Sono nato una sera di novembre

Poesie (2013-2015)

di Tonino Repetto, 30 ottobre 2015

Sono nato una sera di novembre copertina

Nomade, la memoria

Sono nato una sera di novembre

Genova

Dal silenzio profondo

Giorni ariosi e vicoli oscuri di Paolo Repetto

Nomade, la memoria

 Da quando mi ricordo il chiodo
   resiste arrugginito su quel muro

  

Nomade, la memoria

visita molti luoghi,

giorni ore e momenti,

ritrova i vecchi tempi.

Di passaggio ogni tanto

al mio paese, racconta

un arioso mattino di maggio,

poi si rimette in cammino,

continua il suo viaggio.

Lo annunciano i colpi di clacson

nel silenzio della piazza:

come appare nuovo

il vecchio mattino!

Dal finestrino si sporge un viaggiatore,

gesticola, dice che bello!

Come si chiama questo paese?

Merita una visita

l’antico castello?

Dal rubinetto mal chiuso

scendeva un filo d’acqua.

La fontanella in piazza,

ti ricordi, hai presente?

Nella pozza le foglie

planavano lente.

Le solcavano i carri,

rade le macchine,

erano sterrate le strade.

Nel fango nella polvere

a seconda della stagione,

d’inverno nella neve,

delle ruote le tracce

dei viandanti le orme.

Qui prima chi c’era

sul sedile di pietra

all’ombra del castello

dal pomeriggio fino a sera?

Immobili i vecchi, seduti,

facevano passare il tempo, muti.

Ricorrevano le stagioni

si ripetevano senza sorprese

ventose primavere

estati polverose

piovosi umidi autunni

lunghi inverni nevosi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Svetta nel cielo azzurro

la torre del castello,

proietta un’ombra lunga sulla piazza

del paese dove un giorno

d’estate sogna il tuo ritorno.

Indimenticate e nitide

al finestrino appaiono

immagini di un tempo

le galline nel cortile

la scala a pioli del fienile

la scritta W Bartali sul muro.

Prima il clacson ed ecco la corriera

risale lenta fra le case,

se diventare azzurro è incerto

il cielo grigio del mattino.

Sogno di svegliarmi

poco prima dell’arrivo,

e lì in piazza che mi aspetta

c’è mio padre ancora vivo.

 

 

 

 

Il sedile di pietra è desolato

ai piedi del castello.

Se spira un po’ di vento ricomincia

lento il fruscìo dell’edera,

s’arrampica sul muro.

È già suonato mezzogiorno,

forse, appena, non ancora.

Nel tempo dubbioso del ricordo

non è precisabile l’ora.

L’ombra del ciliegio sul prato,

il fico sporgente dal muro

del cortile sul vicolo,

le more bianche del gelso

sulla strada del cimitero.

Retrocedono gli anni,

mi ricordo degli alberi,

nel paesaggio scomparso

riappare il sentiero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non pretende i prati all’inglese,

le aiuole eleganti dei parchi

irrorate dalla pioggia sottile

delle girandole d’acqua;

in questa strada l’erba s’accontenta,

spunta dalle crepe dell’asfalto,

cresce sul bordo del marciapiede,

fra le pietre del muretto

dove la lucertola s’annida,

guizza improvvisa al sole.

Passa rombante la corriera

nel pigro dormiveglia del mattino,

sollevando la polvere che imbianca

le more nei cespugli

ai bordi della strada.

Il sogno torna indietro

a prima dell’asfalto, sento dire:

“Nessuno ha fatto ritorno

con la corriera di mezzogiorno”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La strada ancora in ombra

la risvegliano le ruote

dei carri sul selciato,

le voci delle donne che s’affacciano

alle finestre e sulle soglie,

i vetri in alto luccicanti

degli abbaini al sole.

Il vento solleva un lembo della tenda,

la mosca va e viene,

vola in cortile poi ritorna,

nella penombra appare

la tavola con un fiasco

e poche briciole di pane.

Sgocciola il rubinetto nell’acquaio,

sfuma la sigla musicale

del Gazzettino Padano.

Nel lento silenzio meridiano

dentro il castello

rimbombano i tamburi,

da una finestra filtrano le note

tentate da un archetto sulle corde.

 

 

 

 

 

Ripercorro il ricordo della strada

che scende verso il fiume fra le case

grigie d’intonaco o colorate.

