Viaggiando in rimoti paesi

Carlo Vidua e il destino della Virtù

Viaggiando in rimoti paesi copertina Quadernodi Paolo Repetto, 6 maggio 2023, vedi il Quaderno

Introduzione

Un’educazione casalese

I primi viaggi

Romantico controvoglia

Dalla Lapponia all’Equatore

Nella culla della civiltà europea

In America!

Verso ovest e verso sud

Nell’Estremo Oriente

Morire nelle isole della Sonda

Sulle consonanze

Una bibliografia commentata

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Introduzione

Un uomo che logorò la sua vita
viaggiando in rimoti paesi,
e morì nell’Oceanica.
(Vincenzo Gioberti a Pier Luigi Pinelli, 1834)

Leggetelo. È il libro di un saggio;
un po’ arretrato, come me.
(Gino Capponi a Niccolò Tommaseo, 1834)

Non ho un buon rapporto col Romanticismo italiano. Forse perché un autentico Romanticismo in Italia non c’è mai stato, e coloro che più gli si avvicinano in realtà ne hanno preso le distanze: Leopardi vale per tutti, e Manzoni è quanto di meno romantico riesca ad immaginare. Dal momento però che non può essere applicata al fenomeno una denominazione di origine controllata, ma soprattutto che le mie idiosincrasie non interessano giustamente a nessuno, mi limito a dire che come tutti i prodotti culturali d’importazione il Romanticismo è stato recepito da noi con le cautele e i distinguo e le ammortizzazioni del caso (vedi appunto Manzoni), sino a farne un’altra cosa, oppure si è ridotto ad una serie di dignitosissime cover degli originali nordici (vedi Berchet o D’Azeglio). Il che, intendiamoci, per quanto mi riguarda non implica alcun giudizio negativo o riduttivo: se I promessi sposi fosse stato scritto in uno stile più autenticamente romantico ne sarebbe uscito un feuilleton o una telenovela. Che poi mi ci riconosca o meno, è un altro discorso.

Eppure, a volerlo cercare, qualcuno che interpreta appieno quello spirito (per come, appunto, lo intendo io), negli intenti, nella pratica e purtroppo anche negli esiti, lo si trova. Personalmente l’ho trovato nella figura di Carlo Vidua, che ho incontrato troppo tardi perché potesse entrare nel mio ristrettissimo Pantheon, ma che si è senz’altro guadagnato il diritto di non finire nell’armadio degli accumuli inutili. Se proprio volessimo classificarlo entro gli schemi canonici, Vidua potrebbe essere ascritto alla scuola tedesca, a dispetto del fatto che la sua lingua madre fosse praticamente il francese: è apparentabile per molti più versi a Goethe e ad Alexander von Humboldt che a Chateaubriand (che pure amava particolarmente) e a Lamartine (che non amava affatto). Col che, chiudo le etichettature e passo al nostro protagonista.

La vita di Vidua è un emozionante romanzo di vagabondaggio, e proprio di questo voglio raccontare, del fuoco che ardeva nei suoi polpacci (e che fuor di metafora letteralmente glieli bruciò): cercando tuttavia di non trascurarne gli aspetti e gli interessi meno “avventurosi”, quelli che ardevano nella sua mente, a partire dalla politica (intesa in senso “globale”) sino alla linguistica, all’archeologia e alla musica. Nei limiti di questa breve presentazione cercherò dunque di dare spazio anche ad essi, anticipando, quando mi parrà il caso, quelle che dovrebbero essere considerazioni conclusive. Insomma, si sarà già capito che proverò a documentare il più possibile il Vidua “autentico”, ma che ne uscirà soprattutto l’idea che di Vidua mi sono fatto.

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Un’educazione casalese

Carlo Vidua nasce conte di Conzano, paesino a metà strada tra Alessandria e Casale Monferrato, nel 1785. Tanto per “contestualizzarlo”, nasce lo stesso anno di Manzoni (li separa una settimana). Troppo tardi dunque per partecipare, anche solo emotivamente, all’infervoramento per la rivoluzione e agli umori contrastanti del periodo napoleonico, e troppo presto per vivere con ardore giovanile i primi moti carbonari. Diciamo che arriva giusto in tempo a beccarsi in pieno l’ondata reazionaria.

Si spiega così quello che potrebbe apparire un suo “disimpegno”: Vidua non è disimpegnato, è piuttosto un “non allineato”, che non si riconosce in alcuno dei modelli politici del suo tempo. È invece intrigato dalla loro varietà, quella che va emergendo mano a mano che gli orizzonti europei si allargano e nuovi popoli e nuove istituzioni si affacciano alla ribalta. Inoltre è un provinciale, e come Leopardi vive tutta la giovinezza lontano dai grandi centri dove la politica la si fa e la cultura ha i suoi luoghi deputati: cosa che in genere, e alla sua epoca ancor più, concorre a far vedere le cose con maggiore distacco (e, oserei dire, anche con maggior chiarezza).

Sempre come Leopardi, ha un padre convinto legittimista, col quale lo scontro è inevitabile, anche se per motivi che poco hanno a vedere con le opinioni politiche. Pio Vidua è un conservatore prudente, che ha evitato di compromettersi col bonapartismo ma anche di rovinare i propri interessi opponendoglisi apertamente, e che ottiene nel 1814 la nomina a ministro degli Interni nel primo gabinetto della restaurata monarchia sabauda per meriti puramente cortigiani. Non si segnala per spirito d’iniziativa o per particolari capacità politiche: è solo un passatista arroccato in difesa del prestigio e del rango del proprio casato. Per questo si opporrà sempre testardamente alle ambizioni e alla natura dell’unico figlio maschio, dal quale si attende solo la continuità della stirpe. Fino a quando gli è possibile ne condiziona quindi pesantemente le scelte, costringendolo a studiare privatamente con precettori religiosi (non gli consente nemmeno di iscriversi all’università e gli compera una laurea vaticana) e a tenersi lontano dagli ambienti “pericolosi”. Con tutto ciò, credo che quest’uomo abbia amato sinceramente, anche al netto delle motivazioni dinastiche, un figlio che ai suoi occhi pareva cercare ogni maniera e ogni pretesto per scontentarlo.

Da parte sua il giovane Vidua non riuscirà mai ad emanciparsi del tutto dalla soggezione filiale: anche se da un certo punto in avanti farà ciò che vuole, arrivando sino alla rottura insanabile, vivrà sempre la propria ribellione con un pesante senso di colpa. Continuerà a considerare sino all’ultimo il padre il suo principale interlocutore (delle 286 lettere di Carlo raccolte e pubblicate da Cesare Balbo la metà sono indirizzate a lui), e cercherà costantemente di rabbonirlo e consolarlo informandolo degli incontri con le massime personalità e autorità in ogni angolo del globo, del rispetto portato al suo nome e di come in fondo egli stesso contribuisca a farlo conoscere nel mondo e ad onorarlo. E comunque, quanto alle restrizioni impostegli in gioventù, il giovane patrizio ne fa buon uso, perché oltre che nelle lettere e nel diritto si impratichisce nel disegno e nella musica, e si sfoga con la scherma, l’equitazione e la danza.

Diversamente da Manzoni, Carlo non ha una madre (l’ha persa a quattro anni) che gli spalanchi le porte dei circoli intellettuali più avanzati. Ha in compenso un nonno materno che è stato un grande viaggiatore, dal quale eredita la passione, sia per via genetica che attraverso le rievocazioni serali (ed erediterà poi anche i mezzi per coltivarla). Lui stesso racconta che ancora molto piccolo, avendo udito un giorno il nonno narrare degli antipodi che abitano l’altra faccia della terra, aveva cominciato a scavare in giardino per andare a conoscerli. Credo che questo episodio, se anche fosse inventato, aiuti a capire per quale motivo Carlo rimanga tutto sommato estraneo al movimento patriottico e costituzionalista nel quale saranno coinvolti tutti i suoi migliori amici: nutre una conservatrice diffidenza nei confronti delle cospirazioni carbonare, ma soprattutto ha orizzonti e ambizioni più vasti.

Queste ultime le manifesta sin dalla giovane età. La matrigna Elisabetta, attenta ai sentimenti del ragazzo indubbiamente molto più del padre, scrive che “covava un fuoco segreto sin dall’età di otto anni e solo l’affliggeva il pensiero di non aver forse l’ingegno da farlo”. Un ritratto perfetto dell’animo di Carlo. Un ritratto che torna a più riprese nel diario e nelle lettere di quest’ultimo: “Se non sono gettato in un tourbillon io non farò mai e poi mai niente […] io, a venticinque, ventisei anni, voglio qualcosa di buono o nulla”. E continuerà a ribadirle (e a rimpiangerle), sino all’ultimo: “Ho tardato troppo, ho dilungato, nulla lascio di finito, e questa fama che sarà od è vanità, ma il cui desiderio mi animò tutta la vita, non la potrò conseguire fuor di pochi amici o parenti che in quarant’anni saran finiti, nessuno saprà che ho esistito” scriverà poco prima di morire.

Dunque: dobbiamo immaginare un’infanzia e un’adolescenza tutt’altro che libere e spensierate, ma in realtà molto meno oppressive di quanto a posteriori Carlo le ricordi (arriva a definire a più riprese la villa di Conzano “un carcere”). Più di una volta, mentre sta dall’altra parte del globo, gli capiterà di confrontare i paesaggi e le atmosfere con quelli della sua adolescenza monferrina, di trovare questi ultimi sempre superiori e di provare nostalgia per il grande giardino e per le cavalcate e le passeggiate, anche notturne, nelle “selve” e sulle colline tra Casale ed Asti (“Malgrado la presenza di briganti e ladri”, sottolinea). Queste “uscite” sono già una manifestazione dello spirito avventuroso e un po’ avventato che lo caratterizzerà, nonché di una propensione al protagonismo, e sono comprensibilmente viste con una certa apprensione in famiglia. La sorella, in una lettera alla nonna, scrive: “Sapevo già, cara nonna, delle scappate che il nostro giovanotto ha fatto quest’inverno, da un lato ne ho piacere, perché il movimento e le scappate con qualche amico gli sono necessarie e giovano alla sua salute, poi se lui prende le cose sempre in maniera un po’ eccessiva mi pare lo si possa perdonare a causa della sua età, tutti i giovani sono così”. A quanto pare, così prigioniero poi non era.

