria sensazione di sicurezza. Lo spazio terrestre, concepito un tempo come continuum tra Dio e il creato, e quindi in definitiva come illimitato ed inconoscibile, si chiude in se stesso, viene costretto, ingabbiato da una rete di meridiani e paralleli che ne suggellano la definitiva presa di possesso da parte dell’uomo. E, paradossalmente, la determinazione di confini spaziali oggettivi apre all’uomo occidentale ogni direzione, all’interno e all’esterno del globo. Egli è stimolato a muoversi, a distogliersi dall’introspezione continua, a convogliare l’attenzione e gli impulsi fuori di sé. Non più controllo assillante sulla propria natura; ma il dominio sulla natura che lo circonda.

È una mobilità quindi che non si esprime solo nei viaggi e nelle migrazioni. È mobilità del pensiero, che ha il suo veicolo nella stampa e i suoi risultati più prossimi nella rivoluzione copernicana e nella scienza sperimentale di Galileo. Ed è, ancora, mobilità spirituale, che apre via ella riforma e alla diversificazione del sentire religioso occidentale. “L’era delle scoperte ebbe conseguenze morali e personali: essa contribuì alla formazione di un nuovo ideale della personalità umana, i cui desideri, non più costretti a rifugiarsi nei sogni, agivano adesso, come volontà pura, sul mondo esterno” (Mumford). Da Colombo a Calvino, e quindi allo sviluppo di un atteggiamento aggressivo e disinibito nei confronti di ogni forma di alterità, corre un ben preciso legame.

Il nuovo mondo rappresenta quindi per gli europei ben più di un ampliamento degli orizzonti: è un ribaltamento totale della prospettiva. Alla tradizione, ai vincoli del sangue e della terra nativa, al senso della comunità e d’identificazione totale in essa oppone la novità, il distacco, l’individualismo, la coscienza enfatizzata della singolarità e della responsabilizzazione soggettiva. La visione partecipe ed empatica dell’esistente, nella quale si impastavano realtà, fantasia e simboli, e sulla quale gravava una complessa e indistricabile rete di significanze metafisiche, lascia il posto alla commensurabilità oggettiva, alla classificazione atomizzante, al trionfo del numero e della quantità. La realtà si informa ai calcoli del mercante e a quelli del navigatore: le distanze perdono ogni spessore spirituale, diventano leghe, miglia, gradi; i rapporti divengono scambi, profitti, perdite.

C’è chi, al tempo stesso in cui essa si produce, è cosciente di questa trasformazione, e pur essendone partecipe ed esponente ne è turbato. “I1 nostro mondo ne ha appena trovato un altro, non meno grande, pieno e membruto di lui, e tuttavia così ingenuo e fanciullo che gli si insegna ancora il suo abbicì: non sono cinquant’anni che non conosceva né lettere, né pesi, né misure, né vesti, né grani, né vigne Se noi argomentiamo bene della nostra fine e quel poeta (Lucrezio) della giovinezza del suo secolo, quest’altro mondo starà appena aprendo gli occhi alla luce quando il nostro li chiuderà”. È ancora Montaigne: la sensazione del declino comincia ad inquietare gli europei più lungimiranti, né varranno quattro secoli di successi colonialistici ad attenuarla. Lo dimostra proprio la persistenza del mito di un mondo nuovo, dell’occasione concessa all’uomo per ricominciare da capo, che dell’espansione coloniale è uno dei motori.

 

La conquista del mondo (sec. XVI-XVII) (I)

La nuova coscienza dell’Europa nel mondo

Attorno alla metà del ‘500 il ritmo del movimento di esplorazione che aveva caratterizzato per quasi un secolo la storia degli europei subisce un rallentamento. In entrambe le direzioni, orientale ed occidentale, le potenze protagoniste del formidabile exploit sono impegnate piuttosto a dare un assetto e un coordinamento economico ed amministrativo ai loro recenti acquisti, nonché a difendere l’esclusiva sulle nuove aree di penetrazione, che non nella ricerca di spazi e di vie alternative.

La fase più spettacolare della conquista spagnola è conclusa. Gli ultimi conquistadores hanno attraversato in lungo e in largo il continente meridionale, spingendosi fino a1 Cile e fondando le future capitali del dominio coloniale (Lima 1535, Buenos Aires 1536, Asuncion 1537, Bogotà 1539, Santiago del Cile 1541 ecc). Con la sconfitta e la morte di Gonzalo Pizarro ha termine la loro epopea, per lasciar posto ad una più prosaica e sistematica costruzione coloniale ispirata e gestita direttamente dai rappresentanti ufficiali della corona. I portoghesi, dal canto loro, stanno estendendo il controllo marittimo a tutto l’oceano Indiano ed in particolare all’area indonesiana: per un altro mezzo secolo l’egemonia di Lisbona in questo settore non avrà antagonisti.

A questo punto gli obiettivi primari dell’attività esplorativa possono considerarsi raggiunti. Si è andati anzi molto al di là, con la scoperta di un mondo nuovo, aperto alla conquista e allo sfruttamento. La gran parte delle nazioni europee non appare però ancora in grado di mettersi in corsa per l’espansione oltre oceano: e d’altro canto, il precipitare della situazione politica generale per le guerre religiose e dinastiche trattiene sulla scena europea l’attenzione di sovrani e popoli. Ancora per qualche decennio la partita dell’egemonia continentale si gioca nel Mediterraneo, mentre addirittura l’aggressività espansionistica dei turchi ottomani sembra rimettere in forse quel margine di sicurezza che la civiltà occidentale credeva assicurato ormai da secoli.

Ciò consente comunque agli europei di fare il punto sulla straordinaria rivoluzione geografica prodottasi nell’arco di mezzo secolo. Una lunga incubazione tecnica ed economica aveva precedute e rese possibili le scoperte: tuttavia esse si erano rivelate di una entità insospettabile, e il repentino cumularsi di nuove direzioni aperte ai traffici, all’avventura, alla conquista, e anche alla fuga, aveva quanto meno creato confusione e sbigottimento negli abitanti del vecchio continente. Lo sconvolgimento dei loro schemi mentali, delle conoscenze e delle credenze relative allo stato geografico ed etnico del mondo, va ora ricomponendosi in un quadro ancora molto approssimativo e lacunoso, ma già tale da consentire una disposizione del tutto nuova e diversificata nei confronti del lontano.

Si comincia intanto col distinguere nettamente tra le due direzioni, mentre quella occidentale aveva rivestito sulle prime solo il carattere di scorciatoia per il levante. L’ostacolo continentale costituito in questo senso dall’America è acquisito, poco alla volta, come mondo a sé stante, idoneo a convogliare speranze, bollori avventurosi, investimenti di capitale… Un’effettiva novità d’attitudine è riferibile, peraltro, proprio al mondo nuovo, mentre nei confronti dell’oriente la disposizione di fondo permane immutata. Le rotte dell’est sono infatti percorse sempre d’insegna della sfida commerciale: esse ampliano semplicemente i termini di una competizione economica che era rimasta circoscritta per secoli all’area mediterranea. Il fatto poi che dalla proiezione su scala pluricontinentale consegua l’ascesa alla ribalta di forze sociali e di entità statali nuove, nonché l’adozione di modalità di confronto inusitate, che aprono la strada al colonialismo propriamente detto, è rilevante piuttosto come causa, per ciò che tutto questo significherà nella storia europea e mondiale, che non come effetto di una particolare novità dei moventi.

La spinta verso l’oriente viene dalla volontà e dalla necessità economica, dal desiderio prima di contattare direttamente e poi di controllare, grandi fonti di ricchezza. Presuppone quindi a monte un impegno finanziario non indifferente, oltre ad una specifica preparazione tecnica e commerciale: e persegue un arricchimento metodico e prevedibile, ai cui fini il calcolo deve avere la meglio sul caso. Tutto ciò restringe l’interesse diretto per la penetrazione nell’Asia orientale ad ambiti socio-economici particolari, almeno sino al momento in cui lo stato stesso non si sostituirà alle grandi compagnie commerciali.

Verso le Americhe si indirizzano invece pulsioni e speranze più composite, accomunabili tuttavia nel segno di una rigenerazione, sia essa spirituale, politica o economica. Ad alimentare i sogni è di volta in volta la realtà di una terra pressoché vergine, relativamente deserta, capace di offrire ospitalità a molti senza che si creino conflitti: o il miraggio di un suolo rigurgitante di minerali preziosi, come sembrano dimostrare le ricchezze affluenti in Spagna, e quindi di fortune facili e sensazionali (il mito dell’Eldorado): o ancora, la trasfigurazione delle immense distese d’oltre oceano in spazi di libertà spirituale, di realizzazione e di professione delle idealità sociali e religiose conculcate nel vecchio continente.

Apogeo e crisi dei portoghesi in Asia

Sconfiggendo di fronte a Diu le flotte alleate dei mussulmani d’Egitto e dei principati costieri, i portoghesi mettono fine alla plurisecolare egemonia mussulmana sull’oceano Indiano e si accingono a sostituirvi la propria. Nel volgere di pochi decenni si assicurano il controllo, oltre che della rotta circumafricana, da loro stessi aperta, anche di quelle interne di collegamento tra l’India e l’Africa. Il loro monopolio sugli scambi di merci di pregio, prime tra tutte le spezie, non concerne soltanto l’importazione diretta in Europa, ma si estende anche a tutta la rete distributiva che attraverso il mar Rosso fa capo al medio oriente arabo[29].

I porti indiani sono dei semplici scali di transito e di scambio sulla via delle spezie. I centri di produzione e le stazioni primarie di raccolta e di imbarco si trovano molto più ad oriente, nell’area indonesiana. L’interesse portoghese si sposta quindi molto presto verso questa zona. Sulle coste del Deccan vengono mantenute soltanto alcune basi d’appoggio, in perfetta coerenza con lo spirito della colonizzazione portoghese, che non contempla penetrazioni in profondità troppo onerose in termini di capitale umano.

A questo dirottamento dello sforzo espansionistico dei portoghesi non è comunque estranea anche la valida resistenza opposta dagli stati peninsulari indiani. Quando provano l’affondo della conquista territoriale, o quanto meno della messa in soggezione delle zone litoranee, essi subiscono grossi scacchi, primo tra tutti quello inferto loro dallo Zamorin di Calicut, irriducibile oppositore dell’espansione lusitana e alleato dei mussulmani. Imbattibili sul mare, in virtù dell’armamento pesante e della stazza superiore delle loro navi, i portoghesi si trovano ad affrontare da terraferma eserciti agguerriti ed organizzati perfettamente. Dopo una serie di tentativi andati a vuoto si convincono pertanto a limitare le proprie ambizioni al controllo costiero, mentre l’ingerenza nella situazione dell’interno viene affidata più al gioco diplomatico che alle armi.

In questo senso l’area indiana offre all’epoca un’ampia possibilità di manovra, per l’esistenza di due blocchi politico-religiosi, quello musulmano e quello induista, in feroce contrapposizione. Gli stati induisti sono concentrati soprattutto a Sud (ad esempio l’impero di Vijayanagar, una delle entità politiche indiane più considerevoli, il più importante senza dubbio tra gli alleati dei portoghesi) e nell’interno, mentre l’islam, seguendo le vie dei traffici, si è imposto principalmente nelle zone costiere.