Alla fine del paese c’è un sentiero,

quel frugare del vento fra i cespugli,

sento lo scorrere dell’acqua,

so a memoria i sassi della riva.

Tacciono le parole,

nel pomeriggio assolato è dell’uomo

non delle cicale il silenzio,

prolungati ai tornanti

sono i colpi di clacson

della corriera delle due.

Le scarpe impolverate sono ferme

sul ciglio erboso della strada.

La dolcezza del pendìo è illusoria,

giù dal prato precipita lo sguardo

in mezzo alla boscaglia che lo acceca.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il vicolo lento risali,

i gradini e la porta,

al balcone i gerani.

Abbandonando l’asfalto della strada

sale il sentiero a quella casa

in cima al poggio. Mi ricordo

una mattina limpida di maggio

il cielo azzurro senza nuvole

le lenzuola bianche sulla corda

tra due alberi che il vento

gonfiava a tratti come vele.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sento gridare ehi tu

c’è un sentiero che porta lassù?

Alzo lo sguardo mi sorprende

la solitudine di un albero

in cima alla collina.

Il soffio bianco di una nuvola

la luce il cielo azzurro le cicale

mi dicono che è estate.

Della bicicletta scivolata

dal muro sulla ghiaia

una ruota gira ancora,

nel barattolo di latta

profuma il rosmarino,

una sedia a guardia della porta,

la vecchia chiave appesa a un chiodo.

Quanto tempo è passato.

Oltre l’andito in ombra

il cortile soleggiato

lo popolano le assenze.

Si muovono leggere

le tende alle finestre.

 

 

 

 

 

 

 

Dalle persiane per spiragli

aprendo gli occhi il giorno chiaro

lo vedi entrare nella stanza,

illumina a strisce le pareti.

Dei venditori ambulanti

risalgono la strada

le voci itineranti.

Come per nascondersi

dalla strada in pieno sole

nella penombra delle scale

si rifugiano i ricordi,

dai muri e dalle porte

trapelano le voci,

il suono della pendola

ha messo la sordina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’antico panorama non dimentica,

all’ultimo piano una finestra

guarda ancora dalla stanza,

oltre il fumo dei comignoli,

i monti annuvolati in lontananza.

All’ombra degli alberi,

su una panchina del viale,

vedevo quei vecchi

i pomeriggi d’estate, nei pressi

del monumento ai caduti,

aspettare la sera, seduti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con albe e tramonti, i santi e le lune,

sul calendario appeso al muro

i numerati giorni feriali

e festivi del mese di giugno.

Sulla credenza la sveglia scandiva

il tempo lento in cucina.

Delle persiane il verde

e delle porte, il rosso delle tegole

non sono più vivaci.

I colori delle case

nel paese che s’abbruna

impallidiscono sui muri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dalle colline discendono le ombre,

nei vicoli del borgo

si affrettano i ritorni.

Lo spazio del giorno si riduce,

camminiamo nell’ultima luce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono nato una sera di novembre

Alla notizia della morte

di mio nonno nella notte

mi aspettavo incombente

il cielo cupo di novembre,

invece il cielo mi sorprese,

azzurro quel mattino

dell’estate di San Martino.

Sono nato una sera di novembre

freddissima e piovosa,

solo il giorno dopo immagino

la prima volta d’aver visto

la luce bianca del mattino.

Ricorda un antico inverno

l’odore dei mandarini,

un calore buono di caldarroste

ritorna nelle mani.

Sparite le strade del paese,

i rami dell’olmo secolare

e i tetti delle case

sono carichi di neve.

C’era il mio stupore alla finestra

per il candore della neve

immacolata sulla piazza.

Una notte di dicembre

con il chiarore della luna

illuminava la mia stanza.

Non con una tormenta

ma a larghe falde lenta

sognavo che di notte

tornava al mio paese

la neve di una volta.

Dalla finestra al mio risveglio

immaginavo di guardare

muoversi fuori le figure

in bianco e nero, mute, nel mattino.

Oh, nelle fredde sere di dicembre

il giallo odoroso dei mandarini!

Lungo le strade del paese

contro i muri delle case

era ammucchiata la neve.

Sotto Natale, decorate

di palle colorate, di lucine

multicolori, le vetrine.

Si scivola, camminano prudenti

in fila indiana sul sentiero

scavato fra le case del paese

sommerso nella notte dalla neve.

Un lento scalpiccìo giunge alle porte.

Troppo presto per tornare,

bianca e soffice la piazza

incalpestata del castello,

alla luce rosa del tramonto

si può giocare ancora nella neve.