La nostalgia per l’aria di casa è tuttavia ogni volta smentita, non appena rimette piede nel regno di Sardegna. Non lo infastidisce solo la pressione dei familiari, ma tutto il vuoto apparato di convenzioni nel quale la classe cui appartiene si muove, quelle che lui stesso definisce “coglionerie”. “La mia solita felicità mi abbandona solo quando voglio fare ritorno in Piemonte; pare, che qualche genio me ne volesse allontanare per forza. Se fossi ai tempi degli antichi greci crederei che v’è una divinità nemica che mi caccia lungi dal Piemonte, come Ulisse lungi da Itaca.”

Se si escludono comunque pochi casi, ad esempio quello di Foscolo, la sua educazione non è diversa da quella dei giovinetti suoi contemporanei di condizione nobiliare o agiata. Ed è comprensibile che nei ritagli di libertà dagli impegni di studio e dai rituali domestici il ragazzo abbia cercato di evadere a piedi o a cavallo nei dintorni, e almeno con la mente negli spazi più remoti. Con la differenza, rispetto agli altri, che di là non è poi più rientrato.

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Da Casale Monferrato, dov’è cresciuto, Carlo si trasferisce poco prima dei vent’anni con la famiglia a Torino. Lì frequenta i circoli letterari e politici “che contano”, stringendo amicizia particolarmente con Cesare Balbo, futuro patriota, ideologo (Le speranze d’Italia), storico e primo ministro del regno di Sardegna, nonché suo primo biografo. Con Balbo e coi rampolli di altre famiglie dell’aristocrazia torinese fonda un sodalizio (la Società dei Concordi), avente come scopo niente meno che il riscatto dell’Italia dal ritardo culturale in cui giace, e in particolare dalla soggezione, non solo politica, nei confronti degli occupanti francesi. Nel gruppo Vidua (che ha assunto il soprannome de “L’allungato”) mantiene una posizione defilata: da un lato è senz’altro una figura di riferimento, per la sua intelligenza e la sua erudizione, e anche per sua alfieriana intransigenza: dall’altro si riconosce solo sino ad un certo punto negli scopi della società, sia per una spiccata tendenza all’individualismo, sia perché convinto che occorra guardare oltre gli angusti confini della patria. La sua smania di viaggiare non sempre è compresa dagli altri affiliati, e questo creerà col tempo una crescente distanza.

Lo disturba anche il fatto che alcuni di loro ad un certo punto scendano a patti con quello che egli considera un invasore e un despota. Balbo stesso ad esempio accetta incarichi nell’amministrazione napoleonica a Firenze, e Carlo non esita a rinfacciarglielo. “Oserai tu entrare nella chiesa di Santa Croce? Non temerai l’ombre di quei grandi?” Quanto ad un personale impegno nella politica però è molto restio. Le sue simpatie vanno all’ala più liberale del movimento patriottico piemontese, impersonata da Santorre di Santarosa, piuttosto che a quella moderata facente capo a Balbo: ma nella sostanza, poi, dei destini politici del Piemonte gli importa solo fino ad un certo punto. Lo dimostra anche la scelta dei temi dai lui proposti e trattati nel corso delle adunanze dei Concordi: Pensieri sulla Gloria; Sopra il destino della Virtù; Sull’oblio in cui sono caduti alcuni uomini grandi, ecc…. La dimensione nella quale vuole dare senso e visibilità alla sua esistenza è ben altra.

Oltre a quella per i viaggi, la sua grande passione sono i libri. È un raffinato bibliofilo, ma non è mosso dal puro istinto collezionistico: la sua bibliofilia è sin dall’inizio finalizzata al disegno che va concependo. Dovunque arrivi si procura ogni possibile documento su qualsivoglia aspetto della vita politica, sociale, economica e culturale del paese, e spedisce poi il tutto in patria: nel corso dell’esperienza americana raccoglierà ad esempio oltre milletrecento volumi. Nelle lettere agli amici e ai famigliari ricorre costante l’ansia per le casse zeppe di scritti, oggetti d’arte, cimeli storici, inviate dai luoghi più impensati.

È anche un lettore appassionato e vorace, che rivendica e mantiene una forte autonomia di giudizio rispetto a quanto legge. È significativo, ad esempio, che sia un grande ammiratore dell’intelligenza di Joseph de Maistre, ma che non condivida affatto le idee espresse dal conte savoiardo ne Le serate di San Pietroburgo. O che adori le tragedie alfieriane, ma non esiti a deprecarne gli accenti anti-gerarchici e anti-religiosi. E lo stesso vale per l’Ortis.

Le sue letture sono sterminate: nella prima gioventù si nutre naturalmente, oltre che di Alfieri e di Foscolo, di Chateaubriand ma anche di Vico, dei classici della storiografia italiani e latini, degli illuministi francesi (e un po’ più tardi, quando avrà acquisito una sufficiente padronanza linguistica da quelli inglesi): in seguito si volgerà sempre più specificamente ad opere legate alle mete dei suoi viaggi, per preparare questi ultimi e per poi commentarli. Humboldt, naturalmente, e Ferguson, Gibbon, Montesquieu, Robertson, De Las Casas, ecc…

Come ho già accennato, tra i suoi amori c’è anche la musica. Questo gli è stato trasmesso soprattutto dalla nonna materna, ma in famiglia sono tutti appassionati, compreso il padre. È un ottimo esecutore, oltre che un discreto compositore. Scrive di lui Cesare Balbo: “Studiò la musica su varii strumenti e principalmente sul cembalo. Fece progressi grandi nell’ esecuzione e nell’accompagnamento, e tali poi nella composizione che non solo la musica sua corse il paese e l’Italia, ma egli ebbe il piacere navigando molti anni appresso tra i mari di Grecia d’udir risonare le sue melodie in quei climi così propizi”. Magari Balbo enfatizza un po’, ma pare davvero che il Vidua cembalista riscuotesse un gran successo nei palazzi e alle corti frequentati durante i suoi viaggi. Senza dubbio usava anche la musica come passepartout per entrare in confidenza con gli interlocutori che lo interessavano.

Viaggiando in rimoti paesi 05E sempre a proposito di amori, poco o nulla si sa di una sua vita sentimentale “attiva”. Il giovanile accenno ad una fanciulla morta prematuramente (che si chiamava Teresa, come la Teresa Fattorini di A Silvia) è molto generico, e più che da un moto di commozione sincera sembra dettato dalla moda romantico-sepolcrale dell’epoca: “Io mirava quei flutti: e come l’onda, mio dicevo tra me stesso, che vedo trascorrere e confondersi, ratto così passò la gentile donzella, e già sta per confondersi, o si confonde il suo nome nella notte del tempo, e le sue belle forme tra le altre ceneri del sepolcro […]” . Più tardi ironizza sul fatto che gli sia stato attribuito un innamoramento per una “ninfa sestrina”, chiarendo che: “Nessuna donna possiederà mai una parte del mio cuore. Conviene che questo sesso sia al servizio del nostro divertimento e delle nostre necessità, non che sconvolga l’anima”. Il che lo escluderebbe da ogni sospetto di romanticismo, e parrebbe condannarlo all’aridità sentimentale. Anche se poi, quando arriva il tempo dei bilanci, sembra provare rimpianto quel flirt appena accennato: “[…] ricorderò con dolore di aver seguito i tuoi suggerimenti, e di non aver tolto quella ninfa sestrina di cui nel 1813 ti feci già una sì vantaggiosa descrizione”.

In verità, l’ostinata resistenza che Vidua oppone al destino matrimoniale impostogli dal padre e dagli obblighi del suo status viene sempre da lui stesso intesa come una scelta non definitiva. “La sola ragione che mi indurrebbe ad abbandonare la libertà, che tanto apprezzo, sarebbe consolare mio padre che moltissimo rispetto, e che amo. Vedo dunque che alla fine per compiacerlo, finirò per rinunziare al genere di vita indipendente che finora ho goduto.” La sua opposizione non è ideologica, ma strategica. Ha pianificato la propria esistenza in funzione di un’opera che ne eterni la memoria, e questa opera suppone una conoscenza che può essere acquisita solo attraverso i viaggi. La passione per i viaggi, che in un’ottica del genere diventa strumentale, è tale che tutto di fronte ad essa passa in second’ordine. È l’unica cosa per la quale valga la pena ribellarsi e difendere le proprie scelte, e va vissuta sin a quando si regge. “Io voglio preparare alla mia età matura meno regrets che possa. Ne avrei certo se mi maritassi senza compiere il corso dei miei viaggi.” Una volta appagata – e l’appagamento può venire solo dall’aver completato il giro del mondo e dall’aver conosciuto tutte le civiltà possibili – al resto ci si può adattare di buon grado.

Può anzi essere la condizione indispensabile per tirare le somme e dedicarsi finalmente alla scrittura: “Ma per tutto questo ci vorrebbe tempo, tranquillità, ritiro e compagnia, e in questo inclino al parer tuo, compagnia di una donna, che assorbendo a sé l’affetto, non lo lasciasse più divagare. Hai ragione, è tempo di stabilirsi.”

Non fosse per la smania di muoversi, Vidua potrebbe dunque essere il perfetto protagonista dei salotti romantici torinesi, e permettersi anche il brivido della cospirazione. Tutto questo però non lo soddisfa: “Molte cose ci sono in questo particolare degne di attenzione, che non si possono o malagevolmente apprender dai libri; onde è necessario vederle ove sono, osservare come vengono poste in uso e qual effetto ne procede, per questo motivo i viaggi potranno servire di strumento efficacissimo, onde ampliare le idee e moltiplicare le cognizioni”.