Nella politica delle alleanze sono tuttavia d’ostacolo ai portoghesi l’intollerante fanatismo religioso e l’atteggiamento altezzoso e predonesco, che li rendono ben presto invisi alle popolazioni ed ai governanti schieratisi in un primo tempo al loro fianco. Soprattutto la scarsa duttilità sul piano religioso ne condiziona profondamente le possibilità d’azione ed i successi, al contrario di quanto avverrà, nei secoli successivi, per i più spregiudicati olandesi ed inglesi. E tuttavia, sul piano prettamente mercantile i portoghesi dimostrano un indubbio senso pratico. Concentrando il loro interesse sull’Indonesia hanno direttamente accesso alle fonti primarie del commercio delle spezie. Con la conquista di Malacca (1511) si aprono una porta sul Pacifico, e di lì esercitano la loro azione di drenaggio delle merci preziose. In primo luogo provvedono ad una drastica ripulitura dei mari indonesiani dai pirati cinesi, operata soprattutto con alcune dimostrazioni di ferocia che fanno impallidire quella dei pirati stessi. Poi impongono che ogni naviglio intenzionato a partecipare al commercio facente capo a Malacca debba munirsi di una patente reale, pena l’essere considerato nemico e potenziale preda di guerra. Al di là della minaccia di sequestro, piuttosto remota a realizzarsi, è il rischio di esclusione dai traffici a costringere mercanti e naviganti di ogni sorta e provenienza ad adeguarsi.

Verso la metà del secolo la rete politico-commerciale dei portoghesi copre l’intero oceano Indiano e si allarga anche al Pacifico, avendo quali nodi fondamentali Sofala, il Mozambico, Mombasa sulla costa africana orientale, Ornluz e Mascate nel golfo persico, Diu, Damao, Goa e Cochin, nonché Colombo, sui litorali indiani, e infine Malacca, Amboina, Ternate e Tidore nell’arcipelago della Sonda. Le Molucche costituiscono l’avamposto estremo della loro penetrazione nel Pacifico, mentre dal 1557 viene aperto uno spiraglio, destinato però a rimanere tale, sull’immenso impero cinese[30].

In questo modo i portoghesi si trovano ad operare su di un’area vastissima, che induce una dispersione pericolosa di forze già di per sé esigue. All’atto pratico il dominio risulta infatti fondato su semplici stabilimenti costieri, molto lontani gli uni dagli altri, la cui sopravvivenza è garantita soltanto dal perdurare della supremazia marittima, e che sovente non hanno la possibilità di concertare una politica commerciale comune. Le isole maggiori dell’arcipelago, Giava, Sumatra, il Borneo, conservano la piena indipendenza: e se da un lato non ospitano formazioni statali di una certa entità, in grado di contrastare l’egemonia marittima portoghese, neppure consentono un affidabile controllo attraverso il gioco diplomatico. Lo stato endemico di lotta tra i vari sultanati costituisce una minaccia costante per il regolare movimento dei traffici e per la stabilità politica del settore.

In tutta l’Indonesia, infine, i portoghesi trovano affermata la presenza mussulmana molto più di quanto non lo fosse in India, e questo complica ulteriormente i rapporti con le popolazioni indigene. Nei confronti di quanti abbiano legami con l’islam essi si sentono autorizzati ad un comportamento brutale ed infido, svincolato da qualsiasi norma morale così come dal rispetto di diritti e di trattati, e meno che mai degli usi e delle costumanze indigene. Tutto ciò va ad alimentare una disposizione di fondo che presenta già tratti prettamente colonialistici: laddove è minimamente possibile, nessuna autorità statale viene riconosciuta, nessun tributo è pagato ai sovrani: si sbarca in un luogo ed ivi ci si insedia; si dissuadono con la violenza i mercanti concorrenti, siano arabi, indiani o cinesi, facendo crollare i prezzi, sconvolgendo i mercati e creando le premesse di una dipendenza economica destinata a protrarsi nei secoli.

C’è da aggiungere che anche gli sconvolgimenti spirituali e civili europei dell’epoca (la scissione protestante e le conseguenti guerre di religione) si riflettono in negativo su questi rapporti, contribuendo ad accentuare nei portoghesi la disposizione all’intolleranza. La rinascita di un notevole zelo apostolico e di una decisa volontà di evangelizzazione, ravvisabili ad esempio in un sovrano come Giovanni III, ardente protettore della Compagnia di Gesù, non si esprimono soltanto nelle intraprese missionarie come quelle di Francesco Saverio, di Padre Ricci, di Padre Valignano; più spesso si risolvono in ferocia insensata, lasciando nelle popolazioni dell’Insulindia frutti di odio e di diffidenza verso i cristiani di cui daranno testimonianza gli sconsolati resoconti dei missionari stessi. Soltanto nelle coste indiane, dove già preesistevano nuclei di nestorianesimo, e in Giappone, dove si danno condizioni particolari ed i missionari giungono contemporaneamente ai mercanti ed ai soldati, il proselitismo religioso conosce, almeno agli inizi, un certo successo.

La fama delle prepotenze e della malafede degli europei non tarda comunque a percorrere le vie dell’Asia, determinando il fallimento del disegno portoghese di espansione verso i mari cinesi. I primi mercanti di Lisbona, provenienti da Malacca, raggiungono Canton, il maggior porto della Cina meridionale, già nel 1517. Vengono autorizzati a commerciare, ma rimanendo rigorosamente alla fonda, senza alcun permesso di attraccare e di scendere a terra. Determinati ad imporre la loro presenza, i portoghesi si ripresentano l’anno successivo: in questa occasione viene inviata un’ambasceria alla corte imperiale, ma contemporaneamente una truppa sbarca sulla costa, con l’intento di costruire un forte. Ciò provoca l’immediata reazione dei cinesi, che ricacciato in mare il corpo di spedizione e rinviati gli ambasciatori chiudono i loro porti ad ogni nave europea.[31] Gli scambi continuano tuttavia nei porti malesi e indocinesi, creando una certa consuetudine commerciale: ciò che porta, nel 1557, ad una parziale riapertura da parte dell’impero cinese, concretizzatasi nella concessione di un promontorio deserto sul quale viene fondata Macao.

In Giappone i portoghesi arrivano attorno al 1542, in un momento critico per il paese, sconvolto da un secolo di lotte tra piccoli e grandi feudatari.[32] Essi sono bene accolti nei porti nipponici, soprattutto perché portano con sé armi da fuoco che suscitano l’interesse delle varie fazioni. Anche la predicazione cattolica non incontra difficoltà. Francesco Saverio inizia la sua missione nel 1549, e trova un uditorio eccezionalmente disponibile, malgrado la pessima nomea che accompagna i “demoni del sud”, come i portoghesi vengono chiamati. Con ogni probabilità alla base di una reazione tanto favorevole stanno anche ragioni politiche, come dimostra il fatto che il cristianesimo si diffonde immediatamente nelle regioni occidentali, dove ha il favore dei governanti locali, mentre trova scarso seguito in quelle orientali. I rapporti non tardano però a deteriorarsi. Il mutamento della situazione politica, che vede rinsaldarsi il potere centrale a discapito delle signorie locali, porta nel 1587 ad un primo editto di proscrizione del cristianesimo. Ad esso ne seguiranno altri, ma soprattutto si aggiungerà ne1 1639 un provvedimento di espulsione di tutti i portoghesi, missionari compresi, dalle terre dell’impero.

Un secolo di presenza portoghese nel sud-est asiatico pesa senza dubbio, nel senso di una destabilizzazione, sugli equilibri politici ed economici creatisi in oriente dopo l’esaurimento dell’espansione islamica. Tuttavia, proprio perché si tratta di una talassocrazia piuttosto che di una penetrazione territoriale in profondità, l’incidenza sulle strutture politiche, sociali e produttive rimane limitata. In pratica cambiano per quest’area solo gli interlocutori commerciali. Anche il rapporto con le popolazioni non è mai tanto diretto e diffuso da dare origine a mutamenti di rilievo nell’assetto economico-sociale. Esso è mediato costantemente dai potentati locali, e se anche non vale a sottrarre le popolazioni alle vessazioni, alla prepotenza e talvolta anche ai metodi terroristici impiegati su vasta scala (bombardamenti, rappresaglie, devastazioni di colture ecc…), lascia tuttavia intatto o quasi l’assetto preesistente.

L’egemonia marittima portoghese in oriente entra in crisi sul finire del XVI secolo, dopo aver conosciuto il suo periodo d’oro a partire dal 1542, con il governatore Alfonso de Souza. Verso la metà del secolo successivo essa sarà soltanto un ricordo, e dell’immenso impero dei mari rimarranno quattro o cinque scali privi di importanza strategica. Le ragioni di un declino tanto rapido e completo sono complesse. In primo luogo è da tenere in conto la debolezza intrinseca ai modi e alle strutture di questo dominio, esercitato su di un’area troppo vasta, unicamente a mezzo della superiorità navale e quindi, in sostanza, mai effettivo. Non avendo create, talora più per scelta che per necessità, le condizioni per una sopravvivenza autonoma militare e politica delle colonie, la madrepatria è impegnata costantemente in uno sforzo che ne assorbe nella quasi interezza il potenziale finanziario e demografico. Al fallimento del disegno coloniale portoghese non è poi estranea la politica di persecuzione antiebraica; malgrado le ripetute espulsioni vengano puntualmente annullate, la vita in Portogallo per la minoranza ebraica diventa difficilissima già agli inizi del XVI secolo. Solo nel primo pogrom di Lisbona vengono uccisi duemila ebrei, e ciò induce gli altri, appena ne hanno l’occasione, a lasciare il paese. Con essi se ne vanno però le conoscenze astronomiche e le competenze cartografiche che avevano fatta grande la scuola di Sagres, per trasferirsi proprio presso il popolo che diverrà il competitore per eccellenza nell’oceano indiano, quello olandese. Infine, la perdita dell’indipendenza, avvenuta nel 1580 per questioni dinastiche, e a seguito della quale per più di mezzo secolo le sorti del Portogallo rimarranno legate a quelle della Spagna, rende ancor più precaria questa presenza priva di radici. Gran parte della flotta portoghese è distolta dal suo impiego orientale per andare ad appoggiare il disegno di egemonia continentale di Filippo II, e la presunzione di superiorità su cui i lusitani fondavano il loro diritto a “signori della navigazione” segue le sorti dell’Invencible Armada. Ma al di là della sconfitta militare vera e propria, che ha grosse conseguenze piuttosto sul piano morale che quello materiale, il Portogallo si trova invischiato nei conflitti e nelle alleanze della corona spagnola, pagandone un prezzo carissimo.

