Discorso sul campo desiderante

Piccola giustificazione di me stesso

Discorso sul campo desiderante copertinadi Mario Mantelli, 30 dicembre 2016

Premessa

Discorso sul campo desiderante

Verso l’alto e verso il basso

Una dozzina d’anni dopo

Appendici

Dell’acquarello come gioia

108 (Guido Bisagni)

Illustratori di marca del Novecento italiano

Nota dell’editore di Paolo Repetto

Composto tra fine luglio 2001 e fine luglio 2003. Finito di ricopiare a fine luglio 2004

Premessa

Bisognerebbe parlare di quelle cose che ci danno una forte sensazione, sovente ingiustificata e inspiegabile, di felicità e di futuro (ma esiste una felicità senza aspettativa di qualcosa di buono nel futuro?). Queste cose non sono altro che la bellezza, almeno secondo la definizione che ne dà Stendhal, il quale dice più o meno così: “La bellezza è la promessa di una felicità futura”. Chi è che ha rivelato a Stendhal una verità così profonda? Nessuno. Ci sarà arrivato da solo, vista la sua grandezza. Fatto sta che la vera bellezza mi pare proprio questa. Stimola un desiderio di vita. Quando appare, anche per un brevissimo frammento di tempo, la vita subisce una riaccelerazione di significato e di desiderio, anche se un attimo prima sembrava che non ne avesse per niente. Tutto ciò è gratuito e misterioso; soprattutto non avviene a comando. I platonici parlerebbero di eros, Leopardi stabilirebbe il nesso poesia-vitalità, Rimbaud titolerebbe con Illuminazioni e Joyce farebbe discettare i suoi eroi di epifanie. Di fatto, quando ci capita di incontrare quella bellezza riprende la voglia di vivere, di muoversi verso una meta, di fare dei proponimenti per una vita migliore, di ricominciare, perché ci sembra che la realtà frammentata che ci circonda si ricomponga nella certezza di un’unità cementata dalla gioia. Siccome ci si trova come dentro a un campo di forze e siccome usare termini come “bello” e “bellezza” può essere fuorviante, ho deciso di chiamare questa situazione “campo desiderante”.

I fattori del campo desiderante che si troveranno elencati nel seguito sono stati ricavati empiricamente, nel senso che fin dal ‘93 per una operazione di conforto di me stesso, per la necessità di scegliere le cose essenziali da coltivare sollecitata da un diminuito futuro dovuto all’avanzare dell’età, per vedere se c’era un motivo di fondo che collegava tutte le cose belle che incontravo, incominciai a stendere, con la periodicità di un anno o due, un elenco di ciò che mi dava gioia, quel tipo di gioia.

Ed ecco che da quegli elenchi, rimpolpandoli un po’, ho ricavato lo scritto che segue. Il fatto che prenda le mosse dalla contrapposizione fra vita etica e vita estetica è un bisogno che ho sentito per esplorare il mio processo di individuazione e quindi per scoprire nei miei interessi e nelle mie elaborazioni una qualche linea di fondo (non ho forse parlato di una ricomposizione della realtà frammentata alla luce di una certa bellezza?). E poi, a proposito di vita etica e di vita estetica, una circostanza sincronistica alla conclusione della presente stesura (25 luglio 2003) mi ha, si può dire, servito su un piatto d’argento una poesia di Margherita Guidacci che parla dell’argomento in termini così puntuali e precisi, come solo la poesia può fare. Mi sembra quello che ci vuole per chiudere questa premessa: e iniziare il discorso. 

 Tre campanule bianche ad Annarosa
Poiché il fiore era falso ma la pietra era vera
ci concentrammo sulla pietra:
spigoli schegge macchie asperità.
Ad essa ci aggrappammo, la stringemmo
negando ogni altro scampo.
Pure, nel fondo della mente, ancora
ritornava un effluvio, un tremolio
di petali leggero – tre campanule bianche
nel cantuccio di un quadro di Klee.
Noi cercavamo disperatamente
di non badarvi, e sapevamo bene
che ne saremmo morti.
                                       Margherita Guidacci     

Discorso sul campo desiderante

Chi ha avuto, anche solo per qualche tempo, il privilegio di guardare in faccia la vita e di decidere come viverla scegliendo le cose più importanti, senza i paraventi (sovente lo sono) del lavoro, della famiglia, degli obblighi, delle convenzioni, dell’imitazione di ciò che fanno gli altri, non può evitare di domandarsi qual è il proprio campo desiderante (se vuoi, dentro questo doppio termine leggici il termine unico, più tradizionale, di “vocazione”).

Se uno si accinge a rispondere a questa fondamentale domanda si trova subito davanti al bivio kierkegaardiano dell’estetica e dell’etica.

Io ho scoperto in ritardo, non volendo convincermene appieno per ragioni appunto etiche, che la mia vocazione è essenzialmente estetica. D’altronde sono stato interpellato per troppo tempo e così metodicamente dai problemi, dalle cause e dai fondamenti della bellezza e dell’arte, per rimanere della convinzione che questi fossero delle marginali appendici della vita etica (quella vera, pensavo, quella da attuare).

Le ragioni del ritardo nel rivalutare le istanze estetiche credo siano un fatto eminentemente generazionale, come sostiene con spiritosa efficacia Pier Luigi Cervellati:

Per chi era giovane nel secondo dopoguerra del Novecento, “bellezza” era un termine proibito quanto irritante, riservato solo alle ragazze. L’impegno impediva di usarlo. L’estetica – proprio a causa dei maestri che facevano riferimento a Benedetto Croce- era una cosa che riguardava parrucchiere e profumerie. Certo questo avveniva vuoi per grande ignoranza, vuoi per spirito di contraddizione e di ribellione. Per evitare soprattutto che con questo termine – così apparentemente soggettivo- si contrabbandassero nefandezze, speculazione edilizia, scempio del paesaggio” (L’arte di curare la città, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 35-36).

Ma, arrivati al bivio kierkegaardiano, trascurando il particolare della non tenera età, anzi fatti forti di questo, prendiamo questo sentiero estetico, senza dimenticare che i conti con la vita etica sono tutt’altro che chiusi e, al momento, procedendo con l’appagante sospetto che la vita estetica non sia altro che una variante sottile di quella etica, e soprattutto con riguardo al valore che hanno avuto per me (e per molti, credo) la poesia e l’arte: valore di consolazione e rifugio rispetto ai momenti del dovere. Sono state lo spiraglio verso un mondo idealmente migliore e tanto più consolante quanto più “militante” e necessaria si faceva la richiesta dell’impegno etico. Paradossalmente bisognerebbe affermare che l’intensificarsi del sentire estetico passa per me attraverso le privazioni e i sacrifici richiesti da un qualsivoglia “Tu devi”.

L’equilibrio che ho sovente ricercato fra questi due momenti è testimoniato da due scritti miei di alcuni anni fa: Alessandria e l’urbanistica della felicità (testi di Mario Mantelli, fotografie di Enzo Testa), Edizioni Istituto Gramsci, Alessandria 1989, e Spiazzati, In/mproprio, Alessandria 1991. Nel primo l’impegno civico (così almeno l’ho sentito) nei confronti della strutturazione della mia città veniva affrontato secondo i criteri della bellezza, nel secondo l’impegno, dimensionalmente minore, nei confronti della piazza principale della mia città veniva affrontato con gli strumenti della memoria personale, sia affiorante che profonda. In entrambi i casi c’è stata una contrapposizione fra il mondo della politica (è proprio, etimologicamente, il caso di dirlo) e la mia soggettività (in altri termini, ciò che sentivo più autenticamente e profondamente), quasi non me la sentissi di affrontare la realtà con gli strumenti oggettivi (in questo caso l’urbanistica, l’analisi razionale), innanzitutto per un problema di sincerità. Etica=oggettivo, estetica=soggettivo: è così che forse ho vissuto la contrapposizione. In quel periodo ero molto sensibile a queste identità e a questa contrapposizione, tant’è vero che formulai una piccola guida alle opere di Ignazio Gardella ad Alessandria secondo i due parametri del soggettivo e dell’oggettivo: L’utopia sulla circonvallazione, In/mproprio, Alessandria 1992)[1].

Un modo per uscire da quella contrapposizione poteva essere la critica d’arte nei confronti dell’attività di alcuni miei amici, vista come immersione nella soggettività altrui, quasi a rassicurarmi: la realtà esterna non è qualcosa di radicalmente oggettivo, contrapposto a me, ma è un mondo fatto di tante soggettività, a me simili (tanto meglio) o diverse, ma comunque è una realtà non totalmente “altra”, estranea, bensì amica. Con questo spirito ho condotto le critiche alle opere di architettura di Enzo Testa (“Parametro”, luglio-agosto 1990, pp. 76-89); alle opere di pittura di Giorgio Robutti (nel catalogo della mostra a Savona, palazzo Nervi, 14-24 maggio 1994); e alle opere di fotografia di Enrico Barberi (prefazione ad Alessandria … un giorno, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1998).

Dopo aver parlato in termini un po’ più circostanziati della mia vocazione estetica, si può forse capire come l’estetica che più mi attrae, tra quelle prospettate per la nostra epoca da Mario Perniola, sia forse quella che ha a che fare con la vita, piuttosto che quelle della forma, della conoscenza, dell’azione o del sentire (vedi Mario Perniola, L’estetica del Novecento, Il Mulino, Bologna 1997). E questo è un punto da rimeditare.

Ma torniamo piuttosto al campo desiderante e a questa parola, a questa dimensione del desiderio, così importante per vivere o, più propriamente, per guardare in faccia la vita, per sostenere il suo sguardo. Chi si abbandona alla vita estetica, si abbandona alle sensazioni e ne diventa cultore. Capita, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, con la maturità. Il giovane ha un apparato sensorio così dotato ed appagante che non ci fa caso, dà tutto per scontato e dovuto e magari si annoia. Invecchiando, invece, si affinano le modalità delle sensazioni, si è fatta esperienza, ci si fa più attenti, si attuano comparazioni; la memoria, arricchita, funziona da cassa di risonanza, si diventa insomma golosi della vita. E lo si diventa a tal punto (parlo sempre, naturalmente, della percentuale piuttosto bassa dei momenti lieti) che questo fatto, unito alla coscienza di un diminuito futuro, porta a una necessità struggente di conservare i momenti belli, i momenti magici, i momenti estatici, perché duri tutto di più e possibilmente con qualcosa dell’originaria intensità. A questo punto viene più che mai in soccorso la parola. È una parola poetica che deve poter catturare e restituire il “buono della vita” (uso questa espressione di Umberto Bellintani perché sento con sicurezza che voleva alludere a queste cose: vedi Ond’io canti dolcezza e amore, in Umberto Bellintani, Nella grande pianura, Mondadori, Milano 1998, p. 17).

Sovente la concisione si rivela un pregio. L’ho provato con gli haiku ma, siccome ero certo che quasi nessuno di questi riuscisse autonomo nella sua espressività, li ho corredati di un commento, fornendo anche un’affannosa giustificazione del tutto, tirando in ballo alcuni numi tutelari, come Borges, Wittgenstein, Eco (204 Sillabe all’anno, In/mproprio, Alessandria 1993).

Voglio continuare e ho in quest’ultimo decennio materiale per farlo. Ma le diciassette sillabe dello haiku non bastano (tant’è vero che ho dovuto ricorrere ad un commento che è forse il vero oggetto della comunicazione). Ci vuole qualcosa di più articolato e la lirica, anche solo quella italiana, del Novecento (e chiamalo poco!) ci dispiega un campionario pressoché esaustivo del possibile. Ma non basta: abbiamo sempre cose nuove da dire, da conservare: ognuno ha le sue. Qual è lo strumento più efficace? Ognuno dovrebbe poter dare la sua risposta. La mia scoperta di questa estate 2001 è che la poesia è la conserva della vita. La vita, o meglio, i suoi momenti belli sono un frutto in qualche modo esorbitante. Bisogna fare come si fa con i pomodori che maturano tutti assieme. Ultimamente ho letto un libro di poesia (Enrico Testa, La sostituzione, Einaudi, Torino 2001) dove mi è apparsa con evidenza singolare la volontà di fare conserva di un accadimento di cui si è stati golosi, con l’uso significativo, a conclusione del componimento poetico, di una rima baciata, secondo la lezione probabilmente caproniana (a dire la verità mi hanno convinto pienamente in questo senso soltanto le due ultime, su cinque, sezioni del libro). Ma ora (tarda primavera 2003) si vedano anche, al proposito, le poesie in dialetto e in lingua di Giancarlo Consonni.

Secondo una concezione di poesia di questo genere, viene ad assumere la sua bella importanza il momento materiale del comporre, cioè la calligrafia e il suo supporto (buona la carta extra strong, ottima la carta a quadretti lungamente stagionata, ingiallita, di quei quaderni con la copertina nera, con la costa dei fogli colorata di rosso). C’è comunque una fase della raccolta (dei versi che vengono man mano alla mente) dove tutto va bene: la classica bustina dei fiammiferi, l’ancor più classico retro di una busta (ma nessuno scrive più lettere tradizionali) e persino l’impossibile (a scriverci) tovagliolino di carta. Poi arriva il momento di mettere assieme i tanti spezzoni dell’ispirazione e allora la stesura in calligrafia può diventare l’espressione più convincente di un amalgama riuscito. La dattilografia più primitiva, quella dove l’intensità del carattere è ancora governata dalla forza impressa alla battitura, dà insieme il senso della stesura definitiva e della partecipazione corporale che le abbiamo dato. Poi, via via che digitiamo con esiti di assoluta uniformità (macchina da scrivere elettrica e ora computer) perdiamo il contatto fra il prodotto del nostro io (la poesia) e la partecipazione fisica che dovrebbe accompagnarla e sostenerla. L’ideale sarebbe avere un rapporto simbiotico fra poesia e calligrafia come quello esistente nelle culture dell’Estremo Oriente.

L’arte figurativa dispone di un uguale strumento per conservare i momenti gioiosi della vita? Sì, forse c’è l’acquarello; l’acquarello ha qualcosa della conserva: la sua stesura ha macchie e sbrodolature che evocano anche materialmente la preparazione di una confettura. Non mi sembra per nulla un caso che Montale si dedicasse a un acquarello, composto per di più da sostanze quotidiane e persino commestibili, per fissare certi momenti: lo muovevano forse le stesse intenzioni desideranti che gli facevano comporre le poesie. Mi accorgo di addentrarmi sempre di più in quelle problematiche della traccia (del lasciare traccia) e della memoria (del lasciare memoria), che sono un rovello onnipresente, che mi sembrano addirittura l’aria (anzi l’ansia) che respiriamo, per non dire il compito, il dovere nostro (ecco che ritorna l’etica!).

Ho assolto in piccola parte questo compito stendendo una parodia del saggio (genere che ritengo a me congeniale e che già connotava Spiazzati) intitolato Capitoli di un congetturale trattatello domestico sulle tracce, con cui ho partecipato al concorso “… Tracce …” organizzato da “La Stampa” e “Piemonte Parchi” nel 1993. È un tentativo di individuare una tipologia delle tracce. Inoltre ho sentito il bisogno di parlare di una non so se povera o ricca memoria infantile di una generazione come la mia, collocata fra quella di chi può ancora narrare di una guerra e di un multiforme passato artigianale contadino e quella di chi non ha che da parlare ormai della sua dipendenza televisiva (Viaggio nelle terre di Santa Maria e di San Rocco, in “Nuova Alexandria”, dal 1996 al 2001). Io sono quello del dopoguerra, dell’infanzia ancora quasi tutta pre-televisiva, che ha vissuto però gli annunci di un più diffuso benessere e la sensazione di un progresso fatale e inarrestabile, dopo le povertà contadine e prima delle altrettanto fatali omologazioni.

Il dovere della propria memoria, il dovere del proprio luogo: d’altronde la mia predilezione e la mia ammirazione sono sempre andate verso gli scrittori che hanno “esibito i documenti”, non necessariamente in senso di artistico, ma mettendo subito le carte in tavola, dicendoti di che sangue sono fatti, spargendone anche un po’ (del proprio). A me appassionano più dei giallisti. Mi creano la suspence, effetto che mi suscitano anche, su un versante apparentemente opposto, i divagatori.

Dei nomi? Limitiamoci agli autori moderni italiani, tra i primi (i “memorialisti”) i grandi maestri piemontesi (Fenoglio, Levi, Soldati, Romano), alcuni padani (Bassani in primo luogo), tutte le possibili “linee” lombarde (nonché quelle liguri), la schiettezza dei resoconti toscani (il Tozzi di Bestie, Petroni, Betocchi, coloro che scrivono di Lucca e anche di Pistoia), Borges (espatrio un attimo) specialmente quando parla di Buenos Aires, dimenticavo i veneti (Piovene, Meneghello, Barbaro, Zanzotto, Camon) e i friulani, in genere tutti gli autori che parlano di una città (di nuovo andando oltre frontiera viene molto bene Budapest), che sono affezionati a un territorio (Heaney, visto che ormai sono fuori d’Italia). Tra i secondi (i “divagatori”) Panzini, Savinio, Ceronetti, Buzzi, buoni anche tutti i lirici che si mettono a scrivere in prosa: da Leopardi a Montale e poi Vigolo, Sinisgalli e quindi di nuovo tutti coloro che parlano di una città, che sono affezionati a un territorio (chi parla della Svizzera – Frisch, Morselli – è portato alla divagazione, la Russia di Cecov è stata un’enorme divagazione).

