Escursioni filosofiche

di Carlo Prosperi, 21 settembre 2021

Escursioni filosofiche copertina

L’approccio filosofico

1 – Introduzione: della “razionalità” e della “plasticità” dell’uomo

2 – Dell’economia politica come scienza sociale

3 – Alle radici della fisiocrazia: la filosofia di Cartesio e l’“ordine naturale” della società

4 – Miserie dello storicismo

5 – Totalitarismo e società aperta

6– Dal kantismo di Cournot e Walras al neoempirismo

7 – La filosofia politica da Rawls al trionfo della globalizzazione

L’approccio etico

1 – Alle origini dell’economia

2 – La nascita dell’”economia politica”: dalla jealousy of trade alle alternative dell’utopia

3 – Adam Smith e la riflessione sulla morale nell’illuminismo inglese

4 – Adam Smith e la tradizione dell’umanesimo civile

5 – Diritto naturale e civiche virtù: dal Leviatano alla Favola delle api

6 – L’utilitarismo e l’homo oeconomicus

7 – Stefano Zamagni e la teoria economica relazionale

8 – Per un’etica della previsione e della responsabilità

Bibliografia

Tre interventi su economia e letteratura

Qualche considerazione sul pensiero economico di Ezra Pound (e altro)

Gianni Repetto, La comunità invisibile. Il “lungo addio” alla ruralità, Ed. Impressioni Grafiche, Acqui Terme

Camilla Salvago Raggi, Di libro in libro, la vita, Il Canneto Editore, Genova 2014

 

L’approccio filosofico

1 – Introduzione: della “razionalità” e della “plasticità” dell’uomo

L’uomo è un animale razionale. Detto così, più che una verità, può sembrare una banalità, ma è bene ribadirlo, perché spesso, all’atto pratico, si tende a dimenticarlo o, peggio, a sottovalutarne la portata. La ragione consente all’uomo di intelligere e di cogitare: di comprendere e di pensare, e quindi di conoscere e di conoscersi. La ragione, in altri termini, è alla base della scienza e della coscienza. Intelligere non valemus, nisi rationem habemus, dice Sant’Agostino. E se la coscienza è, in primis, l’atto mentale con cui l’io è presente a se stesso, è chiaro che essa si contrappone all’istinto: un impulso interiore, questo, che porta ad azioni aventi un fine preciso non presente alla coscienza dell’agente. Il comportamento istintivo è infatti indipendente dall’intelligenza ed asseconda meccanicamente un’inclinazione o una disposizione congenita. Operari sequitur esse, dicevano gli Scolastici a denotare, appunto, la puntuale corrispondenza tra modo di essere e modo di agire che non lasciava spazio alcuno al libero arbitrio. Gli animali agiscono in conformità al proprio essere. L’agire umano, invece, non è, di norma, istintivamente determinato come quello degli animali, in quanto l’intelligenza può intervenire a correggere, regolare e finanche a reprimere gli istinti. La consequenzialità delle sue azioni non è, in genere, di tipo meramente meccanico, perché a dirigerla entra in gioco la libera intenzionalità. Lo spiega assai bene Rousseau nell’Origine della disuguaglianza: “La natura comanda a tutti gli animali, e la bestia obbedisce. L’uomo subisce la stessa pressione, ma si riconosce libero di sottostarvi o di resistervi; la spiritualità della sua anima si manifesta soprattutto nella coscienza di questa libertà: infatti la Fisica riesce in qualche modo a spiegare il meccanismo dei sensi e la formazione delle idee, mentre nella facoltà di volere, o meglio di scegliere, e nella coscienza di questa facoltà non si trovano che atti spirituali che non si spiegano in alcun modo mediante le leggi della meccanica”. L’intelligenza, nel caso dell’uomo, progetta e orienta liberamente l’azione[1], che sfugge quindi alla logica tutto sommato semplicistica dei deterministi. La razionalità umana è complessa e si esprime in forme spesso creative. O si adegua – ma cum grano salis – a certe idee, a una visione del mondo, a modi di pensare che, con maggiore o minore consapevolezza, condivide. La natura umana è sempre di secondo grado: è cioè il risultato, di volta in volta variabile, di un’incessante dialettica tra natura e cultura.

Con questo non intendiamo misconoscere o negare il ruolo e l’importanza dell’inconscio, ma ci rifiutiamo semplicemente di credere che la vita dell’uomo sia diretta da esso o, comunque, da un’incoercibile e cieca Voluntas, dinanzi a cui la ragione si ritrovi affatto impotente. Ci rifiutiamo insomma di credere che la ragione intervenga sempre ex post, a cose fatte, ad escogitare vane giustificazioni razionali a comportamenti istintivi (razionalizzazioni). La ragione non è – come la filosofia di Hegel – la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo. È vero che l’uomo non si comporta sempre in modo logico, ma di qui a generalizzare – come fa ad esempio Pareto quando nel Trattato di sociologia generale sostiene che le azioni umane sono per lo più non-logiche, ispirate cioè da “residui” (appetiti, gusti e disposizioni, espressioni di sentimenti e di stati d’animo, grosso modo paragonabili agli istinti animali), e quindi ammantate di una parvenza di razionalità grazie alle “derivazioni” (sistemi intellettuali di giustificazione) – fino al punto di considerarlo come un essere irragionevole e raziocinante ce ne corre. “Gli uomini hanno una tendenza spiccatissima a dare una vernice logica alle loro azioni”: questo vuol dire che i moventi e il significato dei loro atti e dei loro pensieri non sono sempre quelli da loro ammessi o dichiarati. Ma ciò dipende soprattutto dal fatto che le logiche di fondo – quelle vere – non sono talora confessabili: per motivi di opportunità, di cortesia, di riservatezza…

Per le stesse ragioni non condividiamo nemmeno il materialismo storico quale viene teorizzato da Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca, con la sua pretesa di vedere nelle idee (giuridiche, morali, filosofiche, religiose, ecc.) un mero riflesso o la giustificazione di determinate strutture economiche. Certamente le basi materiali contano, nel senso che incidono sul modo di pensare e pertanto condizionano il pensiero, ma restiamo dell’idea che in ultima analisi sia la coscienza degli uomini, e non semplicemente l’assetto economico-sociale, a determinarne l’essere. L’homo faber è tale perché grazie al suo ingegno riesce a modificare (e a umanizzare) l’ambiente in cui vive: il suo “fare” è eminentemente progettuale, guidato e sorretto dal pensiero e, come tale, in grado di trascendere creativamente le situazioni, di trasformarle in maniera anche radicale. In questo senso, si può davvero concordare con gli antichi che, almeno entro certi limiti, ritenevano l’uomo artefice del proprio destino. Non ignoriamo, d’altronde, che nei testi marxiani manca un’esplicita indicazione dei confini esatti tra struttura e sovrastruttura, con la conseguenza che su di essi e, più in generale, su come intendere il rapporto tra i due piani si è imbastita, nel tempo, una discussione senza fine. Contro le deformazioni del cosiddetto “marxismo volgare” e a favore di una più articolata riconsiderazione dell’influenza del momento economico sulle teorie politiche, giuridiche, filosofiche, nonché sulle concezioni religiose e artistiche si pronunciò chiaramente Engels. In una lettera a J. Bloch del 21 settembre 1890, ad esempio, scrisse: “La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura […] esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca di tutti questi fattori, ed è attraverso di esse che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali”. La puntualizzazione, a dire il vero, non dissipava ogni dubbio, perché alla concessione di una possibile preponderanza del ruolo che avrebbero talora gli elementi sovrastrutturali nell’evoluzione della storia fa subito seguito il loro declassamento al rango di meri accidenti, laddove del momento economico viene ribadita la “necessità”. A ben vedere, quindi, l’asimmetria del binomio “struttura-sovrastruttura”, lungi dall’essere superata, era semplicemente trasposta, con verbale escamotage, nel più classico binomio “sostanza-accidente”.

Se, dunque, l’uomo tende naturalmente a vivere come pensa, la sua coscienza non può limitarsi a rispecchiare il mondo. Né la sua natura è rigidamente determinata, soggetta a leggi meccaniche. Nel suo discorso De hominis dignitate lo espresse in maniera esemplare Giovanni pico della Mirandola: “Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio [a quel punto della creazione non gli restava infatti alcun archetipo su cui foggiare la nuova creatura, né aveva più a disposizione alcun tesoro o alcun luogo specifico da aggiudicargli] fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri esseri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: «Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine»“[2]. Con l’uomo entra nel mondo (e nella storia) l’imponderabile.

Ostinarsi a studiare l’uomo e la società come se essi sottostessero in tutto e per tutto alle leggi naturali che governano la materia ci sembra pertanto un errore. Gli stessi fattori della produzione, per quanto importanti, non possono, da soli, spiegare né il funzionamento della società né l’evoluzione della storia umana. L’uomo non è una macchina, e nemmeno una mosca cocchiera. Dotato di libertà e di intenzionalità, egli è in grado di autodeterminarsi. Kant, ad esempio, chiama autonomia della volontà la libertà della volontà razionale di dare leggi a se stessa, e ne fa anzi il fondamento dell’autonomia della legge morale. Certo la libertà dell’uomo non è assoluta, sia perché deve fare i conti con i limiti intrinseci dell’individuo, sia perché trova essa stessa un limite nella libertà altrui. Di qui – dalla dialettica che ne scaturisce – anche l’eterogenesi dei fini, per cui non di rado le azioni umane conseguono scopi diversi da quelli perseguiti. E tutto questo la dice lunga sulla estrema complessità dell’uomo e della società, che non sono realtà sic et simpliciter naturali, governate da leggi fisiche sostanzialmente inalterabili, bensì fenomeni storici e culturali che assumono di volta in volta connotazioni affatto originali, irriducibili – al di là di qualche superficiale somiglianza o di qualche approssimativa analogia – a un minimo comun denominatore.

Non solo, ma l’attività umana, proprio in quanto creativa, nel tentativo di risolvere gl’innumerevoli problemi che le circostanze e il divenire storico propongono, si sviluppa in diverse direzioni e in ambiti che, per quanto specifici e tra loro diversi, sono pure interconnessi, collegati tra loro. Può essere comodo e utile studiarli e considerarli separatamente, nella loro specificità, ma non va dimenticato che in realtà tout se tient, che l’uomo è sì dotato di una personalità poliedrica, per cui convivono in lui – homo faber – l’homo oeconomicus, l’homo politicus, l’homo ethicus, l’homo ludens e via distinguendo, ma ognuna di queste specificazioni, isolatamente presa, è un’astrazione. L’uomo in carne e ossa è sostanzialmente uno, anzi è un individuo. E tale rimane pure nelle sue manifestazioni sociali, quantunque la società non sia semplicemente una somma di individui. Pertanto le scienze sociali non sono o, meglio, non dovrebbero essere dei comparti stagni, tra loro incomunicabili. La gelosia che spesso induce gli scienziati a rinserrarsi nel loro sempre più ristretto hortus conclusus o – come si suol dire – a coltivare il proprio orticello senza curarsi di quanto avviene all’intorno, li porta fatalmente a perdere i contatti con il mondo reale, in cui nondimeno vivono e di cui subiscono inevitabilmente (e magari inopinatamente) i contraccolpi, le influenze, i pregiudizi. L’uomo a una dimensione che essi studiano è, in realtà, una larva o, tutt’al più, un homunculus da laboratorio, deprivato della sua intima sostanza, del suo mistero (individuum est ineffabile!), della sua umanità e ridotto quindi a mera istanza funzionale.

Questo è particolarmente evidente nell’ambito della moderna scienza economica, dove, a cominciare, grosso modo, dalla cosiddetta “scuola neoclassica”, si è avuto una duplice deriva: da un lato, infatti, ha preso a sfaldarsi la visione unitaria della disciplina, la quale, da generale che era, si è andata via via suddividendo in tante branche secondarie; dall’altro, assimilando l’economia politica pura, “ossia – come dice Walras nei suoi Eléments d’économie politique pure – la teoria del valore di scambio e dello scambio”, alla meccanica e all’idraulica, si è fatto di una scienza sociale “una scienza fisico-matematica”. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. La specializzazione ha senz’altro portato ad un affinamento delle competenze, ma, nello stesso tempo, con la sua parcellizzazione disciplinare ha contribuito a indebolire la forza complessiva dell’indagine economica: gli approfondimenti settoriali si sono inevitabilmente tradotti in un restringimento, talora preoccupante, degli orizzonti conoscitivi[3], tanto da far dire a qualche bello spirito che gli specialisti si distinguono dalle persone comuni perché sanno tutto su nulla. Battute a parte e pur senza condividere l’opinione di George Bernard Shaw, per cui lo specialista sarebbe, “a rigor di termini, un idiota”, temiamo che alla specializzazione possa seguire la disgregazione culturale, cioè “la disgregazione più radicale di cui una società possa soffrire”. Profetiche parole di Thomas Stearns Eliot, che adombrano il rischio sempre incombente di una nuova Babele.

2 – Dell’economia politica come scienza sociale

C’è qualcosa di narcisistico nel geloso arroccarsi di certi specialisti nelle loro torri d’avorio, lontano dai problemi concreti degli operatori economici. Le ricerche che essi perseguono sono talora così “pure”, vale a dire così avulse dalla realtà quotidiana, che non sono di alcuna utilità pratica, ma si risolvono in modelli astratti che, per quanto impreziositi dal sistematico ricorso alla matematica e alla statistica, sono impotenti a spiegare il funzionamento reale dell’economia. Già negli Anni Cinquanta del Novecento Joan Robinson lamentava che i suoi colleghi economisti si trincerassero dietro “siepi di algebra” per dissimulare la fragilità dei loro assunti e delle loro argomentazioni accademiche. A volte si ha il sospetto che tanto sfoggio di competenze matematiche celi in realtà un complesso d’inferiorità dell’economista nei riguardi, appunto, degli scienziati puri, di cui si ammira e magari si invidia il rigore logico, l’asetticità dei procedimenti, l’incontrovertibilità dei risultati[4]. Ma è un complesso d’inferiorità che non ha ragione di essere, in quanto matematica ed economia si muovono in ambiti radicalmente diversi: tanto la prima è autoreferenziale, quanto la seconda è aperta al mondo, attenta al comportamento umano, intesa a individuare nel fluido e complesso ambito sociale della produzione e degli scambi commerciali delle regolarità, delle tendenze (trends), ma anche eventuale variabili. In altre parole, le costanti che gli economisti riescono a cogliere nei fenomeni da loro indagati non hanno, in genere, “la validità salda, generale e permanente delle leggi di natura”. L’economia non è una scienza naturale, bensì una scienza sociale, e nell’universo sociale – come abbiamo già avuto modo di accennare – i fatti e le loro relazioni hanno ben altra complessità che non i fatti e i rapporti dell’universo fisico. “In questo senso – scriveva Gunnar Myrdal in Controcorrente. Realtà di oggi e teorie di ieri – gli scienziati naturali si trovano indubbiamente di fronte a problemi più semplici, e in merito ai quali si può raggiungere una conoscenza definita, intemporale, universalmente valida, quindi generalizzabile”. E aggiungeva che il comportamento umano – oggetto delle scienze sociali – “non è costante come il moto dei corpi celesti o delle molecole. Dipende, ed è determinato, dal complesso delle condizioni di vita e delle istituzioni in cui si trovano gli individui, e dai loro atteggiamenti così come quelle condizioni di vita e quelle istituzioni li hanno plasmati nell’atto stesso in cui vi reagivano”. Ora, questi fenomeni “sono sensibilmente diversi da luogo a luogo e da gruppo a gruppo. Né sono stabili nel tempo, anzi mostrano differenti e variabili combinazioni di mutevolezza e di rigidità, essendo persino difficili da definire, osservare e misurare come fatti in un punto particolare del tempo e in una situazione specifica”.

Inoltre, mentre nelle scienze che utilizzano il metodo sperimentale è possibile valutare con precisione che succede quando si fa variare, ad libitum, un solo fattore causale fra i tanti che si ritengono potenzialmente rilevanti (e stabilire quindi un nesso consequenziale certo tra l’effetto emerso e quel singolo fattore), non altrettanto è possibile nelle scienze sociali, vuoi – come già notava John Stuart Mill (Sulla definizione di economia politica, pp. 122-123) – “per l’immensa molteplicità delle circostanze influenti”, vuoi “per le nostre scarse possibilità di variare l’esperimento”. Egli si chiedeva, ad esempio, “come possiamo ottenere un esperimento decisivo a proposito dell’effetto sulla ricchezza nazionale di una politica commerciale restrittiva? Dobbiamo trovare due nazioni uguali sotto ogni altro aspetto o che almeno possiedano in misura esattamente uguale tutto ciò che contribuisce alla ricchezza nazionale, e che adottino la stessa politica in tutti gli altri loro affari e si differenzino solo in questo, che una di esse adotta un sistema di restrizioni commerciali, mentre l’altra adotta il libero scambio. […] Ma si consideri quanto infinitamente varie e numerose sono le circostanze che direttamente o indirettamente influenzano o possono influenzare l’ammontare della ricchezza nazionale e ci si chieda quindi quante probabilità vi siano, nel lungo svolgersi degli anni, di trovare due nazioni che collimino, e ciò si possa dimostrare, in tutte le circostanze tranne una”. In modo analogo Francesco Guicciardini (Ricordi, 110) criticava chi – come Machiavelli – rivendicava la legittimità di richiamarsi all’esempio degli antichi: “Quanto si ingannano coloro che ad ogni parola allegano e Romani. Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo; il quale, a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo”. Per questo, in vista di un approccio scientifico al mondo della contingenza – quale è quello della politica e dell’economia – è bene affiancare la “discrezione” alla ragione”, perché, mentre questa mira a cogliere ciò che è comune nelle cose, mantenendosi su un piano astratto, quella coglie invece ciò che vi è nelle cose di diverso, sul piano della concretezza. Tale distinzione ricorda, del resto, quella pascaliana tra esprit de géométrie ed esprit de finesse.

Se vogliamo che l’economia ritorni ad essere una scienza in grado di interpretare con autorevolezza il comportamento dell’uomo nella sfera, appunto, della produzione e degli scambi commerciali, analizzandone gli agenti, i mezzi, le modalità, i processi, gli sbocchi, sì da metterne a fuoco sia i punti di forza sia le eventuali pecche (e consentire così tempestivi interventi correttivi o migliorativi), dobbiamo riaprirla al dialogo e al confronto con le altre discipline. Nessuno può più mettere in discussione l’interazione dell’economia con le altre scienze sociali. E visto che sui fenomeni sociali influiscono vari fattori – da quelli giuridico-istituzionali a quelli politici, sociologici, etici, religiosi, ecc., senza ovviamente trascurare la storia e la geografia -, per indagarne a fondo le cause è bene servirsi di tutti gli strumenti e di tutte le tecniche disponibili, magari mutuandole, all’occorrenza, da altre discipline, più o meno affini. Anche dalla matematica, se necessario. L’importante è che non diventi un’ossessione.

Si tratta insomma di ritrovare il coraggio dell’umiltà. Anche per evitare che l’approccio economico al comportamento umano degeneri in quello che è stato definito “imperialismo economico”. Si pensi, ad esempio, al clamoroso caso di Gary M. Becker, che nel 1992 ha ottenuto il premio Nobel per l’economia in virtù del suo The Economic Approach to Humane Behavior, sviluppato quindi in un’opera specificamente dedicata alla famiglia: A treatise of the Family. Retaggi culturali, idee religiose, pratiche contraccettive, lavoro femminile, vale a dire i fattori cui storici e sociologi addebitano in genere il variare dei tassi di natalità, sono intenzionalmente accantonati come ininfluenti, mentre determinante, secondo Becker, sarebbe anche in questo ambito il calcolo economico. Per lui, infatti, le famiglie sono delle unità produttive: chi mette su famiglia lo fa per incrementare la produttività. E in questo senso, sia il coniuge sia la prole si possono considerare dei beni: da produrre e/o per produrre. Anche senza essere kantiani, troviamo alcunché di sconcertante in questo disinvolto modo di degradare – in nome di una presunta asetticità della scienza – le persone da fini a mezzi. E sarà anche vero che, per ragioni economiche, la qualità dei figli è inversamente proporzionale alla loro quantità, ma ci sembra sinceramente semplicistico vedere negli incentivi economici la panacea per ovviare a ogni eccesso demografico. In casi del genere si rischia un acritico riduzionismo. Quando poi Becker spiega la poligamia come l’esito naturale di un mercato matrimoniale basato sulla legge della domanda e dell’offerta o parla della libera scelta della donna di aggregarsi a una famiglia più produttiva, non solo ricorre consapevolmente, “a fini predittivi”, ad una “finzione” – diciamo – procedurale, che non ha alcuna reale corrispondenza nella realtà, ma, sulla base di tali irrealistici assunti, pretende pure, con ineffabile disinvoltura, di “fornire consigli di politica sociale” (ad esempio, di abolire le leggi contro la poligamia, per certi versi assimilate alle leggi segregazioniste), contrabbanda capziosamente per scientifiche delle convinzioni ideologiche. Come ben dimostra Francesco Guala in Filosofia dell’economia. Modelli, causalità, previsioni, osservando che nelle società addotte da Becker a sostegno della sua teoria “la poliginia si accompagna quasi sempre all’istituzione del matrimonio combinato” (p. 108), e pertanto non ha senso parlare di “libera scelta”. E non è legittimo escludere dal gioco, in questo caso, le norme sociali, le preferenze individuali, il peso delle istituzioni o della tradizione: tutte cose che hanno una rilevanza fondamentale, ma che Becker trascura per adeguare l’irriducibile complessità della realtà sociale al letto di Procuste della teoria economica.

Se poi pensiamo che l’economia politica per lungo tempo non è esistita come disciplina autonoma, in quanto costituiva semplicemente un ramo della filosofia morale, ci rendiamo subito conto dei vitali legami che, oggi come ieri, tra di esse intercorrono. È stato osservato che “alcuni dei più importanti progressi scientifici in economia sono stati il risultato di dibattiti politici intorno alla politica sociale. Sotto questo aspetto l’economia, come ogni altra scienza sociale, differisce radicalmente dalle scienze fisiche e biologiche, le quali sono cresciute passo passo dai fatti e dall’evidenza sperimentale fino a divenire teorie più generali. Nell’economia, invece, il passo normalmente lento del progresso scientifico è stato spesso reso veloce dai grandi dibattiti politico-filosofici. I vari sistemi ideologici – ciascuno con il suo corredo di fatti provati e di ipotesi e col suo corpo di teorie – hanno fornito un buon contributo allo sviluppo della dottrina economica” (Fusfeld, p. 11). Diciamo, allora, che tra le ideologie e la scienza economica vi è sempre stato un reciproco influsso: se “l’economia scientifica è stata forgiata nel fuoco del dibattito ideologico” (p. 12), per quanto si cerchi di mantenerla “pura”, continuerà a suscitare ondate di emozioni e a influenzare i grandi dibattiti ideologici sul modo di organizzare il consorzio umano. Non solo, ma se vuole essere di qualche utilità, “la teoria economica di un’epoca deve collimare con le altre credenze e con gli interessi della gente. Deve produrre risultati utili e significativi” (p. 13). Senza presumere di essere la panacea universale, perché una teoria valida in una determinata epoca storica non è certo la teoria definitiva, tanto che non cancella e non annulla una volta per tutte il valore delle teorie che l’hanno preceduta. In questo senso si può dire – con Zamagni – che “la scienza economica non è una scienza darwiniana” (cfr. Bruni 1996, p. 43).

All’inizio del nostro discorso parlavamo della razionalità dell’uomo; vorremmo ora precisare che per razionalità non intendiamo tanto quella stringente e rigorosa della logica di tipo matematico quanto, piuttosto, la capacità di distinguere e di connettere le cose apprese (Ratio est mentis motio ea quae discuntur distinguendi et connectendi potens, diceva nel De ordine Sant’Agostino); la capacità, anche, di dominare ed orientare le proprie passioni (cfr. Spinoza, Ethica, IV) in vista di determinati scopi. Per restare all’economia, chi produce o distribuisce dei beni non si limita a correlare razionalmente certi mezzi a certi fini, ma inquadra o inserisce la sua attività in una visione del mondo, asseconda più o meno consapevolmente una mentalità, dei gusti, delle tendenze (che possono essere – e sono – oggetto di indagine razionale), e tutto questo ha inevitabilmente delle ripercussioni sul modo di produrre. I nostri “desideri” sono illimitati, ma, siccome le risorse a nostra disposizione sono limitate, siamo continuamente costretti ad operare delle scelte, cioè “dare un ordine di priorità ai nostri desideri e decidere quali cercare di soddisfare e quali sacrificare”. Ebbene, la scelta “viene fatta da società e individui non solo in base a considerazioni economiche. Anche qui elementi politici, religiosi, etici, sociali e di costume, entrano di continuo in gioco e influenzano in maniera determinante la formulazione di un determinato ordine di priorità” (Cipolla, pp. 28-29). Il pensiero, le disposizioni d’animo, il modo stesso di concepire la vita e di vedere il mondo orientano e condizionano l’attività dell’uomo, lo aiutano a comprendere il suo ruolo nella società, nonché a procedere oltre, verso nuove mete e nuove acquisizioni. Anche cognitive. “La filosofia – diceva infatti Michel Foucault – è il movimento per cui ci si distacca – con sforzi, esitazioni, sogni e illusioni – da ciò che è acquisito come vero, per cercare altre regole del gioco”. Ma una “filosofia di vita” può pure essere di segno negativo e indurre alla rassegnazione, alla passività, alla rinuncia. Il fatalismo, ad esempio, può ingenerare sfiducia e apatia: se “le cose del mondo” sono “in modo governate dalla fortuna o da Dio, che gli uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno”, questi – secondo Machiavelli (Il Principe, 25) – “potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte”. Chi lavori senza prospettive, da alienato, o sotto l’influsso di una “ideologia” nichilistica o comunque pessimistica non raggiungerà gli stessi risultati di chi, viceversa, sia mosso da grande entusiasmo o creda nella possibilità di migliorare la propria condizione, se non, addirittura, di incidere positivamente sui destini del mondo. Per questo diciamo che la filosofia è importante: essa spiega, entro certi limiti, sia il cupio dissolvi di chi dispera, sia l’ambizione prometeica o faustiana dell’homo technologicus, il luddismo non meno dello stachanovismo.

Se dietro l’economia si sono sempre delle pulsioni psicologiche e culturali, dietro le teorie economiche c’è un percorso filosofico, una visione del mondo. La stessa attrezzatura metodologica è in gran parte di derivazione filosofica. Per questo non basta studiare i fenomeni economici come se fossero monadi senza porte e senza finestre, avulse da ogni contesto: bisogna guardare molto più in profondità i fenomeni sociali, cogliendone e districandone la complessità. E quando si dice che l’economia è guidata dal mercato, non va dimenticato che il mercato è in funzione della scala dei valori di volta in volta in auge ed è pur sempre espressione di una Weltanschauung che risente dello spirito del tempo.

Del resto, come è stato giustamente riconosciuto (Guala, p. 206), economia e filosofia “si incontrano in tre grandi aree problematiche – etica, razionalità e metodologia”. E dal loro dialogo possono derivare reciproci vantaggi: tutti i grandi economisti hanno scritto libri e articoli filosofici che hanno esercitato un’influenza notevole non solo sulle loro teorie economiche, sì anche sulle idee dei loro colleghi. Marx mutua dalla dialettica hegeliana, da lui opportunamente letta in chiave materialistica e rovesciata, sulla scia di Feuerbach, la concezione della storia (il materialismo storico) che innerva non solo la sua teoria economica ma anche la sua sociologia. Milton Friedman si è ispirato, a più riprese, alla filosofia di Popper; gli studi filosofici di Keynes hanno inciso in profondità tanto sulla sua teoria della probabilità quanto sulla sua teoria economica; Samuelson deve molto della sua teoria delle “preferenze rivelate” al positivismo logico… L’economia, dal canto suo, “è stata in grado di giungere a una definizione precisa e rigorosa di un concetto – la razionalità – antichissimo ma considerato sfuggente e multiforme dai filosofi. Uno dei grandi dibattiti in filosofia dell’economia riguarda proprio la questione se la razionalità economica catturi l’idea normativa che intuitivamente governa le nostre azioni e i nostri ragionamenti”.

3 – Alle radici della fisiocrazia: la filosofia di Cartesio
e l’“ordine naturale” della società

A difesa della proprietà privata, demonizzata dai fautori della comunanza dei beni, si erge il filosofo inglese John Locke (1632-1704). È vero – egli scrive – che Dio ha dato il mondo agli uomini in comune; tuttavia “ogni uomo ha una proprietà nella sua individuale persona. La fatica del suo corpo e l’opera delle sue mani sono propriamente sue. Noi possiamo dunque dire che, ogni volta che l’uomo rimuove una cosa dallo stato in cui la natura l’ha creata e lasciata, egli vi ha mischiato il suo lavoro, ha aggiunto ad essa qualcosa che è suo e perciò ne ha fatto una sua proprietà”. In altre parole, sia la ricchezza sia la proprietà privata sono prodotti simultanei del lavoro umano. Senza sforzo produttivo, i beni naturali non hanno valore. Dal che discende che la vera fonte della ricchezza è l’operosità umana, anziché il commercio o l’agricoltura. In genere è il lavoro a determinare il valore dei prodotti e delle stesse terre, le quali, senza di esso, non varrebbero quasi nulla. Certo i prezzi delle merci dipendono anche dal rapporto tra domanda e offerta, ma l’utilità e la scarsità dei beni non sembrano avere la stessa incidenza del lavoro nel determinarne il valore. Nella società tutti hanno dunque l’obbligo di lavorare, giacché suo scopo precipuo è proprio quello di produrre la maggior quantità possibile di cose utili. Per il resto, Locke non si preoccupa della ripartizione dei beni, ma si limita ad osservare che se l’originaria appropriazione della terra trovava la sua naturale misura nella possibilità dei singoli di coltivarla e di consumarne i prodotti, questo non vale più da quando si è inventata la moneta: da allora, infatti, non solo è divenuto possibile un illimitato accumulo di ricchezze, ma gli uomini “hanno consentito che si addivenisse a un possesso non proporzionale e ineguale della terra”. Orbene, la filosofia sociale lockiana ha avuto un impatto enorme sui maggiori economisti inglesi dell’epoca classica (Smith, Malthus, Ricardo), che la fecero propria; essa consentì inoltre di “elaborare alcune importanti proposizioni intorno al valore dei beni, che aprirono e prepararono appunto la strada alle più complesse analisi della scienza economica” (Denis, pp. 171-172).

Nelle sue Considerazioni sul ribasso dell’interesse e sul rialzo del valore della moneta Locke rigetta il ricorso a misure legislative intese a modificare dall’alto l’interesse del denaro, poiché di tale interesse esisterebbe, secondo lui, un “tasso naturale”. Allineandosi in questo ai mercantilisti, egli giunge a stabilire un nesso causale tra l’abbondanza di denaro e la diminuzione del saggio dell’interesse. Non la penserà così David Hume, che, anticipando una tesi di Smith e di Ricardo, in un apposito saggio Sull’interesse del denaro collegherà invece tale diminuzione all’entità dei profitti realizzati nel commercio e nell’industria. Anche per lui, tuttavia, il lavoro giustifica la proprietà (che pure non ritiene un “diritto naturale”), così come, del resto, l’utilità giustifica le sperequazioni sociali. In un passo riportato da J. A. Schatz (pp. 106-107) leggiamo infatti: “Si deve certo riconoscere che quando abbandoniamo l’eguaglianza, opprimiamo il povero ancor più di quanto non si riesca a soddisfare il ricco; anzi, accade sovente che un solo uomo soddisfi la propria frivola vanità a danno di un gran numero di famiglie e persino di intere province […]. Tuttavia, si cerchi pure di regolare le proprietà secondo il principio della massima eguaglianza possibile, accadrà sempre che le differenze che sussistono tra le arti, le scienze e le industrie, finiranno ben presto per distruggerla. Se si bloccano le umane virtù [vale a dire le qualità attive degli individui] nelle loro operazioni, si porta rapidamente la società all’estrema miseria, e per impedire che un numero limitato di uomini cada nell’indigenza, vi si fa piombare alla fine la società intera”.

Per il resto Hume da un lato riconosce (e ricostruisce storicamente) il ruolo determinante svolto dal commercio internazionale nello sviluppo delle nazioni europee, ma dall’altro ritiene che, una volta acquisita una situazione di ricchezza, la società ne possa benissimo fare a meno. È una tesi, questa, che si oppone alle conclusioni pessimistiche di alcuni mercantilisti (come Richard Cantillon) convinti che, “quando uno Stato ha raggiunto l’apogeo della ricchezza, inevitabilmente ripiomba nella povertà”, giacché l’eccessiva abbondanza di denaro, “che, sino a quando dura, fa la potenza degli Stati, li rigetta poi, insensibilmente ma naturalmente, verso l’indigenza” (Saggio sulla natura del commercio in generale, p. 102); ma non tiene conto della logica del capitalismo, il quale ha bisogno di sbocchi esterni che assicurino ai risparmiatori sempre nuovi investimenti remunerativi. Contro il mercantilismo Hume elaborò infine la teoria dell’equilibrio automatico della bilancia commerciale, teoria su cui s’impernierà, più tardi, il liberalismo ricardiano. Se l’abbondanza di oro e di argento a lungo andare provoca il rialzo dei prezzi, le esportazioni subiranno una contrazione; viceversa, la perdita di metalli preziosi determinerà un calo dei prezzi che favorirà le esportazioni e agevolerà il ripristino dell’equilibrio della bilancia commerciale. In altri termini, il potere d’acquisto della moneta è inversamente proporzionale alla sua quantità.

Ma il nome di Hume è associato soprattutto al problema logico dell’induzione: secondo alcuni, “il problema per eccellenza della filosofia della conoscenza” (Guala, p. 24), con cui si sono misurati numerosi pensatori, non ultimo Karl Popper. Noi crediamo nella persistenza delle leggi di natura sulla base delle esperienze (finora) fatte: così, avendo finora sperimentato una connessione costante tra la fiamma e il calore, tra la neve e il freddo, siamo indotti a credere che sarà così anche nel futuro, necessariamente; in realtà, però, noi abbiamo sperimentato la contiguità e la successione tra due fenomeni, mentre la necessità della loro connessione è solo il risultato di una nostra inferenza. L’abitudine nel constatare la regolarità della contiguità e della successione ci induce naturalmente, data la “causa”, ad aspettarci l’”effetto”. Ma la nostra aspettativa, a rigore, non è razionale, perché la necessità del nesso hoc propter hoc è frutto di un’inferenza desunta, per consuetudine, dall’osservazione della semplice successione hoc post hoc. Il nesso di causalità è un’illusione dei nostri sensi, un’impressione dettata da una sorta di riflesso condizionato, suggerita dalla consuetudine. Per quanto ci appaia ragionevole affidarci all’induzione dal passato al futuro, non possiamo dimostrarne razionalmente la fondatezza. “Tutti gli eventi – scrive Hume (Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della morale, sez. 7, parte 2), mettendo così in dubbio la possibilità della conoscenza scientifica razionale – sembrano del tutto sconnessi e separati. Un evento è seguito da un altro, ma non possiamo mai osservare nessun legame fra loro”. In altre parole, non c’è modo di giustificare razionalmente il metodo induttivo. È, questa, un’ipoteca che graverà non poco sugli approcci empirici al mondo economico basati, appunto, sull’inferenza di principi o teorie generali a partire da un certo numero di fatti particolari[5].

Sull’importanza, anzi sulla supremazia della legge naturale insiste – ma per ben altre ragioni che non i sostenitori del comunismo naturalistico – anche François Quesnay, il cui motto recita: Ex natura ius, ordo et leges. Altri prima di lui – che è il fondatore della “scuola” fisiocratica – avevano posto l’accento sulla necessità, in economia, di lasciar agire la natura. Basti pensare a Boisguillebert, che per primo teorizzò con lucidità i benefici che sarebbero derivati alla società dalla liberalizzazione del commercio. Una legge naturale regola infatti la sfera della produzione e dello scambio, per cui, a suo dire, in un libero mercato si stabilirebbe un equilibrio naturale dei prezzi, sicché tutti i venditori ne ricaverebbero un guadagno normale. “Tutte le professioni di un determinato luogo, quali che esse siano, lavorano le une per le altre e si mantengono reciprocamente; non solo perché così provvedono a vicenda ai loro bisogni, ma anche perché solo in questa maniera possono garantire, in via generale, la loro stessa esistenza. Ciascuno infatti acquista le derrate o il prodotto del lavoro del proprio vicino unicamente a una condizione, che è di rigore, anche se è tacita e inespressa: a condizione, cioè, che chi ha venduto a sua volta compri i prodotti di chi ha da lui acquistato, immediatamente, come accade talvolta, o per la mediazione di molte mani e professioni; e questo, come è chiaro, finisce per essere la stessa cosa” (Quesnay, Dissertation sur la nature des richesses, in Denis, I, p. 177). Parole che sembrano preannunciare la famosa “legge degli sbocchi” che va sotto il nome di Jean-Baptiste Say.

Quanto al Quesnay, non è qui il caso di illustrarne per filo e per segno le teorie economiche, ma ricorderemo che la sua tesi per cui la ricchezza di una nazione proviene dall’agricoltura e non dal commercio promosso dall’industria verrà ripresa da Marx, quando affermerà che la formazione del produit net non si realizza nella sfera della circolazione, bensì in quella della produzione: cioè nella produzione agricola. Inoltre, al suo Tableau économique e più ancora alla successiva Analyse de la formule arithmétique du tableau économique si ispireranno le moderne input-output analysis (“analisi delle interdipendenze strutturali”), in particolare il modello aperto di W. Leontief, “il quale sviluppa una particolare tipologia di sistemi di equilibrio generale di derivazione fisiocratica, concettualmente molto semplificanti, ma che hanno il pregio di consentire notevoli applicazioni dell’algebra delle matrici in economia (come già nel celebre modello studiato dal matematico J. Von Neumann tra le due guerre) oltre a essere all’origine di un filone di ricerche applicate che ha conosciuto enorme sviluppo” (cfr. L’Universale, II, p. 1240).

Più interessante, ai nostri fini, è indagare il background filosofico, vale a dire la teoria della conoscenza che è all’origine del suo pensiero economico. Nel Saggio sull’economia animale (1747)

Quesnay sembra dapprima riprendere l’idea hobbesiana per cui all’origine dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti ci sarebbe sempre l’esperienza dei sensi: “Gli oggetti che chiamiamo corpi o materia sono appunto, nell’ordine naturale, le cause fisiche di tutte le idee rappresentative, di tutti i più diversi sentimenti, della felicità, dell’infelicità, delle varie volizioni e passioni, e insomma di tutte le determinazioni specifiche del nostro essere sensitivo” (Oeuvres, pp. 769-770). Per dirla, insomma, con l’incisiva formula di San Tommaso: Nihil est in intellectu quod non fuerit prius in sensu [“Nell’intelletto non vi è nulla che non sia stato prima nei sensi”]: formula che, lungi dalle intenzioni del suo autore, è quindi assurta a simbolo del pensiero sensistico ed empiristico. Gassendi, che la ribadì per confutare la metafisica cartesiana, ne fece la base della sua philosophia aperta et sensibiilis. Ben diversamente, invece, Quesnay la coniuga con l’occasionalismo di Malebranche, sì da realizzare un inedito accordo tra scienza e fede o, meglio, tra materialismo e spiritualismo. Quanto ci sembra derivare da cause naturali è, in realtà, determinato dall’azione di Dio, che manifesta la sua potenza attraverso le “occasioni” via via emergenti nel tempo e nello spazio. In altre parole, le sensazioni e le modificazioni da esse prodotte a livello corporeo discendono da una “causa prima”: la stessa che “vivifica tutti i corpi viventi e costituisce essenzialmente tutte le forme attive, sensibili e intellettuali” (p. 789). Come diceva Malebranche: “le idee che ci rappresentano le creature non sono altro se non perfezioni di Dio le quali corrispondono a queste medesime creature e le rappresentano”. Sviluppando in maniera più rigorosa il dualismo cartesiano, il filosofo parigino giungeva alla conclusione che l’anima e il corpo non possono assolutamente agire l’uno sull’altro. E proprio perché spirito e materia non sono interagenti, a decretare i movimenti corporei “in occasione” dei corrispondenti processi mentali non può essere che Dio, il quale opera in tutte le cose ed è la sola causa reale degli eventi. In ogni caso Dio agisce secondo le vie più semplici: quelle appunto che la mente umana giunge a scoprire quando riconduce le relazioni tra i fenomeni a dei rapporti matematici. La natura viene in tal modo concepita come un ordine, intangibile e intelligibile, voluto da Dio. Ed è questa la concezione su cui si fonda l’intero sistema dei fisiocratici.