Erano di marzo le giornate

limpide e ventose,

quegli azzurri mattini,

cantava una ragazza alla finestra.

Chi gettò la luna nel rio,

chi la gettò?

La luna dell’amor mio…

Incantato in ascolto,

un bambino di sette anni,

nel cortile delle ortensie, io.

Per vicoli e cortili,

un giovedì mattina senza scuola

le corse strepitose dei bambini,

Ivo con me quel giorno

giocava a nascondino, mi ricordo.

Erano fantasiose

nei quaderni di allora,

puntavano in alto le elle

svettanti dei nomi

albero e nuvola

cielo e collina.

Dell’albero marroni

il tronco e i rami,

verdi le foglie come il prato,

il cielo azzurro e bianca

in cima al colle una casetta.

Come sognato appariva

nelle pagine del sussidiario

del colorato mondo dell’infanzia

il paesaggio immaginario.

Era finita la favola, “il sole

faceva capolino fra le nuvole”,

la maestra taceva e ci guardava,

fiorivano i banchi di sorrisi.

Alzando gli occhi dal quaderno

alla finestra, scoprivo la serena

bontà delle parole ”fra le nuvole

faceva capolino il sole”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Appena sveglio da bambino,

abbandonando il letto

silenzioso nel mattino,

cercavo di non esserci, sparivo.

Trattenevo il respiro, immaginavo

nelle stanze vuote la mia assenza.

Dolce una voce sussurrava dove

amore ti nascondi, dove?

Le righe bianche e blu

non sono sbiadite nel ricordo,

tu scosti la tenda e riappari,

il vano della porta ti risuscita

da dove ansiosi

ancora guardano i tuoi occhi

nel silenzio della strada.

A folate a ondate

irrompono improvvise

le urla e le rincorse,

dai vicoli straripano

le bande dei bambini,

trascorrono veloci,

si perdono le voci.

Nel silenzio del sole

sui muri delle case,

dell’ombra nelle stanze,

il fruscìo leggero

dei pochi panni appesi

con le mollette ai fili

da finestra a finestra

al vento nei cortili.

I rimbalzi ripetuti

del pallone sul selciato,

i richiami dei compagni

nel silenzio ritrovato

della penombra nella stanza

sembravano lontani.

Dall’ultimo tornante un colpo

di clacson ripetuto abbrevia

l’attesa ansiosa sulla piazza, annuncia

la gioia imminente: arriva,

arriva la corriera finalmente!

Staccava dal chiodo il cartellone

del film della domenica

appeso al muro del castello,

Il fornaretto di Venezia,

Catene o Tormento,

La muta di Portici

La cieca di Sorrento…

Non la figura non il volto,

della maschera del cinema

ricordo solo il nome, Poldo.

Risaliva lento la strada

poco dopo il tramonto.

 

 

 

 

 

 

Quei baci languidi, struggente

la musica sublime dei violini,

silenzio e buio, un attimo la notte,

la luce all’alba dalle tende

filtrava bianca nella stanza.

Ero un bambino, in braccio

a mia madre mi svegliavo,

sentivo il suo calore, mi assopivo,

vedevo come in sogno

le immagini reticenti,

misteriose dell’amore.

Stereotipi i saluti dalla piazza,

sfarfallio di mani e fazzoletti.

Lacrimosi o sorridenti

comunque erano commossi,

già nostalgici gli occhi ai finestrini.

Nel tardo pomeriggio partiva la corriera.

Suonando il clacson con la bocca

la rincorrevano i bambini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Genova

 

 

 


Lasciando i giorni chiari,

ariosi delle piazze,

nell’oscuro reticolo

dei vicoli i ricordi.

La mano sente l’umido del muro,

sbuca come dal buio nella luce,

il sole inonda il vicolo,

è quasi mezzogiorno, dici,

sono davanti a un negozio

di colori e vernici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È un ronzìo monotono il traffico.

Da una terrazza inondata dal sole

lo sguardo percorre la grigia

distesa dei tetti si alza

ai campanili alle torri discende

nell’ombra di vico Mattoni Rossi,

fra un brusìo crescente di voci

riaffiorando i ricordi.

Le mattine piovose d’ottobre

dei primi giorni di scuola,

un cielo grigio autunnale,

nei vicoli affollati d’ombrelli

la luce crepuscolare…

All’ora di cena, la sera,

entrava mio padre in cucina,

piove ancora, diceva.