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I primi viaggi

Vallo però a spiegare al padre, che lo vorrebbe sposato e avviato ad una carriera amministrativa o politica di alto livello e che tiene ben stretti i cordoni della borsa. Di fatto Carlo riesce a sganciarsi e ad allontanarsi più spesso da casa solo dopo i venticinque anni, quando comincia a godere di una rendita propria. “Io era dunque così sovranamente stufo di non far niente, di non avere nessuno scopo nella mia vita, così annoiato, senza alcuna speranza nemmeno di poter viaggiare stanti le difficoltà di mio padre, che mi saltò l’idea di partire da Torino, andare in qualche città lontana […].” Lo fa viaggiando nel 1810 per la prima volta fuori d’Italia, in terra francese, compiendo una sorta di pellegrinaggio nei luoghi petrarcheschi. Si porta dietro tutti i suoi pregiudizi nei confronti della patria del giacobinismo (“Più vedo questa Francia e più mi insuperbisco di essere nato italiano.”), pregiudizi che conserverà per tutta la vita, ma matura per Petrarca una vera adorazione. E soprattutto ha la conferma che il suo futuro non può essere che nel viaggio: “Trovo che l’agitazione dei viaggi, il moto, il cambiamento di oggetti, la varietà dei naturali e dei costumi delle persone che vi si incontrano, innalzano l’animo, fanno nascere delle riflessioni, vi tolgono molti pregiudizi e maniere di pensare, vi danno dell’esperienza di mondo, vi accostumano a parlar bene”. E infatti al rientro intraprende subito un lungo giro per l’Italia centrale. Percorre a cavallo tutta la Toscana e buona parte dell’Umbria, riempiendosi gli occhi di arte e di natura e il cuore di emozioni: ad esempio davanti alle selve di abeti di Vallombrosa, che “fanno parer vere le selve incantate dell’Ariosto”. Naturalmente tutto questo, anziché appagarlo, gli alimenta una irrequietudine e una voglia di fuga sempre maggiori.

È costretto però ancora per qualche tempo a mordere il freno, anche se ormai il bisogno di muoversi è diventato quasi un’ossessione: “Se non esco da quel circolo di Casale, Conzano e Torino languirò eternamente senza far nulla di buono”. Il primo vero strappo con la famiglia avviene nel 1813: dopo un lungo soggiorno in Liguria (dove conosce la “ninfa sestrina”, e tra una camminata e una cavalcata lavora a una storia di Firenze – poi perduta), alla fine dell’anno torna in Francia, passando per Ginevra e raggiungendo questa volta Parigi, in tempo per assistere alla caduta di Napoleone e all’occupazione della città da parte degli Alleati. La cosa non lo emoziona più di tanto, non ne parla quasi. Si potrebbe manzonianamente dire che “di mille voci al sonito / mista la sua non ha”. Si limita a commentare: “Quantunque questi avvenimenti siano degni di memoria, nondimeno se fossi io un Tacito preferirei a tutti gli argomenti e le scene che presentano quei giorni quello della condotta e dei sentimenti della nazione vinta; io non ne fui mai gran cosa ammiratore. Chi non è stato in Francia non può ben apprezzare, e poi chi non li ha veduti in questa occasione non può non conoscere in tutta la sua estensione quel misto di leggerezza e di eccesso, di sedizioso e di pieghevole, che non ne fa un popolo unico”. Col che, i francesi sono sistemati.

Questa volta ha deciso l’itinerario autonomamente, all’insaputa della famiglia (anche se di fronte al fatto compiuto il padre provvederà a finanziargli parte delle spese). E ne approfitta. Infatti non rientra, ma durante l’estate del 1814 si sposta in Inghilterra e in Irlanda, e passa poi in Scozia. Oltremanica constata i primi effetti della rivoluzione industriale sul paesaggio, sulle tradizioni, sui costumi e sui caratteri, e ne è disgustato. “Quel che non si sente più è la voce del Bardo. Né più si incontra la dolce ospitalità né la valorosa ferocia. Grazie a quelle malnate novità si sono aperte per ogni dove delle nuove strade, si sono costruiti dei ponti, si tagliarono i boschi. Invece dei famosi guerrieri si ritrovano dei grossi mercanti accorti nel loro interesse […].” In un viaggio successivo sarà invece positivamente colpito dalle istituzioni anglosassoni, soprattutto dopo aver assistito alla sobrietà di una seduta parlamentare. Per ora rientra infine attraverso Belgio e Olanda, ripassando nuovamente per Parigi e rinnovando il suo giudizio negativo.

Nel frattempo è assai cresciuto, e non solo intellettualmente. La descrizione fattane da un corregionale che lo ha incontrato a Parigi nel 1814 ci offre un sembiante ben diverso da quello rimandato dai suoi unici due ritratti esistenti. “[…] grandissimo di statura, ma cotanto magro che di più nol potea essere. La di lui fisionomia era veramente brutta, la pelle giallognola, la bocca squarciata, mostrando denti e gengive in pessimo stato, dimesso assai nel vestire, gonzo nel camminare e vi si aggiungeva la vista breve […]. Ma allorché parlava, era tanta la sua istruzione, tale la sua eloquenza, che tutto facea dimenticare l’orrido della sua presenza […]. Era erudito nelle lingue italiana, latina francese e inglese, e tutte le parlava con facilità e bella pronuncia. Era avido di apprendere le costumanze delle genti ove egli recavasi […].Era tutto originalità del modo suo di vedere e di giudicare […]. Al clavicembalo […] suonava con grande maestria e profonda espressione. Avea una voce perfida, ma la sapea modulare a cagionar diletto.”

Evidentemente i viaggi, soprattutto se affrontati come in questo caso con scarsità di mezzi, lasciano il segno. Sembra davvero il brutto anatroccolo: e il prosieguo del racconto, dove si parla di un suo brutale arresto a Le Havre per sospetto di spionaggio o di contrabbando, e di come il conte abbia atteso di essere portato davanti a un tribunale per palesare la sua identità e impartire una lezione di civismo alle autorità francesi, completa il quadro.

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Romantico controvoglia

La vera vita di Carlo Vidua, quella che a me interessa, comincia dunque proprio mentre si chiude in Europa la parentesi napoleonica. Non è solo una coincidenza. A chi come lui è assetato di gloria la cappa grigia della restaurazione chiude nel vecchio continente ogni orizzonte. Scrive a Cesare Balbo: “Credi tu che gl’istorici dei nostri tempi tra la folla dei nomi da tramandare ai posteri sceglieranno il mio? Mai no: fuori che una qualche circostanza rarissima attacchi il mio nome a qualche grandissimo avvenimento”. Cosa che oggettivamente non solo a Conzano, ma in tutto il Piemonte, per uno che oltretutto rifiuta di entrare nella guardia imperiale, è difficile attendersi. Per qualche tempo, tra il luglio 1815 e la primavera del 1818, torna dunque a muoversi tra Casale e Torino, mettendo mano anche alle osservazioni maturate nel primo viaggio; ma ha ormai chiaro ciò che vuole e già progetta mete lontane (nel mirino ci sono gli Stati Uniti, il Canada e l’America Latina). Coltiva pertanto le amicizie e le conoscenze che possono procurargli agganci e agevolare i suoi futuri spostamenti, si dedica alle studio delle lingue e delle storie, e comincia a maturare il disegno di una grande opera comparativa tra i vari sistemi politici di tutto il mondo, da fondarsi sull’esperienza diretta.

Con tutto questo non rimane estraneo al dibattito culturale acceso in Italia dal clima della Restaurazione, quello che contrappone i “classicisti” ai “romantici”. Vi partecipa anzi tempestivamente, stendendo nel 1816 (o forse già nel 1813) un discorso Dello stato delle cognizioni in Italia che anticipa non solo nei tempi, ma nei modi e nelle conclusioni, il leopardiano discorso Sullo stato presente dei costumi degli italiani, pubblicato otto anni dopo (nel 1824). Lo fa però a modo suo: sia perché sposta il discorso dal piano artistico-letterario e da quello politico all’analisi storico- antropologica, sia perché alla fine non pubblica il trattatello (che verrà dato alle stampe ad opera di Cesare Balbo solo dopo la sua morte, nel 1834).

Nel suo scritto Vidua imputa il ritardo accumulato dalla cultura italiana principalmente a tre fattori. Intanto la tendenza dei nostri intellettuali a oscillare tra l’imitazione pedissequa e idolatra dei classici, che si risolve in pura erudizione, e quella altrettanto acritica degli stranieri. Poi l’ignoranza diffusa tra le classi basse. A questo proposito più tardi scriverà: “Dobbiam confessare per nostra vergogna che in molte parti d’Europa e specialmente in Piemonte v’è molta minor proporzione di persone del popolo che sappian leggere che nelle Filippine e tra’ Cristiani delle Molucche”. Su questa ignoranza hanno fatto sempre leva le classi dominanti (nelle quali Vidua però non fa rientrare la Chiesa: le riconosce anzi una funzione civilizzatrice), usandola strumentalmente per il loro dominio, mentre “ormai la propagazione della lingua, la celebrità della letteratura, ed il vanto delle cognizioni sono divenute una maniera di acquistar reputazione, un titolo di gloria nazionale, uno strumento di potere”. Strumento da utilizzarsi nei confronti del popolo “ad addolcirne i costumi, ad affezionarlo alla patria e ad istruirlo nei rudimenti della religione, della lingua e dell’ agricoltura”.