Quesnay, non a caso, insiste sull’importanza della fede, la quale “ci insegna che la saggezza suprema è quella stessa luce che illumina ogni uomo vivente in questo mondo”. È proprio in virtù dell’unione con una intelligenza del genere che l’uomo si eleva “a quel più alto grado di conoscenza, che lo distingue sul serio dalle bestie: alla conoscenza cioè del bene e del male, per cui può dirigersi con ragione e giustizia nell’esercizio della sua libertà” (p. 793). È dunque la fede a schiuderci la via alle idee morali. Paradossalmente, però, il padre della fisiocrazia distingue in maniera netta i diritti naturali dai principi dell’etica: i primi discendono dalla natura, nel senso che è il mero esercizio delle facoltà fisiche a esigere l’universale rispetto della vita e dei beni altrui. La natura ha dato gli occhi agli uomini: ergo essi hanno naturalmente diritto alla luce. È ovvio poi che, se consideriamo le facoltà fisiche e intellettuali dei vari individui, constatiamo che “esiste una grande disuguaglianza sul piano della fruizione, da parte degli uomini, del diritto naturale”. Ebbene, “tale disuguaglianza, in linea di principio, non ammette considerazione alcuna sul giusto o sull’ingiusto; essa risulta infatti dalla combinazione delle leggi della natura, e gli uomini, non essendo in grado di penetrare i disegni dell’Essere supremo nella creazione dell’universo, non possono elevarsi sino a giudicare il senso e il significato di quelle regole immutabili, che Egli ha istituito per la formazione e la conservazione della propria opera” (p. 368). Come non c’entra l’etica con la diversità di statura, d’intelligenza o del colore della pelle, così non deve entrarci quando si tratta delle disuguaglianze economiche, che non discendono affatto da un principio etico, ma dipendono da “mille cause naturali”: cause che “operano per la conservazione di un Tutto […] secondo le prospettive e i disegni di quell’intelligenza suprema che ha costruito l’universo”. Ed è ben vero che anche gli uomini “contribuiscono in larga misura a questa disuguaglianza”, ma, così facendo, assecondano l’ordine delle cose, e nessuno è obbligato a riparare alle perdite altrui, in particolare a “quelle che toccano agli uomini in ragione del cattivo uso della libertà”. Per questo “l’autorità reprime sempre le imprese di coloro che vogliono impadronirsi dei nostri beni o che attentano alla nostra libertà e alla nostra vita”; mentre essa “non può turbare l’ordine della società, non può favorire la sregolatezza di quegli uomini che cadono in miseria a cagione della loro cattiva condotta e non può quindi rimediare ai mutamenti e alle modificazioni che si verificano di continuo nella distribuzione dei beni” (pp. 757-758). La proprietà privata e la libera concorrenza sono dunque perfettamente naturali; innaturale è, al contrario, ogni intervento dello Stato che miri a ostacolarle o a modificarle. Allo Stato (o al Sovrano) spetta pertanto un compito essenzialmente negativo: quello di rimuovere ogni ostacolo che intralci o impedisca il normale svolgersi dell’”ordine naturale”. Vincent de Gournay lo condensò nell’icastica formula che divenne poi il motto emblematico dei liberisti: Laissez faire, laissez passer. Il bene si fa da sé, senza bisogno d’interventi correttivi dall’esterno.

L’”ordine naturale” sotteso alla vita economica fa sì che questa funzioni come un organismo vivente. O come un meccanismo. Il movimento della natura poggia, anche in questo caso, su “due bilancieri uguali per forza e per attività”: la distruzione e la riproduzione. Le spese consentono la produzione e la produzione permette, a sua volta, di far fronte alle spese, secondo un processo ciclico di cui Quesnay, nel suo Tableau économique, ha cercato, per primo, di dare una rappresentazione matematica. I suoi seguaci, però, andranno oltre, fino a concepire la scienza economica come “scienza totale dell’uomo”. È appunto partendo dall’idea dell’ordine naturale che Dupont de Nemours, ne L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, teorizzerà l’importanza suprema della scienza economica, in grado non solo di ispirare la costituzione politica migliore, ma anche di garantire la piena realizzazione della vita morale. E si potrebbe, allora, parlare di un “ordine naturale della società”. “Quando – egli scrive – si stringono in società, gli uomini lo fanno per uno scopo «fissato essenzialmente dalla loro stessa natura»; né quindi i mezzi adatti al perseguimento di un fine siffatto possono essere arbitrari, poiché non vi può essere nulla di arbitrario in quegli atti fisici che tendono a un obiettivo determinato. Vi è dunque un ordine naturale, essenziale e generalissimo, che racchiude in sé le leggi fondamentali e costitutive di tutte le società […]. Vi è insomma una società naturale, anteriore a ogni convenzione tra gli uomini, e fondata invece sulla loro costituzione intrinseca, sui loro bisogni fisici, sul loro interesse evidentemente comune” (Denis, I, p. 210). Paradossalmente, sono i fisiocratici, più ancora di Rousseau, a coltivare il sogno di ripristinare lo “stato di natura”, che ai loro occhi non sembra affatto avere il carattere mitico attribuitogli dal filosofo ginevrino. Ma più strana ancora, dopo avere escluso dalla scienza economica ogni considerazione morale, è la pretesa di attingere alla dimensione etica partendo dall’economia o – che è lo stesso – dall’”ordine naturale” a cui questa si richiama.

4 – Miserie dello storicismo

Nell’école Polytecnique, da cui provenivano sia Saint-Simon sia Comte, von Hayek (L’abuso della ragione, p. 14) scorgeva “la fonte della hybris scientista”, intesa a pianificare tutta quanta la vita secondo criteri di “scientificità”. Per lui questo voleva dire la soppressione di ogni libertà. Ne trovava conferma in una dichiarazione di Saint-Simon, che, senza andare tanto per il sottile, raccomandava l’esecuzione puntuale delle prescrizioni emanate dal suo comitato centrale di pianificazione: “Chiunque non obbedisce ai comandi sarà trattato dagli altri come un quadrupede”. Quanto a Comte, lo colpiva l’improntitudine con cui proclamava l’esistenza di leggi storiche accessibili alla mente umana, la quale sarebbe peraltro in grado di comprendere per un verso lo sviluppo della società nel suo complesso e per l’altro i principi stessi del proprio funzionamento, tanto da poterne controllare lo sviluppo. Qui vi erano già, in nuce, le basi del totalitarismo, a cominciare dalla pretesa di individuare le leggi che regolano il corso obbligato della storia. È questa la Miseria dello storicismo denunciata da Popper nella sua “magistrale analisi” dell’argomento. Il peccato accomunava Platone, Hegel, Marx, Sombart, Spengler e i positivisti in genere. Se la filosofia di Comte riconosceva nella storia tre “stadi” di sviluppo, quella di Hegel vi riscontrava un analogo ritmo triadico. In entrambi il processo assecondava un rigido, fatalistico determinismo, cui nessuno poteva opporsi. Gli stessi eroi, gli individui eccezionali, non erano che “organi” di uno sviluppo predeterminato o “funzionari dello Spirito del mondo”: burattini nelle mani di una forza impersonale che se ne serviva per realizzare i suoi scopi e niente più. Si trattava, chiaramente, di pseudo-teorie, ma intanto, nella loro presunzione di scientificità, si ammantavano di un’aura prestigiosa che ne agevolava la diffusione e il successo.

Prendiamo ad esempio Karl Marx. La sua trovata di “rovesciare” la dialettica hegeliana è per certi versi geniale: una sorta di uovo di Colombo, ma anche una lezione di concretezza. La stessa, in fondo, che vediamo nell’utilizzo ben più efficace che egli fa dell’antagonismo hegeliano tra servo e padrone. Mentre in Hegel (Fenomenologia dello Spirito, I, pp. 159-161), il rovesciamento delle parti (con il padrone che perde la sua autonomia e diventa “dipendente dalle cose” che disimpara a fare, laddove il servo, facendole, se ne affranca), per quanto acuto, si risolve nell’astrattezza di un apologo, nella lotta di classe marxiana acquista la pregnanza (e l’evidenza) di una tranche de vie. Vi si avverte insomma la distanza che c’è tra un caso di scuola e uno spezzone di realtà. Marx però ha desunto da Hegel anche la sua visione evoluzionistica della storia, nella quale gli stadi dell’evoluzione possono essere definiti in chiari termini logici. I cambiamenti, per così dire, paradigmatici (nell’accezione kuhniana) della storia procederebbero secondo un piano divinabile e predicibile, una volta almeno che se ne abbia la chiave per accedervi: il materialismo dialettico. In un passo famoso dell’Anti-Dühring, e precisamente nella parte intitolata Die Entwicklung des Sozialismus von der Utopie zur Wissenschaft [“Il passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza”] Engels scrive: “Fu palese che tutta la storia passata, ad eccezione delle età primitive, era tutta una storia di lotta di classe, che queste classi sociali in conflitto tra di loro sono in ogni momento il prodotto dei rapporti di produzione e di scambio, in una parola, dei rapporti economici del tempo loro. La struttura economica della società costituisce dunque in ogni caso il fondamento reale col quale si deve spiegare in ultima istanza tutta la soprastruttura delle istituzioni giuridiche e politiche, nonché delle ideologie religiose, filosofiche e di altro genere di ogni periodo storico”. Inevitabile, a partire da questo principio basilare, l’avvento del socialismo, il quale, dunque, “non si presentava più come la scoperta occasionale del tale o talaltro cervello geniale, ma come il necessario portato della lotta di due classi costituitesi storicamente, fra il proletariato e la borghesia” (Russell, p. 282). Il conflitto decisivo, in altre parole, non si svolgeva più a livello di idee (nei cervelli degli uomini), bensì a livello di interessi concreti, cioè nel vivo della storia, di cui esso orientava deterministicamente il divenire. Che è quanto non avevano capito i socialisti cosiddetti utopisti.

Ma l’eredità hegeliana non era indolore: se Marx concepiva la storia come un processo più razionale di quanto non fosse mai realmente stato, lo doveva all’impostazione logico-metafisica di Hegel. Di qui l’idea che tutti i mutamenti dovessero essere in un certo senso progressivi; di qui anche l’ottimismo fiducioso nell’evoluzione futura della storia, sulla quale in realtà non possedeva alcuna garanzia scientifica. Per Hegel la realtà ultima è lo Spirito, per Marx la materia, ma nell’uno e nell’altro caso è la logica a condurre il gioco, a governare il mondo. “Per Hegel, lo svolgimento della storia è altrettanto logico quanto un gioco di scacchi. Marx ed Engels osservano le regole degli scacchi, ma supponendo che le pedine si muovano da sé in accordo con le leggi della fisica, senza l’intervento di un giocatore” (p. 291). Ma dove sta scritto che l’evoluzione conflittuale da un sistema socio-economico ad un altro debba essere necessariamente progressiva, quando nella storia non mancano vari esempi di decadenza e di regresso? E come si concilia la natura rivoluzionaria della dialettica con l’idea di una stasi finale? Nel paragrafo conclusivo de La miseria della filosofia (p. 135) Marx scrive infatti: “Solo in un ordine di cose in cui non vi saranno più classi e antagonismo di classi, le evoluzioni sociali cesseranno d’essere delle rivoluzioni politiche”. Per quanto importanti siano poi le cause economiche e i conflitti di classe, non bisogna dimenticare la rilevanza, nella storia, dei conflitti “tra razze o nazioni”, e nemmeno l’impatto socio-economico delle grandi epidemie o delle scoperte scientifiche. “In realtà, – puntualizza Russell – i modi di produzione mutano per lo più per cause intellettuali, vale a dire, in conseguenza di scoperte scientifiche e invenzioni”(Russell, pp. 296-297).

Karl Raimund Popper ha più e meglio di altri rimarcato le numerose incongruenze del pensiero marxista in particolare e, appunto, la “miseria dello storicismo” in generale. Lo storicismo, nel suo caso, non è tanto quello tedesco contemporaneo né quello neoidealistico che va – per intenderci – da Dilthey a Croce (di questo, anzi, condivide la tesi che non esistano leggi dello sviluppo storico[6]), quanto piuttosto quello che fa capo alle “varie concezioni totalizzanti della storia di indirizzo idealistico, materialistico, positivistico, sociologistico, biologistico, ecc.”: quello, cioè, che postula “una direzione necessaria e prevedibile degli eventi sociali” e si traduce, di conseguenza, in una “forma mentis totalizzante e profetico-oracolare”[7]. Lo storicismo “si occupa dello sviluppo della società come «un tutto unico» (a whole), e non dello sviluppo di aspetti particolari di essa”, mentre, in realtà, per studiare davvero qualcosa,”siamo costretti a sceglierne alcuni aspetti. Non ci è possibile osservare o descrivere un pezzo intero del mondo, o un pezzo intero della natura, anzi, nemmeno il minimo pezzo intero, poiché la descrizione è sempre necessariamente selettiva” (Popper, Miseria dello storicismo, pp. 75-77). Non solo: gli olisti, oltre alla pretesa di afferrare la fisionomia globale della società, coltivano pure l’ambizione di promuoverne una radicale ristrutturazione, secondo un metodo di ingegneria “olistica” o “utopistica” che Popper contrappone alla “ingegneria sociale gradualistica” (piecemal social engineering). “Come Socrate, il meccanico a spizzico sa quanto poco sappia. Sa che è soltanto dai nostri errori che possiamo imparare. Perciò avanza un passo alla volta, confrontando con cura i risultati previsti con quelli effettivamente raggiunti e stando sempre in guardia per avvistare le inevitabili conseguenze non volute di ogni riforma; ed eviterà di intraprendere riforme di una complessità e di una vastità tali che sia impossibile per lui districare le cause e gli effetti, e sapere che cosa veramente stia accadendo”. La meccanica olistica, al contrario, mira a riplasmare l’intera società secondo un piano regolatore preciso: per dirla con Manheim, a “impadronirsi delle posizioni chiave”, per estendere quindi il potere dello stato “finché stato e società siano diventati quasi identici” (pp. 70-71).

Ritorneremo, più avanti, sull’importanza di distinguere tra intenzioni e conseguenze, nonché sulle significative differenze che intercorrono – se vogliamo stare al lessico weberiano – tra “etica delle convinzioni” e “etica delle responsabilità”. Qui ci limitiamo a rilevare – con Popper – che lo storicismo confonde “leggi” e “tendenze”, fino ad assolutizzare queste ultime, nelle quali ripone un’acritica fiducia. Di qui deriva il “carattere pseudoscientifico, pseudostorico e mitico delle filosofie profetiche della storia”[8]. E il marxismo è “la più pura, la più elaborata e la più pericolosa forma di storicismo” (Popper, La società aperta, II, p. 109). Pericolosa anche perché, con il suo “economicismo” di base, finisce per svalutare (o sottovalutare) il ruolo della politica e ingenerare una sorta di disprezzo nei riguardi della democrazia formale. Così, paradossalmente, mentre Marx teorizzava la progressiva estinzione dello Stato, nei sistemi socialisti si è realizzata una ingerenza sempre più marcata e capillare dello Stato nell’economia, con un imponente sviluppo della burocrazia e la formazione di una “società chiusa” dai tratti dispotici e chiaramente illiberali. Ma anche nel mondo capitalistico odierno non domina più quel “gangsterismo della ricchezza” che Marx osservava nel capitalismo manchesteriano dei suoi tempi, giacché il potere politico è ormai in grado di controllare lo stesso potere economico. Oggi – osserva Popper – assistiamo a “un’immensa estensione del campo delle attività politiche. Noi possiamo chiederci che cosa vogliamo conseguire e come possiamo conseguirlo. Possiamo, per esempio, attuare un razionale programma politico per la protezione degli economicamente deboli. Possiamo fare delle leggi atte a limitare lo sfruttamento. Possiamo limitare la giornata lavorativa, ma possiamo anche fare molto di più. Per legge possiamo assicurare i lavoratori (o, meglio ancora, tutti i cittadini) contro l’invalidità, la disoccupazione e la vecchiaia. In questo modo possiamo rendere impossibili certe forme di sfruttamento come quelle fondate sulla debole posizione economica di un lavoratore che deve accettare qualunque cosa per non morire di fame. E quando siamo in grado di assicurare per legge mezzi di sussistenza a chiunque ha voglia di lavorare […] allora la protezione della libertà del cittadino dalla paura economica e dall’intimidazione economica diventerà quasi completa […]. Il potere politico e il suo controllo è tutto. Al potere economico non si deve permettere di dominare il potere politico; se necessario, esso deve essere combattuto dal potere politico e ricondotto sotto il suo controllo” (II, p. 165).

Quanto alla “libertà formale”, essa è “la base di ogni altra cosa”, è la democrazia, “il diritto del popolo di giudicare e di far cadere il proprio governo, è il solo strumento noto per mezzo del quale possiamo tentare di proteggerci contro l’abuso del potere politico”. Anzi, “poiché il potere politico può controllare il potere economico, la democrazia politica è anche il solo mezzo di controllo del potere economico da parte dei governati”. D’altra parte, “senza controllo democratico, non ci può essere alcuna ragione al mondo per cui qualsiasi governo non debba usare il suo potere politico ed economico a finalità molto diverse dalla protezione della libertà dei suoi cittadini” (II, p. 166). I marxisti non hanno avvertito o non hanno dato peso al rischio implicito in ogni forma di potere, in primis del potere statuale e, nella convinzione che “le istituzioni in una democrazia siano permanentemente accaparrate, per così dire, dalla borghesia” (Popper, Rivoluzione o riforme, p. 42) e che solo nelle mani della borghesia il governo sia cattivo, hanno dato spazio alla cosiddetta “dittatura del proletariato”, finendo per conferire allo Stato un potere esorbitante, senza preoccuparsi di controllare le persone o le strutture nelle quali tale potere si accumulava (Popper, La società aperta, II, pp. 169-170).

Popper è estremamente sospettoso nei riguardi di ogni radicalismo, in quanto esso nasce sempre dalla presunzione dogmatica di un “sapere totale” che solo consentirebbe di promuovere una trasformazione parimenti totale della società e l’avvento di una “società felice”. Il radicalismo, in altre parole, è una forma di “perfettismo”: alla sua base c’è il sogno “romantico” di “costruire un mondo che non sia soltanto un po’ migliore e più razionale del nostro, ma che sia assolutamente esente da ogni imperfezione: non una irregolare veste trapunta, un vecchio abito mal rappezzato, ma una veste interamente nuova, un nuovo mondo veramente bello” (I, p. 231). Nel tentativo di realizzare questo sogno estetizzante, il radicale perfettista è “disposto a sacrificare gli individui dell’età presente”, anche a costo di opprimere e di sopprimere gli obiettori e gli oppositori, persuaso – con Lenin – che “non si possa fare una frittata senza rompere le uova”. Per questo Popper si scaglia contro la “pazzia sanguinaria di certa metafisica evoluzionista” o di certa “isterica” filosofia della storia (Popper, Utopia e violenza, in Congetture e confutazioni, p. 613). Per lui, infatti, il compito della politica non è quello di creare uomini futuri “istituzionalmente” felici, bensì quello di rimuovere le condizioni presenti di infelicità. La ricerca della felicità – quella che la Dichiarazione d’indipendenza americana definisce the pursuit of happening – è un diritto che va, se mai, demandato ai singoli, giacché il suo contenuto (o il suo oggetto) varia da individuo a individuo. Che cosa sia con certezza la felicità, non lo sappiamo, ma sull’infelicità non abbiamo dubbi, perché si tratta di quei mali che “ci stanno di fronte qui ed ora”, e ne possiamo avere quotidiana esperienza nelle “molte persone immiserite e umiliate dalla povertà, dalla disoccupazione, dalle persecuzioni, dalla guerra e dalle malattie”. Ebbene – ammonisce Popper – “Non permettere che i sogni di un mondo perfetto ti distolgano dalle rivendicazioni degli uomini che soffrono qui ed ora. I nostri simili hanno diritto di essere aiutati; nessuna generazione dev’essere sacrificata per il bene di quelle future, in vista di un ideale di felicità che non può realizzarsi mai” (p. 611).

Per questo egli esalta il metodo riformista e propugna una ingegneria gradualistica, che rifugga dalle farneticazioni dell’ingegneria olistica, di cui egli individua in Platone un formidabile antesignano. Il filosofo platonico, grazie al suo sapere, si professa in grado di individuare il prototipo della “giusta” società e di conoscere i metodi infallibili per realizzarla. Ma chiunque si dichiari detentore in esclusiva della “verità sul bello, sul giusto e sul bene” è in realtà un illuso o un impostore[9], giacché la Verità assoluta e la Città perfetta non rientrano nelle nostre possibilità, ma abitano in “utopia”. E gli utopisti, intossicati dalla “verità” di cui si reputano portatori e missionari, sono pericolosi, perché tendono a imporre agli altri, anche con la forza, il loro progetto di società, recidendo ogni legame con il passato e con la tradizione. Così, fatalmente “il tentativo utopico di cambiare l’esistente alla luce di un modello globale di società è tale da richiedere un forte potere centralizzato di pochi e, quindi, di portare verosimilmente all’instaurazione di una dittatura (Popper, La società aperta, I, pp. 224).

5 – Totalitarismo e società aperta

Quasi tutte le previsioni economiche di Marx si sono rivelate sbagliate[10] ed oggi il marxismo non è più considerabile come una scienza, bensì come una “filosofia oracolare” (II, p. 19), “un sogno metafisico”, magari “congiunto con una realtà crudele” (Popper, Replies to My Critics, II, pp. 1080-1081). “Il fallimento scientifico del marxismo è dovuto al fatto che esso è una gnosi travestita da scienza. Cioè il marxismo non è una scienza, ma una pseudoscienza. Il fascino enorme della sua dottrina, la spiegazione del suo incredibile successo presso buona parte dei ceti intellettuali radicali di tutto il mondo […] deriva proprio da questo suo carattere ambivalente: si presenta come una scienza, ma mantiene intatta la forza evocativa del profetismo. È un caso, molto riuscito, di unione sincretica fra Logos e Mythos, dove però il Logos non è pensiero scientifico, ma solo strumentale razionalizzazione del Mythos”. E proprio nell’”universo labirintico della dialettica” si può “individuare in che modo il marxismo sia una gnosi travestita da scienza”. “La dialettica, concepita e interpretata sotto la forma del materialismo dialettico, consiste nell’auto-intendersi come un sapere in grado di spiegare tutta la realtà, in quanto metodo di pensiero internamente dotato di una logica capace di inglobare in sé l’intero esistere e le continue insorgenze prodotte dal suo stesso svolgimento. Si tratta di una pretesa enorme, anzi, a dir meglio, smisurata. Si può parlare infatti di un carattere soteriologico, addirittura salvifico, per cui giustamente Jacques Monod l’ha definita una «proiezione animistica». Ma, a dire il vero, già un secolo fa questa sua peculiarità era stata vista, con straordinaria lucidità e chiarezza, dai grandi teorici dell’anarchismo, soprattutto da Kropotkin.

La dimensione totalitaria intrinseca alla logica dialettica si rivela nella natura stessa del suo metodo, cioè nell’idea che sia possibile dar conto di tutto l’esistente, con l’inevitabile conseguenza che la spiegazione diventa, al contempo, norma, dato che tutti i giudizi di fatto, propri dell’analisi, si risolvono in giudizi di valore, propri della prescrizione: la dialettica, infatti, non ci parla solo dell’essere, ma anche del dover essere. La sovrapposizione fra l’essere e il dover essere è generata dall’imbroglio epistemologico dovuto a questa coincidenza, dato che essa permette il passaggio dalla descrizione alla prescrizione senza mai pagare il prezzo di una verifica o, come avrebbe detto Popper, della sua «falsificabilità»[11]. Di qui il sincretismo metodologico fra essere e dover essere, quella sovrapposizione concettuale che aprirà la strada non solo a tutti gli errori teorici del marxismo, ma anche a tutti gli orrori pratici del comunismo, essendo, questi, l’effetto di quelli. Questa sovrapposizione, infatti, non solo ci dice che cosa è l’uomo, ma anche che cosa deve fare l’uomo. È dunque dalla radice totalitaria della dialettica e dal suo irrimediabile cognitivismo etico che si sviluppa l’intrinseca natura anti-individualistica del comunismo e il suo conseguente totalitarismo” (G. Berti).

Orbene, l’intera opera di Popper può essere letta come una formidabile confutazione del totalitarismo, rosso o nero che sia. E quindi come una appassionata difesa della democrazia, di una “società aperta”, policentrica e competitiva, in cui viga un weberiano “politeismo dei valori”. “Dovremmo essere orgogliosi – afferma infatti – di non possedere un’unica idea, bensì molte idee, buone e cattive; di non avere una sola fede, non una religione, bensì numerose, buone e cattive. È un segno della superiore energia dell’Occidente il fatto che ce lo possiamo permettere. L’unità dell’Occidente su un’idea, su una fede, su una religione, sarebbe la fine dell’Occidente, la nostra capitolazione, il nostro assoggettamento incondizionato all’idea totalitaria” (Popper, Alla ricerca di un mondo migliore, p. 213).Questa esaltazione del pluralismo è del resto funzionale a una strenua difesa della libertà e della democrazia, visti come i soli antidoti all’autoritarismo e alla violenza. Popper è convinto che lo stato sia un male necessario, tanto che contro ogni indebita proliferazione dei suoi poteri non esita a invocare “il rasoio liberale”[12]: vale a dire la recisione di quelli non strettamente necessari. Egli, da buon “imperfettista”, ha ben presenti i limiti e i difetti dell’uomo: ragion per cui egli concepisce la democrazia come “forma statale del male minore”, convinto, con Churchill, che delle forme di governo essa sia la peggiore, eccettuate però tutte le altre[13]. Nondimeno, egli resta un convinto interventista: “il principio del non intervento proprio di un sistema economico sfrenato, deve essere abbandonato; se vogliamo che la libertà sia salvaguardata, dobbiamo chiedere che alla politica di illimitata libertà economica si sostituisca l’intervento economico pianificato dello Stato. Dobbiamo chiedere che il capitalismo sfrenato ceda il passo a un interventismo economico. E questo è appunto quel che è avvenuto. Il sistema economico descritto e criticato da Marx ha cessato ovunque di esistere. Esso è stato sostituito non da un sistema nel quale lo Stato comincia a perdere le sue funzioni e quindi «mostra segni di estinzione», ma da vari sistemi interventisti, nei quali le funzioni dello Stato nel campo economico sono estese ben al di là della protezione della proprietà e dei «contratti liberi»“ ( La società aperta, II, p. 164).

Come si può dunque vedere, anche le dottrine liberali e liberistiche nel corso della loro storia conoscono declinazioni (e interpretazioni) che variano da autore a autore. Von Mises, ad esempio, partendo dal presupposto che “ogni azione razionale è in primo luogo un’azione individuale” (Socialismo, p. 139), mette a punto un individualismo metodologico che, anche nell’indagine dei fenomeni sociali, lo porta a privilegiare l’azione dell’individuo, “l’unica cosa di cui possiamo avere conoscenza diretta” (Problemi epistemologici dell’economia, p. 64). In effetti, “solo l’individuo pensa. Solo l’individuo ragiona. Solo l’individuo agisce” (Socialismo, p.139). Sicché lo stesso corso della storia “è determinato dalle azioni degli individui e dagli effetti di queste azioni” (L’azione umana, p. 47). Viceversa i collettivisti, che ipostatizzano concetti come “Stato”, “nazione”, “classe”, “partito” e via dicendo, ritengono un’astrazione l’individuo, cui chiedono pertanto – magari promettendo uno Stato perfetto e un’eterna felicità – di sacrificare la sua libertà sull’altare di fatali e sovrimpersonali forze storiche, “misteriose e non suscettibili di analisi e di discussione”. Individui in carne e ossa vengono così immolati in favore di idee, affatto teologiche o mitologiche, che altro non sono se non il prodotto della mente di altri individui.

Ma a che cosa aspira, in realtà, la stragrande maggioranza degli individui? Solo all’innalzamento del tenore di vita, vale a dire a una maggiore e migliore provvista di cibo, di vestiario, di cose e conforti materiali, a una più sana abitazione, a servizi efficienti (Problemi epistemologici, p. 60). Ora, il perseguimento del benessere, il soddisfacimento del maggior numero di desideri da parte del maggior numero di persone, sono finalità che nell’economia di mercato trovano il mezzo più adeguato per concretizzarsi. A tale scopo l’economia di mercato (o capitalismo) è senz’altro più espediente del socialismo, cioè della società che ha abolito la proprietà privata dei mezzi di produzione e che, pertanto, von Mises giudica una via sostanzialmente impraticabile: una via che porta inevitabilmente alla galera e alla fame. Il sistema capitalistico è per lui “l’unico sistema di cooperazione sociale e divisione del lavoro che rende possibile l’applicazione di un metodo di calcolo e stima economica nella programmazione di nuovi progetti e nella valutazione del grado di efficienza di impianti industriali, aziende agricole e officine già funzionanti” (burocrazia, p. 39.) L’efficienza del mercato deriva dal fatto che esso è il regno della libertà. “Non appena la libertà economica che l’economia di mercato concede ai suoi membri è rimossa, tutte le libertà politiche e le carte dei diritti diventano inganno. Habeas corpus e processi davanti al magistrato sono una vergogna se, sotto il pretesto dell’opportunità economica, l’autorità ha potere di relegare ogni cittadino indesiderato sull’Artico o in un deserto e di assoggettarlo ai «lavori forzati» a vita. La libertà di stampa è un puro inganno se l’autorità controlla tutti gli uffici-stampa e le cartiere. E così sono tutti gli altri diritti dell’uomo” (L’azione umana cit., p. 276).

Libertà significa proprietà privata. Se questa si abolisce, anche quella svanisce e, con essa, ne scapita pure la produzione, che diventa irrazionale, con conseguenti sprechi di risorse e marcate inefficienze. L’economia ne uscirà disastrata. Al contrario, nel libero mercato la produttività sarà maggiore. E migliore: tale cioè da rispondere alle esigenze dei consumatori, che nell’economia di mercato sono i veri sovrani. Le stesse disuguaglianze nei redditi e nella ricchezza sono funzionali e necessarie, non solo perché stimolano a produrre di più e a costi più bassi, sì anche perché il lusso odierno dei ricchi esprime la necessità di domani e orienta l’industria verso nuove produzioni. Le disuguaglianze economiche devono peraltro coesistere con l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, non tanto per ragioni etiche e umanitarie, quanto per motivi di utilità. Per questo sono indispensabili una macchina statale, un sistema di leggi e un governo, il cui compito non sarà quindi solo quello di proteggere la proprietà privata, ma anche – e soprattutto – quello di assicurare la pace, evitando guerre civili, rivoluzioni o insurrezioni. E la democrazia appare, a tale scopo, la forma di costituzione politica più idonea[14].

Disattendendo gli ammonimenti di pensatori come Tocqueville e Lord Acton, i quali ci hanno avvertito che il socialismo è “la via maestra della schiavitù”, noi – secondo von Hayek – “abbiamo costantemente camminato nella direzione del socialismo”, magari pensando che il controllo delle attività economiche (e dei mezzi di produzione) non incidesse troppo sugli altri settori della nostra vita. In realtà, le cose non stanno così: il controllo economico “non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo esclusivo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati più alti e quali più bassi; in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi” (La via della schiavitù, pp. 23 e 81). In altre parole, la libertà economica è indissolubile dalla libertà tout court[15]. Anzi, la più importante garanzia della libertà è costituita dalla proprietà privata; “non solo per coloro che posseggono proprietà, ma anche – e non molto meno – per coloro che non ne posseggono, perché solo la ripartizione dei mezzi di produzione tra diverse persone che non abbiano legami o interessi comuni garantisce la nostra – almeno parziale – indipendenza e la nostra autonomia decisionale. “Se tutti i mezzi di produzione fossero riuniti in una sola mano […], chiunque esercitasse tale controllo avrebbe completo potere su di noi” (Hayek, La via della schiavitù, p. 92). Non per nulla i regimi totalitari puntano in prima istanza ad avere il controllo pressoché totale dell’economia.

Il problema è dunque quello di assicurare la libertà individuale. E per fare questo, non basta porre dei limiti all’esercizio del potere, separando – come ha suggerito Montesquieu – il potere legislativo da quello giudiziario e da quello esecutivo, giacché anche dove tale separazione ha avuto luogo i governi, con mezzi costituzionali, semplicemente facendo leva sulla volontà della maggioranza, sono poi riusciti a concentrare nelle proprie mani più poteri di quelli originariamente loro assegnati. Orbene, anche la democrazia, quando si configuri come governo illimitato della maggioranza, acquista connotati tirannici o totalitari. E per evitarlo non c’è altra via che affidarsi all’imperio della legge, cui anche i governi devono sottostare. L’imperio della legge ha infatti un unico scopo: “che siano ridotte al minimo possibile le facoltà discrezionali lasciate agli organi esecutivi detentori del potere coercitivo” (Verso la schiavitù, p. 64). Dove questo non avviene, dove cioè il primato del diritto cede il posto a un Parlamento “sovrano”, libero di legiferare ad libitum secondo gli umori di questa o quella momentanea maggioranza, la democrazia si trasforma inevitabilmente in tirannia della maggioranza. E perde la sua – nobile – ragion d’essere. La legge è dunque il vero fondamento della libertà. “Legge, libertà, proprietà, sono una triade inseparabile. Non vi può essere alcuna legge, nel senso di regola universale di condotta, che non determini confini di aree d’azione, stabilendo regole che permettono a ciascuno di accertare fin dove egli è libero di agire” (Legge, legislazione e libertà, p. 136).

Eppure, quanti oggi si richiamano al concetto di “giustizia sociale”, minano irresponsabilmente la sovranità della legge (nomos). Questa viene così identificata con la legislazione (thesis) e oggi i governi democratici si servono sempre più spesso della legislazione per elargire benefici ai propri sostenitori. Ma che cos’è la “giustizia sociale” cui essi si appellano? Solo un altro nome della “giustizia distributiva”? Ma in un’economia di libero mercato, dove gli individui si scambiano e si forniscono l’un l’altro dei beni, nessuno distribuisce a nessuno. Né, d’altra parte, si può pensare ad un ordine di mercato mantenuto artificialmente da qualche autorità predisposta ad applicare, in nome di una fantomatica “giustizia sociale”, un modello di remunerazione “basato su una valutazione dei risultati e dei bisogni dei vari individui o gruppi” (p. 269). A sostegno della sua tesi, Hayek cita un brano di John Rawls (Constitutional Liberty and the Concept of Justice, p. 102) che così recita: “I principi di giustizia non determinano una distribuzione specifica di beni come giusta, tenendo conto della volontà di determinate persone. Questa funzione è abbandonata perché ritenuta sbagliata di principio e in ogni caso non passibile di una risposta definitiva. I principi di giustizia definiscono piuttosto i vincoli che le istituzioni e le loro attività devono soddisfare se le persone che ne fanno parte non devono avere a lamentarsi. Se questi vincoli sono soddisfatti, la distribuzione che ne risulta, qualunque essa sia, può essere accettata come giusta (o almeno non ingiusta)”. Con il pretesto della “giustizia sociale” i governi tendono dunque a trasformare in legge gli interessi dei vari gruppi. D’altronde perché, nelle nostre società, si moltiplicherebbero associazioni e gruppi di pressione, se non per “dirottare verso i propri membri la maggior quantità possibile di favori governativi” (Hayek, Legge, legislazione cit., p. 384)?

Per ovviare a questi inconvenienti e preservare così la libertà individuale, Hayek propone che “qualsiasi autorità sia limitata da princîpi durevoli, sostenuti da una approvazione generale” (p. 477). In secondo luogo distingue il potere di emanare leggi in senso stretto, da affidare ad una Assemblea legislativa con il compito di occuparsi “dei principî permanenti generali sulla base dei quali regolare le attività della comunità” (Libertà economica e governo rappresentativo, in Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, p. 131) da quello di disbrigare gli affari correnti, da affidare invece ad una Assemblea governativa concepita come espressione dei desideri concreti e degli interessi particolari dei cittadini organizzati in partiti. Diverse sono la composizione e le modalità di elezione delle due assemblee, ma complementare il loro operare, a garanzia di una costituzione politica che, per non confonderla con la democrazia ormai screditata, hayek propone di chiamare “demarchia”: un governo del popolo che assecondi – e rispetti – l’autorità della Legge.

Il filosofo austriaco assegna allo Stato un ruolo importante: esso non deve infatti limitarsi a fare rispettare la legge e a provvedere alla difesa contro i nemici esterni, ma deve pure “raccogliere fondi per le imposte” al fine di “offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti – o non possono esserlo in modo adeguato – dal mercato” (Legge, legislazione, p. 184). Tra questi, il finanziamento dell’istruzione obbligatoria (mediante buoni da dare ai genitori, cui va tuttavia lasciata la libertà di scegliere la scuola[16]) e l’onere di far fronte a eventuali calamità naturali. Inoltre, “vi è ancora tutta un’altra classe di rischi rispetto ai quali è stata riconosciuta solo recentemente la necessità di azioni governative, dovuta al fatto che, come risultato della dissoluzione dei legami della comunità locale e degli sviluppi di una società aperta e mobile, un numero crescente di persone non è più strettamente legato a gruppi particolari su cui contare in caso di disgrazia. Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un’economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani – cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli, ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare” (Hayek, Legge, legislazione, pp. 428-429). In casi del genere è opportuno creare una “rete” di sicurezza, per garantire un reddito minimo anche a quanti non sono (stati) in grado di provvedere al proprio sostentamento all’interno del mercato. Solo che questo “deve avvenire fuori dal mercato” e non “come correzione del mercato medesimo” (Petroni, p. 18).

Ben più radicale è invece la posizione (ultraliberale) di Murray Rothbard, che giunge perfino a rifiutare l’idea di uno “Stato minimo”. Secondo lui, infatti, “l’interesse pubblico non esiste; tutto, per natura, è privato, mentre nulla è pubblico”(cfr. Sorman, pp. 213-214). Parole come “Stato” e “società” non hanno alcun corrispettivo reale: sono delle mere illusioni verbali. Addirittura, “lo Stato è la più vasta e più importante organizzazione criminale di tutti i tempi, più efficiente di qualsiasi mafia della Storia” (p. 209). Coniugando capitalismo e anarchismo, egli propugna l’applicazione integrale del laissez faire, che non è semplicemente un aspetto o una conseguenza della libertà: è la libertà. Cioè il diritto naturale che ha ogni individuo di disporre di se stesso e di quanto ha acquisito con il proprio lavoro, con lo scambio e con il dono. Libertà e proprietà sono pertanto indissociabili. “Ogni attacco alla proprietà è un attacco alla libertà. Le società che separano libertà e diritto di proprietà privano l’uomo delle condizioni necessarie a esercitare realmente i suoi diritti. Non esiste quindi alcun diritto reale che possa essere distinto dalla proprietà (p. 210).

