Sven o della solitudine

Sven o della solitudine - copertinadi Paolo Repetto, 22 luglio 2023

Introduzione

La giovinezza di un eroe

Verso l’oriente

Il viaggio in Persia

La prima spedizione

Seconda spedizione

Terza spedizione

Quarta spedizione

Il tramonto e l’oblio

Riflessioni

Compromesso col nazismo

Razzismo

Spettacolarizzazione

Solitudine e sensibilità

Omosessualità

Infine

Indicazioni bibliografiche

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Introduzione

Non cammino mai sulle mie impronte.
Questo è contro la mia religione.

Protagonista di questa mini-biografia è Sven Hedin, un esploratore svedese che a cavallo tra otto e novecento ha cambiato radicalmente la conoscenza geografica di una parte dell’Asia. Non è una new entry: era nel mirino da un pezzo, ma forse, a dispetto delle ripetute professioni di “scorrettezza politica”, sono stato inconsciamente influenzato dal marchio di maudit – non quello della sregolatezza, ma quello dell’infamia – che pesa sul personaggio (nonché dal fatto che sino ad un anno fa avevo potuto leggere uno solo dei suoi libri). Hedin mi offre dunque l’occasione di raccontare una storia che mi ha affascinato e di togliermi al contempo un po’ di sassolini dalle scarpe.

Questo però alla fine. Prima andiamo a conoscerlo, possibilmente tenendo spiegata davanti a noi una carta fisica in scala 1:1.000.000 dell’Asia Centrale. Diversamente rischiamo davvero di perderci dopo poche pagine. E comunque, buona parte di quella carta l’ha disegnata proprio lui.

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La giovinezza di un eroe

In My Life as an Explorer, dove riassume in pratica tutta la sua vita, (e che non è mai stato tradotto in italiano) Hedin non si sofferma sull’infanzia. Parte in quarta e scrive semplicemente: “Fortunato quel ragazzo che scopre l’inclinazione della sua vita già durante la fanciullezza. Questa davvero è stata la mia buona sorte. Fin dai primi dodici anni il mio traguardo mi era già chiaramente evidente. I miei primi amici sono stati Feminore Cooper e Jules Verne, e Stanley, Franklin, Payer e Nordenskiöld, in particolare la lunga schiera di eroi e di martiri delle esplorazioni polari […]”. Passa poi immediatamente a raccontare del giorno (o meglio, della notte) di fine aprile in cui con tutta la famiglia aveva assistito al rientro a Stoccolma dell’esploratore polare Nordenskiöld, reduce dall’aver percorso per primo il passaggio a nord-est con la nave Vega[1]. In quella notte si era deciso il suo futuro destino. «Ero in piedi sulle alture di Södermalm con i miei genitori e fratelli, da cui avevamo una vista superba. Ero in preda a una grande tensione nervosa. Ricorderò questo giorno fino alla morte, poiché è stato decisivo per il mio futuro. Un fragoroso giubilo risuonava dalle banchine, dalle strade, dalle finestre e dai tetti. “È così che voglio tornare a casa un giorno”, ho pensato tra me e me».

Sven o della solitudine 03Di ciò che era venuto prima non racconta alcunché, né in questa né nelle altre sue opere che ho letto: probabilmente riteneva la sua infanzia poco rilevante rispetto alle scelte future, e assolutamente normale, per quanto normale possa essere considerata la convivenza con cinque sorelle e due fratelli, in una famiglia governata totalmente dalla figura materna. Ad essere maligni, sarebbe invece già sufficiente a spiegare la smania perenne di lontananza e di solitudine che lo caratterizzerà. Almeno a livello inconscio, perché alla famiglia e a tutte queste donne Hedin sarà in realtà sempre molto affezionato. Solo a queste, però: nella sua vita non ce ne saranno altre, né altri affetti, e neppure vere e proprie amicizie. Non si è mai sposato e non ha avuto figli: con lui si è estinta la sua linea familiare.

Sven o della solitudine 04L’infanzia dunque ce la lascia immaginare, e non dobbiamo nemmeno sforzarci troppo. Piuttosto, è forse opportuno “contestualizzare” Hedin rispetto ai tempi e ai luoghi in cui è cresciuto e si è formato. Il 1865, anno della sua nascita, può essere assunto per i paesi nordici a spartiacque. Si è appena conclusa la seconda guerra tedesco-danese, con una cocente sconfitta del regno di Danimarca e la conseguente perdita dei ducati dello Schleswig-Holstein a favore della Prussia. Questo significa il tramonto dello scandinavismo, un movimento culturale e politico che propugnava l’unione dei paesi scandinavi (Danimarca, Svezia e Norvegia) in una sola nazione, e che aveva infiammato a metà del secolo soprattutto la gioventù studentesca. Produce anche, in particolare negli ambienti più legati all’istituto monarchico, una crescente ammirazione per il nuovo Reich tedesco che si va costruendo proprio in quegli anni sotto la regia di Bismarck. In più, la sconfitta è solo un prodromo alla profonda depressione economica che colpirà i paesi europei nell’ultimo quarto di secolo, e in particolare quelli scandinavi, innescando un forte fenomeno migratorio (testimoniato e raccontato, ad esempio, nei libri di Knut Hamsun).

Si verifica però, nello stesso periodo, anche un deciso mutamento dell’atteggiamento relativo alle attività esplorative. Mantenendo il 1865 come data simbolica, è l’anno in cui muoiono FitzRoy, il comandante del Beagle e compagno di viaggio di Darwin, l’eccentrico Charles Waterton, l’esploratore dell’Africa Heinrich Barth: mentre l’anno precedente sono morti John Hanning Speke e László Magyar. Tutta una generazione di esploratori-avventurieri o di esploratori-scienziati (della quale Alexander von Humboldt era stato l’antesignano) sta scomparendo e lascia il posto a uomini che si muovono con un più o meno esplicito mandato politico. Nell’Asia centrale è in il pieno svolgimento Grande Gioco, mentre la corsa a piantare bandierine in Africa culmina nel Congresso di Berlino del 1885.

In quello stesso 1865 si situa però un altro evento fortemente simbolico, la conquista del Cervino. La vittoria di Wymper segna la fine dell’alpinismo romantico e l’inizio della competizione e della corsa al primato, tra i singoli ma anche, e soprattutto, tra gli stati. Non è neppure privo di significato, sempre a proposito di alpinismo, che proprio in quell’anno nasca uno dei coetanei più famosi di Hedin, quel Guido Lammer che sarà l’interprete più famoso e convinto dell’alpinismo di conquista. Lammer andrà ben oltre i limiti ragionevoli d’un rischio inevitabile, ma contenuto e calcolabile. Il suo delirio di potenza (è un nietzschiano convinto) lo spingerà ad arrampicare sempre solo, spesso senza assicurazione, nelle condizioni più assurde e rischiose: “Il più dolce di tutti i godimenti che la vita può offrire è bagnar le labbra alla coppa della morte! Mettersi coscientemente e volontariamente nel vero pericolo di morte, in cui i piatti della bilancia del vincere e del perdere effettivamente si equilibrano è la cosa più alta e più augusta che possa provare il sentimento dell’uomo” scrive in Fontana di giovinezza. Il fatto è che al di là della folle esasperazione rappresentata da Lammer, sentimenti di questo tipo sono piuttosto diffusi nella sua generazione, Hedin compreso (e lo saranno ancor più in quella successiva, quella del fascismo e del nazismo).

Il nostro respira quindi da subito un’aria particolare, anche se ancora non la si avverte. È nato a Stoccolma in una famiglia agiata, da un piccolo borghese che a forza di volontà e rigore è diventato architetto capo della municipalità e dalla figlia di un ricco mercante (ebreo e con un cognome che è tutto un programma: Westman). Il padre intrattiene ottimi rapporti col sovrano, e questo si rivelerà fondamentale per Sven al momento di ottenere appoggi finanziari e credenziali ufficiali per le sue missioni. La sua è una famiglia molto religiosa, addirittura devota, che segue i principi dei fratelli moravi. Sven porterà sempre con sé nei suoi viaggi il “Dagenslösen”, il libro di preghiere svedese, e non derogherà mai al rituale della lettura serale.

Sven o della solitudine 05Compie gli studi in un liceo prestigioso, conseguendo il diploma di scuola secondaria nel 1885, ma non è un allievo particolarmente brillante: si distingue solo nel disegno e nella cartografia. Mentre ancora frequenta il liceo redige a penna un atlante in sei volumi nel quale sono raccolte le conoscenze orografiche del suo tempo per tutta la terra, e disegna per la Società di Geografia di Stoccolma una carta dell’Asia Centrale che lascia tutti a bocca aperta.

Nel frattempo, soprattutto dopo l’entusiasmante notte di Nordenskiöld, ma senz’altro già da molto prima, matura una fissazione per i viaggi polari. È una passione largamente condivisa dai suoi connazionali e dai suoi coetanei: esauritasi con Livingstone e Stanley la febbre dell’Africa, la corsa ai poli è divenuta l’ultima frontiera delle esplorazioni. Sven ci mette di suo una determinazione eccezionale, e s’impone un’autodisciplina ferrea per prepararsi sia fisicamente che intellettualmente a quel tipo di avventura, temprando il corpo al freddo e ai digiuni (“nelle notti invernali mi rotolavo spesso nella neve e dormivo con le finestre aperte”), aprendo la mente alle lingue e alla geografia, nutrendosi di libri di viaggio e di studi cartografici. Chi lo ha conosciuto quando era ancora all’inizio della sua carriera, ad esempio lord Younghusband (l’uomo che avrebbe aperto Lhasa agli occidentali), lo descrive come fisicamente robustissimo, anche se non molto alto, ma soprattutto imperturbabile, sicuro di sé e incredibilmente deciso.

I requisiti per partecipare alla corsa ai poli se li è creati con una straordinaria volontà: “Ma nelle stelle era scritto diversamente“.

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Verso l’oriente

Alla fine della primavera del 1885, appena uscito dalla scuola secondaria, riceve una di quelle offerte che non si possono rifiutare. Deve accompagnare come precettore privato uno studente che va a raggiungere il padre a Baku, sulle sponde azere del Mar Caspio, dove quest’ultimo lavora come ingegnere nei giacimenti petroliferi della famiglia Nobel. La proposta testimonia dell’ottima reputazione che Sven si è guadagnato a scuola, e lui non vuole smentirla: ma vuole soprattutto mettersi in condizione di approfittarne il più possibile per appagare la sua sete di viaggi. Durante l’estate frequenta dunque un corso di topografia per militari e prende lezioni di disegno (per il quale è già di suo molto portato).

Sven o della solitudine 07I due partono alla volta dell’Azerbaigian a metà agosto. Transitano per Helsinki e San Pietroburgo, e quindi si soffermano a Mosca, dal cui splendore Sven è affascinato. Poi quattro giorni in treno e in diligenza, in mezzo a una natura selvaggia che il giovane non si stanca di cercare di disegnare: foreste immense e praticamente vergini, montagne altissime innevate, valichi incassati tra le rocce, strade che corrono pericolosamente su orrendi strapiombi. Il virus dell’avventura che incubava nel suo animo trova l’ambiente ideale per manifestarsi. Sono a Baku prima della fine del mese, e qui Sven, oltre ad impartire lezioni al suo discepolo, si dedica a studiare in contemporanea una quantità di lingue: è molto portato, conosce il latino, parla quasi correntemente francese, tedesco e inglese, s’impadronisce dei rudimenti delle lingue farsi, russa e tartara. In seguito imparerà diversi dialetti persiani, oltre al turco, al kirghiso, al mongolo, al tibetano e a un po’ di cinese.

Sven o della solitudine 08Sei mesi dopo il suo compito di tutore è esaurito, ma Sven non ha alcuna fretta di fare ritorno a casa. Avverte semplicemente i suoi che posticiperà il rientro, e nell’aprile del 1886 lascia Baku, si imbarca su un vapore che costeggia il Mar Caspio e raggiunge la Persia. Quindi attraversa a cavallo la catena montuosa di Alborz, per toccare successivamente Teheran, Esfahan, Shiraz e arrivare al Golfo persico. Dalla città portuale di Bassora ancora in nave risale il fiume Tigri fino a Baghdad (allora nell’impero ottomano). Torna quindi a Teheran via Kermanshah, e dopo aver trovato un prestito (ha esaurito tutti i suoi fondi) intraprende finalmente la strada di casa, attraversando il Caucaso, veleggiando sul Mar Nero fino a Costantinopoli e facendo ancora tappa a Budapest. È di ritorno in Svezia il 18 settembre 1886.