Saranno proprio gli avversari più irriducibili della dominazione spagnola, gli olandesi, a combinare una attrazione economica sempre più spiccata verso l’oceano Indiano con il disegno strategico di un attacco ai possedimenti coloniali dei paesi iberici. I mercanti delle Fiandre, dopo essersi assicurati il controllo sulla distribuzione europea delle spezie importate, non tardano a diventare insofferenti del peso delle restrizioni imposte dal monopolio di Lisbona. La domanda è crescente, soprattutto nei paesi settentrionali, dove la carne essiccata insaporita con le spezie costituisce la base del nutrimento invernale, e l’attività commerciale portoghese non fornisce un adeguato volume di importazioni. A colmare la misura, infine, ed a spingere gli olandesi sulla via di un approvvigionamento diretto, vengono le misure politiche di Filippo II, che chiude i porti della Spagna e del Portogallo alle navi delle province “ribelli” e che a più riprese fa lievitare i prezzi delle merci in arrivo dall’oriente per risanare con i diritti di monopolio le dissestate finanze dell’impero.

A prescindere comunque dalle difficoltà interne del Portogallo e dalle carenze effettive del suo dominio coloniale, è il quadro generale della situazione europea a modificarsi in questo scorcio di secolo, in senso nettamente sfavorevole agli iberici. Gli altri paesi che si affacciano sull’Atlantico, dall’Olanda all’Inghilterra alla Francia, cominciano ad avvertire l’importanza politico-militare, oltre che economica, di una flotta oceanica; e riescono a colmare in breve tempo i vantaggi tecnici, nelle costruzioni navali, nell’arte navigatoria e nella strumentazione, che i portoghesi avevano accumulati. Inoltre, una volta attenuatasi la tempesta delle guerre di religione, i diritti attribuiti dal papato agli stati iberici col trattato di Tordesillas sono automaticamente invalidati per quella metà dell’Europa che ha visto affermarsi le confessioni protestanti. Il movente religioso costituisce anzi uno stimolo ed una giustificazione in più dell’attacco portato ai due grandi imperi coloniali. Del resto, la stessa Francia, che pure è uno stato cattolico, approfitta della presenza di un papa compiacente (Clemente VII della famiglia Medici) per ottenere già nel 1533 un’interpretazione riduttiva degli accordi di Tordesillas, che vengono considerati validi soltanto per le terre già scoperte.

I portoghesi in Brasile: il ciclo dello zucchero

La coltivazione della canna da zucchero è introdotta in Brasile dalle Azzorre nei primi decenni del ‘500. Essa si afferma ben presto come cultura ottimale lungo la costa atlantica, ma solo agli inizi del nuovo secolo, in seguito alla crisi del loro dominio asiatico e alla perdita del monopolio delle spezie, i portoghesi sono indotti a scorgervi una concreta alternativa economica. Il Brasile diventa da adesso il puntello ed il riferimento obbligato della politica coloniale di Lisbona, specialmente dopo che lo zucchero dimostra di potersi sostituire a pieno titolo nel computo economico ai prodotti orientali. Tuttavia, anche qui, come avviene per le colonie spagnole, la corona preferisce non assumersi direttamente l’onere del popolamento e della valorizzazione economica, e si limita ad una presenza fiscale, sia pure più illuminata e dinamica di quella degli Asburgo.

La colonia è ripartita in undici capitanerie, relative ad altrettante strisce di territorio longitudinali che dalla costa si inoltrano senza limitazioni verso l’interno. Esse sono infeudate a nobili cortigiani, cui viene concessa la più ampia discrezionalità amministrativa e giudiziaria, dietro l’impegno di sviluppare la colonizzazione agricola e lo sfruttamento minerario. Il popolamento incontra difficoltà, per i problemi demografici che un esodo pur contenuto dal Portogallo verrebbe a creare, ma una calcolata tolleranza consente ad esempio l’insediamento di comunità ebraiche che abbandonano la penisola iberica per sottrarsi all’Inquisizione, mentre al divieto di emigrazione delle donne portoghesi si cerca di ovviare incoraggiando i matrimoni misti. Quando poi i problemi di manodopera connessi alla diffusione della coltura dello zucchero danno l’avvio all’importazione di schiavi negri, nel Brasile vengono a crearsi le condizioni per un singolare fenomeno di ibridazione multipla e di coesistenza plurirazziale non conflittuale.

La coltivazione della canna da zucchero si sviluppa nelle pianure costiere e si basa sul sistema della grande piantagione, o sesmaria. Questa è in origine una semplice concessione rilasciata della capitaneria per vasti appezzamenti, locati con diritto di trasmissione ereditaria, spesso dietro corresponsione di un canone quasi simbolico. Si trasforma poi col tempo in grande proprietà, all’interno della quale l’ex-locatario concede a sua volta in affitto delle quote di terreno, riservandosi però il diritto di macina, cioè la proprietà dell’unico mulino da zucchero (engenho da essucar) con obbligo fatto ai coloni di trasformare in esso la propria produzione. Come avviene per l’hacienda, la grande piantagione tende a creare un microsistema economico chiuso, fondato sulla manodopera servile o comunque su un rapporto di stretta dipendenza nei confronti del padronato, che diventa l’unico tramite della produzione e dei consumi con l’esterno.

La penetrazione verso l’interno, soprattutto negli altipiani meridionali, meno fertili e lontani dai grandi centri d’imbarco per l’esportazione, porta alla valorizzazione di altre attività produttive, prima tra tutte l’allevamento bovino. Ma sarà lo sfruttamento minerario, con la scoperta di giacimenti d’oro e diamantiferi, a rilanciare verso la fine del ‘600 l’economia brasiliana, messa in crisi dalla concorrenza dello zucchero delle Antille.

La dominazione portoghese nel Brasile non si afferma e non si consolida senza contrasti. Già nel XVI secolo crea allarme un tentativo francese di insediamento, ispirato da Coligny e affidato alla guida del cavaliere di Villegaignon, di dichiarate simpatie ugonotte. L’intrusione nella loro zona d’influenza e il timore di lasciarsi crescere in seno un nucleo ereticale spinge però i portoghesi, sollecitati in maniera particolare dai gesuiti, ad una reazione decisa. Gli intrusi, che si erano attestati su di un’isola nella baia di Rio de Janeiro, vengono sloggiati, e la Francia è definitivamente convinta a dirottare verso il nord le sue ambizioni coloniali.

Ma l’insidia più grave viene, settant’anni più tardi, dagli olandesi. Dopo aver intaccata l’egemonia lusitana sull’oceano Indiano essi si accingono ora ad incalzare gli iberici anche nei loro domini americani. In un primo tempo si limitano ad una semplice azione di disturbo, affidata alla guerra di corsa, ma nel 1621 creano una Compagnia delle Indie Occidentali sulla falsariga della sua corrispondente orientale e nel 1630 si impadroniscono di Pernambuco e di tutta la regione circostante. Soltanto una negativa congiuntura internazionale impedisce loro di diventare protagonisti anche nel commercio dello zucchero. Il Portogallo infatti, una volta sganciatosi dall’infausta unione con la Spagna, tenta di recuperare le posizioni perdute, spalleggiato anche e spronato dai suoi nuovi alleati inglesi. I risultati sono scarsi nel sud-est asiatico, ma in Brasile un’azione coordinata tra la colonia e la madrepatria costringe gli olandesi a rinunciare al disegno di un impero in America latina.

La colonizzazione dell’America meridionale spagnola

Al termine della conquista, attorno al 1550, gli equilibri biologici del centro e del sud America appaiono letteralmente sconvolti. Il decremento demografico legato ai virus, allo sfruttamento inumano e ai sistematici massacri perpetrati dagli europei ha assunto le dimensioni di un’ecatombe, al punto che la popolazione indigena totale è scesa da circa 35 milioni di individui a meno di dieci. Intere regioni già densamente popolate e ricche di colture intensive sono riconquistate dal deserto o dalla foresta. Le grandi opere di bonifica, gli allacciamenti idrici o viari, le infrastrutture produttive e di servizio create dalle civiltà autoctone tecnicamente più avanzate vanno rapidamente in rovina. L’etnia amerindiana è moralmente e fisicamente prostrata soggetta ad una brutale acculturazione che si ferma ai livelli funzionali alle esigenze dei conquistatori.

Ma gli europei non conducono il loro attacco alla primitiva identità del nuovo mondo solo con la distruzione. Essi mettono in atto, attraverso l’ibridazione con i nativi, una vera e propria ricostruzione genetica; rinnovano il patrimonio zoologico con l’introduzione degli animali da allevamento europei, alterando in questo modo anche il regime alimentare; modificano infine radicalmente i rapporti, i modi e la natura della produzione.

Nell’America Latina questa seconda fase, di riassetto “all’europea” dei caratteri ambientali e delle strutture socio-economiche del continente, si sostituisce verso la fine dei secolo al primo rapporto semplicemente predatorio. Il passaggio ad una vera e propria colonizzazione è in relazione quasi ovunque con l’esaurimento dei giacimenti auriferi. Esso è precoce nelle Antille, dove già a metà del ‘500 ci si deve orientare sull’alternativa delle coltivazioni, quindi verso un’ottica di insediamento a tempo illimitato; mentre nel continente la crisi di produzione dei metalli preziosi è più tarda, comincia a far sentire i suoi effetti nei primi decenni del ‘600, e accelera piuttosto che innestare il processo di riconversione dell’economia coloniale.

Per tutto il primo periodo gli spagnoli non hanno dato alcun peso al possesso della terra. A tanta distanza dalla madrepatria esso appariva come un vincolo fittizio e precario, anche perché nessuno, neppure i conquistadores, era attratto dall’idea di mettere radici sul suolo americano. L’interesse andava tutto alle attività di sfruttamento capaci di offrire guadagni immediati e sostanziosi e connesse con l’esportazione: il rapporto con l’Europa era pur sempre prioritario. Anche quando si diffonde la prassi delle concessioni reali esse non riguardano diritti di proprietà trasmissibili ereditariamente, ma diritti di sfruttamento delle persone e del lavoro, generalmente con carattere di vitalizio. È il caso tipico dell’encomienda, che non è quindi direttamente all’origine della grande proprietà latifondistica latino-americana. “All’interno dei confini di una sola encomienda si potevano trovare terreni posseduti individualmente da indiani, terreni posseduti collettivamente da villaggi, terreni della corona, terreni acquisiti dall’encomendero con una concessione distinta dal suo titolo di encomendero, […]” (Zavala).

La grande proprietà nasce in un secondo momento, quando in seguito alle crisi di domanda o a quelle di produzione in altri settori le attività legate alla terra diventano remunerative o comunque necessarie. Il suo sviluppo è legato alla crescente importanza dell’allevamento, per la richiesta sia interna che europea di prodotti di derivazione animale (sego, cuoio, ecc.). I proprietari di mandrie ottengono concessioni per zone non coltivate, da adibire a pascolo: si diffonde in questo modo l’estancia, appezzamento enorme che non ha in genere confini precisi, se non quelli naturali di fiumi, foreste, montagne ecc. e che spesso si sovrappone ai pascoli comunitari dei villaggi indigeni. È una concessione di sfruttamento già relativa ai terreni, anche se ancora non si tratta di un titolo di proprietà. L’estanciero di norma fa valere il suo supposto diritto esigendo pedaggi o prestazioni dalle comunità o dai piccoli allevatori della zona, ma è depositario di un usufrutto, non padrone del suolo.