La legittimità dello Stato riposa esclusivamente sull’ideologia. Senza ideologia non vi sarebbe Stato. Per questo lo Stato foraggia da sempre gli intellettuali, vale a dire dei cortigiani che si premurano di legittimarlo, convincendo l’opinione pubblica che l’esistenza e i misfatti dello Stato sono in qualche modo necessari e devono essere tollerati. In questo aveva ragione Étienne de la Boétie, quando, nel suo Discorso della servitù volontaria, definiva lo Stato come il potere tirannico di una minoranza accettato da una massa consenziente. Il ruolo di ideologi al servizio dello Stato è stato svolto nel tempo dai chierici, dagli accademici e oggi dai tecnici. “Non è un caso che questi propagandisti siano più o meno tutti impiegati statali e che lo Stato controlli più o meno direttamente tutti i mezzi d’espressione e di comunicazione” (p. 210). D’altra parte, gli intellettuali in cuor loro condividono l’ideale platonico del filosofo-re. Ma nell’economia di mercato la loro influenza è pressoché nulla. E l’economia di mercato potrebbe sostituirsi in tutto e per tutto allo Stato, garantendo con efficienza anche migliore tutti i servizi oggi assicurati dallo Stato: dai trasporti all’istruzione, dalla polizia alla giustizia. La stessa atmosfera, qualora fosse privatizzata, non dovrebbe temere l’inquinamento. In una società veramente liberista, dove la crescita economica, non ostacolata dallo Stato con i suoi prelevamenti e le sue regolamentazioni, sarebbe assai più rapida, ci sarebbero molto meno poveri. E la carità verrebbe riabilitata. Mentre oggi, di fronte allo spettacolo della miseria, siamo portati a demandare allo Stato il compito di badarvi, nella società liberista “rinascerebbero i sentimenti di solidarietà e di aiuto reciproco” (p. 212).

6– Dal kantismo di Cournot e Walras al neoempirismo

Léon Walras è stato uno dei primi ad applicare sistematicamente la matematica all’economia. E se non ha apportato alcun contributo veramente nuovo sul terreno della spiegazione dei fenomeni economici, del problema economico ha però tentato un’ardita formalizzazione, la cui influenza è stata davvero enorme. Egli si propose di elaborare una dottrina in grado di conciliare la libertà del mercato (difesa dai liberali) con l’esigenza di giustizia sociale (propugnata dai socialisti). Per fare questo, egli si premurò di distinguere preliminarmente, nell’ambito dell’attività umana, l’area pertinente alla scienza da quella che riguarda invece la morale. “Così, la scienza economica dirà perché la concorrenza sia il solo mezzo per assicurare lo sviluppo della ricchezza, e la morale, invece, dirà quando e come si debba intervenire onde rendere giusta la distribuzione di quella ricchezza medesima” (Denis, II, p. 194). Una volta stabilito che esistono due grandi ordini di fatti, quelli “naturali” e quelli “umani”, Walras, all’interno di questi ultimi, opera un’ulteriore distinzione: da una parte pone quei fatti che “risultano dalla volontà e dall’attività dell’uomo quando queste si esercitano nei riguardi delle forze naturali, ossia i rapporti tra le persone e le cose”; dall’altra “quelli che risultano dalla volontà e dall’attività dell’uomo, quando si esercitano nei riguardi della volontà e dell’attività di altri uomini, ossia i rapporti tra persona e persona” (Eléments d’économie politique pure, p. 21). La scienza si occupa dei primi, la morale dei secondi. E aggiunge che l’economia politica pura, “ossia la teoria del valore di scambio e dello scambio”, è, “come la meccanica, come l’idraulica, una scienza fisico-matematica” (pp. 31-32).

Non ci interessa qui addentrarci nell’analisi della teoria walrasiana, ma, se mai, individuare donde derivino queste distinzioni, vale a dire la filosofia che esse sottendono. Ebbene, non c’è dubbio che dietro c’è l’influsso di Kant, il quale per Walras è un’autorità indiscutibile[17] e, in modo analogo, nell’Introduzione alla Critica del giudizio (pp. 9-12), si era posto il problema di sceverare, tra i principî che orientano l’attività dell’uomo, i “principî tecnico-pratici” (propri, ad esempio, di una “tecnica pratica” come l’economia politica) dai “principî etico-pratici” (propri della morale). Del resto, la filosofia kantiana alimenta pure il pensiero di uno dei precursori della cosiddetta scuola neoclassica: Augustin Cournot. Di fronte al metodo inaugurato dal positivismo comtiano, Cournot, convinto che, in materia economica, la ricerca debba proporsi di spiegare i fenomeni sulla base del ragionamento astratto, reagisce infatti negativamente. Secondo lui, non si può pensare di costruire la scienza attraverso un pedissequo ricalco dei fatti, accantonando di proposito idee e teorie, come se essa non fosse frutto della creatività del pensiero. Prima di procedere all’assunzione dei fatti, occorre “sottoporre a una prova critica il valore di quelle idee fondamentali che governano la nostra capacità di intendere” (Considérations sur la marche des idées et des événements dans le temps moderne, citato da Denis, II, p. 169). Il riferimento a Kant non poteva essere più esplicito, ma con il grande filosofo di Königsberg Cournot concorda pure nello scindere la morale e la religione dalla conoscenza razionale. Un conto è infatti la scienza dell’uomo, essere morale, un altro la scienza della natura: nel primo caso ci muoviamo nell’ambito della libertà, nel secondo in quello della necessità. Ma anche qui occorre distinguere e procedere con molta cautela, perché la natura vivente è diversa dalla natura inanimata. Quest’ultima ci presenta dei fatti conoscibili, cioè misurabili e calcolabili matematicamente, mentre i fenomeni provenienti dalla prima, che si sottraggono al discorso matematico, non sono scientificamente conoscibili. Diverso è il discorso relativo ai fatti umani, i quali, specialmente nelle società di massa, danno luogo a una sorta di “meccanica sociale” cui si può, di nuovo, applicare il metodo matematico e, in particolare, il calcolo delle probabilità. Nelle “società abbastanza popolate” si attua, per così dire, una cancellazione delle individualità: fenomeno che consente di prendere in considerazione “soltanto delle masse, sottoposte a una sorta di meccanismo molto simile a quello che regola i grandi fenomeni del mondo fisico” (Traité de l’enchaînement des idées fondamentales, citato da Denis, II, p. 171). Ed è proprio quello che fa l’economia politica, la quale, però, si limita a studiare le attività umane a prescindere da ogni aspetto etico. D’altra parte, nella società la “legge dei grandi numeri” ha il potere di dissolvere, in pratica, il carattere etico delle azioni individuali. Per il resto Cournot si dimostra pienamente persuaso che non vi sia alcuna economia più efficiente di quella fondata sul libero mercato e conviene con Malthus sulla necessità di mantenere le disuguaglianze sociali al fine di limitare la pressione demografica (cfr. Denis, II, pp. 172-173).

Diversa, invece, è la giustificazione che Kant fornisce dell’ineguaglianza sociale, la quale, a suo dire, rientra in un ineluttabile (e imperscrutabile) disegno della natura. Leggiamo, infatti, nella Critica del giudizio (p. 309): “L’abilità non può essere bene sviluppata nella specie umana che per mezzo dell’ineguaglianza tra gli uomini, perché il più gran numero di essi cura la necessità della vita quasi meccanicamente, senza aver bisogno di un’arte particolare, e pel comodo e il divertimento degli altri, i quali lavorano per gli elementi meno necessarii della coltura, la scienza e l’arte, tenendo i primi in uno stato di oppressione, nel quale lavorano duramente e godono poco, mentre però a poco a poco si propaga tra essi parte della coltura della classe superiore. I mali però crescono egualmente da ambo le parti col progresso di questa coltura (che si chiama lusso quando il bisogno del superfluo comincia già a nuocere al necessario), nell’una per l’oppressione, nell’altra per l’intima insoddisfazione; ma la miseria dorata si trova tuttavia congiunta con lo sviluppo delle disposizioni naturali nella specie umana, e il fine della natura stessa, se non il fine nostro, è raggiunto in questa maniera”. Laddove Rousseau (Discours, p. 140), partendo da un’analoga considerazione delle mostruose disuguaglianze tra gli uomini, esprimeva un netto rifiuto dell’ordine sociale costituito, Kant domanda “che ci si sottometta puramente e semplicemente al disegno della natura, la quale fa del genere umano il suo proprio strumento […]. Come il naturalismo degli economisti [a lui coevi], il criticismo kantiano conduce alla negazione di ogni potere della ragione umana sul piano dei rapporti fra gli uomini e dunque sul terreno delle relazioni sociali” (Denis, I, p. 318). Ma, mentre per gli economisti liberali la natura tende ad assicurare la felicità della specie umana, per Kant essa mira semplicemente a sviluppare le facoltà intellettuali e morali degli uomini. La felicità non è, in ogni caso, una certezza di questo mondo. Rousseau, dal canto suo, attribuisce al legislatore e al governo il compito di costruire quell’ordine sociale che per i liberali è invece una naturale conseguenza delle leggi economiche e del libero mercato.

Ma torniamo a Cournot e a Walras; la loro netta distinzione tra scienza e morale ci consente di affrontare un tema che, soprattutto con l’affermarsi dell’epistemologia neopositivista, è tornato di grande attualità: quello dell’avalutatività, per cui, invece di accompagnare e guidare l’agire dei soggetti economici, il sapere prodotto dalla scienza economica si limiterebbe a vedere e prevedere le azioni alla stregua del fisico che vede e prevede i movimenti della natura. Ora, a parte il fatto che le previsioni economiche – per dirla con una battuta di Galbraith – fanno apparire credibile l’astrologia, assumendo il carattere avalutativo come criterio per demarcare il sapere scientifico, si rischia di considerare l’avalutatività come “carattere inerente per essenza alla ragione stessa”. Con il risultato di negare ogni fondatezza razionale ai fini e ai valori. C’è infatti chi, come i non-cognotivisti, sostiene che “la ragione non ha nulla da dire sui valori” (cfr. Zamagni, Economia e filosofia). Il dominio della morale è stato così riportato a quello delle emozioni. Privilegiando il linguaggio descrittivo, il neo-empirismo è giunto a negare all’etica – intesa come scienza della morale – il carattere di una disciplina razionale. Se le proposizioni o gli enunciati che costituiscono il linguaggio descrittivo, stando ad Aristotele, sono le sole espressioni che possono essere dichiarate vere o false (e pertanto formare il patrimonio della scienza), le norme, le regole, gli imperativi che costituiscono la morale da tale punto di vista non hanno alcun senso. Già per Wittgenstein, ad esempio, “l’etica è inesprimibile” (Tractatus logico-philosophicus, 6.42). E Schlick (problemi di etica e aforismi, p. 165), più arditamente, puntualizza: “Quando raccomando un’azione a qualcuno come buona, esprimo il fatto che io la desidero”. Per Carnap (sintassi logica del linguaggio, p. 69) le proposizioni dell’etica sono pseudo-proposizioni che “non hanno contenuto logico”, poiché sono solo “espressioni di sentimenti che tendono a loro volta a suscitare sentimenti e volizioni in coloro che le ascoltano”. Questo punto di vista fu quindi assunto e diffuso in forma ancor più cruda da Ayer (Linguaggio, verità e logica, p. 128): “Dicendo che un certo tipo di azione è buono o cattivo io non faccio un’asserzione fattuale e neanche un’asserzione circa il mio proprio stato di spirito. Esprimo semplicemente certi sentimenti morali. E l’uomo che apertamente mi contraddice esprime semplicemente i suoi sentimenti morali. Così non c’è senso nel chiedere chi di noi ha ragione perché nessuno di noi asserisce una proposizione genuina. La funzione del linguaggio etico è quindi emotiva nel senso di stimolare emozioni e di portare all’azione, ma è impossibile trovare un criterio per determinare la validità dei giudizi etici”. Al limite, un valore può dirsi oggettivo solo in quanto sia intersoggettivo, oggetto cioè di desideri partecipati o partecipabili da un considerevole numero di persone.

I neo-empiristi hanno quindi sottoposto il linguaggio prescrittivo della morale ad una dettagliata analisi, distinguendo il significato descrittivo dei segni da quello emotivo. Il primo – secondo Charles L. Stevenson (Etica e linguaggio, pp. 46-47) – è la disposizione di un segno “a modificare la conoscenza, purché la disposizione sia causata da un processo elaborato di condizionamento che ha accompagnato l’uso del segno nella comunicazione e purché la disposizione sia fissata, almeno a un grado considerevole, da regole linguistiche”. Il secondo, invece, è “la forza che la parola acquista, sulla base della sua storia in situazioni emozionali, di evocare o esprimere direttamente atteggiamenti in quanto ciò si distingua dal descriverli o dal designarli”. Ne consegue che il significato emotivo – su cui si fondano appunto i giudizi etici – può prescindere, in tutto o in parte, da quello descrittivo. Sulla natura di un’azione, ad esempio, ci può essere accordo descrittivo, senza che vi sia identità o comunanza di atteggiamenti valutativi. In questo caso non è questione di conoscenza più o meno adeguata. E se c’è disaccordo, per superarlo non serve tanto il metodo razionale, quanto quello persuasivo, che dipende dalla portata emozionale delle parole, cioè “dal significato emotivo, dalla cadenza retorica, da una metafora adatta, da un tono di voce stentoreo, stimolante o pregante, da gesti drammatici, dalla cura di stabilire un rapporto con l’ascoltatore e così via” (p. 54). In altre parole, le proposizioni imperative (proprie del linguaggio della morale) non si possono dedurre da principi indicativi: esse derivano la loro efficacia dai principi prescrittivi che, in un determinato periodo storico, risultano generalmente accettati e condivisi nella società in cui si vive. Non sono dunque principi immutabili ed eterni, non hanno l’universalità degli imperativi categorici kantiani, tant’è vero che cambiano con il cambiare dei luoghi e dei tempi.

Se “le esortazioni alla virtù morale non sono affatto proposizioni, ma esclamazioni o comandi con la funzione di spingere il lettore verso azioni di un certo tipo” (p. 57), esse non appartengono a nessun ramo della filosofia o della scienza. Allo stesso modo, il concetto di libertà è indissolubilmente legato all’importanza che noi avvertiamo di dimostrarne l’esistenza, giacché noi sentiamo l’esigenza di ritenere le persone responsabili delle loro scelte, onde poterle giudicare e, a seconda dei casi, elogiarle o punirle. Se questo è vero, le asserzioni etiche sarebbero semplicemente espressioni del sentimento, prive di contenuto cognitivo e di valenza prescrittiva. Le valutazioni non aggiungono alcunché di fattuale alle proposizioni, tanto che asserire “hai fatto male a rubare!”, se non fosse per l’aggiunta di una personale disapprovazione, equivarrebbe in tutto e per tutto ad asserire “hai rubato”[18].

Ora, in economia più che altrove è difficile adeguarsi a queste conclusioni, che, accantonando ogni giudizio di valore, inficerebbero alle radici ogni proposito e ogni tentativo di migliorare l’esistente prospettando appunto delle opzioni. “Se si pensa all’economia come ad uno dei modi – anche se non certo il solo – di accrescere la nostra comprensione degli accadimenti del mondo sociale e soprattutto come ad uno dei modi di concorrere a modificare per il meglio determinati assetti sociali, il «punto di vista ufficiale», incorporato nell’economia del benessere, su ciò che l’economista, in quanto tale, è autorizzato a dire è sorprendentemente scarno. Se ben poco può dire sulla distribuzione del reddito e della ricchezza tra gli agenti economici, sostanzialmente nulla può dire sui processi di formazione e di mutamento delle preferenze dei soggetti o sul ruolo del potere nel determinare certi risultati economici piuttosto che altri. Inoltre, e più in generale, l’economista non può non sapere che i criteri che permettono di considerare certi obiettivi più desiderabili di altri sono tanto più necessari quanto più libere diventano le scelte e quanto più ampia diventa la portata delle decisioni da prendere. «Pur sapendo tutto questo – scrive con efficacia Jonas -, il teorico dell’economia si sente ancora costretto a negare alla propria scienza il potere di fornire tali criteri di scelta e, di conseguenza, l’autorità di dire o no a qualunque fine proposto, con l’eccezione, ovviamente, delle decisioni che riguardano la mera fattibilità. Inoltre, alla domanda se la conoscenza economica … debba essere giudice dei suoi obiettivi o una mera esecutrice, il purista risponde scegliendo la seconda possibilità. È la risposta dell’ascetismo scientifico, cui egli si attiene in nome della purezza scientifica dell’economia»“[19]. Così facendo, però, si trascura da un lato “l’impossibilità di isolare la componente della «pura logica» da quella della «pura esperienza»“ e, dall’altro, “il peso che in ogni teoria scientifica ha il grado di fiducia che si deve essere disposti a impegnare per accettare un certo insieme di ipotesi iniziali. E questa fiducia, ovviamente, si manifesta sotto forma di adesione a determinati valori e principi-guida”. Come dire che “la ragione può svolgere una funzione fondante dei valori e dunque che valori e conoscenza non necessariamente si oppongono fra loro”[20].

Contro la tesi del non-cognitivismo Zamagni sostiene che la teoria della razionalità è essa stessa una ben definita teoria etica. E lo dimostra, prima aggiungendo alla teoria standard della razionalità l’assunto generalmente condiviso che “gli individui sono agenti autointeressati”, così da pervenire, per via assolutamente consequenziale, alla provvisoria conclusione che “individui auto-interessati mai scelgono intenzionalmente ciò che è meno vantaggioso per loro. Per individui auto-interessati, la teoria della razionalità diventa allora la teoria della prudenza: il soggetto autointeressato è razionale se e solamente se è prudente”. A questo punto aggiunge un altro assunto che gode di largo consenso nell’ambito dell’economia del benessere: “quello per cui l’agente conosce perfettamente – e comunque meglio di ogni altro – ciò che è bene per lui. Ne deriva che ciò che è meglio per un individuo è proprio quello che egli preferisce di più: l’ammontare di benessere che un individuo consegue coincide con il grado al quale sono soddisfatte le sue preferenze”. Ora, stando al principio morale della benevolenza minimale (“ceteris paribus è cosa moralmente buona che la gente stia meglio anziché peggio”), soddisfare, ceteris paribus, le preferenze individuali è cosa moralmente buona. E qui entra in gioco l’ottimalità paretiana: “posta la benevolenza minimale, miglioramenti paretiani sono, ceteris paribus, «miglioramenti morali», così che gli ottimi paretiani rappresentano, ceteris paribus, un obiettivo moralmente difendibile che, in quanto tale, va perseguito”. Se di qui passiamo al “primo teorema fondamentale dell’economia del benessere”, giungeremo alla conclusione che “ceteris paribus, un equilibrio perfettamente concorrenziale è qualcosa di moralmente desiderabile e pertanto che le imperfezioni e i fallimenti di mercato costituiscono qualcosa di moralmente non accettabile” (Economia e filosofia). Ragion per cui l’economista che cerchi di applicare a questioni pratiche le proposizioni dell’economia del benessere (propugnando, ad esempio, l’ideale della concorrenza perfetta), nonostante rifugga per principio dal confrontarsi con le categorie etiche del discorso, non può del tutto eluderle. Volente o nolente, l’economista non può insomma prescindere dalla filosofia morale.

7 – La filosofia politica da Rawls al trionfo della globalizzazione

Negli anni Settanta del secolo scorso nell’ambito della filosofia politica si è acceso un vivace dibattito che, a cominciare da un importante saggio di John Rawls (Una teoria della giustizia), ha impostato i termini della giustizia in modo radicalmente nuovo, interessando anche studiosi di altre discipline, diritto ed economia comprese. Rawls si è infatti proposto di difendere la tradizione liberale sostituendo all’usuale fondazione utilitaristica una nuova fondazione contrattualistica, capace di conciliare le istanze della libertà con quelle della giustizia. Premesso che in una società giusta la libertà individuale non può assolutamente essere messa in discussione[21], egli ne individua l’origine in una sorta di contratto sociale che ipotizza stipulato in una situazione iniziale in cui gli individui, per effetto di un “velo d’ignoranza”, si trovano in condizioni di uguaglianza, e quindi di “equità”. Infatti il velo d’ignoranza impedisce loro di conoscere quale sia il loro posto nella società, la loro classe di appartenenza, la parte loro assegnata dal caso nella suddivisione delle doti naturali (forza, intelligenza e via dicendo). Questo fa sì che le parti, “razionali” e “reciprocamente disinteressate”, siano nelle condizioni ideali di “equità” per concordare tra loro, in maniera affatto autonoma, la “scelta dei principi di giustizia”: principi pertanto generali e universali, come voleva Kant[22]. E quindi veri e propri “imperativi categorici”.

Due sono i presupposti che ne regolano la scelta: “Il primo richiede l’eguaglianza nell’assegnazione dei diritti e dei doveri fondamentali, il secondo sostiene che le ineguaglianze economiche e sociali, come quelle di ricchezza e di potere, sono giuste soltanto se producono benefici compensativi per ciascuno, e in particolare per i membri meno avvantaggiati della società. Questi principi escludono la possibilità di giustificare le istituzioni in base al fatto che i sacrifici di alcuni sono compensati da un maggior bene aggregato. Il fatto che alcuni abbiano meno affinchè altri prosperino può essere utile, ma non è giusto”[23]. Come dire che le libertà individuali non ammettono disparità di sorta e che, al limite, le ineguaglianze, per essere ammesse, devono risolversi a pro dei “meno avvantaggiati”. O, meglio ancora, a pro di tutti. Di qui l’obbligo, per una società giusta, di rimediare agli svantaggi, siano essi economici o naturali, che gravano sui membri meno favoriti. Un elementare “principio di riparazione” richiede infatti che “se si vogliono trattare egualmente tutte le persone, e se si vuole assicurare a tutti un’effettiva eguaglianza di opportunità, la società deve prestare maggiore attenzione a coloro che sono nati con meno doti o in posizioni sociali meno favorevoli. L’idea è quella di riparare torti dovuti al caso, in direzione dell’eguaglianza. Per ottenere questo obiettivo dovrebbero essere impiegate maggiori risorse nell’educazione dei meno intelligenti invece che in quella dei più dotati, almeno in un determinato periodo della vita, quello dei primi anni di scuola” (p. 97). Complementare al “principio di riparazione” è il “principio di differenza”, il quale “richiede che le maggiori aspettative dei più avvantaggiati contribuiscano alle prospettive di quelli che lo sono meno” (p. 93). Insomma, chi più ha, più deve, in quanto “il benessere di ognuno dipende da uno schema di cooperazione sociale, in mancanza del quale nessuno potrebbe avere un’esistenza soddisfacente” (p. 99). Il principio di differenza sembra dunque “corrispondere al significato naturale della fraternità” (p. 102). E Rawls lo collega alla regola del “maximin”, derivata da quelle teorie dei giochi (non ignote agli economisti) che hanno per obiettivo ottimale quello di massimizzare i guadagni minimi[24]. “Le ineguaglianze sono permesse quando massimizzano, o almeno contribuiscono generalmente a migliorare, le aspettative di lungo periodo del gruppo meno fortunato della società” (pp. 136-137) Per questo la giustizia economica e sociale, nella considerazione del legislatore, deve avere la “priorità rispetto all’efficienza” (p. 213).

Molto diverso e, per certi versi, antitetico a quello di Rawls è il discorso di Robert Nozick, ricco pur esso di ricadute sul piano economico e sociale. Le esigenze primarie della giustizia aprono – come è facile immaginare – un ampio spazio alla politica e all’intervento dello Stato, cui ovviamente demandare il compito di assicurare l’uguaglianza sociale, ovviando (con la tassazione[25] o con vari interventi redistributivi) agli squilibri che si venissero ordinariamente a creare; Nozick (Anarchia, stato e utopia), al contrario, partendo dall’affermazione di diritti individuali inalienabili, prospetta l’idea di uno “stato minimo”, di uno Stato “guardiano notturno”, di ridotte funzioni, dotato di pochi e limitati poteri. Per lui lo “stato di natura” – che corrisponde alla “posizione originaria” di Rawls – è dominato dall’anarchia: come in Locke, da cui però si distacca quando respinge l’idea di un contratto che, dando origine al governo civile, consentirebbe appunto di superare i contrasti (peraltro inevitabili in condizioni di “libertà perfetta”) e di uscire quindi dall’anarchia. L’uscita che Nozick immagina è in realtà meno immediata e passa attraverso alcune fasi. Per appianare le dispute e far valere i propri diritti, gli individui possono costituire delle “associazioni protettive” (dotate di appositi organismi per dirimere eventuali controversie interne). Dal conflitto tra le varie associazioni protettive ne emergerà una dominante, capace di imporre il rispetto delle regole a tutti i suoi membri in un territorio di una certa ampiezza. Di qui allo “stato ultraminimo” il passo è breve. Quando un’associazione dominante, oltre a detenere il monopolio della forza per garantire ai suoi membri la protezione in una determinata area geografica, annuncerà pubblicamente che quanti saranno scoperti a usare la forza senza esplicita autorizzazione di chi nell’associazione è delegato a comandare saranno puniti, allora avremo, appunto, lo “stato ultraminimo”. Il quale, a sua volta, si distingue dallo “stato minimo”, perché quest’ultimo estende la sua protezione e l’applicazione dei diritti anche a chi, per ragioni di indigenza o per altri motivi, non abbia, per così dire, “pagato le polizze assicurative”. Lo “stato minimo” si serve in sostanza delle tasse di quanti con esse acquistano le polizze finalizzate alla protezione e all’applicazione dei diritti per garantire sia l’una che l’altra pure a coloro che non pagano le tasse.

Per Nozik, però, contano solo gli individui. E se è vero che, come individuo, “ciascuno di noi a volte preferisce sottoporsi a dolori o sacrifici per ottenere un beneficio maggiore o per evitare un danno maggiore”, qualcuno potrebbe, per analogia, sostenere che “qualche persona deve fare sacrifici da cui altre persone trarranno vantaggi maggiori, per amore del bene sociale complessivo”. Ma – obietta Nozick – “un’entità sociale, il cui bene sopporti qualche sacrificio per il proprio bene, non esiste. Ci sono solo individui, individui differenti, con le loro vite individuali. Usando uno di questi individui per il vantaggio di altri, si usa lui e si giova agli altri e basta. Che cosa succede? Che gli viene fatto qualcosa a profitto di altri. Ciò è nascosto sotto il discorso del bene sociale complessivo” (p. 35). “usare” una persona per fini che non sia essa stessa a scegliere, si tratti pure del bene della maggior parte o di tutta la società, significa violarne i diritti. E questo a nessun governo, a nessuno Stato è lecito: lo Stato deve mantenersi neutrale nei riguardi dei suoi membri. Allo stesso modo: “Non è giustificato alcun sacrificio di qualcuno di noi per altri” (p. 36). Negando la possibilità di alcun “atto equilibratore” tra gli individui e la società nel suo complesso, Nozick non avverte nemmeno la necessità di uno “stato esteso” che provveda alla “distribuzione” secondo criteri di “giustizia distributiva”. Anzi, a rigore, storicamente parlando, parlare di distribuzione non ha senso: “Quel che ogni persona riceve, lo riceve da altri che glielo danno in cambio di qualche cosa o in regalo. In una società libera, diverse persone controllano risorse differenti, e nuove proprietà nascono dagli scambi volontari e dalle azioni delle persone. Non c’è una distribuzione di parti più di quanto ci sia una distribuzione di compagni in una società in cui le persone scelgono chi sposare. Il risultato globale è il prodotto di molte decisioni individuali che i diversi individui implicati hanno diritto a fare” (p. 159). E, per quanto concerne la giustificazione della proprietà privata, nozick afferma: “i tratti generali della teoria della giustizia nella proprietà sono che la proprietà di una persona è giusta se la persona ha diritto ad essa in grazia dei principi di giustizia nell’acquisizione e nel trasferimento, o del principio di rettificazione dell’ingiustizia (così come è specificato dai due primi principi). Se la proprietà di ciascuno è giusta, allora l’insieme totale (la distribuzione) della proprietà è giusta” (p. 163). È cioè un diritto inviolabile, su cui nessuno “stato minimo” ha titolo alcuno a interferire. In effetti, “lo stato minimo ci tratta come individui inviolati, che non possono essere usati dagli altri in certe maniere come mezzi o arnesi o strumenti o risorse; ci tratta come persone che hanno dei diritti individuali con tutta la dignità che ne proviene. Trattandoci con rispetto perché rispetta i nostri diritti, ci permette, individualmente o con chi meglio crediamo, di scegliere la nostra vita e di conseguire i nostri fini e l’idea che abbiamo di noi stessi, nel limite delle nostre capacità, aiutati dalla cooperazione volontaria di altri individui investiti della stessa dignità” (p. 353). Non siamo ancora nell’utopia, ma poco ci manca.

Perché allora non condividere, con Richard Rorty, quell’utopia “liberal-ironista” che riesce a connettere “ironia” e “solidarietà”, tenendo conto che, a governare la storia e la società, non ci sono grandi principi e noi ci troviamo in una situazione di perenne “contingenza”? “L’utopia liberale non è qualcosa da teorizzare ma da vivere. È un atteggiamento che nasce non da teorie sulla «natura umana» ma dalla pratica sociale e dalle lezioni che apprendiamo dal presente e soprattutto dal passato” [Restaino, t. 2, p. 458]. In una comunità veramente democratica dovrebbe esserci spazio per un sostanziale equilibrio tra diritti dell’individuo e diritti della società, tra sfera privata e sfera pubblica. E, pur tenendo conto delle esigenze individuali, dovrebbe essere possibile (e lodevole) “lo sforzo di rendere più giuste e meno crudeli le nostre istituzioni e le nostre pratiche”[26].

Ora, per fare questo, è necessario riscoprire le idee, ridare dignità all’esercizio del pensiero, evitando, per quanto possibile, di affidarsi, les yeux fermés, a forze impersonali, come il mercato, che finiscono per diventare dispotiche e, mentre promettono libertà e benessere, producono conformismo e omologazione. Il mercato non può sostituirsi alle idee, alla cultura, perché non si occupa degli scopi della vita, non si pone alcuna domanda di senso. Il mercatismo fiorisce sulla morte delle idee. Certo, occorre anche distinguere le idee dall’esperienza, “cogliendo la vita come l’incessante tensione tra i due poli e l’irriducibilità dell’uno all’altro. Ma quella tensione che non accenna a trovare sintesi finali, garantisce la vitalità di entrambi: la realtà non è sacrificata sull’altare dispotico delle idee e le idee non sono sacrificate al dominio cinico della realtà. L’irriducibilità delle idee alle esperienze, e viceversa, è la garanzia della libertà di pensare e di agire e della loro rispettiva dignità”[27]. Laddove però si afferma il primato assoluto dell’attività pratica sul pensiero, dissolvendo l’idea nella prassi (cfr. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione) l’uomo abdica alla sua libertà di decidere e diventa un mero esecutore, anzi un automa. È stato questo l’inganno della modernità: “non siamo fabbri del nostro destino” come essa prometteva, “ma consumatori del medesimo, non soggetti ma oggetti degli eventi” (Veneziani, p. 112). Si pensi, ad esempio, alla globalizzazione, che “è precisamente l’ultimo effetto di questo primato della prassi sulle idee” (p. 111). Concepita come una forza fatale, come un naturale portato della modernità e del mercato, da accettare ad occhi chiusi, lasciandosi trasportare dalla sua impetuosa (e per alcuni provvidenziale) corrente, rischia ora di travolgerci nei suoi gorghi. “La globalizzazione è la glebalizzazione”, ha detto, con icastico gioco di parole, l’amico egidio rangone[28], ma questo è avvenuto, anzi sta avvenendo, perché non siamo più in grado di orientare la vita: perché, a furia di cambiare il mondo, abbiamo smesso di comprenderlo, di interpretarlo. E quindi anche di regolarne il corso. Dobbiamo quindi ritrovare la capacità di dare un orizzonte, un senso, una prospettiva alla nostra vita, se vogliamo davvero “trasformare gli eventi in esperienze degne di forma” (cfr. Hillman, p. 28). Non è un caso che anche Thomas A. Stewart, il quale ha studiato l’incidenza del “capitale intellettuale” sui processi produttivi delle grandi aziende e dei sistemi sociali, abbia di recente rimarcato l’importanza decisiva delle idee ai fini dello sviluppo, ammettendo che “la conoscenza è diventata il più importante fattore produttivo dell’economia moderna, la più vitale delle nostre materie prime”(cfr. Th. A. Stewart, pp. 9-11). Forse è giunto il momento, non diciamo di rovesciare, ma almeno di ritoccare, il vecchio adagio che qualcuno attribuisce a Hobbes: Primum vivere, deinde philosophari. Per l’uomo consapevole, in fondo, le due cose vanno insieme: marciano di conserva. Anche in ambito economico.

 

L’approccio etico

1 – Alle origini dell’economia

All’inizio, l’economia (dal greco oikonomìa: “amministrazione della casa, degli affari domestici”) non si differenzia dalla filosofia, di cui è semplicemente una parte: a rigore, quella che considera l’attività umana intesa a soddisfare i bisogni della famiglia dal punto di vista pratico. Essa si affianca all’etica, che è la scienza dell’attività individuale, e alla politica, che si occupa dell’attività sociale o della polis. Ma, poiché – a dire di aristotele, Etica Nicomachea, I, 2 – il tutto è superiore alle parti, la politica è senz’altro la scienza sovrana. Quando noi, oggi, parliamo di “economia politica” – espressione coniata da padre Antonio Serra nel 1613 -, non ci rendiamo più conto di associare due parole che per i Greci (e per secoli dopo di loro) non erano solo separate ma addirittura opposte. Mentre con il termine di “economia” si designava appunto la buona e accorta amministrazione della “casa come tutto” (cose e persone), con il termine di “politica” si indicava il governo della cosa pubblica, “il dominio impersonale delle leggi secondo giustizia da esercitarsi tra cittadini di uguale diritto”. L’oikos non era soltanto un erogatore di servizi o di beni di consumo, ma anche un’unità produttiva comprensiva sia della famiglia padronale e delle mura domestiche, sia degli schiavi e delle schiave, del terreno agricolo, dei raccolti, degli edifici in cui si ammassavano e si lavoravano le derrate, dei locali per alloggiarvi il bestiame. Nella sua dimensione minima l’oikos – quale “comunità che si costituisce per la vita quotidiana secondo natura” – si riduceva alla moglie e allo strumento vivente di lavoro: “a ragione Esiodo ha detto nel suo poema «oikos nella sua essenza è la donna e il bove che ara»“(Bodei Giglioni, p. 737).Tra oikos (spazio privato) e polis (spazio pubblico), a dispetto della loro contiguità, non mancavano né differenze né tensioni, se è vero che Platone, propugnando l’abolizione della proprietà privata delle donne e delle cose, mirava a restringere al massimo la dimensione privata, in modo da favorire un’autentica socialità tra gli uomini. Per Aristotele l’oikos – dove donne, bambini e schiavi erano sottoposti all’autorità di un padre-padrone – in quanto luogo della disuguaglianza e della subordinazione gerarchica si contrapponeva alla polis che, qualora avesse assecondato gli ordinamenti di una buona costituzione, sarebbe invece diventata il luogo dell’uguaglianza tra cittadini capaci di autogoverno. “Lo Stato è la comunità del giusto vivere” (politica, III, 9). Ed è proprio per impedirne la corruzione che lo Stagirita condanna il commercio e la “crematistica propriamente detta, o pura” , in quanto si propongono l’accumulazione illimitata di ricchezze. Occorre tuttavia puntualizzare che egli distingue, nella crematistica, anche una forma naturale, quella domestica, che consiste nel procurarsi dei beni in vista della soddisfazione dei bisogni essenziali; ebbene, questa forma è del tutto legittima e rientra a pieno titolo nell’”economia”, laddove l’altra è riprovevole: “La forma domestica della crematistica ha uno scopo diverso dall’accumulazione di denaro; l’altra, al contrario, ha per fine l’accumulazione stessa. Di conseguenza, alcuni pensano che l’accumulazione sia anche il vero obiettivo dell’amministrazione domestica, e vivono, perciò, immersi nell’idea che sia loro dovere conservare intatta la propria riserva di denaro, o addirittura di accrescerla indefinitamente. La ragione di un tale atteggiamento si ritrova nel fatto che essi si impegnano unicamente a vivere e non a vivere secondo il bene; ora, poiché l’appetito di vivere è illimitato, essi sono ugualmente portati a desiderare dei mezzi illimitati, onde soddisfarlo. Del resto, persino quelli che si sforzano di condursi moralmente, cercano pur sempre il modo di concedersi un massimo di piaceri sensuali; e poiché un simile modo è dato dal possesso delle ricchezze, ecco che finiscono per impiegare tutto il loro tempo nel tentativo di ammassare denaro” (politica, I, 9).

Per Aristotele l’uomo d’affari è dunque “un essere contro natura”, perché è chiaro che “la ricchezza non è quel bene supremo di cui andiamo in cerca” (Etica Nicomachea, I, 5, 7). Né troppo diversamente la penserà Cicerone, il quale, pur con qualche eccezione, ribadirà la condanna di quell’attività crematistica che ha per solo fine il lucro. Seneca, invece, non vede per quale ragione si dovrebbe interdire la ricchezza ai filosofi: “nessuno – dice – ha condannato la saggezza alla povertà” . L’importante, se mai, è non esserne schiavi. Habere non haberi sarà infatti il suo motto. Per lui “il filosofo potrà possedere senz’altro una grande ricchezza, purché non sia stata tolta a nessuno, né macchiata dal sangue altrui, e sia stata acquisita senza far torto a chicchessia e senza il ricorso a sordidi e vergognosi guadagni. Una tale ricchezza, invero, potrà essere onorevolmente spesa così come è stata onorevolmente acquistata, e sarà invisa soltanto ai malevoli. La si accumuli pertanto sin che si voglia: essa è onorevole, dal momento che, mentre assomma in sé molte cose che ognuno vorrebbe dir proprie, non ne contiene nessuna di quelle che qualcuno potrebbe dir sue” (De vita beata, 23).

Il cristianesimo tornerà, a sua volta, a condannare e talora a demonizzare la ricchezza, partendo dall’evangelico presupposto che “nessuno può servire a due padroni”. L’alternativa è dunque tra Dio e Mammona. E tuttavia San Tommaso, che pure nella Summa theologica riprende gli argomenti di Aristotele contro il commercio, ammette la liceità dell’attività mercantile se chi la pratica ne impegna i proventi per sostentare la propria famiglia o per alleviare l’indigenza dei poveri. Contano, insomma, le intenzioni e l’uso che si fa della ricchezza. Solo con l’umanesimo il giudizio sulla ricchezza muta radicalmente di segno. Leon Battista Alberti, ad esempio, scrive che “pur si vede il danaio essere di tutte le cose o radice, o esca, o nutrimento. Il danaio niuno dubita quanto è sia nervo di tutti è mestieri, per modo che chi possiede copia del danaio facilmente può fuggire ogni necessità e adempiere molta somma delle voglie sue. Puossi con danari avere e casa e villa; e tutti è mestieri, e tutti gli artigiani quasi come servi s’afaticano per colui il quale abbia danari. A chi non ha danari manca quasi ogni cosa, e a tutte le cose bisogna danari […]. Se adunque il danaio supplisce a tutti i bisogni, che fa mestiere occupare l’animo in altra masserizia che in sola questa del denaio?”. L’attenzione dell’Alberti torna quindi a concentrarsi sulla famiglia, che si presenta come un microrganismo, come una società isolata e chiusa in se stessa, come una minuscola “repubblica” basata sul vincolo della consanguineità, tendenzialmente autonoma e autarchica anche per quanto riguarda la produzione. Manca la prospettiva più ampia della civitas, quantunque la “masserizia”, vale a dire la ricchezza della famiglia (che non è costituita, ben inteso, solo dai beni materiali – pur importanti -, sì anche da valori meno ponderabili, come la solidarietà affettiva, i legami di sangue, l’onore e la “virtù”), non possa prescindere dal mondo esterno. Essa si costituisce infatti tramite la “mercanzia”, cioè mediante “essercizii accomodati a fare roba”, quali “comperare e vendere, prestare e riscuotere”. Al mercante che voglia crearsi una fortuna si raccomanda la vigilanza negli affari, la conoscenza puntuale delle situazioni, la cura puntigliosa dei dettagli e, naturalmente, un’accorta valutazione razionale, una contabilità precisa, un’ordinata scrittura. “Dicea messer Benedetto alberti, uomo non solo in maggiori cose della terra, in reggere la repubblica prudentissimo, ma in ogni uso civile e privato savissimo, ch’egli stava così bene al mercatante sempre avere le mani tinte d’inchiostro” (I libri della famiglia, III). E proprio perché un’attività così difficile e complessa finisce in pratica per assorbire e per esaurire le energie del capofamiglia, la conduzione della casa viene demandata alla donna: tocca a lei mantenere l’ordine domestico, che assicuri la preservazione della ricchezza derivata dall’attività esterna. A lei sono affidate le chiavi della casa, con tutte le connesse responsabilità, a cominciare dalla vigilanza scrupolosa sui servi e sulle ancelle, perché rifuggano dall’ozio ed evitino ogni sciupìo. Non si può ovviamente parlare di emancipazione femminile, in quanto siamo solo di fronte a una divisione dei compiti: alle “maggiori faccende” sovrintende l’uomo, a quelle “minori” la donna. E “sarebbe poco onore” – precisa l’Alberti – “se la donna traficasse fra gli uomini nelle piazze, in publico”, così come sarebbe d’altro canto biasimevole per un capofamiglia “tenersi chiuso in casa tra le femine”, visto che a lui si addice “nelle cose virili tra gli uomini, co’ cittadini, ancora e con buoni e onesti forestieri convivere e conversare” (ib.).