Ma riprendiamo il cenno all’arte figurativa fatto poco prima. Come dicevo l’immagine, in alcuni casi, ha questo meraviglioso potere di fermare l’attimo fuggente: ho parlato dell’acquarello, ma che dire della fotografia, o meglio, di certa fotografia? Niente di più adatto allo scopo. C’è poi tutta una pittura dell’Ottocento (e una pittura del Novecento di tradizione ottocentesca) che vuole fermare quell’attimo, pur con la contraddittoria tecnica di impiegare molto tempo per farlo. Sempre quest’ultima estate (2001), nella penombra del liceo classico di Acqui Terme o, sempre ad Acqui Terme, passando per i capannoni dell’ex coltelleria Kaimano, quanti momenti sigillati per sempre nella pittura, come a ritrovarsi in una grande cella frigorifera dei ricordi! (Dal divisionismo all’informale, Acqui Terme, 15 luglio -9 settembre 2001).

Ma il valore dell’immagine non si limita per me a questa funzione di fermare il ricordo con immediatezza. L’immagine ha valori più generali e più strutturali. Essa mi può servire per esprimere cose che altrimenti non potrei comunicare, arriva là dove la parola non riesce ad essere efficace perché ciò che si vuole esprimere ha proprio quella determinata individualità, quelle atmosfere speciali che devono essere fissate proprio in quel modo per sortire il loro effetto. Per illustrare un sogno, proprio quel sogno lì che ho fatto questa notte, un’immagine può valere più di mille parole. De Chirico e i surrealisti l’hanno capito e possono dormire sonni tranquilli: hanno salvaguardato l’individualità dei loro sogni. L’interpretazione delle loro opere traviserà il loro pensiero solo fino a un certo punto. La semplice apparizione dei loro quadri inchioderà per sempre l’osservatore a una precisa atmosfera.

Un primo passo che si compie in questo riconoscimento dell’insostituibilità dell’immagine può essere quello di utilizzare le figure di un patrimonio già esistente, combinandole e contaminandole: il collage inteso come tecnica di onnipotenza con poca spesa per poter mettere a fuoco situazioni che altrimenti la mente del fruitore, col solo supporto delle nostre parole, creerebbe da sé, mentre noi vogliamo che lui pensi a quelle precise, individuali realtà che sono anche nella nostra testa. Max Ernst ha utilizzato le immagini delle stampe dell’Ottocento per dire cose che di quelle immagini non potevano fare assolutamente a meno (mia esperienza delle cartoline-collage, che intendo continuare).

L’immagine, nella sua individualità, ha un potere a sua volta mitopoietico, a volte fortemente affettivo, costituisce un punto di riferimento, fa crescere. In questo senso James Hillman e la tradizione dell’icona ortodossa (per scegliere due esempi particolarmente disparati) hanno cose preziose da insegnarci (ho affrontato per la prima volta un po’ seriamente questo tema nella conferenza dal titolo L’arte sacra della provincia di Alessandria, tenuta il 26 febbraio 2003).

Certe immagini (illustrazioni dei libri d’infanzia, réclames, cartoline spedite dagli zii ecc…) hanno continuato a crescere e ad agire in noi, sono diventate il nostro imprescindibile teatro delle memorie. Bisogna incominciare a raccoglierle e a farne un album. Se questa operazione verrà fatta con la debita pazienza e con un’onesta sincerità verso se stessi, arriveremo a scoprire di che cosa siamo fatti, se non totalmente perlomeno in una buona percentuale.

Ma le immagini, ovviamente, non hanno soltanto un’origine bidimensionale, derivano in primo luogo dalla realtà tridimensionale, in primis dagli oggetti. Dato che ci sta a cuore il tema dell’immagine che ha avuto un imprinting su di noi, questi oggetti andrebbero ricercati fra gli oggetti d’affezione (con quasi stupita soddisfazione mi accorgo di ricorrere per la seconda volta alla strumentazione artistica del surrealismo).

Secondo la mia interpretazione l’oggetto di affezione è l’oggetto imbibito di vissuto che attende di essere evidenziato, rappresentato, incorniciato, denunciato. Ho tentato di condurre qualche operazione del genere (Oggettivazione dell’isolato di Santa Scolastica, 1998; 30^ Dimostrazione di geometria non euclidea, 2001) e altre ne ho pensate. Credo che questo sia il massimo che posso fare per la creazione di oggetti artistici o meglio para-artistici. Ci fu un momento, verso i trent’anni, in cui mi accorsi di quale importanza potessero essere la scultura e lo scolpire per un essere umano. Ma non andai più in là di una raccolta di pietre sul greto di un torrente (1981), di un loro assemblaggio in forma di animali (1994) e poi ancora in una composizione di altre pietre più grosse (Fino a un certo punto, 2000), dove riutilizzai quegli animaletti di pietra mettendoli in una ciotola; la pioggia sciolse la colla e li fece ritornare sassi singoli. Quante volte, per spiegarmi il fascino esercitato su di me da quelle pietre, mi riandai a leggere le pagine della Von Franz e della Jaffé sul simbolismo delle pietre (Carl Gustav Jung, L’uomo e il suoi simboli, Mondadori, Milano 1980, pp. 219-221 e 250-251). Le pietre sono delle belle cose, come le nuvole.

Altra cosa sono comunque i veri oggetti artistici, sculture e dipinti, che hanno magicamente le qualità di un individuo, di una persona. Non solo, hanno una qualità che ha qualcosa di religioso, che richiama il pellegrinaggio: costituiscono la meta di un viaggio. Per cui daremo questa definizione dell’oggetto artistico eccellente: dipinto o scultura che si costituisce come meta di un viaggio. L’Emilia-Romagna ne è particolarmente ricca: Cristo in croce consolato dall’angelo del Guercino (1625) nel santuario della Madonna della Ghiara a Reggio Emilia (contemplato con forte commozione nel 1991); Ritratto della madre di Guido Reni (tra il 1610 e il 1640) alla Pinacoteca Nazionale di Bologna (recatomi apposta nel 1993, non è presente perché ceduto ad una mostra, quindi contemplato nel 1994); Gesù giovinetto e santi Giuseppe ed Eligio di Guido Cagnacci (1635) nella collegiata di Santarcangelo di Romagna (visto alla mostra su Cagnacci a Rimini nel 1993 e poi in loco nel 1994); Madonna col bambino tra San Michele Arcangelo e Sant’Andrea di Cima da Conegliano (intorno al 1505) e La schiava turca del Parmigianino (intorno al 1530), entrambe rivisitate  nel 1993; Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca (tra il 1463 e il 1490) nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna (visto con attenzione fin dal 1973). Ma anche la Toscana presenta esempi di questo tipo: una classica scultura da pellegrinaggio è l’Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia (1408) nel Duomo di Lucca (vista per la prima volta nel 1974) e non mi ricordo più quanto tempo mi fermai a contemplare la Deposizione dalla Croce di Rosso Fiorentino (1521) quando la vidi nel 1986 alla Pinacoteca Civica di Volterra. E ormai una mia Firenze la ritrovo fissa, sicura, nella Pietà (1528) e nella Vergine Annunziata (1528) del Pontormo in Santa Felicita. Ma anche la pittura contemporanea non scherza; tanto per citare un caso: La visita di Virgilio Guidi (1925), vista alla Permanente di Milano nel 2001.

E ora parliamo dell’ambiente costruito, dato che, come si vede, si è adombrato finora un percorso che tratta delle arti: poesia, musica, pittura, scultura e architettura. Manca la musica, per colpa mia, della mia “sordità” musicale; supplisce la poesia, la parola in quanto musica (anzi la poesia viene prima ancora della musica: è un esercizio di respirazione, come diceva Mandelstam della poesia di Pasternak). Per l’ultima parte trattata preferisco parlare di ambiente costruito anziché di architettura (pur nella sua accezione estesa, alla Benevolo) per una questione di pudore e anche per il fatto che nel nome dell’architettura si compiono un sacco di operazioni di imbruttimento dell’ambiente.

Che cosa ricerco nell’ambiente costruito? Due cose essenzialmente: l’occasione di un abitare poetico legato a un mondo che sta scomparendo, occasione peraltro mai praticata veramente, ma guardata piuttosto da una certa distanza o poco più che sfiorata (poco, perché non me lo merito; poco, se no si guasta) come se da essa provenissero sensazioni troppo forti e quindi perturbanti e troppo deboli e quindi delicate, tali da non resistere alla prova. Mi riferisco all’esperienza della casa di campagna, ferma nel tempo, dove vado a risfogliare vecchi giornali e vecchie carte e a “coltivare” un cortile incolto, nel senso che mi limito ad evitare che si trasformi in una giungla. In secondo luogo nell’ambiente costruito ricerco una patria o delle patrie.

Dall’occasione di un abitare poetico derivano le sensazioni materiche, l’esperienza dei materiali, del loro invecchiamento, si dipana la tematica del restauro. La ricerca, invece, di una patria mi spinge ad approfondire il senso di appartenenza a cominciare da semplici tracce per arrivare a un luogo, a una piazza e poi, quasi ad allontanarmene con un senso di dissolvenza dalla fisicità all’intimità, a una città ideale, a una lontananza interiore, tenendo ben presenti realtà più oggettive e più condivisibili con gli altri: la provincia (fino a quella con la P maiuscola), la regionalità.

Per quanto riguarda l’“abitare poetico”, bisognerebbe illustrarlo con qualche esempio. Anche senza avere prevenzioni nei confronti del moderno bisogna ammettere che una volta (diciamo fino a una cinquantina d’anni fa) l’ambiente era disseminato di occasioni per abitare poeticamente e che nel corso degli ultimi cinquant’anni queste occasioni sono andate sistematicamente scomparendo, sostituite, quando va bene, dal nulla e quando va male (la maggior parte delle volte) da un brutto senza rimedio. L’impressione, magari esagerata, che un tempo tutto l’ambiente costruito fosse bello e affascinante è dovuta ad alcuni fattori allora onnipresenti allo sguardo: le coperture a coppi (anziché con le piatte marsigliesi) che rendono le vedute sui tetti dei centri storici così commoventi per quel segreto di vibratilità alla luce, così vecchio e così sapiente, come quello presente nella scanalatura della colonna dorica; le tinte a tempera dei muri delle case, così innocentemente, indifesamente trasparenti, più resistenti al tempo, molto più resistenti proprio per la loro apparente debolezza, mentre i crostoni delle tinte plasticate e siliconate si slabbrano o si impolverano in una innaturale assenza di invecchiamento; gli acciottolati e i selciati, così rilucenti e abbelliti dalla pioggia da sorprenderci ogni volta, cosa che non succede per gli autobloccanti: loro no, non ci sorprendono quando piove; l’uso frequente del legno con le relative vernici che si stingevano garbatamente alle intemperie, ferro che produceva ruggine e rame che produceva verderame, vale a dire bellezza.

Come si vede la bella immagine dei centri storici è (era) imputabile soprattutto ai materiali usati: ci sono dei materiali che invecchiano bene e altri no. Solitamente sono i materiali della tradizione che invecchiano, potremmo dire, saggiamente; quelli nuovi assai spesso diventano, con il passare del tempo, repellenti; ma non possiamo fare delle affermazioni assolute. Una cosa è certa, però: le case moderne costruite all’interno dei centri storici costituiscono quasi sempre un’estraniazione dal contesto; poi, via via che tutto il contesto si aggiorna tramite ristrutturazioni e restauri, tutto il centro storico si strania da se stesso e finisce per assumere un aspetto che ricorda i rimedi della chirurgia plastica: artificiosità e perdita di individualità. Certo le rughe e le smagliature non ci sono più, così come scompaiono le scrostature, le irregolarità, il vissuto. Il risultato è una perfezione pulita che evidentemente, vista la sua fortuna, appaga l’occhio della maggioranza, i cui valori estetici non vanno al di là dei termini: pulizia, regolarità, disinteresse di quella parte del contesto che è rimasto allo stato originale.

Questo per quanto riguarda gli abitati; che dire poi delle campagne. La campagna che io faccio ancora in tempo a ricordarmi era costellata di alberi ed era recintata di siepi; i corsi d’acqua, non ancora canalizzati, creavano scenari selvaggi. In ogni luogo si coglievano lontananze da giardini d’Armida. Io in località Rotto del comune di Oviglio (pianura del Tanaro) vidi i giardini d’Armida. Non molto lontano, a Borgoratto, Cino Bozzetti scorgeva lungo la Bormida paesaggi alla Poussin. Li ho rivisti alla mostra tenutasi in Alessandria dal novembre 2001 al febbraio 2002 (Cino Bozzetti, 1876-1949, Mazzotta, Milano 2001).  Non era solo la fantasia dell’artista. Era che le campagne erano davvero così. Lungo le strade campestri crescevano folti gli arbusti dei meli cotogni, dalle foglie della consistenza del fustagno, e le siepi offrivano more e prugnole in grandissima quantità.

Ma l’ambiente costruito non ha solo a che fare con questa esperienza dei materiali, esperienza per così dire sensibile e sensuale dei materiali e del tempo che scorre su di essi, ma, come dicevo, è l’occasione di una ricerca di appartenenza e di patria. Questa ricerca potrebbe avere due stelle polari: quella del luogo e quella del paese dell’anima.

Ho trovato una bella definizione di luogo fornita da Marc Augé, che egli contrappone a quella di “luoghi”. È una definizione che si diluisce in due capitoli (Marc Augé, Nonluoghi, Elèuthera, Milano 1996, cap. II e III) e sostanzialmente lega il luogo all’abitare e i luoghi al viaggiare. Gli aggettivi che, sempre secondo Augé, competono al luogo così inteso, cioè “identitario”, “relazionale” e “storico”, giungono in soccorso a giustificare tre scritti miei nell’ambito di una plausibilità anche teorica. Intendo dire: grazie al cielo ha un senso che io abbia parlato del mio luogo, quasi assolvendo a un mio dovere di abitante e seguendo senza volerlo le indicazioni di un antropologo (come è Augé) che se ne intende di queste cose. Ho scritto del mio luogo identitario, che Augé identifica con il luogo di nascita, nel già citato Oggettivazione dell’isolato di santa Scolastica (1998), o meglio nelle pagine che accompagnano l’omonimo oggetto d’affezione. Ho scritto del mio luogo relazionale nel già citato Viaggio nelle terre di Santa Maria e di San Rocco (1996-2001), in cui metto in relazione il mio luogo di nascita in una casa di ringhiera con il resto del quartiere e con alcune parti fondamentali della mia città. Ho scritto sul mio luogo storico nel già citato Spiazzati (1991), dove ho meditato sul vuoto centrale della città che ho ereditato dai miei antenati.

L’amore per il luogo natale è sempre stato un argomento che mi ha appassionato e quando mi è capitata l’occasione ho cercato di capire quali sono i moventi e i meccanismi di questo amore, con un desiderio di forte partecipazione. Il tentativo più recente e più approfondito in questa direzione è una prefazione che ho fatto all’amore di Mario Canepa per Ovada: Ovada (Piemonte, praticamente Liguria, Italy), in: Mario Canepa, Bala Giainte volume due, Accademia Urbense, Ovada 2002. Ma mi ricordo anche un’indimenticabile estate (inizio del caldo canicolare, tapparelle quasi completamente abbassate, piantina di Cremona della guida rossa del Touring a portata di mano), in cui mi impegnai nella stesura di uno schema teorizzante l’urbanistica sentimentale, prendendo spunto da una guida di Cremona, inedita, di Giampaolo Dossena.

Erano i primi d’agosto del 1993. Il tema della guida a una città che si ama, di una guida insolita, mi frullava da tempo per il capo. D’altronde l’attività culturale svolta a partire dal 1991 presso l’Ordine degli Architetti di Alessandria ha per la maggior parte avuto come obiettivo una guida, anche se tuttora rimane inevasa una Guida al moderno in Alessandria e mi riprometto sempre (magari quando sarò in pensione) di stendere una Guida all’architettura moderna nel quartiere Pista. L’unica guida portata a termine, anche perché ci fu l’occasione per farne una mostra fotografica (alla biennale Arte senza tempo, Alessandria 1998, assieme ad Enzo Bruno e Mario Fallini) è quella minima di Scritto sui muri, miniguida alle insegne e alle scritte sui muri della mia città. A ciò sarà da aggiungere la cartellonistica fatta per conto dell’Ordine sui monumenti di Valenza (1998) e su Gardella e il razionalismo ad Alessandria (1999).