Ha solo ventun anni, se l’è cavata egregiamente. E ha anche definitivamente realizzato che la corsa ai poli non è l’ultima frontiera. Ci sono ancora un sacco di spazi bianchi da riempire sulle mappe: li ha appena lambiti, e non vede l’ora di penetrarci. I monti caucasici, le steppe, i deserti del centro dell’Asia gli sono entrati nel sangue. Scrive: “Bruciavo dal desiderio di iniziare nuove avventure”. “Quando rientrai in patria, nella primavera del 1991, mi sentivo come il conquistatore di un immenso territorio […] io quindi confidavo di poter dare un nuovo colpo e conquistare tutta l’Asia da ovest ad est […]. Passo a passo mi ero aperta la strada sempre più profondamente attraverso il cuore del più grande continente del mondo. Ora non mi acc0ntentavo più di niente se non di aprire sentieri dove nessun europeo avesse mai posto il piede”.

Sven o della solitudine 09L’anno successivo pubblica un libro sulla sua prima straordinaria esperienza, Attraverso la Persia, la Mesopotamia e il Caucaso. Ricordi di viaggio. Non è un best seller, ma è pubblicato da un editore specializzato nel settore, e incuriosisce tanto gli appassionati quanto gli studiosi, colpiti soprattutto dalla giovanissima età e dalla precoce competenza dell’autore. Hedin ha però potuto rendersi conto durante il viaggio di cosa realmente serve per impegnarsi in una esplorazione. Gli anni successivi li dedica dunque a completare ad altissimo livello la sua preparazione. Studia geologia, mineralogia, zoologia tra il 1886 al 1888 a Stoccolma e a Uppsala, e nel frattempo traduce i Viaggi in Asia centrale di Nicolaï Prjevalski, individuando così la meta per la prossima avventura. In virtù della conoscenza del farsi e del turco viene anche aggregato ad una futura missione presso lo scià di Persia. Nell’attesa della partenza, tra l’ottobre 1889 e il marzo 1890, realizza un altro suo sogno e va a studiare a Berlino con il grande geografo Ferdinand von Richthofen[2].

Richthofen riconosce subito l’eccezionalità dell’allievo, e vorrebbe spingerlo allo studio dei sistemi montuosi dell’Himalaya, della Cina e dell’Asia sud-orientale: ma Hedin ha già fatto le sue scelte. Ha letto le relazioni di viaggio dei fratelli Schlagintweit, si è appassionato e commosso per le loro disavventure. Ora lo attirano soprattutto i deserti, aridi o ghiacciati, la solitudine, i silenzi, e sotto sotto (ma neanche tanto) i disagi da affrontare e i rischi da correre. “Non ero all’altezza di questa sfida. Ero uscito troppo presto per le rotte selvagge dell’Asia, avevo percepito troppo lo splendore e la magnificenza dell’Oriente, il silenzio dei deserti e la solitudine dei lunghi viaggi. Non riuscivo ad abituarmi all’idea di tornare a scuola per un lungo periodo di tempo”. Infatti procrastina ancora il compimento degli studi cui von Richthofen lo esorta. Non gli interessa diventare uno scienziato: è e vuole essere riconosciuto come un esploratore.

Durante il soggiorno in Germania matura inoltre una sconfinata ammirazione per quel popolo, per la sua cultura e per il suo sistema politico. La sua figura di riferimento politico diventa Federico II.

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Il viaggio in Persia

Sven o della solitudine 11La delegazione svedese che deve consegnare allo scià di Persia un’onorificenza (un pretesto, naturalmente, per instaurare rapporti politici ed economici) e in seno alla quale Sven svolge il ruolo di interprete parte nel maggio 1890, e via Berlino e Vienna raggiunge Costantinopoli, dove è ricevuta anche dal sultano. Una volta a Teheran, ed esauriti i suoi compiti ufficiali, il giovane ottiene di poter lasciare la delegazione per riprendere a viaggiare nell’Asia centrale. Ma prima accompagna lo Scià in un’escursione alla catena montuosa dell’Elburz, nel corso della quale assieme a due guide scala il Monte Damavand (5.600 metri). Incontra anche le prime disavventure, perché quasi ci lascia la pelle cavalcando attraverso le montagne innevate dell’Elbruz durante una feroce tempesta di neve.

Il rapporto diretto con lo Scià gli garantisce comunque la più assoluta libertà di movimento. A settembre, dopo essere tornato a Teheran, parte per il Turkestan russo, attraversando la catena montuosa che separa quest’ultimo dalla Persia. Viaggia sulla Via della Seta attraverso le città di Mashhad, Ashgabat, Bukhara, Samarcanda, Tashkent e Kashgar, fino alla periferia occidentale del deserto del Takla Makan. A Taskent ottiene nuovi lasciapassare, lettere di raccomandazione e carte del territorio, con le quali, a dispetto degli avvertimenti delle autorità russe, muove verso il confine cinese. Attraversa l’Alto Pamir nei primi giorni dell’inverno, avendo davanti a sé i panorami mozzafiato del Tibet, e arriva a Kashgar a metà dicembre. Ha raggiunto quella che un tempo era stata una tappa fondamentale lungo la via della seta, ma la cui vivacità è ormai solo un ricordo. Per oltre 200 giorni l’anno Kashgar è avvolta da una gigantesca nube di sabbia sollevata dai venti del deserto: e viene considerata abitata dai “demoni del cielo”, che hanno trovato qui la dimora ideale per nascondersi agli occhi degli umani. Dopo un po’ Hedin comincerà a pensare che un fondo di realtà debba esserci in queste leggende.

Sven o della solitudine 12Nei dintorni comunque ha modo di incontrare gli Uiguri, di etnia turca, imparentati con altre popolazioni che abitano oltre il confine russo: ed è impressionato dalla praticità dei loro sistemi d’irrigazione, che consentono l’agricoltura in un terreno tutt’altro che adatto. A questo punto però, non avendo ottenuto il permesso di proseguire fino a Pechino, è costretto a tornare indietro per una via più settentrionale, che attraversa la catena di Thian Shan, e a fine dicembre riguadagna il territorio russo. È nuovamente nel Turkestan, dove visita la tomba dello studioso russo-asiatico Nikolai Przhevalsky a Karakol, sulla riva del lago Issyk Kul. Alla fine di marzo del 1891 è di ritorno in Svezia

Sven o della solitudine 13Si è trattato solo di un viaggio preparatorio, per mettere a punto le necessità e calcolare i rischi di una spedizione vera e propria. Gli è servito anche per individuare l’area sulla quale focalizzare il suo interesse: la più impervia e sconosciuta, naturalmente. Si tratta del vasto e accidentatissimo territorio al quale afferiscono, con confini definiti in maniera molto incerta, sei differenti stati: Cina, Mongolia, Russia, Persia, Tibet e India. Al centro di questa area, nel Turkestan cinese, c’è il Takla Makan, un deserto di sabbia che gode di una fama sinistra, attorno al quale, e anticamente anche all’interno, transitava la Via della Seta individuata da Von Richthofen.

Sven o della solitudine 14Per intanto ha già raccolto materiale sufficiente per dare alle stampe una Ambasciata del re Oscar allo shah di Persia e soprattutto Attraverso il Khorasan e il Turkestan, pubblicati pochi mesi dopo il suo ritorno, che consolidano la sua fama di esperto della geografia e dell’antropologia dell’Asia Centrale. Nel frattempo si è iscritto all’università di Berlino, dove ottiene in brevissimo tempo (nel 1892) una laurea dissertando sulla sua ascesa al monte Damavand.

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La prima spedizione

Sven o della solitudine 16Ormai è famoso, tanto in Svezia quanto in Germania. Si crea dunque una cordata, lanciata dal sovrano svedese Oscar II e finanziata da banchieri e imprenditori, per raccogliere la somma necessaria ad allestire una spedizione in grande stile. Partecipano anche i russi, conquistati da una conferenza che il giovane ha tenuto a Pietroburgo, davanti ai soci della società imperiale di Geografia. Esauriti i preparativi, la partenza viene però ritardata da un problema agli occhi che tiene fermo Sven per parecchi mesi. Poi, nell’ottobre del 1893, l’esploratore raggiunge Orenburg in treno e successivamente, a cavallo o su un carrettino (un tarantass), guadagna Taskent (“In diciannove giorni avevo attraversato 11 gradi di latitudine, impiegato 111 guidatori, adoperato 317 cavalli e 21 cammelli)” A marzo parte l’esplorazione vera e propria. Mi ci soffermo più a lungo perché è probabilmente l’avventura che, una volta conosciuta, sancirà la fama di Hedin come ultimo grande esploratore romantico, colui che avanza solitario verso un ignoto irto di pericoli.

Nel febbraio 1894 Hedin attraversa il Pamir, in pieno inverno e con temperature che scendono sino a -38°C. Passa a fianco del Mustagh-Ata, una montagna di 7.650 metri, e ne valuta possibile l’ascensione, tanto che ci prova. Raggiunge un’altitudine superiore ai 6000 metri, accompagnato da una guida kirghisa: “Mi sentivo come se stessi sul margine degli spazi incommensurabili dove i mondi ruotano per l’eternità. Solo un passo mi separava dalle stelle. Potevo toccare la luna con la mano”. Deve però fermarsi per una recrudescenza dell’oftalmia, e rimpiangerà quella vetta per tutta la vita.

Per curare gli occhi sosta per un breve periodo a Kashgar, e nel frattempo mette a punto i dettagli della spedizione. Ha deciso di tentare la traversata e l’esplorazione del Takla Makan. Sa cosa rischia: “Nel Takla Makan si riesce ad entrare, ma non si riesce ad uscire”. Nessun occidentale di cui si abbia fama ci ha mai provato, o è mai tornato per raccontarla. Hedin intende tagliarlo da nord a sud, dando inizio a un rilevamento cartografico che con una lunga avanzata dovrebbe condurre sino al Tibet. Si sposta quindi nel febbraio a Merket, poco lontana dalle prime propaggini del deserto. “La parte del grande deserto di sabbia che stavo per attraversare era triangolare ed era cinta a ovest dal Yarkand-daria, ad est dal Kotan-daria e a sud dai monti Kunlun. La distanza da Merket al Kotan-daria era di 175 miglia: ma per noi si presentava molto più lunga per via delle innumerevoli curve che il nostro itinerario doveva fare tra le dune. Speravo di attraversare il deserto in meno di un mese e di proce dere verso le fresche alture del Tibet settentrionale durante i caldi mesi estivi.”

Sven o della solitudine 17L’idea è quella di redigere una carta su grande scala del territorio che sarà percorso, riportante i livelli altimetrici e il reticolo idrografico, completata poi dalla classificazione delle rocce e della flora, dalle caratteristiche climatiche, da una descrizione antropologica delle popolazioni (caratteri fisici, lingue, costumi, …), dalla rappresentazione delle rovine delle antiche città e dei paesaggi. Un progetto decisamente ambizioso.

Ad aprile finalmente la spedizione si muove. Con Hedin ci sono quattro compagni e otto cammelli, questi ultimi carichi di acqua, cibo, armi, strumentazioni scientifiche e materiale per le fotografie. Le cose però si mettono male quasi subito: non ha controllato personalmente l’approvvigionamento d’acqua, che si rivela del tutto insufficiente; è necessario dunque procedere ad un drastico razionamento, e uomini e animali dopo due settimane sono già allo stremo. Deve prendere una decisione: “Non si vedeva altro che sottile sabbia gialla. Fin dove riuscivamo a spingere lo sguardo scorgevamo solo dune alte, spoglie di vegetazione. È strano che sia rimasto atterrito da tale spettacolo e abbia continuato il viaggio”. In realtà non è così strano: esce nettamente allo scoperto in questa occasione quella che sarà sempre la principale caratteristica di Hedin: la determinazione quasi disumana a raggiungere l’obiettivo ad ogni costo, mettendo magari a repentaglio la propria vita, e con scarso riguardo per quella degli altri. Non esita un attimo. “Non avrei cambiato un solo passo del mio percorso. Fui travolto dall’irresistibile desiderium incogniti che abbatte qualunque ostacolo e non conosce l’impossibile.” È il tratto che lo accomuna al suo coetaneo Lammer.

Hedin insiste dunque a proseguire, convinto di poter arrivare in un mese al fiume Khotan, che dovrebbe scorrere in mezzo al deserto. Ma intanto la sete comincia a mietere vittime: prima un cammello, poi altri due, poi due degli uomini. Bevono il sangue degli animali che si erano portati appresso, pecore e galline, e l’urina dei cammelli. Hedin cerca di dissetarsi persino con il liquido per i fornelli (e si sente male). Ci si mette anche una tormenta di sabbia. Il 3 maggio sono ormai rimasti in due, e scoprono di aver marciato per un intero giorno in tondo. In quello seguente arrivano al fiume e lo trovano in secca: a questo punto Kasim, l’ultimo compagno rimasto, non è più in grado di proseguire. Hedin scrive: “Accesi la mia ultima sigaretta. Kasim aveva sempre avuto i mozziconi, ma ormai fumai questa fino in fondo. Mi domandavo se ero ancora sulla Terra, o se questa fosse la valle delle Ombre”. E tuttavia procede ancora, di notte, a quattro zampe, sino a quando nel letto del fiume trova una pozza. È guidato, scrive lui, dal canto di un uccello: “Mi fermai di colpo. Un uccello acquatico, anitra o oca selvatica, prese il volo con ali frullanti, e udii il tonfo. Un istante dopo mi trovavo sul bordo di uno stagno, lungo un ventiquattro metri e largo cinque. L’acqua sembrava nera come l’inchiostro sotto la luce lunare […]. Era fredda, limpida come il cristallo e dolce come la migliore acqua di fonte. Quindi bevvi e bevvi ancora. Bevvi senza frenarmi […] e sedetti acca rezzando l’acqua di quello stagno benedetto”.