Nell’Alberti acquista evidenza quell’”etica del lavoro” e dell’intraprendenza che già da qualche secolo aveva improntato di sé l’evoluzione della borghesia mercantile e artigiana, distinguendola sempre più nettamente dall’aristocrazia feudale – principalmente dedita alla guerra e agli esercizi cavallereschi – e dal clero, regolare e secolare. Ora, si fa comunemente risalire al cristianesimo e in particolare al monachesimo la rivalutazione del lavoro, ivi compreso quello manuale e fisico, solitamente ritenuto, nell’antichità greco-romana, un’attività da riservare agli schiavi (opus servile) e, come tale, indegna di un uomo libero. E in effetti per Sant’Agostino (De Genesi ad litteram, VIII, 8) il lavoro non è soltanto un’incresciosa conseguenza del peccato originale, sì anche e soprattutto una prosecuzione umana dell’opera creatrice di Dio. Eppure, se leggiamo con attenzione la Regula benedettina, ci accorgiamo che “la prescrizione del lavoro manuale non è giustificata dall’idea che il lavoro abbia valore in sé, e tanto meno si ritiene che abbia valore in sé la produttività come tale. Come già in Cassiano (Institutiones X, 8), secondo il quale il lavoro va inteso come via ascetica di salvezza, anche per Benedetto il lavoro manuale è valorizzato in modo strumentale come potente mezzo contro l’otiositas, pericolosissimo vizio nemico dell’anima. In realtà, i monasteri continuano a utilizzare il lavoro servile dei coloni e dei mancipia, in continuità con l’antico istituto della schiavitù. Per questo aspetto, il monachesimo rimane tradizionalmente aristocratico e non rompe l’ordine costituito, anche se afferma il principio egualitario del cristianesimo. In sostanza, il lavoro manuale viene imposto come fondamentale esercizio di umiltà che deve accompagnare l’intellettuale impegno sui testi sacri, la lectio divina (Sciuto, p. 42.). In altre parole, il lavoro manuale acquista valore come strumento formativo nell’ambito di un processo ascetico e spirituale, in quanto promuove l’autorealizzazione e l’autoperfezionamento del monaco. Indirettamente – è vero – il lavoro dei monaci contribuisce al progresso economico, al miglioramento dei metodi e degli strumenti produttivi, ma non presuppone ancora una concezione del lavoro come valore in sé. Questa si avrà soltanto con l’Umanesimo[29]. E se già il Decameron di Giovanni Boccaccio si può leggere come un’”epopea mercantile”, come un’esaltazione cioè dell’uomo libero e intraprendente che, con la propria spregiudicata intelligenza e con la propria energia, riesce a contrastare il capriccioso gioco della Fortuna e a realizzarsi anzitutto qui, sulla terra, grazie alla propria operosità, sarà però l’umanista Poggio Bracciolini, nel De avaritia, a lodare espressamente l’attività economica, a considerare il lavoro non più come una condanna ma come una benedizione per l’uomo, che trova in esso lo strumento con cui creare il suo mondo e dominare la natura, a vedere infine nella ricchezza il segno tangibile dell’approvazione di Dio al lavoro umano. Egli si spingerà ad affermare che “allo Stato il denaro è nerbo necessario, e gli avari ne devono essere considerati base e fondamento”. Sulla sua scia si muoverà l’Alberti.

2 – La nascita dell’”economia politica”: dalla jealousy of trade alle alternative dell’utopia

Con il Rinascimento la teoria aristotelica dello Stato come “entità naturale” viene praticamente accantonata per essere via via sostituita da quella – di ascendenza epicurea – del contratto sociale. Lo Stato cessa di essere il fine ultimo della vita umana, mentre la ricchezza viene riconosciuta come valore supremo. A legare tra loro gli uomini sul piano sociale sono soprattutto gli interessi economici, per il semplice motivo che la ricchezza di ciascuno propizia l’arricchimento degli altri. Così per john Hales “ciò che reca profitto a uno, potrà esser lucroso anche per il suo vicino e, di conseguenza, per tutti”. La ricerca del profitto individuale sta dunque alla base della comunità economica (Hales la chiama “repubblica”) formata dai membri di una nazione. Per Antoine de Montchrestien, per mantenere i sudditi nell’obbedienza, basta consentire loro di arricchirsi, giacché “la felicità degli uomini consiste principalmente […] nella ricchezza, e questa, a sua volta, dipende dal lavoro”. Dipende, in particolare, dal commercio, che diventa per lui “il principale scopo delle diverse arti produttive”: ragion per cui uno Stato che si rispetti dovrebbe anzitutto impegnarsi a stimolare la produzione e gli scambi. Siamo – come si vede – in piena logica mercantilistica, una logica che ribalta gli assunti aristotelici circa la superiorità della vita propriamente politica su quella economica. La ricerca del profitto va elogiata, non biasimata, poiché “i mercanti sono utilissimi allo Stato”: la loro brama di guadagno, alimentando il lavoro e l’industria, “determina e condiziona in larga misura il bene pubblico”. “L’uomo dei nuovi tempi, nella misura in cui riflette sul senso della propria vita, non crede più, come il cittadino della polis antica, che il suo destino sia quello di garantire la permanenza e lo sviluppo della libera comunità umana cui appartiene; egli pensa, invece, che la sua vera missione stia nel guadagnar del denaro” (cfr. Denis,, I, pp. 127-138).

Una convergenza di fondo tra gli interessi dello Stato da un lato e gli interessi dei mercanti e dei “manifatturieri” dall’altro sembrava pur sempre consentita dal fatto che l’abbondanza di uomini e di denaro perseguita dal primo era altresì considerata la conditio sine qua non dell’industria e del commercio. Se la potenza dello Stato dipendeva dalla disponibilità di uomini da arruolare negli eserciti e dalla quantità del circolante (con cui ci si poteva provvedere di ogni cosa), lo sviluppo delle industrie e delle esportazioni dipendeva dall’abbondanza di mano d’opera sul mercato e dalla possibilità di accedere agevolmente al credito. Si credeva insomma che uomini e denaro in quantità garantissero a un tempo la prosperità dello Stato e la prosperità dei mercanti. Ma non mancavano le controindicazioni, che andavano dai bassi salari alla povertà dei lavoratori, dal rischio dell’inflazione (con il conseguente rialzo dei prezzi) all’accentuarsi della conflittualità tra gli Stati, dal saccheggio delle colonie alla tratta degli schiavi. Se l’espansionismo coloniale era legato alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali, dalla gara per accaparrarsi i metalli preziosi e per conquistare nuovi mercati, nonché dalla necessità di assicurarsi comunque una bilancia commerciale favorevole, derivò quella che Hume avrebbe più tardì bollato come jealousy of trade, fomite di tensioni e di contrasti internazionali a non finire. D’altra parte era evidente che, con tali presupposti, la ricchezza di uno Stato comportava la povertà di altri. Se ne ha una riprova nelle memorabili pagine in cui il filosofo Johann G. Fichte descrive la progressiva pauperizzazione della Germania alla fine del Settecento in concomitanza con il progressivo arricchirsi degli altri paesi (cfr. Lo Stato commerciale chiuso edito nel 1800). Ma, a ben guardare, la stessa Rivoluzione americana, con la ribellione delle colonie alle esose pretese della madrepatria, si potrebbe interpretare come un clamoroso esempio di opposizione ai sistemi mercantilistici.

A Platone e alla sua comunanza dei beni si ispirava invece Thomas More, che vedeva nell’”insaziabile avidità di denaro” la fonte di tutti i fastidi e di tutti i delitti: “Chi può ignorare – scrive in una celebre pagina dell’Utopia – che tutte quelle frodi, furti, rapine, risse, disordini, contese, tumulti, assassinii, tradimenti, avvelenamenti, che le quotidiane esecuzioni capitali riescono a punire ma non a raffrenare, subito si spengono non appena sia tolto di mezzo il denaro? e che nello stesso istante dileguano paura, ansietà, affanni, tormenti ed insonnie? E che la povertà stessa, la quale sembra patire penuria di solo denaro, una volta che questo venisse soppresso del tutto, subito verrebbe anch’essa ad attenuarsi?” Paradossalmente, il denaro, “l’invenzione sopraffina che avrebbe dovuto spianarci la strada” per procacciarci di che vivere, è divenuto l’ostacolo maggiore a tale scopo. E tuttavia la società prefigurata da More non è quella aristocratica di Platone: egli, infatti, non abolisce la famiglia, ma le classi sociali; la comunanza dei beni, così come l’obbligo del lavoro manuale, si estende a tutti i cittadini. È viva in lui quella fiducia nella naturale bontà degli uomini che si ritrova pure in un altro convinto sostenitore del “comunismo”: Tommaso Campanella. Ma l’autore de La Città del Sole basa le sue convinzioni su una filosofia che bandisce ogni contrapposizione tra materia e spirito, nel nome di una natura divinizzata o di un armonioso pampsichismo. L’armonizzazione stessa della società risponde al bisogno di integrare l’umano consorzio nell’ambito della più vasta (e razionale) armonia cosmica e si traduce in una sorta di “teocrazia filosofica” (cfr. Asor Rosa, p. 205) in cui la lezione di Platone si coniuga con le istanze di una auspicata riforma cattolica. La società vagheggiata da Campanella è sì egualitaria, ma anche gerarchicamente strutturata, sulla base di una funzionalità che ha radici (e giustificazione) nella natura, anzi nella virtù naturale. Compito dello Stato è quello di riconoscere e di promuovere le attitudini naturali dei singoli, sì da volgerle al fine cui esse tendono, nell’interesse di tutti. Ad ognuno, dunque, il suo posto e la sua funzione, in un insieme regolato da un principio superiore, che si esprime in una sorta di trinità metafisica: Pon (Potestà), Sin (Sapienza), Mor (Amore). Sono questi, infatti, i tre prìncipi-sacerdoti che assistono e coadiuvano il Principe Sacerdote del Sole: il Metafisico, in cui “temporale” e “spirituale” si fondono. Sapere e potere in lui coincidono; anzi, si può dire che la sua autorità sia il mero riflesso della sua sapienza. La Città del Sole è sostanzialmente un ritorno allo stato di natura, all’armonia delle origini, ad un’ordinata e razionale convivenza civile che passa attraverso il ripudio della monogamia, della proprietà privata, della ricerca del profitto, del denaro. Gli individui devono lasciarsi guidare dall’amore, dalla preoccupazione per il bene comune, non dal tornaconto personale.

Se ci soffermiamo su Campanella è per il semplice motivo che nel suo progetto di città ideale compaiono già alcuni tratti distintivi del pensiero utopistico a venire, a cominciare dal rigido funzionalismo che impronta l’intera compagine sociale, e che qui si traduce, ad esempio, in un’organizzazione della produzione e del lavoro fin troppo razionale per essere vera. Una “costruzione” del genere funziona solo sulla carta, perché è un prodotto artificiale che nasce come proiezione letteraria di wishful thinkings e non tiene conto della complessità dei problemi. Quello che sembra l’esito felice di una persuasa spontaneità non potrebbe in effetti realizzarsi senza il supporto di un sistema burocratico pervasivo e l’adozione di forti misure coercitive. E così si scivola, inavvertitamente, verso quello che Max Horkheimer chiamerà Verwaltete Welt, cioè “un mondo amministrato”, privo affatto di libertà. I modelli utopistici si presentano come mondi perfetti, senza contraddizioni, immuni da problemi che qualche intervento di ingegneria sociale non possa comunque risolvere illico et immediate. Campanella, così come poi Harrington, Morelly, Mably, Cabet e altri ancora, partono da una concezione naturalistica dell’uomo, il quale, per qualche misterioso accidente, avrebbe appunto smarrito la bontà e l’innocenza delle origini; peraltro potrebbe agevolmente riacquistarle, qualora rinunciasse al nefasto istituto della proprietà privata. Per ristabilire l’armonia sociale, basterebbe ritornare alle leggi dettate dalla natura. Tre, per Morelly, sono fondamentali: nessuno potrà possedere alcunché di proprio; ognuno sarà mantenuto e occupato a spese della società; ciascuno dovrà contribuire all’utilità pubblica in proporzione delle sue forze. Ma, forse perché si rende conto della loro insufficienza, lo stesso autore provvede poi – nel suo Codice della natura – a corredarle di varie altre leggi, che sono molto meno naturali: da quelle “economiche” a quelle “di polizia”, da quelle “suntuarie” a quelle “dell’amministrazione del governo”, ecc. Fino a contemplare delle leggi appositamente intese ad impedire “i traviamenti dello spirito umano e ogni fantasia trascendente”. Evidentemente, pur non pensando, come Kant, che l’uomo sia “un legno storto”, Morelly sente il bisogno di prevenirne gli eventuali traviamenti.

Ben altra incidenza ebbe sul pensiero economico la filosofia di Cartesio, come dimostra la prefazione di Sir Dudley North ai suoi Discourses upon Trade (Londra 1691): “Voglio sottolineare che in quest’opera il commercio viene trattato in una maniera diversa da quella abituale: intendo dire che se ne discorre in forma filosofica […]. Questo metodo di ragionamento è stato introdotto dalla nuova filosofia. L’antica s’occupava piuttosto di astrazioni che non di verità; essa veniva impiegata per formular delle ipotesi e per fissare dei principi quanto mai precari e ostici al senso comune, come l’ascesa, in linea diritta od obliqua, degli atomi nel vuoto, o come la materia e la forma, la privazione, le orbite solide, l’orrore del vuoto, e molti altri di tal fatta, in cui non era certezza alcuna. Con l’apparizione però dell’eccellente Discorso sul metodo di Descartes, così universalmente approvato e accettato ai nostri giorni, tutte quelle chimere si sono ben presto dissolte e sono affatto scomparse. Ne è derivato che la conoscenza, almeno in larga misura, è divenuta meccanica, parola che si può benissimo interpretare dicendo che indica una conoscenza fondata su delle verità chiare ed evidenti”. Grazie a tale applicazione del metodo cartesiano ai problemi commerciali, il gentiluomo inglese giungeva a formulare lucide critiche al mercantilismo, in particolare contro le restrizioni al commercio internazionale, nonché contro le tariffe e i monopoli: “Nessun popolo è mai diventato ricco grazie agli interventi dello Stato; sono invece la pace, l’industria, la libertà, e niente altro, che sviluppano i commerci e la ricchezza”. E gettava le fondamenta della nuova scienza politica affermando con decisione che “non spetta in nessun caso alla legge di fissare i prezzi commerciali, perché questi debbono fissarsi, e in realtà si fissano, autonomamente” (cfr. Denis, I, p. 175).

A Cartesio si deve il trionfo della concezione meccanicistica della scienza. Per scalzare definitivamente i principi dell’aristotelismo e rendere possibile un nuovo tipo di conoscenza della totalità del reale, egli partì da “regole certe e facili” che dovevano rendere “impossibile prendere il falso per vero”. Egli era convinto che tutta la filosofia fosse “come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che sorgono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale”: ben inteso, “la più alta e perfetta morale, che presupponendo un’intera conoscenza delle altre scienze è l’ultimo grado della saggezza”. Era, questa, la scienza dell’uomo, ma, poiché il meccanicismo si estendeva a tutto il mondo non spirituale, l’uomo stesso, per certi versi, veniva assimilato a una macchina. O, meglio: Cartesio, nel distinguere nell’uomo, “animale spirituale”, la coesistenza di due sostanze, la res cogitans e la res extensa, approdava a una sorta di incomponibile dualismo: come può infatti l’anima inestesa agire sugli spiriti vitali che regolano i movimenti del corpo, res extensa? Fatalmente si finiva per concepire la causalità come una sorta di spinta meccanica, anche se era poi difficile, per non dire impossibile, spiegare come (e dove) l’anima – sostanza pensante – potesse avere un punto di presa, necessario per imprimere il moto, sul corpo. Cartesio stesso, nel trattato su Les passions de l’âme, cercò di approfondire il tema del dualismo e del possibile contatto della res cogitans e della res extensa, ma senza apprezzabili risultati. Nondimeno l’opera resta assai importante “poiché apre la strada alla psicologia scientifica e afferma la possibilità di applicare ai fatti umani le leggi della fisica” (ib., p. 169).

In ogni caso, vari pensatori, sulla scia di Cartesio, imboccarono la strada di un rigoroso meccanicismo, tentando di pervenire per tale via ad una spiegazione scientifica della realtà sociale. Così Thomas Hobbes nel suo Leviathan (1651) concepisce la società come un “animale artificiale”, alla stregua cioè di una macchina, di cui i singoli individui costituirebbero le ruote interne. Ma, in fondo, anche il liberalismo, quando fa dell’uomo una realtà del tutto autonoma e pertanto lo considera come un atomo a sé stante, affatto separato dagli altri atomi, finisce per immaginare la società come un sistema atomico meccanicamente organizzato. Per non parlare, poi, di filosofi materialisti come Helvétius, Diderot, La Mettrie, d’Holbach: una volta superata la distinzione tra fenomeni fisici e spirituali a tutto vantaggio dei primi, con l’adozione di un materialismo integrale, era inevitabile che si equiparasse l’uomo alla macchina (si veda, appunto, L’uomo macchina di La Mettrie) e che anche nell’analizzare i problemi dell’uomo si adottasse il metodo delle scienze esatte[30].

D’altra parte, la penetrazione in economia della più generale concezione empirico-sperimentale della conoscenza scientifica – quella, per intenderci, di stampo galileiano e baconiano – è già ravvisabile ne L’aritmetica politica di William Petty (1623-1687), il quale pone, appunto, “numero, peso e misura” a fondamento del discorso scientifico. A lui si rifarà espressamente Richard Cantillon (1680-1734), cui va il merito di avere per primo enunciato la teoria del circuito economico (il Kreislauf di J. A. Schumpeter, che alla sua scoperta riconduce la nascita della scienza economica). Cantillon raggruppa infatti gli agenti economici nelle tre categorie dei salariati, degli imprenditori e dei proprietari. “Tutti gli abitanti dello Stato – egli scrive – vivono del prodotto della terra”. Il fittavolo-imprenditore vi ricava “tre rendite”: la prima è quella “principale e reale, che egli paga al proprietario”; la seconda serve al sostentamento suo e dei lavoranti; la terza è il profitto della sua impresa. Queste sono appunto le fonti principali “della circolazione nello Stato”, che egli illustra – con supporti aritmetici – attraverso le relazioni fra i tre ordini della società.

3 – Adam Smith e la riflessione sulla morale nell’illuminismo inglese

Naturalismo e individualismo si davano dunque la mano e si giustificavano a vicenda. L’ordine della società non si basava più, come nel Medioevo, su istanze trascendenti, di natura teologica. E pensare che, venuto meno, con il collante religioso, anche il principio d’autorità, pareva che nessuno potesse più arginare lo sfrenarsi degli egoismi individuali. Si era temuto che, in seguito al tracollo della morale tradizionale, ogni armoniosa coesistenza sociale fosse ormai impossibile. Si ha un bel dire, oggi, che “la tanto decantata natura ‘organica’ e ‘cooperativa’ della società medievale” non regge alla prova dei fatti (cfr. Barrington Moore jr, p. 25), nondimeno è difficile credere alla sostanziale ininfluenza delle sanzioni morali che la religione da un lato e la cultura dall’altro comminarono per secoli contro il potere disgregatore del denaro e dell’ambizione sociale. Dante non fu l’unico a prendersela con “la gente nova e i sùbiti guadagni”. La letteratura cavalleresca veicolava, a sua volta, un’immagine negativa del mercante, di cui rimarcava l’avarizia-avidità e l’ambizione. La Chiesa condannava l’usura, partendo dal presupposto che il tempo fosse di Dio e pertanto non si potesse lucrare su di esso a cuor leggero. Ancora all’inizio del Trecento si proponevano questioni come questa (cfr. Le Goff, p. 3): Quaeritur an mercatores possint licite plus recipere de eadem mercatione ab illo qui non possit statim solvere quam ab illo qui statim solvit [“Ci si chiede se i mercanti possano lecitamente ricevere di più per la stessa operazione commerciale da chi non può pagare sul momento che da chi paga subito”]. E la risposta ovviamente è no, perché tunc venderet tempus et sic usuram committeret vendens non suum [“in tal caso venderebbe il tempo e così, vendendo ciò che non è suo, commetterebbe usura”][31]. Non era dunque infondato il timore che, minando la struttura organica di una compagine sociale in cui ognuno, in quanto membro di questa o quella corporazione, di questo o quel gruppo organizzato, aveva il suo posto e la sua funzione, con diritti e obblighi ben stabiliti, l’individualismo aprisse senz’altro la strada al caos. Per evitare questa iattura Machiavelli elaborò l’idea di un principe che fosse insieme “golpe” e “lione”, in grado cioè di contenere la nativa malvagità degli uomini, mentre Hobbes non esitò a propugnare l’eccellenza dell’assolutismo monarchico. Locke fu il primo a intuire che l’ordine e la libertà non sono tra loro incompatibili. Gli uomini si danno un governo senza per questo rinunciare ai loro diritti naturali, anzi lo Stato ha proprio il compito di tutelare quelle che sono le leggi di natura, a cominciare dalla libertà d’iniziativa individuale. Soltanto il singolo infatti può sapere che cosa è veramente di suo personale interesse. E se anche l’individuo può talora sbagliare, è assai improbabile che il consenso della maggioranza dei cittadini – su cui appunto si regge un governo di democrazia liberale (principio maggioritario) – venga dato erroneamente. Come scrive Francis Hutcheson nel suo Sistema di filosofia morale: “Benché una maggioranza, o anche ciascun individuo in una grande moltitudine, possano essere corrotti e ingiusti, tuttavia tali uomini uniti insieme raramente mettono in vigore leggi ingiuste. Vi è un senso del diritto e del torto in tutti, accompagnato da una naturale indignazione contro l’ingiustizia”. Il bene comune presuppone l’adesione (e la decisione) della maggioranza.

Fin allora, però, nessuno era riuscito a sistematizzare in maniera adeguata le leggi naturali della vita economica e a teorizzarne i rapporti con la libertà degli individui e con l’intervento del governo. Quale ordine e quale logica sottendeva un’economia in pieno fermento e in quotidiana evoluzione, al progresso della quale – favorito dalle recenti scoperte scientifiche e dalle numerose innovazioni tecnologiche – contribuivano gli sforzi individuali di migliaia di persone che agivano per conto proprio? “Da un lato, c’era una questione teorica da risolvere: quali erano i princìpi che dovevano regolare i rapporti sociali in una società individualistica, competitiva, mutevole? Dall’altro lato, la questione era del tutto pratica: l’intervento e il controllo del governo avrebbero favorito o impedito il progresso di una simile società?” (Fusfeld, p. 49). Alla soluzione di questi ardui problemi – diciamo – di filosofia sociale si applicò Adam Smith: l’Inchiesta sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, edita nel 1776, ne fu l’esito magistrale. Amico di Hume e allievo di Hutcheson, Smith era espressione del migliore illuminismo scozzese: le ricerche di E. Cannan, che ne ha curato l’edizione critica, hanno dimostrato che la sua opera, più che alla fisiocrazia, attinge alla filosofia morale scozzese. Lui stesso insegnò filosofia morale a Edimburgo e a Glasgow. Hutcheson, che insegnava filosofia a Glasgow, aveva supposto che negli uomini, oltre ai sensi (dai quali derivano la conoscenza del mondo fisico), vi fosse pure un “senso morale”, cui si doveva la valorizzazione delle azioni virtuose. Esso guiderebbe infatti le nostre azioni procurandoci un elevato piacere, “così che, mentre vogliamo unicamente il bene degli altri, intenzionalmente promuoviamo il nostro proprio maggior bene”. Hume non era però soddisfatto di questa conclusione, che, secondo lui, risentiva ancora troppo delle concezioni religiose: per lui la virtù non era che una qualunque azione o qualità psichica in grado di suscitare “un sentimento di piacere o d’approvazione” da parte del prossimo (Théorie des sentiments moraux, I, p. 91). Sentimento indubbiamente disinteressato, che nasce dalla nostra propensione a provare simpatia per gli altri. E quand’anche si colga, nell’etica, una dimensione utilitaristica, a muovere il nostro assenso non è in questo caso “il nostro utile particolare”, bensì l’utile che, al di là di noi, si estende “anche agli altri”, ossia l’utile pubblico, che è l’”utile alla felicità di tutti” (Ricerca sui principi della morale).

Allo stesso modo Smith, nella sua Teoria dei sentimenti morali, sostenne che nelle nostre azioni noi non siamo guidati solamente dal nostro interesse personale, ma anche dal giudizio che gli altri sono indotti a esprimere su di esse. La “simpatia” che noi proviamo per gli altri ci spinge naturalmente a ricercarne l’approvazione. Ma questo vuol dire che la liceità o l’illiceità di certe azioni dipende, in ultima analisi, dalle reazioni altrui. Di qui dunque si sviluppa un consenso sociale, che approva quei modi di comportamento che convengono tanto alla società quanto all’individuo. Certo Smith non si nasconde che esiste un problema di giustizia sociale, perché, se è vero che la società consiste essenzialmente in uno scambio di servizi tra gli individui, non meno vero è che spesso l’ordine sociale deriva per lo più da un senso di ammirazione e di acquiescenza nei riguardi dei ricchi e dei potenti: “Su questa disposizione dell’umanità a condividere tutte le passioni del ricco e del potente, è fondata la distinzione in ranghi e l’ordine della società. La nostra reverenza per i superiori deriva più spesso dalla nostra ammirazione per i vantaggi della loro situazione, che da qualche personale attesa di benefici dalla loro buona volontà” (p. 155). E se, in genere, vi è una corrispondenza tra virtù e materiali fortune nelle classi medio-basse, non altrettanto avviene nelle classi più alte, dove “l’adulazione e la falsità” riescono quasi sempre a prevalere “sul merito e sull’abilità”, sicché, almeno a quei livelli, la strada del successo sociale e quella della virtù purtroppo “seguono a volte direzioni del tutto opposte” (p. 171). Come si vede, siamo ben lontani qui dalle posizioni dei fisiocratici, per i quali non esisteva alcun problema di giustizia sociale o, se esisteva, avrebbe trovato la sua naturale soluzione col tempo, grazie al progresso economico. Smith è pienamente consapevole che di tale progresso economico la libertà è la conditio sine qua non, ma al tempo stesso non ignora che essa è pure all’origine dell’ineguaglianza sociale. Anzi, da filosofo giunge pure a rammaricarsi della preferenza generalmente accordata alla ricchezza rispetto alla saggezza, solo che, faute de mieux, conviene accettare il mondo così com’è. Joan Robinson ha parlato, a questo proposito, di “strabismo morale”, ma per Smith questa dissonanza di fondo tra etica ed economia è per certi versi ineluttabile: la civiltà borghese, che è una civiltà dello sviluppo economico, nel senso che promuove l’avanzamento di tutti, si realizza attraverso l’ineguaglianza e lo sfruttamento, da considerarsi appunto come pegni inevitabili del progresso.

Ora, queste considerazioni vanno tenute presenti anche quando si considera l’Inchiesta sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, dove, a ben guardare, il concetto di “simpatia” svolge un ruolo tutt’altro che secondario. È vero che Smith, nel trattare della divisione del lavoro e di come essa funziona, rileva come le azioni umane siano spesso guidate dall’interesse personale e come l’interesse egoistico basti, da solo, a motivare lo scambio di merci, con soddifazione di entrambe le parti, ma non si ferma qui. Si cita di solito l’aforisma famoso, dietro cui, in effetti, non è difficile scorgere l’influenza della Favola delle api di Mandeville: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo la cena, ma dalla loro considerazione per il proprio interesse personale. Ci indirizziamo non alla loro umanità ma al loro amore di se stessi, e a loro non parliamo delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi” ( La ricchezza delle nazioni, I, p. 58). Indubbiamente non c’è bisogno di ricorrere all’etica per spiegare la reciproca vantaggiosità di certi scambi commerciali. Ma – come ha fatto osservare Amartya K. Sen[32] – non tutte le attività economiche rientrano in questo tipo di scambi: si pensi, ad esempio, alle tante attività produttive “che richiedono spirito di squadra e lavoro in collaborazione nella fabbrica”. Non solo; limitiamoci pure a considerare lo scambio: ebbene, noteremo che a renderlo efficiente concorrono spesso la fiducia reciproca tra le parti coinvolte e il rispetto di certi codici di comportamento, che sono requisiti essenzialmente etici. Smith, insomma, non crede che l’egoismo – sic et simpliciter – sia il fondamento dell’azione umana, come vorrebbe una vulgata sbrigativa e forse non proprio disinteressata. Stigmatizzando il “grossolano errore di identificare Smith con uno che predica la società egoista, anziché la società solidale”, Sergio Ricossa nell’introduzione alla ristampa de La società libera di F. A. von Hayek (Roma 1998) ha scritto: “L’allevatore di pecore in Australia non ha la minima idea dei consumatori che indosseranno in Italia abiti fatti con la sua lana. L’allevatore non lavora per farci un piacere, ma per guadagnarsi da vivere. Perché chiamarlo egoista? Forse sarebbe preferibile che andassimo noi in Australia a produrre la lana che ci serve per gli abiti? L’australiano lavora per noi. Sa che se la sua lana non ci soddisfa in qualità e prezzo noi non la compreremo. L’egoismo non c’entra […]. I mercati operano per soddisfare interessi, ma interessi reciproci. Così è, almeno nei mercati di libera e leale concorrenza. La concorrenza non è la lotta di tutti contro tutti. È un processo di identificazione dei più «sociali», dei più capaci di soddisfare gli interessi reciproci. Nei mercati di concorrenza non si prende qualcosa senza dare qualcos’altro in cambio. Dunque, l’egoismo non può essere il motore dei mercati. Vi è sempre equivalenza monetaria tra il prendere e il dare. Certo, si può discutere se il prezzo è «giusto» (Smith e Hayek ne discutono). Ma questo è un altro discorso”.

Lucio Colletti, nella sua prefazione a La ricchezza delle nazioni (I, p. VIII),.ha ricordato che le considerazioni di Smith sul ruolo fondamentale del tornaconto personale nelle transazioni economiche riprendono – rovesciandoli però di segno – alcuni rilievi che Rousseau muove, nel suo Discorso sull’ineguaglianza, alla moderna “società civile” in quanto società della concorrenza e della lotta sfrenata degli interessi privati tra loro (punti che il padre del liberismo aveva, non certo per caso, sottolineato in una lettera del 1755 alla “Edinburgh Reviev” sull’opera del ginevrino). Smith difende infatti un “sistema di libertà naturale”, in cui ciascun individuo sia libero di stabilire e promuovere i propri interessi, giacché resta convinto che proprio dallo sforzo dell’individuo inteso a perseguire il suo personale tornaconto derivi, indirettamente, un massimo di vantaggi per la società nel suo insieme e per gli altri individui. È in questo senso che va inteso il passo famoso in cui egli spiega come ogni individuo, nel mentre che, impiegando il proprio capitale al fine di valorizzare al massimo il suo prodotto, “mira solo al proprio guadagno, e in questo caso, come in molti altri, viene guidato da una mano invisibile a perseguire uno scopo che non rientrava nelle sue intenzioni”(II, p. 184). Partendo di qui, all’autore de la ricchezza delle nazioni si è spesso rimproverato, soprattutto da parte marxista, l’armonicismo, “la teoria della composizione provvidenziale degli interessi”, ma Smith non è Bastiat, il quale nelle sue Armonie economiche (1850) teorizzò, appunto, l’irresistibile spinta che la libertà e la proprietà privata avrebbero impresso al capitalismo sia verso una maggiore ricchezza, sia, contemporaneamente, verso la giustizia sociale.

L’economia di mercato è indubbiamente in grado di autoregolarsi, anche se numerosi (e incresciosi) sono gli ostacoli e le restrizioni che, cammin facendo, può incontrare la libera attività economica: dai “segreti di fabbricazione” ai “segreti commerciali”, dalle “peculiarità del suolo” ai “monopoli”. I pericoli maggiori provengono tuttavia dall’intervento dello Stato, particolarmente evidenti nel dirigismo imperante nel sistema mercantile del tempo. Smith diffidava dei politici che s’industriavano a sfornare leggi per proteggere il commercio e regolare gli scambi. “Non ho mai saputo – diceva – che abbiano fatto un gran bene, quelli che affermavano di darsi da fare per il bene pubblico” (II, p. 184). Lo Stato, in altre parole, non può (e non deve) sostituirsi all’azione dei singoli, perseguendo in loro vece e, magari, a nome loro felicità e benessere, ma deve garantire, con la necessaria discrezione, il rispetto delle regole “naturali” e preoccuparsi di creare le condizioni perché l’uguaglianza – almeno di partenza – tra gli attori del mercato sia effettiva e sostanziale. A questo scopo è molto importante l’istruzione, di cui Smith auspica a più riprese la diffusione (III, pp. 92-98). Del resto: “Nessuna società può essere davvero fiorente e felice, se la maggioranza dei suoi membri è povera e misera ed inoltre è questione di giustizia, che coloro che provvedono a nutrire, vestire e alloggiare l’intera popolazione, godano di una parte del prodotto del loro lavoro e siano passabilmente nutriti, vestiti e alloggiati” (I, p. 126). Quando le disuguaglianze diventano eccessive, suscitano o alimentano sempre scompensi, tensioni e rivolgimenti di carattere sociale. Una certa simpatia traspare là dove Smith descrive la reazione degli operai esasperati: “Sono disperati, ed agiscono con la sconsideratezza e l’esagerazione dei disperati, che debbono o morire di fame, o spaventare i padroni perché accettino immediatamente le loro richieste” (I, p. 114).

Certo, all’interno dell’economia capitalistica esistono degli insuperabili contrasti di interesse: gli interessi dei commercianti e degli industriali collidono spesso con quello generale della società (I, p. 301); i salariati sopportano il peso delle altre classi sociali (I, pp. 110-133); la divisione del lavoro fa sì che la specifica destrezza acquisita dai singoli operai – destrezza peraltro limitata a poche e semplici operazioni ripetute all’infinito – vada a scapito delle loro qualità intellettuali e sociali (III, p. 93)… Si tratta, però, di contraddizioni e insufficienze volute dalla stessa natura, e come tali l’economista non manca di farle emergere. E di accettarle per quelle che sono, nella persuasione che ogni tentativo di rimediarvi sia peggiore del male. La liberazione del mercato dalle restrizioni proprie dei sistemi sociali pre-borghesi è anche una liberazione di conflitti, e Smith ne è perfettamente consapevole. Per questo egli si pone all’origine delle maggiori correnti di pensiero che poi caratterizzarono la scienza economica e la teoria sociale in generale. Tre (almeno) sono infatti gli atteggiamenti possibili di fronte alla realtà conflittuale che affiora dal vasto affresco smithiano (cfr. ib., I, p. XIV, la prefazione di C. Napoleoni): “un primo atteggiamento consiste nella sottovalutazione delle opposizioni, che vengono attribuite a comportamenti sociali aberranti (e sarà questa la posizione, liberale e liberista, di chi accetterà la seconda delle teorie del valore di Smith)[33]; un secondo atteggiamento consiste nell’accettare le opposizioni, ma nel ritenerle riformisticamente componibili mediante l’opera illuminata di governi democratici (e sarà questa la posizione del radicalismo borghese e del riformismo socialista); un terzo atteggiamento consiste nel giudicare le opposizioni come intrinseche e ineliminabili, e anzi come il terreno di lotta per il passaggio a un sistema sociale superiore (e sarà la posizione di Marx)”.

4 – Adam Smith e la tradizione dell’umanesimo civile

Vale la pena, a questo punto, di insistere sul fatto che Smith riconosce nella “tendenza a trasportare, barattare e scambiare un oggetto per l’altro” uno dei “princìpi basilari dell’umana natura”. Nessuno, infatti, “ha mai visto un cane metter su una bancarella e scambiare deliberatamente un osso per l’altro con un altro cane” (I, p. 57). Ma se la propensione a scambiare con gli altri è una tipica espressione della socialità umana, solo nella società civile, “dove esiste la divisione del lavoro e ciascuno ha un costante bisogno di ottenere qualcosa dagli altri – non potendo provvedere da solo o con la sua famiglia a tutti i suoi bisogni” (Zamagni), – essa potrà esprimersi appieno. Ora, come il cagnolino che, per ottenere qualcosa dal suo padrone, si mette a scodinzolare e a saltellargli intorno, anche l’uomo cerca a volte di ingraziarsi gli altri o, comunque, di dimostrare loro la sua amicizia e il suo affetto per ottenere da loro quanto desidera, ma, nella società civilizzata, la vita “è appena sufficiente a conquistarsi l’amicizia di pochi” (I, p. 58), mentre si abbisogna della cooperazione e dell’assistenza di molti. L’amore e l’amicizia, quindi, non bastano a procurarci quanto ci occorre. E se non vogliamo, come il mendicante, dipendere dalla benevolenza dei nostri concittadini, – che pure non è del tutto sufficiente – non ci rimane che “scambiare e commerciare” con gli altri. In questo caso, però, per soddisfare i nostri bisogni non potremo fare affidamento sull’altrui benevolenza: meglio cercare di convertire a nostro favore il loro egoismo. Il mercato è provvidenziale proprio per questo: “Esso ci permette di ottenere pacificamente dagli altri le cose che ci servono anche se non tutti sono nostri amici”. Il mercato rimedia, nella società moderna, alle insufficienze dell’amore reciproco. Esso “opera all’interno della società civile”, dove si propone come “luogo di rapporti orizzontali tra persone «alla pari», le quali possono incontrarsi e scambiare, guardandosi in faccia con pari dignità” (Zamagni, Per un’economia civile, pp. 16-17). Non altrettanto avviene là dove l’indigenza di molti si affida al buon cuore (e all’assistenza) di pochi benestanti. Negli altri casi, l’alternativa al mercato sono la guerra e il sopruso. L’estensione dei mercati incrementa invece la fiducia e le virtù civili, sicché sviluppo economico ed etica vanno, per certi versi, di conserva. “Ogniqualvolta – leggiamo in un passo delle sue Lezioni accademiche (Smith, Lectures on jurisprudence, p. 538) – che il commercio è introdotto in un paese, con esso arrivano anche onestà e puntualità”.