Ma già da qualche tempo avevo capito che, se volevo spiegarmi l’attrazione verso il genius loci di una città (della mia città natale, ma anche di tutte le altre, perché tutte le città sono natali di qualcuno), dovevo approfondire una grammatica del luogo o, se si vuole, una tipologia del luogo. Questo approfondimento si è fermato allo stadio di tentativo e iniziò nel 1985 con la partecipazione ad un concorso promosso dall’editore Amilcare Pizzi per la pubblicazione di un libro. Partecipai con il progetto di una Introduzione all’amore per il luogo e questa proposta di alcune possibili tipologie di luogo mi aiutò poi per anni a leggere le suggestioni dell’ambiente in cui mi trovavo. Vale forse la pena di riportare queste tipologie, riviste poi nel tempo, anche per dare un’idea del tono di questo discorso:

  • Il luogo è uno spazio che si diversifica dal contesto
  • Il luogo è uno spazio in cui ci si sente racchiusi
  • Il luogo è uno spazio dove è accaduto un evento
  • Il luogo è uno spazio dove sono state lasciate delle tracce
  • Il luogo è uno spazio dove avviene una contemplazione
  • Il luogo è uno spazio che rimanda ad un’altra realtà
  • Il luogo è uno spazio connesso al movimento o al cambiamento di stato

Perché questo approfondimento? Prendendola alla lontana si tratta di un atteggiamento che ho sviluppato in un’adolescenza e in una giovinezza situata nella piena fortuna di Freud, Marx e compagni, per cui non bisognava fermarsi alle apparenze e alle dinamiche correnti, ma in ogni cosa bisognava calarsi nel profondo per scoprire i meccanismi veri e nascosti della realtà, metodo che beninteso trovo tuttora buono, ma che nella mia esperienza è stato persino invadente. “Andare a fondo” in ogni cosa. Ma, essendo più interessato alla psiche che al sociale, ho privilegiato la psicoanalisi rispetto all’economia politica. L’interesse per Jung ha fatto il resto ed ecco che come mi incuriosiva approfondire la conoscenza della mia psicologia[2] (innanzitutto) e poi di quella degli altri, così volevo approfondire un corrispettivo psichico della città e dell’ambiente costruito in genere. Si è trattato di un vero e proprio bisogno, alimentato dalla delusione provata per un’esperienza urbanistica “seria” e dall’insoddisfazione per un’esperienza accademica (ai livelli più bassi) sui temi della storia dell’urbanistica e del territorio (stiamo parlando dei miei anni Settanta e di una buona metà dei miei anni Ottanta). Per cui fui contento come un merlo quando mi fu data l’occasione di applicare questo mio metodo in un breve scritto Sulla forma del centro storico di Alessandria, contenuto in Alessandria. Quattro secoli di immagini, Il Quadrante, Alessandria 1983. Parlavo di “chiusura” e poi di gerarchia interna alla città e di cuore della città, argomenti riconducibili alla chiusura e quindi al secondo dei sette punti riguardanti la tipologia del luogo. La sperimentazione di tutti i sette punti la attuai nel già citato Spiazzati (1991). In questo scritto affrontavo per di più uno dei luoghi per eccellenza: la piazza. Nella prefazione ci ho messo come un distillato delle piazze d’Italia, frutto dei miei viaggi in Italia estivi.  A questo proposito devo dire che per anni ho programmato le mie visite nelle città italiane con lo scopo di conoscere le piazze illustrate nel volume Piazze d’Italia del Touring Club Italiano, del 1971. Due piazze particolarmente significative sono state per me la piazza del Duomo di Voghera, conosciuta e frequentata fin dall’infanzia, e la piazza di Sant’Arcangelo di Romagna, raggiunta nell’estate del 1994 perché vi ero stato spinto da un bellissimo articolo di Tonino Guerra comparso su “Airone” nel giugno 1993.

La chiesa e la piazza sono state per tanto tempo e sono tuttora le mie passioni di turista. La piazza intesa come cuore e la chiesa moderna intesa come riproposta di una tradizione del luogo sacro (su sollecitazione di Rosa Maria Cappa) sono state oggetto della mia attività culturale all’Ordine degli Architetti di Alessandria alla metà degli anni Novanta (Tre cuori e una città. Ragioni e tipologie di un concorso sugli spazi aperti collettivi, “Rassegna Economica”, n. 3 (1995); La chiesa moderna. Architettura dell’incontro, “La Voce Alessandrina”, n. 34 (22 settembre 1995)

Ma, come dicevo più sopra, la ricerca di appartenenza e di patria ha un’altra stella polare oltre a quella del luogo (inteso innanzitutto come luogo natale-esistenziale e come svisceramento della sua essenza) ed è il paese dell’anima, cioè il paese non della nostra nascita e formazione ma, potremmo dire, del nostro desiderio. Arrivati a questo punto dovrei sciorinare l’elenco dei miei viaggi e delle mie letture per fornirne una mappa completa, ma tutto non andrebbe oltre il promemoria privato a mio esclusivo uso e consumo. Piuttosto vediamo di lasciar correre il pensiero verso questo campo desiderante del paese dell’anima, andando incontro alle mie patrie esplorate e immaginate, cercando di capire perché lo sono e soprattutto se mi commuovono ancora.

Dovrei parlare allora di un Piemonte sud-occidentale, paterno nelle sue anticipazioni (Oviglio, Nizza Monferrato), materno nei suoi sviluppi (Castagnito, Alba) e complessivamente genitoriale nelle sue conclusioni (Cuneo, dove i miei genitori si sposarono nel ‘37 nella parrocchia-santuario del Santissimo Cuore di Gesù in via Nizza). Su questa terra si sono poi stemperate suggestioni letterarie (Pavese, Fenoglio, Laiolo) che hanno rafforzato non poco l’adesione a questi luoghi. Una tale patria-matria è stata incrementata nel corso del tempo da altri luoghi limitrofi, che sono entrati per varie ragioni esistenziali nella mia vita, come le Langhe, l’Oltregiogo, il Basso Monferrato, un certo entroterra ligure, e mi hanno fatto capire che la mia patria era stata ben individuata dai romani dell’età augustea come la loro regione Liguria (la Regio IX), quel pezzo d’Italia che va dal Mar Ligure al Po. Una buona parte di questo piccolo mondo coincide con la provincia di Alessandria, che ho rivisitato assieme a Franco Ferrando nell’antologia insospettabilmente ricca di scrittori e poeti che hanno parlato di questa variata terra (Provincia vò cercando, Mazzotta, Milano 2000).

Da quanto ho detto va da sé che la Liguria, pur così diversa dal Piemonte, mi ha dato l’idea, quando l’ho scoperta e riscoperta (a Genova e a Triora), di un luogo familiare, come se da lì discendessero le mie origini. In particolare il carico di suggestioni che ha Genova per me è davvero intensissimo, come se avessi la sensazione di esserci stato prima della mia nascita, cosa al limite comprensibile per Cuneo, ma non certo per una città di mare, così incongrua a un terragnolo piemontese come me. Paolo Conte ha spiegato molto di questo mistero con la canzone Genova per noi e lo ha fatto in una maniera oserei dire geniale. Per chiarire, paradossalmente: io, piemontese, ho i miei avi diretti, popolari, saggi, umili e di buon senso a Genova, mentre Torino è come se fosse una fredda città di parenti ricchi e altezzosi.

Dovrei inoltre parlare di una prima uscita dal Piemonte (così come l’ho inteso) verso Voghera, nella annuale visita ai parenti il 19 marzo (per San Giuseppe, onomastico dello zio Beppe). Un’apertura, più che verso la Lombardia, verso l’Emilia, la via Emilia, diritta diritta fino alla Romagna e che sembrava iniziare già da Alessandria, subito dopo piazza Genova, imboccando via Marengo. San Giuliano Vecchio, il secondo paese che si incontra nella direttrice per Voghera, mi è sempre sembrato già un paese emiliano. Ma il disvelamento dell’Emilia come primario luogo dell’anima della mia vita lo ebbi sfogliando i due fascicoli omaggio di Tuttitalia che ancora conservo (n. 2 e 4  dell’8 e 22 febbraio 1961); titoli che parlavano delle “grandi giornate dell’arte emiliana” oppure di “fosco vermiglio mattone” mi confermavano le suggestioni fortissime già provate vedendo le riproduzioni delle cattedrali romaniche padane e della pittura metafisica (le prime sul manuale di storia dell’arte di mio fratello: Pasquale Rotondi, L’arte in Italia dalle origini ai giorni nostri, Vallecchi, Firenze 1954; le seconde su qualche numero di Epoca). La letteratura contribuì, come dire, da sempre a dare conferma di magoni analoghi per non dire identici a quelli provocati dalle immagini; in particolare mi riferisco a Guareschi (anche disegnatore di piccoli paesaggi essenziali che per me sono stati un vero e proprio imprinting), Pascoli, Raimondi e Bassani. Il mio primo vero viaggio, la mia prima “espatriata”, che non fosse una gita scolastica, fu nell’Emilia (1966). Nel tempo non mancarono conferme degli incanti singolari di questo paese dell’anima: negli anni ‘80 ci fu la scoperta delle fotografie di Viaggio in Italia, Il Quadrante, Alessandria 1984, con gli scatti di Guidi, Ghirri e Barbieri; poi la convalida, se mai ce ne fosse stato bisogno, di Esplorazioni sulla via Emilia, Feltrinelli, Milano 1986; nella prima metà degli anni ‘90 ci fu una riscoperta di questa sempre magica regione, specialmente del suo proseguimento romagnolo, dovuta ai primi libri di Vittorio Sgarbi: Il pensiero segreto e Dell’Italia, Rizzoli, Milano, rispettivamente 1990 e 1991.

Ma è certo che l’Emilia non esaurisce il fascino del mondo padano, che è la vera fata Morgana per l’alessandrino che esce dalla morsa collinare fra Basso ed Alto Monferrato. Bisognerebbe parlare di Lombardia, ma questa regione non si presenta alla mia immaginazione come un’unità,  ma come un insieme di aree dal fascino diverso. C’è una Lombardia che poi non è propriamente e interamente tale, ma è piuttosto un Nord in riferimento alla mia città, una realtà che incomincia con i Sacri Monti e poi prosegue nei laghi e sulle vette alpine, diciamo a un dipresso quel Nord che comincia già a Casale e che prosegue nelle vecchie provincie di Vercelli e di Novara. C’è Como, che mi appare come un’isola intima e felice (come d’altronde tutte le città di fondazione romana), in cui sono nati scrittori da me prediletti come Buzzi e Pontiggia, che mi pare che da lì abbiano tratto la gioia di scrivere e la concentrazione occorrente per le loro opere. E c’è una linea diciamo così medio-padana (Pavia, Cremona e Mantova) che è il naturale complemento dell’Emilia prima descritta. Pavia per me è la prosa d’arte di monsignor Cesare Angelini, grande descrittore di luoghi dell’anima (si veda almeno la prosa Silenzio di Pavia). Se mi sposto ad est sulla direttrice medio padana mi pare di percorrere con continuità le placide strade delle città che vi sorgono e arrivo a Cremona, che ho già segnalato per la guida di Dossena. Ma di Cremona e in particolar modo del suo territorio con quelle belle chiese gotiche dal mattone rosso ho un ricordo che fu solo un’aspirazione intensissima a vederle un meriggio d’estate, in un periodo in cui non potevo muovermi, ascoltando alla radio il Gazzettino Padano o qualcosa del genere. Mantova poi è stata sempre per me come l’occasione di un’ospitalità cordiale e quasi materna, patria di preziosi piccoli editori consolatori, come Corraini. Luoghi, questi, lombardo-padani, dove volentieri si ricomincia, come d’altronde quelli dell’Emilia. E se devo concludere l’accenno a questa mia Lombardia paese dell’anima dirò che l’idea della poesia come conserva della vita è nata con poesie ispirate alle città lombarde più vicine ad Alessandria (I versi? Sono la conserva della vita, “Specchio. La Stampa”, 22 giugno 2002). D’altronde come è bello pensare che vicino a me, già a partire da Valenza o da Sale e poi in pieno a Mortara, a Vigevano, a Novara o nei piccoli borghi della Lomellina incominci questo incantato mondo dell’altrove, il primo altrove che praticamente potessi incontrare.

Forse è un po’ superfluo dire che le parole che hanno commentato nel tempo la “mia” Lombardia sono state quelle dei poeti della “linea lombarda”, specialmente Sereni ed Erba, e a questi aggiungerei Bellintani.

Il quadro che ho sinora delineato non sarebbe completo se non accennassi a Torino (Gozzano, Pavese, Arpino, Soldati, Fruttero e Lucentini, Ceronetti), Genova (Montale, Caproni), Milano (Gadda, Vigevani, poeti della “linea lombarda”) e Bologna (Raimondi, Perich), capitali delle regioni che, pasticciate dalla mia soggettività, finora ho descritto. Dovrebbero costituire quasi dei capitoli a parte. E qui facciamo una breve sosta perché abbiamo descritto la patria dei dialetti gallo-italici. So che non è una motivazione molto forte ma può far piacere sapere che si può tradurre la poesia L’Aria di Tonino Guerra dal dialetto della lontana Romagna a quello del vicinissimo Oviglio variando di poco la forma delle parole e mantenendo la tonalità complessiva della frase (così nella mia lingua paterna:

L’aria l’è cula roba lingera
ch’la sta d’antor a la tu testa
e la dventa pi cera quand che t’riji
(cfr. con l’originale in Tonino Guerra, I bu, Maggioli, Rimini 1993).

Ma il gemellaggio fra la Romagna e Oviglio, grazie al Pascoli, dura fin dal tempo delle medie con Romagna (proseguì negli anni successivi con le rimanenti Myricae, della Biblioteca Moderna Mondadori).

Ma so bene che il mondo della pianura padana non è ancora finito e che dobbiamo parlare di quel paese dell’anima che è il Veneto. Dovrei dire il Veneto di terraferma, perché paradossalmente Venezia per me non è luogo dell’anima quanto lo è il Veneto di terraferma. Se devo andare in fondo alla questione questa terra parla essenzialmente di due cose. È un messaggio di bellezza e di antica povertà contadina. La bellezza veneta ha preso inizio per me dal resoconto di Marziano Bernardi sulla “Stampa” della mostra di Cima da Conegliano a Treviso del 1962, articolo che ancora conservo. Quell’impressione di antica povertà contadina, ormai qualcosa (povertà e impressione) di molto datato, è invece dovuta alla consuetudine, sin dalla più tenera infanzia, con alcune figure di immigrati da quelle terre. Chi ha parlato di questo mondo con le più profonde suggestioni è, da quel poco che ne ho letto, Ferdinando Camon (Un altare per la madre, Garzanti, Milano 1978). Sono stato anche molto colpito dal volume di interviste di Gabriella Imperatori, Profondo Nord, Garzanti, Milano 1988; significativa è l’intervista a Camon, ma degli scrittori veneti manca il secondo nome che farei, Paolo Barbaro. Il terzo nome che mi viene spontaneo fare è quello di Andrea Zanzotto. Ogni anno, verso Pasqua, la rilettura delle sue poesie di Dietro il paesaggio mi riporta ad un paese e a una stagione intimamente miei, pur non essendoci mai stato. Infine devo dire che il mio secondo viaggio vero (1967) è stato nel Veneto di terraferma.

Ma col tempo questa terra ha avuto un prolungamento insperato e di profondissimo, inspiegabile incanto: il Friuli. Il Friuli significa essenzialmente questo per me: la pianta di Udine della Guida Rapida del Touring osservata per anni negli anni ‘70 fantasticando sulla corrispondente città fisica, ma già pensando che questa fosse bellissima, data la sua compatta proiezione quadrangolare, con gli angoli arrotondati e tanti begli edifici segnalati in nero (molto interessante) o tridimensionalmente in assonometria (di grandissimo interesse); poi Pierpaolo Pasolini, Un paese di temporali e di primule, Guanda, Parma 1993, e David Maria Turoldo, Mia terra, addio…, La Locusta, Vicenza 1980; infine, di Sergio Maldini, La casa a Nord Est e La stazione di Varmo, Marsilio, Venezia, rispettivamente 1991 e 1994. Bisognerebbe riprendere la lettura de La casa a Nord-Est per trovare una qualche spiegazione naturale oltre che letteraria del profondo richiamo attuato dall’ordinarietà del Friuli, fatto sta che esso è fortissimo e può concludere questa prima tranche di patria che ho finora delineato.

Finora di che cosa, dunque, ho parlato? Di un ambito padano, di un territorio che ha per storia quella della Lega Lombarda, di un senso di appartenenza ad una terra che fin da piccolo mi veniva delineata dai ventiquattro patroni delle città della Lega Lombarda alla base della cupola del mio duomo. I nomi di queste città venivano (e vengono) ricordati dai nomi delle vie della mia città e risuonavano nei nomi delle squadre delle partite domenicali sentite per radio, ultimo consunto retaggio di una civiltà medioevale dei Comuni, di cui avevo riscontro nelle misteriose cattedrali in bianco e nero nel libro di storia dell’arte di mio fratello, che faceva già il liceo. Giusto che così il territorio della Lega Lombarda si manifestasse nel tempo come patria più grande rispetto a quella più piccola della città pupilla della Lega Lombarda.