Sven o della solitudine 18Sembra un vecchio film di John Ford, e sono convinto che molte storie cinematografiche di traversate del deserto siano state ispirate da queste pagine. Ma il meglio arriva dopo: Hedin riempie d’acqua i suoi due stivali e torna dal compagno. Questi si riprende, ma non è ancora in grado di seguirlo. Hedin torna allora allo stagno, si riposa per un giorno e prosegue poi a risalire lungo il letto del fiume. Si imbatte infine in un gruppo di pastori, che lo rifocilla, e successivamente in una carovana di mercanti che ha raccolto lungo la strada Kasim e un altro membro della spedizione miracolosamente sopravvissuto. Una volta ripresisi i tre si trascinano nuovamente fino a Kashgar. Il bilancio è catastrofico: Hedin ha perso due uomini e molti animali, nonché la gran parte dell’attrezzatura scientifica. La sua prima battaglia col deserto è perduta. O almeno, è rimandata.

A Kashgar infatti Sven rimpiazza le perdite e si prepara a ripartire. Ha un obiettivo duplice: prendersi la rivincita sul deserto e puntare poi a nord per esplorare la parte settentrionale del Tibet ed entrare in Cina, alla ricerca del Lop-Nor, il misterioso “lago errante”. Parte a metà dicembre 1895, e in tre settimane, costeggiando il Takla Makan, arriva a Khotan. Di qui seguendo le indicazioni dei locali compie numerose escursioni nel deserto, in pieno inverno e con temperature proibitive. Scopre, dapprima nei ruderi delle stazioni di sosta buddiste dislocate lungo la via della seta e poi in vere e proprie città perdute nel deserto, sommerse da secoli dalla sabbia, un autentico tesoro di antichi manoscritti, di oggetti devozionali, di affreschi a tema religioso. La stagione gli impedisce di approfondire le ricerche, ma registra le coordinate di tutti i diversi siti e li rende rintracciabili da parte di coloro che verranno dopo di lui. “Lasciai volentieri le ricerche scientifiche agli specialisti. Entro pochi anni anche loro avrebbero affondato i badili nelle sabbie cedevoli. Per me era più che sufficiente aver fatto la scoperta e avere aperto un nuovo campo all’archeologia nel cuore del deserto.

Quando riparte viaggia per un tratto con una carovana di nomadi, giusto il tempo per apprendere gli elementi essenziali della lingua mongola. Intanto segue il corso del fiume Keriya, fino a quando questo si perde nelle sabbie del deserto, e mappa puntigliosamente tutto il territorio attraversato, raccogliendo in diciotto mesi un’infinità di dati. Una volta arrivato a Xining, capitale del Quingai, dopo aver aggirato ed essersi lasciato alle spalle il Takla Makan, scioglie la spedizione e prosegue da solo fino a Pechino. Stavolta ha le credenziali in regola, ha soprattutto l’appoggio dell’ambasciata russa, e nel febbraio 1897 viene accolto senza problemi (ma anche senza entusiasmi).

A Stoccolma, dove arriva tre mesi dopo, al termine di un viaggio estenuante nel corso del quale ha attraversato la Cina, parte della Mongolia e la Russia, l’accoglienza è calda (è anche insignito di una medaglia d’oro da parte del sovrano), ma senz’altro meno entusiastica rispetto a quanto aveva sognato quindici anni prima, mentre assisteva al rientro di Nordenskiöld. I deserti asiatici sono molto più lontani dall’immaginario popolare scandinavo delle distese di ghiaccio polari.

In quasi quattro anni ha percorso 26.000 chilometri e ne ha mappati 10.498 su 552 fogli. Di questi circa 3.600 chilometri hanno attraversato aree precedentemente inesplorate. Redige immediatamente una corposissima relazione del viaggio (Risultati geografici e scientifici dei miei viaggi in Asia centrale. 1894-1897), che con le appendici scientifiche supera le millecinquecento pagine: ma il vero successo arride alla versione ridotta per il grande pubblico, corredata da numerosissimi disegni suoi, che col titolo Il giro del mondo spopola sia in Svezia che in Germania e in Russia, e immediatamente dopo in Inghilterra. Quasi snobbato in patria, viene invece invitato a tenere conferenze e a ricevere riconoscimenti sull’isola. Il “Geographical Journal” lo definisce il più grande esploratore dell’Asia dopo Marco Polo.

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Seconda spedizione

I riconoscimenti ottenuti all’estero si concretizzano in un appoggio sempre più convinto del sovrano svedese Oscar II, ma anche dello zar Nicola II, nonché della famiglia Nobel. Hedin può quindi organizzare immediatamente una seconda spedizione al Tibet. Questa volta l’obiettivo ufficiale è l’esplorazione del bacino del Tarim e della regione del Lop-Nor, aree geografiche che sulle carte rimangono ancora bianche: quello segreto è di arrivare a Lhasa, fedele all’imperativo “Vai là dove nessun bianco è mai stato prima”. E per partire non attende nemmeno la pubblicazione del suo ultimo libro (che esce nel 1900).

Sven o della solitudine 20L’esploratore è infatti già nuovamente in Asia nell’estate del 1899. Il 5 settembre parte dalla solita Kashgar alla testa di una carovana di 15 cammelli e 10 cavalli e raggiunge Lailik, sullo Jarcand-daria. Qui acquista e fa preparare una chiatta, con la quale intende discendere tutto il fiume fino alla sua confluenza col Tarim: “Negli anni precedenti avevo già percorso in tutti i sensi il Turkestan orientale: unica strada che m’era ancora sconosciuta, rimaneva il fiume”. L’imbarcazione è attrezzata con tutti i comfort consentiti dalla situazione: c’è persino un piccolo laboratorio per lo sviluppo delle fotografie. Su una seconda chiatta, più piccola, stipa le provviste (riso, uva, cocomeri legumi, ma anche animali vivi, montoni e galline). C’è infine un piccolo “battello pieghevole” inglese, in tela, da usare per le escursioni negli affluenti. Il 17 settembre il resto della carovana, guidata da due cosacchi, si dirige via terra al punto d’incontro stabilito sul corso del Tarim inferiore: Hedin, assieme ad uno dei compagni sopravvissuti all’avventura precedente, Islam Bai, e con cinque battellieri reclutati sul posto, inizia la sua navigazione. “Incominciò un viaggio idillico. Era una vera gioia vivere nel fiume studiandone la vita palpitante … per uno avvezzo ad avanzare sempre a cavallo o a misurare lo spazio arrampicato sul dorso di un cammello dondolantesi, è una voluttà infinita lasciarsi trasportare dalla corrente e rimanere seduto tranquillamente presso la scrivania […]”. Va da sé che la cosa non può durare. Intanto la chiatta tende ad arenarsi sui banchi di sabbia disseminati lungo il fiume: e quindi il viaggio si rivela molto più lento del previsto. Poi, quando la sua portata è arricchita da nuovi immissari, la corrente prende velocità e le imbarcazioni si salvano solo per la prontezza d’animo di uno dei battellieri. Infine, dopo due mesi, arrivano le avvisaglie dell’inverno, una sottile crosta di ghiaccio che il mattino copre le acque, e che a dicembre si trasforma in lastroni. “Alla fine la vittoria rimase al ghiaccio: la zona ghiacciata che cingeva i fianchi delle chiatte si serrò, il canale libero nel filone del fiume si restrinse, ed il 7 dicembre la crosta gelata formava un ponte che univa le due rive: eravamo imprigionati e dovemmo prendere i quartieri d’inverno.” Facendo capo a questi, Hedin intraprende la ricognizione delle zone interne sulle due sponde, malgrado temperature polari e con un equipaggiamento minimo: “Non portai con me tenda alcuna: per tutto l’inverno dormii all’aria aperta, sebbene il freddo scendesse talvolta a -33°”. È un esercizio di acclimatazione, perché ha deciso di sfidare una seconda volta il Takla Makan. E così a metà dicembre con sette cammelli, due cani, un cavallo e quattro uomini, s’inoltra nuovamente nel mare di sabbia. Nemmeno questa volta è una passeggiata. Rischiano paradossalmente ancora la sete, ma quando sono allo stremo raggiungono piccolissime oasi, o sono soccorsi dalla caduta della neve; si perdono entro tempeste di sabbia; arrivano quasi ad esaurire la provvista di legna. “Noi stavamo accosciati attorno al fuoco, raggomitolati nelle pellicce, stretti l’uno accanto all’altro […]. Al mattino io mi svegliavo completamente sepolto sotto la neve, al punto che Islam doveva spazzarla con una pala per liberarmi dalla nicchia, che lo strato di neve manteneva calda. È un’esperienza più curiosa, a dire il vero, che piacevole, quella di dormire a cielo aperto con -33° di freddo. Allorché ci trovavamo riuniti attorno al fuoco, spesso si avevano 30° di caldo dal lato della fiammata e -30 di freddo alle spalle.”

Sven o della solitudine 21Questa volta comunque il deserto lo attraversano in lungo e in largo, e dopo quattro mesi si ricongiungono finalmente col resto del gruppo. Nel corso di un’ultima puntata esplorativa s’imbattono ancora una volta nelle rovine di antichi insediamenti, dove raccolgono tavole di legno scolpite, monete cinesi, tazze per le cerimonie, ecc… Quando sono ormai sulla via del ritorno alla base uno degli uomini scopre quasi casualmente un’antica città abbandonata, parzialmente dissepolta dall’ennesima violenta tempesta di sabbia. “Volevo assolutamente tornare indietro! Ma che follia sarebbe stata. Avevamo acqua solo per due giorni.” Per una volta il buonsenso ha la meglio. Si ripromette però di tornare l’inverno successivo, e questo cambia i piani della spedizione.

Per tutto l’inverno il gruppo vagabonda nell’immenso territorio compreso tra il Tibet settentrionale e il Takla Makan. Ad un certo punto, mentre si trovano nel deserto di Gobi sembra ripetersi la situazione di cinque anni prima. E ancora una volta la scampano imbattendosi in un fiumiciattolo. Contro il parere dei suoi compagni Hedin decide allora di puntare direttamente a sud, verso quello che un tempo doveva essere il bacino del fantomatico Lop Nor: e finalmente riesce a risolvere il mistero che circondava il lago fantasma. Questo si è spostato nel corso delle epoche storiche diverse volte, riguadagnando ripetutamente le differenti localizzazioni, per una serie combinata di fenomeni erosivi, legati al forte vento che spazza costantemente il deserto e periodicamente lo sconvolge con tempeste di sabbia, e di sommovimenti sismici. È quanto accadrà per l’ennesima volta anni dopo, nel 1921, a seguito di una piena, quando la rottura della sponda sinistra del Konce-daria dirotterà le sue acque nel letto disseccato del Kuruk-daria, il “fiume asciutto” nel mezzo del de serto, confermando appieno l’ipotesi avanzata da Hedin.

Sven o della solitudine 23Ma al di là della soluzione del problema idrografico, a Hedin interessa anche riportare alla luce quelle che erano state importanti città di sosta sulla via della seta e che erano state via via abbandonate, perché i traffici si spostavano seguendo il lago. Tornato nel luogo segnalato da uno dei suoi uomini l’anno precedente, proprio viaggiando nell’alveo del Kuruk-daria, il 18 marzo del 1900 scopre le rovine di una fortificazione (con mura di 340 x 310 metri di lunghezza), che altro non è che l’antica città reale di Loulan. Il sito era stato sede fino al 300 d.C di una guarnigione cinese, poi la popolazione l’aveva abbandonato per il repentino prosciugamento del lago sul quale si affacciava. Hedin identifica l’edificio in mattoni del comandante dell’esercito imperiale cinese, uno stupa e diciannove abitazioni costruite in legno di pioppo, ma soprattutto disseppellisce centinaia di documenti scritti su legno, carta e seta in caratteri Kharosthi. Da questi si trarranno, una volta decifrati, le informazioni sulla storia della città. “I frammenti di queste testimonianze avrebbero narrato dell’epoca in cui il Lop Nor esisteva, degli uomini che qui vivevano, delle loro condizioni, dei loro rapporti con altre parti dell’Asia interna, del nome della loro terra. Questa terra che, per così dire, venne inghiottita dai fenomeni sismici, questi uomini da tempo dimenticati, la loro storia non riportata da annali di sorta, tutto questo sarebbe tornato alla luce […]”.