Viaggiando in rimoti paesi 08Per intanto il primo dei problemi da affrontare è, secondo Vidua, l’assenza di una lingua comune, conseguenza di un desolante provincialismo: “Siamo più stranieri a noi stessi che agli altri: è cosa deplorevole che più differenza e opposizione di idee e di costumi vi sia tra l’una e l’altra delle nostre province e un’altra nazione europea o anche asiatica”. Questo nasce, oltre che dalle contingenze storiche (le diverse dominazioni che si sono susseguite sulla penisola), dal fatto che da noi la classe colta ha continuato testardamente e arrogantemente ad esprimersi in latino, salvo poi nel corso del Settecento volgersi al francese, allargando così sempre più la forbice culturale nei confronti degli altri ceti e non favorendo l’evoluzione dei diversi volgari verso un idioma comune. In realtà, gli esempi per la costruzione di una lingua condivisa esistono, arrivano da tutta la letteratura rinascimentale pre-barocca e possono costituire la base per mettere fine alle sterili dispute in difesa degli usi lessicali localistici. E una volta individuata la direzione, la lingua per Vidua deve essere difesa da un lato contro la “corruzione dei dialetti”, dall’altro dall’“infranciosamento”, dall’adozione di termini e costrutti stranieri che sono le crepe attraverso le quali si insinuano anche le perniciose idee d’oltralpe.

Ciò non implica assolutamente un atteggiamento di chiusura nei confronti delle culture straniere. Il ritardo nei loro confronti è evidente, e Vidua indica naturalmente come rimedio più efficace per ridurlo quello dei viaggi (citando tra l’altro come esempi proprio i fratelli Humboldt, un linguista e uno scienziato-viaggiatore): “Di due fratelli illustri in Prussica, un passava come ambasciatore dall’una ad altra corte d’Europa, mentre l’altro passava come dotto dall’una all’altra Cordigliera del Perù”.

Quanto alla mancata pubblicazione del suo piccolo trattato, Carlo la spiega poi in una lettera lamentando incertezze sullo stile e accampando la necessità di lasciar decantare lo scritto per qualche mese: ma la ragione vera è che ha altro per la testa. Ha superato i trent’anni, è uno spilungone alto più di un metro e novanta e in buona salute, possiede tutti i numeri e la preparazione di base per svolgere un lavoro scientifico serio, compresa la conoscenza di diverse lingue, antiche e moderne, sa conversare piacevolmente, perché sa porre le domande e soprattutto sa ascoltare le risposte, gode finalmente anche di una discreta indipendenza economica per aver ereditato dai nonni materni: non può perdere altro tempo rispetto ai suoi progetti. E, non ultimo, vuole sottrarsi il più possibile al controllo del padre.

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Dalla Lapponia all’Equatore

Per questo continua a scalpitare, e alla fine di aprile del 1818 s’incammina nuovamente per Parigi e Londra, questa volta in compagnia dell’amico Alessandro Doria e di un domestico, Leonardo. È riuscito “dopo qualche difficoltà” a strappare l’assenso del padre – o almeno così lui dice in una lettera alla matrigna, alla quale chiede ora sostegno, e non solo morale: “Il desiderio mio di istruirmi, di non perdere l’occasione di essere con un amico, i grandi vantaggi e per conto della sicurezza e anche pel caso di malattia che derivano dall’essere in buona compagnia, la considerazione che se ritardo ancora a viaggiare, aspetterei poi troppo tardi a maritarmi […] mi spinsero a partir subito ed a fare quanto era in me per non lasciar sfuggire questa opportunità. […]. Ma i viaggi lontani a farli con comodo e senza rischiar la salute esigono assai maggior spesa, a cui lo stato presente dei miei interessi non potrebbero forse bastare, laonde […] la prego volermi aiutare in questa circostanza … Se n’avrò i mezzi, l’idea mia sarebbe di fare tutto in una volta il giro di que’ paesi, che meritano esser veduti, onde poi tornare a casa tranquillo e stabilirmi”.

Dall’Inghilterra, dove si riconcilia se non col paesaggio almeno con la cultura giuridica e politica anglosassone, passa all’inizio dell’estate in Danimarca, e poi in Svezia. Assiste ad alcune udienze concesse dal sovrano ai rappresentanti dei diversi ceti popolari, e le trova decisamente istruttive. Risale quindi la penisola scandinava spingendosi sino alla Lapponia, dove soggiorna per un mese. Ha probabilmente in mente l’esperienza di Giuseppe Acerbi (all’epoca direttore de la Biblioteca Italiana, la rivista dei “classicisti”), che in Lapponia era stato negli anni 1798/99, e aveva poi raccontato i suoi viaggi in due fortunati volumi: ma non è escluso abbia notizia anche del Viaggio settentrionale di Francesco Negri, pubblicato più di un secolo prima. Raccoglie numerose notizie sulla demografia e sui costumi dei Sami, che affida al suo taccuino, e trova e annota le tracce dei viaggiatori che lo hanno preceduto.

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Ridiscende quindi attraverso la Finlandia sino a Pietroburgo (1 ottobre), dove è ricevuto persino dallo zar Alessandro I, e a Mosca, dove dimora per altri due mesi. Sin qui ha in pratica seguito l’itinerario del suo quasi concittadino Vittorio Alfieri, che all’epoca, assieme al Foscolo, è un po’ il modello di tutti i giovani italiani, e in specie dei piemontesi. La Russia, al contrario della Svezia, non gli piace granché: ma vi dimora comunque undici mesi e fa incetta di documenti e di incontri. E non ha nei confronti del dispotismo russo la stessa reazione sprezzante che era stata dell’Alfieri (che non aveva neppure voluto essere presentato a Caterina II).

A questo punto, mentre Doria rientra in Italia, Vidua prosegue per Novgorod e quindi verso il Caucaso. Il viaggio occupa la primavera e l’estate del 1819, e durante questi mesi il conte entra a contatto con Cosacchi, Circassi e Tartari, e partecipa anche alle loro attività di caccia. Per un certo periodo si ferma poi presso i Calmucchi, dei quali apprezza soprattutto i riti religiosi, le danze e la musica. Infine passa in Crimea.

Da Odessa attraversa dunque il Mar Nero e il primo di settembre è a Costantinopoli. Trova i turchi sgarbati ed insolenti, sospettosi e ostili nei confronti degli stranieri, per cui è necessario viaggiare sempre accompagnati da un giannizzero. In realtà ciò che maggiormente lo disturba è la difficoltà nel reperire quei piccoli tesori archeologici dei quali altrove fa man bassa. Lascia dunque la capitale ottomana e visita Smirne e le isole greche, e alla fine del 1819 approda in Egitto. Qui si fermerà per un anno, spingendosi nel corso di varie spedizioni lungo il Nilo sino alla seconda cateratta, nella Bassa Nubia.

Viaggiando in rimoti paesi 11Il trasferimento da Alessandria al Cairo è compiuto con una piccola carovana che consente di farci un’idea di come viaggia Vidua: è accompagnato da due arabi che conducono un cammello, un cavallo e due asini con i bagagli, mentre lui e il suo domestico Lorenzo viaggiano a loro volta a cavallo. Il bagaglio comprende una tenda, due letti, le vesti, la biancheria e le scarpe, i fucili e le pistole, più una batteria da cucina, i viveri e le bevande. Non è l’immagine classica (e romantica) dell’esploratore o del giramondo alla quale noi oggi siamo abituati, ma occorre considerare come all’epoca, e specialmente in quelle terre, non fosse facile trovare sistemazioni notturne e posti di ristoro. Non mancavano certamente gli avventurieri capaci di affrontare i deserti o le foreste africane armati solo del loro coraggio (vedi René Caille o, più tardi, Richard Burton), ma Vidua non è né un esploratore né un avventuriero, è un giovanotto di famiglia patrizia che ha scelto di compiere il suo Gran Tour, il suo viaggio iniziatico, fuori dell’Europa. L’equipaggiamento di cui sopra è comunque praticamente lo stesso col quale si muoveva nei medesimi luoghi, esattamente due secoli prima, un altro viaggiatore italiano, Pietro della Valle.

In Egitto dà la concreta dimostrazione di non essere un viaggiatore per diporto, ma uno studioso dotato di notevole intuito e di metodo nella ricerca. Lo testimonia l’egittologo Frédéric Caillaud, che condivide con lui un breve periodo di ricerca: “Durante il mio soggiorno al Cairo ho conosciuto un viaggiatore assai interessante, il conte Vidua di Torino, che era arrivato in Egitto dalla Lapponia: aveva già visitato i monumenti della Bassa Nubia, disegnato le piante di quei monumenti con la cura più scrupolosa, e usato la stessa esattezza nel copiare le iscrizioni […]. Eravamo insieme sulla via per Suez quando ho scoperto gli alberi pietrificati […]. Ho ascoltato i suoi racconti con viva curiosità, ed egli volle ascoltare con lo stesso interesse la narrazione dei miei viaggi”. Vidua visita appunto tutti maggiori siti storici, corredando i suoi appunti con disegni, e trascrive una serie di iscrizioni trovate all’interno del tempio di Abu Simbel (che pubblicherà dopo il ritorno, unica opera sua edita in vita). Il colpo da maestro è però l’acquisto a nome del governo sabaudo della collezione di antichità egizie raccolte da Bernardino Drovetti, un ex ufficiale napoleonico con l’animo dell’avventuriero e del saccheggiatore, che ha ammassato una quantità di reperti unica al mondo. Questo acquisto porrà le basi per la nascita del museo egizio di Torino, mentre la raccolta di iscrizioni lo farà conoscere a tutti gli studiosi della nascente egittologia, compreso Champoillon, che cercherà di associarlo alle sue ricerche.

Viaggiando in rimoti paesi 12Carlo Vidua non è però uomo da concentrarsi su un solo paese e votarsi a un unico campo di studi. Vuole lasciare la sua impronta un po’ in tutti. Intanto comincia col lasciarla concretamente. In Egitto, ad esempio, incide il proprio nome su tutti i monumenti visitati, tanto da guadagnarsi lo stigma negativo di Flaubert: “Leggiamo nei templi i nomi dei viaggiatori: mi sembra una vana piccineria. Ce ne sono che hanno richiesto tre giorni per essere incisi. Qualcuno si ritrova dappertutto, con una costanza di imbecillità sublime. C’è uno di nome Vidua, che non ci lascia mai […]”. In effetti, la cosa può riuscire fastidiosa: ma è chiaro che nel caso del nostro non è una imbecillità da turista, bensì quasi un marcare il territorio, e inviare un messaggio agli amici e ai posteri. Che a volte lo recepiscono: è già capitato a lui in Lapponia, e quando qualche anno dopo Santorre di Santarosa troverà su una colonna di un tempio di Atene il nome di Vidua, suo amico, inciderà accanto ad esso il proprio.