Zamagni, da cui abbiamo qui sopra mutuato alcuni spunti, non esita pertanto a inserire Smith nel solco di una tradizione economica che dall’umanesimo civile, seguendo percorsi non sempre lineari ed agevolmente riconoscibili, perviene a Vico, Paolo Mattia Doria, Genovesi, Beccaria, Verri, Romagnosi… Si tratta di quell’”economia civile”, ricca di fermenti etici, che oggi, “come un fiume carsico, sta di nuovo riemergendo”. Orbene, “l’atteggiamento degli umanisti civili nei confronti della cultura è attraversata dall’esigenza di un filosofare che sia scuola di vita, meditazione seria e profonda dei problemi di vita, proprio come sarà, quasi quattro secoli dopo, con Genovesi e l’economia civile” (Per un’economia civile, p. 13). Certo, nel Genovesi il nesso tra economia e moralità presuppone un rapporto molto più stretto tra economia e politica, anzi il problema – visto dal settecentesco Regno di Napoli – dalla politica non può proprio prescindere: “costruisci la fede pubblica e poi fiorirà il mercato”, scrive. E ancora, nella lettera del 21 gennaio 1765 ad Angelo pavesi: “Sopra tutto sono ostinato nel credere non vi poter essere né economia, né politica, né arte, né industria, né nulla di bene, dove non vi sia una soda e rischiarata virtù: né questa poter allignare, dove non sieno delle buone leggi, e rigidamente osservate”.

Ritornare all’umanesimo civile – che fiorì per una breve stagione nella Toscana della prima metà del Quattrocento e si caratterizzò per “una straordinaria rivalutazione della dimensione terrena e relazionale dell’essere umano, dalla famiglia, alla città, allo stato” [34] – è per Zamagni un modo per sottrarsi alle angustie del dibattito in corso sul futuro dei nostri sistemi di welfare; dibattito in cui da tempo ormai si confrontano con sterile animosità due contrapposte visioni del mondo: quella neo-liberista e quella neo-statalista. “Da una parte vi sono coloro che vedono nell’estensione dei mercati e della logica dell’efficienza la soluzione a tutti i mali sociali; dall’altra chi invece vede l’avanzare dei mercati come una «desertificazione» della società, e quindi li combatte e si protegge. La prima visione considera l’impresa come un ente «a-sociale»: secondo questa concezione, che si rifà ad alcune tradizioni dell’ideologia liberale, il «sociale» è distinto dalla meccanica del mercato, che si presenta come un’istituzione eticamente e socialmente neutrale – nel senso specifico di David Ganthier. Al mercato [vale a dire alla sfera economica] è richiesta l’efficienza e quindi la creazione di ricchezza, l’allargamento della torta. La solidarietà [cioè la sfera del sociale], invece, inizia proprio laddove finisce il mercato, fornendo criteri per la suddivisione della torta (nella sfera politica), o intervenendo in quelle pieghe della società non raggiunte dal mercato.

Agli antipodi di questa visione troviamo l’altro approccio, che vede l’impresa come essenzialmente anti-sociale. Questa concezione, che ha tra i suoi teorici autori come K. Marx e K. Polanyi, e come espressione oggi più visibile alcune delle componenti del «popolo di Seattle», si caratterizza invece per concepire il mercato come luogo dello sfruttamento e della sopraffazione del debole sul forte (Marx), e la società minacciata dai mercati: «il mercato avanza sulla desertificazione della società» (Polanyi). Da qui il loro appello a «proteggere la società» dal mercato (e dalle imprese multinazionali, in particolare, con l’argomento che i rapporti veramente umani (come l’amicizia, la fiducia, il dono, la reciprocità non strumentale, l’amore, ecc.), sono distrutti dall’avanzare dell’area del mercato. Questa visione, che pure coglie alcune dinamiche dei mercati reali, tende a vedere l’economico e il mercato come di per sé disumanizzanti, come meccanismi distruttori di quel «capitale sociale» indispensabile per ogni convivenza autenticamente umana oltre che per ogni crescita economica” (Zamagni, Per un’economia civile, p. 11).

La “terza via” indicata dall’”economia civile” punta invece a vivere “l’esperienza della socialità umana, della reciprocità e della fraternità all’interno di una normale vita economica”, superando in tal modo la neutralità etica del mercato come mero luogo di scambio di equivalenti e facendo sì che l’impresa diventi socialmente responsabile, senza più demandare in esclusiva allo Stato il compito di provvedere al sistema sociale. Anche perché la globalizzazione dei mercati ha ormai spezzato il vincolo che legava la ricchezza al territorio e, con esso, pure il tradizionale rapporto tra economia e società. Occorre dunque ovviare con la redistribuzione della ricchezza e con la reciprocità, senza per questo bandire lo scambio di equivalenti. Se viene meno uno di questi tre elementi, si ritorna infatti al passato, ad esperienze ormai obsolete e anacronistiche. “Se si elimina la reciprocità abbiamo il sistema economico del welfare-state del dopoguerra di marca inglese (Beveridge e Keynes). Il centro del sistema è lo Stato benevolente. C’è il mercato che produce con efficienza e lo Stato che ridistribuisce secondo equità quanto il mercato ha prodotto. Se si elimina la ridistribuzione ecco il modello del capitalismo caritatevole. Il mercato è la leva del sistema, e deve essere lasciato libero di agire senza intralci (il cosiddetto neoliberismo). In questo modo il mercato produce ricchezza, e i «ricchi» fanno «la carità» ai poveri, «utilizzando» la società civile (che quindi viene deformata) e le sue organizzazioni (le charities e le Foundations). Infine, l’eliminazione dello scambio di equivalenti produce i collettivismi e comunitarismi di ieri e di oggi, dove si vive volendo fare a meno della logica del contratto (anche a costo di inefficienze e sprechi). La storia finora ci ha insegnato che solo piccole comunità riescono a svilupparsi senza questo principio” (p. 12)

Il modello statalista del welfare presuppone che il compito di definire il nostro benessere e quello di compilare l’elenco dei beni e dei servizi da assicurare a tutti i cittadini – senza alcuna distinzione – spetti allo Stato, dal centro. Ma lo Stato, anche prescindendo dalla crisi fiscale, non può tener conto della specificità delle persone. E soprattutto non è in grado di soddisfare adeguatamente la nuova esigenza di beni relazionali, cioè di quei beni la cui utilità dipende sia dai modi in cui vengono forniti, sia dai modi in cui vengono fruiti. Qui conta soprattutto il rapporto interpersonale, perché solo dalle relazioni tra persona e persona può veramente germinare la felicità (che è poi l’”utilità” peculiare dei beni relazionali). La tradizione dell’economia civile ha ben chiaro, da sempre, che “la felicità o è pubblica o non è”, mentre, paradossalmente, le nostre società avanzate non hanno ancora capito che “la crescita del reddito non solo non conduce sempre ad un aumento di felicità, ma può addirittura provocarne una diminuzione. Il fatto è che la felicità non proviene solamente dai beni e dai servizi che il denaro è capace di comprare – come invece è vero con l’utilità” (pp. 22-23). Il denaro è sì utile, ma altre cose – i beni relazionali – sono più utili ancora. Perché, allora, sacrificare al secondo e magari al terzo lavoro le relazioni familiari, i rapporti di amicizia?

Né, d’altra parte, si può lasciar fare tutto al mercato, come suggeriscono i liberisti, perché, in tal caso, alle vecchie disuguaglianze se ne aggiungerebbero delle nuove. Oltre tutto il mercato, nell’opinione comune, si basa sull’impersonalità delle azioni di scambio, escludendo ipso facto quei “sentimenti morali” come la simpatia, la reciprocità, la socialità, che chiamano in causa l’umanità delle persone e valgono appunto a cementare le relazioni tra gli uomini. Perché, allora, non affidarsi alla sussidiarietà, all’associazionismo che la società civile riesce ad esprimere dal proprio seno? Tanto più che nel produrre beni relazionali le imprese del cosiddetto “terzo settore” si dimostrano in genere più efficienti di quelle private e di quelle pubbliche. Zamagni parla, a questo proposito di “modello societario di welfare”: un modello che prevede l’interazione – “in condizione di competizione, non di assistenzialismo” – tra mercato e “terzo settore”, ed assegna allo Stato il ruolo di garantire una effettiva competizione, cioè “un cum-petere, un tendere insieme verso il bene comune” (cfr. Bruni 1996, p. 50). Si tratta, insomma, di passare dal welfare state alla welfare society. E il modello civile di welfare richiede che, oltre alla soggettività giuridica, alle organizzazioni della società civile venga riconosciuta pure quella economica, in modo che possano finalmente godere di piena autonomia e indipendenza.

Nell’ambito della “cultura della reciprocità” – attenta ai risvolti etici e agli aspetti relazionali – si possono includere l’economia non-profit, il commercio equo e solidale, le banche e il risparmio etico, le cooperative sociali, le organizzazioni non governative, i comportamenti personali di consumo controcorrente, e via enumerando. Ma si parla anche di una “economia di comunione”, in cui appunto vige “una logica di reciprocità”, in cui “tutti danno e ricevono”. Laddove il paradigma economico oggi dominante pone l’accento sull’”individuo massimizzante”, questo nuovo paradigma s’incentra sulla “persona vista in un’ottica relazionale” (Bruni 1997). E si noti la distinzione tra “individuo” e “persona”: “l’individuo – annota Zanghì – è sé in se stesso; la persona è sé nell’altro”. Come ben dice Pareyson: “L’uomo è un rapporto: non che sia in rapporto, non che abbia un rapporto, ma che è un rapporto, più precisamente un rapporto con l’essere (ontologico), rapporto con l’altro”[35]. Ora, una scienza che trascuri quest’aspetto dell’uomo, che lo amputi della sua componente relazionale, invece dell’uomo finisce per analizzarne o per considerarne una mera caricatura. Ma su questo ritorneremo.

5 – Diritto naturale e civiche virtù:
dal Leviatano alla Favola delle api

Per Aristotele l’uomo è per natura uno zòon politikòn, vale a dire un animale sociale. Seneca ribadisce a sua volta il concetto, puntualizzandolo: Natura nobis amorem indidit mutuum, et sociabiles fecit [“La natura ci ispirò reciproco amore e ci fece socievoli”]. Questo non vuol dire che, accanto a questa idea dell’uomo, che trova la sua sublimazione nella formula ceciliana Homo homini deus[36], nell’antichità non avessero corso idee meno ottimistiche e positive, come quella – esattamente opposta – icasticamente sintetizzata nell’espressione Homo homini lupus, destinata a diventare proverbiale in tutte le lingue europee[37]. Thomas Hobbes, nel suo De cive, 1, la riprese, quando si era ormai affermato l’individualismo, assumendola a simbolo degli spietati rapporti umani allo stato di natura, prima dell’intervento di un’organizzazione statale. E così, insieme con la definizione aristotelica (e la natura diciamo relazionale dell’uomo), si metteva in discussione anche l’idea che la società venisse (eticamente, se non cronologicamente) prima dei singoli individui. La società, funzionale alle esigenze degli individui, diventava una sorta di optional, o di sovrastruttura, magari ingombrante e alienante, al punto che ci si chiedeva perché mai gli uomini scegliessero di vivere in società. Quasi che, nel loro caso, l’isolamento atomistico fosse non solo possibile, ma addirittura naturale, e quindi auspicabile. Orbene, questa rottura tra individuo e società che – come dimostra J. Burckhardt – caratterizza l’età moderna si annuncia già in epoca rinascimentale e si sviluppa via via, nel corso del Seicento e del primo Settecento, attraverso le opere di Grozio, Cartesio, Hobbes, Leibniz[38], ecc.

Grozio, a differenza dei suoi predecessori, che in genere non distinguevano tra Stato e principe, identifica lo Stato con la società, e non crede al carattere naturale e spontaneo della collettività da esso formata. “Per Grozio lo Stato è naturale, ma nel senso che è razionale. La società è sorta dalla volontà razionale degli uomini […]. Unione perfetta di uomini liberi per mezzo della quale deve realizzarsi […] «la legge della natura», lo Stato, società pacifica e regolata, si fonda su una decisione volontaria degli uomini. Privo inizialmente di autorità su di loro, l’acquista in virtù del contratto col quale i cittadini si sottomettono all’autorità” (Prélot, I, pp. 268-269). Ma, a dimostrazione del fatto che c’è individualismo e individualismo, Grozio non nega ancora la sociabilità dell’uomo, che, anzi, dall’appetitus socialis è naturalmente indotto ad unirsi con i suoi simili in una società regolata. A spingervelo, più del bisogno materiale e dell’interesse, è un “sentimento morale di benevolenza per gli altri”. In questa socialis natura dell’uomo risiede il principio del diritto (jus naturae): “La madre del diritto naturale è la natura stessa che ci porterebbe a cercare il commercio con i nostri simili anche quando non ne avessimo bisogno” (cfr. il “Discorso preliminare” al De jure belli ac pacis). Anche per samuel Pufendorf il diritto naturale è questione di ragione, ma in questo caso esso non ha più per base un sentimento di benevolenza dell’uomo nei confronti degli altri uomini, bensì un semplice bisogno di assistenza. Per Hobbes, infine, è l’egoismo, e non il bisogno altruistico – comunque lo si intenda – della vita in comune, a costituire il fondo della natura umana. E dunque, se l’uomo cerca la comunità non è per trovarvi le ragioni del proprio sviluppo e nemmeno per un’inclinazione naturale che lo sospinga verso i suoi simili, ma solo in vista del proprio interesse. La società nasce dal timore che gli uomini provano gli uni per gli altri e non dalla loro mutua benevolenza. La legge di natura li induce all’autoconservazione e alla ricerca della sicurezza. Ma l’autoconservazione richiede un continuo approvvigionamento dei mezzi di sussistenza, per cui ognuno è spinto a prendere per sé ciò di cui altri abbisognano: ne consegue una “guerra di tutti contro tutti” (bellum omnium contra omnes). Avendo uguale diritto su tutto, gli uomini bramano tutti le stesse cose e tendono pertanto a farsi del male. Di qui il reciproco timore. Nondimeno la ragione insegna loro a “fuggire una distruzione contro natura”, a moderare cioè la loro perpetua brama di potere al fine di perseguire una qualche sicurezza. Così, ad un desiderio di possesso violento che suscita l’antagonismo, si sovrappone un egoismo più calcolato che, ad un certo punto, porta l’uomo alla società. Ma non è sempre facile distinguere dove finisca l’uno e dove cominci l’altro, tanto che ne risulta alcunché di paradossale: “Se gli uomini fossero così selvaggi e antisociali come sono rappresentati nel loro stadio presociale, non sarebbero mai capaci di costituire un governo. Se fossero abbastanza ragionevoli per costituire un governo, non ne sarebbero mai stati privi” (Sabine, p. 355).

La pace e la cooperazione servono all’autoconservazione più che la violenza e la competizione generale. Ma la pace presuppone fiducia reciproca. E non si capisce come questa possa nascere dal timore e dalla diffidenza vicendevoli. L’uomo – secondo Hobbes – dovrebbe essere disposto, “quando altri lo fanno, e per quanto crederà necessario alla pace ed alla difesa sua, a rinunziare al suo diritto sopra tutte le cose, e ad esser contento di avere tanta libertà contro gli altri uomini, quanta è concessa ad altri uomini contro di lui”(Leviatano, I, p. 114). Tutto il discorso si regge sulla presunzione di una libera contrattualità tra contrapposti egoismi che una ragione strumentale riuscirebbe in qualche modo a contemperare. Il rovesciamento delle posizioni aristoteliche non potrebbe essere più radicale: poiché tutta la condotta umana è determinata dall’egoismo individuale – preoccupato in primis di stornare dalla vita dell’individuo il rischio di una morte violenta –, la società non può che essere un mezzo per raggiungere tale fine. “Noi – scrive infatti Hobbes nel De Cive, p. 48 – non cerchiamo i compagni per qualche istinto della natura, ma cerchiamo l’onore e l’utilità che essi ci danno: prima desideriamo il vantaggio, poi i compagni […]”. Va da sé che una società così costituita non potrebbe fare a meno di un potere assoluto – lo Stato leviatano – cui i sudditi rinuncino i loro diritti in cambio della pace e della difesa delle loro vite. Come potrebbe sussistere il patto sociale “senza la spada che ne imponga il rispetto”? Per evitare la guerra di tutti contro tutti, non resta che demandare la mediazione intersoggettiva allo Stato-Leviatano: rinunciare cioè al civile per salvare il politico inteso come sfera dello statuale (Zamagni, Per un’economia civile, p. 14). “Hobbes era nello stesso tempo l’utilitarista radicale e il perfetto radicale individualista. Il potere dello Stato e l’autorità della legge sono giustificati soltanto perché contribuiscono alla sicurezza degli individui umani, e l’obbedienza e il rispetto per l’autorità non sono ragionevoli a meno che non promettano di procurare un vantaggio individuale superiore a quello del loro contrario. Il benessere sociale come tale scompare interamente, sostituito da una somma di egoismi separati. La società è solo un corpo «artificiale», un termine collettivo, creato solo per il fatto che gli uomini lo trovano individualmente vantaggioso per lo scambio di beni e servizi” (Sabine , p. 357). È evidente che in una società del genere non può attecchire una “economia civile” fondata sulle civiche virtù e sulla natura socievole dell’uomo. Anzi, stando così le cose, il mercato non sarà molto diverso dalla continuazione della guerra (tra egoismi contrapposti) in altre forme e con altri mezzi: “la guerra dei compratori e dei venditori” di cui – con riferimento al liberalismo economico – parla appunto Fiche ne Lo Stato commerciale chiuso.

Le stesse virtù civiche – almeno in una grande e moderna società – possono rivelarsi controproducenti, come ha dimostrato Bernard de Mandeville. Ne La favola delle api egli distingue due tipi di società: una, di piccole dimensioni, in cui le “virtù private” si traducono in “pubblici benefici”; un’altra, di grandi dimensioni, in cui tra bene privato e bene pubblico non c’è affatto coincidenza, anzi gli effetti individuali e gli effetti sociali del comportamento degli individui divergono sistematicamente, come icasticamente evidenzia il sottotitolo del libro: vizi privati, pubblici benefici. La prima è una sorta di Eden immerso in una condizione di “agio indolente e di stupida innocenza” (p. 122) o, in alternativa, una società – come quella spartana – austera e militare, inetta allo sviluppo, chiusa alle arti e alle scienze. Desideri, vizi e passioni non vi hanno spazio, ma con essi anche la prosperità è assente. Chi propenda per questo tipo di società, deve rassegnarsi a nutrirsi di ghiande. La seconda è invece una società mercantile, dove ognuno persegue i suoi fini lavorando per gli altri, in una sorta di cooperazione interessata. Gli individui che vi aderiscono si scambiano beni e servizi, e questo scambio favorisce sia la divisione del lavoro sia – grazie alla specializzazione, all’accumulo e alla trasmissione di esperienza – il progresso tecnico e scientifico (pp. 112-113). Lo scambio, garantito dall’ordine politico, consente la cooperazione di individui motivati unicamente dal proprio interesse e fa sì che da azioni individuali per nulla intese al bene pubblico e, magari, ad esso contrarie e finanche moralmente riprovevoli derivi, indirettamente, un beneficio per l’intera società[39]. Mandeville porta l’esempio del lusso, che può determinare la rovina di singoli e famiglie, ma nello stesso tempo dà lavoro a “milioni di poveri” ed arricchisce uno stato ben amministrato. Il paradosso suggella, addirittura, la Ricerca sulla natura della società: “[…] i vizi dei privati, attraverso l’accorta manipolazione di un abile politico, possono divenire vantaggi per l’intero corpo sociale” (p. 51). Si può discutere se, in questo caso, per “abile politico”, si intenda semplicemente la stessa struttura sociale o un governo forte e determinato, di stampo mercantilistico[40], ma è chiaro che per “vizio” l’autore intende la soddisfazione di un appetito naturale a prescindere da ogni considerazione del bene pubblico. Questo, del resto, non è il risultato di un’azione consapevole, giacché “in una grande società gli effetti socialmente benefici delle azioni individuali non dipendono dal controllo razionale esercitato su di esse da parte degli agenti, e quindi dalle loro intenzioni, ma sono il risultato di una combinazione, largamente non prevista e comunque non voluta, dei loro comportamenti effettivi. Non occorrono virtù, altruismo, spirito di solidarietà per i poveri e gli infelici (motivazioni che sarebbero incompatibili con quelle richieste dal progresso materiale); non occorre neppure che gli uomini siano generalmente razionali e conoscano il proprio bene e il bene pubblico, perché nella società vengano prodotti vantaggi collettivi. Non occorre che il benessere della nazione sia lo scopo di qualcuno, perché si realizzi come un effetto inatteso delle azioni degli individui” (Magri 2006, pp. xii-xiii).

Una sorta di “mano invisibile” governa insomma il mondo di Mandeville. Ma il provvidenzialismo che lo regge non ha nulla di trascendente, nulla di cristiano. E per valutare correttamente la distanza che dal cristianesimo lo separa, non c’è nulla di meglio che risalire alle origini del suo pensiero e della sua morale. Nella Favola delle api più volte egli cita espressamente Pierre Bayle, uno dei suoi punti di riferimento più costanti. Ebbene, proprio l’autore dei Pensieri sulla cometa aveva sintetizzato in un proverbio – malus homo bonus civis – l’incompatibilità da lui rilevata tra la società mercantile del suo tempo e l’etica cristiana. E in una lettera aveva scritto: “Non vi accorgete che i consigli di Gesù Cristo tendono alla rovina delle passioni e delle occupazioni, senza le quali la società umana non può sopravvivere? Non vedete che se tutti gli uomini eseguissero puntualmente i consigli evangelici, tutto il mondo diventerebbe un’abbazia di Trappisti?”[41]. Analoghe considerazioni ricorrono nella Favola delle api, dalla quale emerge una concezione utilitaristica della morale (pp. 156-157).

Mandeville, in verità, parte da una definizione rigoristica della morale, per cui “un’azione è virtuosa se tende al bene degli altri o al dominio delle proprie passioni, e viene compiuta per un desiderio razionale di tale bene o di tale dominio” (Magri 2006, p. xxvii). Ma, siccome l’accettazione dei principi morali e la motivazione ad agire in base ad essi hanno la loro origine nell’amor proprio (self-liking), cioè nell’importanza che l’uomo assegna alla considerazione degli altri – di qui la ricerca dell’onore e l’elusione dell’infamia –, ne consegue l’impossibilità di un’azione veramente virtuosa. La paura dell’infamia e la brama di onore possono sì indurre a comportamenti apparentemente virtuosi, ma la vera virtù implica la rinuncia ad ogni passione per assecondare esclusivamente un principio razionale disinteressato. Altrimenti non c’è autentico merito. Si badi bene, però: non è sempre e soltanto questione di ipocrisia, poiché capita a volte che lo stesso agente sia all’oscuro delle sue reali motivazioni. E in ogni caso le regole della morale determinano una pratica sociale condivisa e favoriscono la cooperazione tra gli uomini. “In una società piccola e frugale, la virtù dei cittadini implica il bene pubblico ed è implicata da esso. Ma in essa agire per il bene pubblico e per il dominio delle passioni (sebbene ciò non avvenga per un principio razionale, e quindi non abbia un autentico merito morale), è socialmente utile. Le cose stanno altrimenti in una grande società, che non soltanto non richiede le rinunce e la virtù dei cittadini, ma non è neppure compatibile con la loro diffusione generale. Il problema posto dalla grande società alla teoria morale è che il bene pubblico che in essa si può realizzare (ricchezza e potenza) è indifferente rispetto alle intenzioni degli individui, e si afferma come effetto della combinazione delle loro azioni. Per stabilire se un’azione è benefica per la società, dobbiamo guardare alle sue conseguenze, mentre, nella valutazione morale, guardiamo non alle conseguenze ma ai motivi delle azioni” (Magri 2006, pp. XXXIV-XXXV).

6 – L’utilitarismo e l’homo oeconomicus

La scienza economica moderna ha adottato uno statuto utilitarista. E l’utilitarismo si può considerare come la prima manifestazione del positivismo in Inghilterra: Bentham, James Mill e John stuart Mill ne furono i principali teorici. Jeremiah Bentham (1748-1832) non dava credito ai diritti naturali dell’uomo affermati dalla Rivoluzione francese, perché – argomentava – se la libertà fosse un diritto assoluto, escluderebbe la legge, in quanto ogni legge ha in sé un nucleo di coercizione. Il criterio da adottare in ambito politico è quello dell’utilità, che stabilisce immediatamente i limiti della libertà e della coercizione. Anche Bentham è convinto che ogni governo, così come ogni autorità, sia un male, da ridurre quindi al minimo indispensabile in base alla sua effettiva utilità. Un “calcolo edonistico” è per lui al fondo di ogni atto umano. “La Natura ha [infatti] posto l’umanità sotto il governo di due sovrani, la pena e il piacere. Spetta unicamente a loro indicarci quel che dovremmo fare, così come sta a loro determinare quel che faremo. Da un lato il criterio del giusto e dell’ingiusto, dall’altro la catena delle cause e degli effetti, sono saldamente legati al loro trono” (cfr. principi della morale e della legislazione, in Fusfeld, p. 85). Questo significa che l’egocentrismo del comportamento economico è non solo naturale, ma anche razionale e desiderabile. Perché dunque l’azione individuale possa conciliarsi con l’interesse pubblico, è necessario l’intervento di sanzioni morali e legislative che si ispirino al principio della massima felicità. Tuttavia, entro i limiti da esse sanciti, gli individui vanno lasciati liberi di agire e di decidere. Il che non esclude il ricorso – con juicio – a misure politiche (o riforme) atte a promuovere forme di società (come quella democratica, basata sul principio maggioritario) tali da indurre i singoli cittadini a condurre una vita migliore. In tal modo, “il liberalismo classico, che aveva valorizzato l’individualismo, cedeva il passo al liberalismo interventista – del quale Bentham era l’apostolo, – che esaltava il benessere sociale” (Fusfeld, p. 89). Ma quel che più conta è che l’utilitarismo benthamiano servì da modello per stabilire il comportamento economico razionale dell’uomo.

Merito precipuo di James Mill è invece quello di riprendere l’idea humiana dell’associazione delle idee per spiegare, in base ad essa, come avvenga il passaggio da una condotta egoistica a una condotta altruistica. “Il nostro piacere privato è strettamente connesso con quello degli altri (genitori, figli, amici) e quest’associazione costante finisce per far desiderare il piacere altrui come il proprio e per condurre anche al sacrificio. Lo sviluppo della vita morale sarebbe così dovuto al sorgere di nuovi fini dovuti all’associazione, fini che si sovrapporrebbero agli altri, assumendo su di sé quel carattere attraente che primitivamente non vi era connesso” (Abbagnano, V, p. 309). Sulla stessa linea utilitaristica si colloca il figlio John Stuart, peraltro non insensibile alle idee di Comte. Per lui l’individuo, nel tendere alla propria felicità, tiene conto, in maniera più o meno larga, anche della felicità altrui e, via via che lo spirito umano progredisce, si viene sempre di più accentuando la coscienza dell’unità del genere umano e con essa il sentimento che lega tra loro i vari individui. Quanto all’economia, egli distingue le “leggi reali di natura”, cioè quelle della produzione, dalle leggi della distribuzione, dove è la volontà umana a contare, e quindi il diritto e il costume. Queste leggi si possono dunque modificare per ottenere una migliore distribuzione della ricchezza. A trattenerlo dall’aderire al socialismo è solo la preoccupazione di non compromettere la libertà individuale, giacché la scelta tra individualismo e socialismo dipende in ultima istanza da un’unica considerazione: “cioè da quale dei due sistemi si concili con la massima somma di libertà e spontaneità umana” (Principles of Political Economy, II, I, § 3, p. 129). Egli condanna nondimeno le ingiustizie sociali e propugna misure atte a temperare le sperequazioni economiche e a migliorare il tenore di vita delle classi popolari.

Le fondamentali anomalie dell’ordine economico vengono spietatamente rilevate da Malthus e da Ricardo, che sono generalmente annoverati tra i maggiori esponenti dell’utilitarismo ottocentesco. Entrambi avvertono la necessità di modificare quell’ordine, che appare loro governato da forze più morali che naturali, ma, data la loro mentalità positivistica, ritengono che si debba intervenire solo scientificamente: sui fatti e per mezzo di fatti. Malthus, in particolare, parte dalla considerazione dello squilibrio che si verrà col tempo a determinare tra l’incremento demografico da un lato e l’accrescimento dei mezzi di sussistenza dall’altro: il primo segue infatti una progressione geometrica, il secondo una progressione aritmetica. Per ovviarvi, se non si vuole che siano la miseria e il vizio a falcidiare la popolazione, non resta che il controllo preventivo delle nascite, astenendosi quindi dal matrimonio e mantenendo, nel frattempo, una condotta morale irreprensibile (cfr. Saggio sul principio di popolazione).

Ricardo si sofferma invece sul rapporto tra il salario del lavoratore e il profitto del capitalista, analizzando in primis il fenomeno della “rendita fondiaria”. Questa è costituita dal surplus di profitto derivante ai proprietari dei terreni più fertili per il fatto che producono a un costo inferiore, mentre sul mercato, tra gli stessi prodotti, non c’è divario alcuno di prezzo. Va da sé che s’innesca così un insanabile antagonismo tra l’interesse dei proprietari terrieri e l’interesse della collettività, giacché, via via che la popolazione aumenta o si accentuano le condizioni di miseria, vengono messi a coltivazione pure i terreni meno fertili con un conseguente aumento dei costi di produzione e del prezzo degli alimentari, cosicché si accresce anche il reddito di chi possiede le terre migliori[42]. Basta questo a sfatare la presunta provvidenzialità dell’ordine economico. A Ricardo, inoltre, non sfugge l’antagonismo tra profitto e salario. Egli ammette da un lato che il prezzo naturale del salario è quello “necessario per mettere i lavoratori, nel loro complesso, in condizioni di sussistere e perpetuare la loro specie senza né aumenti né diminuzioni” (Sui principi dell’economia politica e della tassazione, p. 60), e riconosce dall’altro il capitale come “lavoro accumulato” (o “lavoro morto”), ma fa anche notare che non c’è sempre equa corrispondenza tra il reddito che ne proviene e il lavoro personalmente svolto dal percettore. A Ricardo, oltre alla teoria del valore-lavoro, si deve infine la tesi sulla caduta tendenziale del saggio di profitto: ambedue saranno riprese e sviluppate da Marx, che molto deve all’economista inglese.

Tirando le somme del nostro discorso, possiamo dire che l’utilitarismo si basa su tre postulati fondamentali: il consequenzialismo, il welfarism e l’ordinamento-somma (sum-ranking). Con il primo si fa dipendere, in tutto e per tutto, il valore di un’azione dalle sue conseguenze; con il secondo – che in italiano potremmo chiamare “benesserismo” – si sostiene che il benessere individuale è il termine appropriato per misurare le conseguenze di un’azione; con il terzo, infine, si valutano gli stati sociali considerando la somma delle utilità individuali che sono ad essi associate (cfr. Sen 2006, p. 52). Si capisce dunque perché l’utilitarismo sia la dottrina etica che trovò i più fervidi sostenitori nella scuola inglese della “economia del benessere”, a cominciare da Arthur Cecil Pigou. Esso diffuse inoltre tra gli autori marginalisti “il metodo dell’individualismo meccanicistico, che già Thomas Hobbes aveva mutuato dalla fisica, per pervenire a una teoria scientifica della politica; in secondo luogo diffuse tra gli autori classici non meno che tra i marginalisti l’idea giusnaturalista della dicotomia tra ordine reale e ordine naturale, che in essi si presentò nella forma di un contrasto tra un ordine economico «naturale» in cui il libero gioco delle forze di mercato tende a una qualche forma di ottimo, e un ordine reale in cui la presenza di istituzioni difettose impediva il conseguimento di quell’ottimo. Nelle mani degli economisti inglesi più strettamente utilitaristi (S. W. Jevons e F. Y. Edgeworth) la nozione benthamiana di utilità marginale divenne uno strumento per l’analisi delle scelte o meglio delle reazioni dell’ambiente esterno dell’uomo economico, edonista e razionale (massimizzatore dell’utile), e dei fenomeni connessi di mercato” (cfr. L’Universale, II, p. 1207). L’economia utilitaristica di Pigou fu ben presto soppiantata dalla “nuova economia del benessere” di Pareto, “non edonistica ma dotata di un criterio della massimizzazione del benessere sociale dalle implicazioni molto più blande di quelle del criterio dell’utilitarismo edonistico. A partire dal secondo dopoguerra, tuttavia, autori come J. Harsanyi (Morale e teoria del comportamento razionale, 1977), sfruttando anche i risultati della moderna teoria del comportamento razionale, hanno fornito vigorosi e stimolanti argomenti per un utilitarismo basato sulle preferenze, il cosiddetto neoutilitarismo” (cfr. L’Universale, II, p. 1207).

Una delle categorie più fortunate della teoria economica d’impianto utilitaristico è senz’altro quella di homo oeconomicus. Essa fu escogitata da John Stuart Mill nel suo saggio Sulla definizione di economia politica del 1836 per indicare che l’economista, anziché considerare l’uomo nella sua globalità, si deve concentrare sui motivi economici del suo agire, cioè su quelli che sono connessi alla massimizzazione della ricchezza, tralasciando ogni altra motivazione che possa interferire con le sue scelte correnti (usanze, costumi morali, regole varie di condotta). Naturalmente Mill aveva ben chiaro che le attività dell’uomo si estendono ben al di là della sfera economica: per lui l’homo oeconomicus era semplicemente una metafora o, se vogliamo, un’astrazione dell’”uomo fittizio”[43]. Non così per Nassau William Senior e per Alfred Marshall, per i quali tale categoria scaturiva da una teoria dell’”uomo reale”. È partendo da questo equivoco che alcuni hanno visto il punto d’arrivo della metafora milliana nella cosiddetta “finzione di Walras”, per cui sarebbe compito primario ed esclusivo dell’economia lo studio del rapporto tra uomo e natura, tra uomo e cose. Scrive infatti Walras che “assumendo l’equilibrio possiamo anche spingerci ad astrarre dall’imprenditore e considerare semplicemente i servizi produttivi come se fossero scambiati direttamente fra loro” (Elementi di economia politica pura, p. 71). E chiosa Zamagni: “Non ci sono dunque problemi né di organizzazione né di informazione di cui l’economista debba preoccuparsi: nella posizione di equilibrio, tutte le complicazioni che discendono dai rapporti tra uomo e uomo scompaiono; addirittura, in equilibrio l’uomo in quanto tale si spoglia delle sue determinazioni storico-sociali” (Economia e filosofia cit.). Pareto andrà oltre, fino a comprendere nella “finzione di Walras” anche l’analisi del comportamento del consumatore: secondo lui, non vi sarebbe alcun bisogno di sapere chi è il consumatore, giacché, ai fini della teoria, si richiede solo la conoscenza “della mappa di indifferenza e ovviamente il vincolo di bilancio” (ib.).

Ora, Pareto cerca di giustificare la sua scelta metodologica a favore dell’homo oeconomicus in questo modo: “Il corpo concreto – egli scrive – comprende il corpo chimico, il corpo meccanico, il corpo geometrico, ecc.; l’uomo reale comprende l’homo oeconomicus, l’homo ethicus, l’homo religiosus ecc. Insomma considerare questi differenti corpi, questi differenti uomini equivale a considerare le differenti proprietà del corpo reale, di quest’uomo reale e non mira ad altro che a ritagliare in porzioni la materia da studiare” (Manuel d’économie politique, p. 18). Ma Pareto non spiega se il “corpo” dell’homo oeconomicus viva di vita propria, se sussista di per sé, e nemmeno se abbia veramente senso isolare la dimensione economica dell’uomo dalle altre. Così come non si chiede se l’homo ethicus, l’homo religiosus, ecc., “pongano per caso vincoli all’homo oeconomicus tali da neutralizzarne o da orientarne in modo determinante le scelte” (Zamagni 2006, p. 6). Si assume che l’homo oeconomicus sia un soggetto individualista e strumentalista, in quanto da un lato “decide sulla base di ciò che è per lui ottimale” e dall’altro “l’azione che pone in essere non ha, per lui, alcun valore intrinseco”. Egli è dunque un soggetto spersonalizzato, senza una vera identità[44]. E proprio per questo il suo comportamento asseconda i canoni della razionalità economica[45]. Ma è realmente possibile spiegare il comportamento economico unicamente a partire dalle preferenze e credenze degli agenti, escludendo quindi disposizioni, motivazioni e sentimenti morali come se fossero sostanzialmente ininfluenti sulla rational choice, quando è ormai dimostrato il contrario[46]? Se poi ammettiamo che l’agente non sia del tutto sprovvisto di una sua identità, come escludere che questa possa porre dei vincoli alla sua possibilità di scegliere e di agire? Zamagni, ad esempio, è convinto che a limitare (e a orientare) le scelte dell’individuo, al di là del “vincolo di bilancio”, concorra anche il “vincolo identitario”. Il quale, d’altra parte, ci rimanda ai rapporti interpersonali: rapporti che non possono più essere ignorati né trattati alla stregua dei rapporti tra uomo e cosa. È ben vero che le relazioni sono agite dagli individui, ma non di rado queste “possiedono una loro autonomia, tanto che spesso gli individui entrano in conflitto con le relazioni e non solo con altri individui” (p. 10). La sfera della relazionalità, con la sua complessa e intensa carica simbolica, ha un peso non indifferente sulle scelte e sulle azioni degli uomini; nello stesso tempo sfugge alla comprensione degli utilitaristi, i quali sogliono assimilare l’interazione sociale ai beni di consumo. La ragione calcolante considera solo bisogni e interessi, escludendo di proposito desideri, passioni, sentimenti: per questo ha finora accantonato o guardato con sospetto il principio di gratuità ovvero il principio del dono come reciprocità[47]. L’homo oeconomicus, come il famoso visconte calviniano, è un uomo dimidiato.

7 – Stefano Zamagni e la teoria economica relazionale

Ma seguiamo Stefano Zamagni nell’elaborazione della sua teoria economica relazionale[48]. Lo studioso non condivide le definizioni di “azione gratuita” finora date, a cominciare dalla “non remuneratività delle prestazioni”. Si può, ad esempio, svolgere per qualche tempo un’attività senza compenso in cambio di una promessa di assunzione o per “qualche forma di investimento specifico in reputazione”. La gratuità è piuttosto “una virtù che postula una precisa disposizione d’animo. Solo ciò che nasce da una motivazione intrinseca può essere veramente gratuito, perché davvero libero […]. In altri termini, solamente l’atto che promana da norme interiorizzate e non dal desiderio di conseguire un qualche obiettivo specifico – fosse anche quello dell’autogratificazione – può essere propriamente gratuito”. E dunque l’assenza di remunerazione è un requisito importante, ma non sufficiente, della gratuità; la quale, del resto, non implica il disinteresse totale, essendo in realtà mossa dall’interesse superiore di “costruire la fraternità”. Essa mira, insomma, a costruire “particolari legami tra le persone” e, in questo, si distingue pure dalla filantropia, perché, “laddove l’organizzazione filantropica fa per gli altri, l’agire gratuito fa con gli altri”. Il destinatario di qualche beneficienza prova fatalmente “vergogna” o comunque un senso di dipendenza nei riguardi del benefattore, mentre ciò non avviene con il dono gratuito, che genera reciprocità: il legame sostituisce in questo caso il bene donato ed è quello che davvero importa. La reciprocità è anzitutto un rapporto tra persone, un rapporto in cui c’è proporzionalità, non eguaglianza, come ha ben capito Aristotele. Non è uno scambio contrattuale di equivalenti, ma un donarsi gratuito, a prescindere dal valore dell’oggetto che si dona.