Nelle zone più popolate, invece, nasce poco alla volta la vera e propria hacienda, che produce in agricoltura, ha una sua primordiale economia di trasformazione dei prodotti agricoli (mulini per canne da zucchero) e dispone anche di spazi incolti per l’allevamento. In un primo tempo l’haciendero non è che l’esattore delle corvée imposte agli indiani col sistema del repartimento, che ha sostituito l’encomienda, in base al quale essi debbono collaborare alle attività economiche di pubblico interesse (ad esempio, la coltivazione del grano). Ben presto però riesce ad accorpare alle terre di sua proprietà tutta l’area ripartimentale su cui ha giurisdizione, attraverso l’espropriazione forzosa a dei piccoli proprietari, l’espulsione per debiti dei piccoli proprietari le falsificazioni di titoli o l’interpretazione elastica di diritti e concessioni.

Il consolidamento della grande proprietà è parallelo, come si è detto, alla crisi di produzione delle miniere, quindi alla rallentata intensità dei rapporti con la madrepatria. La crisi inficia quel primato che era detenuto nella fase della conquista e dello sfruttamento intensivo dalle città portuali, quali tramiti delle esportazioni verso la metropoli, e valorizza invece il capitale immobiliare rurale. Inoltre lo sviluppo di un mercato interno, che tra l’altro incide sulla contrazione delle esportazioni di metalli preziosi, assorbendone una parte, sposta le direttrici della circolazione commerciale e stimola di riflesso le attività non dinamiche legate alla terra. Mentre quindi le colonie ridimensionano la loro dipendenza economica nei confronti della Spagna, eleggendosi anche altri partners commerciali, al loro interno procede una concentrazione intensiva della ricchezza. Essa è all’origine di quella connotazione spiccatamente aristocratica dei rapporti sociali che sarà tipica dell’America latina, e di cui l’hacienda fornisce la più concreta semplificazione. I grossi domini in pratica si isolano e si strutturano in una sorta di microsocietà feudale, con tribunali, prigioni, milizie, cristallizzandosi in equilibri economici e sociali di stampo arcaico, che nessun provvedimento legislativo riuscirà per secoli a minacciare. “Nel corso del XVII secolo il governo vicereale soppresse progressivamente le corvées imposte alle comunità indiane a favore dei proprietari; costoro riuscirono allora a stabilire sui propri domini dei lavoratori volontari, o peones, facendo loro contrarre debiti cui non erano poi in grado di fare fronte. Essi diventavano dei veri e propri servi della proprietà.” (Chevalier) Non si tratta quindi del trapianto di vetuste strutture socio-politiche europee, ma di un fenomeno originale, che ha matrici molto più moderne ed è strettamente connesso a quella spinta del capitale che aveva prodotta la stessa espansione coloniale. “Furono la potenza del denaro contante e la dura realtà economica che vi sta dietro, e non le tradizioni, i principi e i rapporti aristocratici o feudali a dominare fin dall’inizio nell’America latina. E fu la concentrazione strutturale della proprietà, del controllo e dell’accumulazione di capitale a produrre la concentrazione nelle mani di una della terra, della forza-lavoro, del commercio, della finanza e delle cariche civili, religiose e militari.” (Gunder Frank).

Per quanto concerne l’hacienda, comunque, la rendita economica non è molto alta, o almeno non è proporzionale alla vastità del dominio, poiché si tratta in massima parte di uno sfruttamento estensivo. Inoltre essa non ha la tendenza a capitalizzarsi, in quanto gravata, proprio per la natura signorile, di un cumulo di spese di prestigio o di rappresentanza. La produzione e la concentrazione di ricchezza delle campagne non dà quindi luogo ad una crescita quantitativa e qualitativa, nel senso delle differenziazioni produttive, del capitale, ma piuttosto ad una stagnazione, ad una staticità che è alle origini del sottosviluppo.

Si è visto come, a differenza di quanto vale per la penetrazione olandese nell’estremo oriente, e prima ancora per quella portoghese, l’opera di conquista dell’America Latina non sia stata né ispirata né gestita direttamente dal potere politico metropolitano. Si è trattato in genere di iniziative individuali, talora in contrasto aperto con le direttive dell’autorità, e comunque sempre piuttosto impacciate che non favorite dalla politica esitante e sospettosa di Ferdinando e di Carlo V. Soltanto gli allettamenti offerti dalla scoperta delle miniere spingono i sovrani a promuovere una colonizzazione guidata e ad intervenire nella sistemazione amministrativa dei nuovi acquisti territoriali, esautorando i conquistadores.

Neppure questo intervento si pone tuttavia nell’ottica di una politica di espansione e di sviluppo coloniale programmato. Le colonie sono considerate dalla corona come un possedimento privato, fanno capo ad essa, anziché allo stato, ed è essa a concedere cariche, uffici, appezzamenti, diritti di fondazione o di sfruttamento, quali ricompense di servigi ricevuti ma soprattutto per allargare la propria rete fiscale. Trovata una fonte per rinsanguare le finanze salassate dallo sforzo egemonico nel vecchio continente, si dà cura soltanto di attingervi il più profondamente possibile.

Allo sviluppo economico delle colonie spagnole non viene quindi dalla madrepatria alcuna incentivazione. Lo stato non opera investimenti né tantomeno reinveste i capitali che ne trae; i privati non hanno motivo di associarsi in compagnie, sul tipo di quelle olandesi o inglesi, di fronte ad un monopolio che si estende a coprire qualsiasi ramo della produzione o del commercio. Al contrario, le colonie sono soffocate da una serie di divieti e di obblighi che ne sanzionano l’assoluta subalternità e dipendenza economica. Grosse restrizioni vengono imposte su tutte le attività produttive potenzialmente in concorrenza con quelle metropolitane; in campo agricolo, ad esempio, sono interdette la coltivazione della vite e dell’ulivo, e allo stesso modo è fatto divieto di sviluppare ogni attività manifatturiera di seconda lavorazione. L’obbligo di intrattenere rapporti commerciali con la sola Spagna impone poi lo scambio con prodotti spesso tutt’altro che necessari, introducendo una forma ulteriore di depauperamento e assecondando la tendenza al consumo “di prestigio”. Ogni merce diretta al nuovo mondo deve partire da Siviglia, su navi sottoposte a frequenti ispezioni e attardate da lungaggini burocratiche che fanno salire i costi dei noli. Vige inoltre il divieto di commercio tra le colonie stesse, ciò che significa talvolta gravare i prodotti del sovrapprezzo di due traversate oceaniche.

In presenza di un simile capestro economico è naturale che si sviluppi il contrabbando, talvolta in forme molto vistose e con un movimento di merci superiore a quello del traffico legale; oppure che si tenti di aggirare i divieti escogitando coperture più raffinate, ad esempio con la costituzione di società soltanto nominalmente spagnole. Il contrabbando è attivo soprattutto nelle zone di influenza mista, come le Antille o le coste settentrionali del Sud America, dove costituisce l’attività economica primaria per inglesi e francesi; oppure ai confini con i domini portoghesi. Nella zona di Rio della Plata, ad esempio, c’è un grosso traffico d’argento che passa in Brasile in cambio di schiavi, zucchero, legname …

Ciò che le colonie non ricevono in investimenti produttivi viene invece speso per gli oneri di gestione, che arrivano a mangiarsi quasi la metà degli introiti fiscali. La divisione amministrativa in nove province, di cui quattro vicereami e cinque capitanati generali, comporta una proliferazione abnorme di uffici, magistrature, rappresentanze a livello tanto politico quanto militare e religioso, che ricevono il direttamente da Madrid. Inoltre, la tendenza ad escludere i creoli dalle cariche amministrative di competenza metropolitana dà spesso luogo ad un dualismo di poteri, quello nominale e quello economico sostanziale, che pesa sulla capacità contributiva delle classi inferiori e degli indigeni.

La difesa artificiale degli indigeni: i gesuiti nel Paraguay

Nel 1609 Filippo II concede al padre generale dei gesuiti, Montoya, di creare nella zona mesopotamica tra il Paranà e il Paraguay una reduccion per gli indios Guarani-Tupi. La reduccion è una sorta di riserva vietata alla penetrazione dei bianchi, all’interno della quale i villaggi indigeni si autoamministrano sotto la paternalistica sorveglianza dei missionari gesuiti. Quello del Paraguay non è il primo esperimento del genere. In Brasile queste oasi prendono il nome di aldeas, ed hanno ottenuto dallo stesso pontefice l’autorizzazione a difendersi con le armi contro le incursioni dei mercanti di schiavi, i famigerati bandeirantes di San Paolo. Altri tentativi sono stati fatti anche nel Messico dal vescovo Vasco de Quiroga, ma hanno cozzato contro la prossimità e l’invadenza dei bianchi. Nel caso dei Guarani-Tupi sembrano darsi però le condizioni ideali. Il loro territorio si trova abbastanza all’interno per non essere facilmente accessibile, ed è rimasto escluso sino a questo momento dalle grandi direttrici della colonizzazione sudamericana. Inoltre, alcune credenze escatologiche diffuse tra questi indios li dispongono in maniera particolare al tipo di trapianto di cultura che i gesuiti hanno in mente per loro. I Guarani sono raccolti in villaggi di qualche migliaio di abitanti, il più possibile isolati tra loro, che costituiscono delle entità autosufficienti sul piano economico ed autodeterminantesi su quello politico. Ciascuna comunità è retta da un consiglio di ‘cacicchi’, controllato da due supervisori e consiglieri gesuiti, attraverso i quali si realizza anche un certo coordinamento generale della reduccion. All’interno dei villaggi non esiste la proprietà privata, non circola denaro e non vengono corrisposti salari; il lavoro ed i prodotti sono equamente divisi. In luogo delle grandi capanne collettive dell’uso indigeno sorgono dimore monofamiliari, soltanto gli scapoli continuano ad abitare assieme.

La famiglia costituisce la struttura comunitaria di base, e ciò comporta una revisione totale delle costumanze sessuali degli indios ed una loro rigida regolamentazione. La pianta perfettamente geometrica dei villaggi rispecchia la qualità della vita etica e sociale che vi si svolge. Al centro, sulla plaza mayor, si affacciano la chiesa e gli edifici di pubblica importanza, come l’ospedale e la scuola. Dalla piazza partono vie diritte, larghe, tagliate ad angolo retto in maniera da formare blocchi di abitazione tutti uguali, all’interno dei quali le dimore sono simili.

La vita economica si fonda sulla raccolta dei miele, sull’allevamento, sulla coltivazione dei cereali e del mate. La reduccion è sotto la diretta giurisdizione della corona di Spagna, alla quale paga regolari imposte. Gode quindi di uno statuto autonomo nei confronti del vicereame ed ha un esercito proprio, dotato anche di artiglierie. Nel 1614 riuscirà persino a sconfiggere i bandeirantes di San Paolo, assicurando ai gesuiti l’odio più implacabile da parte dei portoghesi (non a caso sarà il Portogallo il primo paese ad espellerli). Intorno alla metà del XVII secolo essa conta trentotto villaggi, sparsi su di un territorio grande quasi quanto l’Italia, e abitati da circa centomila tupi-guarani.