Ma se apri la linea di confine dell’Italia settentrionale verso sud, continua ancora più convinta la patria delle glorie comunali medioevali. Essa risaltava molto bene dalle foto seppioline dello “Spini”, libro di storia del liceo di mio fratello (Giorgio Spini, Disegno storico della civiltà italiana, Perrella, Roma 1954). Forse qualche viaggio nella Toscana o nell’Umbria l’ho fatto sulla base di quell’imprinting, cercando di acciuffare per un attimo la lontananza impossibile di quelle immagini, fossero il Palazzo dei Priori di Volterra o San Salvatore al cimitero di Spoleto.

Potrei passare dettagliatamente in rassegna i tipi di centro-Italia che più mi hanno suggestionato, ma forse non farei altro che presentare degli stereotipi. Potrei comunque concordare con Bigongiari sul territorio dove esistono “le città più dolci della terra” (la zona intorno a Lucca e Pescia). Ho letto di Lucca cose troppo incantevoli da parte di alcuni autori (Petroni, Puccinelli, Saltini) per dubitare ancora che non sia così. Potrei confermare la mia predilezione per Firenze per aver accompagnato per mano la cultura italiana dal ‘300 al ‘900 (il futurismo, l’ermetismo, il razionalismo e l’espressionismo in architettura), quindi per non averci abbandonato mai. Potrei parlare di un “profondo Centro”, da me esperimentato specialmente a Cortona, l’indimenticabile, ma coincidente forse con tutta la zona della civiltà etrusca. È lì che trova casa il Tozzi di Bestie o il silenzio della piazza del duomo di Spoleto. Che dire poi della bellezza appartata delle Marche, accogliente come il corrispettivo diurno di una notte lunare leopardiana? Vedi, si casca subito nello stereotipo. Diciamo, concludendo, che assommando questa patria centrale a quella settentrionale prima descritta si configura il territorio delle “città del silenzio” (ne prendo piena coscienza nell’estate 2001 quando vado da Fissore a ordinare il “Meridiano” con Elettra, che non ho).

Ma la patria che cercavo non finiva qui: era qualcosa di appartato, umbratile e provinciale, legato agli anni della prima metà del Novecento. È per questa ragione che i miei viaggi insistettero sulla costa adriatica fino al tacco d’Italia. La costa adriatica, è risaputo, è più riparata, protetta, intima, mite rispetto a quella tirrenica, aperta ai quattro venti e intimamente più forte, più violenta. Oppure mi spinse in Puglia il desiderio di trovare ancora l’eco delle cattedrali padane? Non so, so solo che da questo momento del discorso in poi il paese dell’anima diventa per me qualcosa legato non tanto al luogo ma alla fantasticheria del luogo. Allora di cosa andavo realmente alla ricerca nei miei viaggi? Volevo sempre ritrovare la Grande Provincia Italiana, da viaggiare in ferrovia, da rintracciare negli elzeviri e nella prosa d’arte, nei buffet delle stazioni, nelle poesie di Aldo Palazzeschi (La passeggiata) o di Ardengo Soffici (Via) oppure nelle prose di Alfredo Panzini (La lanterna di Diogene e Viaggio di un povero letterato). Sì, l’unico mio viaggiare è stato forse quello per ritrovare in fin dei conti la provincia che lasciavo partendo, forse in termini più perfetti, più compiuti: la pinacoteca all’interno del liceo-ginnasio di Faenza, il museo civico Fiorelli di Lucera, la Cesena di Serra, la Rovereto di Depero, la Treviso di Arturo Martini, la Ferrara di Govoni e di De Pisis (determinanti al proposito gli scritti di Sandro Zanotto su “Comunità” degli anni 1968 – 70). E poi, ancora ultimamente, la Pistoia di Bigongiari e Venturi, di Marini e Michelucci.

Anche le passioni sviluppate per terre dell’anima più lontane e legate perlopiù soltanto alle letture hanno a che fare con mondi intimi miei, anche lì è un partire per ritrovare casa mia, me stesso. Proviamo solo a fare qualche cenno, proponendo un abbinamento paese (o città) e scrittore: Sicilia e Tomasi di Lampedusa (leggevo Il Gattopardo nell’edizione economica Feltrinelli sotto la lampada azzurra della cucina della casa di campagna e il viaggio per Donnafugata avveniva tra le stoppie dei campi lì attorno); Alessandria d’Egitto e Ungaretti, Kavafis ecc. (ma le cartoline egiziane dello zio Amedeo ritrovate nella cassapanca della soffitta e i racconti del mio maestro sulla sua infanzia stanno alla base di tutto); Trieste, Vienna e gli scrittori della Finis Austriae (il mio primo viaggio all’estero, la scoperta di quello che c’era dopo le lontananze di Milano e delle Venezie, il saggio di Janik e Toulmin – La grande Vienna, Garzanti, Milano 1984 – e l’idea che ad un certo punto della storia fosse già stato detto tutto quello che di importante si poteva dire); Salisburgo, rivelazione sorprendente e “malata”, come un abete che abbia per frutto l’arancia, e Trakl; la Francia, il suo vasto territorio di campi e di boschi, già conosciuto in immagini e vagheggiamenti infantili, buono per lo svolgersi degli idilli di Nerval e Alain Fournier; Digione e la sua esemplare provincialità, che ho poi ritrovata puntualmente in Gaspard de la Nuit.

E la Germania? Rimane sempre quella, fondamentalmente, della corrispondenza di zio Amedeo dalla Berlino del 1931. E lì che ho immaginato lo svolgersi de Il lupo della steppa di Hesse. Ma il fatto che Hesse e anche Böll mi siano stati sovente esistenzialmente vicini, potrei dire familiari, è dovuto anche a misteriose e imperscrutabili relazioni fra la mia città e un certo mondo tedesco – nordico (Barbarossa, l’ingegner Müller di Via Ghilini, il mito minaccioso dell’invasione tedesca durante l’ultima guerra, il libro delle fiabe dei fratelli Grimm, i neogoticismi della mia città, i discorsi sull’asse lotaringico degli anni ’60). Ho trattato questo tema in Possibilità della città immaginata (in: Le intermittenze della memoria, Alessandria, 2001).

Continuiamo con l’abbinamento paesi-scrittori. La Svizzera, grazie ad autori come Frisch, Morselli, Zorn, Bichsel è stata per me la terra della vecchiaia, della solitudine, della disperazione, della saggezza, un vicinato che spinge tutto alle estreme conseguenze I paesi dell’Europa di mezzo mi provocarono un forte incantamento, prima ancora di sapere che cosa essi realmente fossero, desumendoli da una pagina antologica di Idilli Moravi di Bonaventura Tecchi e da I ragazzi della via Pal di Molnar. Spostandoci ulteriormente a est, così come Aldo Buzzi ha parlato di un Cechov a Sondrio, io potrei parlare di un Cechov a Oviglio, ricordandomi di quando leggevo La steppa sotto il portico della casa di campagna e i suoi vasti spazi sonnolenti erano quelli delle gite in bicicletta nei dilatati paesaggi all’intorno. Da lì è proseguito un amore per la Russia rinnovato dall’incontro con la sua poesia del Novecento, anche se poi in realtà finivo per leggere non tanto Pasternak, Esenin e Mandelstam,  ma la poesia del loro traduttore Angelo Maria Ripellino; tramite lui Praga, Mosca, Pietroburgo hanno attratto la mia simpatia, ora un po’ spenta ed esaurita. Così pure l’universo anglo-sassone (inglese e americano) che mi parve fin dallo studio scolastico dell’inglese un elemento di riscatto e di elevazione culturale e sociale, ora, a distanza di tanti anni dalla giovanile lettura degli autori americani del Novecento, mi appare offuscato come le passioni infantili per il West e gli indiani, mentre risultano ancora brillanti le pepite della Paperopoli di Carl Barks e le pietre preziose dei film in Technicolor (le commedie specialmente) fra gli anni ’50 e ‘60.

Sempre all’infanzia devo riandare per riacciuffare la malìa del Sudamerica. All’origine ci fu una raccolta di figurine sui costumi dell’America del Sud, poi ci fu quanto approdò nei fumetti di Topolino del film Adios amigos di Disney, i repertori delle musiche latino-americane sentite per radio, gli struggimenti e i languori indotti dalle immagini dell’archeologia precolombiana (mi ricordo la lunghissima, estenuante e catartica trasmissione di un documentario della televisione in bianco e nero, forse relativo a collezioni genovesi, nel tardo pomeriggio, prima di cena, un vero e proprio viaggio nell’altrove, intorno al 1960); ma ciò che più rimase nella memoria, chissà perché (forse agì la moda imperante di Perón e di Evita negli anni ’50) fu una certa immagine di Buenos Aires, per cui qualche anno dopo fu quasi obbligatorio appassionarsi di Borges. Di questi imprinting sull’America, assieme a quelli su un generico Estremo Oriente, ho già parlato diffusamente nel già citato Viaggio nelle terre di Santa Maria e di San Rocco. Questo sommario e fantastico periplo intorno al mondo sarebbe però certamente incompleto se non citassi almeno il Giappone. Il suo primevo fascino si sprigionò dalla lettura di alcuni haiku di Basho nell’antologia scolastica Consonni-Mazza (D. Consonni, L. P. Mazza, Poesia e prosa dal secolo XIII ai giorni nostri, Sei, Torino, la data non riesco a rintracciarla per le condizioni del libro, ma il termine ante quem è il 1952), poi da lì vennero Kawabata e Tanizachi, pochissime cose ma essenziali. Mi servii dello haiku nel già citato 204 Sillabe all’anno e già solo per questo il mio debito con il Giappone è inestinguibile.

Forse l’ho fatta un po’ troppo lunga con questa ricerca di patrie e di luoghi dell’anima, ma il mio intendimento sarebbe quello di andare oltre l’identità reale e persino letteraria dei luoghi per approdare alle patrie del mio immaginario. Si tratta di lontananze mai completamente raggiungibili, se non con la nostalgia, e ciò crea una piacevole tensione che, pur traendo spunto dal passato, ha che fare con il desiderio e con il futuro, costituendo una buona porzione del mio campo desiderante. Potrebbe venirne fuori uno scritto intitolato: Nove nostalgie della lontananza.

Vediamo di che cosa si tratta.

  • C’è la nostalgia del paese che non esiste. Un paese tutto inventato da noi sulla base di alcuni indizi, che nel tempo abbiamo ricomposto secondo i nostri desideri per farne una specie di patria ideale e consolatoria. Sono operazioni che si possono condurre, direi esclusivamente, durante la propria infanzia e non sempre capita. A me è capitato.
  • C’è la nostalgia del paese che è esistito. Capita a tutti. Basta avere la materia prima (un paese) e lasciar trascorrere alcuni decenni. Il gioco è fatto. Le cose belle sono scomparse o, peggio ancora, sono state trasformate. Si è rotto un equilibrio che pareva così armonico e sembra proprio che non sia subentrato un equilibrio nuovo. La cosa più dolorosa è una sensazione di perdita irrimediabile della bellezza.
  • C’è la nostalgia dei luoghi desunti, desunti da un racconto, da una fotografia, da un francobollo, da una carta geografica. Forse sono esistiti: ce li hanno raccontati e descritti, ma non possiamo più accertare la loro esistenza così com’era. Si tratta di un misto delle due tipologie precedenti. Da una parte si lavora di fantasia immaginando un posto che, di fatto, non esiste. Dall’altra si fa riferimento a immagini, paesaggi e atmosfere che appartengono a un passato che forse era già superato quando siamo entrati in contatto con quel racconto, con quella fotografia o quel francobollo.
  • C’è la nostalgia del paese vicario, che esiste certamente, ma è il surrogato di un altro posto. Leggiamo Leopardi e lo ambientiamo nella casa di campagna. Studiamo la Roma barocca ed essa ci viene restituita, tutta quanta, dalla confraternita sotto casa. Le campagne del grande romanzo francese o russo sono quelle delle nostre gite in bicicletta. I ruderi di case o ponti dell’altro ieri sono le suggestive aree archeologiche illustrate nei nostri libri di storia. A differenza delle tipologie precedenti si tratta di posti reali, concreti, tuttora verificabili, solo che per il soggetto significano altro, stanno per altre realtà.
  • C’è la nostalgia dei luoghi presaghi, anch’essi luoghi ben precisi e determinati, che vivono però la loro identità presagendo, per così dire, altre terre di cui sono l’anticipazione; i luoghi di confine hanno queste caratteristiche: preannunciano il paese oltre la frontiera e, strano a dirsi, a volte ci sembrano più esotici del paese oltre la frontiera, perché forse ce lo fanno sognare. Una specie di effetto-siepe leopardiano, come mette bene in evidenza Mario Soldati nel racconto La carta del cielo (Mario Soldati, La messa dei villeggianti, Mondadori, Milano 1959). Si tratta di una nostalgia affine alla precedente, solo che in questo caso sussiste la contiguità o una precisa direzionalità (le varie Porta Genova o Porta Milano, che fanno sognare le città che sono meta del percorso che lì comincia).
  • C’è la nostalgia della finis terrae, che si può considerare l’opposto della precedente. In questo caso abbiamo un luogo che anziché anticipare conclude. Pensiamo alla periferia che conclude la città: li finisce un mondo, oltre il quale c’è altro: la campagna; ciò era molto più evidente un tempo, quando gli stacchi erano più netti; comunque, sia la periferia in questo caso che i luoghi di confine del caso precedente possono anticipare e concludere al tempo stesso. Il senso di conclusione allo stato puro è quando finisce la terraferma, come indica tradizionalmente il termine finis terrae; ma non mancano casi diversi, casi in cui la sensazione di invalicabilità di un confine è così acuta che lì si pensa debba fermarsi il mondo (potrebbe essere il caso degli spazi delle istituzioni chiuse). Ricade in questo ambito, più suggestivo soggettivamente, il sentimento della meta.
  • C’è la nostalgia di ciò che si vede in lontananza. Ecco il fascino della lontananza propriamente detta, visibile e non soltanto immaginata. È la montagna che si scorge a cento e più chilometri di distanza. Una volta che si raggiunge può acquisire altro fascino, ma perde lo struggimento che irradia e permea interi territori. I paesaggi che fanno da sfondo a molti quadri rinascimentali sono sovente sotto questa suggestione. Una intera regione storica come il Piemonte, a partire dal nome, costituisce la sua identità sulla base di una sensazione di questo tipo.
  • Già nel punto precedente abbiamo notato un certo carattere diffusivo, pervasivo, dei motori della nostalgia, più ancora che negli altri casi. Che so, la lontananza del Monviso può improntare di sé un’intera provincia o addirittura mezza regione. Così avviene per la nostalgia dei luoghi pervasi da un affetto. È come se il volto della persona amata si irradiasse su tutto un paesaggio e lo permeasse. Può succedere per affetti familiari, parentali, amorosi o amicali, ma qualcosa del genere succede quando scrittori od artisti hanno descritto una terra. Le Langhe di Pavese e di Fenoglio o la Ferrara di Bassani diventano allora per noi delle lontananze che travalicano i luoghi in sé, hanno subìto una mediazione affettiva proprio come quella dei luoghi legati alle persone che abbiamo amato o che amiamo.
  • C’è la nostalgia del dejà vu, un luogo che certamente esiste ma non si sa da che parte stia perché è un po’ uguale dappertutto, in quanto si rifà a modelli di disegno universalmente diffusi. Il linguaggio comune ci aiuta a identificarlo: é il luogo anonimo. Tale è la periferia, che ritorna ancora una volta in queste categorie della lontananza, a conferma del suo grande valore letterario che si contrappone al suo scarso valore urbanistico. Per questo tipo di nostalgia si considerino le Periferie di Mario Sironi e lo “stradario” di Franco Lucentini (Le periferie incantate, “La Stampa”, 19 dicembre 1995), che dobbiamo ahimè ormai considerare incompiuto (Lucentini è morto nell’agosto di questo 2002). Quest’opera chiama a raccolta le voci letterarie che hanno cantato lo struggimento dei “luoghi crepuscolari”. Da qualunque parte del mondo provengano queste voci e queste descrizioni, noi le comprendiamo benissimo perché le abbiamo già sentite e viste, le abbiamo già conosciute.

Fin qui all’equinozio d’autunno del 2002.

 

Verso l’alto e verso il basso

A titolo di appendice a quanto finora detto sulla vita estetica, mi piacerebbe indicare uno sviluppo, anche in senso esistenziale, del discorso: verso l’alto, per così dire, e verso il basso. Che cosa significa sviluppo verso l’alto? Potrei chiarire la cosa con un gioco di parole: estetico-estatico (mi viene subito alla mente il titolo La mente estatica di Elvio Fachinelli, Adelphi, Milano 1989).  In effetti ad un certo punto (25/26 maggio 2000) mi sono reso conto che molte mie predilezioni artistiche ed estetiche avevano a che fare con la contemplazione e con un atteggiamento meditativo. Questo era il minimo comune denominatore delle mie passioni per la pittura metafisica, l’architettura razionalista italiana, la scultura medioevale, l’architettura cistercense, le espressioni più attonite del novecentismo in pittura e scultura (innanzitutto Sironi e Arturo Martini). Ma la stessa attrazione da sempre provata per lo haiku (e più in generale la lirica breve) e per il luogo (e le sue categorie) si rifanno a stati di contemplazione silenziosa e misteriosamente risonante, di vuoti e di assenze che sanno parlare più dei pieni e delle presenze. E a pensarci bene la fotografia ha attratto il mio interesse per ragioni consimili (la quiete che domina una fotografia! Una buona ragione per diversificare nettamente quest’arte dalle altre dove le immagini sono in movimento, creano “rumore”).