L’uomo, che è l’unico animale sensibile all’altrui pensiero e all’altrui giudizio, ha bisogno di riconoscimento e costruisce la sua identità in relazione con gli altri: nel dono egli coniuga l’aiuto all’altro con il riconoscimento delle sue capacità personali. Se vi è un interesse del donante, esso consiste proprio nell’instaurare la relazione con l’altro. Questo, però, escluderebbe – secondo Derrida (Donare il tempo e la moneta falsa, p. 18) – la possibilità stessa del dono: “Perché vi sia dono bisogna che il dono non appaia, che non sia percepito come dono”. In altre parole: se il dono ha un’intenzione, se significa qualcosa per il donatore (cosa del resto inevitabile, visto che l’uomo è un essere ontologicamente interessato), non è più un dono. Ma fin qui ci muoviamo in un contesto culturale ancora segnato dal dominante economicismo. Così pure per Jean Luc Marion “il concetto di dono resta nell’ambito dell’economia”: se si vuole uscirne, bisogna rinunciare anche al concetto di reciprocità, anche all’idea del dono: “L’amore non scambia nulla”[49]. Persiste, insomma, il sospetto verso un utilitarismo di fondo, e questo fa sì che il dono venga confuso col regalo. Lévinas pone, a sua volta, a fondamento della gratuità niente meno che la dostoevskiana preoccupazione di “sentirsi responsabili per l’intero edificio della creazione”. L’io si costituisce nel suo rapporto con l’altro. L’io non è pour soi, ma pour autre. E il soggetto, in quanto appunto sub-jectum, è “sotto il peso dell’universo – responsabile di tutto” (cfr. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 115 e 145). L’io è “ostaggio” degli altri, nel senso di sentirsi responsabile di tutto ciò che può loro accadere, sino a sentirsi obbligato a mettersi al loro posto, a “sostituirli”. “La parola Io significa eccomi (Me voici), rispondente di tutto e di tutti” (p. 143). “Dire: eccomi. Fare qualcosa per un altro. Donare. Essere spirito umano significa questo” (Etica e infinito, p. 110). E siffatta relazione tra l’io e l’altro è disinteressata e “asimmetrica”: ciò vuol dire che io sono responsabile dell’altro indipendentemente dal fatto che anche l’altro lo sia nei miei confronti (“l’inverso è affar suo”). Ma Zamagni (L’economia come se la persona contasse, p. 16) respinge questa conclusione, che escluderebbe la reciprocità dall’economia del dono: “la socialità – egli dice – non è solo desiderio per l’altro, ma anche desiderio dell’altro per me”. Per dirla con Buber (Il principio dialogico, p. 30), la relazione sottintende una reciprocità, in virtù della quale il mio “tu” influisce su di me, come io su di lui, in quanto il “tu” pone o costituisce l’”io” così come l’”io” costituisce il “tu”.

Abbiamo già visto come Zamagni creda nella possibilità di creare proprio entro il mercato, non fuori o contro di esso, uno spazio economico dove il principio di reciprocità – l’unico veramente in grado di rigenerare quei valori di gratuità, fiducia e simpatia senza i quali il mercato stesso non avrebbe lunga vita – possa effettivamente affermarsi. Con la reciprocità “lo scambio cesserebbe di essere anonimo e impersonale come invece accade con lo scambio di equivalenti” (L’economia come se la persona contasse, p. 18). Ma tale possibilità è messa in discussione (e negata) da diversi studiosi. Polanyi, ad esempio, è persuaso che gli agenti economici, intervenendo nel mercato regolato dal solo principio dello scambio di equivalenti, ne subirebbero il contagio e non solo finirebbero per adottare a loro volta modi di deliberazione esclusivamente autointeressati, ma li trasferirebbero pure ad altri ambiti sociali, in cui l’interesse pubblico esigerebbe invece atti virtuosi. Per Hirschman (Rival Interpretations of market society) – che in questo si rifà ad Aristotele – la virtù dipende dalle abitudini acquisite da un individuo e tende ad atrofizzarsi con la desuetudine: come inevitabilmente si verificherebbe in una società basata su istituzioni, economiche e politiche, che tendessero ad economizzare l’uso delle virtù da parte dei cittadini. E Martin Hollis: “Più forte – scrive – è il legame della fiducia più una società può progredire; più essa progredisce, più i suoi membri diventano razionali e perciò più strumentali nel rappresentarsi tra loro. Più strumentali essi sono, meno diventano capaci di dare e ricevere fiducia. Così lo sviluppo della società erode il legame che la rende possibile e di cui ha continuamente bisogno” (Trust within reason, p. 73).

Ora, Zamagni ribadisce che nessuno finora ha dimostrato che, agendo sul mercato capitalistico, gli agenti giungano col tempo ad acquisire per contagio una divisa individualistica. È per contro dimostrato che “persone con disposizioni virtuose, agendo in contesti istituzionali in cui le regole del gioco sono forgiate a partire dall’assunto di comportamento autointeressato (e razionale), tendono ad ottenere risultati superiori rispetto a quelli ottenuti da soggetti mossi da disposizioni egocentriche”[50]. Inoltre, le disposizioni virtuose non conseguono ai comportamenti, ma viceversa. E lo dimostra proprio il fatto che oggi, in un contesto storico-sociale a larga dominanza di istituzioni che “economizzano le virtù”, si assiste a una diffusa fioritura di organizzazioni della società civile. Certo – conclude Zamagni – “la reciprocità non si esaurisce nella prossimità. Come ha scritto Ricoeur (Persona, comunità, istituzioni, p. 21): «Se io fossi solo con l’Altro, gli dovrei tutto. Ma c’è il Terzo… Il Terzo è altro rispetto al prossimo, ma anche un prossimo dell’Altro e non unicamente il mio simile». È solo con il Terzo che nasce la società – come ci ricorda Baumann – e quindi anche l’economia. Ebbene, il senso della gratuità oggi è quello di aprire la fraternità, di andare oltre la prossimità che si fonda sul rigetto immunologico dell’estraneo e del diverso. Mai si dimentichi, infatti, che ciò che «erode» il legame sociale non è il mercato di per sé, ma un mercato ridotto a solo scambio di equivalenti; non dunque il mercato civile ma quello «incivile» perché non edificato – come ben sapevano gli umanisti del XV secolo – sul principio di reciprocità” (Zamagni, L’economia come se la persona contasse, p. 20).

Il discorso di Zamagni si colloca, in maniera a dire il vero originale e spassionata, nel solco della tradizione cattolica. Basti pensare che già Leone XIII poneva gli interessi della comunità al di sopra di quelli semplicemente di mercato, condannando il gretto individualismo dell’economia mercantilistica e invocando un ritorno ai valori umani e comunitari. Era quindi auspicabile una società in cui il bene comune trascendesse gli interessi del singolo individuo e in cui i rapporti economici fossero improntati a fratellanza, buona volontà e rispetto per l’interesse altrui, anziché alla mera ricerca del profitto. Nella Gaudium et spes si afferma che “l’attività economica è da realizzare secondo leggi e metodi propri dell’economia ma nell’ambito dell’ordine morale” (cfr. Luciani, p. 153). L’economia deve essere, in particolare, la realizzazione dell’uomo sociale: nell’economia l’uomo manifesta la socialità attraverso lo scambio dei prodotti e la cooperazione nella produzione di essi. La Chiesa riconosce il diritto alla proprietà privata, ma nel contempo dichiara che esso “non deve mai esercitarsi a detrimento dell’utilità comune”, anzi il “diritto” di proprietà diviene “dovere” di solidarietà (p. 161: la citazione è dall’enciclica populorum progressio di Paolo VI). E Giovanni Paolo II nella Centesimus annus ribadisce la “funzione sociale” della proprietà privata, osservando che “l’unico titolo legittimo al possesso dei beni […] è che essi servano al lavoro, e che, conseguentemente, […] rendano possibile la destinazione universale dei beni e il diritto al loro uso comune” (pp. 161-162). Per il resto, se da un lato la Chiesa condanna un’economia “rivolta al prevalente profitto privato unilaterale ed egoistico”, dall’altro ammette il “profitto onesto”, ragionevole e moderato, che si converta in nuove occasioni di lavoro. In particolare Giovanni Paolo II afferma che “scopo dell’impresa non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società”[51].

Bastano queste scarne e sommarie indicazioni per comprendere come la dottrina sociale della Chiesa innervi la proposta di Zamagni, non meno della pur dichiarata lezione dell’umanesimo civile. Egli delinea così una sorta di “terza via” che, in nome della relazionalità, si propone di eludere le insidiose secche che costellano l’annoso (e astioso) dibattito tra i fautori dell’individualismo e i sostenitori delle ragioni collettivistiche. Il paradigma ermeneutico dell’intersoggettività andrebbe infatti a sostituire quelli olistico e individualistico. E l’etica della virtù, superando le tradizionali contrapposizioni tra interesse proprio e interesse per gli altri, tra egoismo e altruismo, consentirebbe finalmente, in nome del bene comune, di uscire dalle viete alternative tra indipendenza e appartenenza, tra efficienza ed equità, tra autointeresse e solidarietà. “La vita virtuosa – dice infatti Zamagni – è la vita migliore non solo per gli altri ma anche per se stessi” e il “bene comune” è indissociabile dal “bene individuale”. “La motivazione al problema morale dell’agente non è quella di fissargli dei vincoli (o dargli degli incentivi) per agire contro il proprio interesse, ma di offrirgli una più completa comprensione del suo bene. Solo se l’etica cessa di essere considerata come puro insieme di regole, quello della motivazione morale cessa di essere un problema, dal momento che siamo automaticamente motivati a fare ciò che crediamo sia bene per noi”. In altre parole, non si capisce perché la gratuità, vista come “la cifra della condizione umana”, non debba caratterizzare anche il modo di essere dell’economicità. Tra l’altro, la tesi della doppia ermeneutica ci insegna come le teorie economiche, lungi dall’essere “meri strumenti neutrali di conoscenza e di spiegazione del comportamento umano”, incidano sul carattere degli uomini e ne modifichino talora il comportamento. Per questo l’economista è chiamato a intrattenere “uno speciale rapporto di buon vicinato con l’antropologia e con l’etica – sempre che voglia continuare a riconoscere alla propria disciplina la capacità di concorrere a modificare in qualche modo la realtà. Se invece la preoccupazione dell’economista è semplicemente quella di costruire una macchina logico-analitica che consenta di misurare gli effetti di determinati provvedimenti economici, allora per uno scopo del genere il connubio tra economia e scienze fisico-matematiche basta, e avanza”[52]. Oggi, in verità, “le scienze fisico-matematiche non hanno molto da offrire. Esse sono bensì capaci di dare risposte, ma non di porre le domande giuste – ed è di queste che oggi l’economia ha soprattutto bisogno; prima fra tutte, della domanda sull’uomo” (Zamagni, L’economia come se la persona contasse, pp. 21-22).

Sull’importanza, ma anche sugli abusi della matematica nel campo dell’economia e, in genere, delle scienze sociali, si è di recente pronunciato, da par suo, Amartya Sen: “Nell’ambito delle scienze sociali, dobbiamo chiederci se ipotetiche relazioni economiche e sociali possiedano effettivamente caratteristiche di semplice regolarità matematica. L’economia matematica dell’Ottocento e della prima metà del Novecento era in larga misura dominata da concetti e tecniche venute dalla fisica e dalla meccanica, e faceva ampio uso di calcolo ed equazioni differenziali. Diventò via via chiaro che questi non erano sempre strumenti appropriati per risolvere problemi di natura economica e sociale” (cfr. L’economia sedotta dai numeri). Nondimeno la matematica è una disciplina versatile e multiforme e ce n’è quindi per tutti i gusti e per tutti gli usi. “Per esempio, il celebre teorema formulato da Kenneth Arrow nel 1950, che dimostra l’impossibilità di combinare insiemi di preferenze individuali per ottenere le decisioni sociali corrispondenti (soddisfacendo al contempo ragionevoli condizioni di aggregazione), non deriva in alcun modo dalla meccanica o dal calcolo differenziale, eppure è senza dubbio un risultato matematico: usa altri formalismi, in particolare la logica matematica o l’algebra relazionale. Non sarebbe stato possibile arrivare a quello stupendo risultato senza il ragionamento formale” (ib.). Lo stesso Arrow enunciò l’anno seguente un sistema “per rappresentare le relazioni di mercato in termini di interazioni competitive, senza alcune delle restrizioni imposte da precedenti inquadramenti matematici”. E John Nash nel 1950 “ottenne due risultati fondamentali in teoria dei giochi: dimostrò l’esistenza di relazioni d’equilibrio in giochi non cooperativi e definì i termini salienti per la cooperazione tra individui”. Gli esempi positivi potrebbero moltiplicarsi. Viene tuttavia il dubbio che i formalismi matematici di cui oggi disponiamo, anche presi nel loro insieme, “siano inadeguati per trattare alcune delle complessità sociali di cui le scienze sociali devono occuparsi”, al punto che un eminente economista matematico come Michio Morishima è giunto a sostenere che l’economia è stata molto impoverita “dalla cecità di tanti economisti davanti al fatto che molte variabili sfuggivano alle strutture matematiche già esistenti” (ib.).

8 – Per un’etica della previsione e della responsabilità

Anche Amartya K. Sen ha a più riprese sottolineato come le principali carenze dell’economia contemporanea derivino in buona parte dal distacco tra economia ed etica. E questo proprio perché sia il giudizio sia il comportamento effettivo degli esseri umani sono influenzati da considerazioni di natura etica. Fin dalle sue origini – diciamo – aristoteliche, l’economia appare strettamente collegata all’etica e alla politica: in quanto “scienza pratica”, essa è al servizio della politica, che ha come fine “il bene umano”, e questo è certamente “desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino se riguarda un popolo e le città” (Aristotele, Etica Nicomachea, I, 2). Che cosa può dunque promuovere il bene umano? E come bisogna vivere? Sono, queste, domande che, riguardando le motivazioni e i risultati sociali, sono eminentemente etiche. Ma in tempi più recenti è prevalsa una diversa considerazione dell’economia, che ha preferito mettere l’accento sugli aspetti logistici della disciplina, dandole in tal modo una connotazione più ingegneristica[53]. Questo approccio non-etico non è di per sé improduttivo, ma – sostiene Sen – può essere reso più produttivo proprio prestando “maggiore e più esplicita attenzione alle considerazioni di natura etica che informano il comportamento e il giudizio umani”. Nell’economia moderna – come abbiamo già avuto modo di vedere – ha svolto un ruolo molto importante l’idea di “comportamento razionale”. Solo che essa è stata interpretata in modi tra loro diversissimi: da un lato, infatti, si è puntato sulla razionalità come coerenza interna; dall’altro si è identificata la razionalità con la massimizzazione dell’interesse personale.

Ora, per dimostrare che ben difficilmente la coerenza interna può di per sé ritenersi adeguata a caratterizzare un comportamento razionale, Sen (Etica ed economia, p. 20) ricorre all’esempio dello “sciocco razionale”: di chi cioè con ostinata coerenza “fa esattamente il contrario di quello che lo aiuterebbe a ottenere ciò che vorrebbe”. Perché una scelta sia razionale, non basta una qualche coerenza di comportamento. Ci vuole anche un minimo di corrispondenza tra ciò che si cerca di ottenere e il modo in cui si agisce per arrivare a tanto. Ma nemmeno la seconda interpretazione riesce a catturare il contenuto della razionalità in modo adeguato, giacché non si vede perché un individuo che persegua un fine diverso dall’interesse personale debba, per ciò stesso, essere considerato irrazionale[54]. “In effetti, entrambe le impostazioni sembrano trascurare il ruolo del ragionamento inteso come capacità di fornire ragioni plausibili alla scelta. E il «ragionamento» in questa accezione esige molto di più della mera coerenza e molto di meno della pura massimizzazione di una funzione obiettivo sotto vincoli. È su questa base che in epoca recente è stata avanzata l’idea che la razionalità abbia piuttosto a che vedere con la corrispondenza tra scelta e uso della ragione. Herbert Simon, nei suoi lavori sulla scienza dell’amministrazione, ha proposto la nozione di razionalità limitata per tener conto della sproporzione tra la capacità di elaborazione dell’informazione e di calcolo del decisore e la complessità dell’ambiente in cui egli agisce. In una tale ottica, è razionale colui che esibisce un comportamento soddisfacente e non già un comportamento massimizzante” (L’Universale, II, pp. 945-946). La bontà di un albero, in definitiva, si riconosce dai frutti che dà.

Questo vale sia per l’economia sia per l’etica. Sen, ad esempio, sostiene che, laddove si parla di razionalità, non si può assolutamente trascurare il nesso tra le scelte operate e le conseguenze che ne derivano (cfr. Internal Consistency of Choice). Allo stesso modo ritiene erroneo “valutare il dovere in termini indipendenti dalle conseguenze” (La ricchezza della ragione, p. 53). E, passando a esaminare l’etica della finanza, rileva, tra l’altro, come sia pericolosa l’idea corrente che la “responsabilità fiduciaria” verso gli azionisti giustifichi l’impegno prioritario alla massimizzazione del profitto, quando trascuri le conseguenze sociali che ne possono derivare. “Questa impostazione è gravemente carente, perché non considera il danno che un comportamento così orientato può provocare alla collettività in senso lato (danni ambientali o distorsioni monopolistiche, ad esempio) e anche perché trascura l’esigenza di riconoscere gli obblighi nei confronti di altri soggetti coinvolti nell’impresa” (pp. 82-83). C’è dunque un doppio ordine di vincoli da considerare, e riguardano gli strumenti da un lato e i comportamenti dall’altro. Per quanto attiene agli strumenti, nell’attività finanziaria e nella pratica degli affari non tutti risultano ammissibili, ancorché magari idonei a perseguire i fini prescelti . “Un esempio: è lecito perseguire l’obiettivo della massimizzazione del profitto utilizzando quale strumento la pressione sull’intervento pubblico per sfruttarlo a tal fine? Oppure, per considerare un altro problema, debbono esservi vincoli all’impiego di capitali di origine illecita, o al «riciclaggio» di denaro sporco, anche quando l’istituzione finanziaria non sia direttamente coinvolta in attività di per sé illecite?” (p. 54). Quanto ai comportamenti, si pensi, ad esempio, ai guadagni che qualcuno potrebbe personalmente ottenere sfruttando a proprio vantaggio informazioni riservate (insider trading). Insomma, se vogliamo motivare l’obiettivo della massimizzazione del profitto, non possiamo solo guardare al ruolo che il profitto assolve come incentivo e fonte di efficienza economica; questa valutazione “va integrata con il riconoscimento altrettanto fermo delle perdite di benessere sociale e delle disuguaglianze, che potrebbero in tante circostanze risultare accresciute da comportamenti volti a perseguire quell’obiettivo” (p. 83).

All’importanza fondamentale di valutare attentamente (e se possibile preliminarmente) le conseguenze dell’agire economico, aggiungiamo altre due considerazioni, che sono emerse, in epoca post-walrasiana, dall’avere di nuovo posto al centro del discorso economico le relazioni interumane, nonché dall’avere messo in discussione la tradizionale identificazione tra benessere e soddisfacimento delle preferenze individuali[55]. Da un lato si presenta quindi il problema di “proteggere” gli individui dalle conseguenze delle loro scelte; dall’altro si è ormai preso atto che “in una moderna economia di mercato i contratti sono tipicamente incompleti”, per cui “la loro esecutorietà comporta l’attivazione di strategie di enforcement endogeno”. Nel sistema teorico di matrice walrasiana, invece, i contratti erano tutti, per ipotesi, completi: di qui la nulla salienza che vi aveva la nozione di potere. Ma se noi sappiamo, oggi, che “gli agenti economici sono coinvolti in interazioni strategiche”, non possiamo ignorare che “le posizioni di potere detenute dai soggetti conferiscono vantaggi agli stessi […]. Si pensi a quanto avviene nei mercati del lavoro e del credito – mercati nei quali i contratti sono massimamente incompleti – per realizzare il senso preciso di tale constatazione: la parte più abile nel processo di negoziazione finisce con l’acquisire un potere che le consentirà di ottenere vantaggi sull’altra parte”[56]. Non a caso Sen ha posto l’accento sull’ineguaglianza tuttora vigente nella distribuzione delle libertà effettive – “libertà-di-agire” e, soprattutto, “libertà-di-conseguire” – all’interno del mercato (La ricchezza della ragione, p. 47). Orbene, è evidente che in casi del genere, si richiedono decisioni e interventi di carattere politico: interventi, però, che non mirino tanto a sostituirsi al mercato, quanto a integrarlo. “Il mercato non è semplicemente un meccanismo allocativo, ma anche un meccanismo di regolazione del potere” (Zamagni, Economia e filosofia).

Particolare attenzione alle conseguenze, per loro nefaste, del progresso economico hanno posto i teorici della cosiddetta “decrescita”. Essi imputano al modello di sviluppo messo in piedi dall’Occidente a partire dalla rivoluzione industriale, e quindi variamente declinato dal marxismo e dal liberalismo, la responsabilità di avere creato una società di nevrotici e di spostati. Secondo Massimo Fini, esso sarebbe infatti basato “sull’ossessiva proiezione nel futuro, invece che sulla ricerca dell’armonia in ciò che già c’è”, cosicché “l’uomo non può mai raggiungere un punto di equilibrio e di pace, ma colto un obiettivo è costretto dall’inesorabile dinamismo del sistema ad inseguirne un altro, in un’affannosa corsa priva di senso che ha termine solo con la morte dell’individuo” (cfr. Gulli) .Questa crescita – aggiunge Maurizio Pallante – “non è al servizio degli uomini, ma anzi li subordina alle sue esigenze costringendoli a produrre quantità sempre maggiori di merci e a consumarle per continuare a produrne quantità sempre maggiori” (ib.). Noi, in altri termini, non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre. Ormai consumiamo anche il tempo libero, esso pure mercificato, e, tutti presi dalla produzione, dalla crescita, dalla competizione e, appunto, dal consumo, abbiamo finito per dimenticare i bisogni dell’anima. Oltre tutto, il modello è oltremodo pervasivo, tanto da avere omologato e standardizzato, in un monotono appiattimento, tutte le culture del globo. Che fare dunque? Decrescere, risponde Serge Latouche: rinunciare “all’immaginario economico, cioè alla convinzione che di più per tutti significhi più uguaglianza. Il benessere e la felicità si possono raggiungere a costi inferiori. La saggezza di molte culture suggerisce che la felicità si realizza nella soddisfazione di una quantità sensatamente limitata di bisogni. Riscoprire la vera ricchezza nella promozione di relazioni sociali conviviali in un mondo sano si può fare con serenità nella frugalità, nella sobrietà, persino con una certa austerità nei consumi materiali” (ib.). A questa ricetta Pallante aggiunge, di suo, qualche ulteriore puntualizzazione: “Per diventare padroni del proprio destino occorre ridurre l’incidenza delle merci nella propria vita, acquistando solo l’indispensabile senza cedere alle lusinghe del consumismo, ampliando l’autoproduzione di beni e potenziando gli scambi non mercantili”. E per evitare un crollo dell’occupazione, basta “trasferire la forza lavoro, grazie alle innovazioni tecnologiche non finalizzate ad accrescere la produttività, verso i settori (è solo un esempio) diretti alla riduzione del consumo di risorse, l’inquinamento e i rifiuti a parità di produzione” (ib.)[57].

È facile riconoscere in posizioni così radicali da parere “antimoderne” un duplice influsso: quello della “scuola di Francoforte” e quello di ivan Illich (1926-2002). Dal libero pensatore austriaco i teorici della “decrescita” mutuano l’idea di “convivialità” in contrapposizione alla produttività industriale. Qual è – si chiede Illich – il limite critico, all’interno della triade uomo-strumento-società, oltre il quale viene meno l’equilibrio globale, con il risultato che l’uomo diventa schiavo della macchina? La risposta lo individua nella società iper-industriale, irrispettosa di scale e limiti naturali, dove l’uomo diventa fatalmente un ingranaggio anonimo all’interno di un sistema burocratico e centralizzato. Conviviale è invece la società in cui lo strumento moderno serve alla persona integrata nella collettività per realizzare una vita sociale autentica, in cui la tecnica faccia posto all’etica. “Se vogliamo – scrive Illich ne La convivialità – poter dire qualcosa sul mondo futuro, disegnare i contorni di una società a venire che non sia iper-industriale, dobbiamo riconoscere l’esistenza di scale e limiti naturali. Esistono delle soglie che non si possono superare. Infatti, superato il limite, lo strumento da servitore diviene despota. Oltrepassata la soglia, la società diventa scuola, ospedale, prigione e comincia la grande reclusione”[58].

Dei francofortesi condividono invece la critica della ragione strumentale e delle forme connesse alla prassi del dominio. Ad una scienza basata sull’equazione baconiana “sapere = potere” horkheimer contrappone, ad esempio, “la riconciliazione dialettica uomo-natura, ossia la riconquista mediata di una mutua integrazione fra soggetto e oggetto, all’insegna dell’armonia” (Fornero, t. 1, p. 146). Nel mondo di oggi, infatti, “la vita non vive” e “le potenze oggettive determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti, producendo la “dissoluzione del soggetto” (Adorno 1979, pp. 3-4). Esaminando l’odierna industria culturale, Adorno ne denuncia le subdole tecniche, capaci di indurre negli individui una sorta di paralisi mentale che agevola l’accettazione passiva dell’esistente. L’”imperativo categorico” dell’industria culturale si distingue da quello kantiano perché non ha più nulla in comune con la libertà, ma si limita a dire: “devi adattarti, senza specificare a che cosa; adattarti a ciò che immediatamente è, ed a ciò che, senza riflessione tua, come riflesso della potenza e onnipresenza dell’esistente, costituisce la mentalità comune”. Così, “tramite l’ideologia dell’industria culturale, l’adattamento prende il posto della coscienza” (Resumè über Kulturindustrie, in Adorno 1967, p. 65). Lo stesso divertimento – che altro non è se non una sorta di “prolungamento del lavoro nell’epoca del tardo capitalismo” – soggiace ai prodotti di svago sfornati dalla meccanizzazione e all’atrofia mentale provocata dall’attività lavorativa aggiunge uno stordimento psichico funzionale alle esigenze del sistema, che in tal modo carpisce pure il consenso delle “anime morte” su cui si regge: “Divertirsi significa essere d’accordo” (Horkheimer, Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 145 e 167). Con la pubblicità, infine, il sistema “defrauda” il consumatore del piacere e della felicità che continuamente gli promette, rinviandone sine die la fruizione (p. 148). La civiltà industriale avanzata si caratterizza, per Marcuse, per la sua “tolleranza repressiva”, per il suo “permissivismo”, grazie al quale riesce a inglobare ogni idea e ogni ideale potenzialmente alternativi. Così tutto è permesso, a patto che non leda concretamente gli interessi di fondo del sistema (L’uomo a una dimensione, pp. 21-22). E “le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nell’attrezzatura della cucina” (p. 29); completamente alienate o, meglio, anestetizzate dal sistema, esse non riescono più a distinguere in maniera critica fra bisogni “veri” e bisogni “falsi”. Ne risulta “un’euforia nel mezzo dell’infelicità”, un’euforia che nasce dal bisogno di “rilassarsi, divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano” (p. 25). L’uomo a una dimensione è il frutto dell’innaturale appiattimento indotto dalla società industriale avanzata. Per uscire da questo “inferno vellutato”, non resta che usare i “risultati della civiltà tecnologica al fine di liberare l’uomo e la natura dall’abuso distruttivo della scienza e della tecnologia poste al servizio dello sfruttamento” (Saggio sulla liberazione, p. 74).

Ma la teoria della decrescita economica si nutre anche di suggestioni habermasiane. Jürgen Habermas, pur partendo dalla teoria weberiana della razionalità (per cui l’agire razionale è l’agire strumentale, cioè in vista di un fine), ne sottolinea le controindicazioni. È vero – egli osserva – che con il prevalere della razionalità (e della “secolarizzazione”) si sono affermati i sistemi economici ed amministrativi dello Stato moderno, ma non è meno vero che tale affermazione – soprattutto in ambito capitalistico – ha soffocato tutte quelle visioni etiche che, a cominciare dalla weberiana “etica della fratellanza”, “sollecitano le forme di organizzazione comunicativa” (Dialettica della razionalizzazione, p. 242). Se il capitalismo ha indubbiamente dei meriti sia per avere incrementato la ricchezza nella sfera della “riproduzione materiale” sia per avere consentito diverse acquisizioni politiche democratiche, nondimeno, con la sua pervasività, ha finito per sconfinare in ambiti – come quelli “della tradizione culturale, dell’integrazione sociale mediante valori e norme, della socializzazione delle generazioni in crescita” (Restaino, Habermas, difesa della ragione, p. 407) – che non dovrebbero essere di sua competenza. “Quando ora in questi ambiti penetrano i media di controllo denaro e potere, per esempio per via di una ridefinizione consumistica dei rapporti, di una burocratizzazione delle condizioni di vita, allora non vengono soltanto travolte delle tradizioni, ma vengono anche attaccati i fondamenti di un mondo della vita già razionalizzato; c’è in gioco la riproduzione simbolica del mondo della vita” (Habermas Dialettica della razionalizzazione, p. 248). Per evitare che il sistema colonizzi o fagociti anche i “mondi della vita”, invece di disfarsi improvvidamente dell’eredità del razionalismo occidentale (come suggeriscono i teorici del “post-moderno”), occorre innescare un “mutamento di paradigma”, sostituendo alla centralità del soggetto quella della comunicazione intersoggettiva (cfr. Discorso filosofico della modernità).

Il timore che il sogno baconiano-faustiano di un dominio illimitato sul mondo si trasformi in un incubo, vale a dire in una catastrofe tecnologica, ha indotto Hans Jonas ad elaborare un’etica planetaria che tenga pure conto della posterità. Se non vogliamo che la natura diventi la “cloaca dell’uomo”[59], dobbiamo cioè uscire dagli esiti nichilistici di una situazione in cui “il massimo di potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi” (cfr. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, p. 31). Urge, insomma, un’”etica della previsione e della responsabilità”, che non si limiti a tener conto dell’uomo e guardi oltre l’hic et nunc, in modo da ponderare anche gli effetti futuri o a lunga scadenza delle nostre azioni. Occorre, in altre parole, andare oltre l’etica kantiana del dovere-per-il-dovere, che non tiene in adeguata considerazione le conseguenze delle nostre azioni: occorre, insomma, che le conseguenze delle nostre azioni “siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”[60].

 

Bibliografia

– Aa. Vv., The Philosophy of Karl Popper, La Salle 1974.

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Tre interventi su
economia e letteratura

Qualche considerazione sul pensiero economico di Ezra Pound (e altro)

Gianni Repetto, La comunità invisibile. Il “lungo addio” alla ruralità

Camilla Salvago Raggi, Di libro in libro, la vita

 

Qualche considerazione sul pensiero economico
di Ezra Pound (e altro)

Per comprendere adeguatamente le teorie elaborate da Pound sull’economia, bisogna tenere anzitutto presente che egli era un poeta. Non un tecnico, non uno scienziato, non un economista. Egli infatti si rifà a Confu­cio e individua nella mistifica­zione del linguaggio la radice dei mali che afflig­gono l’Occidente. Secondo lui, in altri termini, vi era una relazione stretta o, meglio ancora, una sorta di ineluttabile conse­quenzialità tra mistificazione del linguaggio e la decadenza dell’Occidente. “Se – dice Confucio – i nomi non sono corretti, le parole non corrispondono; se le parole non corrispondono gli affari non hanno successo […], i riti e la musica non fioriscono […], le punizioni e i castighi non colgono nel segno, il popolo non sa dove mettere mani e piedi”. Il politically correct, che a noi può sembrare una sorta di innocuo epife­no­meno, una forma di “galateo” per molti aspetti ridicola e risibile, per Ezra (oltre che per Confucio) sarebbe dunque il sintomo, se non la causa, di una grave malattia. Il po­litico o il “principe” ha il precipuo dovere di “rettificare i nomi”. Potremmo dire: di dire la verità. Ovviamente, per chi come Pound crede in una società organica, si tratta an­zitutto di assegnare a ciascuno il ruolo che gli compete, di ripristinare quindi l’ordine (e la funzionalità) sociale. “Il principe sia principe, il ministro ministro, il padre padre” (e sulla destitu­zione dei padri e del principio d’autorità nel mondo occidentale ci sa­rebbe tanto da dire, ma te lo risparmio perché sono certo che puoi da solo arguire quanto taccio). “Se uomo e donna [occupano] correttamente [i loro posti] si ha grande equità tra Cielo e Terra […]. Quando la famiglia è corretta, il mondo [ha un or­dine] stabile”. So bene che, partendo di qui, si potrebbe imputare a chi così pensa una visione conservatrice, se non addirittura reazionaria, della poli­tica. Personalmente, però, sono convinto che così necessariamente non sia.

Che sia la mistificazione del linguaggio, cioè la mancata corrispondenza tra la realtà e la sua rappresentazione, a provocare la decadenza della società, lo dimostra il fatto che non si chiama più usura il prestito a interesse praticato dalle banche, con il risultato che ci sfugge l’importanza (ma, per Pound, sa­rebbe meglio dire lo strapo­tere) della “finanza usurocratica”. Che tende ad as­soggettare tutto, a tutto monetiz­zare. A ridurre tutto a merce, a cominciare da ciò che – come l’opera d’arte – è per de­finizione “gratuito e disinteressato”, ir­riducibile pertanto a valore monetario. In una società dominata dalla finanza “sulla piazza del mercato / tò kàlòn sarà giudicato”.

Se leggi con attenzione i Cantos, vedrai che Pound parla di economia an­che fa­cendo poesia. Vedi, ad esempio, il canto XLV, che ne riassume le idee al riguardo. O il canto XXXVIII, che qui ti riporto: “Una fabbrica / ha anche un aspetto cosiddetto fi­nanziario. / Permette alla gente di comprare (salari, divi­dendi / sono potere d’acqui­sto) ma stabilisce / anche i prezzi o valori finanziari, cioè / paga i lavoratori e paga per la materia prima. / Ciò che paga in salari e dividendi / resta fluido, come potere d’ac­quisto, e questo potere / è inferiore, per forza, cacciatevelo in testa, inferiore / al pa­gamento globale effettuato dalla fabbrica / (in salari, dividendi e pagamenti per mate­ria prima, / tariffe bancarie eccetera) / e la somma di tutte queste cose / viene ag­giunta al prezzo globale / causato da questa fabbrica, qualunque fabbrica / quindi c’è e ci deve essere un blocco / e il potere d’acquistò non può / mai (col sistema pre­sente) mettersi al passo / coi prezzi correnti”.

Io avevo inserito un breve sunto delle teorie politiche poundiane, peral­tro in gran parte derivate da tal Silvio Gesell (ma – credo – anche da Rudolf Steiner) nel mio lavoro sui rapporti tra etica ed economia, ma con la scusa che Pound non era un filo­sofo e che parlava più di finanza che di economia, mi è stato espunto dal curatore del volume collettaneo in cui vide la luce. Lì dicevo sostanzialmente che per Ezra tra eco­nomia e finanza c’era la differenza che passa tra la salute e la malattia. Il denaro e il lavoro per lui non sono una merce: il primo è solo una convenzione sociale; il secondo è invece il vero fon­damento della ricchezza. Vuoi distribuire ricchezza? Distribuisci la­voro. Se poi lo Stato dispone del credito, perché dovrebbe indebitarsi? Perché do­vrebbe, in altre parole, dipendere dalle banche? Per Ezra le banche creano denaro dal nulla, ricorrendo a mere operazioni contabili [su questo punto ho molti dubbi, anche perché non sono esperto del settore, ma è indubbio che con i futures o altri prodotti finanziari campati sul nulla non siamo lontani dall’assunto] e lo mutuano sia allo Stato sia ai privati, lucrando sul prestito. Ma questa è usura! In tal modo, lungi dall’essere uno strumento a sostegno dell’economia e del lavoro, la finanza è una sorta di san­guisuga. Se poi lo Stato, per mantenersi e per pagare i debiti contratti con le banche, tassa i cittadini che producono, il salasso raddoppia. Bisognerebbe invece – e qui l’idea mi sembra geniale – tas­sare il denaro: imporre cioè l’obbligo di affrancarlo versando un centesimo al mese del suo importo nominale per renderlo o mantenerlo valido. In tal modo, non solo si eliminerebbe l’evasione fiscale, sì anche lo Stato introite­rebbe senza colpo ferire, vale a dire senza spese di riscossione, il 12% annuo sull’ammontare del circolante. Le stesse banche avrebbero tempo cento mesi per mettersi in regola, altrimenti le loro riserve si ridurrebbero a carta straccia. E lo Stato riacquisterebbe il suo “signoraggio”, la sua sovranità monetaria. Se­condo Pound, la civiltà vera è nemica del profitto, dell’oro, del valore mate­riale. L’errore di Marx ma anche del cattolice­simo sociale, secondo lui, sta nel criticare la circolazione del denaro senza tuttavia ve­dere che il centro della questione è la commercializzazione della vita, la vita conside­rata sotto la forma dello scambio, ridotta cioè a “trasferimento”. A merce e a mer­cato. Egli mette inoltre in guardia dal “sacrificare la libertà e la responsabilità dei sin­goli individui al sogno della centralizzazione burocratica o della sorveglianza totale, fosse pure in nome dell’efficienza, della sicurezza, o magari della sacralità della vita”. E guai a separare la morale dalla politica, l’individuo dalla comunità, le parti dal tutto. Assolutizzando l’economia, il mercato, c’è inoltre il rischio – e in questo si è dimo­strato lungimirante – che un’oligarchia sovrannazionale riu­scisse a sottomettere ai propri voleri la politica. Un altro rischio viene poi – e lo si legge qua e là tra le righe – dalla commistione tra banche commerciali e ban­che d’affari; commistione che porte­rebbe a impiegare per tutt’altri fini il de­naro destinato al funzionamento dell’econo­mia, deviandolo sui mercati finan­ziari allo scopo di guadagnare dalla speculazione tramite i prodotti derivati, le scommesse sulle materie prime, i tassi d’interesse, i tassi di cambio tra valute, con l’esito di strozzare l’economia produttiva. Il discorso mi sem­bra piuttosto attuale.

Di Pound non mi convince del tutto la visione – diciamo – “ruralista”, le­gata agli antichi miti agresti dell’area mediterranea (Persefone e Demetra ne sarebbero i prin­cipali simboli poetici), che pure è sottesa a certe moderne teo­rie sulla “decrescita” (Latouche, Massimo Fini). Anche tuo fratello è un po’ su questa linea. E, vista la piega mondialista che l’economia ha ormai preso, per evitare che la globalizzazione diventi davvero una glebalizzazione (la battuta è di un mio amico di Cassine) preferisco auspi­care una nuova Bretton Woods o una Glass Steagall globale, propedeutica a una più oculata emissione del cre­dito, per consentire di imbastire progetti infrastrutturali di respiro planetario. Ma forse sogno.

Per darti comunque un’idea di come imposterei il mio discorso comuni­tarista – che ritengo l’unica alternativa plausibile all’anarchia dell’attuale glo­balizzazione – ti allego la mia “lettura” critica del saggio pubblicato ultima­mente da tuo fratello. Tra il mio comunitarismo e il suo c’è qualche – notevole – differenza: cosa che non ci impe­disce di discutere e di dialogare.

Quanto a Camillo Berneri, non lo conosco abbastanza per poterti dire qualcosa di valido. Anche se ne condivido l’idea che il ceppo del fascismo non sia liberale. Il suo anarchismo nazionale mi sembra più tattico che strategico: secondo me, lo formula tenendo presente la realtà italiana che il fascismo an­dava tentando di nazionalizzare. Non so se uno Stato libertario e federale come quello da lui ipotizzato si possa inserire nel discorso sul comunitarismo. Dovrei leggere le sue opere, per potertelo confer­mare, ma per ora ho altro da fare (forse non di meglio), dato che per me le promesse sono debiti. Ho da poco ultimata una laboriosa traduzione dal latino (un latino secen­tesco, ba­rocco e tacitiano nello stesso tempo): quello del voluminoso manoscritto dei Solacia chronologica del vescovo Gregorio Pedroca, che il nostro vescovo vuole pub­blicare (con introduzioni e note) l’anno prossimo. Meno male che metà della fatica se l’è sobbarcata Lucilla Rapetti. Sono poi impegnato nella stesura di una “guida di Ac­qui” e nella storia del mio paese d’origine (in provincia di Parma). Di altri minori impe­gni non ti parlo, ma ti voglio dire che mi piace­rebbe portare a termine un ambizioso lavoro su pittori, scultori e maestranze varie attivi in un’area che va da Nizza della pa­glia a Moncalvo, da Acqui all’Ovadese: tutto su ricerche d’archivio. Giovanni Romano mi ha detto che con quello che abbiamo scoperto (uso il plurale perché nella consul­tazione d’archivio sono aiutato da due amici) abbiamo enormemente complicato il quadro della produzione artistica dell’Alessandrino. Spero che sia un compli­mento. A fine marzo accompagnerò Concetto Fusillo a Catania, dove egli tra­sferirà la mostra su Federico II e la Scuola siciliana. A fine aprile si sposa mio fi­glio: in America, a Las Vegas. Ne profitterò per farmi un giro tra Arizona, Kan­sas e Nuovo Messico. A settembre andremo in viaggio organizzato in Albania. Come vedi, per essere un sedentario, che amerebbe come l’Ariosto viaggiare sull’atlante di Tolomeo, non c’è male. Mi piace­rebbe però rivederti e insieme parlare dei … massimi sistemi. Chi sa che la presenta­zione dell’ultimo libro di Camilla – io lo presenterò entro il mese ad Acqui, tu (mi ha detto lei) a marzo ad Ovada – non ce ne offra l’occasione.