La ‘repubblica cristiana’ del Paraguay sopravvivrà per centocinquant’anni, fino a che non riuscirà d’ostacolo in un complesso giro di scambi territoriali tra Spagna e Portogallo (1750). I gesuiti rifiutano il passaggio sotto l’autorità portoghese e per qualche anno danno vita ad un vero e proprio stato teocratico indipendente tra le Ande e l’Uruguay. Quando sono cacciati, tutta la costruzione comunitaria da essi creata va in frantumi. Lasciati in balìa di se stessi i Guarani, che in un secolo e mezzo di vita sociale ed economica artificialmente organizzata hanno perso l’adattamento all’ambiente tropicale, non sopravvivono.

Nello sforzo di realizzare la loro “città di Dio” i gesuiti di Montoya non usano mezze misure. Estirpano dalla reduccion ogni radice della preesistente cultura indigena, importandovi oltre al credo religioso un regime economico ed una organizzazione sociale assolutamente inediti. Al tempo stesso la immunizzano con l’isolamento contro le contaminazioni “profane” degli europei. La loro azione trova tuttavia grossi ostacoli. Non tutti i Guarani accettano infatti di buon grado di essere cosi drasticamente acculturati, e in gran numero si rifugiano nelle foreste circostanti, mentre all’interno dei villaggi i vecchi sciamani tentano di mantenere segretamente in vita i culti originari. Neppure i bianchi, dal canto loro, si rassegnano a perdere un così ricco serbatoio di mano d’opera servile, ed oltre a tentare incursioni a più riprese brigano incessantemente presso le autorità religiose e politiche per revocare la concessione.

Questo endemico stato d’allerta su due fronti non può che tradursi in un clima morale rigorosissimo all’interno, caratterizzato dalla più assoluta intransigenza etica e dottrinale, e in una generale restrizione delle libertà. Ogni attività dei villaggi è controllata e diretta dall’alto: non soltanto il lavoro, ma l’uso del tempo libero, i divertimenti, gli sport. Tutto deve procedere secondo uno schema ripetitivo e collaudato che nulla concede al caso e alla diversità. È un esempio inquietante di “utopia realizzata”, perfettamente in linea con le teorizzazioni che da Moro in poi la presenza di un continente “vergine” aveva stimolato.

Un legame molto intimo unisce i padri gesuiti ai loro amministrati guarani, ed è una medesima diffidenza nei confronti della storia. Questo sentimento condiviso spiega il successo delle reducciones. La strana avventura non è che una furiosa lotta, combattuta fianco a fianco dai padri e dagli indigeni contro l’occidente. La pianta dei villaggi, il comunismo economico, la proclamazione dell’uguaglianza e la dissoluzione della libertà, tutto ciò forma ad un tempo il quadro dello scopo voluto, una specie di spalto immaginario, contro il quale le macchine feroci dell’occidente non possono più agire.(Lapouge).

La schiavitù e la tratta

Nel 1518 Carlo V autorizza l’introduzione di schiavi neri nelle sue colonie americane. In realtà ratifica una prassi già tacitamente diffusa, anche se in limiti quantitativi ancora contenuti, e che trae ora incremento dall’estinzione dei nativi delle Antille. Avevano cominciato i portoghesi, nella seconda metà del ‘400, ad utilizzare manodopera servile nera per le loro piantagioni di canna da zucchero nelle isole atlantiche (Madeira, le Azzorre, le Canarie). Nel 1442 era stata costruita una fortificazione nell’isola di Arguin, a nord di Capo Verde, destinata a diventare il primo centro di imbarco di schiavi neri destinati alle piantagioni di canna da zucchero di Madeira e delle Azzorre. Nelle varie stazioni di scambio impiantate nel golfo di Guinea i mercanti lusitani si erano visti offrire, oltre all’oro e all’avorio, una forza-lavoro a buon mercato, particolarmente adatta a sopportare i disagi climatici delle coltivazioni tropicali[33].

Il traffico di carne umana non crea agli europei grossi problemi di ordine morale. Forme più o meno ufficiali di schiavismo erano sopravvissute lungo tutto il medioevo, soprattutto nelle aree meridionali dell’Europa, e intorno alle due rive del Mediterraneo. La chiesa stessa mantiene in proposito una posizione piuttosto ambigua: da un lato afferma l’assoluta parità spirituale da riconoscersi allo schiavo, dall’altro arriva a volte a scorgere in una condizione di schiavitù a regime moderato uno strumento di evangelizzazione dei pagani. Il commercio di uomini viene persino legittimato sul suo nascere da una bolla papale (Romanus Pontifex, 1455) indirizzata al sovrano portoghese, nella quale lo si esorta a catturare ed acquistare neri da trasferire in Portogallo, dove saranno convertiti al cristianesimo. Lo stato di schiavitù viene quindi giustificato da una “santa finalità”, nel caso della cattura diretta, o da una “giusta causa”, nel caso dell’acquisto. Dal momento che l’incombenza della cattura e della riduzione in stato schiavile sarà sempre lasciata, nel caso dell’Africa, alle popolazioni locali o ai mercanti arabi, tanto i portoghesi quanto i loro futuri concorrenti, olandesi, inglesi, francesi e danesi, continueranno in sostanza a trincerarsi, di fronte all’opinione pubblica e alla propria coscienza, dietro questa formula: la schiavitù in Africa esisteva da sempre, era stata gestita per secoli dagli arabi, era comunque consueta all’interno delle popolazioni africane e rappresentava in fondo un’alternativa alla morte certa per i prigionieri di guerra. Il che per certi versi è in vero, salvo il fatto che l’ingresso degli europei ha prodotto uno sviluppo esponenziale del fenomeno.

Solo nel ‘500, di fronte alle dimensioni che il fenomeno sta assumendo, alcuni religiosi di fegato cominciano a reagire all’ipocrisia ufficiale. Così, per un Las Casas che per salvaguardare gli americani propone l’impiego di schiavi neri (salvo poi pentirsene), c’è anche chi, come il domenicano vescovo del Messico, Alfonso de Montufar, rileva come sarebbe più logico andare a predicare i vangeli in Africa piuttosto che giustificare la tratta con la scusa della conversione.[34] Alla fine del secolo il gesuita Luis de Molina teorizza che l’acquisto di prigionieri di guerra è illegittimo, perché le guerre tra pagani non sono mai giuste, e quindi non è giustificato l’asservimento. Nel 1671 il domenicano Jean Baptiste Dutertre, nella Histoire générale des Antilles denuncia la tratta come un commercio vergognoso, e altrettanto fa due anni dopo il quacchero Richard Baxter nel Christian Directory, definendola “uno degli atti più criminali del mondo”.

In linea di massima però la posizione ufficiale della chiesa, espressa dai suoi teologi, è molto più morbida. Ancora all’inizio del XVIII sulle navi negriere francesi è obbligatoria la presenza di un cappellano di bordo ( in realtà l’obbligo non viene quasi mai rispettato), mentre i religiosi portoghesi che impartiscono il battesimo agli sventurati al momento dell’imbarco intascano dagli armatori una quota per testa. L’ipocrisia è tale che nel 1764, in piena stagione illuminista, un teologo della Sorbona, Jean Bellon de San Quentin, assolve la tratta da ogni accusa di immoralità facendo appello alla solita maledizione divina sui discendenti di Cam.[35] Non solo: arriva ad affermare che in fondo gli schiavi sono i prigionieri delle guerre interne africane, e che deportandoli i mercanti europei salvano loro la vita. Di fatto, anche quando non si arrivi alla giustificazione, i richiami a più riprese lanciati dal soglio pontificio non hanno alcun effetto dissuasivo nei confronti della tratta, anche perché nel contempo il clero delle colonie è impegnato in un’altra lotta, quella in difesa degli indios. Lo stesso Las Casas avanza l’ipotesi di sostituire questi ultimi proprio coi neri, mitigando la scarsa cristianità del consiglio con la condizione che gli uomini da importare siano già in stato di schiavitù.

Dagli inizi del XVI secolo i portoghesi cominciano quindi a rifornire le Antille spagnole, dapprima con partite occasionali e modeste, ma poco alla volta organizzando un flusso regolare e continuo. Solo più tardi, quando ha inizio lo sfruttamento agricolo del Brasile, la grossa direttrice del traffico si sposta verso la loro stessa colonia americana. Le rese economiche garantite dal trasporto di schiavi sono molto alte, data la crescita costante della domanda. Esse inducono facilmente la corona portoghese a superare gli scrupoli morali e a far uscire la tratta dalla clandestinità. Il sovrano concede ad alcuni contractadores il monopolio delle importazioni, che sono libere per il Brasile mentre sono soggette ad un accordo particolare, l’asiento, per le colonie spagnole. Generalmente il contractador gestisce soltanto la fase africana dell’operazione, ossia il reperimento della merce, che è poi affidata a trasportatori privati. Egli non si procura gli schiavi direttamente, ma li acquista dai sovrani degli staterelli costieri o da mercanti musulmani. Nei primi tempi si tratta per lo più di prigionieri di guerra o di asserviti per debiti, già viventi in schiavitù in terra africana. In seguito però, quando questo tipo di disponibilità non è più sufficiente a soddisfare la richiesta, i sovrani arrivano a vendere i loro stessi sudditi e ad organizzare vere e proprie razzie nelle regioni dell’interno. Si determina così il sorgere di numerosi stati particolarmente agguerriti sulle coste occidentali africane, che godono anche dell’approvvigionamento delle armi da fuoco e vivono in pratica su questo commercio.

Una volta raccolti al luogo d’imbarco gli schiavi vengono preventivamente battezzati, quindi sono caricati in contingenti di trecento o quattrocento per nave, generalmente stipati in un sottoponte molto basso, incatenati gli uni agli altri, con spazi minimi di movimento a disposizione. Il viaggio dura dai trentacinque ai cinquanta giorni, salvo inconvenienti, e il tasso di mortalità tra il carico è altissimo, intorno al 20 o al 25%. (diminuirà nel Settecento, attestandosi attorno al 10%, per una diversa attenzione al “carico”, mirata esclusivamente a non compromettere i profitti). Alle morti per malattia, per gli stenti o per le percosse si aggiungono molti casi di suicidio, talvolta collettivi. Frequentissime sono le rivolte a bordo, represse sempre con una bestiale spietatezza.

All’arrivo si procede generalmente all’istituzione di un’asta, dopo che i superstiti sono stati ritemprati per un breve periodo; oppure la vendita avviene in blocco, quando si raggiunge un accordo di scambio con i mercanti locali. Le navi negriere tornano così in Europa cariche di zucchero, indaco e altre mercanzie tropicali, realizzano il loro guadagno e ripartono per la Guinea dopo aver caricato tessuti, armi da fuoco, liquori e paccottiglia, che sono la base delle transazioni commerciali con gli africani.

Tra gli schiavi sbarcati sul suolo americano si opera in genere una selezione: i più robusti sono adibiti al lavoro duro di piantagione, taglio, trasporto e macina della canna, gli altri al servizio domestico. Sono rari i casi in cui si tenga conto, durante la vendita o nella ripartizione, dell’esistenza dei nuclei familiari o di vincoli di parentela. Lo statuto dello schiavo è quello di un semplice oggetto di proprietà del piantatore: egli viene marchiato a fuoco come le bestie e il padrone ha su di lui diritto di vita o di morte. La base del rapporto è la frusta, e le punizioni inflitte ai fuggitivi e ai ribelli sono di una ferocia inaudita. Di norma l’aspettativa di vita di uno schiavo destinato al lavoro di piantagione non supera comunque i dieci anni. I pochi interventi legislativi intesi a regolamentare su basi meno brutali il trattamento dei neri sono motivati più dalla paura di rivolte che da considerazioni umanitarie; e anche quando si dia il secondo caso, essi sono generalmente frutto di pressioni esercitate dalla madrepatria e vengono sistematicamente disattesi dai coloni.