È comunque evidente che il viaggio non è più per lui solo lo “stromento efficacissimo onde ampliare le idee e moltiplicare le cognizioni”: quando fa incidere su uno dei colossi di Abu Simbel “Carlo Vidua Italiano qui venne dalla Lapponia” posa un mattone per un suo futuro monumento. E lo stesso fa quando racconta in termini “eroici” agli amici le proprie esperienze: “Ho sofferto il soffribile, otto giorni con acqua putrida nel mese di luglio sotto questo sole, tre giorni non avendo altro cibo, né bevanda che quattro meloni, trottar sui dromedari: infine ho voluto provare che cosa era un viaggio al deserto, e ne posso dire qualche cosa”.

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Nella culla della civiltà europea

Ad agosto del 1820 Vidua lascia l’Egitto e risale verso la Terrasanta. Qui compie il rituale pellegrinaggio a Nazareth, a Betlemme e al Santo Sepolcro di Gerusalemme: poi trascorre l’autunno visitando Tiro, Sidone, Damasco, Tripoli e Beirut, e spingendosi sino a Palmira. Nel dicembre finalmente decide di rientrare in Europa, facendo scalo prima a Cipro e poi a Rodi. Il maltempo che osteggia la navigazione lo costringe a sbarcare nell’isola di Cos, e qui la sua imperturbabilità di fronte al genere femminile viene scossa: “Le donne sono molto belle, molto vivaci, molto disinibite, e lungi dal coprirsi il volto come in tutto il resto della Turchia, esse amano guardare e farsi guardare […]. Le ragazze si affrettano ad andare alla passeggiata o a danzare per le vie, dove piazzate davanti alle porte delle loro case stuzzicano gli uomini con proposte piccanti, e si divertono a ridere, a motteggiare, a sostenere conversazioni sfrontate”. Sembra di leggere pari pari l’elogio delle donne di Cos tessuto due secoli prima da Della Valle. Quindi, delle due l’una: o Vidua ha letto i Viaggi di Della Valle, o le donne di Cos sono davvero sempre state così, belle e impudenti.

Durante la successiva navigazione nell’Egeo deve addirittura sostituirsi al comandante della nave su cui viaggia, visto che “[…] il capitano, il pilota e tutti i marinai erano nelle tenebre”. Approda ad Atene nell’aprile del 1821 e vi si ferma per sei settimane. La città è in rivolta contro il dominio ottomano, ma il conte non sembra affatto essere emotivamente partecipe della vicenda. L’unico suo coinvolgimento arriva da una palla di cannone che gli entra in camera durante il bombardamento turco: “Una palla di cannone venne a trovarmi in camera, mentre ero ancora a letto, senza far altro che guastare un poco il muro […]. Quanto alle palle di fucile, ne vennero molte in casa mia, senza far danno né a me, né ad altri. Se i turchi avessero saputo […]”. Per il resto, passeggia tranquillamente per la città mentre piovono le bombe. Sembra il tipico understatement inglese, un po’ cinico e decisamente antiromantico, ma in realtà è lo stesso atteggiamento col quale Leopardi (ancora lui) prendeva le distanze dai patrioti “progressisti” del circolo Viesseux. È uno sguardo disincantato sulle cose e sulla storia, che non significa rassegnazione, ma ricerca di senso, per sé e per il mondo, in ideali filosofici ed estetici più alti delle infatuazioni patriottiche o delle lotte per le cause perse. Insomma, per dirla in altre parole, Vidua è senz’altro in cerca di gloria e di fama personale, ma vuole guadagnarsi l’una e l’altra con qualcosa che vada oltre il bel gesto o l’atto di insensato coraggio. A combattere con i Greci è invece il suo domestico Leonardo, che rompe gli indugi, lascia il padrone dopo avergli sequestrate tutte le armi e passa nelle fila dei rivoltosi, facendo una carriera militare rapidissima. “A quest’ora sarà diventato generale”, commenta sarcasticamente Carlo quando ne dà notizia al padre. E licenzia il domestico.

Viaggiando in rimoti paesi 14Intanto, le vicende rivoluzionarie che potrebbero magari direttamente coinvolgerlo (i moti piemontesi del 1821), e che vedono protagonisti i suoi amici Balbo e Santorre di Santarosa, si stanno consumando in sua assenza. Ma anche su quelle, a posteriori, il suo giudizio non si spingerà oltre la personale simpatia per gli sfortunati (e ingenui) patrioti.

A risparmiare a Carlo la necessità di schierarsi interviene comunque il caso. Ripartito da Atene dopo aver assistito alla sua capitolazione, si trova nuovamente bloccato per due mesi a Smirne, dove nel giugno del 1821 assiste inorridito alle stragi compiute dalle milizie ottomane. Anche il resto del viaggio è travagliato, o quanto meno interminabile, tanto da fargli scrivere: “Pareva che fossimo incaricati di disegnare le coste, o di dar l’ispezione ai porti”. Arriva infatti in vista di Marsiglia solo alla fine di settembre del 1821. Qui però deve scontare un lunghissimo periodo di quarantena (due mesi senza poter sbarcare dalla nave e altri due confinato in un lazzaretto della città), perché proveniente da località nelle quali imperversa la peste. La descrizione che fa di questo soggiorno conferma i lati migliori del suo carattere: “Io del resto mi trovo qui molto bene. Ho una buona camera con due gabinetti. In uno dormo io, e nell’altro un Francese molto civile e cortese […]. Egli suona bene del flauto. Mi sono fatto affittare un buon cembalo per opera del console che mi mandò anche della musica. Così facciamo de’ concerti, io compongo delle piccole arie per flauto, egli le eseguisce. Inoltre possiamo aver comunicazione colle nostre signore – Esse vengono la sera in camera mia, e come ce ne sono tre giovani che cantano, io le accompagno, gli altri quarantenari vengono ad ascoltarci, e così passiamo una delle più dolci quarantene che si sieno mai fatte”.

Viaggiando in rimoti paesi 15Le “nostre signore” di cui parla sono le componenti di una bizzarra famiglia di otto donne, che così ha prima descritto: “Una bisava decrepita – due sue figlie vecchie, di cui una ha tre figlie, una delle quali maritata ha una serva indocile, e una bambina che completa la quarta generazione, e ch’è la sola persona tranquilla di tutta la famiglia. S’immagini tutta questa gente col loro cane rinchiusi con me ed un altro passeggiero (negoziante Francese assai buona persona) in una piccola camera, gridando, piangendo, disputando fra loro, con noi, col capitano; la bambina che stride, la decrepita che tosse, il cane che abbaia, non è un vivere, ma è continuo morire. La notte, per caldo che faccia, vogliono restar stivati nella camera colle finestre chiuse, e cento altre indiscrezioni colle quali corrispondono alle cortesie ed attenzioni, che abbiamo usato verso loro”. Il quadretto è fantastico, per l’essenziale efficacia della scrittura ma soprattutto perché dimostra che Vidua è un viaggiatore vero. Riesce prima ad adattarsi ad una simile infernale situazione, e a reinterpretarla poi simpaticamente come una “dolce quarantena”.

Si capisce comunque molto bene da un’altra lettera dello stesso periodo perché questo indugio non gli pesi affatto. “Il mio viaggio è terminato. Non ho scordato che tu (n.b. il Marchese del Carretto) ne facilitasti il principio, Tutto sta nell’uscir una volta di prigione. Ora vado a costituirmi di nuovo. Veramente il solo stimolo che mi v’induca, e credo il solo piacere che avrò nel rivedere il paese natio sarà quello di rivedere mio padre, mia sorella, e qualche raro amico. come te, e come pochi altri. E che vi farò? Durante il mio viaggio ho trovato de’ peregrini pari miei, che anelavano al momento di finire le loro peregrinazioni. Altri che mi dicevano: oh, quando sarete ritornato in Piemonte sarete un oggetto di curiosità, Vi opprimeranno d’interrogazioni […] io rideva, e pensavo tra me stesso: eh quanto poco conoscete il Piemonte! È vero che altrove i viaggi danno buona riputazione, da noi piuttosto la tolgono. Buono per me, che non li ho intrapresi per vanità ma per mia istruzione, e particolarmente per mio diletto. Posso dire di aver vissuto in questi tre anni e mezzo, e se avrò lunga vita le memorie che ne serbo faranno il divertimento della mia vecchiaia”.

Finalmente agli inizi della primavera del 1822 rientra nel regno di Sardegna. Non è un ritorno trionfale, come Carlo aveva ben presagito. I moti ‘patriottici’ sono stati soffocati da un pezzo, alcuni amici sono in carcere, altri in esilio, e il clima, in generale e in casa Vidua in particolare, è decisamente pesante: lo constata appena mette piede in Piemonte, allorché gli viene imposto di tagliare immediatamente i baffi che aveva lasciato crescere alla turca e che portava da due anni (c’è un’ordinanza reale apposita). Non ha così modo di mostrarsi ai familiari nel suo nuovo look orientaleggiante, spettacolo per il quale si era munito di caffetani e turbanti. Ma, ciò che più importa, non è ancora rientrato che già il padre e tutto il parentado tornano all’attacco con le insistenze sul matrimonio.

Carlo riesce a prendere respiro per altri tre anni opponendo una resistenza passiva. Trova mille motivi per procrastinare: deve stendere le relazioni dei suoi viaggi (ma ha molti dubbi sull’interesse che possono destare nei piemontesi), redigere un libro sulle iscrizioni antiche che ha raccolto in Egitto e in Grecia (le Inscriptiones antiquae a comite Carolo Vidua in Turcico itinere collecte, unica opera sua edita in vita, Parigi 1826), ma soprattutto deve curare la fase decisiva dell’affare Drovetti, che si conclude solo nel 1823 con l’acquisizione della collezione da parte del governo sabaudo, e comporta ora la sistemazione museale dei materiali.