Sven o della solitudine 24Una volta lasciati gli scavi, la nuova meta è il Tibet. La regione è proibita agli stranieri, e in particolare nessuno di loro può entrare in Lhasa. Questo naturalmente ha sempre stuzzicato la curiosità e la fantasia degli occidentali, che soprattutto nell’ultimo mezzo secolo hanno tentato con vari stratagemmi di eludere il divieto, e molti hanno pagato con la vita. Hedin ha concepito il piano di entrare in territorio tibetano dal Kashmir con tutta la sua carovana, che stavolta conta trenta uomini e centocinquanta animali da carico, così da far concentrare su questa l’attenzione delle guardie confinarie tibetane, e di staccarsene poi travestito da pellegrino mongolo, per filarsela a cavallo fino a Lhasa. Deve però anche superare il veto imposto all’ultimo momento dall’autorità britannica, e ci riesce solo sfruttando la reciproca ammirazione che lo lega a Younghusband, che dovrebbe fermarlo e simula invece un ritardo nella ricezione dell’ordine. I due si sono immediatamente riconosciuti e intesi: “Al momento di ripartire – scrive Younghusband – Sven Hedin mi mise una mano sulla spalla e se gli avessi dato anche il minimo incoraggiamento mi avrebbe abbracciato.

La spedizione parte a maggio del 1901. Risale le pendici settentrionali dell’Altin Tagh e si accampa a 4000 metri, presso il lago di Kum-koll. Di lì poi procede sino alla fine di luglio, dirigendosi indisturbata ma con estrema fatica verso Lhasa, risalendo e ridiscendendo innumerevoli passi montani. A questo punto Hedin, che vorrebbe passare per un pellegrino buriato, si rade completamente, si scurisce la pelle e continua con due soli compagni e un Lama incontrato ad Urga, che ha acconsentito ad accompagnare la carovana e dal quale Hedin apprende i rudimenti della lingua mongola.

Sven o della solitudine 25Dopo una settimana, quando sono ormai a cinque giorni di cammino da Lhasa, incrociano una carovana di nomadi che guida centinaia di yak, e Hedin viene smascherato: infatti il giorno seguente (l’8 agosto) gli si para davanti una pattuglia di soldati che intima loro di tornare indietro. Prende atto che “quando al tramonto il cielo comincia ad oscurarsi ad oriente mi pare che la notte voglia stendere il suo velo sopra il paese del dalai Lama e proteggere con le sue tenebre i misteri che racchiude” e rinuncia allo scopo della missione.

Sven o della solitudine 26Deve prima ricongiungersi al resto della carovana, e poi con essa riattraversare le montagne tibetane. La ritirata è tutt’altro che facile, perché i soldati tibetani gli rimangono sempre alle costole. Hedin decide di puntare ad ovest, verso il Ladakh, ma il viaggio si fa sempre più pesante col sopraggiungere della stagione autunnale prima e di quella invernale poi. Muoiono tre uomini e la maggior parte degli animali, altri componenti la spedizione perdono l’uso delle gambe per congelamento. Il calvario dura quasi cinque mesi, e quando alla fine raggiungono la città di Leh, nell’India britannica, anche Hedin è prostrato.

Ma non è ancora appagato. Da Leh il percorso di Hedin diventa quasi una gita turistica. Visita infatti Lahore, Delhi, Agra, Lucknow, Benares e Calcutta, dove incontra lord Curzon, viceré d’Inghilterra in India. Ha in animo soprattutto di riallacciare le relazioni con le autorità inglesi, che lo hanno in sospetto per i suoi rapporti con i russi. Comincia già a programmare la nuova spedizione.

Chiusa questa pausa diplomatica, riconduce la carovana attraverso gli alti passi del Karakorum, fino a Kashgar. Rientra in Svezia nel giugno del 1902, dopo tre anni di viaggio, riportando oltre 1.149 pagine di mappe, su cui ha raffigurato terre scoperte di recente. La pubblicazione scientifica sulla seconda spedizione, Scientific Results of a Journey in Central Asia, occupa sei testi e due volumi di atlante. Ma a renderlo ancora più celebre è Trans-Himalaya: scoperte e avventure in Tibet, quella che lui stesso definisce la sua “opera popolare” sul viaggio, pubblicata in svedese in tre volumi e tradotta quasi immediatamente in una decina di lingue. È premiato con l’attribuzione di un titolo nobiliare (anche se rifiuterà sempre di anteporre al nome Hedin il predicato di nobiltà “von”) e con la cooptazione nel comitato per l’assegnazione dei premi Nobel.

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Terza spedizione

Sven o della solitudine 28L’attività di Hedin è rallentata nei due anni seguenti da alcuni avvenimenti che turbano sia la vita della Scandinavia (la separazione dei regni di Svezia e di Norvegia) che quella dell’Asia (l’invasione inglese del Tibet). Hedin stesso entra nella competizione politica, dapprima in quella nazionale, schierandosi decisamente al fianco del nuovo sovrano Gustavo V e appoggiandone la volontà di rimilitarizzare la Svezia (contro la scelta di neutralità che data dalla fine delle guerre napoleoniche), e successivamente in quella internazionale, caldeggiando l’avvicinamento della Svezia alla Germania E tuttavia non riesce a rimanere a lungo lontano dai “suoi” deserti.

Le spedizioni successive, tuttavia, pur continuando a produrre risultati eccezionali sul piano della conoscenza geografica (e anche di quella storica e archeologica) hanno ormai assunto un carattere diverso. La situazione si è complicata sia in Russia, dopo il tentativo rivoluzionario del 1905, sia in Cina, dove la rivolta dei Boxer e il successivo intervento occidentale hanno fatto perdere ogni residua credibilità e autorità dell’apparato imperiale. Lo stesso vale per l’impero ottomano. Inoltre, la temporanea uscita di scena della Russia viene compensata dall’ingresso nel Grande Gioco della Germania, che con il finanziamento e la costruzione (iniziata nel 1903) della ferrovia di Baghdad mira ad un grande progetto geopolitico ed economico di influenza sul Medio oriente.

Sven o della solitudine 29Tutto questo fa si che Hedin non possa più muoversi, come in precedenza, seguendo l’estro e le intuizioni del momento. Le simpatie ripetutamente manifestate per la Germania ne fanno un attore sospetto, non più coperto dallo status di cittadino di una nazione neutrale e totalmente estranea al Grande Gioco. Ora deve procedere su progetti laboriosamente concordati con i vari poteri locali (che spesso sono più di uno sugli stessi luoghi), badando a garantire la pura “scientificità” delle proprie ricerche. Vengono fuori in questo frangente le sue doti “diplomatiche”, l’importanza dei rapporti che ha stretto tramite l’attività di conferenziere e di divulgatore (ad esempio, quello col governatore dell’India, Lord Curzoon).

Si dedica quindi, tra l’ottobre 1905 e il 1908, in una prima fase ad esplorazioni specifiche, che riguardano i bacini desertici dell’altipiano iranico e tutta l’area dell’Iran centrale, nonché alla mappatura di vaste zone del Turkestan cinese (lo Xinijang). Usando ancora una volta un espediente torna poi sull’altipiano centrale del Tibet (l’apertura alla penetrazione occidentale imposta dalla spedizione militare inglese di Francis Younghusband rimane molto discrezionale) e una volta penetrato all’interno si affretta a visitare il Panchen Lama (il Dalai Lama è in esilio in Mongolia), suscitando la diffidenza delle autorità anglo-indiane, che vogliono mantenere il monopolio dei canali diplomatici con il Paese himalayano. Per l’ennesima volta non gli è concesso di entrare nell’ex-città proibita di Lhasa, ma il fatto di essere stato preceduto da altri occidentali gli ha fatto perdere ogni interesse per la cosa.

Sven o della solitudine 30È invece il primo europeo in assoluto a raggiungere la regione del Kailash, compresi il sacro lago Manasarovar e il monte Kailash. Secondo la mitologia buddista il Kailash è l’ombelico della terra, il centro dell’Universo, mentre per quella induista è la sacra dimora di Shiva. In questa area Hedin individua anche le sorgenti dei maggiori fiumi sacri del subcontinente indiano, l’Indo e il Brahamaputra, nonché le origini di uno dei più importanti affluenti del Gange. Col che chiude una diatriba annosa e aggiunge una perla alla sua collana di successi: “Stavo lì a meditare se Alessandro il Macedone… avesse la benché minima idea di dove si trovasse questa sorgente e mi inebriavo nella consapevolezza del fatto che, ad eccezione degli stessi tibetani, nessun essere umano tranne me era mai penetrato in questo luogo”. Infine, riconosce per primo, sia pure esplorandone solo tratti marginali, la catena del Transhimalaja, della quale il Kailash fa parte e che si stende da ovest ad est, parallela alla formazione principale, nella parte più meridionale del Tibet. Ancora oggi questa catena montuosa lunga 1600 chilometri viene talvolta indicata in suo onore come “monti di Hedin”.

Sven o della solitudine 31A questo punto le sue ricerche si muovono già su una linea che prefigura il futuro Ahnenerbe (Associazione per la ricerca e la diffusione dell’eredità ancestrale tedesca), di Himmler, che finanzierà anche una missione tedesca in Tibet della quale Hedin sarà inconsapevole ispiratore. Mentre in precedenza si trattava di riportare alla luce civiltà e presenze culturali dimenticate da secoli, ora l’intento è di configurare una linea di continuità proto-indoeuropea, che allaccia le culture germaniche e nordiche ai popoli parlanti lingue di derivazione dal sanscrito. Proprio gli studi linguistici, arbitrariamente letti e interpretati in chiave antropologica, inducono ad identificare una razza ariana, a partire da De Gobineau passando per Huston Chamberlain e per Vacher de Lapouge. Queste teorie, che si basano sullo stravolgimento dei dati biologici e linguistici, trovano poi una cassa di risonanza nelle elucubrazioni teosofiche di Helena Blavaskji, che conoscono una notevole diffusione alla fine dell’800. Alle une e alle altre si rifaranno, in maniera confusa e rozza, Hitler nel suo Mein Kampf, e più ancora Himmler. Nel frattempo, le imprese di Hedin e i libri che le narrano contribuiscono senz’altro a creare un modello eroico di maestro della sopravvivenza che starà alla base delle formazioni giovanili fiorenti a partire dall’inizio del secolo, i Wandervogel in Germania, ad esempio, e soprattutto i Boy Scouts nel mondo anglosassone.

La missione si coSven o della solitudine 32nclude ancora una volta in India, dopo aver attraversato otto volte la catena himalajana per valichi diversi (il più alto, il Ding-La, a 5.885 metri) e percorso oltre 26.000 chilometri: una distanza, sottolinea Hedin, superiore a quella che intercorre tra i due poli (e da questa considerazione trarrà il titolo (From pole to pole) il diario divulgativo che la racconta. Dall’India Hedin torna attraverso il Giappone e la Russia. Al suo rientro a Stoccolma, nel 1909, è accolto stavolta trionfalmente da cinquemila persone, come il suo eroe Nordenskiöld trent’anni prima.

La pubblicazione scientifica della terza spedizione, Tibet meridionale: scoperte in tempi passati rispetto alle mie ricerche nel 1906-1908, conta dodici volumi, tre dei quali sono atlanti.

Nei due decenni successivi l’attività di esplorazione cessa completamente. Non che questo implichi per Hedin lo stare fermo. È impegnato in un vorticoso giro di conferenze, è membro di società scientifiche in tutta Europa e non solo, svolge anche l’attività di corrispondente di guerra, ma la sua popolarità comincia a declinare rapidamente, soprattutto dopo che nel primo conflitto mondiale si è schierato apertamente, anche con pubblicazioni scritte, dalla parte degli imperi centrali.

Sven o della solitudine 33La prima a risentirne è la sua reputazione scientifica, e in molti casi le onorificenze, i riconoscimenti e gli appoggi economici che gli erano stati tributati in Inghilterra, vengono ritirati. Le sue attività esplorative in un’area di forte interesse strategico per l’impero britannico appaiono ora più che mai sospette, e gli stessi dati delle sue rilevazioni geografiche vengono contestati dai geografi dell’Indian Service, cui fanno ombra la sua spregiudicata attività autopromozionale e il suo successo di pubblico. In un’occasione ciò avviene molto platealmente durante una conferenza presso la Royal Geographical Society, e ciò è con ogni probabilità all’origine del suo odio per tutto ciò che è britannico. È significativo che a conferirgli dottorati honoris causa siano stati inizialmente gli atenei inglesi – sia Oxford che Cambridge nel 1909 –, e da un certo punto in avanti siano solo quelli tedeschi: Breslau (1915,), Rostock (1919), Heidelberg (1928), Uppsala (1935) Monaco (1943) e Handelshochschule Berlin (1931).