Il minimalismo inteso come perseguimento dell’essenzialità si accompagna sovente alle predette qualità. Da molto tempo provo simpatie per le poetiche dello Zen. Il libro di Thomas Hoover, La cultura Zen, Mondadori, Milano 1981, mi ha dato modo di inquadrare le principali direzioni dell’estetica Zen. Ma fu poi assolutamente fondamentale, per capire le ragioni che avevo nel desiderare vuoto, silenzio, semplicità e quiete, la lettura di Gillo Dorfles, L’intervallo perduto, Feltrinelli, Milano 1989.

Dopo questa puntata verso l’“alto”, bisognerebbe scendere ora verso il “basso” e naturalmente lo faccio (senza offesa per nessuno) solo in base ad una gerarchia consolidata riguardante i cinque sensi: prima vengono vista e udito, poi seguono gli altri: l’olfatto, il gusto e il tatto. Dei sensi “alti”, vista e udito, ho già parlato, anche se ho confessato di non avere una particolare sensibilità per la musica. Ma, nonostante ciò, mi pare di aver dato finora abbastanza risalto alla parola e la parola, si sa, è anche suono. Dopodiché passiamo in rassegna gli altri sensi seguendo l’ordine della loro “scoperta” da parte mia.

Già ho fatto cenno alla mia presa di coscienza del valore della scultura e delle pietre. Mi ricordo quando, girando per Carrara, Massa e Pietrasanta (alla prima Triennale “Scultura, marmo, lavoro”, nel 1981) tra gli scultori contemporanei, i Bistolfi di Casale e gli Arturo Martini di Acqui, mi convincevo sempre più che la scultura non era l’arte di serie B della tradizione scolastica, ma era l’arte primaria che coinvolgeva oltre alla vista il tatto, governando nel contempo i regni della materia e dello spazio, configurandosi quindi come l’arte di serie A, maestra della pittura e dell’architettura.

Se passo a trattare del gusto, mi accorgo che il discorso si allarga enormemente e bisognerebbe aprire un capitolo a parte, a partire dal fatto che il gusto (e la cucina che lo serve) sono legati inestricabilmente al mondo degli affetti familiari, materni in primo luogo, ma anche indubbiamente paterni. Una prima presa di coscienza culturale di questa sfera estetica incomincia a comparire nell’episodio del già citato Capitoli di un congetturale trattatello domestico delle tracce (1993) dedicato a Petronilla. Poi bisognerebbe fare riferimento ai due contributi critici che ho composto, concernenti i rapporti tra determinati cibi e l’arte contemporanea. Uno concerne le “pizze d’artista” di Mario Fallini (1995) e si intitola Critica del gusto. Fisiologia del gusto; l’altro riguarda il latte materno, riproposto da un convegno all’Asl 20 e da una concomitante mostra d’arte (Nutrice. Altrice, Alessandria, via Venezia 6, 23 giugno -2 luglio 2000) e si intitola Umanità- Umanesimo del latte. A questo bisognerebbe aggiungere la critica stampata sul tovagliolo alla “pizza Man Ray” di Mario Fallini (dicembre 1999).

Agli inizi degli anni ‘90 ho letto Aldo Buzzi, L’uovo alla kok, Adelphi, Milano 1979 (in un’edizione imprestatami da Roberto Carpani, che era già finita nei Remaider’s). Poi nel 2000 ho trovato il libro di un buzziano: Pippo Apicella, Manuale del mangiatore solitario, Archinto, Milano 2000. Ultimamente (estate 2003) mi sono lasciato tentare al Libraccio da un libro usato: Michel Onfray, Il ventre dei filosofi, Rizzoli, Milano 1991. Sono rimasto affascinato dalla interrelazione che si trova in questi libri tra cucina ed esistenza e come al solito sono andato a chiedermi che cosa c’è dietro tutto questo, ricorrendo alla psicoanalisi: Gisèle  Harrus-Révidi, Psicanalisi del goloso, Editori Riuniti, Roma 1998 (notato alla stazione nell’estate del 2001, poi acquistato a metà prezzo il 15 dicembre e infine letto nel febbraio 2002 ).

Paradossalmente c’è molto di culturale (in senso alto), di moderno, di novecentesco in questo mio interesse per il gusto e la cucina e innegabile e fondamentale è il debito con la cucina futurista. Interesse per gli scatolati, per il cibo in tubetto (Della spiritualità del cibo in tubetto. Nota per una serie di figure disegnate da Mario Fallini intese come decorazioni di bustine da zucchero e aventi per oggetto cibi in tubetto, febbraio 1997), mio primo tardivo ingresso all’Esselunga (17 dicembre 1999), le contaminazioni metaforiche dei cibi con i materiali dell’arredamento e dell’edilizia, con le lettere dell’alfabeto, con l’urbanistica e altro proposte dai piatti di Rosa Maria Cappa (dal 1999), tutto quanto fa parte di “lavori in corso” che andrebbero portati a una breve ma certa compiutezza di scrittura. D’altra parte non bisogna dimenticare per nulla il fascino ancestrale del cibo, che ci fa capire chi siamo in una dimensione di forte profondità antropologica: il grande riconoscimento di me stesso, di come mi ero nutrito, che ho provato leggendo Piero Camporesi, Le vie del latte, Garzanti, Milano 1993.

E arriviamo così all’olfatto, che nella mia esperienza associo alla botanica e alle sensazioni cinestetiche della vita all’aria aperta. Un annusare, muoversi, respirare legati al mondo della natura, meglio della campagna, con la conseguente attenzione al tempo ciclico delle stagioni, al calendario. Da sempre fascino evocativo dei profumi: la cosa è talmente ovvia che non c’è bisogno di spiegarne il perché. Mia passione da sempre per le erbe, anzi le erbacce, mia curiosità per esse, a partire dall’infanzia e qui bisognerebbe dare una spiegazione, che credo sia questa: quando si è piccoli le erbacce hanno più o meno la nostra altezza e comunque sono molto a portata di mano, quindi sono quasi delle compagne di gioco. Pur non avendo la minima passione per il giardinaggio (ho però significativi ricordi di quella, viva, di mia madre), da qualche anno (precisamente dal 2 settembre 2000) faccio una manutenzione minimamente regolare del cortile della mia casa di campagna, acciottolato per la più parte e con qualche metro quadrato liberato dalle pietre perché (un tempo) ci fosse un po’ d’orto. Manutenzione significa impedire che le erbacce superino una certa altezza e che attecchiscano le gaggìe infestanti. Forse basta questo po’ di attività per tenere vivo l’immaginario calendariale che mi ha portato a scrivere il citato 204 Sillabe all’anno (1993). Mi ricordo l’ingenua e velleitaria fraternità che provai, durante la stesura di questo libretto così legato alle stagioni, con le figure dei Mesi del Maestro dei Mesi di Ferrara e soprattutto con il loro autore (stavo facendo con la scrittura un po’ quello che lui aveva fatto con la scultura). Ma più in generale quale affezione ho sempre avuto per i mesi delle cattedrali!  Mia idea, a partire dal settembre 2002, di farne una parodia rapportata all’oggi (quando persone o cose mi sono simpatiche mi viene da prenderle un po’ in giro, come segno d’affetto): settembre imbianchino, maggio con tre nasi (come nella réclame del parmigiano Bertozzi di Parma) perché, con i primi caldi, incominciano a sentirsi più forti gli odori ecc.

–   Qual è la sua idea della perfetta felicità?
–   Immaginare che qualcosa da qualche parte voglia farci piacere lo stare qui.
(Kurt Vonnegut, Destini peggiori della morte, Bompiani, Milano 2003)

Una dozzina d’anni dopo

Questa storia del campo desiderante, che seguito ha avuto nel corso degli ultimi dieci e passa anni?

Per quanto riguarda la “parola breve”, sempre più mi sono appassionato agli haiku e mi sono appassionato non poco anche agli aforismi (Epigrammi e aforismi per smettere, Bravo Merlo, Alessandria 2010). Ho cercato di raccogliere gli haiku che mano a mano componevo fornendone un’inquadratura teorica, o sotto forma di parodia di un trattatello (Disciplinare dello haiku, Bravo Merlo, Alessandria 2013) o con l’intenzione di un approfondimento teorico di certi fondamenti dell’estetica tradizionale giapponese che parlano fortemente al nostro sentire occidentale contemporaneo (Stenografia emotiva, Viandanti delle Nebbie, Lerma 2016). Adesso vedo che è entrata a regime una certa produzione. Come un agricoltore con i suoi raccolti riesco a fare una certa provvista di haiku alla fine dell’anno. Non è una gran cosa. La poesia è tutt’altro, mi rendo conto che è difficile trovare lettori, ma questa attività abitua a stare attenti alle piccole emozioni e a collegarle alla parola. Finché c’è parola c’è speranza.

Sempre a proposito della “parola breve” mi sono avvicinato al rapporto fra parola e immagine trattando dell’arte di Mario Fallini. Sulla scorta delle sue indicazioni mi ripropongo di avvicinarmi nuovamente all’argomento, a partire dagli scritti di Giovanni Pozzi pubblicati da Adelphi.

Parola e immagine, non parola o immagine: più in generale sono affascinato dalle discipline di confine e non per amore dell’ibrido, ma per amore della vita che è ibrida e quindi deve poter essere espressa anche da un lessico di confine. Non solo mescolanza di parola e immagine, ma anche mescolanza di parola e ambiente (se si vuole al posto di “ambiente” leggiamo “architettura”, secondo l’accezione di Leonardo Benevolo): ciò spiega il fascino che esercita su di me la geografia letteraria per la sua straordinaria efficacia nello svelare un luogo (e lo vedremo fra poco). Oppure mescolanza di immagine e di ambiente e anche parola, che ritroviamo nelle mappe (mia passione da tanto tempo, vedi la partecipazione al concorso Scopriamo le carte, con l’elaborato Carte all’inizio del viaggio, vedi Tuttoscienze su “la Stampa”, 10 febbraio 1993, p. 4), oppure la traccia, il luogo, la lontananza, di cui abbiamo parlato, che possiamo vedere come un incrocio fra ambiente e immagini fisiche e mentali.

L’estetica della pittura (perciò dell’immagine) si è soffermata su questo lessico di confine. Illuminante al proposito il capitolo “Ai confini della pittura” in Andrea Pinotti, Estetica della pittura, Il Mulino, Bologna 2007, dove si parla di ombre e specchi, di icone (un al di là dell’immagine), di “ut pictura poësis”, di paragone fra pittura e scultura e di cornice (dove finisce un’immagine).

La stessa brevità ricercata nella parola è un’aspirazione a varcare i suoi confini, contando sulla rete di sicurezza costituita dalla mente del lettore, a cui spetta il compito di completare quello che dicono poche parole: contare più sui vuoti, sui silenzi, che sulle parole è un modo di svelare l’ineffabile, l’inespresso, quella profondità indeterminata e misteriosa, lo yūgen, che costituisce il cardine dell’estetica tradizionale giapponese. Al proposito rimane essenziale la rilettura della Lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal: Lord Chandos smette di scrivere perché le parole non sono più uno strumento adatto a illustrare la ricchezza e la complessità della vita.

Il discorso sulla traccia e sulla memoria l’ho portato avanti su due binari: ho studiato le tracce (l’immagine?) di una città moderna lasciate in Alessandria da due grandi architetti, padre e figlio, Arnaldo e Ignazio Gardella, e per me è stata una vera e propria agnizione, già anticipata dal ricordato L’utopia sulla circonvallazione. Ho capito di avere vissuto in una città con tante belle tracce della modernità: un’esperienza privilegiata. Si ritrova questo lavoro compiuto nel catalogo 1900-1996. I Gardella ad Alessandria.

Dall’altra parte ho capito come le tracce costituite dalla memoria letteraria possono costituire il miglior modo per cogliere l’atmosfera, il profumo e il carattere di un luogo. La geografia letteraria, sempre applicata alla mia città, mi ha dato modo di conoscerla profondamente attraverso un percorso conoscitivo costantemente condotto nel tempo, che ha trovato un suo consuntivo in Alessandria citata. Immagini e destini (numero speciale di “Nuova Alexandria”, Natale 2013), cui sarà da aggiungere un piccolo complemento (un abbozzo della guida del quartiere Pista che mi ripromettevo di scrivere durante la pensione!, cioè Il gusto del Novecento in Pista, in “Rassegna Economica”, n. 4, 2011), ma soprattutto saranno da aggiungere i contributi di Domenico Mantelli e di Riccardo Brondolo (in Domenico Mantelli, Solo sostenevo l’attacco dei ricordi, I Grafismi Boccassi, Alessandria 2013), maestri nel descrivere le atmosfere del mio luogo natio. Di Riccardo Brondolo mi piace anche ricordare la folgorante rivelazione di un’insolita Alessandria futurista contenuta nel suo Armânach, Impressionigrafiche, Acqui Terme 2004.

Con l’inizio del millennio ho sviluppato un forte interesse per gli illustratori, alimentato dalla frequentazione dei mercatini. In alcuni autori ho ravvisato un valore epocale delle immagini, tant’è vero che mi sono proposto di fare un gioco: scegliere per ogni decennio del Novecento un illustratore che abbia dato un timbro inconfondibile al decennio stesso (Illustratori di marca del Novecento italiano).  Ritorna qui, proprio come succedeva per la città, il bisogno di trovare l’atmosfera, il carattere, l’essenza, ma questa volta di un’epoca.

Quando ho parlato delle opere d’arte ho sottolineato la loro caratteristica di costituirsi come meta di un incontro personale. Ho steso un breve sviluppo di questo discorso per le opere d’arte che mi sono più a portata di mano. Nel desiderio d’incontro è già forte il motivo di una scelta, di un certa elezione di valori, di una affinità (La città dalle dieci meraviglie, Bravo Merlo, Alessandria 2014). Il passo successivo potrebbe essere quello della presentazione dell’opera, “animandola” in un certo modo, movimentando questo incontro: combinare certi eventi per rendere questo incontro più comunitario e comunicativo. Faccio tre esempi limitandomi alla chiesa di Santa Maria di Castello. C’è un gruppo statuario rinascimentale della Deposizione molto realistico e drammatico: perché non fotografarlo a lume di candela secondo una tecnica portata avanti da Nino Migliori, oppure illuminato da colpi di luce puntiforme con una torcia elettrica, come mi suggerisce Enzo Bruno, e quindi esplorare tutte le possibilità espressive di quei volti e di quei gesti? Ecco un interessante incontro di confine fra scultura e fotografia. C’è poi, in sagrestia, il quadro di un caravaggesco francese, Claude Vignon, raffigurante San Gerolamo, che presenta fortissime analogie (innanzitutto nel modello) con un San Paolo, dello stesso autore, esposto alla Galleria Sabauda di Torino. Perché non combinare un incontro fra questi due gemelli esponendo assieme al San Gerolamo una riproduzione in grandezza naturale del quadro della Sabauda? Ne sortirebbero, al di là della sorpresa emotiva, delle considerazioni sul rapporto fra la realtà e l’immagine e in particolare sul ritratto. L’Immacolata del Moncalvo infine (nella quinta cappella a destra) con la sua illustrazione didascalica di alcune litanie lauretane potrebbe essere messa a confronto con altre opere del Moncalvo o moncalvesche illustranti altre litanie lauretane, specialmente con un’opera della chiesa di Sant’Agata a Pontestura, che allarga di parecchio le illustrazioni di dette litanie. Senza parlare poi dell’interesse di un tale argomento per quel che riguarda il rapporto fra immagine e parola a cui si è più volte accennato.

Quando ho trattato dell’abitare poetico mi stupisco di non aver fatto cenno a un mio intervento del 2003 all’Archivio di Stato di Alessandria per la “Giornata europea del patrimonio”, cioè La bellezza perduta dell’ambiente costruito anche se ho usato quest’espressione e ho sviluppato questi argomenti. Mi piace in questo ambito ricordare i titoli dei paragrafi per definire in sommi capi che cos’è questa bellezza perduta, questo abitare poetico. La bellezza perduta è delicata (anche perché è povera) ma ciò non significa che sia poco resistente, è tradizionale (si trasmette da padre in figlio), è naturale nel senso che respira, lascia respirare, permette un drenaggio, è irregolare come, appunto, la natura, non si camuffa, non si traveste, è temporale nel senso che viene modellata dal tempo, è sottotono, è utile. Ma soprattutto la bellezza perduta non è esornativa, rifugge l’abbellimento, insomma non è kitsch e poi non è stereotipata, non è fatta di cliché e non è soggetta agli arbitrii soggettivi, di chi tratta la facciata della sua casa come il proprio bagno.