Il letto, un comodino e pochi mobili

illumina un lampione dalla strada,

scopre forme mute nella stanza.

Sono imminenti sulle scale,

probabili i tuoi passi,

la maniglia della porta

sta per abbassarsi.

Nella casa di notte ammutolita

senti aprire e chiudere il portone,

scattare l’interruttore della luce,

salire l’ascensore,

mentre scivoli nel sonno,

continui a immaginare

i rumori del ritorno.

Di quei giorni la mia

solitudine inquieta

certi pomeriggi al cinema

seduto in platea

davanti allo schermo in attesa.

Spente le luci nella sala

dura qualche secondo

solo nel buio l’attesa

che sullo schermo affiorino

le immagini del mondo.

Corallo, Cristallo, Smeraldo,

i nomi dei cinema ricordo,

illuminavano le grigie

nei vicoli di Genova

domeniche invernali,

e il batticuore quando

sullo schermo apparivano

invincibili gli eroi,

condottieri e pirati

sceriffi e banditi

indiani e cowboy.

Nell’incipiente buio sparsi lumi

segnalano le case,

i fari delle macchine

percorrono le strade.

Oh, di domenica le sere

malinconiche d’autunno

piovose ai finestrini

dei tram dopo la festa!

Si apre il cancello, s’intravedono

i primi alberi di un viale.

A quest’ora d’inverno

ogni domenica, ricordo,

puntuale all’imbrunire

del giorno che finiva,

mi assaliva la malinconia.

Erano di marmo i gradini,

il corrimano di legno marrone

sentivo con la mano,

non c’era ascensore, salivo

una domenica le scale.

Dopo l’ultima rampa, più corta,

dal lucernario pioveva una luce,

era aperta una porta.

Dopo gli abbracci e i baci

sentivo i passi allontanarsi

scendevano le scale

da una finestra li guardavo

sotto una pioggia fine

uscire dal portone sulla strada

aprivano gli ombrelli

nel crepuscolo precoce

di una domenica d’ottobre.

Alla finestra ricordo

  • comincia a piovere, scendono

lente le gocce, rigano i vetri –

sonnolente le ore,

di un mattino brumoso

lo smorto chiarore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Finisce presto il pomeriggio,

del giorno impallidisce,

una domenica d’inverno,

la luce alla finestra,

cede la stanza alla penombra.

Sta diventando buio,

dobbiamo proprio andare, all’improvviso

frettolosi i congedi sulla porta,

sarebbero tornati

la domenica dopo, un’altra volta?

Era rimasto il buio

della notte nel vicolo,

nella cucina alla luce

fioca di una lampadina

intristiva la mattina.

Da una sera piovosa ritorna,

sta salendo le scale,

è sgocciolante l’ombrello.

Incornicia lo specchio all’ingresso

un uomo con sciarpa e cappello.

Dietro i muri i rumori

consueti e le solite voci,

da sotto le porte le luci.

Erano sottili

fitti i fili di pioggia

alla luce dei lampioni

nelle sere umide d’ottobre.

Dei passanti frettolosi

sotto gli ombrelli prevedibile

a breve termine il ritorno

a casa in tempo per la cena.

Attraversavo la piazza ventosa,

scendevo nell’oscura

solitudine di un vicolo.

Borzoli, Mele, Acquasanta,

Campo Ligure, Masone,

delle piccole stazioni

leggevo tutti i nomi,

salivano e scendevano

i pochi viaggiatori.

Un paesaggio di verdi colline

boscose riappariva alla luce,

a intervalli spariva nel buio.

Ricordo nel vagone

di terza classe di un treno

i sedili di legno.

 

 

 

 

Dal silenzio profondo

 


Il vetro di una finestra riflette

l’azzurro del cielo e una nuvola.

È una bella mattina d’aprile.

Disceso il vicolo, aperto il cancello,

ecco la casa e il cortile.

Il viottolo ombroso profuma,

scende a grappoli il glicine

dall’alto muro di cinta.

Alzando lo sguardo

si vedono soltanto

degli alberi le cime, e la torretta.

Nel parco la villa

chi passa la immagina

ne ascolta le voci.

L’altalena e la giostra sono ferme,

è sola al sole la panchina

nel parco di una villa

una domenica mattina.

L’ombra e il sole si spartiscono

la strada in salita tra le case,

i pomeriggi finiscono tardi.

Nella buona stagione

le porte sono aperte,

le donne sedute sulle soglie.