 

Gianni Repetto, La comunità invisibile. Il “lungo addio” alla ruralità, Ed. Impressioni Grafiche, Acqui Terme

Tito Livio nella sua storia di Roma (Ab Urbe condita, II, 32) racconta che Mene­nio Agrippa Lanato nel 493 a. C. tenne ai plebei in rivolta per rivendicare parità di di­ritti con i patrizi un discorso assai persuasivo con cui riuscì a scon­giurare una frattura civile gravida di gravi conseguenze. Il suo discorso era in­centrato su un apologo di ascendenza esopiana, in cui l’ordinamento sociale di Roma era assimilato al corpo umano. «Quando nell’uomo non regnava come ora una perfetta armonia tra tutte le parti, ma ogni membro la pensava a modo suo e a modo suo si esprimeva, le altre parti si sdegnarono che tutto quanto essi con la loro laboriosità, con la loro fatica e con la loro funzione si procacciavano andasse a vantaggio del ventre, che, dal canto suo, si limitava a godersi tranquillamente, là nel mezzo, i piaceri offertigli. Decisero dunque in una congiura che le mani non portassero cibo alla bocca, la bocca respin­gesse il cibo e i denti non lo masticassero. Mentre con questa risoluta presa di posi­zione miravano a domare il ventre con la fame, con esso insieme le stesse membra e l’intero corpo si ridussero a un estremo esaurimento. Risultò così evidente che anche il ventre, anziché starsene in ozio, svolgeva una sua fun­zione, e non era più nutrito di quanto non nutrisse, restituendo a tutte le parti del corpo, parimenti distribuito per le vene, questo sangue, derivato dalla di­gestione del cibo, che ci consente di vivere e di essere in pieno vigore». Ѐ uno dei tanti esempi classici che attestano come nell’antichità, su quella classista, prevalesse una visione organicistica della comunità. L’organizzazione sociale aveva un carattere funzionale che annullava o almeno met­teva in ombra qual­siasi “stratificazione per classi”. Tant’è vero che la discordia era considerata come la iattura principale. Chi non ricorda l’icastica formula con cui nel Bellum Iugurthinum (10, 6) il morente Micipsa si rivolge ai figli Aderbale e Iempsale e al nipote Giugurta: […] concordia parvæ res crescunt, discordia maximæ dila­buntur?

Gianni Repetto, invece, nel suo peraltro godibile e stimolante saggio sulla co­munità si richiama spesso e volentieri a schemi e concetti marxiani, quasi a sottoli­neare che il suo approdo al comunitarismo avviene da sinistra e po­trebbe allinearsi a quello di André Gorz o di Costanzo Preve. Forse per questo egli non mette l’accento sulla differenza – che a noi pare fondamentale – tra “società” (nel senso di “associa­zione”) e “comunità”. Con questo termine si denota “un mondo di valori esistente in­dipendentemente dalla volontà e dalla scelta razionale degli individui”(N. Urbinati), laddove per “società” si intende qualsiasi aggregazione che si basi sulla razionalità e sullo scambio. La distin­zione più chiara al riguardo si deve al sociologo tedesco Ferdi­nand Tönnies, che ne fa addirittura il titolo della sua opera più famosa, edita nel 1887: Ge­meinschaft und Gesellschaft [Comunità e società]. A suo dire, «la teoria della so­cietà riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo su­perficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella comunità gli esseri umani restano essenzialmente uniti nonostante i fat­tori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono».

La comunità non nasce da un “contratto sociale” liberamente stipulato tra indi­vidui, non è frutto di libera volontà e nemmeno, se non eccezional­mente, di libera scelta. Essa, per certi versi, preesiste all’individuo (che è fon­damentalmente un’astrazione) e fa parte del suo destino, in quanto nessuno può prescindere dalle reti di relazione “che hanno contribuito a formarne la personalità” (M. Tarchi). Sono state le filosofie razionalistiche e costruttivisti­che di derivazione illuministica a minare l’ubi consistam delle comunità, a cor­roderne i valori identitari, quando alle fonti etiche e religiose dell’autorità hanno preteso di sostituire quelle giuridiche. L’uomo avulso dal suo contesto, l’individuo svincolato dal territorio, dalla tradizione, dalla storia, dal po­polo di appartenenza, è diventato misura di tutte le cose: l’uomo dei cosiddetti “diritti umani”, così universale da essere senza radici, senza patria, senza passato, senza dif­ferenze. L’uomo astratto del cosmopolitismo giuridico: lo stesso che ha ispirato il mo­dello “kantiano” di Rawls e “il patriottismo della Costituzione” di Habermas. Ma, se­condo noi, la pretesa di costruire un modello universal­mente valido di società basato su principi deontologici è pura utopia e follia pura è l’ambizione di quei costruttivisti che tendono a concepire le aggrega­zioni sociali come insiemi meccanici di parti razio­nalmente montabili e smon­tabili, a tavolino. La comunità – come ben sapeva Mande­ville – è frutto della saggezza del tempo, di scelte via via maturate, quasi impersonal­mente, e stra­tificate in maniera così complessa da sfuggire, nel suo fondo, a qualsiasi scan­daglio sociologico. Esse si traducono in consuetudini e credenze all’apparenza ir­razionali, nate dall’esigenza, propria di ogni comunità, di autoregolamentarsi e finaliz­zate, più o meno consciamente, alla loro salvaguardia. Lo stesso spirito faustiano che permea l’Occidente e che, grazie alla tecnica, ha illuso l’uomo di essere un demiurgo destinato a “magnifiche sorti e progressive”, ma in realtà – oggi cominciamo ad avve­dercene – ne ha fatto una sorta di arroseur arrosé o, se vogliamo, di incauto apprenti sorcier, guida o ispira tanti “ingegneri sociali” che, con i loro astratti individui, anonimi e fungibili, e con le loro buone inten­zioni, credono di poter montare – quasi usassero i mattoncini assemblabili di un enorme “Lego” – i migliori dei mondi possibili. E non si rendono conto che lo spirito faustiano – il peccato originale dell’Occidente – “opera eternamente il Bene ma realizza eternamente il Male”. Ѐ appunto questo “il vizio oscuro dell’Occidente”, da cui – a dire di Massimo Fini – si è sviluppato, in un autentico “delirio di onnipotenza”, il liberismo capitalistico, il mito del progresso senza fine, del benessere materialistico, del consumismo. Con il risultato di trasfor­mare i mezzi (la produzione, la tecnologia, il mercato, la finanza) in fini e di de­gradare i fini (gli uomini e il loro habitat) a strumenti, anzi a schiavi, per di più consenzienti. Con poche ecce­zioni.

Bisogna ammettere che, di fronte ai disastri che oggi tocchiamo con mano e soprattutto per effetto della crisi che imperversa, va via via crescendo il numero delle persone che si interrogano sul senso del “progresso” e met­tono in discussione questo modello – “paranoico” – di sviluppo, ma molti, fru­strati e incattiviti dalle promesse tra­dite, dalla miseria (magari di ritorno) inac­cettabile in una “società opulenta”, dalla mancanza di ogni valore e di ogni punto di riferimento nel deserto del nichilismo im­perante, si abbandonano alla violenza, al fanatismo, alla furia devastatrice, a un in­consulto ribellismo, ani­mati da un cupio dissolvi che li rende incapaci, non diciamo di una analisi pon­derata, bensì di coltivare ulteriori speranze e di invertire la rotta verso qualche Itaca o qualche nuovo approdo. Purtroppo, ogni ritorno – a Itaca, al passato – sembra oggi improponibile. E la globalizzazione ha fatto del mondo un villag­gio. Non c’è più dove andare, dove cercare scampo. Lo aveva già intuito Milan Kundera quando scriveva che oggi “non si può più essere progressisti perché non c’è dove an­dare, e non si può più essere reazionari perché non c’è dove tornare”. Simone Paliaga, dal canto suo, ha detto che la globalizzazione non è che “l’ultima tappa della moder­nità”: di quella modernità che è cominciata nel Cinquecento, con l’apparire della tec­nica e della scienza, ed ha innescato quell’espansione dell’economia da cui – secondo Franco Cardini – si è poi svi­luppato il consumismo: «L’individualismo e la produzione di beni atta non già a rispondere ai bisogni bensì a crearne di nuovi, e dunque la produ­zione non più come mezzo e strumento bensì come fine, come scopo, sono le due grandi, ri­voluzionarie novità dell’Occidente moderno». Questo per dire che la globaliz­zazione, lungi dall’essere “un incidente di percorso”, è “iscritta nel DNA dell’Occidente”. E con la globalizzazione merci, capitali, persone, idee, modelli cultu­rali tendono a spostarsi sempre più rapidamente, sempre più ampia­mente. Non c’è più barriera (nazionale, doganale, culturale) che tenga, così che il mondo diventa sempre più ingovernabile. Ma anche sempre più uni­forme. E con l’omologazione do­minano il pensiero unico, il materialismo, il conformismo, la standardizzazione; ten­dono cioè a sparire sia le differenze sia le qualità.

Certo non manca chi spera in una “globalizzazione dal volto umano”, ma se, dietro quella che Serge Latouche ha definito la “megamacchina senza volto”, c’è dav­vero un “comitato d’affari”; se la mondializzazione, in altre pa­role, è davvero un pro­getto capitalista (in cui paradossalmente confluiscono persino elementi di pianifica­zione comunista), è difficile credere a un lieto fine. E proprio per tale ragione si rivela importante l’istanza comunitarista, anche perché ha il merito (o il pregio) di trascen­dere e attraversare la vieta dicotomia di “destra” e “sinistra”, lasciando intravedere qualche speranza di vedere prima o poi unite le forze antagoniste nella “guerra co­mune” contro i padroni del mondo. Persistono, è vero, differenze di analisi e di solu­zioni, ma le ragioni che uniscono sono ben più numerose e, soprattutto, più rilevanti. Gianni Re­petto, ad esempio, tende a collegare la sua proposta al “comunitarismo tri­bale” e – quel che più conta – a identificarne nella terra (nella “ruralità”) il primo e principale fondamento identitario. Sul che si può anche dissentire, sia perché egli parla di civiltà agro-pastorale come se fosse un tutt’uno, mentre la storia ci dice che si tratta in realtà di due modelli talora apertamente conflit­tuali (basti pensare ai we­sterns che vedono contrapporsi agricoltori e alleva­tori, stanziali i primi, tendenzial­mente nomadi i secondi; o ai forti contrasti tra pastori e contadini nella Castiglia del ‘500); sia perché la comunità è in genere inscindibilmente legata non alla terra, bensì a un territorio, che può essere pure un’area paludosa, un deserto, la foce di un fiume, un lago, un mare, una città… La comunità tribale, inoltre, tende ad essere una “comu­nità chiusa”; i communitarians, per sgravarsi da tale accusa, dichiarano di propugnare una “comunità aperta”, considerando le altrui comunità non tanto come una nega­zione della propria, quanto la conferma positiva del bisogno, da parte di cia­scuno, di radici comunitarie. Non solo, ma in una comunità aperta a nessuno viene negato il di­ritto di dissociarsi, di sottrarsi ai valori e ai modelli condivisi, per coltivarne altri; e nep­pure si escludono altre forme comunitarie, interne o esterne che siano. I communita­rians non si oppongono né al multiculturalismo né all’immigrazione, purché l’inserimento non vada, appunto, a scapito dell’dentità comunitaria. Lo stesso De Gaulle, che non era contrario all’afflusso controllato di stranieri sul suolo francese, as­serì che ci voleva un cervello da colibrì per aprire a tutti, in maniera sconsiderata, le porte, giacché si rischiava così di trasformare una ricchezza in una catastrofe.

Ma, del resto, poi, lo stesso Repetto riconosce che l’identità comunitaria non è contro nessuno e che, anzi, un’identità forte è garanzia di sicurezza e ideale viatico al confronto. E quando egli denuncia l’uso strumentale e, per così dire, “spoetizzato” della terra, vista solo come fonte di profitto, non si di­scosta molto dal pensiero – met­tiamo – di Guillaume Faye, che, a sua volta, la­menta la perdita dell’habitat territoriale, “etologicamente indispensabile ai gruppi umani”, e sostiene che “il Sistema fa di noi dei residenti e non più degli abitanti”. In realtà il Sistema uccide anche la storia, le tradizioni, e, ricorrendo alle armi della tecnoeconomia, promuove la “deculturazione” a ogni livello. Legata a un territorio specifico, ma dotata di una propria “aura”, la co­munità, più che un’entità fisica e spirituale, si può dire un’entità culturale: uno spazio all’interno del quale ognuno – in particolare gli anziani, ma anche i tipi svirgoli, le “leg­gere” – ha un suo ruolo, un suo compito (munus in latino), e tutti condi­vidono la stessa idea di bene e di male, e il giusto è inscindibile dalle “virtù”, così come ogni diritto non è che l’altra faccia di un dovere. La democrazia co­munitaria non si basa né sull’individualismo né sull’utilitarismo, bensì sulla ri­conosciuta preminenza degli inte­ressi collettivi (“bene comune”), e proprio per questo privilegia i rapporti funzionali, solidaristici, mutualistici, di lealtà. Una comunità – ribadisce Repetto – “se davvero fun­ziona e tiene fede ai suoi prin­cipi, non lascia mai nessuno solo di fronte alle proprie di­sgrazie, siano esse mo­rali o materiali”. Ne fanno fede, da noi, le confraternite laicali, che avevano tra l’altro compiti di assistenza ai poveri, ai malati, ai pellegrini. Come già in Ari­stotele, una comunità si regge sul “senso comune” o, per meglio dire, su “sen­si­bili comuni” e condivisi, su contenuti concreti (costumi, modi di fare, usanze, memo­rie) che consentono appunto l’integrazione dei singoli. A cominciare dalla lingua, dalle credenze, dai saperi (e dai sapori) tradizionali, trasmessi di generazione in genera­zione, fino alla convivialità, alle relazioni (di genere e in­tergenerazionali), ai giochi, ai riti comunitari, tanto religiosi quanto di passag­gio.

I comunitaristi riconoscono in genere il ruolo fondante del mito: è ap­punto questo a legare gli uomini a un territorio, alla natura dei luoghi, e in esso affondano le radici dell’idem sentire che si respira nell’aria e si apprende spon­taneamente, vivendo giorno dopo giorno a diretto contatto con gli altri, senza bisogno di imposizioni e di le­zioni. Ѐ il mito a garantire la natura sacrale dell’ambito comunitario, al di là di ogni re­ligione positiva. Esso regola i rapporti con la natura e invita ad assecondarne le leggi, partendo dal senso del limite, dallo stabilire con essa un rapporto ecologico, di ri­spetto (della biodiversità), di do ut des, e non di mero sfruttamento o, peggio, di sac­cheggio e di inquina­mento. A questo punto, per ricostituire la comunità, sarebbe però necessario un vero e proprio “reincantamento del mondo”, come auspica pure Eduardo Zarelli, una “metanoia” che consentisse di strappare agli allettamenti dell’edonismo materialistico i tanti, troppi prigionieri di Alcina. Ma è possibile? Non nascondiamo di nutrire qualche perplessità al riguardo, ma Repetto in questo è più fi­ducioso di noi, tanto che – sia pure con riferimento al suo comu­nitarismo d’impronta agraria (Faye parlerebbe di “sogni paleolitici” o di “uto­pie neoagrarie”) – non esita a proporre delle ricette per risalire la china. Con­fessiamo di sperare in cuor nostro che abbia ragione lui, perché al comunitari­smo ci siamo convertiti in tempi non sospetti, da quando, leggendo l’aureo li­bretto di E. F. Schumacher Piccolo è bello (1973), ci rendemmo conto che, per sfuggire ai guasti dell’industrialismo sfrenato e allo strapo­tere delle multina­zionali, sarebbe stato necessario ridimensionare i nostri ambiti esi­stenziali, cir­coscrivendoli appunto a quelli tradizionalmente retti e controllati dalle comu­nità. Sebbene siamo consapevoli che in esse non manchino tensioni e conflitti, fenomeni di campanilismo e di antagonismo, rivalità e invidie, come mille epi­sodi di­mostrano: per una secchia rapita può scoppiare una guerra, per un santo patrono ci si può scannare a vicenda. Una visione idilliaca della vita co­munitaria non è certo veri­tiera; è tuttavia consolante che a dimensioni ridotte corrispondano in genere scontri e contese ridotti. Purtroppo, come avviene nei comics, fin tanto che si vive nell’incanto si può camminare anche nel vuoto, ma, non appena se ne prende coscienza, la fede in esso viene meno e si preci­pita. E tirarsi fuori dalle sabbie mobili, da soli, è quanto mai difficile: finora – che noi sappiamo – c’è riuscito soltanto il barone di Münchhausen. Forse – come auspicava Heidegger – “ormai solo un Dio ci può salvare”.

 

Camilla Salvago Raggi, Di libro in libro, la vita, Il Canneto Editore, Genova 2014

A tutta prima viene in mente, per analogia, la passeggiata di Leopold Bloom, il protagonista dell’Ulisse joyciano per le vie di Dublino, ma anche il Viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre, peraltro espressamente menzionato nel corso della rassegna – quasi una carrellata – che la scrittrice fa dei millanta libri sistemati ad arre­dare le stanze della sua villa di Campale. I li­bri di una vita, anzi di più vite, che fanno però capo alla sua. Tutto sembra svolgersi all’interno di una casa, in una sorta di moto entro luogo circoscritto. E la casa, dal canto suo, garantisce, all’apparenza, una certa unità di luogo al racconto, di cui i libri – forse che sì, forse che no – costituiscono l’unità tema­tica. Chi abbia tuttavia dimestichezza con la narrativa di Camilla Salvago Raggi sa bene che è vano, per non dire ingenuo, attendersi da lei il rispetto di certe regole clas­siche, di canoni che, oltre ad essere desueti, ripugnano al suo modo di scrivere e di affabulare. La trama, che nel romanzo e nel racconto tradizio­nale, è d’obbligo, qui manca del tutto: la fabula si smaglia o si squaglia in mille rivoli e fili, in una serie di evocazioni o di illuminazioni che danno rilievo a quelli che Virginia Woolf chiamava moments of being. Le divagazioni s’inventano mille scappatoie, mille pretesti per uscire dal tema, per svicolare altrove, in altri luoghi, in altri tempi. Il segreto è – se mai – quello di saperle in­terrompere a tempo, prima che il lettore si smarrisca o, peggio, si annoi. E in questo reiterato (e tempestivo) revenons à nos moutons Camilla – bisogna ri­conoscerlo – è davvero maestra.

Digressioni, distrazioni, divagazioni: la sua è una scrittura che ama giro­vagare senza meta apparente, assecondando le folgorazioni improvvise della memoria invo­lontaria e gli estri dell’immaginazione, in una sorta di vagabon­daggio mentale e sen­timentale che, più dell’ozioso vagolare joyciano, ci ri­corda quello della signora Dal­loway per le strade di Londra. Ѐ l’autrice stessa, del resto, a suggerircelo: «Libri come Gita al faro, La signora Dalloway, Mo­menti di essere, sono stati per me pietre miliari. Mi hanno introdotto all’hic et nunc, lo scrivere mentre si pensa e si fa, come il vaga­bondare della signora Dalloway per le vie di Londra – incontri, soste davanti a una ve­trina, auto che ti sfiorano, ciclisti. Cioè la vita tua e insieme la curiosità per quella degli altri. E quel suo modo di raccontare le cose nel momento stesso in cui avvengono – l’hic et nunc che dicevo, appunto – mi ha catturato e continua a catturarmi». Una vera e propria dichiarazione di poetica. Ovviamente dietro non c’è tanto la preoccupazione woolfiana di attingere la realtà che si cela dietro le apparenze e, per tale via, permet­tere all’io di sentirsi parte di un tutto che ordinaria­mente, nella routine quotidiana, gli sfugge, quanto piuttosto il desiderio e il piacere di sottrarre all’entropia sprazzi di vita, sensazioni o emozioni partico­larmente intense e significative, oasi o isole di verità “nel fluire indistinto dell’esistenza”. Ѐ il piacere di ritrovare se stessi, di salvare dall’annientamento qualcosa che si riteneva (o si teme che vada) perduto. Come per il Vecchione di Svevo, così per Camilla, la vita, quando non sia riscattata dalla scrittura, “è priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che se ne vanno via e s’accumulano uno eguale all’altro a formare gli anni, i decenni, la vita tanto vuota, ca­pace soltanto di figurare quale un numero di una tabella statistica del movimento demografico”.

Per certi versi la vita si identifica con la scrittura, tanto che per Camilla i libri sono i suoi “figli di carta” e i libri altrui, quelli che qui, in una specie di toc­cata e fuga, ella passa in rassegna sono, per così dire, esperienze di vita che si aggiungono alla sua, che ne dilatano i confini, che la moltiplicano. Tant’è vero che ella stessa confessa di non cercare nei libri la trama, bensì il vissuto. E il pensiero dei libri che non ha letto e che non leggerà le riesce increscioso, la turba. Non meno del loro destino all’indomani della sua morte. Come l’idea di una dissipazione o, peggio ancora, di una profana­zione. C’è, nella sua idea dei libri, un non so che di magico e di sacrale: un mana che non basta a proteggerli dalla manomissione o dalla distruzione, ma è tutt’uno con il fascino che essi esercitano o hanno esercitato su di lei, sono parte della sua stessa esi­stenza e testimonianze viventi della sua storia familiare, di persone a lei care. Per cui via via che ne enumera i titoli o che ne accenna il contenuto e le emozioni pro­vate nel leggerli ha l’impressione di ripercorrere le tappe della sua vita. E dav­vero l’amorosa e minuziosa ricognizione di tanti volumi e volumetti – che oltre tutto hanno pure una valenza estetica (perché sono “belli da vedere”) e con­tribuiscono all’arredo della labi­rintica dimora che li ospita – è l’occasione per riandare ancora una volta a persone, luoghi, tempi e momenti di una esistenza ricca di luci e di ombre, al di là della quale c’è poi una preistoria avvolta dalla nebbia e più oltre ancora la Storia con l’iniziale maiuscola, quella degli avi e dei proavi, che l’autrice ha scandagliato in diversi romanzi con medianico tra­sporto, in un tranfert favorito di volta in volta da feticci domestici quali album, ritratti, foto, cartoline, acquerelli, disegni, testamenti, diari, epistolari e, ap­punto, libri.

Con i libri ritorna qui il tema, così caro all’autrice, della casa: quella di Sanremo, la casa della sua infanzia, ma soprattutto quella di Campale, il liberty villone gozza­niano disseminato di libri e di librerie che si rivela un autentico la­birinto. Camilla ci guida di stanza in stanza, ma via via che la visita procede ci accorgiamo di addentrarci in realtà in un’altra dimensione, che non è solo quella dischiusa da questo o quel libro, ma si complica degli “errori”, cioè delle digressioni e delle divagazioni, indotti dalla memoria (spesso involontaria) della nostra Arianna. Un assiduo andirivieni temporale fa sì che il viaggio sia pieno di soste e ad ogni sosta si apre ai nostri occhi un inedito scenario, una via di fuga, un abbozzo di storia. L’unità di luogo e di tempo va in fran­tumi e la strada maestra dà adito a mille altre vie e magari a deviazioni che consen­tono talora inopinate catabasi. Allora non ci addentriamo solo nelle viscere della casa, sì anche nel fondo irrazionale dell’animo umano, nelle “zone buie” dell’incoscio, donde spira il fascino del proibito e dove conduce il piacere della trasgressione. Ca­milla non è nuova a queste incursioni nell’”interno paese sco­nosciuto” e, così come il presente della rassegna s’impasta di continuo e si contamina vischiosamente del pas­sato o, meglio, del vissuto che si trascina dietro, allo stesso modo lo scandaglio oscilla senza tregua tra io e mondo, tra superficie e fondo, titubndo talora al confine tra l’esplicito e il rimosso. Ma sempre con leggerezza e con discrezione: senza un indugio di troppo. E una buona dose di ironia.

Mentre ci confessa in tal modo i suoi gusti (per la letteratura inglese, per i libri di memoria e d’infanzia) e le sue idiosincrasie (per i tanti scrittori ampol­losi e ridon­danti, per i libri di viaggio e pure per i classici greci e latini), senza nasconderci un tratto di amabile snobismo, e mentre spazia tra presente e passato, concedendosi salti temporali, anticipazioni e rinvii, a non finire, Ca­milla non manca di soffermarsi sulla suggestione che le illustrazioni dei libri hanno esercitato su di lei, soprattutto du­rante l’infanzia. E in particolare le illu­strazioni più sinistre e orrorose, come quelle di Enrico Mazzanti che accompa­gnavano la prima edizione in volume di Pinocchio. I bambini intuiscono l’arcana malìa del male e ne restano impressionati. La potenza e l’incanto delle illustrazioni, al pari di quelli che promanano da certe parole (un paio di esempi: «la parola “ricordi” è un richiamo a cui non resisto»; «come mi era piaciuta la parola verziere»; ma il discorso potrebbe allargarsi – sulle orme della Ginzburg – al co­siddetto “lessico familiare”), sono costanti nelle opere della Salvago Raggi, che, non a caso, è autrice di alcuni libri fotografici o di romanzi che dalle illustrazioni hanno tratto spunto e ispirazione. E non a caso anche l’opera di cui stiamo parlando e che presenta in copertina una bella inquadratura della villa di Campale è arricchita da splendide fo­tografie – a colori ma pure in bianco e nero – di Gianni Ansaldi che testimoniano visi­vamente l’importanza e il valore, anche estetico, dei libri. Anche chi non è bibliofilo o bibliomane, se davvero – come Camilla – li ama perché aiutano a “trasformare la quo­tidianità in poesia”, deve ammettere che i libri sono fedeli e preziosi compagni di vita. E non è sempre detto che siamo noi a sceglierli: a volte, anzi, è vero il contrario. Forse perché sanno tutto o quasi di noi, della nostra vita: tanto da esserne specchio e com­pendio.

NOTE

[1] Von Mises pone come verità auto-evidente il fatto che l’uomo tenda consapevolmente a raggiungere fini. E le cose del mondo diventano mezzi solo allorché la ragione umana pensa di impiegarle per raggiungere taluni fini. I quali, per quanto inadeguati siano i mezzi e inefficaci i metodi per conseguirli (in genere dipendenti dallo stato delle conoscenze del momento), hanno sempre una loro razionalità, in quanto dietro c’è, appunto, un’intenzione. In fondo, “ciò che distingue l’uomo dalle bestie è precisamente il fatto che egli aggiusta il suo comportamento deliberatamente”. Laddove l’animale cede all’impulso, “egli non è un essere incapace di contrastare l’impulso che richiede più urgentemente di essere soddisfatto. Essendo un essere capace di dominare i suoi istinti, le sue emozioni e i suoi impulsi. Egli può razionalizzare il suo comportamento. Rinuncia alla soddisfazione di un desiderio bruciante per soddisfarne altri. Non è un burattino dei propri appetiti. Non violenta ogni donna che solletica i suoi sensi; non divora ogni pezzo di cibo che lo tenta; non abbatte ogni individuo che desidererebbe uccidere. Arrangia le sue voglie e i suoi desideri in una scala, sceglie; in breve agisce […]” (L. von Mises, L’azione umana, Torino 1959, p. 16).

[2] Come ha intuito Nietzsche, l’uomo è “l’animale non ancora definito”, un ente “incompiuto” o “non costituito una volta per tutte”. Per questo Max Scheler, a proposito de La posizione dell’uomo nel cosmo (Milano 1970), parla della sua Weltoffenheit, cioè della sua “apertura al mondo”: concetto poi ripreso da Adolf Portman e da Wolfhart Pannenberg per sottolineare la capacità propria dell’uomo di trascendere ogni situazione data. Arnold Gehlen, a sua volta, ne sottolinea la “plasticità”, cioè la capacità di adattarsi a qualsiasi ambiente: “Ancorato alla mera situazione dell’adesso, come l’animale, egli sarebbe incapace di vivere. L’uomo deve avere la capacità di far saltare completamente i limiti della situazione, di dirigersi su cose future e assenti e di agire su tale base” (M. T. Pansera, L’uomo progetto della natura. L’antropologia filosofica di Arnold gehlen, Roma 1990, p. 77). Prometeico “creatore di cultura”, in grado di sganciarsi dall’immediatezza del contingente, egli è costruito “in vista di una trasformazione e di un dominio della natura” (ib., p. 649).

[3] “Nel campo dell’economia, la sovraspecializzazione è doppiamente disastrosa. Un uomo che è matematico e nulla più che matematico potrà condurre una vita di stenti, ma non reca danno ad alcuno. Un economista che è nulla più che un economista è un pericolo per il suo prossimo. L’economia non è una cosa in sé; è lo studio di un aspetto della vita dell’uomo in società […]. L’economista di domani (e talvolta dei giorni nostri) sarà certamente a conoscenza di ciò su cui fondare i suoi consigli economici; ma se, a causa di una crescente specializzazione, il suo sapere economico resta divorziato da ogni retroterra di filosofia sociale, egli rischia veramente di diventare un venditore di fumo, dotato di ingegnosi stratagemmi per uscire dalle varie difficoltà ma incapace di tenere il contatto con quelle virtù fondamentali su cui si fonda una società sana. La moderna scienza economica va soggetta ad un rischio reale di machiavellismo: la trattazione dei problemi sociali come mere questioni tecniche e non come un aspetto della generale ricerca della Buona Vita” (J. Hicks, Education in Economics, “Manchester Statistical Society”, aprile 1941, p. 6).

[4] Il programma neopositivista, in particolare, suscitò grande interesse tra gli economisti per avere assunto a propria bandiera “il principio dell’unità della scienza, in virtù del quale ci si proponeva di uscire una volta per tutte al di fuori della tradizionale contrapposizione tra discipline idiografiche e discipline nomologiche e tra scienze della natura e scienze sociali” [si veda sull’argomento S. Tagliagambe, Post-neopositivismo e crisi della modernità, “Annali della Facoltà di Economia di Cagliari”, Milano 1990]. Ad affascinare gli studiosi era soprattutto la procedura scientifica “decide e spiega”: “Con «decide» si intende che, una volta accumulato un gruppo opportuno di dati sperimentali, si può procedere – come indicava Carnap – alla «costruzione logica del mondo» per pura via linguistica, connettendo i numeri rappresentativi con le leggi ed estraendone tutte le possibili conseguenze. Questa procedura, propria di un linguaggio formale «chiuso», – un linguaggio cioè che ha stabilito una volta per tutte le sue regole – è limitata dal ben noto teorema di indecidibilità di K. Goedel, per il quale, all’interno di una teoria, si finisce col costruire enunciati paradossali, di cui non è possibile stabilire la verità o la falsità. […] Con «spiega» intendiamo che si cerca di «analizzare», spezzare, ogni sistema complesso nei suoi ingredienti elementari, limitandosi a capire il comportamento di questi e poi ricomponendo mentalmente il tutto. […] Ora, anche questa procedura risulta limitata, e lo è dalla nozione di complessità qual è stata esplorata negli ultimi anni […]. Ciò vuol dire che non basta conoscere il comportamento isolato dei componenti, ma occorre studiarne anche le mutue correlazioni, proprio come il senso di un messaggio non è nelle lettere adoperate ma nella loro disposizione mutua”. Alla crisi del neopositivismo ha poi contribuito anche “la lezione di Quine, dalla quale risulta che un enunciato non può essere vero in base al proprio significato, perché questa tesi implicherebbe un circolo vizioso tra sinonimia e analiticità delle espressioni linguistiche: ne consegue che la referenza è imperscrutabile e che la traduzione non è più una procedura operabile sulla base di un sicuro fondamento logico-epistemologico. Dunque un enunciato non può essere considerato vero semplicemente per il fatto che corrisponde a un fenomeno, a un evento, a un processo della realtà cui la teoria si riferisce. / Ciò sancisce la condanna del principio neopositivistico secondo cui il senso e la verità di un enunciato consistono nel metodo della sua verificazione, o del principio dell’epistemologia fisicalistica secondo il quale il senso e la verità di un enunciato consistono nel loro accordo con un dato percettivo o con un processo di misurazione. E ciò sancisce anche la condanna del principio secondo cui la scienza avrebbe rapporti con la verità, perché ciò che essa produce sono solo proposizioni esatte, cioè “ottenute da” (ex-actu) le premesse che sono state anticipate in via ipotetica. Che poi l’ipotesi sia confermata dall’esperimento direbbe solo che noi conosciamo la validità operativa di quell’ipotesi, non la natura della cosa indagata con quell’ipotesi, perché, interrogata, la cosa non ha mostrato il suo volto, ma ha semplicemente risposto all’ipotesi anticipata” (S. Zamagni, Economia e filosofia, Bologna 1994).

[5] Kant cercò di superare questo scoglio mediante la deduzione trascendentale. John Stuart Mill vide la possibilità di risolvere il problema insistendo sul principio dell’uniformità della natura. Nelson Goodman, però, non è d’accordo e cerca la soluzione “più in prossimità della superficie”: visto che “i principi di inferenza deduttiva sono giustificati in base alla loro conformità alla pratica deduttiva accettata”, analogamente ritiene che “anche un’inferenza induttiva sia giustificata in base alla sua conformità alle inferenze induttive accettate” (N. Goodman, fatti, ipotesi e previsioni, Roma-Bari 1985, pp. 74-75). Ma, siccome in questo campo non esiste nulla di assimilabile alle leggi della logica, egli introduce, a questo punto, “il nuovo enigma dell’induzione”, per cui “la linea di demarcazione tra previsioni (o induzioni o proiezioni) valide e invalide viene tracciata in base a come il mondo è, ed è stato, descritto e previsto in parole”. La soluzione va insomma cercata nel linguaggio (ib., p. 139).

[6] Cfr. P. Rossi, Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, Milano 1960, pp. 423-424.

[7] G. Fornero, Popper. Storicismo, totalitarismo e democrazia, in N. Abbagnano (fondata da) Storia della filosofia, VIII, La filosofia contemporanea, 2, Torino 1996, p. 164. Ogni società è caratterizzata da principi prescrittivi, mutevoli e modificabili, che esercitano un condizionamento, più o meno profondo a seconda dei tratti più o meno autoritari che la contraddistinguono, sulle scelte dei singoli. In uno Stato etico, che si presenta paradossalmente come “la realizzazione della libertà” (Hegel), in quanto esplicazione della potenza della Ragione nel mondo, il condizionamento è massimo, tanto che la libertà coincide qui con la necessità. Contro questa visione, ideologica e sistematica a un tempo, si muove Isaiah Berlin, la cui filosofia mira sostanzialmente a individuare “la via della libertà nel dedalo delle ideologie”. Persuaso che il secolo xx sia stato dominato da due fenomeni (il progresso delle scienze e la rivoluzione russa), frutto a loro volta del convincimento, maturato appieno nel secolo precedente, che l’umanità sia votata al Progresso e che tale Progresso debba essere organizzato, Berlin si batte per scongiurarne le nefaste conseguenze sulla libertà dell’uomo e sull’uomo stesso. Sulla scia di Herzen, egli rileva il pericolo insito nell’idealismo rivoluzionario, che, per rendere felici le generazioni future, ritiene giusto sacrificare la generazione presente. Ogni rivoluzione finisce infatti per divorare i suoi figli. Ma la storia ha dimostrato che, mentre il sacrificio è certo, la felicità futura è quanto mai aleatoria. “I rivoluzionari hanno inventato una nuova forma di sacrificio umano sull’altare delle astrazioni, in nome della Chiesa, della Nazione, del Partito, del Popolo, del Progresso, delle forze della Storia” (G. Sorman, I veri pensatori, Milano 1990., p. 283). Hanno, in altre parole, sacrificato la concretezza della vita alla formale astrattezza delle idee. Secondo lui, le ideologie non si iscrivono in alcuna necessità storica, ma si limitano a esprimere le ansie di determinate persone. “La storia delle ideologie è fatta dall’incontro tra destini individuali e ansie universali”. E il successo di un’ideologia non è affatto decretato dalla sua scientificità, bensì dalla sua potenzialità mitica, in quanto essa agli occhi delle masse incolte surroga la riflessione: più una ideologia è elementare, più attira le folle. L’effetto suggestivo delle ideologie è inoltre proporzionale alle pretese scientifiche che esse vantano, ma anche in questo caso la ripetizione di slogan, di parole d’ordine e di catechismi vari sostituisce l’analisi. Infine l’ideologia esonera in genere gli individui da ogni responsabilità: basta che essi si abbandonino alle forze della Storia, alle leggi del Progresso, per essere (o sentirsi) nel giusto. Credere infatti che la Storia abbia un senso necessario è il fondamento di tutte le ideologie. Ma dove va a finire, in questo caso, la libertà degli individui? Ducunt volentem fata, nolentem trahunt [“Chi è consenziente, il fato lo conduce, chi non lo è, lo trascina”]. Parole di Seneca (ad Lucilium, 107, 11). Come dire che la libertà è solo amor fati, accettazione convinta del proprio destino. Berlin, però, ritiene che libertà e coercizione, per la contraddizione che non lo consente, siano inassimilabili e inconciliabili. La libertà per lui consiste nell’essere padroni di se stessi e nel non essere ostacolati nelle proprie scelte da altri. Ora, di fronte a un sistema – tanto più se è un sistema sociale – essere liberi non è facile: la libertà, anzitutto, non è mai totale, va ricercata negli spazi che sfuggono al controllo sociale, sottraendosi alle facili suggestioni delle ideologie dominanti o à la page, non meno che all’altrui deliberata interferenza. La libertà è esercizio critico, diuturna riflessione, faticosa ricerca. Ogni sistema è una prigione, ogni sistema è cieco; di fronte a un sistema – dice Berlin – bisogna dire la verità, poiché “è tutto ciò che abbiamo”. Dire la verità non significa, del resto, avere sempre la risposta pronta, bensì evitare di restare imprigionati in verità di comodo, succubi di miti consolatori o di moloch ideologici che – alla stregua della religio lucreziana – incombono mostruosamente dai cieli dell’astrazione o della metafisica sull’umanità, cui richiedono a volte olocausti di vittime sacrificali. Alle false certezze dei sistemi, ai loro aprioristici formalismi, che schiacciano puntualmente la vita, occorre dunque opporre la tolleranza e l’eterno valore dello scetticismo. Ma è importante sapere riconoscere, all’occorrenza, che il re è nudo. “Erriamo su una nave senza timone e non sappiamo dove sia il porto: occorre quindi proseguire la navigazione!” (ib., pp. 286-287).

[8] K. R. Popper, Miseria dello storicismo, Milano 1975, p. 7. Sottolineando il fatto che il corso della storia umana è “fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana”, di cui noi non possiamo conoscere gli sviluppi futuri mediante medoti razionali o scientifici, popper giunge alla conclusione che noi non siamo in grado di predire il corso futuro della storia umana (ib., pp. 13-149. Non solo: la storia, contrariamente a quanto pensano gli storicisti, non ha alcun fine o senso pre-costituito, in quanto siamo noi ad introdurre “finalità e significato nella natura e nella storia”. Il futuro quindi “dipende da noi stessi”, ossia dalle nostre scelte e dai nostri sforzi (K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Roma 1973, II, pp. 365-367).