A partire dal 2004, su indicazione e guida di Rosa Maria Cappa scopro quello spazio dell’abitare poetico che è il sagrato. Si partecipa con un gruppo (già collaudato per un concorso dello stesso anno sul design per la fruizione del paesaggio monferrino) ad un concorso sull’argomento “sagrato” organizzato da “Chiesa Oggi”, seguito da una mostra fotografica sui sagrati della diocesi di Casale (sempre in gruppo e sempre con il sostanziale contributo di Pinuccia Trischitta). Contemporaneamente vengo accompagnato da Rosa Maria Cappa alla scoperta di quel paese dell’anima che è il Basso Monferrato, assieme alla sua capitale Casale. Scopro una nuova realtà territoriale, totalmente diversa dalla mia: scopro che cosa vuol dire per una città essere capitale di un territorio non limitato al suo ambito comunale (come invece succede per Alessandria).

Ma anche in questo caso avrò modo di rendermi conto come la parola letteraria, meglio ancora poetica, “persiste” nella definizione di un paesaggio, lo arricchisce e a volte contribuisce a crearlo.

È difficile trovare una sensazione del Monferrato più azzeccata di questa, dopo aver descritto così bene un tragitto di andata al mattino e di ritorno alla sera fra Torino e Casale: “All’altezza di San Raffaele Cimena, un’intuizione. […] E lì capisci che cosa significa Piemonte. Senza fare appello a nessun climatismo o geografismo deterministico, comprendi perché L’infinito non sia stato scritto qui.

Qui hai la perfetta visione della chiusa, dell’accerchiamento, della barriera, l’intuizione di un luogo definito, entro il quale stringersi per protezione, ma anche smarrirsi in una specie di vertigine claustrofobica.” (Giovanni Tesio, Parole essenziali, voce “Tenerezza”, Interlinea, Novara 2014, p. 201).

Così pure esprimere ciò che significa infernot in questi termini vale più di qualsiasi riconoscimento Unesco!:

“[…] possedere un infernotto era come avere un’isola, o un pianetino: un pois d’universo nascosto a tutti. Non dovevo perderlo.” (Rossana Ombres, Baiadera, Mondadori, Milano 1997, pp.203-204).

Più in generale tutte le descrizioni che vengono dal cuore riescono ad estrarre la quintessenza del paesaggio, come succede ad esempio in certe prose monferrine di Pier Massimo Prosio (si vedano “Casale”, “La casa in collina”, “I cacciatori nella neve” ne Le parole del tempo, Fógola, Torino 1997).

D’altronde nel Monferrato ci sono ancora luoghi che “strappano” gli stupori di un’eccellenza di paesaggio così italiana pur nella sua singolarità e originalità. Si vada a Murisengo fin che si fa ancora in tempo, al vecchio municipio. Lì si apre un raccontino che potremmo intitolare “Una piazzetta di Murisengo” e che potrebbe fare così:

“Se esistesse un concorso per eleggere la più bella piazzetta d’Italia (basato sul parametro della concentrazione della bellezza e riservato alle superfici non superiori ai 1.000 mq) la piazza del vecchio municipio di Murisengo si collocherebbe se non al primo ai primissimi posti.

Calcolare la concentrazione della bellezza è semplice: basta fare la bellezza diviso i metri quadrati, ma il problema, l’avete capito benissimo, sta prima nel definirla e poi nel quantificarla. Incominciamo col dire che nel luogo dove sorge il vecchio municipio di Murisengo ce n’è davvero molta, ma il difficile è dire in che cosa consiste.

Proviamoci.

Partiamo dalla facciata del palazzotto che ospitava il Comune. Non so perché ma, pur non avendo decorazioni, mi ricorda una grande dimora barocca (esagerando viene in mente Palazzo Carignano a Torino), ma schizzata a memoria da un bambino che sia stato in gita scolastica e che abbia tratto da quella architettura solo le poche linee di tripartizione della facciata. Il tutto affidato poi a un buon capomastro di paese, parco nello spendere e nell’uso dei materiali.

Sulla facciata rustica in cotto di questo piccolo palazzo spiccano, accanto alla porta d’ingresso (nobilitata da una rosta), i simboli, in stucco colorato, di un doppio orgoglio. Lo stemma civico, sbiadito nei colori e la bandiera italiana, ancora vivacemente bianca, rossa e verde. Da una parte: “Io sono di Murisengo”, dall’altra: “Io sono italiano”.

Poi, subito dopo questa considerazione, un particolare ci coglie di sorpresa: il fianco sinistro della piazzetta è una parete di roccia marnosa tenuta compatta dalle radici in vista di alberi ed arbusti, un’intromissione selvatica in un ambito civile, che non ti aspetteresti, ma anche qualcosa che rinvia  a una lunga storia di civiltà: fa pensare, questa parete inaspettata, a una di quelle grotte, impasto di erbe e di rovine, delle Natività dei presepi italiani: natura dentro cultura.

E infine arriviamo al terzo valore della piazzetta, valore che sopravvive in altri angoli di Murisengo e che era tipico una volta dei paesi delle nostre campagne: quello di un’indeterminatezza fra spazio pubblico e spazio privato. Arrivi, ti fermi e sosti in questo spazio erboso dove (miracolo!) c’è ancora un pozzo, si apre sul fianco di destra un arco che dà in un vicolo, in un viottolo: forse subito dopo c’è una casa, ma dopo l’arco siamo evidentemente in forte discesa perché si vede solo un pezzo di cielo e di collina. Ti volti indietro e vedi una serie di rustici di altezza modesta. E allora ti chiedi: “Sono in una piazzetta o in un cortile privato?”. La ragione ti dice che è uno spazio pubblico, ma ti viene una gran voglia di procurarti una sedia, sederti accanto al pozzo e, come se fossi nel tuo cortile, metterti a leggere un libro, magari la Francesca da Rimini che Silvio Pellico scriveva nel 1813 a pochi passi da qui nel grande, fagocitante castello.”

Cambiamo totalmente discorso. L’accenno che facevo alle sensazioni relative al gusto sono riuscito ad articolarlo in una maniera per me plausibile nel libro Di che cosa ci siamo nutriti, I Grafismi Boccassi, Alessandria 2011. Ma il gusto non è l’unico aspetto del campo desiderante che volevo riempire dei miei significati. C’è stata un’occasione anche per l’olfatto: “Di che cosa profuma l’azzurro”, in Paglieri. Storia di essenze, catalogo della mostra a Palazzo Monferrato, Alessandria 2009. E a dire il vero ci sarebbe un’altra manciata di presìdi del campo desiderante che pensavo di lumeggiare in una serie di capitoli racchiudibili in un libretto dal titolo Memorie del rosso d’uovo (nel nostro dialetto essere nel rosso dell’uovo significa starsene felici e tranquilli al sicuro): che cosa ci metterei dentro? Vediamo un po’. Dovrebbe dominare l’archetipo dell’abitare felice di cui parla Gaston Bachelard: modi di abitare ambienti fisici o della fantasia oppure modi di abitare metaforici. Per il resto, per dare un’idea, mi affiderei al valore evocativo dei titoli dei capitoli: Casa d’origine, I presepi di allora, Giardini materni, Abitare l’azzurro, Abitare un anno qualsiasi del Novecento, Sotto quel pallido sole sotto quella splendida notte, Dove la città si restringe, Urbanistica dialettale, Cartoline salvifiche, Alfabetiere del Novecento, Mia prima Wunderkammer.

Ma ci sono altri appunti che premono nei cassetti e che forse presuppongono un respiro maggiore dei capitoletti di cui sopra e sono un omaggio al paese, al mio paese, alla casa di campagna che mi è stata appiccicata addosso per settant’anni, ai libri e alle riviste (alla cultura) di mio padre, di mia madre, di mio fratello ormai sapienza in cantina o in soffitta, ma sempre vivissima, la cultura per cui io sono nella mia identità.

E poi ci sarebbe l’apertura del campo desiderante verso la poesia ed il racconto, ma ci vorrebbe ancora una vita (il realizzato è un po’ poco anche per la vita che è stata) e il tempo manca: oppure deve prendere altre vie…

 

 

 

Appendici

Dell’acquarello come gioia

La visita alla mostra L’acquerello in Alessandria (settembre-ottobre 2016), curata dall’Associazione Italiana Acquerellisti, costituisce un’ottima occasione per svolgere qualche pensiero sul fascino di questa tecnica (ed arte) e su quello che ci si aspetta di vedere (e si sperimenta o si intravede) in una mostra di questo tipo.

Incominciamo col dire che da una mostra di acquarelli ci si aspetta moltissimo per tutta una serie di ragioni che potremmo schematizzare in questo senso.

1) L’acquarello è una tecnica di base dell’attività artistica, come il disegno, anzi è l’altra faccia del disegno, è la pratica che sperimenta il tono anziché la linea.

2) L’acquarello è una tecnica “elementare”, che ha fortissimi legami con l’elemento “acqua”, come la ceramica li ha con il fuoco, ma ancora di più. L’acquarello finisce per rivelare ogni cosa del suo tracciato, non può essere corretto, è il segno veicolato dall’acqua in tutto e per tutto ed è forse per quest’affinità che riesce a rendere molto bene i cieli piovosi e le superfici bagnate.

3) Un altro carattere fondamentale dell’acquarello è l’adesione forte che mantiene con il suo supporto, la carta; tanto è vero che la luminosità massima raggiunta dall’acquarello, il suo bianco, è il colore della carta stessa.

Anche la scrittura ha come medium per eccellenza la carta. Ciò porta ad una amicizia fra l’acquarello e la scrittura, che ci invita a scorgere nel primo quasi la forma naturale dell’illustrazione. Ecco perché l’acquarello possiede una predisposizione spontanea verso la narrazione e il racconto.

4) Il legame acquarello-carta fa pensare alle infinite possibilità di ibridazione dell’acquarello con le altre tecniche artistiche legate alla carta, che sono svariatissime: la tempera (compreso l’uso dell’acquarello in termini coprenti), la matita, le crete, i gessi, l’inchiostro, le stampe, i collage. Insomma chi si avvicina all’acquarello dovrebbe essere tentato da un vero e proprio invito al dominio della carta, senza paura di contaminazioni.

5) Se consideriamo che l’acquarello è una tecnica immediata, da portare con sé, veloce da realizzarsi ed efficace (una volta che si è fatta la mano) nel rendere un’impressione, ci rendiamo conto che la simbiosi che può realizzarsi con la scrittura è l’ideale per riempire taccuini di viaggio, per descrivere paesaggi nuovi, per fermare un ricordo, per esplorare il mondo. L’acquarello è la tecnica giusta dell’artista in partenza per descrivere nuovi paesaggi.

6) È fin troppo facile dire che l’acquarello è la primavera fra le tecniche artistiche, così come la pittura a olio potrebbe essere l’estate, l’acquaforte l’autunno, china e maniera nera gli inverni.

Ma più precisamente bisognerebbe dire che l’acquarello è la tecnica artistica che più immediatamente esprime la gioia di vivere e forse stanno proprio qui la croce e la delizia a cui è condannata questa forma d’arte.

Ci possono essere due concezioni della gioia di vivere in campo artistico.

Una è quella del grazioso, del gradevole, del piacevole, ma proprio per questo del pregustabile e del prevedibile: una bellezza che finisce per spegnere l’originalità. È la ricerca del bello condivisibile dai più, che parte per essere inattaccabile e indiscutibile ma può concludersi nel convenzionale e a volte nel kitsch. Il suo punto d’appoggio è l’iperrealismo, a caccia di ciò che è esteticamente bello nella realtà. La perfetta mimesi garantirà il ricordo di questo bello: inattaccabile, indiscutibile, il “bello in sé”.

L’altra concezione è quella che ricerca una gioia di vivere animata sempre da un quid di sorpresa, di stupore, di imprevisto e si tratta di un viaggio più lungo e difficoltoso, ma più interessante, con i rischi però di incagliarsi nelle secche delle sperimentazioni e delle astrazioni, a volte  scarsamente significanti.

È con questi pensieri (e ancora più confusi) che ho varcato la soglia della mostra L’acquerello in Alessandria, con uno stato d’animo d’aspettativa esagerata e guardinga. Pertanto la premessa che ho svolto non è altro che un modo di mettere un po’ d’ordine in questi pensieri per giustificare tutta una serie di preferenze, riconducibili unicamente, oltre che al gusto personale, ai presupposti elencati.

Il ricordo della mostra (vista e rivista), con l’aiuto del catalogo, mi fa tuttora prediligere i seguenti acquarelli, alla semplice prova della memoria che preserva l’emozione (si indica tra parentesi la pagina del catalogo).

Colpiscono i paesaggi colti con precisione nella loro individualità geologica e naturalistica di Gorlini (La ricerca del mio invisibile… dell’impossibile, 18) e del polacco Suffczyński (The mountain lake, 133), che ci vengono incontro come se fossero la scoperta di un esploratore.

Poi ci sono i paesaggi-atmosfera, quelli in cui si cerca di cogliere lo stupore o la sorpresa di una certa luce, propria di un momento della giornata o di un trapasso della stagione, come nel caso di Bo (31), Vaglia (109) e della belga Mager (163).

Gli effetti acquorei, già emergenti nel Disgelo in Cittadella della Vaglia, e così tipici dell’acquarello, vengono portati a livello di studiato virtuosismo nelle superfici lucide degli ombrelli di Dam (51), nelle increspature dell’acqua fluviale di Gota (65) o nel cielo di pioggia urbano dello spagnolo Rios (116).

Due paesaggi nordici, dei polacchi Orłowska (127) e Papke (130), evitano il genere del puro illustrativo per una loro ricercata resa delle lontananze; all’estremo opposto ci sono interessanti orientamenti del paesaggio verso le prode dell’astrazione, senza raggiungerla completamente, ma con attenzione alle geometrie compositive e alle linearità degli orizzonti, come succede per Bertona (29), Lapenna (70) e per il belga Van Leuven (156).

La bravura degli acquarellisti polacchi sembra voler proporre un genere nuovo che potremmo definire “paesaggio d’interni”, ispirandosi all’architettura religiosa, con esempi che vanno dal virtuosismo illustrativo ai massimi livelli di Gosik (121) all’ariosità trasfigurante di Rogala (131), dove le volte di un chiostro sono ali di un tenerissimo pipistrello (o se volete di una farfalla notturna) e dove i soffi d’aria che entrano dalle luci dei corridoi circolano liberi per l’acquarello.

Passato in rassegna il filone del paesaggio, passiamo a quello dove il paesaggio (nel senso esteso della parola) può anche essere presente, ma nell’osservatore prevale la sensazione di assistere all’inizio di una storia e le cose diventano attori o personaggi. L’effetto è immediato quando i personaggi ci sono veramente, come nel caso di Amelotti (22), dove l’irruzione del bianco e nero nel contesto colorato carica l’azione e determina l’inizio di una vicenda, a contrasto o forse proprio a causa dell’accenno a un misterioso, vivace mosaico. Così i mobili dell’italo-brasiliana Di Natale (151) sono più che mai mobili-personaggio. L’uso soggettivo dell’acquarello, carico e coprente, assieme alla prospettiva instabile, introduce le note di un inizio di dramma espressionista: racconteranno storie di vita di famiglia.

Decisamente gialla, se non horror è la novella che ci racconta La casa Roja (115) dello spagnolo Perez: dietro l’apparente oggettività la minaccia trapela e il disagio si trasmette. Più tranquillizzante, nonostante una certa spettralità è il viale della stazione con le biciclette sommerse dalla neve di Fonzega (56): potrebbe essere l’inizio di un racconto di Scerbanenco perduto fra le pagine di un periodico femminile degli anni Cinquanta.

All’illustrazione di una fiaba inneggiante alla più pura gioia di vivere potrebbero invece alludere i due acquarelli del polacco Bielecki (120). Ma qui già entriamo nella creazione di generi nuovi determinati da un uso soggettivo e sperimentale della tecnica-acquarello: è un acquarello che, oltre a far macchia, delinea, trasportandoci anche per questo fatto in un mondo fiabesco. Generi nuovi di questo tipo sono ravvisabili anche in Gasparin che, con i suoi papaveri (Come corsa in un campo di papaveri, 61), ci fa immergere più profondamente nel mondo della natura e, in maniera molto diversa, nell’acquarello usato con tecnica puntinista dei Lucherini di Magni (76). Qui l’autore ci fa apparire qualcosa che non ci saremmo mai aspettati: ricrea con una tecnica direi quasi anti-acquarello la stessa leggerezza che si ottiene con l’acquarello utilizzato tradizionalmente.

108 (Guido Bisagni)

Questa sera (3 febbraio 2017) presentiamo Guido Bisagni, un artista alessandrino, classe 1978: alessandrino di nascita ed esordi, ma di valore nazionale per riconoscimenti ed internazionale per operatività.

Si fa chiamare 108 perché la sua passione per il mondo religioso orientale lo porta ad apprezzare questo multiplo di 36 (che moltiplicato per 3 fa appunto 108). Usa portare con sé una coroncina da preghiera buddista, una mala, di 108 grani, ma ci dice che anche nell’antica Grecia c’era questa affezione al numero 108. E poi c’è stato un momento di in cui ha scelto di farsi chiamare 108 e basta: un modo per cambiare vita.