Nel 1923 quindi intraprende un giro di conferenze per raccogliere fondi un po’ in tutto il mondo. Si reca nel Nord America e poi in Giappone, e di lì torna a Pechino per organizzare una spedizione nel Turkestan cinese (il moderno Xinjiang). Ma il successo dell’iniziativa promozionale è scarso, tanto più che nella regione da esplorare imperversa la guerra civile. Abbandona quindi il progetto e attraversa invece su un’automobile Dodge, in compagnia di un nobile eccentrico, tutta la Mongolia, viaggiando da Pechino sino alla Russia. Raggiunge poi Mosca con la ferrovia transiberiana.

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Quarta spedizione

Sven o della solitudine 35L’occasione per il rientro arriva nel 1927. Hedin ha ormai più di sessant’anni, la salute non è quella di una volta, ma gli viene offerto un ruolo prestigioso. Dovrà coordinare tutte le operazioni e le attività di una grande spedizione internazionale (partecipano trentasette scienziati di sei paesi diversi) nel cuore dell’Asia, finanziata dai governi di Svezia e Germania e appoggiata da quello nazionalista cinese, che svolgerà indagini scientifiche nei campi più disparati. Il suo è un compito prevalentemente logistico, ben lontano da quello del libero esploratore indipendente: ma Hedin lo assolve magistralmente. Tra il 1927 e il 1933 la spedizione indaga sulla situazione geologica, meteorologica, topografica, botanica, archeologica e etnografica in Mongolia, nel deserto del Gobi e nello Xinjiang (il Turkestan cinese).

Le condizioni in cui lavora sono tutt’altro che tranquille. Il pericolo maggiore è rappresentato non più dai deserti o dalle montagne ghiacciate, ma dalla guerra civile che divampa in Cina, tanto che Hedin scrive: “Mi sento di essere un pastore che deve proteggere il suo gregge dai lupi, dai banditi e soprattutto dai governatori”. L’area in cui si svolge la ricerca è infatti teatro di scontro tra fazioni appoggiate rispettivamente dalla Cina nazionalista e dall’Unione Sovietica.

È una zona molto diversa dal resto della Cina continentale, nella quale si confrontano senza esclusione di colpi e di atrocità due popolazioni atavicamente rivali: gli Uiguri, mussulmani autoctoni di lingua turca (tanto che Hedin li chiama genericamente Turchi) e gli Hui, anch’essi di religione musulmana, ma di origine e lingua cinese e di stanziamento più recente. Basta un nulla per essere sospettati dall’una o dall’altra parte come spie, e liquidati sommariamente, ma anche per essere rapinati dalle bande di predoni e di disertori che conducono una guerra tutta loro.

Sven o della solitudine 36Hedin è forse l’unico uomo in grado di controllare la situazione. Mentre gli scienziati lavorano in modo quasi indipendente, lui si fa tramite con le autorità locali, assume le decisioni più importanti rispetto agli spostamenti e ai problemi organizzativi, raccoglie fondi e tiene il diario di viaggio collettivo, registrando ogni passo del percorso seguito. Deve garantire approvvigionamenti e libertà di movimento ad un gruppo che per la sua consistenza, il suo armamento, le salmerie (i soli cammelli sono trecento, e parte dell’equipaggiamento viaggia su tre camion), ma anche per le sue attività in aree che sono fortemente contese dai signori della guerra locali, somiglia a un esercito invasore.

Sven o della solitudine 37Non mancano i momenti di tensione, perché le popolazioni locali sono sospettose e (giustificatamente) ostili, Ma alla fine il lavoro viene svolto pressoché per intero, e i risultati scientifici sono eccezionali. I resoconti relativi ad ogni settore saranno raccolti in quaranta volumi, che ancora oggi costituiscono una miniera per la conoscenza di quelle aree. La versione divulgativa del diario di viaggio o meglio, della sua ultima parte, è quella offerta sotto il titolo de Il lago errante, l’unica tradotta in italiano negli ultimi settant’anni. Viene inoltre redatta una grande carta in scala uno a un milione dell’Asia Centrale; vengono raccolti importantissimi reperti archeologici e paleontologici (resti fossili di dinosauri e altri animali estinti), che dopo essere stati valutati scientificamente per tre anni in Svezia saranno restituiti alla Cina; sono identificate e descritte specie botaniche e animali in precedenza sconosciute. Nel deserto di Lop Nor Hedin ha scoperto anche rovine di torri di segnalazione che sembrano dimostrare come la Grande Muraglia cinese un tempo si estendesse fino allo Xinjiang.

E ci sono anche altri risvolti: la scoperta di riserve di ferro, manganese, petrolio, carbone e oro sarà di grande rilevanza per il futuro economico del paese.

Sven o della solitudine 38Nel 1933 la spedizione ha portato a termine i suoi lavori (ma soprattutto ha esaurito i fondi a disposizione) e viene sciolta ufficialmente. Ma Hedin considera tutt’altro che conclusa la sua missione. A Nanchino ha incontrato il leader nazionalista Chiang Kai-shek, che ha favorito l’iniziativa e ne è diventato uno sponsor (attraverso l’emissione di una serie di francobolli che oggi valgono una fortuna). Ora chiede a Hedin di lavorare per conto del Kuo-mintang, guidando una spedizione tutta cinese che rilevi la situazione idrografica dello Xinjiang e valuti le possibilità di creare un vastissimo sistema di irrigazione, oltre a redigere piani e mappe per la costruzione di due strade carrozzabili lungo la vecchia via della Seta, da Pechino sino all’estremo confine occidentale del Turkestan cinese. Per l’esploratore è un invito a nozze. Si mette immediatamente al lavoro e nel giro di meno di un anno fornisce sia i piani per impianti di irrigazione che trasformeranno l’economia della regione, sia i progetti per due diverse strade che da Pechino conducano a Kashgar. In questo modo rende possibile aggirare completamente il terreno acci dentato del bacino del Tarim.

Sven o della solitudine 39Non è stato un lavoro facile. La sua carovana di autocarri è stata prima dirottata da reparti del Kuomintang in ritirata davanti ad un tentativo di invasione sovietico. Poi è stata attaccata da grappi di ribelli tungani (musulmani di lingua cinese), che hanno catturato lo stesso Hedin e lo hanno detenuto per diversi mesi a Korla, minacciando anche di passarlo per le armi assieme a tutti i membri della spedizione. Le assicurazioni e i permessi concessi dal governo centrale in quelle zone valgono poco e nulla. Al solito Hedin se la cava con la sua pratica della diplomazia e con la conoscenza dei costumi locali. Ma appena tornato libero toglie le tende.

Una cosa però ancora lo tormenta. Durante la prima fase della spedizione ha sentito raccontare da un mercante della piena del Konce-daria che ha dirottato nel 1921 le acque verso quello che era stato in precedenza il fiume asciutto (Kuruk-daria). Scrive: “Per me quel discorso fu come un lampo”. Non ha più smesso di pensarci. È la dimostrazione che quanto aveva intuito decenni prima, nel corso della terza spedizione, era esatto. E adesso vuole andare a constatarlo di persona. Convince il governo cinese che il ritorno della vita in quegli spazi deserti crea ulteriori opportunità di collegamento con le zone più remote dello Xinjiang, ai confini occidentali, che sino a quel momento erano rimaste pressoché incontrollabili. Con l’appoggio di Chiang Kai-shek torna dunque nella zona dove aveva conosciuto tante avventure e corso tanti rischi, verso quello che lui considera il cuore stesso dell’Asia.

Nel maggio 1934 compie finalmente una spedizione fluviale nel “lago errante” Lop Nor, dopo aver navigato per due mesi lungo il fiume Kaidu e il Kum-Darja. Ha chiuso un cerchio aperto quarant’anni prima.

Per il viaggio di ritorno, Hedin sceglie la rotta meridionale della Via della Seta: passa quindi per Hotan e arriva ai primi di febbraio del 1936 a Xi’an. Percorre per l’ultima volta gli itinerari che lui stesso ha riconosciuto e ritracciato, dopo secoli si oblio. Di lì riemerge nel mondo a lui contemporaneo. Prosegue per Pechino, e poi per Nanchino, dove incontra nuovamente Chiang Kai-shek e festeggia il suo settantesimo compleanno. Lo attende l’ennesimo rientro in Svezia, molto più in sordina rispetto a quelli trionfali dei tempi eroici.

Sven o della solitudine 40Potrebbe essere comunque soddisfatto, il successo scientifico dell’iniziativa è indubbio. Non fosse che adesso deve affrontare un altro problema, una situazione finanziaria molto difficile. Si è fatto carico infatti di una quota considerevole del finanziamento della spedizione, contraendo un pesante debito con la banca tedesco-asiatica di Pechino, in un momento peraltro nel quale il deprezzamento della moneta dovuto alla Grande Depressione ha fatto balzare i costi alle stelle. Deve allora ricominciare con un turbinoso giro di conferenze che lo porta a percorrere in pochi mesi una distanza pari a quella della circonferenza terrestre, e arriva a ipotecare tutti i suoi diritti d’autore, nonché la vastissima biblioteca che ha raccolto.

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Il tramonto e l’oblio

Sven o della solitudine 42Dopo il 1935 l’esistenza di Hedin si fa necessariamente più sedentaria. Ma a dispetto di una salute ormai cagionevole l’anziano esploratore non manca di muoversi appena possibile, per tenere conferenze, ricevere riconoscimenti, offrire consulenze. Presso le democrazie occidentali però la sua reputazione, già compromessa dalle posizioni assunte nel primo conflitto mondiale, è definitivamente rovinata dalle simpatie che manifesta per la Germania nazista e che quel regime enfatizza a scopo propagandistico (facendogli ad esempio pronunciare il discorso inaugurale alle Olimpiadi di Berlino nel 1936). Persino in patria, dove per tutti gli anni trenta e sino alla fine del secondo conflitto mondiale il governo rimane a guida socialdemocratica, malgrado il rapporto di amicizia con Gustavo V Hedin comincia ad essere considerato ingombrante.

Sven o della solitudine 45Negli anni che precedono il conflitto si dedica al riordino e alla pubblicazione dei materiali riportati dalla spedizione sino-svedese, che compaiono con il titolo di Rapporti dalla spedizione scientifica nelle province nord-occidentali della Cina sotto la guida del Dr. Sven Hedin. L’opera conosce quarantanove edizioni in svariate lingue, segno che a dispetto dell’ostracismo politico la validità e la rilevanza scientifica delle sue ricerche è ancora riconosciuta. Come già accaduto un secolo e mezzo prima per Alexander von Humboldt, però, i costi della stampa di un materiale iconograficamente così ricco e così complesso, sostenuti per la gran parte dall’autore stesso, danno fondo a quel che rimaneva del suo patrimonio, e determinano prezzi finali altissimi, sostenibili solo da un numero limitato di biblioteche e di istituti.

Sven o della solitudine 43Durante la fase iniziale del conflitto Hedin vive prevalentemente in Germania (e di questo soggiorno lascia una testimonianza dettagliata e rivelatrice, il Diario tedesco). Incontra personalmente Himmler e tramite lui viene a conoscenza del progetto Ahnenerbe e delle due successive spedizioni tibetane che l’istituto aveva promosse. Non è molto impressionato dal capo delle SS: “Non aveva niente nell’aspetto del despota crudele e spietato e sarebbe potuto essere benissimo un maestro elementare di qualche cittadina di provincia. Si avvertiva una mancanza di carattere e di pregnanza sul suo volto, di tratti decisi che irradiano energia e forza di volontà. Non c’era in lui traccia della classica bellezza greca o romana, né un indizio di razza o cultura […]”. Non collabora comunque alle attività dell’Ahnenerbe, anche se Ernst Schäfer, il capo delle missioni al Tibet, si ispira direttamente a lui e ambisce solo ad emularlo[3]. Quando incontra Hitler, invece, Hedin ne rimane stranamente affascinato, al punto da attribuirgli connotati fisici assolutamente improbabili: “Era alto e virile, una figura possente e armoniosa che teneva la testa alta, camminava eretto con fare sicuro”. Il problema agli occhi che lo aveva afflitto già nelle prime spedizioni si è aggravato, ma questa immagine sembra frutto di una totale obnubilazione mentale, oltre che fisica.

Sven o della solitudine 44Gli ultimissimi anni li trascorre dunque mestamente, nel segno di un rapido oblio. Le opere che lo avevano reso famoso in tutto il mondo, soprattutto quelle divulgative in forma di diari di viaggio, libri per giovani e libri di avventura, non vengono più ristampate. Non è più tempo di eroi, di esploratori, di terre incognite, sostituiti nell’immaginario giovanile dai protagonisti degli stadi, degli schermi, del nuovo universo musicale. Le rilevazioni geografiche sono ormai affidate alla fotografia aerea, il rischio è inserito nel tutto compreso dei pacchetti vacanza. Quando Hedin muore, nel 1952, un mondo che ancora si sta leccando le ferite dell’ultimo conflitto pare nemmeno accorgersi della sua scomparsa.