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In America!

All’inizio del 1825 lo troviamo nuovamente in Francia: l’aria di casa si è fatta irrespirabile. A Parigi questa volta conosce Alexander von Humboldt. La mia prima curiosità nei confronti di Vidua è nata proprio da questo incontro, dalla menzione che Humboldt ne fa sia nelle sue lettere, lodando il libro sulle iscrizioni, sia nel Kosmos, dove parla di “un viaggiatore dalle molte peregrinazioni e libero ricercatore, il mio amico piemontese conte Vidua”. Il grande viaggiatore-scienziato tedesco è in quegli anni una vera star, ammirata in tutta Europa, ed è estremamente disponibile nei confronti dei giovani animati da curiosità scientifica e spirito d’avventura. Vidua possiede entrambe queste caratteristiche, e in più è fortissimamente determinato a metterle a frutto. E Humboldt gliele riconosce subito. Un loro contemporaneo (il conte Federico Sclopis) qualche anno dopo la morte del viaggiatore racconta: “Ho incontrato in questa biblioteca il signor Humboldt, col quale abbiamo parlato dei viaggi di Vidua, che egli ha personalmente conosciuto e che sembra tenere in grande considerazione. Egli ritiene che l’idea dominante in Vidua fosse quella della politica, e che guardasse soprattutto a quella in tutti i suoi viaggi […]. Il signor Humboldt non conosceva che le iscrizioni raccolte da Vidua nel suo viaggio mediorientale, le ritiene importanti e si è fatto l’idea che questo viaggiatore dovesse avere una grande conoscenza delle lingue antiche”.

È vero che Humboldt ha conosciuto praticamente mezzo mondo, e che tendenzialmente andava d’accordo con tutti, ma l’apprezzamento espresso nei confronti del casalese, anche molti anni dopo la scomparsa di quest’ultimo, è decisamente lusinghiero. Dimostra che i due si sono trovati e subito intesi. Vidua d’altra parte non è lì per caso: sta per mettere finalmente in atto il suo progetto americano. Ne espone al barone le motivazioni e le linee principali e riceve un profluvio di consigli sulle mete, sui tempi di percorrenza, sull’equipaggiamento; ma soprattutto ottiene una serie di lusinghiere commendatizie, che gli permetteranno di incontrare le figure più importanti della politica americana del tempo. Non poteva godere di un viatico migliore.

Viaggiando in rimoti paesi 17Molto diversa, com’era da attendersi, è la reazione paterna. Carlo ha meticolosamente programmato e preparato il viaggio in America, ma non ne ha mai discusso in famiglia. Tutto rischia quindi di saltare quando a Marsiglia, poche settimane prima della data fissata per la partenza, arriva un ordine restrittivo dello stato sabaudo nei suoi confronti, fatto emanare probabilmente proprio dal padre. Il giovane non si rassegna, e in una lettera al genitore fa chiaramente intendere che da un rimpatrio inglorioso non uscirebbe offuscata solo la sua immagine. A quanto pare tocca il tasto giusto, perché l’ordine è rapidamente revocato. Carlo si imbarca dunque per l’America alla fine di febbraio del 1824, salpando dal porto di Le Havre.

In questo periodo l’America non è ancora meta di migranti economici in fuga dal nostro paese, come lo sarà alla fine dell’Ottocento: è frequentata invece dal fior fiore della intellighenzia italiana. I giovani si recano oltreoceano per viaggi più o meno lunghi, come nei casi di Paolo Andreani e di Francesco Arese, o per trapiantarsi definitivamente, spesso in ruoli di prestigio, come il librettista Lorenzo da Ponte, gli storici e politici Filippo Mazzei e Carlo Bellini, il militare e trapper Francesco Vigo, o addirittura per portarne a compimento l’esplorazione, come Costantino Beltrami. In molti casi si tratta di fuorusciti politici, reduci dalla militanza napoleonica o dalle rivoluzioni costituzionaliste degli anni venti (Pietro Maroncelli è uno di questi). Sono attratti da un’istituzione repubblicana che sembra funzionare e si propone come alternativa ai dispotismi restaurati in Europa: ma anche dalla vastità di un mondo aperto sull’Ovest, nel quale è pensabile ogni esperimento sociale, ogni realizzazione economica, ogni fuga dall’avanzata del moderno o, in alternativa, da ogni ritorno dell’antico. Carlo Vidua in qualche modo riassume in sé tutte queste motivazioni.

La traversata oceanica è tutt’altro che tranquilla: la nave passa da un fortunale all’altro, impiegando quarantatre giorni per raggiungere il nuovo continente. Ma anche in questa occasione il conte non si smentisce: mentre fuori infuriano i marosi si distrae suonando la spinetta. Sembra un atteggiamento alla Chateaubriand (che durante la traversata si tuffava in mare dalla nave per fare un po’ di moto – salvo poi dover essere fortunosamente recuperato), un’esibizione per impressionare gli altri passeggeri e farsi precedere da un alone di imperturbabile eccentricità: ma direi che è in linea con la sua personalità, e se anche l’aneddoto, che dobbiamo al protagonista stesso, fosse inventato, sarebbe comunque verosimile.

Vidua approda a New York nei primi giorni di aprile. Di lì prosegue per Filadelfia, e visita in successione Boston, Washington e Monticello. Grazie alle lettere di presentazione di Humboldt e a quelle che si è procurato nelle varie ambasciate ha modo di incontrare durante questo tour tre ex-presidenti e il presidente in carica, prima separatamente e poi eccezionalmente tutti assieme. Certamente l’essere figlio di un ministro di uno stato europeo e l’essere munito di commendatizie autorevoli gli apre le porte: ma è poi lui, col suo genuino interesse e la sua intelligenza a guadagnarsi una sincera e spontanea ospitalità, perché gli americani ci tengono a che il loro sistema di governo sia correttamente conosciuto nel vecchio continente. Tutti coloro che lo incontrano ne sono conquistati.

Eppure Vidua è molto diverso dal barone tedesco che lo aveva preceduto vent’anni prima, e che a sua volta aveva suscitato entusiasmo negli stessi interlocutori. Non li lascia storditi e quasi in soggezione: è al contrario uno che fa domande, è curioso di quel mondo e apprezza l’immediatezza e la semplicità che caratterizza anche i rapporti con persone di altissimo rango. Per questo piace molto ad esempio al presidente Quincy Adams, che così annota nel suo diario: “Il conte è davvero curioso […] è un ottimo concertista al pianoforte, ci ha suonato due o tre arie […]” e ancora “[…] è una persona di grande intelligenza e conoscenza”. A sua volta a Vidua piace Adams, perché è un moderato e perché dotato di un forte senso etico: non a caso il presidente una volta tornato all’avvocatura assumerà, diversi anni più tardi, la difesa degli schiavi ammutinati dell’Amistad, e ne otterrà l’assoluzione. Tra i due si instaura una calda simpatia, tanto che Vidua viene trattenuto a colloquio e a pranzo dal presidente più volte in pochi giorni. “La prima visita fu un dialogo lungo e animato di un’ora. Lunghi discorsi tenemmo pure il giorno che mi invitò a pranzo, ed un’altra sera che passai seco, e se mi fossi fermato lungamente a Washington avrei potuto vederlo bene spesso, giacché mi fece padrone di andare a passare ogni sera con lui.”

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La cosa si ripete a casa di Thomas Jefferson, dove si trovano in visita altri due ex-presidenti, Madison e Monroe, oltre allo stesso Quincy Adams. “I momenti che si passano con uomini di questa sorta sono preziosi, ma ordinariamente perduti, perché la presenza di altre persone e la circospezione impediscono di interrogare e di rispondere. Qui invece eravamo in villa, eravamo soli, io straniero, essi ritirati dagli affari, sicchè la conversazione non potè essere né più libera né più interessante. E siccome essi non si mostravano schivi di rispondere, io non mostrai paura di interrogare.” Credo di non sbagliare pensando che i quattro si fossero riuniti lì appositamente per conoscere lui, incuriositi dagli elogi che Adams junior ne aveva tessuto. E credo anche che posti di fronte a domande come: “Quanto tempo è credibile che la loro propria (repubblica) duri senza separarsi?” abbiano capito di avere davanti uno che vedeva lontano.

Un altro ex-presidente, John Adams (il padre di Quincy), incontrato qualche tempo dopo, ne riceve evidentemente un’immagine altrettanto positiva: “[Adams] le aveva parlato molto di me, dicendole che certo io avevo studiato bene la loro storia, e che di tanti viaggiatori che gli erano stati presentati nessuno gli aveva mai fatto interrogazioni di quella natura, che gli avevo fatto io”. E anche il sindaco di Boston scrive: “Analitico, curioso, intelligente, […] Vidua è intento in modo non comune nella ricerca della storia e dello stato attuale di questo paese”.

Questa la favorevolissima impressione che Vidua desta (e che ricambia, parlando dei singoli personaggi). Ma che impressione matura riguardo le istituzioni e le prospettive della giovane repubblica? Quando da Boston e da Washington si sposta a New York incontra un altro tipo di americani. “New York – scrive – non mi piace quanto Boston. È vero che or molta gente è in villa, e poi queste gran città commerciali non sono mai fatte per divertire uno straniero. La gente vi è troppo occupata a far denari.” E anche a fare politica, ma in maniera diversa da quella dell’aristocrazia schiavista della Virginia. Gli uomini nuovi sono i grandi imprenditori, i mercanti alla John Jacob Astor, i lobbisti e i finanzieri come Aaron Burr e Martin Van Buren, che condizionano la macchina elettorale e di lì in poi determineranno la politica americana.

La nube sul futuro degli Stati Uniti è rappresentata per Vidua da personaggi come Andrew Jackson, già candidato alla presidenza e all’epoca probabile futuro presidente, mercante di schiavi e odiatore degli indiani, fondatore del partito democratico e sostenitore del protezionismo: il tipico self made men semi-analfabeta che ha fatto carriera per la sua spregiudicatezza e irruenza, quanto di più lontano dall’aristocrazia intellettuale che ha così benevolmente accolto il giovane conte europeo.