Resta ancora da sottolineare un particolare in genere trascurato, che mi sembra però significativo. I primi neri che sbarcano agli inizi del ‘600 a Jamestown sono stati assoldati come lavoratori a contratto, allo stesso titolo dei bianchi. Si tratta di schiavi facenti parte del carico di navi spagnole catturate, che vengono liberati. Altri ne seguono, e attorno alla metà del secolo circa un terzo dei neri presenti in Virginia sono liberi proprietari. Solo nel 1680 viene emanato in questa colonia il primo codice che regolamenta la schiavitù, nel quale si afferma esplicitamente che la conversione non comporta la libertà. Il Code Noir francese verrà cinque anni dopo e quello della Carolina dieci anni dopo.

Il peso economico rilevante che la tratta va acquistando nel ‘600, anche in seguito alla comparsa delle nuove colture, tabacco al nord, caffè e cacao al sud e nelle isole caraibiche, attira l’interesse di altre nazioni europee. Francesi ed olandesi avevano già fatto pratica nell’attività negriera come trasportatori privati su licenza portoghese, ma aspirano ora a detenere il controllo dell’intero ciclo triangolare del traffico. Gli olandesi, in modo particolare dopo la fondazione del loro effimero impero coloniale brasiliano e il rilancio della coltivazione zuccheriera nelle Antille, imprimono un nuovo sviluppo alle importazioni e si assicurano una base africana di reclutamento nella Costa d’Oro, sottratta d’influenza portoghese. Soppiantano inoltre le navi di Lisbona nei contratti di asiento per la fornitura di manodopera nera alle colonie spagnole, riducendo il traffico portoghese nei limiti di uno scambio interno all’impero coloniale. Il bacino del Congo e l’Angola diventano i nuovi serbatoi di forza-lavoro degli iberici per lo sfruttamento del suolo brasiliano. Verso la fine del secolo la concorrenza francese ha ragione a sua volta del regime quasi monopolistico instaurato dagli olandesi, mentre anche l’Inghilterra, soprattutto in funzione delle esigenze delle sue colonie nordamericane, si accinge a porre la propria candidatura alla supremazia[36].

Nei due secoli cui questo breve paragrafo si riferisce la tratta porta in America oltre tre milioni di neri: nei due successivi la cifra arriverà quasi a sette, per un totale di circa dieci milioni. Sono i grandi imperi coloniali, quelli portoghese e spagnolo prima, quelli inglese, francese e olandese poi, i destinatari di questi carichi di disperazione e di vergogna; ma al traffico, in forma privata o ufficiale, ha partecipato tutta quanta l’Europa, o almeno quella parte d’Europa che era in condizione di parteciparvi. Nel loro piccolo hanno dato un contributo danesi, tedeschi, genovesi… Ora, è pur vero che la schiavitù è sempre esistita ed ha trovato spazio in forme diverse presso tutte le civiltà: ma nessuna, prima di quella europea, era riuscita a darle in tempi tutto sommato ristretti dimensioni tanto vaste e tanto tragiche[37]. La lucida e fredda spregiudicatezza con cui un intero popolo strappato dalla sua terra con la forza viene usato per far fruttare una terra strappata con la forza ad un altro popolo può informarsi soltanto ai nuovi criteri e valori cui il mondo occidentale si è votato: quelli del primato del capitale.

L’offensiva olandese in Indonesia

Alcune spedizioni olandesi si erano avventurate sino alle Indie orientali già nella prima metà del ‘500, realizzando soddisfacenti guadagni e diffondendo in patria al loro rientro l’impressione che il futuro commerciale dovesse legarsi agli scambi coi paesi d’oltremare. L’affermazione della talassocrazia portoghese aveva però chiusa la rotta circumafricana per più di cinquant’anni ad ogni ulteriore iniziativa: il monopolio dei traffici era saldamente difeso dalle flotte dell’oceano Indiano. Soltanto negli ultimi decenni del secolo si ricreano le condizioni per un inserimento delle altre potenze europee in questo settore.

Gli olandesi non lasciano cadere l’occasione. Già nel 1594 si costituisce la prima Van Verre Kompanie (Compagnia della Lontananza) che allestisce una flotta di quattro navi e compie la prima spedizione l’anno successivo. Il successo di questa fa sì che tra il 1598 ed il 1603 ben tredici flotte di altre compagnie municipali dello stesso genere salpino per l’oriente, giungendo sino al Giappone (1598) e fondando nell’Annam una stazione commerciale. I guadagni realizzati a dispetto dei frequenti naufragi e delle difficoltà d’ogni tipo incontrate[38] inducono nel 1602 un certo numero di compagnie cittadine a fondersi in un’unica grande società finanziaria e mercantile, la Vereenigde Oost-Indische Kompanie, in grado di accollarsi l’armamento di flotte per la navigazione di lungo corso e di dar vita ad un regolare movimento di traffici transoceanici.

A differenza delle analoghe compagnie fondate in Inghilterra e in Francia in questo periodo, quella olandese non è voluta o ispirata da un sovrano, e non si trova vincolata quindi alle pressioni politiche o ai problemi finanziari della corona. Si tratta già di una società di capitali, frutto del particolare spirito d’iniziativa della borghesia fiamminga, che supera i limiti della compagnia municipale per contrapporre alle pretese monopolistiche dei portoghesi un potenziale economico nettamente superiore.[39] Non solo: la compagnia si preoccupa anche di giustificare il proprio diritto al libero commercio, affidando a teorici come Ugo Grozio il compito di elaborarne i fondamenti giuridici, e organizza un vero e proprio centro di studi geografici e geopolitici, dal quale devono venire le indicazioni strategiche per ampliare le zone di influenza e rafforzare i domini.

In effetti l’Oost Kompanie dimostra subito di voler fare sul serio: prima del 1610 sono cadute nelle sue mani Tidore, Ternate e Amboina, già stazioni portoghesi, mentre sono stati stipulati accordi d’affari con i potentati locali della costa orientale indiana, di quella malese, di Ceylon e del Borneo, ed è in funzione dal 1609 un’agenzia commerciale in Giappone. Anche dopo la cessazione delle ostilità aperte tra le Provincie Unite e la corona di Spagna (1609) olandesi e portoghesi continuano a fronteggiarsi sui mari orientali, e i domini dei secondi sono erosi pezzo a pezzo, sino alla caduta di Malacca nel 1641. Malgrado una rabbiosa reazione che si avvale anche dell’appoggio inglese, con la perdita di questa località strategica per il controllo degli stretti dell’Insulindia il Portogallo abdica definitivamente al suo ruolo egemone nell’oceano Indiano.

È proprio l’Inghilterra, invece a proporsi nella prima metà del XVII secolo quale antagonista principale dell’espansione olandese in oriente. La compagnia dei Mercanti di Londra per il commercio con le Indie, fondata nel 1601 e divenuta poi East India Company, persegue gli obiettivi dell’I.O.K., ma si muove con un certo ritardo. Il suo tentativo di penetrazione nell’Indonesia trova pronta e decisa la risposta degli olandesi. Nello scontro vengono coinvolti i sovrani locali e viene strumentalizzato da ambo le parti ai propri fini l’odio anti-europeo che le popolazioni indigene hanno rapidamente sviluppato. Diventano frequenti le rivolte ed i saccheggi nelle agenzie, gli attacchi agli empori, i massacri: e ad essi si risponde da parte europea con sanguinose rappresaglie. Spesso questi incidenti sono pretesto per una occupazione militare permanente, destinata a trasformarsi in dominio coloniale diretto. Gli inglesi riescono ad insediarsi con alcune basi sulla costa indiana orientale e ad affacciarsi sul mare della Sonda: ma sono gli olandesi, alla fine, ad ottenere l’esclusiva sull’area malese e nell’arcipelago indonesiano, sia pure a prezzo del ritiro dalle loro zone d’influenza americane. La pace di Breda (1667) sancisce la non interferenza inglese nel sud-est asiatico, con la cessione dell’ultimo possedimento britannico nel settore, nelle isole di Banda.

L’Oost Kompanie ha gettato nel frattempo le fondamenta del suo futuro impero coloniale, occupando alcune posizioni strategiche nelle grandi isole: la più importante è costituita da Batavia (l’odierna Giakarta), fondata nel 1619 sulle rovine di una città “punita” per essersi ribellata, e che diverrà il riferimento per eccellenza nel commercio da e per l’Indonesia. La città è ricostruita da manodopera cinese reclutata a forza, e il suo primo governatore, Jan Coen, organizza immediatamente all’interno di Giava delle incursioni volutamente brutali, attraverso le quali chiarire ai nativi di che pasta sono fatti i nuovi arrivati.

Il controllo delle isole della Sonda è finalizzato, prima che allo sfruttamento diretto, ad un progetto di espansione sempre più ambizioso, che mira ad escludere ogni altra potenza europea dai traffici circumafricani con il Pacifico. Nel 1624 viene praticamente imposta alla Cina la creazione di una zona franca di commercio a Formosa, mentre nel 1639 l’imperatore giapponese è indotto ad accordare agli olandesi il monopolio commerciale per l’Europa, attraverso il porto di Nagasaki.

L’unica altra potenza europea di rilievo di questa area rimane quella spagnola, nelle Filippine, dove nel 1571 è stata fondata Manila. La Spagna tuttavia non considererà mai queste isole come una base per una politica aggressiva in Asia. Esse fungono da emporio per i rapporti commerciali con la Cina, sono sotto la giurisdizione del viceré del Messico e si orientano piuttosto verso il Pacifico, assumendo caratteristiche più latino-americane che asiatiche.

Nella seconda metà del Seicento gli olandesi hanno quindi via libera nel consolidamento del loro dominio coloniale. Creano in primo luogo al Capo di Buona Speranza una stazione d’appoggio intermedia (1652), che consente di effettuare la traversata dell’oceano Indiano lungo una rotta molto più meridionale di quella seguita dai portoghesi, tra il 40° e il 50° parallelo, giungendo all’arcipelago indonesiano senza scali ulteriori. (Vedremo come per questa via arrivino anche a costeggiare l’Australia, senza esserne però attratti, data l’impossibilità di stabilire rapporti commerciali con popolazioni progredite). Si volgono poi verso la zona meridionale della penisola indiana, conquistando Ceylon nel 1654 e impadronendosi di tutte le basi portoghesi sulle coste del Malabar, zona di produzione del pepe. Altri centri commerciali sono impiantati nel Bengala (Patna e Dacca), sul litorale indiano settentrionale (Surat, Agra) e sulle coste malesi. In quest’area tuttavia lo scontro con gli interessi inglesi e francesi limita di molto le possibilità d’azione della Compagnia. Dopo la pace di Breda e l’alleanza stipulata con l’Inghilterra in funzione antifrancese, gli olandesi vedono scemare la loro influenza in questo settore e concentrano tutti i loro sforzi nell’arcipelago indonesiano. Qui si insediano a Sumatra, conquistano una parte di Giava e di Celebes, penetrano nel Borneo e si spingono sino alla Nuova Guinea e alla Tasmania, imponendo una sorta di protettorato su tutti i mari compresi tra l’Indocina e l’Australia.