Ha ricevuto un importante riconoscimento nell’autunno del 2016. È risultato fra i 20 vincitori del diciassettesimo premio Cairo, premio legato alla rivista “Arte”, tra le più importanti riviste del settore italiane, intitolato ai “nuovi protagonisti dell’arte contemporanea”. Quindi potremmo dire che è uno dei venti principali artisti giovani italiani.

E visto che parliamo di artisti, cerchiamo di capire di che tipo d’arte si tratta nel nostro caso. Bisagni è un pittore che fa pittura astratta su grandi superfici urbane oppure in interni di grosse dimensioni. La sua formazione avviene nell’ambito della street art, l’arte di strada, il graffitismo. Partito da interventi minimali di affissione di adesivi negli spazi pubblici di Alessandria, studia design al Politecnico di Milano e poi inizia la sua attività in giro per il mondo dall’Europa all’Estremo Oriente e all’America.

Perché Bisagni, al di là del valore e dei riconoscimenti, risulta un artista interessante?

A mio parere la sua arte è coinvolgente almeno per tre ordini di ragioni:

1) si occupa di pittura murale in una certa maniera direi particolarmente consapevole;

2) si è occupato e tuttora si occupa di stabilire un dialogo, che definirei complice, tra flaneurs, cioè tra i fruitori che vagabondeggiano nella città: è un artista flaneur che ammicca agli altri flaneurs della città;

3) è mosso da interesse verso alcuni archetipi fondamentali che contribuiscono a dare forza e mistero alla sua arte e rafforzano il legame con il lettore della sua opera.

Permettetemi di sviluppare brevemente questi tre punti.

1) Partiamo dalla pittura murale e pensiamo al fatto che ci deve coinvolgere tutti, per il suo valore civico, addirittura civile.

È un fatto di ordine generale: c’è un detto orientale che dice: “La facciata di una casa è di chi la guarda”, cioè tutti noi passanti siamo proprietari e responsabili delle facciate che vediamo passeggiando.

Poi nel caso specifico la pittura murale ci chiama in causa tutti, dato che l’artista abbandona il suo cavalletto, il suo quadro da vendere al cliente borghese, ed entra in un dialogo collettivo, comunitario con la città. Gino Severini, l’autore di quel capolavoro che è il mosaico del nostro palazzo delle poste, ha detto delle cose molto interessanti al proposito: il pittore murale si fa interprete non del suo io, ma di un sentire collettivo di aspirazioni e di miti, di un’estetica comune e partecipata.

Specialmente negli anni tra le due guerre mondiali la pittura murale decanta motivi di propaganda del regime al potere, indottrina le masse. Finiti i regimi, i muralisti sono per lo più dei trasgressivi che comunicano direttamente con il passante motivi di protesta o di contestazione. Quindi l’arte murale, consenso o dissenso, non solo è civile, ma è politica.

Non dobbiamo nasconderci però, per ogni manifestazione artistica, l’importanza primaria del valore estetico, e qui incomincia a venir fuori qualche problema, dovuto innanzitutto alla natura ibrida della pittura murale. Argomento estremamente interessante, di confine fra le due arti dell’architettura e della pittura, ma che proprio per questo presenta alcuni inconvenienti sovente irrisolti nella pratica corrente.

Insomma la pittura murale, il graffitismo, a prescindere dalla questione dello “sporcare i muri” (argomento tutto a sé stante, tutto da affrontare a parte), fa un po’ venire il nervoso.

Non so se “far venire il nervoso” costituisca una categoria estetica, probabilmente no, ma nel caso della pittura murale, a volte così disinvoltamente praticata, ci sono due precisi elementi di insoddisfazione, se non di irritazione:

Primo: non è ben definita la cornice, e la cornice, si sa, non è un problema da corniciai, ma è il delicato confine fra la finzione della pittura e la realtà. C’è un breve e famoso saggio di Georg Simmel al proposito, del 1902, che andrebbe letto da ogni graffitista prima di intervenire su un pezzo, appunto, di questa realtà, cioè su un muro.

Secondo: il colore artificiale della pittura (non parliamo di quella a spray) ha forti difficoltà ad integrarsi con l’architettura, che per i suoi rivestimenti ama i colori naturali-materici, legati cioè ad un materiale naturale, o, in mancanza, a colori neutri e trasparenti. Caso limite: non c’è decorazione muraria più bella di un’essenza rampicante. Michel Pastoureau, massimo storico del colore, a proposito dei colori artificiali usati nella città moderna parla addirittura di inquinamento, di aggressività, prospettando il problema in questi termini:

I colori vivaci e la policromia che in certi ambiti (sport, giocattoli, imballaggi dei farmaci) sono segni di vita, energia e dinamismo, non lo sono altrettanto quando si tratta di urbanistica, contrariamente a ciò che credono gli stessi urbanisti. Ben lungi dall’indicarne la vitalità, la trasformazione di una strada o di un quartiere in un’accozzaglia di colori vivaci è segno della loro morte o del riportarli in vita artificialmente.” (Colori del nostro tempo, Ponte alle Grazie, Milano 2010)

I colori artificiali della pittura murale sono ormai stati sdoganati e persino il Touring organizza itinerari turistici nella periferia di Roma, dove artisti famosi hanno decorato in maniera fantasmagorica le facciate di Tor Marancia o di Tor Bella Monaca, ma guardando queste opere ci rendiamo conto che c’è qualcosa che non va e a quei muri dipinti è assicurato un effetto Disneyland.

E allora come la mettiamo con 108? Credo che anche lui sia d’accordo, dato che a proposito della “street art” arriva a dire che “oggi si è commercializzato tutto e si è trasformato in muralismo low cost.

E poi volevo comunicarvi la conclusione a cui sono arrivato. Secondo me ci sono due vie di fuga che possono rendere plausibile la pittura murale: il trompe l’oeil, dove il maestro è Bansky e la forma astratta, dove il maestro, verrebbe da dire, è Bisagni.

Il nostro artista è perfettamente consapevole della sua scelta, tanto è vero che sostiene di realizzare un certo tipo di figure murali per rispetto verso l’ambiente: “Le mie forme si sono sviluppate in luoghi abbandonati: mi serviva la semplicità, l’impatto. Inoltre usare colori accesi in luoghi che per me avevano un fascino e una bellezza intrinseca enorme, era una mancanza di rispetto.

Non solo, le sue astrazioni hanno sovente la forma di un varco verso un’altra realtà e questo fatto del varco è tipico del trompe l’oeil (riprendiamo citazioni e suggestioni di un’intervista dell’estate 2016 rilasciata a Domenico Russo su “#AImagazine”).

Bisagni dunque ci fa vedere, da artista completo, e non solo da graffitista tutto compreso nel suo percorso specifico, che si è posto e si pone il problema fra le due dimensioni dell’immagine e le tre dimensioni dell’ambiente, fra pittura e architettura, così difficile da risolvere.

2) Il dialogo fra flaneurs.

La visione globale che Bisagni ha del graffitismo lo porta a riconoscere in questo genere artistico una componente naturalmente interattiva. La pittura murale è dialogo: lo afferma esplicitamente nell’intervista che abbiamo ricordato:

“Lavoro per me stesso ma mi interessa l’interazione con i cittadini: ad esempio quando cercano di rendere il mio lavoro più comprensibile ai loro occhi, magari aggiungendo delle facce alle forme. È lì che penso di avere raggiunto il loro inconscio.

Quindi nella pittura murale di Bisagni potremmo individuare un dialogo privilegiato tra flaneurs. Chi è il flaneur?

È colui che gira la città senza una meta, o meglio con una sua meta inconscia, colui che esplica, come è stato detto, la sua tattica di esplorazione della città in contrapposizione alla strategia del potere, che vuol farlo muovere invece secondo le logiche esclusive del funzionalismo e dell’utilità.

Il flaneur non solo gira senza una meta precisa, ma ha uno sguardo goloso verso la folla o, in mancanza di folla, verso i luoghi e i dettagli ignorati dai più. Bisagni ha iniziato la sua attività urbana usando il linguaggio delle piccole forme adesive sui muri e sulle superfici funzionali, come fanno, usando le loro simbologie, i vagabondi, gli accattoni e i ladri. Solo che nel suo caso bisogna parlare di quella particolare forma di vagabondaggio, di accattonaggio e di furto che è la poesia, la poesia della forma astratta che ti interroga, che vuole stabilire un contatto come se fosse un alieno.

Mi ricordo con vivezza (era la fine degli anni Novanta?) quando incominciarono a comparire sui muri, sui pali e sulle cassette dell’impiantistica di Alessandria le forme bitorzolute e patatoidi degli adesivi di Bisagni. Toh, mi dissi, chi è questo qua che appiccica queste cose ripercorrendo i miei percorsi quotidiani per la città, rompendo in questo modo la loro prevedibilità e la loro consuetudine?

Mi era venuta persino la voglia di staccare quegli adesivi strani ed incomprensibili, quasi per interpretarne il messaggio nascosto o quanto meno per collezionarli, come consapevole che appartenessero a persona di valore, che avrebbe fatto strada. Non l’ho fatto, ma ho conservato moltissimo questa idea di fratellanza fra due flaneurs che tramite quei segni potevano stabilire un contatto, un ammicco, un’intesa nella solitudine urbana.

 

 

3) Arriviamo a parlare del terzo punto: il ricorso di 108 all’archetipo, che contiene in sé un riferimento di trascendenza.

Già questo riferimento alla trascendenza è visibile nell’evocazione dei maestri dell’arte astratta, in primis Kandinsky (cfr. Stefano Poggi, L’anima e il cristallo, Il Mulino, Bologna 2015), che ci dà conto del misticismo insito in molte scelte dell’astrazione: l’arte di una pittura che tende alla musica, che dice quello che la parola non riesce ad esprimere.

Ma il carattere della trascendenza di Bisagni ha qualcosa di primario e poi di primitivo, nel senso di ancestrale. Quando nelle sue forme nere irrompono quei piccoli cristalli di colori vivacissimi io ci vedo la scomposizione del raggio di luce nei colori dell’iride, tramite il prisma di Newton. Ecco il primario, ecco un’evocazione del valore trascendente della luce.

Il risalire ai valori primitivi, ancestrali è stato messo in luce dall’interessante mostra tenutasi nel 2014 ad Alessandria, quando Bisagni parla delle suggestioni che gli sono giunte dalle escursioni nell’Appennino parmense, dai reperti che ha trovato nella zona. Nelle opere presentate in quell’occasione veniamo a scoprire che i varchi aperti dalle/nelle sue forme sono anche passaggi di passi montani, aperture verso il mondo.

Inoltre la categoria dell’orientamento sia nello spazio (quella dei punti cardinali) che nel tempo (quella astronomica dei solstizi e degli equinozi) è molto presente e ci parla ancora di primitivo e di trascendente.

Questi archetipi del viaggio sono la filosofia di Bisagni e forse sono quelli che gli permettono di entrare in sintonia con i luoghi, i più diversi ed esotici ed estranei. Avendo approfondito il suo luogo, quello interiore e anche quello provinciale, ha potuto affrontare i luoghi del mondo superando l’insidia della superficialità.

A conclusione di questo terzo punto non trovo parole migliori di quelle dello stesso Bisagni, in un’intervista rilasciata a Marta Margnetti nel 2012 (108: Genius Loci, catalogo della mostra alle Sale d’Arte, Alessandria 2014):

Ai tempi la mia fissazione era cercare i muri o altre superfici visibili e andarle a dipingere con gli altri. In questo modo avevamo imparato a conoscere le nostre terre molto meglio di chiunque altro. Zone periferiche, industriali/naturali tipiche del Piemonte, in cui la gente non passa mai, luoghi dimenticati. Vivevamo i posti in orari diversi, di notte per esempio. […] Essendo un appassionato di folklore e di antropologia, ho iniziato a percepire molte affinità fra il nostro agire e quella che fu la stregoneria. Negli anni ho smesso di fare graffiti come si faceva ai tempi, ma non sono riuscito a smettere di andare ad esplorare questi luoghi dimenticati e a volte di dipingerci. Però era tutto diverso: ho iniziato ad andare da solo, in zone periferiche, di campagna, in posti abbandonati a volte a dipingere su muri abbandonati e dispersi che nessuno avrebbe mai visto tranne me e qualche animale selvatico. Preferivo andarci d’inverno, magari durante una tempesta di neve. Era una necessità e mi sentivo in una sorta di “trance”, un bisogno irrazionale mi spingeva a farlo. […] e credo che queste azioni siano paragonabili a dei veri e propri rituali.”

Illustratori di marca del Novecento italiano

Le figure della nostra “civiltà dell’immagine” sono state veicolate per tanto tempo dai giornali e dalle riviste settimanali (o variamente periodiche) fino a che si è affermata la televisione e poi la rete, con la quale è iniziato decisamente un altro tipo di civiltà, con un’immagine perennemente “in diretta” e perennemente mutante.

Ma tutto sommato possiamo dire che la figura sulla carta (disegno o fotografia) sia stata la protagonista di tre buoni quarti del Novecento.

Al proposito mi piacerebbe fare un gioco, valido per le persone adulte, mature o vecchie che hanno avuto una buona esperienza del secolo trascorso. Mi verrebbe da chiedere a un buon numero di questi “novecentisti” quali sono secondo loro gli illustratori (una prossima volta toccherà ai fotografi) che possono rappresentare i diversi decenni di questo secolo fino a definire lo stile di ogni singolo decennio. Credo che sia possibile fare questo giochino, però bisogna che qualcuno si esponga. Comincerò io.

Proporrò il mio bravo elenco di illustratori, definendoli “di marca”. Avremo quindi l’illustratore di marca degli anni Dieci, Venti, Trenta e così via, là dove la parola marca ha il duplice significato di qualità e di impronta, anche con un’accezione un po’ dialettale del termine, per cui il giorno di marca è quello, legato a un santo, che influenzerà il tempo meteorologico di alcuni giorni a venire (i proverbi dialettali hanno numerosissimi riferimenti a questi giorni di marca). Allo stesso modo (vorrei istituire questo paragone) quel determinato illustratore influenzerà la temperie illustrativa del decennio di sua competenza. Non è detto che sia così, ma per me un po’ lo è.

Nei primi dieci anni del Novecento, anni ancora della belle époque, stupisce la quantità delle scene e dei fatti di guerra delle copertine a colori de “La Domenica del Corriere”, settimanale del più autorevole quotidiano italiano, il “Corriere della Sera”. Il ritrattista di questi drammatici episodi è Achille Beltrame, che rappresenta la guerra ad uso e consumo della buona borghesia sdraiata sul divano, come se si trattasse delle illustrazioni di una serie di romanzi salgariani: bersaglieri in Cina per la rivolta dei Boxers, partenza dei riservisti in Russia per la guerra contro il Giappone, rivolte arabe a Tripoli. Lo stile è realista, con qualche caduta nell’effetto popolare; per cedere al gusto del pubblico Beltrame abbandona le aspirazioni da pittore ottocentesco di tono più alto (che possiamo ritrovare in alcune copertine de “La Lettura”, il mensile del Corriere della Sera: significativa al proposito quella del 1° giugno 1919).

Le copertine della Domenica del Corriere continueranno ad alimentare l’immaginario degli italiani fino ai pieni anni Sessanta. Erede di Beltrame sarà Walter Molino, tipico illustratore del secondo dopoguerra, specializzato, vista la relativa carenza di eventi bellici, nella cronaca e negli episodi sentimentali (anche se il suo sentimentalismo esploderà nelle copertine anni Quaranta-Cinquanta del settimanale per signorine “Grand Hotel”).

La figura di Antonio Rubino potrebbe essere definita come quella dell’illustratore più significativo degli anni Dieci in base alla sua attività di disegnatore de “La Tradotta”, famoso periodico degli italiani al fronte nella guerra ‘15-‘18. Si tratta di un disegno satirico, coloratissimo, di impronta decisamente liberty. Si parla ancora e soprattutto di guerra, ma al disegno realistico di Beltrame (che continua a imperare sulle copertine della Domenica del Corriere) subentra un segno molto adatto a un pubblico semplice e quasi infantile. Non è un caso che Rubino fosse diventato direttore del “Corriere dei Piccoli” (settimanale per i bambini del Corriere della Sera) fin dal 1908 e nello stesso periodo della Tradotta pubblichi sul “Corrierino” le vignette (commentate da rima baciata) di Italino contro Kartoffel Otto, di argomento irredentista. Rubino continuerà la sua attività su questo periodico per bambini per parecchi decenni ed io me lo ricordo ancora nell’anno 1954 come illustratore delle avventure della Nina, piccolo bastimento, con tanto di faccia espressiva e mobile a ricoprire l’intera prua. Quello che mi ha sempre stupito e a volte quasi irritato di questo disegnatore è il suo desiderio ossessivo di una ricostruzione liberty dell’universo ad uso dell’infanzia.

Un altro valido nome di illustratore liberty a partire ancor prima degli anni Dieci, anch’egli di tono satirico e legato alla pubblicistica di propaganda della prima guerra mondiale è Golia (Eugenio Colmo). Io me lo ritrovai come autore di illustrazioni da favola ne I grandi viaggiatori della collana “La scala d’oro” della Utet, libro che io invidiai tantissimo a mio fratello maggiore, che lo aveva avuto in regalo, con dedica, nel dopoguerra (ma la prima edizione è del 1934). Abbiamo quindi finora parlato di artisti che giungono a coprire buona parte del Novecento.