[9] Ci vengono in mente a proposito i versi finali di una “novella” pariniana intitolata I ciarlatani: “Un filosofo viene / tutto modesto e dice: / Si vuole a poco a poco / pian pian di loco in loco / toglier gli errori dal mondo morale: / dunque ciascuno emendi / prima in se stesso, e poi de gli altri il male. // Ecco un altro che grida: / Tutto il mondo è corrotto, / si dee metter di sotto / quello che sta di sopra, rovesciare / le leggi, il governare: / fuor che la mia dottrina, / ogni rimedio per salvarlo è vano. / Badate all’altro; questi è un ciarlatano” (G. Parini, Poesie e prose, Roma 1959, p. 268).

[10] Il punto decisivo, a questo riguardo, è da vedersi nell’errata ipotesi della caduta tendenziale del saggio di profitto: di qui, infatti, deriva l’idea (visionaria) dell’inevitabile scontro finale tra borghesia e proletariato. Tale determinismo ha per decenni costituito il fulcro della scientificità della dottrina; scientificità che ha consentito a Marx di pronosticare come ineluttabile l’avvento del socialismo. Esso avrebbe cioè dovuto realizzarsi “con la fatalità che presiede ai fenomeni della natura”. A ben vedere, una smentita a questa tesi è già evidente nella rivoluzione d’ottobre, la quale, lungi dall’essere una rivoluzione di popolo, fu l’esito fortunato del colpo di mano di un piccolo partito. Stando alle previsioni di Marx, la rivoluzione sarebbe dovuta scoppiare in paesi ad alto sviluppo industriale: vale a dire a Londra, anziché a Pietrogrado. All’infondatezza della concezione dialettica, secondo cui sia il crollo del capitalismo sia l’avvento della rivoluzione proletaria avrebbero dovuto configurarsi come esiti certi e spontanei dello sviluppo storico, sopperì il volontarismo di stampo leninista, per cui la rivoluzione divenne il frutto di una decisione volta a piegare la realtà storica alle aspettative dei dirigenti comunisti. Dei rivoluzionari di professione si proposero così di rimediare all’impossibilità di una naturale quadratura del cerchio, ma per fare questo dovettero forzare il corso della storia. E quindi ricorrere a metodi coercitivi (e liberticidi).

[11] Per Popper lo scopo della scienza è la verità, ma la verità delle teorie scientifiche, per quanto possibile, non può essere dimostrata. Esse restano ipotesi, che, se non verificabili, sono però falsificabili. Il criterio della falsificabilità ci consente di distinguere le teorie della scienza empirica (sempre congetturali) da quelle che tali non sono. La scienza procede dunque per congetture e per confutazioni e dunque per approssimazioni successive alla verità, criticando via via i propri errori, ma Popper respinge l’idea di una spiegazione ultima. Una buona teoria deve “proibire molto”, cioè formulare previsioni molto precise, che possano essere smentite dai fatti. Più la teoria è precisa, più, del resto, è falsificabile. È tipico delle cattive teorie una vaghezza che le rende all’apparenza compatibili con la realtà dei fatti osservati. Imre Lakatos ha fatto tuttavia notare che il falsificazionismo popperiano è “nato confutato”, con riferimento al problema di Pierre Duhem (1906), per cui “nessuna teoria è falsificabile dal punto di vista logico, in quanto è sempre possibile salvarla dalla confutazione aggiustando qualche ipotesi ausiliaria riguardante le tecniche di misurazione, i termini di errore, gli strumenti di osservazione, e così via. Secondo Duhem, gli scienziati in ultima analisi valutano una teoria affidandosi al «buon senso». Kuhn corrobora la tesi di Duhem osservando che anche dal punto di vista storico il falsificazionismo è falso: il dogmatismo costituisce un elemento importantissimo nella scienza quale essa è stata ed è tuttora praticata. La maggior parte dell’attività scientifica non sovverte lo status quo, e i grandi mutamenti concettuali sono una vera rarità. Lakatos infine riconosce che esiste una notevole continuità nella scienza ma, contrariamente a quanto sostiene Kuhn, i grandi mutamenti concettuali sono dettati da considerazioni razionali, nel senso che essi sono la conseguenza dell’applicazione di norme metodologiche giustificabili in modo normativo. Il criterio di valutazione dei programmi di ricerca è il successo nell’anticipare fatti non ancora osservati; le predizioni sono la «benzina», per così dire, che fa correre i programmi di ricerca” (F. Guala, Filosofia dell’economia cit., p. 153; per il problema di Duhem, cfr. pp. 132-134). Nondimeno la meta-teoria di Popper (e anche quella di Lakatos, promotore di un “falsificazionismo sofisticato”) ha fornito a molti metodologi economici un notevole quadro di categorie regolative e di questioni (si pensi all’influenza esercitata su Milton Friedman); anzi la “dominanza popperiana” in economia “ha provocato una vera e propria distorta allocazione di risorse intellettuali nel campo della ricerca metodologica”. Oggi è d’altra parte acquisito che “i principi popperiani non sono applicabili in economia” (S. Zamagni, Economia e filosofia, cit.).

[12] Per analogia con il “rasoio di Ockham”: con il principio cioè contrario ad ogni moltiplicazione non necessaria degli enti o delle essenze (K. R. Popper, L’opinione pubblica e i principi liberali, in Congetture e confutazioni cit., p. 594).

[13] Cfr. K. R. Popper, Alla ricerca di un mondo migliore cit., p. 224. Alle stesse conclusioni approda Max Horkheimer, quando, nelle sue ultime opere, sottolinea l’importanza della libertà individuale, nonché la necessità di “proteggere” e, se possibile, “estendere” oggi la “limitata effimera libertà del singolo” minacciata dal “mondo amministrato” (Introduzione alla Teoria critica, Torino 1974, I, p. X). La democrazia del cosiddetto “mondo libero”, pur con tutte le sue pecche, risulta “sempre meglio della dittatura che oggi conseguirebbe al suo rovesciamento” (ib., p. X). E ribadisce la necessità di salvare “ciò che un tempo si chiamava liberalismo, l’autonomia del singolo”: “ciò che conta per noi è assicurare l’autonomia personale al maggior numero possibile di soggetti” (ib., p. 175). Con l’ovvia avvertenza che egli non auspica un ritorno sic et simpliciter al liberalismo classico, bensì una libertà aperta ai valori della socialità e dell’uguaglianza.

[14] Cfr. L. von Mises, Liberalism in the Classical Tradition, Irvington on Hudson-New York 1985; R. Cubeddu, Il liberalismo della Scuola austriaca: Menger, Mises, Hayek, Napoli 1992, p. 449.

[15] Cfr. anche N. Bobbio, liberalismo e democrazia, Milano 1988, p. 62.

[16] Cfr. a questo riguardo M. Friedman, Capitalism and Freedom, Chicago 1962.

[17] Si vedano, al riguardo, sia gli Études d’économie sociale, Paris 1963, pp. 88-89, sia gli Études d’économie politique appliquée, Paris 1898, p. 459.

[18] Sull’argomento si veda anche A. MacIntyre, Dopo la virtù, Milano 1988. Egli ritiene che l’illuminismo abbia provocato una sorta di catastrofe in campo etico, facendovi trionfare un soggettivismo emotivo che ha tolto ogni fondamento alla morale. Per uscire dal relativismo etico dominante, e quindi dal nichilismo di stampo nicciano, egli propone di tornare ad Aristotele, auspicando piccole comunità dove sia possibile praticare le virtù, sì da evitare lo sfrenato individualismo senza valori che oggi trionfa dappertutto.

[19] S. Zamagni, Economia e filosofia, cit. Per la citazione, cfr. H. Jonas, Scienza economica e ignoranza degli obiettivi, in H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Bologna 1991, p. 142.

[20] S. Zamagni, Economia e filosofia, cit. Sulla questione si è soffermato W. Bell, Bringing the good back in: values, objectives and the future, in “International Social Science Journal”, 6.

[21] Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano 1983, p. 21: “Ogni persona possiede una inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri”.

[22] Cfr. ib., p. 216: “Il velo d’ignoranza priva la persona nella posizione originaria delle conoscenze che la metterebbero in grado di scegliere principi eteronomi”: principi dettati cioè dall’interesse personale o, comunque, soggetti a condizionamenti ambientali, come quelli ispirati dall’utilitarismo (che non sarebbe quindi in grado di esprimere “imperativi categorici”, sì solo “ipotetici”, per dirla con Kant).

[23] Ib., p. 30. Nella conclusione del saggio questi due principi risultano così riformulati: “Tutti i beni sociali principali – libertà e opportunità, reddito e ricchezza, e le basi per il rispetto di sé – devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale di uno o più di questi beni non vada a vantaggio dei meno avvantaggiati” (pp. 255-256).

[24] Il termine non è che l’abbreviazione di maximum minimorum.

[25] Si può dire che non vi sia economista che non si sia pronunciato sulla tassazione, a favore o contro. John Stuart Mill riteneva l’imposta “una forma blanda di furto”. Robert Nozick la considera “una forma di lavoro forzato”. Edmund Burke, oltre duecento anni fa, scriveva che “fin dall’inizio le più grandi battaglie per la libertà si sono combattute intorno a questioni di tassazione”. I fautori della redistribuzione del reddito ne sostengono, in genere, la piena liceità. Recentemente un voluminoso saggio di Ch. Adams, For God and Evil. L’influsso della tassazione sulla storia dell’umanità, Macerata 2008, ha ripercorso il ruolo giocato – nel bene e nel male – dalla tassazione nella storia degli uomini, evidenziando in particolare i guasti provocati dai politici ogniqualvolta hanno preteso di dilatare gli organici pubblici e di conseguenza il prelievo tributario.

[26] R. Rorty, Contingency, Irony, and Solidarity, cambridge 1989, p. XIV. Del resto, economia sociale e liberismo non sono necessariamente in antitesi tra loro. Come ricorda G. Alvi, Il liberismo? È più sociale dello statalismo (“il Giornale”, 28 agosto 2008), basta leggere Omero per capire che oikonomia significa “redistribuzione ospitale”. “Dunque è inerente, originaria all’atto economico una solidarietà, che non implica lo Stato. Perciò Olivetti nei suoi esperimenti a Ivrea parlava della sua fabbrica come di una comunità: influenzato da Rudolf Steiner, voleva tenerne ben fuori lo Stato politico”. Anche von Hayek vedeva nello scambio una “catallassi, un’ammissione nella comunità. / Insomma la mia tesi è che un’economia sociale può compiersi meglio per via comunitaria e libertaria, limitando le tasse, e ogni intrusione statale. Nel migliore dei casi con la cultura e la sanità finanziate da fondazioni. […] Servirebbe un’impresa in armonia alla comunità, che mantenga il vincolo di sani bilanci; ma riunisca consumatori e lavoratori in disegni di sussidiarietà”.

[27] M. Veneziani, La sconfitta delle idee, Roma-Bari 2005, p. 109. Per le nostre conclusioni ci siamo liberamente ispirati a questo volume.

[28] G. Alvi, L’io è morto: è stato lo Stato (“il Giornale”, 3 marzo 2008), concorda appieno: “Gli immani movimenti di popolazione, e l’impoverimento dei redditi che essi producono a Occidente stanno servendo a una proletarizzazione che rilancia i peggiori statalismi proprio quando i comunisti stessi, ignoranti del movimento reale delle cose, si sentivano invece perduti”. Problematici, gli esiti della globalizzazione, anche per M. Deaglio, Postglobal, Roma-Bari 2005, p. 134: “Essa ha fatto sicuramente star meglio gli abitanti dei paesi poveri che, in determinate condizioni, si sono almeno parzialmente aperti ai liberi commerci; in un mondo che ha sete di certezze e di punti fermi, non offre però alcuna garanzia che essi, o i loro figli, e forse anche i loro nipoti e pronipoti, possano raggiungere, in un orizzonte dominato da scambi pacifici, condizioni di vita paragonabili a quelle di americani, giapponesi ed europei attuali. L’instabilità del mercato finanziario globale può alterare in tempi brevissimi le prospettive di crescita”. A queste perplessità altre se ne aggiungono se si pensa alle difficoltà, per le risorse del pianeta, a sostenere “la diffusione a tutti degli stili di vita degli attuali abitanti dei paesi ricchi”.

[29] In anni recenti, alcuni studi dedicati alle vicende e alle idee dell’ordine francescano hanno peraltro messo l’accento sul notevole contributo fornito dai frati Minori allo sviluppo culturale europeo: se al provenzale Pietro Giovanni Olivi (1248-1298) – autore del De emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus – si deve la scoperta della teoria soggettiva del valore, San Bernardino da Siena (1380-1444) ha il merito di avere magistralmente analizzato le virtù e la funzione dell’imprenditore. Già M. N. Rothbard, nel suo monumentale saggio Economic Thought Before Adam Smith (1995), confutando la famosa tesi weberiana per cui l’etica protestante sarebbe stata alla base del capitalismo, aveva dimostrato che la teoria e la pratica del libero mercato si svilupparono in realtà durante il Medioevo nei comuni cattolici dell’Italia centro-settentrionale, dove in effetti furono inventate le nuove tecniche finanziarie e commerciali quali la banca e l’impresa, la lettera di cambio, la ragioneria, la partita doppia: novità che i teologi scolastici cercarono via via di comprendere e di giustificare. Rothbard ricorda che proprio in ambito scolastico maturò l’idea che il giusto prezzo di un ben-e, anziché dipendere da qualche sua intrinseca qualità, fosse quello determinato dalla communis opinio o dalla commune estimatione, cioè dal mercato. E la prima classica formula di chiaro tenore capitalistico – “In nome di Dio e del profitto” – si legge in un libro dei conti fiorentino del 1253. Inoltre, ancora nel Cinquecento il maggior centro commerciale e finanziario era la città cattolica di Anversa. E cattolico era pure Jacob Fugger, il più prestigioso banchiere-finanziere dell’epoca. Su questi temi, si vedano ora O. Bazzichi, Dall’usura al giusto profitto. L’etica economica della Scuola francescana, Cantalupa (Torino) 2007 e D. Antiseri, L’attualità del pensiero francescano, Cosenza 2008.

[30] “Pascal, al contrario di Cartesio, diceva che è meglio sapere un po’ di tutto piuttosto che tutto di una singola cosa, perché «sentiva» quanto fosse necessario poter legare tra loro le conoscenze. Ma – come è noto – è Cartesio il vincitore. È lui che getta le fondamenta di quel paradigma di semplificazione in base a cui si afferma il dualismo tra pensiero e materia. Teorizzando che non può esservi dialogo tra la filosofia che si occupa dello spirito e la scienza che si occupa delle cose materiali, quel paradigma ha finito per far prevalere la disgiunzione sulla congiunzione e dunque per ridurre a semplice ciò che è invece complesso. Ma questa incapacità di concepire quanto è complessa la realtà è all’origine di grandi tragedie: le idee che sono degenerate in idealismo, le teorie in dogmatismo e la ragione in razionalizzazione” (S. Zamagni, Economia e filosofia, Bologna 1994).

[31] Scriveva Guillaume d’Auxerre (1160-1229) nella Summa aurea, III, 22: “L’usuraio agisce contro la legge naturale universale, perché egli vende il tempo, che è comune a tutte le creature. Agostino dice che ogni creatura è obbligata a far dono di sé; il sole è obbligato a far dono di sé per illuminare; lo stesso la terra è obbligata a far dono di tutto ciò che può produrre, e lo stesso l’acqua. Ma niente fa dono di sé in maniera conforme alla natura del tempo: volente o nolente, le cose hanno il tempo. Poiché dunque l’usuraio vende ciò che appartiene necessariamente a tutte le creature, egli lede tutte le creature in generale, anche le pietre, donde risulta che, anche se gli uomini tacessero davanti agli usurai, le pietre griderebbero se potessero; ed è una delle ragioni per le quali la Chiesa perseguita gli usurai. Donde risulta che è specialmente contro di loro che Dio dice: «Quando riprenderò il tempo, cioè quando il tempo sarà in mia mano in modo che un usuraio non potrà venderlo, allora giudicherò conformemente alla giustizia»“. Questo spunto sarà ripreso da Innocenzo IV nell’Apparatus, V, 39.48, V, 19.6 e sarà ulteriormente sviluppato dal domenicano Stefano di Bourbon nella sua Tabula exemplorum: “Siccome gli usurai non vendono che la speranza del denaro, cioè il tempo, essi vendono il giorno e la notte. Ma il giorno è il tempo della luce, e la notte il tempo del riposo; vendono dunque la luce e il riposo. Perciò non sarebbe giusto che godessero della luce e del riposo eterni”. Si veda pure Duns Scoto, In IV libros sententiarum, IV, 15.2.17 (cfr. J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino 1977, pp. 3-4, nota 2). Ma sull’usura intervennero, talora con ampie analisi delle conseguenze pratiche, diversi altri pensatori medievali, da San Tommaso d’Aquino a Guglielmo di Occam, da Sant’Alberto a Nicola d’Oresme. Peraltro la diffusa e comune riprovazione dell’usura e degli usurai risaliva per lo meno ad Aristotele, per il quale l’interesse costituiva un’innaturale e ingiustificata riproduzione di denaro dal denaro (Politica, I, 1), ma, oltre alla presunta “sterilità del denaro”, c’entrava anche l’esempio evangelico di Gesù che aveva scacciato dal tempio i mercanti di denaro (cfr. A. K. Sen, La ricchezza della ragione.Denaro, valori, identità, Bologna 2000, p. 55. Sen ha tra l’altro il merito di puntualizzare e di contestualizzare il pensiero di Aristotele, denunciando certe affrettate e indebite inferenze dei suoi critici: pp. 60-64).

Del resto, qualche sospetto gravava anche sull’esercizio della mercatura, come dimostra un esempio che riprendiamo da F. Sacchetti, I sermoni evangelici, le lettere e altri scritti inediti o rari, a cura di O. Gigli, Firenze 1857, p. 12: “E fassi quistione: uno va a uno mercatante a vendere perle. Che vuo’ dell’oncia? Vòglione uno fiorino; risponde il mercatante. Non le voglio. Viene un altro a lui, e domanda la detta mercatanzia di perle. Dice il mercatante: Che ne daresti? Risponde: dare’ne fiorini uno e mezzo dell’oncia. Risponde: Aspèttati. E va per le perle del venditore e dàlle al compratore per fiorino uno e mezzo. Questo guadagno non è licito, perocché non s’usò il capitale”. Bisognerà attendere fino a Leon Battista Alberti per vedere giustificato il sovrappiù quale compenso del lavoro compiuto: “Già poiché in verità el vendere non è se non cosa mercennaria, tu servi alla utilità del comperatore, paghiti della fatica tua, ricevi premio sopraponendo ad altri quello che manco era costato a te. In quel modo adunque vendi non la roba, ma la fatica tua; per la roba rimane a te commutato el danaio; per la fatica ricevi il soprapagato” (L. B. Alberti cit., p. 171). L’Alberti annovera tra i diversi modi di “fare roba” anche quello di “prestare”, ma, poiché a prestare si rischia di essere tacciati di usura, considera i denari così ricavati “brutti e mercenarii” (ib.). E benché la tesi aristotelica della “sterilità del denaro” fosse stata criticata da varie parti (si pensi, ad esempio, alla difesa dell’attività finanziaria sostenuta già nel secolo XIV dal frate agostiniano Gerardo da Siena: cfr. J. T. Noonan, Scholastic Analysis of Usury, Cambridge, Mass., p. 61), solo Jeremy Bentham, nel 1787, avrà l’ardire di spezzare più di una lancia in Difesa dell’usura, sostenendo la nocività di ogni intervento legislativo sul saggio d’interesse, giacché “nessun legislatore può mai giudicare così bene, come può fare il singolo individuo da solo, il valore che la moneta rappresenta precisamente per l’individuo stesso” (Economic Writings, London 1952, I, p. 118). Il pamphlet di Bentham è stato recentemente tradotto in italiano per i tipi di Liberlibri, Macerata 1996.

[32] A. K. Sen, La ricchezza della ragione cit., pp. 94-96. Ma cfr. anche A. K. Sen, Etica ed economia, Roma-Bari 2006, pp. 30-37 (dove – sulla scia di D. D. Raphael e A. L. Macfie, Introduction ad A. Smith, The Theory of moral Sentiments, Oxford 1976 – viene rilevata pure l’influenza dei pensatori stoici sul padre del liberismo) e Adam Smith’s prudence, in S. Lall e F. Stewart (a cura di), Theory and Reality in Development, London 1986.

[33] Com’è noto, Smith concepisce il valore come “una grandezza originaria, creata dal lavoro produttivo, e ad esso commisurata; salario, profitto e rendita sono parti di questo valore complessivo ad essi presupposto, con la conseguenza che il salario è ciò che rimane al lavoratore una volta che da questo valore complessivo siano stati detratti i redditi del capitalista e del proprietario fondiario; il lavoro, perciò, «sta dietro» il profitto e la rendita, come «sta dietro» il salario”. Ma a questa concezione se ne aggiunge un’altra, per cui il valore, invece di essere la quantità originaria, che poi si divide in salario, profitto e rendita, si presenta come “la risultante per somma delle tre forme di reddito, ognuna delle quali si determina per legge sua propria indipendentemente dalle altre”. La prima teoria, attraverso la mediazione di Ricardo, culminerà nella teoria del valore di Marx, mentre la seconda sarà fatta propria dalla teoria economica moderna, che vede specifici “contributi produttivi” dietro ogni forma di reddito: cfr. il contributo critico di C. Napoleoni premesso ad A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Roma 1976, I, pp. Xi-XII.

[34] S. Zamagni, Per un’economia civile cit., p. 13. L’umanesimo civile si segnala anche per il rilievo che vi acquistano le nozioni di libertà e di democrazia. La libertà, in particolare la florentina libertas, diventa il “valore che solo rende la vita degna di essere vissuta”. Coluccio Salutati, nel manifesto agli Italiani del 25 maggio 1930, in risposta all’ultimatum inviato da Gian Galeazzo Visconti ai Fiorentini, scrive: “Noi città di popolani, dediti soltanto alla mercatura, ma liberi e per questo odiatissimi; noi, non solo fedeli alla libertà in patria, ma difensori della libertà oltre i nostri confini, siamo noi che vogliamo la pace necessaria per conservare la dolce libertà”. E nel profilo della costituzione fiorentina che Leonardo Bruni invia ad magnum principem imperatorem si legge che “il reggimento popolare, che i Greci chiamano democrazia […] trova l’immagine sua nel rapporto fraterno. I fratelli sono pari fra loro ed uguali. Il fondamento del nostro governo è la parità e l’uguaglianza dei cittadini […]. Tutte le nostre leggi tendono soltanto a questo, che i cittadini siano uguali, perché solo nell’uguaglianza ha radice la vera libertà. Perciò noi allontaniamo dal governo dello stato le famiglie più potenti, perché non diventino troppo temibili attraverso il possesso del potere pubblico. Per questo abbiamo stabilito che le sanzioni contro i nobili siano maggiori e più gravi”: cfr. E. Garin, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Roma-Bari 1975, pp. 4, 7, 12. L’assetto istituzionale della società ha grande importanza nella diffusione delle virtù civiche tra i cittadini. E la costituzione morale delle persone è fondamentale, giacché l’etica delle virtù – e il destino stesso di qualsiasi “economia civile” – dipende in primis da come le persone sono strutturate nelle loro intime motivazioni: le norme di legge o altre forme esogene di enforcement non hanno la stessa efficacia. Si veda, a questo riguardo, S. Zamagni, L’ancoraggio etico della responsabilità sociale dell’impresa, in L. Sacconi (a cura di), Guida critica alla responsabilità sociale e al governo d’impresa, Roma 2005.

[35] L. Pareyson, Ontologia della libertà, Torino 1995, p. 10. Ma si potrebbero citare anche Buber e Lévinas; il primo, in particolare, sostiene che l’io non esiste mai da solo, anzi “all’inizio è la relazione”, cioè il rapporto io-tu. L’io non è un prius, ma, se mai, un posterius, poiché l’individuo “si fa io solo nel tu” (M. Buber, Il principio dialogico, Milano 1958, pp. 21 e 30).

[36] Cfr. O. Ribbeck, Scaenicae Romanorum poesis fragmenta, I, Hildesheim 1962, v. 265. I paremiografi greci registrano l’analogo ànthrōpos anthrōpou daimónion, ma cfr. pure Libanio, Declamationes, 13, 30 (il vicendevole aiuto è ciò che distingue l’uomo dalle fiere) e Cicerone, Pro Ligario, 12, 38. E Plinio il Vecchio, Naturalis historia, II, 5, 18: Deus est mortali iuvare mortalem, et haec ad aeternam gloriam via [“Essere dio è, per un mortale, aiutare un mortale, e questa è la via per la gloria eterna”].

[37] L’espressione è probabilmente di origine plautina: cfr. Asinaria, 495: Lupus est homo homini non homo [“L’uomo è un lupo per l’uomo, non un uomo”]; ma in Plauto, il quale la pone in bocca ad un mercante che dichiara di non potere dare del denaro a uno sconosciuto, l’espressione ha una valenza più ristretta: l’uomo è un lupo nei riguardi degli uomini che gli sono sconosciuti. Ma il motto è poi assurto a simbolo dei rapporti umani improntati alla più spietata concorrenza e lotta per la vita: cfr. ad esempio Seneca, Epist. 103, 1; 105, 7.

[38] Gli uomini, per Leibniz, sono monadi spirituali, cioè dei microcosmi “senza porte e senza finestre”, autosufficienti e autonomi, che si diversificano tra loro per qualche interna differenza, magari infinitesimale (principio dell’«identità degli indiscernibili») e si connettono idealmente in un sistema di armonia prestabilita.

[39] È questo un concetto che ritroviamo così enunciato anche ne La missione dell’uomo di Fichte: “assai spesso le più vergognose passioni degli uomini, i loro vizi e i loro delitti producono il bene e il meglio più sicuramente che non gli sforzi degli uomini onesti” (cit. in H. Denis, Storia del pensiero economico cit., I, p. 340).

[40] Per la prima interpretazione si veda M. E. Scribano, Introduzione a B. de Mandeville, Ricerca sulla natura della società cit., pp. xv-xvii (la studiosa si rifà al commento critico di F. B. Kaye, The Fable of the Bees: Or, Private Vices, Publick Benefits, Oxford 1924, I, p. cxl, che vede in mandeville un precursore del laissez faire, ostile alle leggi suntuarie e al protezionismo: misure, queste, che rischiano di compromettere il “naturale equilibrio” dell’economia; pertanto i governanti, cui deve stare a cuore solo la “pubblica felicità”, dovrebbero limitarsi a vigilare che tale equilibrio “non venga messo in forse dal malinteso zelo di pretesi moralisti che, sconvolgendo le proporzioni ideali di una società basata sulla ricchezza di pochi e il duro lavoro di molti, rischiano di ottenere quello che meno di tutto vorrebbero, e cioè la perdita dei loro stessi privilegi”). La Scribano è tornata sull’argomento con Natura umana e società competitiva. Studio su Mandeville, Milano 1980, dove precisa che, pur partendo da posizioni sostanzialmente mercantilistiche, Mandeville si sarebbe avvicinato al liberalismo. Per T. A. Horne, The social and political thought of B. Mandeville, London 1978, pp. 51-75, l’autore della Favola delle api resta essenzialmente un mercantilista. M. M. Goldsmith, Private vices, public benefits. B. Mandeville’s social and political thought, Cambridge 1985, non considera particolarmente rilevante per la teoria economica il pensiero di Mandeville, mentre N. Rosenberg, Mandeville and laissez-faire, in “Journal of the history of ideas”, XXIV (1963), pp. 183-196, fa notare che, per questo medico di formazione cartesiana, il governo dovrebbe limitarsi a garantire un quadro generale di regole.

[41] P. Bayle, Nouvelles Lettres Critiques, xvia, in Oeuvres Diverses, II, p. 279b, La Haye 17272. Ma cfr. pure M. E. Scribano, Introduzione cit., pp. xviii-xix.

[42] Cfr. D. Ricardo, Sui principi dell’economia politica e della tassazione, Milano 1979, pp. 38-52. Ricardo sottolinea che la rendita dipende dal prezzo dei prodotti agricoli anziché concorrere a determinarlo, in quanto il prezzo dipende dai costi di produzione sui terreni meno fertili, per l’uso dei quali non viene pagata alcuna rendita. E per ovviare a quella che Malthus chiama la “legge dei rendimenti decrescenti” dei terreni, invece di favorire, con misure protezionistiche, l’espansione delle colture, è preferibile togliere ogni restrizione al libero commercio e propiziare così un più efficiente impiego delle risorse. La libertà di commercio è la strada maestra verso il benessere interno e internazionale, come dimostra la “legge del vantaggio comparativo”. Se in Inghilterra costava meno produrre tessuti che produrre grano, comparativamente con i costi un altri paesi, agli Inglesi conveniva spostare le loro risorse verso le fabbriche di tessuti ed esportare questi ultimi per importare grano. Quanto alla “legge dei rendimenti decrescenti”, Nassau William Senior (1790-1864) ne riconoscerà la validità nell’agricoltura, ma le contrapporrà, per l’industria, la “legge dei rendimenti crescenti”.

[43] Secondo P. Demeulenaere, Homo oeconomicus: enquête sur la costitution d’un paradigme, Paris 1996, esso sarebbe in realtà il prodotto di una duplice astrazione: quella derivante dall’isolare una dimensione dalle altre e quella di dotarla di un contenuto autonomo.

[44] Nel 1805 Carlyle introduce nel lessico economico l’espressione cash nexus per denotare la disgiunzione tra persona e homo oeconomicus. “In seguito all’affermazione del principio dello scambio commerciale come unico principio regolativo dell’ordine sociale, la persona in quanto tale scompare dal discorso economico, sostituita da termini quali individuo, agente, soggetto economico. Al più, la persona è vista come un ruolo tra i tanti, al quale vengono associate determinate funzioni” [ib., p. 24, nota 6; ma si veda anche A. Pizzorno, On the individualistic theory of social order, in P. Bourdieu e J. Coleman (a cura di), Social theory for a Clanging Society, New York 1991]. Di recente, però, anche la filosofia analitica anglo-americana è tornata a concentrarsi sul tema dell’identità personale in collegamento con quello di persona. Si ricordi, in particolare, il celebre motto di W. V. O. Quine: no entity without identity. E Hilary Putnam, al fine di recuperare la nozione di persona, nel suo saggio Words and life, non ha esitato a parlare di un “ritorno ad Aristotele”. Cfr. E. Berti, Il dibattito sull’identità personale nella filosofia contemporanea, in A. Pavan (a cura di), Dire persona, Bologna 2003.

[45] Il comportamento economico così inteso punta sì a uno scopo, ma non è orientato da alcun valore; la rational choice non ha quindi bisogno di considerare le motivazioni dell’agente: le basta conoscerne le intenzioni. E giacché i fini dell’azione hanno natura soggettiva, occorre che siano oggettivi i vincoli cui sottostà la massimizzazione della funzione obiettivo, altrimenti ne scapita la scientificità della teoria.

[46] La rational choice considera solamente la dimensione cognitiva delle interazioni tra soggetti, mentre deliberatamente ignora sia la dimensione affettiva sia quella morale. Eppure da tempo la teoria dei giochi evolutivi e l’economia comportamentale danno rilievo all’importanza che sui risultati dell’interazione ha la componente affettiva dei processi decisionali (cfr. S. Zamagni, L’economia come se la persona contasse, pp. 8-9).

[47] Cfr. ib., p. 11. Giustamente l’autore fa notare come l’asserzione aristotelica che “l’uomo nasce per vivere con gli altri” comportasse due aspetti per così dire complementari: la propensione alla “compagnia” con i simili e l’utilità che l’uomo trae dalla convivenza con altri. La scienza economica moderna, a cominciare dai marginalisti, ha sacrificato il primo a vantaggio del secondo, con la conseguenza che, nel discorso economico, “il principio dello scambio di equivalenti” ha finito per surclassare “il principio di reciprocità”.

[48] Le pagine che seguono si rifanno, sia pure in iscorcio e con qualche rapido excursus, al lavoro di S. Zamagni, L’economia come se la persona contasse cit., pp. 11-22.

[49] J.-L. Marion, Ci salverà amare per primi, “Avvenire”, 25 gennaio 2006. Ma su Marion si veda S. Zanardo, La regola d’oro e la fenomenologia della donazione di Jean-Luc Marion, in C. Vigna e S. Zanardo (a cura di), La regola d’oro come etica universale, Milano 2005.

[50] S. Zamagni, L’economia come se la persona contasse cit., p. 18. È quanto si verifica nell’ambito del dilemma del prigioniero, un gioco non cooperativo a somma variabile, a completa informazione, in cui si tratta di trovare le strategie ottimali (che massimizzano gli obiettivi) dei vari giocatori. Paradossalmente, l’interazione strategica tra individui razionali ed egoisti può generare risultati “socialmente” (vale a dire per tutti i partecipanti) subottimali, laddove se entrano in gioco soggetti virtuosi, che attribuiscono un valore intrinseco – non strumentale – a quel che fanno, si può giungere alla soluzione ottimale.

[51] A. Luciani, Catechismo sociale cristiano, Milano 1992, p. 163. La citazione è dall’enciclica centesimus annus. Sulla visione cristiana dell’economia si vedano, in particolare, J. Y. Calvez, Economia, uomo e società. L’insegnamento sociale della Chiesa, Roma 1991; G. Gatti, Morale cristiana e realtà economica, Torino 1981; G. B. Guzzetti, Chiesa ed economia. Disegno storico, torino 1972; R. Coste, Chiesa e vita economica, Assisi 1972.

[52] Su questo argomento si veda G. Becattini, Miti e paradossi del mondo contemporaneo, Roma 2002.

[53] Abbiamo anche noi accennato al contributo offerto in questo senso, già nel diciassettesimo secolo, dagli studi di William Petty, ma giustamente Sen accenna pure all’influenza esercitata da quegli studi di economia – come l’Arthasāstra di Kautilya, consigliere e ministro dell’imperatore indiano Chandragupta (IV secolo a. C.) – “nati dall’analisi dell’arte di governo orientata in senso tecnico” (A. K. Sen, Etica ed economia cit., p. 11) . Naturalmente, all’approccio ingegneristico all’economia daranno aire decisivo, nella seconda metà dell’Ottocento, autori come Stanley Jevons e Léon Walras: cfr. E. C. Rangone, La ricchezza e la sua valutazione, Oradea 2005, p. 20.

[54] A. K. Sen, Etica ed economia cit., pp. 23-24. Quando George Stigler sostiene che “viviamo in un mondo di persone ragionevolmente ben informate che agiscono in modo intelligente nel perseguimento del proprio interesse personale” (L’economista e l’intellettuale, firenze 1967, p. 190), trascura l’importanza che hanno le motivazioni nell’agire economico. Non è affatto detto che il successo di una economia di libero mercato dipenda, in ultima analisi, solo dalla massimizzazione dell’interesse personale dei singoli agenti. Si pensi a quello che Michio Morishima ha chiamato l’”ethos giapponese” (Why Has japan “Succeded”? Western Technology Japanese Ethos, cambdridge 1982): nel successo industriale del Giappone hanno molto contato il senso del dovere, della lealtà e della buona volontà. D. Dore, Authority and Benevolence; The Confucian Recipe for Industrial Success, Oxford 1984, ha, a sua volta, parlato della “ricetta confuciana per il successo industriale”. Ma basterebbe riandare al classico studio di M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze 1965, per comprendere l’importanza dei valori nel progresso economico e sociale (cfr. pure A. K. Sen, Valori e successo economico: Europa e Asia, ne La ricchezza della ragione cit., pp. 111-124).

[55] Questo perché anche tra gli agenti economici l’ignoranza e l’insipienza sono assai più diffuse di quanto generalmente si pensa. Diversi studi hanno ormai rilevato come credenze e preferenze violino un requisito sostantivo (e non formale) della scelta razionale, un requisito variamente denominato “estensionalità” (K. J. Arrow, Risk perception in Psycology and Economic, “Economic Inquiry”, 20, 1982), “consequenzialismo” [P. J. Hammond, Consequentialist social norms for public decisions, in W. Heller, R. Starr e D. Starrett (a cura di), Social choice and public decision making: Essays in honor of Kenneth J. Arrow, I, Cambridge 1986], “invarianza” (A. Tversky e D. Kanheman, Rational Choice and the Framing of Decisions, “Journal of Business”, 59, 1986. ma è pure possibile che qualcuno preferisca sacrificare il proprio benessere per conseguire altri fini: cfr., ad esempio, A. K. Sen, Etica ed economia cit., pp. 22-30.

[56] S. Zamagni, Economia e filosofia, cit. Problemi analoghi derivano dall’incompletezza dei mercati: cfr. F. Hahn, Incomplete Market Economies, in “Proceedings of the British Academy”, 80, 1993.

[57] Naturalmente non tutti gli economisti sono d’accordo su questo punto. Arthur C. Brooks, in particolare, ha preso spunto da una frase di Gandhi – “vivere semplicemente, perché altri possano semplicemente vivere” – per argomentare contro “l’abbaglio pauperista”. “Se davvero vivessimo tutti nella semplicità, aiuteremmo i Paesi del mondo a regredire ai livelli economici del Giappone nel 1950, della Cina nel 1990, o dell’Africa sub-sahariana oggi. Se noi, caritatevolmente, rifiutassimo di acquistare nuovi abiti e nuovi televisori, andremmo a creare davvero, involontariamente, conseguenze letali alla gente più vulnerabile […]. Vi sono certamente costi per noi, legati alla nostra complicata vita consumistica: costi per l’ambiente naturale, per le risorse non rinnovabili, e forse per le nostre anime. Ma nessuno di questi costi può giustificare una sentenza di morte per la gente che lavora in quelle nazioni che vendono a noi merci e servizi. E ancor meno, se pretendessimo che i poveri del mondo debbano trarre beneficio da un nostro ritorno alla semplicità” (A. C. Brooks, Per favore consumate di più, “il Giornale”, 17 settembre 2008).

[58] Ad Illich si rifà anche André Gorz, il quale, a cominciare almeno dagli anni settanta del Novecento, sull’aire di un esplicito rifiuto della logica capitalistica che mira all’accumulo di materie prime, ha condotto una serrata critica del consumismo, con una netta presa di distanze non solo dal liberalismo o, meglio, dalla sua degenerazione edonistica e utilitaristica, del resto fatalmente connessa all’individualismo che lo sostanzia, sì anche dal collettivismo (e dal produttivismo) marxista. Come Illich, anch’egli si schiera a difesa della centralità dell’uomo (e dell’ambiente umano o umanizzato) contro ogni ecocentrismo ed alla reiterata denuncia dei guasti del produttivismo associa costantemente la rivendicazione del valore sociale della persona. Certamente i fautori della decrescita, Latouche e Pallante in particolare, gli devono innumerevoli spunti teorici.

[59] H. Jonas, Tecnica, libertà e dovere, in Scienza come esperienza personale. Autobiografia intellettuale, Brescia 1992, p. 38. Le preoccupazioni di Jonas sono del tutto legittime; altra cosa è invece l’ecologismo: “che cos’è – si chiede infatti G. Alvi, L’io è morto: è stato lo Stato (“il Giornale”, 3 marzo 2008) – se non il divulgatore zelante di una amministrazione dispotica di aria e acqua e terra che devono essere contingentate perché scarse o in pericolo? Con l’esito di rinforzare il dispotismo statale e i controlli e le burocrazie. E assai meno le coscienze: la percezione della natura degli ecologisti resta la più astratta. Si riduce alla sopportabilità della crescita, a contingentamenti; non recupera percezioni viventi della Natura. Vuole sottometterla a meccanismi energetici”.

[60] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica p. 47. Gli imperativi morali che Jonas enuncia in contrapposizione a quelli kantiani culminano nel monito: “non si deve mai fare dell’esistenza o dell’essenza dell’uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle scommesse dell’agire”.