Nel loro attacco al dominio portoghese gli olandesi sfruttano le ostilità e le resistenze interne da questo suscitate. Si alleano coi suoi oppositori, come lo Zamorin di Calicut, e soprattutto con gli stati e le popolazioni musulmani, che avevano maggiormente sofferto dei contatti coi portoghesi. Nell’arcipelago malese sono accolti inizialmente come liberatori, in quanto appaiono tolleranti e interessati unicamente ai rapporti commerciali, senza presunzioni o fanatismi religiosi. In effetti le loro prime spedizioni verso l’oriente non rispondono ad un disegno o ad una precisa volontà di conquista. Si tratta piuttosto di una sfida lanciata alla talassocrazia iberica in nome del principio giusnaturalistico della libertà dei mari, ma soprattutto per offrire sbocchi ai grossi capitali accumulati nel commercio anseatico, che cercano ora un impiego altamente remunerativo fuori d’Europa

Negli approcci iniziali la politica orientale degli olandesi è quindi finemente diplomatica, e mira ad instaurare rapporti d’amicizia coi sovrani e di fiducia con le popolazioni locali. Le prime occupazioni territoriali, spesso mascherate sotto il pretesto di un aiuto portato ai sovrani alleati, diventano necessarie solo di fronte all’aggressiva reazione dei portoghesi. Per poter commerciare nel sud-est asiatico occorre poter rispondere colpo su colpo agli attacchi, avere quindi basi stabili e sicure ed eliminare quelle degli avversari. Ben presto però i modi di questa presenza si evolvono in una direzione decisamente colonialistica. La concessione del monopolio all’Oost Kompanie è rilevata già nel secondo decennio del Seicento dal potere politico. La necessità di organizzare militarmente l’azione antiportoghese porta alla nomina di un governatore generale, dipendente direttamente dal Consiglio dei Diciassette, al quale vengono demandati tutti i compiti amministrativi e militari. Si crea in questo modo il precedente di un intervento diretto dello stato negli affari economici coloniali, diverso da quello spagnolo o portoghese, e che sarà di modello per i francesi e gli inglesi.

La colonizzazione olandese ha diversi volti, a seconda delle situazione e dei luoghi in cui si esercita, ma si informa ad un solo principio: il primato dell’interesse. Lo scopo ultimo è la creazione di un monopolio assoluto sui prodotti destinati all’Europa. A tal fine valgono in egual misura tutte le forme di rapporto di potere che la nazione olandese mette in atto, si tratti del “protettorato” su di un principe vinto ed in pratica soggetto, dell’”alleanza” con uno stato indipendente formalmente ma legato a doppio filo, per la propria sopravvivenza economica, al sistema commerciale olandese, o infine della sovranità diretta esercitata sulle popolazioni “conquistate”. Ma una volta che il dominio si è consolidato gli olandesi ritengono di poter andare oltre il semplice controllo degli scambi, intervenendo a monte di essi per modificare, a seconda delle esigenze del mercato europeo, la natura stessa delle produzioni. Essi arrivano cosi ad imporre la coltivazione di determinate spezie entro limiti quantitativi prefissati, e l’abbandono di altre. Intere isole la cui economia si fondava su di una produzione diversificata vengono costrette alla monocultura: in questo modo gli abitanti si trovano ulteriormente vincolati ad una assoluta dipendenza dal mercato e dai rifornimenti degli europei. Altrove sono sradicate le piantagioni di prodotti pregiati per essere sostituite dal riso, che in quanto coltivazione povera non offre una adeguata contropartita. Ogniqualvolta poi emergono inversioni di tendenza nei consumi, gli olandesi modificano l’orientamento della loro economia, costringendo le popolazioni a reimpianti che spesso per anni non sono produttivi. Logica conseguenza di queste misure è il progressivo indebitamento degli agricoltori indigeni, fino alla cessione dei terreni direttamente nelle mani della Compagnia. Un’ulteriore spinta all’immiserimento generalizzato è provocata dalla stessa politica di alleanza coi potentati locali. I trattati stipulati da questi ultimi con gli olandesi li impegnano a fornire periodicamente determinate quantità di prodotto. I principi diventano praticamente dei mediatori, ed hanno interesse a spremere il più possibile i loro sudditi.

L’instabilità conseguente a questa politica e la distruzione di equilibri economici e sociali secolari danno vita a tensioni sempre più acute, che spesso si risolvono in guerre tra le diverse popolazioni, permettendo agli olandesi di destreggiarsi agevolmente, appoggiandosi ora sulle une ora sulle altre. Quando sfociano invece in rivolte dirette contro il potere coloniale, come nei casi di Giacarta nel 1619, di Ternate nel 1648 e di Amboina nel 1650, la repressione arriva puntuale e crudele. Non si esita a trasferire intere popolazioni da un’isola all’altra, strappandole alla loro terra e al regime economico cui avevano legata da sempre la propria sopravvivenza. Nel 1624 tutta la popolazione maschile dei possedimenti delle isole Banda viene sterminata, mentre donne e fanciulli sono ridotti in schiavitù.

[1] Va interpretato in questo senso quanto scrive Camus, che sembrerebbe andare invece in direzione opposta: “Ciò che dà valore al viaggio è la paura. È il fatto che ad un certo momento …. Siamo colti da una paura vaga e dal desiderio di tornare indietro.” Il viaggio consente il confronto e insegna appunto a vincere questa paura, anche quando siamo privati dello scudo di ciò che ci è familiare e conosciuto. (Camus, Carnets, Gallimard 1962)

[2] Gli esploratori avrebbero affermato di aver navigato con il sole costantemente sulla destra, cosa spiegabile solo con il passaggio nell’emisfero australe.

[3] Il resoconto parla espressamente di “un’altissima montagna, chiamata il Carro degli Dei, dalla quale si sprigionava una fiamma più alta delle altre, che sembrava raggiungere le stelle”. Il monte Camerun è un vulcano attivo, l’unico peraltro della costa occidentale, che si innalza praticamente a partire dal mare per 4.070 metri.

[4] È Rufo Festo Avieno (IV secolo dopo Cristo), nel poemetto Ora Maritima.

[5] Soprattutto Dario I, che agli inizi del VI secolo incaricò Scìlace, di Carianda, un greco dell’Asia Minore, di una ricognizione del corso dell’Indo. Scilace arrivò all’Indo via terra, dall’Afganistan, lo discese sino all’Oceano indiano e fece ritorno via mare, veleggiando lungo le coste del Belucistan e dell’Arabia e risalendo poi il mar Rosso. Il suo fu il primo viaggio marittimo nell’Oceano indiano di cui si abbia un resoconto (Periplo delle colonne d’Ercole), infarcito peraltro di esseri orribili, formiche gigantesche e uomini che usano gli enormi piedi come riparo al sole.

[6] La spedizione viene raccontata da Arriano, nel II secolo d.C., nella Anabasi di Alessandro, compilazione desunta da fonti diverse.

[7] Erodoto, Storie, II, 32/33

[8] I suoi contemporanei non erano però di questo parere. Sofocle stesso gli dedicò una sua opera e la lettura pubblica dei suoi libri gli valse un consistente premio in denaro, conferitogli dallo stato ateniese.

[9] Citato nel Periplo del mare Eritreo, una sorta di portolano databile nel primo periodo imperiale. Ma anche Plinio parla di un “vento Ippalo”, riferendosi ai monsoni.

[10] Plinio, Historia naturalis, VII

[11] Ad esempio da Cosma l’Indicopleuste, nella Topographia Christiana

[12] Fu rinvenuta nel 1625 dal gesuita Nicolaus Trigault, compagno d’avventura di padre Matteo Ricci, e sino al secolo scorso era ritenuta poco credibile. Oggi si ha invece la certezza della sua autenticità.

[13] Nella Rettifica della carta geografica del mondo conosciuto (110 d.C. circa), il cui testo originale è andato perduto.

[14] È pur vero però che ancora nel IV secolo Ammiano Marcellino appare molto bene informato rispetto ai popoli dell’Asia centrale e dell’estremo oriente. D’altro canto era asiatico lui stesso (era nato ad Antiochia) e partecipò a diverse campagne in Mesopotamia, contro i Persiani della dinastia sassanide

[15] Fa eccezione il Ciu-tan Ci , un trattato di geografia composto attorno al 1250 da Ciau-Ju-Koa, dove si parla della Spagna e della Sicilia, di tutta la costa dell’Africa orientale e persino della Siberia, mentre non si fa cenno né a Giava né al Giappone

[16] Queste esplorazioni (effettuate tra il 1405 e il 1433) vennero condotte con giunche lunghe fino a 130 metri, quattro volte la lunghezza delle caravelle di Colombo, larghe 50 e che arrivavano a stazzare 1500 tonnellate. Anche le tecnologie costruttive erano molto avanzate: il che porta a chiederci come mai i cinesi non abbiano preceduto gli europei nella conquista degli oceani. Le motivazioni stanno probabilmente nella mentalità e nelle finalità sottese all’esplorazione, che sembra mossa più da intenti di conoscenza “difensiva” che di aggressività verso l’esterno.

Si è comunque molto fantasticato di approdi cinesi in America prima di Colombo. In realtà è probabile che il Fu-Sang, più volte menzionato nei resoconti di viaggio dei navigatori cinesi e nel quale alcuni identificano il continente americano, altro non fosse che il Giappone. Ad est delle Filippine parte comunque una corrente marina, il Kurosciò, che va a lambire le coste americane, e che avrebbe potuto svolgere un ruolo analogo a quello della corrente del Golfo.

[17] Nelle Gesta Hammaburgensis Ecclesiae Pontificum, opera in quattro volumi del 1075. Nell’ultimo volume (Descriptio insularum Aquilonis) tratta la geografia, la storia e i costumi della Scandinavia, e cita per la prima volta i viaggi dei vichinghi al Vinland, “una grande isola ricca di viti.

[18] Tra le altre meraviglie, gatti marini e uccelli che parlano latino. La leggenda della navigazione di san Brandano si diffonde nell’ottavo secolo, quando i monaci irlandesi hanno già raggiunto e colonizzato da tempo le isole Orcadi, le Shetland e le Faer Øer. Anche in Islanda giungono molto prima dei vichinghi.

[19]In realtà si tratterebbe della terza, perché già l’anno precedente un altro frate, questa volta domenicano, Andrea di Longjumeau, è arrivato al campo imperiale, ma solo per essere rimandato velocemente indietro, essendo nel frattempo morto anche Guyuk, figlio di Ogadei.

[20]   Per Karl Jaspers (Origine e senso della storia) l’Occidente intende invece se stesso non come centro, ma come parte, come un’appendice che si è staccata dalla matrice originaria asiatica attraverso una diaspora lacerante. L’antitesi oriente-occidente è per questo costitutiva della Kultur europea: ha radice nel senso di mancanza e di incompletezza che è alla base della pretesa occidentale di forgiare il mondo a sua immagine e somiglianza.