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Riflessioni

Sven o della solitudine 47Impostando questo pezzo avevo in mente di riassumere in tre o quattro paginette la vita e le avventure di Hedin, e di concentrarmi poi soprattutto sulle riflessioni che ne scaturivano. Non è andata così, naturalmente. So che sta diventando quasi una formula di rito, dal momento che non riesco mai a contenere la mia logorrea, ma nel caso di Hedin va detto che la sua esistenza è stata talmente ricca e movimentata che a costringerla in un centinaio di righe si rischiava di perderne le caratteristiche peculiari, l’intensità compulsiva e la determinazione quasi disumana che l’hanno governata. Qualcuno ha scritto che Hedin ha vissuto una vita così piena di avventure e fughe che il solo leggerne è estenuante. Effettivamente, se ne esce frastornati.

In più, all’epoca, e mi riferisco soltanto a un paio di anni fa, non era dato rintracciare in Italia non solo una biografia attendibile del personaggio, ma neppure una trattazione di sintesi, a livello ad esempio di enciclopedia digitale. Avevo letto l’unico suo libro tradotto in italiano negli ultimi settant’anni e avevo poi rinvenuto solo articoletti sparsi su vari blog, recensioni di libri suoi pubblicati un secolo fa e difficilmente rintracciabili persino nel commercio in rete, brevi interventi spesso clonati in successione, dai quali necessariamente usciva mortificata la complessità del personaggio, ma soprattutto scaturivano delle immagini polarizzate sul tutto negativo o sul tutto positivo, e una fastidiosa confusione di date, luoghi e avvenimenti.

Ho pensato allora che avrei potuto riempire sia pure parzialmente un vuoto, come Hedin faceva con gli spazi bianchi delle carte, condensando in una misura divulgativa la parte essenziale della biografia, o almeno quella che a me più interessava, e ripristinando la correttezza cronologica e geografica che avevo trovato invece quasi sempre sacrificata.

Nei due anni trascorsi prima che mi risolvessi a riprendere in mano il progetto molta parte di quello spazio bianco è stata altrimenti riempita. È stato ad esempio ripubblicato col titolo La via della seta, (Iduna 2121), il diario tenuto da Hedin durante la quarta spedizione; ma soprattutto è uscita da pochi mesi, per le edizioni Agorà (2023) una biografia dal titolo Nel cuore dell’Asia. Sven Hedin 1869 -1952, scritta da Marcello di Martino.

Tutto questo avrebbe potuto indurmi a ritenere ormai obsoleto e inutile il mio lavoro, non tanto quello di ricerca ma senz’altro quello di scrittura. Considerando però che Agorà è un’editrice ultracattolica, specializzata negli “studi tradizionali”, e che Di Matino ne è la punta di diamante, ho fiutato dove andava a parare l’operazione, e ho pensato che una versione dei fatti molto più stringata e povera, ma anche molto più laica, poteva avere un senso. Anche perché, con l’aria di restaurazione che circola, temo che nei confronti di Hedin, come di molti altri, stia partendo una campagna di “riabilitazione” tutta intesa a riproporre “valori forti” di infausta memoria. A ciò si aggiunge la consapevolezza che ben pochi tra i frequentatori del sito andranno a leggersi una biografia di duecentottanta pagine, e che quindi un qualche significato di prima informazione il mio lavoro lo conserva.

Chiarito dunque che la biografia di Sven Hedin è nata come pretesto, e che questo schizzo non ha ambizioni di primazia o di riscoperta, vengo finalmente alle riflessioni cui accennavo sopra.

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Compromesso col nazismo

Nella narrazione biografica ho solo accennato alle simpatie manifestate da Hedin per il nazismo, e al fatto che tale atteggiamento ne ha determinato la “damnatio memoriae”, iniziata quando ancora era in vita e proseguita postuma. La faccenda è però un po’ più complessa. Intanto è necessario chiarire da cosa nascevano e fin dove si spingevano queste simpatie.

A rigor di termini Hedin non è mai stato un nazista: non solo perché non si è mai affiliato ad alcuna organizzazione politica di quella matrice, in patria o fuori, ma perché le sue simpatie andavano piuttosto alla Germania in sé, alla sua gente, alla sua cultura (come ha dimostrato già durante la prima guerra mondiale), che al nuovo corso impresso dal regime hitleriano.

Sven o della solitudine 49Hedin era un conservatore, un legittimista intriso sino al midollo di lealtà monarchica, un cristiano tradizionalista, e dopo la rivoluzione d’Ottobre era diventato anche un acceso anticomunista. Nel suo filonazismo non c’era alcuna componente ideologica (le idee di Hedin erano piuttosto elementari, oltre che molto radicate) ma solo l’individuazione di un comune nemico. Durante il primo conflitto aveva inneggiato agli imperi centrali come baluardo contro l’espansionismo zarista, che con le sue pretese sul Baltico minacciava la libertà e la sovranità della Svezia, e aveva caldeggiato per gli stati scandinavi una politica di riarmo: ora vedeva i bolscevichi muoversi in continuità con quel progetto di espansione, e salutava in Hitler l’unico vero loro avversario.

Condivideva certamente anche molto dello spirito superomistico, della concezione agonistica della vita, del richiamo alle mitologie nordiche: ma da cristiano fervente rifiutava il paganesimo nazista di fondo, e da legittimista lo sconvolgimento dell’ordine sociale tradizionale che la “rivoluzione” nazionalsocialista almeno ufficialmente promuoveva. C’è però un’ulteriore, fondamentale dato di fatto che rende ambiguo il suo rapporto col nazismo: Hedin aveva sangue ebraico nelle vene, e non solo non se ne vergognava, ma lo rivendicava anche: “Nel mio sangue ogni sedicesima goccia è di origini ebraiche. Io amo questa sedicesima goccia e non voglio assolutamente rinunciarvi”. Questo lo ha portato quindi a criticare ripetutamente la legislazione antiebraica prima e le persecuzioni poi. Da parte loro i nazisti, Hitler e Himmler in primis, ma anche Goebbels, ciascuno per motivi suoi, fingevano di ignorare quelle origini, un po’ perché l’immagine di Hedin era stata imposta e sfruttata a livello propagandistico ed era difficile a quel punto disfarsene, un po’ perché l’ammirazione per Hedin, soprattutto da parte del primo, era sincera.

Quando le critiche diventano troppo esplicite, però, si sceglie la soluzione di “silenziarle”. Già nel 1937, ad esempio, Hedin scrive un libro (Deutschland und der Weltfrieden – La Germania e la pace nel mondo) nel quale accusa le potenze occidentali di fomentare il conflitto, ma chiama in causa pesantemente anche il governo tedesco, soprattutto per le sue campagne antireligiose, antisemite e contro la libertà della ricerca scientifica. Di fronte alla richiesta del segretario di stato Walther Funk di eliminare le parti critiche, così risponde: “Quando abbiamo discusso per la prima volta il mio progetto di scrivere un libro, ho affermato che volevo solo scrivere oggettivamente, scientificamente, possibilmente criticamente, secondo la mia coscienza, e tu lo consideravi del tutto accettabile e naturale. Ora ho sottolineato in una forma molto amichevole e mite che l’allontanamento di illustri professori ebrei che hanno reso grandi servizi all’umanità è dannoso per la Germania e che questo ha dato origine a molte proteste contro la Germania all’estero. Quindi ho preso questa posizione solo nell’interesse della Germania.

Sven o della solitudine 50La mia preoccupazione che l’educazione della gioventù tedesca, che altrimenti lodo e ammiro ovunque, sia carente in questioni di religione e dell’aldilà deriva dal mio amore e simpatia per la nazione tedesca, e come cristiano considero mio dovere dichiararlo apertamente e, certo, nella ferma convinzione che la nazione di Lutero, che è religiosa in tutto e per tutto, mi capirà.

Finora non sono mai andato contro la mia coscienza e non lo farò neanche adesso. Pertanto, non verranno effettuate cancellazioni”.

E infatti, il libro verrà pubblicato solo in Svezia.

Questo accade prima dell’inizio delle deportazioni e della creazione dei campi di sterminio.

Dopo lo scoppio del conflitto Hedin mantiene i suoi contatti, è in corrispondenza con Hitler, cui dedica un’intervista ancora nel 1939, e nel 1942 scrive L’America nella battaglia dei continenti, dove sostiene che responsabile dello scoppio della guerra è il presidente americano Roosevelt e che le origini del conflitto sono da imputare all’iniquità del trattato di Versailles, e non all’aggressività tedesca. Hitler sentitamente ringrazia.

Sven o della solitudine 51Ora, a mio giudizio, sortite di questo genere sono da interpretare tenendo in considerazione che Hedin ha ormai quasi ottant’anni, vissuti peraltro intensamente, che è animato da sempre da una fortissima ambizione e che certe debolezze con l’età si accentuano (pochi anni prima della morte, isolato e quasi cieco, vantava ancora di essere l’autore svedese più tradotto in altre lingue), per cui non sa sottrarsi alle lusinghe che la propaganda nazista continua a propinargli, assegnandogli premi, onorificenze, lauree honoris causa. Come giustificazione è senz’altro debole, ma all’atto pratico il suo atteggiamento non è molto lontano da quello degli innumerevoli pacifisti senza se e senza ma, sul tipo di Bertrand Russell, che sino a conflitto inoltrato sostenevano la necessità di mantenere aperto il dialogo con Hitler, o del partito comunista inglese, il cui giornale, il Daily Worker, scriveva ancora nel 1940 che la guerra era un pretesto “per schiacciare sotto il peso della macchina bellica imperialista anglo-francese milioni di sindacalisti”. O dei molti che, tanto in Inghilterra (a partire dall’ex-sovrano, Edoardo VIII) quanto in Francia (compresi i numerosi socialisti che collaborarono col governo di Vichy), simpatizzavano apertamente col regime nazista.

La differenza sta semmai nel fatto che Hedin ha usato tutti i suoi contatti e il suo prestigio presso le alte sfere del regime per sottrarre alla deportazione e allo sterminio diversi ebrei e prigionieri politici svedesi, prodigandosi spesso con esito positivo e salvando la pelle ad un sacco di gente. E comunque, in nessuna occasione ha avallato o peggio ancora favorito questa infamia, come dimostra il passo della lettera a Funk che ho riportato.

Ho voluto anche verificare se Hedin abbia dato un qualche apporto diretto all’elaborazione del pensiero nazista, se sia cioè possibile imputargli, al di là di non averne preso decisamente le distanze anche quando ha cominciato a rendersi conto della deriva criminale alla quale questo conduceva, di aver fornito qualche spunto ideologico che non fosse genericamente il modello del superuomo (alla maniera, per intenderci, di D’Annunzio col fascismo). L’ho fatto andando a riprendere i testi più autorevoli sulle origini culturali del terzo reich (Mosse) o quelli più specifici relativi alle sue componenti magico-esoteriche (Galli): ebbene, in nessuno di questi studi compare, nemmeno in una semplice citazione in nota, il nome di Hedin.

Sven o della solitudine 52A fronte di tutto questo, colpisce ancor più la diversità del trattamento riservato ad Hedin rispetto a quello usato nei confronti di altri personaggi, compromessi quanto e più di lui coi regimi totalitari. Un caso esemplare è, proprio per l’Italia, quello di Ardito Desio: esemplare per i molti tratti in comune dell’attività dei due protagonisti e per la differenza negli esiti e nella valutazione storica. Pochi mesi fa è passato in televisione, sul canale culturale della RAI, un documentario biografico su Desio, morto alla ragguardevole età di 104 anni, nel quale si ricordavano tutti i successi e i meriti dell’alpinista-esploratore, ma si glissava elegantemente sugli aspetti più oscuri delle sue vicende, prima e dopo la seconda guerra mondiale. Grande amico di Italo Balbo, il nostro aveva precocemente aderito al fascismo, ed era diventato la spalla del fascistissimo presidente del CAI, Angelo Manaresi, nell’opera di asservimento del sodalizio al regime; più o meno come era accaduto in Germania, con l’aggravante che là la politicizzazione era stata pressoché spontanea, coincideva con lo spirito alla Lammer che informava l’etica alpinistica tedesca del primo novecento, mentre in Italia era stata più contrastata, imposta ad una maggioranza di alpinisti tutt’altro che ansiosi di intrupparsi (e quindi aveva comportato anche delle esclusioni e delle discriminazioni).