Più in generale, Vidua sembra essersi fatto questa idea. La rivoluzione americana è stata gestita da una minoranza di privilegiati che aveva come scopo principale quello di sostituire la propria egemonia a quella inglese. Lo stesso vecchio Adams gli ha confermato che la maggioranza degli americani era contraria all’indipendenza o era indifferente. Ma tutto sommato gli artefici della rivoluzione, pur partendo da concezioni di fondo molto diseguali, e pur adottando nella competizione politica e nell’ accaparramento del consenso mezzi molto spregiudicati, hanno creato un sistema equilibrato, anche se fragile per l’esistenza nelle diverse ex-colonie di esigenze economiche spesso contrastanti. È un sistema che garantisce in primo luogo le libertà, quindi costituisce un esempio cui guardare. Vidua è colpito ad esempio dalla tranquillità nella quale si svolgono le operazioni di voto: “Ho assistito ad una elezione nello stato del Maine; ciascuno andava a portare il suo biglietto, la gente di diverso partito s’incontravano senza dir nulla, ciascuno dava il voto al suo candidato, i signori di città ne tenevano registro, un silenzio, una quiete, non si sarebbe sentito volare una mosca; quando scadde il tempo fissato per dare i voti, fu fatto lo scrutinio ossia il sommario dei voti in presenza di tutti, e fu dichiarata l’elezione senza gridi, senza tumulto”. (mi chiedo cosa penserebbe oggi!). O ancora, dall’ordine e dalla sicurezza che regnano nelle ex-colonie: “Sui costumi e sulla religione di questo popolo vi sarebbe molto che dire; ma esso merita questo grande encomio, che sebbene si governi da sé, e la forza pubblica vi sia debolissima, pure le persone e le proprietà vi sono talmente sicure che si viaggia ad ogni ora, e le case sono aperte fin di notte, senza serrature, senza chiavi e senza feriate” (anche su questo, avrebbe forse dei ripensamenti).

Ritiene però che quello americano sia un modello difficilmente ripetibile al di qua dell’oceano. In effetti, le condizioni sia fisiche (gli spazi) che sociali (l’eguaglianza dei diritti) degli Stati Uniti sono ben diverse da quelle europee. Inoltre, tutto il conclamato egualitarismo, che teoricamente è la base del modello democratico, è clamorosamente smentito dal fatto che una parte considerevole della popolazione, tra nativi che vengono espropriati delle loro terre e schiavi che sono stati importati (e continuano ad esserlo), non partecipa di nessuna liberà, né civile né politica (nel 1830, a fronte di una popolazione di oltre quindici milioni, i votanti sono un milione e mezzo) Col passare del tempo, secondo Vidua, questi problemi diverranno sempre più gravi, e peseranno moltissimo sulla tenuta dell’unione. “Una tranquillità perfetta che continuerà tanto che non ci sia sovrabbondanza di popolazione, una sicurezza personale illimitata, e indipendente dal capriccio dei governanti, una libertà intera di vivere e di scrivere, limitata però dall’uso dei duelli, da processi per calunnia e in certi punti dalla pubblica opinione, nessun timore di potere arbitrario, questi sono beni reali e preziosi, e certo questi beni si godono in America dai cinque sesti degli abitanti. Ma lo spettacolo dell’altro sesto, cioè di due milioni di creature umane staffilate, vendute, affittate come bestie sol perché non hanno la pelle bianca, mi amareggiava continuamente il soggiorno sì vantato della terra di libertà.

Ciò che intravvede, e che non ha potuto poi dettagliare e commentare con calma e in maniera più approfondita, è né più né meno ciò che vedrà Alexis de Tocqueville esattamente cinque anni dopo.

Tocqueville arriva in America nel 1831, con Gustave De Beaumont, inseparabile sodale di una vita. La motivazione ufficiale del suo viaggio è lo studio del sistema giuridico e penale degli Stati uniti, ma il soggiorno di quasi un anno gli consente indagare in profondità le differenze tra la “rivoluzione” americana e quella francese. Studia gli effetti della democrazia, e constata che questa promuove l’uguaglianza a scapito della libertà e l’individualismo a scapito della coesione sociale. Il rischio (a suo parere molto concreto) sul lungo termine è quello della massificazione e del trionfo del conformismo: la democrazia finisce allora per scadere nel dispotismo della maggioranza. Questo il succo de La democrazia in America, il poderoso saggio scritto negli anni immediatamente successivi al ritorno, e destinato a dargli la fama.

Vidua non ha modo di ordinare le sue impressioni, non effettua questi collegamenti, ma coglie già perfettamente quelli che ne saranno i presupposti. Nel resoconto della sua esperienza americana inviato all’amico Roberto D’Azeglio, rispondendo alla domanda di quest’ultimo: “Osserva ben quegli uomini, e dimmi se veramente son più felici degli altri. Vi trovi libertà vera?” scrive: “Non andai in America fanatico, ma a dir vero inclinato in favore. Non ho incontrato nessun dispiacere … nessuno disse male di me, e alcuni dissero più bene che non merito. Lungi dall’aver motivo di disgusto, ho dunque doveri di gratitudine. Ma pur la verità, ch’è il primo dei doveri, mi costringe a confessare che quegli uomini e quel paese mi gustaron pochissimo. … quanta diremo sia la felicità di un popolo che tutto intero corre ansante, senza riposo e senza intermissione in cerca del solo guadagno; in cui le scienze e le arti sono coltivate solo nell’interesse commerciale; in cui l’attività individuale tende ad isolare e a infievolire i nodi più stretti di un popolo sommamente industrioso, è vero, ma privo di fantasia, incapace di passioni generose, tenere o magnanime, del popolo il più freddo e il più calcolatore, che la terra abbia visto giammai? Parlo dell’universale, Dio mi guardi dal calunniare i particolari; son pronto a rendere giustizia a questi, e forse ancora sarei inclinato a riconoscere in favore dell’universale, che que’ difetti medesimi li rendon più capaci di sostenere la libertà, la quale difficilmente si può acquistare, o presto sfugge dalle mani delle nazioni dotate di tempra fervida e di calde passioni. Però, se la libertà si paga a tal prezzo […]”.

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Verso ovest e verso sud

Vidua ha naturalmente letto i libri di Chateaubriand e quelli di James Feminore Cooper, anche se questi ultimi non lo entusiasmano. Cooper l’ha poi anche conosciuto personalmente durante il viaggio. Vuole ora visitare le foreste canadesi teatro delle gesta dell’ultimo dei Mohicani, ma soprattutto completare la sua ricognizione dei sistemi politici nordamericani andando a verificare i modi della colonizzazione inglese: e vuole anche esplorare la frontiera occidentale statunitense, aperta una ventina d’anni prima con l’acquisto della ex Louisiana francese. Negli ultimi mesi del 1825 compie quindi un itinerario che dal Canada lo porta lungo la linea della frontiera sino a st. Louis, nel Missouri. Ha modo di ammirare le cascate del Niagara, delle quali scrive con entusiasmo: “Non mi sazio di vederle: son qui da due giorni e non fo altro che vagheggiarle: la pioggia, la nebbia e soprattutto la luna diversificano in mille modi la scena, e senza essere tacciati di romanticismo si può dire che questo è uno dei luoghi più romanzeschi del globo”. Altrettanto entusiasmo mostra però, oltre che per gli spettacoli della natura, per quello dell’intraprendenza umana, che in pochissimi anni ha creato città come Rochester e Pittsburg, ricche di manifatture d’ogni genere e pulsanti di vita: “È incredibile l’industria e l’attività di questa nazione, qualità in cui essa sorpassa e la Francia e l’Inghilterra che pur sono reputate le nazioni più industriose d’Europa”.

È un percorso più lungo di quello compiuto dallo scrittore bretone trent’anni prima, e anche di quello che di lì a pochi anni intraprenderà de Tocqueville. Tocca l’Ohio, il Kentuky, l’Indiana, l’Illinois e il Missouri: e Vidua si rende conto che il futuro dell’America è proprio nella frontiera.

Tutta questa parte degli Stati Uniti chiamata Western Country, che si estende lungo i grandi fiumi dell’Ohio e del Mississippi, è comparativamente agli altri stati sulle sponde dell’Atlantico, un paese nuovo. […] Questo è il più brillante teatro dell’industria di questo attivissimo popolo. L’americano non ha l’attaccamento al campanile, il rincrescimento di staccarsi dagli amici, dai parenti, da una patria. […] All’età di vent’anni ei si prende una moglie e va a cercare fortuna nell’Ovest. La terra è a buon mercato […] i raccolti di due o tre anni bastano a vivere, a pagare la terra e a fabbricare una cascina. A poco a poco la famiglia cresce, ma crescono le braccia: ed i suoi figli a vent’anni imitano il padre, abbandonando la casa paterna e andando a cercar fortuna sempre più all’ovest.

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Da St. Louis si imbarca su un battello che discende il Mississippi, e nel febbraio 1826 lascia gli Stati Uniti, partendo da New Orleans e recandosi in nave in Messico. È intenzionato a raccogliere materiali per una storia della rivoluzione messicana e più in generale di tutte le recenti rivoluzioni che si sono prodotte o sono ancora in corso nell’America Latina, nelle ex-colonie spagnole: e anche in questo caso non si accontenta di intervistare le massime autorità nei palazzi del potere, ma intende visitare in lungo e in largo i diversi paesi. Vuole ricalcare quasi passo passo le orme di Humboldt, ed aggiornare le considerazioni riportate da quest’ultimo quando l’ondata rivoluzionaria era ancora all’inizio.