Con un fruscìo leggero

nella sera estiva

il vento fra le fronde

degli alberi del viale

sorvola la panchina.

Sta per finire il giorno.

Ecco la sera, appare alla finestra.

Ti avvolge la penombra nella stanza.

Il buio è di ritorno.

Il vento fa sbattere una porta.

Rintocchi lenti e gravi

sorprendono il paese.

L’immagine del giorno trascolora.

Il tonfo di una pietra,

lo sciabordìo dell’acqua

dal silenzio profondo

echeggiante del pozzo.

Se suonano a morto le campane,

una donna si affaccia alla finestra

e chiede chi. L’uomo si ferma,

alza lo sguardo dalla strada,

scuote la testa, si allontana.

La donna richiude la finestra.

Passa una vespa o una lambretta.

La finestrella della cucina

guardava il muro

grigio del vicolo

nell’ora del crepuscolo.

Qualcuno in quel momento

passava nella strada.

Una vecchia affacciata

alla finestra guardava.

Sibila vortica fischia

rade l’erba dei prati

fruga i cespugli

da strade e sentieri

solleva la polvere

spazza nei cortili le foglie.

S’è svegliato di soprassalto il vento

percorre la notte

incalza il tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Esce tre volte il cuculo

nel corridoio deserto

interrompe il silenzio.

Sono le tre del pomeriggio

lo saranno ancora domani

non lo saranno mai più.

Ridicolizza il passare del tempo

l’orologio a cucù.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tu non ci sei, sono lontane

persone e cose ormai,

traslocano nel nulla.

Oltre i vetri fuori

in attesa dei ricordi

le immagini a colori.

 

 

 

Giorni ariosi e vicoli oscuri

Un paese ci vuole. Non fosse altro per l’emozione di tornarci. Anche solo con la memoria, anzi, meglio solo con la memoria, se lo si vuole ritrovare.

Io non potrei scrivere poesie sul mio paese. Ho continuato a viverci dopo aver smesso da un pezzo di viverlo. L’ho visto dapprima lentamente trasformarsi, esplodere nell’ultimo quarto del secolo scorso e infine riaddormentarsi, ma di un sonno che somiglia molto al coma. Vivere dentro il cambiamento ha reso impraticabile la memoria: ha fatto sì che il passato si smarrisse nel presente. La poesia se n’è andata. Se voglio ritrovare qualche immagine devo scendere a valle: a San Giovanni riconosco ancora tutti, nelle foto sulle lapidi.

Per Tonino è diverso. Lerma è stata per lui ciò che Santo Stefano era per Pavese. L’ha vissuta nell’incanto infantile, l’ha sognata per lunghi inverni e l’ha ogni volta ritrovata nelle altrettanto lunghe estati dell’adolescenza. Ha gustato i profumi e i colori dei prati e delle vigne, cercato le penombre meridiane dei vicoli e dei boschi, goduto il refrigerio delle acque del Piota. L’ha colta in freddolosi flash invernali, in bianco e nero, sommersa dalla neve, comignoli fumanti e novena natalizia. L’ha disertata giusto in tempo per non vederla sparire.

I ricordi non sono diventati cartoline: anche quando si confondono con le illustrazioni del primo libro di lettura, o con le locandine dei film, rimangono impressioni. Nessuna edulcorazione, nessun ritocco. Niente pulcini pasquali, e nemmeno panorami in grandangolo dal belvedere. Sono dissolvenze appese alla memoria per un rumore di ruote sul selciato (o per un silenzio), per una luce che il vento fa filtrare tra le tende (o per un’ombra), per una panchina o per i pioli di una scala. Appena richiamate evocano Lerma, ma, e questo è il miracolo della poesia, non è già più la Lerma di Tonino: è anche la mia, la riconosco, finalmente.

E mi sorprendo. Mi sorprende soprattutto tornarci in corriera. Sulla corriera sono salito per otto anni, per nove mesi l’anno, alle sette meno un quarto del mattino. Mi risputava sulla piazza alle tre del pomeriggio, stanco, stravolto, nero dalla fame. L’avevo completamente rimossa. Per me viaggiare in corriera coincideva col tempo della scuola, con la necessità di lasciarlo, il paese, per entrare ogni giorno in un mondo estraneo, opprimente e incolore.