[21] Un’intensa attività di ricerca dell’isola di “Brazil”, ad ovest dell’Irlanda, come base d’appoggio per l’essiccatura, è svolta negli anni Ottanta del XV secolo dai pescatori di Bristol. E Bristol è uno dei porti toccati da Colombo nel suo viaggio al nord.

[22] La narrazione si trova ne La saga dei Groenlandesi: Heriolfsson non avrebbe posato piede a terra in quanto consapevole che non si trattava della Goenlandia, verso la quale era diretto. Leif Eriksonn era figlio di Erik il Rosso

[23] [23] Da Gama partì da Lisbona nel 1497 con quattro navi e un equipaggio di 150 uomini. Fino al Capo di Buona Speranza fu accompagnato da Bartolomeo Diaz. Nel maggio del 1498 sbarcò a Calicut, sulla costa sud-occidentale del subcontinente indiano. Ripartì l’8 ottobre, dopo aver svolto intense trattative con il sultano locale e lasciando a Calicut alcuni dei suoi uomini con l’incarico di stabilire un insediamento commerciale. Al suo ritorno a Lisbona, nel settembre 1499, venne insignito del titolo di “Ammiraglio dell’Oceano Indiano”.

[24] Dopo aver navigato assieme al padre, Sebastiano ha una carriera travagliata. Assunto da Enrico VIII d’Inghilterra come cartografo, passa poi nel 1522 al servizio della Spagna con il grado di Capitano Generale e con l’incarico di cercare la rotta occidentale per la Cina.

Al comando di una spedizione di tre navi con 150 uomini d’equipaggio parte da Cadice nel 1526. Approda al Río de la Plata, e di lì intende raggiungere il favoloso regno di Birù (Perù). Persiste nella ricerca per diversi anni, arrivando probabilmente sino all’attuale Bolivia. Rientrato in Spagna, viene incarcerato con l’accusa di aver abbandonato i suoi uomini. Torna poi in Inghilterra, dove muore mentre prepara un’ennesima spedizione.

[25] La vicenda di Francisco Coronado merita di essere almeno accennata. Già governatore della Nueva Galicia, partì agli inizi del 1540 a capo di una spedizione di 335 spagnoli, 1.300 nativi messicani, quattro monaci e uno svariato numero di schiavi. Era diretto a nord, alla ricerca della città di Cibola, fantastico Eldorado immaginato da un francescano in cerca di notorietà. In due anni di peregrinazioni per l’Arizona, il Kansas, il Texas e il Nuovo Messico, durante le quali, dopo aver diviso le sue forze in piccoli gruppi, attraversò le terre degli Zuni e degli Hopi e arrivò a scoprite il fiume Colorado, di oro non vide neppure l’ombra. Lasciò invece un terribile ricordo nelle popolazioni native, che dopo aver opposto un’iniziale resistenza dovettero rassegnarsi al saccheggio continuo dei loro poveri villaggi, Tornò in Messico con nemmeno un quarto degli uomini partiti con lui, senza più una lira in tasca, avendo profuso tutte le sue sostanze nella spedizione.

[26] Francisco de Orellana, già compagno di Francisco Pizarro nella conquista del Perù, fu il comandante in seconda di Gonzalo Pizarro durante la sua spedizione del 1541 alla ricerca di El Dorado. La spedizione superò le Ande e arrivò alla foresta amazzonica. Parte degli uomini, al comando di Orellana, furono inviati in avanscoperta lungo il primo fiume navigabile, mentre gli altri, dopo averne atteso invano il ritorno, ripassarono a fatica le Ande. Orellana aveva infatti deciso di discendere il fiume su imbarcazioni di fortuna. Passando da un affluente all’altro arrivò ad un enorme corso d’acqua che gli indigeni chiamavano Marañon e che venne da lui ribattezzato Rio delle Amazzoni. Il viaggio fluviale durò circa dieci mesi, e gli spagnoli raggiunsero l’estuario del Rio nell’agosto del 1542. Orellana, dopo il ritorno in Spagna, ripartì nel 1545 con quattro navi per tentare di risalire il fiume, ma la spedizione si risolse in un disastro e con la morte dello stesso comandante.

[27] Nel 1524, quando ancora nemmeno si sospettava l’esistenza dell’impero inca, Aleixo Garcia già risaliva il Rio Paraguay alla ricerca del Cerro de Plata (la montagna d’argento, probabilmente identificabile nel Potosì) che avrebbe dovuto trovarsi al centro di un territorio governato da “el rey blanco”. Arrivò sin quasi al territorio boliviano, ma solo per incontrarvi le ferocissime tribù del Mato Grosso, gli antenati dei Caduveo, che lo costrinsero a battere in ritirata e alla fine lo uccisero. Vent’anni dopo le sue tracce furono ricalcate da un personaggio la cui vita va oltre ogni fantasia, Alvar Nunez Cabeza de Vaca, a caccia della Noticia Rica, un favoloso regno dell’interno decantato allo stesso Garcia dagli indigeni rivieraschi. Il risultato fu pressoché identico, ma gli spagnoli non si scoraggiavano facilmente. Un altro esploratore, Nuflo de Chaves, intraprense dopo la metà del secolo una nuova spedizione verso il nord del Rio Paraguay, includendo negli obiettivi della ricerca tutto il repertorio mitico della conquista, dall’Eldorado alle Amazzoni, dalla Noticia Rica al Paititi. Quando si imbatté in una fortezza costruita nel bel mezzo della pampa, nell’assalto alla quale lasciò sul terreno un mucchio di uomini, capì che era ora di tornare. Dopo questa ennesima fallimentare esperienza i suoi connazionali decisero che forse non valeva la pena perdere tanto tempo e tanti uomini.

[28] Le stime relative alla demografia dell’America precolombiana sono a tutt’oggi assai controverse. Vanno, per l’intero continente, da un minimo di 10/12 milioni a un massimo di oltre 100. Sulle valutazioni pesano fattori legati alla metodologia di ricerca, ma è poi determinante l’atteggiamento ideologico. Per la seconda ipotesi, quella di un continente sovrappopolato (la stessa Europa di fine XV secolo non raggiunge i cento milioni) propende un gruppo di storici terzomondisti, tra i quali il più autorevole è Pierre Chaunu, per ovvie ragioni, mentre la maggioranza degli studiosi valuta ragionevole una consistenza attorno ai trenta milioni. Esiste infine una corrente minimalista, che basandosi sulla relativa povertà di siti archeologici, non è disposta ad ammettere cifre superiori ai dodici milioni.

[29] La rotta portoghese per le Indie è tutt’altro che agevole. A partire dai primi anni del ‘500 si abbandona la navigazione costiera lungo l’Africa, per evitare le correnti litoranee contrarie, e si va ad attraversare la fascia delle calme tropicali quasi in prossimità del continente americano. La prima tappa della navigazione, quella che porta al Mozambico, non dura meno di quattro mesi. Per poter profittare della stagione monsonica si parte in genere da Lisbona nei primi giorni di primavera: ma se si accumula un certo ritardo è necessario svernare sulla costa africana e attendere la primavera successiva per la traversata sino all’India, nel qual caso il viaggio dura più di un anno.

[30] Una volta riaperta la via delle Indie tornano nell’Asia meridionale, sia per mare che per terra, sulla scia e spesso a dispetto dei portoghesi, viaggiatori e mercanti di ogni altra parte d’Europa. Tra i primi a guadagnare i nuovi ricchi mercati sono gli italiani, in particolare i veneziani e fiorentini, e lo fanno principalmente per la via terrestre, partendo dalle basi ottomane del levante, attraversando la Mesopotamia e imbarcandosi poi su navi arabe nel Golfo Persico. Personaggi come i veneziani Alvise Roncinotto, Cesare Federici e Gaspare Balbi, o i fiorentini Andrea Corsali, che soggiorna in India già prima degli anni venti del XVI secolo, e il letterato Filippo Sassetti, che vi muore invece verso la fine dello stesso, o il bolognese Lodovico Varthema, che a Malacca arriva prima ancora dei portoghesi, lasciano resoconti di viaggio che, quando anche non siano da prendersi del tutto senza riserve, non mostrano più alcun debito con il Milione di Polo e offrono un’immagine nuova e fresca, talvolta molto disincantata, di quel mondo un tempo favoloso.

[31] In Cina il porto di Canton era già un grande centro di scambi con l’esterno nel IV secolo d.C. Le giunche cinesi che partivano di lì arrivavano sino a Gedda e risalivano l’Eufrate, e ciò avveniva con tale frequenza da giustificare la compilazione, nel IX secolo, di un manuale cinese di navigazione da Canton al golfo Persico. A Canton risiedevano, prima dell’875, decine di migliaia di stranieri, che addirittura avevano messo a sacco un secolo prima la città. In quell’anno la maggior parete di essi fu massacrata durante una rivolta a carattere “proto-nazionalistico”.

[32] La prima testimonianza di uno sbarco europeo in Giappone è quella del capitano Fernam Mendes Pinto, che raggiunse nel 1542 l’isola di Tanegashima, la più meridionale dell’arcipelago, a bordo di una giunca pirata. Mendes Pinto raccontò le sue vicissitudini nella “Peregrinaçao”, che conobbe immediatamente una enorme diffusione.

[33] Gli africani hanno un tasso di mortalità decisamente inferiore a quello delle popolazioni del Nuovo mondo. Sono più resistenti alle malattie tropicali perché immunizzati dalla malaria. Chi sopravvive alla malaria è in pratica immune a quasi tutte le altre malattie conosciute.

[34]Naturalmente non manca chi, come Juan de Sepulveda, partendo da una lettura ultraortodossa di Aristotele, argomenta che i neri, come gli indigeni americani, hanno tutte le caratteristiche degli “schiavi per natura”.

[35] Nella Dissertation sur la traite e le commerce des Nègres.

[36] Nei tre anni tra il 1658 e il 1661, dopo la fine della rivoluzione inglese, quindi in una fase di “recessione” del mercato interno delle armi, vengono venduti in Costa d’Oro 5.500 moschetti prodotti dagli armaioli di Birmingham. Con questi le popolazioni rivierasche possono facilmente ridurre in schiavitù i popoli dell’interno, e alimentare il mercato della tratta. Oltre alle armi, le merci di scambio più richieste sono le stoffe. Dopo il 1750, a seguito del forte incremento produttivo determinato dagli esordi della rivoluzione industriale nel campo tessile, gli inglesi arriveranno a conquistare un monopolio quasi assoluto sul commercio africano, quintuplicando in poche decine d’anni il valore dei loro traffici verso il continente nero.

[37] Le cifre stimabili (ma assai più difficili da determinare, in assenza di una documentazione che è invece copiosa per i traffici europei) della tratta gestita dagli arabi e diretta verso l’oriente sono nel complesso forse superiori, ma si distribuiscono in un arco di tempo più che doppio.

[38] Per tutto il XVII secolo i dividendi annui del commercio con l’oriente si aggireranno attorno al 20% annuo.

[39]Già ai suoi esordi la Compagnia dispone di una flotta di 160 vascelli, e di una forza di trentamila uomini tra soldati e marinai.