Nel dopoguerra, senza aver mai pronunciato una parola di dissociazione dalla sua militanza fascista, Desio ha mantenuto tranquillamente tutti i suoi incarichi e i suoi titoli “accademici”, nonché le sue entrature politiche, tanto da essere designato a capo della spedizione che ha portato nel 1954 alla conquista del K2. In questa veste Desio, che gli altri componenti il gruppo chiamavano “il ducetto”, ha brigato per escludere Riccardo Cassin, il più forte alpinista italiano del momento, e l’unico che avrebbe potuto fargli ombra, e Cesare Maestri, e non solo ha pilotato l’ascesa in modo da farla compiere a due suoi fedelissimi, ma l’ha poi raccontata, unico autorizzato per contratto a farlo, in modo da mettere in cattiva luce colui che alla fine l’aveva resa possibile, Walter Bonatti. E malgrado le proteste di quest’ultimo la verità sull’intera vicenda è stata ristabilita ed accettata dal CAI stesso solo cinquant’anni dopo, quando tutti i protagonisti erano ormai scomparsi. Ancora nei primi anni Novanta è stato poi chiamato ad inaugurare la “Piramide”, un laboratorio per ricerche ad alta quota collocato a 5.050 metri ai piedi dell’Everest.

La cosa non sorprende, e il caso è tutt’altro che isolato (si pensi agli antropologi e agli etnologi del regime, come Giuseppe Tucci e Giuseppe Cocchiara), se si considera quali furono gli esiti (e le reali motivazioni) della sciagurata amnistia Togliatti. Ma conferma come nel nostro paese la memoria sia particolarmente corta, e più in generale come chi è davvero in buona fede abbia sempre maggiori difficoltà a far valere gli argomenti in sua difesa.

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Razzismo

Tornando a Hedin, gli è stato contestato anche un atteggiamento fortemente intriso di razzismo, e probabilmente solo il fatto di essere stato oscurato già settanta anni fa gli ha fino ad oggi evitato di entrare nelle liste di proscrizione della “cancel culture” (almeno per quanto riguarda l’Italia). Anche rispetto a questa accusa occorre intenderci. È indubbio che nei libri di Hedin, ad esempio in Dalla Persia Dalla Persia all’India attraverso il Seistan e il Belucistan (Treves 1912) si possa trovare tutto il materiale che si vuole per attribuirgli dei pregiudizi. Hedin è infastidito dal carattere poco affidabile, dalla scarsa puntualità, dall’indolenza, dalla suscettibilità rancorosa delle popolazioni mediorientali con le quali viene a contatto. Ogni occasione di confronto sembra testimoniare la superiorità dell’occidentale: ma è da dire che l’occidentale è quasi sempre e solo lui, quindi si tratta di una superiorità personale, piuttosto che etnica. E, soprattutto, di una superiorità culturale, e non biologica.

Diverso però è il discorso se si accusa Hedin di aver fornito delle pezze d’appoggio al delirio nazista sulla ricerca della culla della civiltà iperborea, ovvero alla costruzione della “tradizione” ariana di Thule. Come ho già detto, Hedin non fu direttamente implicato nelle spedizioni tibetane promosse da Himmler, e da nessuna parte ho trovato traccia di suoi accenni ai miti di Sahamballa, o di Agarthi, o del Re del Mondo. La sua ortodossia luterana lo salvava dalle suggestioni della Società Teosofica, così come dall’Ariosophia di Lanz von Liebenfels (capostipite dei rettiliani!), che veniva invece abbracciata da fior di intellettuali “progressisti” nordeuropei come August Strinberg (col quale Hedin ebbe una annosa contrapposizione a proposito del riarmo svedese). Direi piuttosto che con le sue descrizioni estatiche dei panorami himalayani, con le loro trasposizioni sulla carta o sulla tela, hanno anticipato e incoraggiato le esperienze compiute negli anni venti, sulla sua scia, da altri ricercatori nel cuore dell’Asia della terra perfetta: personaggi come Nicholas Roerich, artisti-alpinisti-esploratori e indagatori spirituali.

Sven o della solitudine 54Che la superiorità dell’uomo bianco – diciamo pure, nell’accezione corrente ai primi del Novecento, “dell’ariano” – venga data quasi per scontata, non mi sembra un tratto attribuibile nello specifico ad Hedin. Tutti o quasi gli ambienti culturali occidentali, a partire da quello scientifico e a dispetto della lezione di Darwin, erano intrisi di questa concezione. Non erano solo Kipling o gli epigoni di De Gobineau, Chamberlain e Vacher de Lapouge a condividerla. Esploratori, antropologi, filosofi, scienziati, e persino i rappresentanti del pensiero socialista, in misura più o meno esplicita, l’avevano fatta propria (rileggetevi i romanzi di Jack London, o i saggi di Proudhon, o il dibattito sull’immigrazione al congresso mondiale della Seconda internazionale di Stoccarda, nel 1907). Le voci dissenzienti erano ben poche. Una di queste, quella di Orwell, al solito diretto e senza peli sulla lingua, denunciava a più riprese il razzismo sotterraneo del socialismo inglese.

Ma su questo tema mi spingerei anche oltre. L’idea di considerare “diversi”, diciamo pure “inferiori”, gli appartenenti ad altri popoli, ad altre culture, ad altre religioni, di per sé non è razzismo. È una forma di pensiero che appartiene a qualsiasi popolo (dagli Inuhit, termine che appunto sta a designare “gli uomini”, in contrapposizione agli altri, che non sono considerati tali, fino ai Cinesi, ai Giapponesi, ai Tibetani, persino ai Maori e ai Boscimani). In queste classificazioni l’idea di un’origine biologica diversa magari non è esplicitata, ma è spesso riconoscibile sotto i più ingegnosi travestimenti mitologici. E piaccia o meno, è sempre stato così. Già Erodoto scriveva a proposito dei Persiani: “Loro stessi si considerano in tutto superiori a chiunque altro nel mondo, e concedono alle altre nazioni un certo numero di buone qualità che diminuisce in base alla distanza, il più lontano essendo a loro dire il peggiore”.

Sven o della solitudine 55Hedin in fondo sembra comportarsi allo stesso modo, ma usando criteri di valutazione molto pragmatici: durante le prime spedizioni, ad esempio, nella sua gerarchia vengono per primi gli aiutanti cosacchi, considerati i più affidabili (e con ogni probabilità erano davvero tali). Più tardi, quando lavora con i cinesi, ne apprezza la volontà e l’infaticabilità, mentre rileva lo scarso spirito d’iniziativa (ma spiegandolo con una millenaria abitudine alla sottomissione). Sono quel tipo di giudizi che ciascuno di noi può ascoltare da chi ha dimorato all’estero, foss’anche in quel Nord-Europa dal quale Hedin proveniva, senza che debbano necessariamente essere letti in una qualsivoglia chiave razzista. D’altro canto, l’idea di una “impurità” congenita all’uomo bianco è diffusissima presso le popolazioni arabe e quelle asiatiche in genere. Per questo, quando lo stigma del razzismo è applicato solo agli occidentali, si dà corpo ad una grandissima ipocrisia. Diventa una sorta di razzismo alla rovescia. Se davvero si vuole la “correttezza” politica è necessario applicare gli stessi metri a tutte le situazioni, chiaramente avendo presenti le singole condizioni storiche.

Neppure si può imputare come colpa specifica ad Hedin di aver cinicamente e sconsideratamente sacrificato alcuni dei suoi compagni nel corso delle spedizioni. Certo, sosteneva che esiste una differenza tra “morale comune” e “morale geografica”, ed è facile capire cosa intendesse, e quale praticasse. Ma quella morale l’applicava prima di tutto a se stesso, e si poneva come parametro: esigendo moltissimo da sé, aveva di conseguenza aspettative esageratamente alte rispetto al comportamento degli altri. Intanto va detto che in ogni occasione Hedin si è premurato di incontrare e di risarcire almeno economicamente le famiglie dei suoi aiutanti più sfortunati (pratica che può apparire ovvia, ma che a quanto mi risulta era poco diffusa presso i suoi colleghi): e comunque nella storia delle esplorazioni e delle conquiste le cose hanno sempre funzionato così, da Alessandro Magno alle spedizioni alpinistiche più recenti. Il fatto che i suoi compagni di avventura (e di sventura) fossero sempre degli asiatici non rende diverso il suo operato da quello degli alpinisti che salgono oggi in Himalaya con gli sherpa e che un tempo salivano sulle Alpi con le guide valligiane.

Aggiungo che Hedin era tutt’altro che indifferente alla sorte dei suoi uomini. Tutto il sessantesimo capitolo di Transhimalaya è dedicato alla morte e ai funerali di Muhamed Isa, il suo fedele capo carovana stroncato da un colpo apoplettico, e da esso trapelano un dolore e una partecipazione tutt’altro che di circostanza, comunicati ai compagni con uno stringato e bellissimo discorso funebre. Il capitolo si conclude così: “Quando ho guardato fuori dalla mia tenda, i miei occhi sono stati attratti dalla tomba oscura sulla sua collina. Sembrava come se la tomba ci tenesse stretti, anche se desideravamo allontanarcene. Tutto era tetro e lugubre; ci è mancato Muhamed Isa, e la sua assenza ha causato un grande vuoto. Ma la vita va avanti, come al solito”.

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Spettacolarizzazione

A questo punto vorrei però fosse chiaro che non ho assunto la difesa d’ufficio di Hedin. Non sono mosso da quella simpatia immediata che nei confronti di altri personaggi mi ha indotto ad accettarne e minimizzarne limiti e difetti. Come già premesso, ho scoperto Hedin troppo tardi per farne un modello e sviluppare la voglia di emularlo. Per quanto ho capito dai suoi scritti non era solo ostinato e coraggioso sino all’incoscienza, ma era anche un vanesio ambiziosissimo, dotato di una buona dose di arroganza: tutti tratti caratteriali che in fondo non si contraddicono. Inoltre personifica perfettamente la transizione ad una età caratterizzata dal consumo e dallo spettacolo.

Hedin era un abilissimo venditore di se stesso: basta vedere gli innumerevoli ritratti fotografici che lo rappresentano bardato nelle fogge orientali più diverse, già pronti per diventare dei poster. È riuscito ad accreditare l’immagine di un esploratore solitario in un territorio inesplorato e ostile, quando in realtà era sempre accompagnato da un nugolo di assistenti, e batteva spesso zone che già erano conosciute, anche se non mappate. Ha sapientemente giocato nella sua narrazione sul “sensazionalismo”, combinando la descrizione scientifica della struttura e della fisionomia del paesaggio con le emozioni da questo indotte, lo stupore di fronte a panorami mozzafiato (“uno spettacolo che fa rimanere ammutoliti, così affascinante che quasi ci dimentichiamo di smontare”), la vertigine indotta dalle altitudini (“sembrava che il terreno solido fosse giunto al termine, lo spazio insondabile che si spalancava sotto e davanti a noi”), l’accelerazione cardiaca oltre una certa quota (“il cuore batte come dovesse scoppiare”), il gelo che aggredisce ogni parte del corpo (“prima che io abbia fatto la mia osservazione e guardato l’orologio, la mia mano sinistra è morta”). Racconta gli spazi con modalità quasi cinematografiche (d’altro canto, appena potrà, lo farà direttamente con la macchina da presa) e li rappresenta poi secondo il modello dei diorami scenografici, delle panoramiche a trecento sessanta gradi che erano state rese popolari da Albert Smith mezzo secolo prima con i suoi “spettacoli” alpini.

Era a tutti i titoli un imprenditore, costantemente a caccia di sponsor per le sue imprese, né più né meno come ogni alpinista o qualsiasi altro sportivo professionista odierno. E a tal fine coltivava tanto l’ambizione del “primato”, l’essere il primo ad avere visto certi luoghi (“orgoglioso e felice di sapere che sono il primo uomo bianco a penetrare in questo deserto”), calcato certe montagne, scoperto le tracce di antiche civiltà, quanto la sindrome del possesso: “La parte in cui mi trovo ora era sconosciuta, e ha aspettato la mia venuta per un milione di anni”. Oppure: “Sul passo Sur-La fui pervaso da un indescrivibile senso di soddisfazione. Mi sentivo un potente sovrano nel suo stesso paese”. In questo senso è stato anzi un anticipatore.