Per Tonino la corriera era invece il ritorno: già da Ovada, le vallate aperte dopo gli orridi e le gallerie dell’Appennino, e poi, passato Piota, la salita, le ultime tre curve già in piedi, a raccattar bagagli, il clacson prima della svolta finale, le mura del castello, la chiesa, la piazzetta, il ciapùn. Era il mezzo per viaggiare a ritroso nel tempo. Non solo: era il veicolo delle novità, ed egli stesso ad ogni ritorno era la novità.

Mi ero scordato il suono di quel clacson. Oggi i pullman non suonano più: non c’è più nulla da annunciare. Invece lo risento, e sono io quel viaggiatore in piedi che vede le galline e la scritta W BARTALI sul muro, e dice: “Che bello!” Caspita, avevo dimenticato anche la scritta, e persino le galline.

Perché per affinare i sensi e preservare la memoria ci vuole anche una città. Un luogo dal quale tornare. Meglio se esclusa allo sguardo da una corona di monti, ma rivelata di notte dal bagliore che riverbera sulle nubi, da una linea di luce soffusa che disegna a sud le creste. Chi rimane al paese può così immaginarla, trasferirci i suoi sogni: chi vi abita sa invece che il sogno lo ha lasciato alle spalle, e che Genova è il mondo. Aver chiara questa distinzione, affrontare, e magari periodicamente ripetere, il rito di passaggio, consente di staccarsi dall’infanzia senza perderla, riporla nel cassetto giusto, dal quale può essere ripescata intatta a distanza di tempo, come accade a Tonino. Significa prendere consapevolezza del mito, anziché continuare a viverci dentro, e rimanergli fedeli pur nella coscienza di vivere altrove. Nel mondo.

Quel mondo, la Genova di Tonino, è ancor meno cartolina della sua Lerma. La città è vista attraverso i vetri di finestre, finestrini di tram, lucernari, rigati da gocce di pioggia, nei crepuscoli o alla luce gialla dei lampioni: non ci sono né il Righi né la Lanterna, e neppure il porto. Non arriva mai il rumore del mare a stringerci il cuore. È soprattutto una città di interni: mura discrete di appartamenti, androni, scale, cinema “Cristallo”…. O quelle umide dei vicoli.

La claustrofilia di queste immagini non mi ha sorpreso, ma non l’ho letta come un contrappunto in negativo alle solarità lermesi. Certo, i viottoli che riescono alla cima dei poggi, a cieli azzurri o al fiume, lasciano il posto alle ombre crepuscolari dei vicoli, i vecchi seduti immobili contro il sole ai passanti frettolosi sotto la pioggia, il bianco della polvere o della neve alle brume e alle luci fioche delle auto e delle lampadine domestiche. Ma immagino che per un ragazzino di recente immigrazione Genova non potesse essere che così, non potesse che esercitare un fascino misterioso e diverso: attrarre e respingere al tempo stesso, indurre a cercare rifugio in casa e a coltivare sogni sui manifesti dei film, ma con l’orecchio curioso al fuori, ai passi sul marciapiede, all’ascensore che sale, al brusìo incessante del traffico. È Genova prima della sua scoperta.

Questa la città che Tonino ha riposto nel cassetto adiacente a quello lermese, prima ancora di uscire per strada e di incontrare il mondo, e di sapere che anche di lì si sarebbe allontanato. Una città autunnale, grigia e piovosa, vissuta in malinconia e solitudine; eppure squarci di sole rivelano dalla terrazza le torri, i campanili e i reticoli che attizzano la fantasia. Una promessa per la prossima primavera.

Nel buio di quei cassetti le sensazioni si sono conservate nitide, e Tonino può rievocarle senza il pericolo che virino in seppia. È il miracolo della poesia, dicevo. In realtà la poesia non è un miracolo: non scende dal cielo come la Pentecoste. È frutto di sensibilità, certamente, ma anche e soprattutto di educazione della parola e nei confronti della parola. Nasce dal non detto, più che da ciò che si dice: dall’umiltà di lasciare che siano le cose a parlare, nel loro linguaggio semplice, senza cacciare loro in bocca significati che le soffocano. Il miracolo semmai lo compie (ed è poesia, appunto, solo quando lo compie) se quelle cose, quelle immagini, quei suoni ti riescono immediatamente famigliari, che tu abbia vissuto o meno a Lerma, o a Genova, perché in qualche modo le hai comunque desiderate e sognate, e continui a rimpiangerle. Lo compie se ti porta a salire, come fanno i versi di Tonino, sulla corriera del tempo.

Paolo Repetto