Se diciamo anni Venti mi viene subito in mente Sergio Tofano, non solo perché è l’inventore di un personaggio come il Signor Bonaventura, creato qualche anno prima e che ha occupato per decenni le pagine del Corriere dei Piccoli, ma anche perché è l’autore di alcune copertine fra le più sorprendenti della Lettura. In queste copertine c’era un’aria di nuovo, un disegno semplice, rotondo, allegro, di bei colori, in cui il liberty prendeva le strade più semplificate del déco (si vedano quelle del 1° maggio 1920, 1° luglio 1921 e 1° agosto 1927).

Associo a Tofano Carlo Bisi perché inventore, a partire dalla metà del decennio, di un personaggio importante quasi quanto il Signor Bonaventura, cioè il Sor Pampurio, e per il suo segno così vicino ai movimenti d’avanguardia della sua epoca, dal Secondo Futurismo a Strapaese. Più in generale negli anni Venti troviamo il formarsi di una linea di illustratori, di segno improntato al grottesco, di cui ci ha parlato molto bene Antonio Faeti nel suo Guardare le figure e precisamente nel capitolo intitolato “Il deforme quotidiano”, caricaturisti in pectore costretti, in tempi poco favorevoli alla satira, a rifugiarsi nell’illustrazione per i ragazzi. Nel capitolo vengono nominati oltre ai già citati Tofano e Bisi anche Filiberto Mateldi, Mario Pompei e Piero Bernardini, autori, negli anni Venti, di copertine una più bella dell’altra, per le principali riviste dell’epoca: di Mateldi ricordiamo quelle per “Il Secolo XX°”, memorabili per colori e atmosfere (1° dicembre 1920, 1° febbraio 1921, 1° maggio 1921, 1° aprile 1922); di Pompei, con un segno che richiama maggiormente Tofano, quelle di “Noi e il mondo”, rivista mensile de “La Tribuna”; di Bernardini le copertine di diverse riviste, con una eccellenza per la ritrattistica, con risultati da grande artista moderno (“Noi e il mondo”, marzo e novembre 1928, “Comoedia”, 15 marzo 1925). D’altronde questi illustratori contendono il campo nel settore ai maggiori esponenti della grafica internazionale tra liberty e déco, da Dudovich a Brunelleschi.

È difficile indicare un unico nome per gli anni Trenta, per illustrare l’eleganza di quegli anni, la ricchezza che hanno saputo estrarre dalle avanguardie artistiche del Novecento, la loro abilità nel propagandare tutta una serie ricercata di consumi che vanno dalla moda ai profumi, dalle sigarette alle automobili. Se mi viene per primo in mente il nome di Erberto Carboni è perché è stato l’illustratore della rivista “Il Dramma”, di cui conservo qualche numero che sono un ricordo famigliare dell’attività filodrammatica di mia madre. Carboni tra l’altro possiede in pieno le qualità sopra elencate degli anni Trenta e ha la caratteristica di iniziare e proseguire l’illustrazione della pubblicità di alcuni dei più famosi prodotti consumati dalle famiglie italiane, che prima del secondo conflitto mondiale riguardano, come si è detto, generi più ricercati come le sigarette egiziane Matossian e durante il miracolo economico riguardano i Pavesini e la pasta Barilla, l’olio Bertolli e la Radiotelevisione Italiana.

Un altro nome che non possiamo fare a meno di citare è quello di Gino Boccasile che diventa famoso negli anni Trenta con le copertine de “Le Grandi Firme” con il suo realismo esuberante e di nuovo negli anni Quaranta per la violenza realistico-caricaturale di alcuni manifesti della Repubblica Sociale Italiana (il famoso “Il nemico vi ascolta: Tacete!”). Da non dimenticare Federico Seneca, famoso per la réclame dei Baci Perugina, ma significativo, in una rappresentanza degli anni Trenta, per l’essenzialità novecentista della pubblicità Buitoni.

Se poi mi dovessero domandare che cosa ricordo in primo luogo delle illustrazioni che colpirono la mia mente di ancora illetterato bambino nella seconda metà degli anni Quaranta, citerei subito la grande quantità di réclames della Cirio sulle pagine in bianco e nero di “Oggi”, a cura dello studio Luigi Dalmonte. Questo studio curava la pubblicità della Cirio fin da prima della seconda guerra mondiale. Non so chi fosse l’illustratore degli anni Quaranta e seguenti; non direi lo stesso Dalmonte, a giudicare da alcuni disegni sicuramente suoi. Fatto sta che ne venivano fuori immagini molto americane (comunque Dalmonte aveva lavorato in America) di casalinghe e bimbi felici e di padri rientranti dal lavoro, tutti che non vedevano l’ora di mangiare scatolame della Cirio, in un mondo che, uscito dalla guerra, doveva guadagnare il tempo perduto soprattutto riguardo ad una carenza di zuccheri epocale.

L’altra immagine che mi incantò in quegli anni subito dopo la guerra fu la visione profondamente ironica del futuro incentrata su un personaggio di Walt Disney: Eta Beta. Eta Beta, l’uomo del 2000, l’amico di Topolino, tratteggiato dal disegno inventivo di Floyd Gottfredson, proiettato verso meravigliose avventure nel quotidiano e nello spazio, caratterizzate da macchine, arredi e vestiti avveniristici. Il tutto influenzato da un’America travestita in uno stile fantascientifico, che andava dalle automobili con le pinne ai distributori di benzina simili ad astronavi, stile che solo ora scopro essere chiamato “Googie” (La Lettura, Corriere della Sera, 11 settembre 2016, pp.42-43).

Per me gli anni Cinquanta sono l’inizio delle invenzioni pubblicitarie di Armando Testa, a partire da quella del Punt e Mes, vermut della Carpano. Che novità fu in quegli anni e nei successivi trovare i prodotti reclamizzati presentati con umorismo nella loro integralità figurativa di prodotto! Quante marche reclamizzate ancora adesso presenti sul mercato! Incominciano i lunghi anni Sessanta del Carosello televisivo che vanno dal ’57 al ’77: è lì che trovavi il corrispettivo televisivo delle illustrazioni di Testa: il caffè Lavazza, l’olio Sasso, la carne Simmenthal.

Ma negli anni Cinquanta ci furono anche due segni, di diverso realismo, che mi colpirono. Il primo è quello di René Gruau (italiano nonostante lo pseudonimo), evanescente e molto adatto alla evocazione del fascino femminile nel campo della pubblicità della moda e dell’abbigliamento per signora. Il secondo è il realismo del classico illustratore di romanzi, di copertine degli stessi, di “realtà romanzesca” da Domenica del Corriere, di racconti per riviste: mi riferisco a Giorgio Tabet, dotato di un timbro in più di modernità e di eleganza rispetto a Molino e che verrà ricordato nei termini più essenziali da Pintér, di cui ora parleremo.

A parte le copertine dagli accentuati color pastello giocati sui complementari e dominate dagli acchiappanti personaggi di Charles Schulz (Charlie Brown!) della rivista “Linus”, gli anni Sessanta sono per me, innanzitutto le copertine degli Oscar Mondadori, specialmente dal momento in cui si rivela l’astro nascente di Ferenc Pintér. Tutti ricordano le sue inconfondibili copertine ispirate ad un realismo essenziale che sfiora a volte esiti astratti. Tutti lo ricordano: basta che citiamo le sue copertine dei gialli di Simenon dove compare il commissario Maigret con le fattezze dell’attore Gino Cervi, che lo aveva interpretato negli sceneggiati televisivi.

Il contraltare di Pintér nel decennio successivo, gli anni Settanta, è sicuramente John Alcorn, che in effetti fu utilizzato da Rizzoli come controffensiva agli Oscar condotta con la sua nuova BUR (Biblioteca Universali Rizzoli), la collana economica già famosa negli anni Cinquanta ma bisognosa di un restyling. Perciò nella mia memoria ci sono gli Oscar Mondadori, Pintér e gli anni Sessanta da una parte e la BUR Rizzoli, Alcorn e gli anni Settanta dall’altra. La scuola americana di Alcorn ha padrini del calibro di Milton Glaser (che ricordiamo presente in quegli anni in Italia con una memorabile réclame per la Valentine Olivetti, specialmente quella che richiama il cane della Morte di Procri di Piero di Cosimo) e riporta in auge un’America pop con qualcosa degli anni Venti, una nostalgia dei primi cartoni animati, un mondo tardo-liberty passato attraverso i colori psichedelici dell’epoca Beatles. Ma non è soltanto un discorso di sogno ed evasione. È una profonda sensibilità verso il reale che si manifesta in diversi ambiti: significative le copertine de “L’Espresso” nel periodo politicamente intenso dei referendum degli anni Settanta.

Alcorn sarà ancora in auge negli anni Ottanta, pur collaborando dall’America, con le copertine di Prometeo, questa volta per Mondadori.

Ma tante cose cambiano con gli anni Ottanta! Si affacciano i disegnatori di un’ondata fortemente satirica di riviste come “Tango” e “Il Male”, ma è difficile ravvisare in loro delle personalità trasversali, che ambiscano a caratterizzare la “voce grafica” di un decennio. Gli illustratori che più si avvicinano a questa ambizione sono forse Francesco Tullio-Altan, con personaggi di grande successo popolare che vanno dalla Pimpa per i più piccini a Cipputi per gli anziani più scafati della Sinistra, e Tullio Pericoli, che partendo dalla satira del radical chic approda ai temi alti del ritratto letterario e del paesaggio senza abbandonare un suo personalissimo segno di illustratore.

Forse gli edonistici anni Ottanta sono più propriamente rappresentati dai caratteri bodoniani e dalle copertine con belle cose preziose sullo sfondo nero lucido della rivista FMR di Franco Maria Ricci: ecco servito a partire dal 1984 un nuovo look cartaceo per una nuova borghesia benestante, desiderosa di istruirsi con opulenza come quella dei primi decenni del secolo (“la più bella rivista del mondo”). Negli anni Ottanta si ripropongono addirittura le testate di quegli anni, come l’“Illustrazione Italiana” (1981) e “Tempo” oppure si offre il più aggiornato sapere illustrato rivisitato come una meravigliosa avventura dicotomica di opposti (“Sfera”, a partire dal 1988).

Con gli anni Novanta la fortuna dell’illustrazione su supporto cartaceo accentua il suo declino e assistiamo alla sparizione delle riviste, non parliamo di quella illustrate. Rimangono le ragioni di una bella copertina del libro, come promozione di questo prodotto, che resiste molto bene all’ebook. Anzi alcuni recensori incominciano ad occuparsi della copertina (come Marco Belpoliti su “Tuttolibri”), oltre che del contenuto e la fotografia cesserà il suo predominio in questo settore. Si forma una generazione di illustratori caratterizzati da un’approccio ironico, divertente e divertito. Un nome su tutti Guido Scarabottolo, grafico della Guanda a partire dal 2002, a cui potremmo accostare Franco Matticchio, per la sua interpretazione dei mondi di Gadda e di Scerbanenco (fine anni Novanta, primi del 2000). Grazie ad autori come questi fra cent’anni si potrà proporre ancora questo giochino che abbiamo fatto: chissà. Un fatto è che oggi abbiamo in Italia illustratori eccezionali che vengono celebrati a livello internazionale, autori di una rivoluzione delle copertine, che ha influenzato anche gli Stati Uniti (per un elenco più completo si veda il recente Cover Revolution!, Corraini, Mantova, 2016).

Nota dell’editore

 di Paolo Repetto

La giustificazione di se stesso, ce ne fosse bisogno, Mario Mantelli la dà nel primo degli scritti raccolti in questo volumetto. Quella del mio interesse per una militanza che ha caratterizzato senza distrazioni tutta una vita si trova invece nei pezzi che ho voluto aggiungere io, a mo’ di appendice, forzando la mano all’autore, che non ne sentiva la necessità –  a dire il vero, non riteneva necessario neanche pubblicare il primo. Li ho inseriti proprio per questo, perché nella loro occasionalità sono la testimonianza esemplare del felicissimo e raro connubio tra una sensibilità curiosa e capace di meraviglia e la naturale padronanza degli strumenti con i quali coltivarla. Che è poi ciò che mi ha conquistato quando ho potuto conoscere Mario un po’ meglio (eravamo stati colleghi per un brevissimo periodo, diversi decenni orsono: ma paradossalmente la scuola è il luogo meno propizio a farti scoprire le qualità di chi ti lavora a fianco, soprattutto se, come Mario, tende a presidiare gli angoli della sala insegnanti).

Parlare di militanza in questi tempi post-moderni suona un po’ demodé, ma soprattutto mette a rischio di fraintendimento: vengono subito in mente integralismi di vario conio e devozioni acritiche alle cause più peregrine. Inoltre il termine evoca un atteggiamento aggressivo e prevaricatorio, esattamente l’opposto di quello connaturato a Mario. Ma non saprei come definire altrimenti un’attenzione al bello che si è mantenuta pacificamente integra per tutti questi anni, non è venuta a patti con le lusinghe delle mode, si è garbatamente concretizzata in lavori di nicchia e in indicazioni di percorso che, se pure sono andate pressoché inascoltate, hanno creato attorno al loro autore un’aura “sapienziale”. (So che per una cosa così potrebbe spararmi, se sapesse dove raccattare una pistola, ma è quello che penso e che constato). Per gli antichi, sapienti erano coloro attraverso i quali parlava un dio, nei quali non era visibile (ed esibito) lo sforzo alla conoscenza, ma questa semplicemente si palesava. Ciò che voglio dire è che tutti coloro che conoscono Mario, e non solo gli amici e la cerchia degli estimatori, molto più ampia di quanto non appaia, gli riconoscono quel tocco di sensibilità in più che fa cogliere un mondo dove gli altri vedono solo un’inferriata o una vecchia ringhiera, e l’intelligenza umile di un linguaggio che aiuta ad aprire gli occhi e a vederlo anche tu, quel mondo.

Forse però davvero la militanza non c’entra. Mario non è un engagé, non ha mai lavorato né al servizio di Dio né a quello degli uomini, ha semplicemente seguito la propria natura: una natura che lo porta, giustamente, a identificare l’atteggiamento estetico con quello etico. Vale a dire che amare il bello significa in automatico pensare bene e agire equamente: cercare e riconoscere la bellezza è dunque lo scopo, trovarla è il dono, difenderla e diffonderne la conoscenza è l’impegno. Ma a merito tutto suo, della sua intelligenza e non della sua natura (se è lecito distinguere le due cose), va ascritto il fatto che questa disposizione non si è mai tradotta in un atteggiamento “estetizzante”: non ha avuto bisogno di indossare abiti alla Marianini o di ricorrere ad un formulario iniziatico per esprimersi, e ha portato i capelli un po’ più lunghi per una settimana solo quando gli è saltato l’appuntamento col parrucchiere.

L’immagine errata che la società moderna ha del saggio corrisponde in realtà a quella dell’esperto: di colui che ha già conosciuto tutto, o quasi, e non si meraviglia più di nulla. In questo senso, ma solo in questo, Mario è tutt’altro che un esperto. Non conosco persona più capace di lui di meravigliarsi genuinamente per un qualsiasi casuale accostamento, e di seguirne poi le tracce non per chiudere l’indagine, ma per aprirsi la strada ad altre possibilità di stupore. È un posatissimo entusiasta della bellezza, e questo gli dà occhiali speciali, agli infrarossi, per coglierla ovunque (ovunque ci sia, naturalmente). Mi ricorda il grande Humboldt, che negli intervalli tra i viaggi scientifici nelle foreste americane e siberiane erborizzava anche nei giardini pubblici di Berlino. Mario erborizza arte e armonia nelle architetture e nei paesaggi del Monferrato, e persino nei vicoli alessandrini. Soprattutto in questi ultimi si direbbe quasi che, più che trovarle, ce le porti.

In realtà non c’era alcun bisogno, come sa chi conosce Mario, o come ha potuto constatare chi è arrivato finalmente a leggerlo, di giustificare questa pubblicazione: si giustifica benissimo da sola. Ma mi sembrava un atto dovuto, per usare un linguaggio giuridico: lo dovevo all’autore, che ho distratto dal suo felice vagabondaggio estetico, e lo dovevo ai lettori delle edizioni dei Viandanti, per richiamare la loro attenzione sulla cura grafica che è stata dedicata a questo libretto, in linea con l’idea della vita e del mondo che da esso traspare.

Perché poi, parliamoci chiaro, la vera giustificazione è che pensarlo, crearlo ed editarlo mi ha dato un piacere immenso.

Note

[1] La contrapposizione oggettivo-soggettivo mi sembra che potrebbe essere composta dal bellissimo capitolo (non a caso iniziale) Psicoanalisi. Sé e comunità di James Hillman, Politica della bellezza, Moretti & Vitali, Bergamo 1999.

[2] Il parallelismo fra la psicologia personale e quella dell’ambiente costruito è il-luminato da James Hillman, L’anima dei luoghi, Rizzoli, Milano 2004, Pagine 18-19