Sven o della solitudine 57Ma, detto questo, non posso negare che la lettura delle sue opere sia ancora affascinante, almeno per chi come me si nutrirebbe esclusivamente di diari e resoconti di viaggi. La sua “spettacolarizzazione della natura” non è solo ruffiana, mirata a giocare sull’economia emotiva dell’elevazione per creare scenografie degne delle imprese dell’eroe: deve invece molto alla lezione di Humboldt, che aveva introdotto un secolo prima la combinazione della descrizione razionale e scientifica con le esperienze del sublime, e insistito sulla necessità di guardare dall’alto il paesaggio per cogliere da un unico punto di vista le proporzioni e le strutture della natura. Il mondo per Humboldt è un insieme integrato, mosso da forze interne; la natura è collegata in una catena indissolubile. C’è insomma l’idea che tramite la vista dall’alto lo spazio diventa comprensibile, riconducibile ad un quadro razionale e, naturalmente, dominabile. Quando si aggira per le valli o nei deserti o nelle paludi Hedin confessa spesso di sentirsi come “in un labirinto senza speranza”, disegnato da montagne e attraversato da corsi d’acqua dei quali non si capisce l’origine e non si identifica il corso: ma una volta in alto tutto diventa chiaro, può “cogliere con un solo sguardo un enorme blocco di crosta terrestre”: “l’occhio raggiunge con la massima chiarezza le distanze estreme, solo l’orizzonte erige un confine per il visibile […]. L’intera terra giace ai miei piedi”.

E ancora: l’insistenza sui disagi e sui pericoli affrontati, la rarefazione dell’aria, le temperature atroci, le membra congelate, le tempeste di neve o di sabbia, la sete, la fame, la fatica, l’ostilità dei nativi, servono a marcare la sua distanza dai “geografi da poltrona o da salotto”. Ci tiene a sottolineare sarcasticamente che “raramente le scoperte geografiche vengono fatte a casa”, che lui ha lavorato tramite l’osservazione diretta sul posto, e che questa, oltre a procurare dati scientifici, induce anche una componente emotiva che sottrae la geografia all’aridità. È geografia anche il sudare, soffrire, conquistare, godere un panorama.

Insomma, anche se probabilmente non lo avrei voluto come compagno di avventura – un criterio di valutazione “a pelle” che è sempre stato mio, sin dall’infanzia –, al contrario ad esempio di un Humboldt, che pure era vanesio anche lui, ma molto onesto nell’attribuzione dei meriti e delle responsabilità, o di un Antonio Raimondi, o di un Carlo Vidua, tutto questo non mi impedisce di pensare che la “rimozione” di questo personaggio sia ingiustificata, senz’altro per quanto concerne lo specifico della storia delle esplorazioni, ma anche perché gli vanno riconosciuti altri pregi, a partire da quello della scrittura. Non mi sono mai stancato a leggere i suoi libri – e si tratta in genere di tomi poderosi – soprattutto perché mi sono abituato a riconoscere in essi una sotterranea ironia, che emerge sporadicamente: non quella inglese, voluta e calcolata, ma quella spontanea dettata dalla stranezza di certe situazioni e di certi rapporti. Mi riferisco ad esempio a dialoghi come questo, che si svolge tra Hedin e il suo assistente mentre navigano col battello portatile sul lago Manasarowar:

“Ci aspetta una tempesta”, dissi piano.

“Allah è vicino a noi”, rispose Shukkur Ali altrettanto calmo.

“Rema e arriveremo prima che le onde siano alte.”

“Se giriamo direttamente verso la riva, Allah sarà più vicino”, suggerì Shukkur Ali.

“No invece, non cambieremo rotta, andremo dritti alla nostra meta. “

In quattro battute è riassunta la dinamica di un sodalizio non paritario, e tutto il mondo che sta alle spalle dei due protagonisti: ma anche la calma, di fronte al pericolo imminente, che li unisce.

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Solitudine e sensibilità

L’altro aspetto per il quale tutto sommato il personaggio Hedin, se pure non mi appassiona, certamente mi intriga, sta nel senso di solitudine profonda che traspare dalla sua narrazione. La coazione a fare, camminare, misurare, esplorare, non sembra essere volta solo a riempire degli spazi bianchi geografici, ma anche a sopire una sensazione di vuoto interna, proveniente da aree deserte dell’anima e scaricabile solo cancellando quelle delle mappe. In realtà avviene esattamente l’opposto. Ogni volta che si sofferma, e lo fa spesso, a meditare sul senso di ciò che sta facendo, ha un attimo di smarrimento, che soffoca subito evocando sia le vertigini, gli stupori, le eccitazioni legate alla scoperta che le trepidazioni adrenaliniche provocate dagli imprevisti, ma anche le soddisfazioni legate alla fama, ai riconoscimenti: e tuttavia, a dispetto della volontà di offrire di sé un’immagine scolpita nella roccia, incrollabile e padrona costantemente della situazione, quello smarrimento, quel dubbio rimangono nel profondo, pronti a riemergere. Forse questo lato del carattere di Hedin lo scorgo solo io, forse voglio sentire un po’ più umano uno che ha studiato per tutta la vita da superuomo: ma insomma, questa è l’impressione che Hedin mi ha trasmesso.

A convalidarla è anche il rapporto che Hedin ha con gli animali che lo accompagnano nelle sue avventure. Propongo due esempi, tratti sempre da Transhimalaya. “Tre animali erano spariti e uno di loro era il mio piccolo cavallo Ladaki bianco. Aveva lottato fino alla cima del passo, dove mi ero seduto a guardarlo invano, e poi si era sdraiato a morire. Mi aveva servito e portato fedelmente e pazientemente per un anno e mezzo, e fin dall’inizio non era mai mancato dal campeggio, e ora che l’ultimo dei veterani se n’era andato mi sentivo molto solo. Durante tutto il viaggio non aveva mai raggiunto un punto più alto di quello in cui morì; proprio sulla sella del passo le sue ossa sarebbero state sbiancate dalle tempeste invernali e dal sole estivo.

Sven o della solitudine 59Il mio fidato amico, il grande e peloso Takkar, mi guarda con occhi interrogativi. Non ama le ghirlande profumate dell’estate né la zona variegata dei prati. Ricorda la vita libera nelle pianure aperte, gli mancano i combattimenti con i lupi del deserto e sogna la terra delle tempeste di neve eterne. Un giorno lo vedemmo bere a una sorgente che versava la sua acqua lungo il sentiero, e poi sdraiarsi all’ombra fresca della foresta. L’aveva fatto tante volte prima, ma non dovremmo mai vederlo ripeterlo. Si voltò e galoppò verso il solitario Tibet. Si separò con dolore nel cuore dal suo vecchio padrone, lo sapevo … Ricevo ancora di tanto in tanto, tramite il signor Marx, saluti dal vecchio Takkar, che ha difeso così fedelmente la mia tenda quando ho viaggiato sotto mentite spoglie attraverso il suo paese”.

Aggiungo ancora un di paio di brevi considerazioni: una a tema storico, o se vogliamo di costume, e una di carattere personale.

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Omosessualità

La prima riguarda l’omosessualità di Hedin. e parte da un’affermazione che ho trovato su un sito polacco: “Hedin era omosessuale, condizione che anche in quella Svezia che oggi è all’avanguardia in fatto di diritti civili, all’epoca non era accettata”. Non era così solo in Svezia: si pensi alle vicissitudini del suo quasi contemporaneo Oscar Wilde, e di moltissimi altri meno famosi. Ma non è il tema dei diritti a interessarmi. Sono invece intrigato dal rapporto tra l’omosessualità e il viaggio, nello specifico quello di esplorazione. Tra le due cose parrebbe esserci una correlazione tutt’altro che casuale. Una gran parte degli esploratori o dei grandi viaggiatori di cui mi sono occupato o che semplicemente conosco è accomunata dalla condizione omosessuale, segnatamente nel diciannovesimo secolo e nella prima metè del ventesimo. Cito solo i primi nomi che mi vengono in mente, da Humboldt e Thesiger a T. H. Lawrence, Robert Byron, Henry Savage Landor, Otto Rahn, Ernst Schäfer, Bruce Chatwin, Norman Douglas, ecc…, ma anche a Freya Stark, a Ella Maillart, a Isabelle Ebherart. In percentuale, direi che siamo oltre la metà: e questo perché l’orientamento sessuale non è una variabile di scarso rilievo nella scelta di questo tipo di esperienze.

Il tema meriterebbe di essere approfondito, perché stranamente non sono a conoscenza di alcuno studio specifico, nemmeno parziale. Ma non è questa la sede. Mi limito invece a proporre la spiegazione più semplice e più immediata che mi sono dato del fenomeno. Questi uomini e queste donne cercavano senz’altro luoghi dove esprimere liberamente la propria sessualità e non essere costretti costantemente a simulare o a rinnegare i propri sentimenti, dove la loro attitudine e i loro atteggiamenti non fossero stigmatizzati o sanzionati: ma in primo luogo penso volessero allontanarsi da casa, e che a muoverli fosse spesso, oltre il desiderio di respirare un’aria meno soffocante, la paura di recare discredito alle famiglie.

Era senz’altro il caso di Humboldt, e credo lo stesso sia stato per Hedin. Per questo, anche in giro per il mondo hanno scelto la discrezione più totale. Del primo ho già ampiamente parlato, e rimando quindi al mio Humboldt controcorrente. Nel caso di Hedin però l’ermetica riservatezza del comportamento sessuale aveva anche una motivazione ulteriore, la difesa dell’enorme popolarità e dell’immagine di una virilità superiore che si era andata costruendo, soprattutto in Germania: nel Terzo Reich l’omosessualità comune era perseguita alla pari dell’ebraicità (con la quale veniva posta in correlazione, sfruttando il fatto che i suoi difensori erano soprattutto personaggi di origine ebraica come Magnus Hirschfield – fondatore durante il periodo di Weimar dell’Istituto per la ricerca sessuale). Questo mentre paradossalmente le elites nazionalsocialiste propugnavano l’Eros intervirile di von Liebenfels, un rapporto omoerotico con finalità iniziatiche e pedagogiche.

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Infine

Da ultima, un’impressione estemporanea. Quando ho letto per la prima volta Hedin, molto tardi, ho avuto l’impressione di averlo già conosciuto in precedenza. E in effetti l’avevo già incontrato sotto altre spoglie in diverse occasioni. Senz’altro nelle avventure di Tintin (il fantastico Tintin in Tibet) e di Gim Toro, nei libri di Salgari e in quelli di Rider Haggard e di Kipling, e più recentemente nei film di Indiana Jones. Era l’eroe archetipico nella sua versione più recente, un impasto di romanticismo e positivismo scientifico, sprezzante del rischio, consacrato ad un ideale superiore di conoscenza e di autoaffermazione, ma con molte concessioni alla nuova cultura popolare del consumo mediato e immediato di emozioni: ma di quella stirpe Hedin era anche l’ultimo discendente. La sua storia è quella di un mondo che ha cessato di esistere, e non solo perché le moderne tecnologie satellitari sono in grado di mappare dettagliatamente ogni angolo del pianeta. Ha cessato di esistere perché di quelle conoscenze, al di là del loro utilizzo a fini militari o economici, non importa più nulla a nessuno.

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Indicazioni bibliografiche

Libri di Sven Hedin

Il lago errante – Cierre, 1994

La strada della seta – Iduna, 2021

Dalla Persia all’India – Treves, 1912

Transhimalaya – MacMillan And Co., 1910

From Pole to Pole – Jazzybee Verlag, 2023

My Life as an Explorer – Greenpoint Books, 2022

Biografie di Sven Hedin

De Martino, Marcello – Nel cuore dell’Asia – Agorà 2023

Libri contenenti passi su Sven Hedin

Clark, Ronald, W. – La conquista del pianeta terra – Mondadori 1964

Handbury-Tenison, R. – I settanta grandi viaggi della storia – Logos, 2008

Dainelli, Giotto – La conquista della terra – UTET, 1954

Hale, Cristopher – La crociata di Himmler – Garzanti, 2006

Herrmann, Paul – Sulle vie dell’ignoto – Martello, 1961

Hopkirk, Peter – Diavoli stranieri sulla via della seta – Adelphi, 2006

Hopkirk, Peter –Il grande gioco – Adelphi, 2006

Newby, Eric – Il grande libro delle esplorazioni – Vallardi, 1976

Novaresio, Paolo – Uomini verso l’ignoto – White Star, 1991

Wright, H. – Rapport, S.– I grandi esploratori – Le Maschere, 1957

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[1] La Vega, una baleniera attrezzata a rompighiaccio, sulla quale era imbarcato come ufficiale anche l’acquese Giacomo Bove, impiegò quasi quattordici mesi per raggiungere Yokohama sulla rotta di nord-est partendo da Göteborg, dopo essere rimasta imprigionata nel pack per dieci mesi nello stretto di Bering,

[2] Ferdinand Von Richtofen è un innovatore della scienza geografica, nella quale fa rientrare anche gli aspetti storici, antropologici e culturali di un territorio. Questo rinnovamento è esemplificato soprattutto dal suo voluminoso studio sulla Cina, nell’ambito del quale conia il termine di “via della seta”. È tra l’altro zio del famoso aviatore ed eroe della Prima guerra mondiale Manfred von Richtofen, noto come “Barone rosso”.

[3] Schäfer dirige durante la guerra l’Istituto di Ricerche Centroasiatiche intitolato allo stesso Hedin, che compie esperimenti pseudo-scientifici sugli internati del campo di Auschwitz.

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