In Messico però la delusione è cocente: riguarda il paesaggio (una campagna squallida e deserta), la viabilità (è questo uno dei paesi in cui viaggiare è più costoso, più difficile, più faticoso), gli abitanti, che hanno una fisionomia selvaggia, l’economia, poverissima e se possibile in dissesto, e poi, soprattutto, le istituzioni. La chiesa tollera manifestazioni religiose carnevalesche: “Il giovedì santo, trovandomi in un borgo presso s. Luis Potosi andai In parrocchia dopo pranzo credendo assistere all’ufficio: ma trovai che invece dell’Ufficio sì commovente […] si facevano in cambio tre processioni con grandi mascheroni, con fiaccole, con tiri e spari e musiche di violini come se fosser balli”. La classe politica uscita dalla rivoluzione non promette granché bene: “Qui in tutte le parti sono occupati a costituirsi; con quanta perizia, e quanta scienza politica e governativa nol so”. Vidua presenzia ad alcune sedute degli organismi di governo provinciali, e constata come nei confronti degli spagnoli l’odio sia radicato (e meritato, a giudicare da quel che sente). Ritiene quindi impossibile che la Spagna possa riprendersi le sue colonie. Ma ha anche forti dubbi sulla tenuta del nuovo assetto politico. “Io sono per l’emancipazione, però dopo che ho visto Messico, desidero per loro bene che i Repubblicani arrabbiati non abbian tanta influenza, e che non sia dato loro il potere di piantare il pugnale nelle viscere della loro patria, come sgraziatamente fanno.”

Mentre è in Messico gli capita anche un fatto tra il comico e l’increscioso. “Passando ad altro soggetto, vorrei raccontarti la storia della mia morte, ma non la so bene. Mentre io stava visitando il Messico fu pubblicato negli Stati Uniti il racconto della maniera con cui io era stato ammazzato ne’ deserti dagli Indiani; colà son tanti i giornali! dall’uno all’altro lo ripeterono, e un letterato di Filadelfia, città ove mi aveano conosciuto molto, fece la mia Necrologia, e la fece stampare nel più famoso di que’ fogli periodici […]. Il console generale negli Stati Uniti scrisse al Ministro al Messico per saper s’era vero, ed io poi seppi da lui la mia morte e la mia risurrezione tutto in una volta quando fui di ritorno a Messico. – Desiderava leggere la mia necrologia per la rarità del caso, che al solito non la legge il morto, però finora non l’ho potuta avere. Il suddetto Ministro degli Stati-Uniti al Messico, ch’è mio amico, mi disse ’che m’avean detto molto bene. – Sia un compenso per quelli che dicon male.” Il problema è che la notizia giunge sino in Europa, e solo il sopraggiungere di una tempestiva smentita evita ai famigliari di Carlo un coccolone.

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Anche Città del Messico, dove arriva il 21 giugno dopo aver girovagato per quattro mesi nella zona centrale del paese, non corrisponde affatto alle sue aspettative. La paragona a Torino, per le montagne che le fanno cornice, ma trova che tanto il panorama che la configurazione urbana siano decisamente inferiori. Naturalmente non manca di raccogliere tutto ciò che può, e di spedire dalla capitale il solito stock di casse pieno di libri, tele, statuine, medaglie, ecc…

Nel paese dilaga però la febbre gialla, e decide allora di lasciare il Messico e dirigersi verso il Perù. Non senza concedersi, lungo il cammino che lo porta verso la costa pacifica, un mese di sosta a Guadalajara, che giudica la più bella città del Messico e dove trova ospitalità presso un gentiluomo inglese. In realtà è anche incerto se proseguire nel suo progetto dell’America Latina o volgersi direttamente all’Asia (ha in mente la Persia).

A sciogliere ogni dubbio arriva una missiva della sorella che lo informa del grave stato in cui versa la salute del padre. Sconvolto dal rimorso, Carlo intraprende una galoppata che in un mese lo riporta a Città del Messico, e di lì a vera Cruz, dove trova un passaggio per l’Europa. Si imbarca il 22 febbraio e giunge a Bordeaux nell’aprile del 1827, dopo una traversata ancora una volta tempestosa. Ma sta scritto da qualche parte che il ritorno non sia definitivo. Un duro contrasto epistolare con il padre, nel frattempo ristabilitosi, induce il nostro a non rientrare in patria. I motivi della rottura si possono facilmente immaginare: gli viene dettato l’ennesimo ultimatum, pena l’essere definitivamente diseredato. Carlo non è disposto ad accettarlo e si ritiene quindi sciolto moralmente da ogni vincolo. “Sarebbe stato naturale qualche rincrescimento della strada fatta indietro, e quale strada! Tuttavia pensai che non era possibile pentirsi di aver fatto ciò che si deve, e io sono contento di aver avuto occasione di mostrare in un modo così poco volgare il mio rispetto e affetto per mio padre. Avevo compiuto un dovere. Tal dovere non esistendo più, era naturale di finire ciò che avevo incominciato. Invece di fare il giro della palla da levante a ponente, questo accidente me lo fa fare da ponente a levante.”

Del resto, era già chiaro molto prima, quando a proposito di matrimonio e di carriera scriveva ad un amico: “Se mai mi decidessi, sarebbe unicamente per far piacere a mio padre. Capisco che ei ne dee avere gran desiderio, e s’io fossi a suo luogo l’avrei. Ma la perdita della libertà, l’interruzione de’ miei studi, e soprattutto l’obbligo di dovere vivere in un paese sì diviso, e in mezzo a tante piccolezze, e ad opinioni che per la loro esagerazione da una parte e dall’altra, non si combaciano con le mie idee moderate […]”.

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Nell’Estremo Oriente

Vidua deve aggiornare i suoi programmi, e non impiega molto. Solo tre mesi dopo il rientro, nel luglio del 1827, riparte da Bordeaux per quello che nelle intenzioni dovrebbe essere il suo ultimo viaggio (così almeno scrive alla sorella): la destinazione prossima è l’Estremo Oriente, in particolare la penisola indiana e il sud-est asiatico, ma il progetto è molto più ambizioso: prevede l’Australia e la traversata del Pacifico sino al Cile e al Perù, e quindi di valicare le Ande per toccare Buenos Aires e Rio de Janeiro.

Arriva dunque a Calcutta a metà novembre del 1827 (dopo cinque mesi di navigazione!). Nel gennaio dell’anno successivo risale il Gange fino a Benares, per essere poi a Delhi in febbraio. Il tam tam che lo precede funziona, comincia ad essere conosciuto anche negli angoli più remoti del mondo come “il Viaggiatore”. Le credenziali a questo punto se le firma da solo. Incontra così i massimi esponenti della Compagnia delle Indie ed è presentato personalmente al Gran Mogol. Ha il tempo anche di frequentare i “salotti” coloniali, e di biasimare la spocchia che li caratterizza. Gli inglesi guardano con sprezzo alla sua curiosità per culture che ritengono inferiori: e al contrario degli americani ritengono inferiore anche la cultura sua. Significativo è quanto racconta a proposito di un’accesa discussione a casa di un alto funzionario della Compagnia: “Alla fine milady alzandosi mi disse che ero bigot. Le risposi: è bigot chi attacca, non chi si difende, chi vuol perseguitare, non chi apologizza, io amo i protestanti, non ho declamato contro di essi. È bigot chi fa accuse senza fondamento, chi vuole escludere i suoi compatrioti dall’esercizio di egual diritti, ecc […]”. Questo ci rimanda un illuminante quadretto degli ambienti frequentati da Vidua, ma ci dice anche che lo stesso non ci sta a recitare la parte dell’ospite che si fa andare bene tutto.

È indignato soprattutto dalla netta linea di separazione che gli inglesi hanno tirato tra sé e gli indiani, e dallo sfruttamento di questi ultimi: a Calcutta “io tentai qualche passeggiata a piedi: gli indiani mi fissavano come si guarda un pazzo, sì poco sono avvezzi a veder un bianco muovere le gambe. I cavalli stessi paion riservati solo ad usi nobili, condurre carrozze o portar eleganti cavalieri. Raro si vedon cavalli condurre carrette; bestie da soma son gli indiani, cavalli di stanza son gli indiani, l’ufficio degli asini, dei buoi è fatto dagli indiani: tutte le mercanzie son care fuorché la carne umana”.

D’altro canto, “il pregiudizio della casta è insuperabile, e necessita questo numero considerevole di domestici giacché non ridurreste mai quel che vi veste a servirvi a tavola e quel che vi serve a pranzo a salir dietro il cocchio, uno non può toccar le scarpe perché è pelle di animale; l’altro non può portarvi il brodo perché è bevanda immonda, tutto li contamina, tutto li sporca, gettano il resto delle nostre vivande appena abbiamo finito di pranzare! Indi nasce quel notabile e quasi incredibile contrasto, che cento milioni di uomini rispettano ed ubbidiscono a pochi europei, ciascun dei quali è riguardato da loro come creatura sì nauseosa, sozza, immonda, che nemmeno il più povero non consentirebbe a dividere seco lui un pezzo di pane”.

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In India non si ferma a lungo. Abbastanza però per raccogliere un sacco di materiale, da spedire a casa in un “ricco baule”, pieno di “manoscritti Indiani in differenti lingue, ornamenti donneschi, rappresentazioni de’ costumes ossia abiti delle differenti condizioni di persone, ed altri vari oggetti”. Nell’aprile del 1828 è comunque sui primi contrafforti dell’Himalaya, senza peraltro sembrarne particolarmente impressionato: si limita a prendere atto che le vette sono indubbiamente molto più alte di quelle alpine, e che per salirle occorrerebbe una sosta prolungata, ma le trova molto meno spettacolari.

Poi, tornato alle pianure, si sposta nell’estate a Singapore e trascorre un intero anno tra il porto aperto di Canton e i possedimenti portoghesi (Macao) e spagnoli (Manila).

Canton è diventata verso la fine del secolo precedente la sede ufficiale dei traffici inglesi con la Cina, soppiantando il ruolo che era stato in precedenza dei portoghesi di Macao (a metà dell’Ottocento sarà a sua volta soppiantata da Hong Kong). In una lettera al padre (col quale la comunicazione epistolare è ripresa) Vidua racconta come gli stranieri che risiedono a Canton siano soggetti a forti restrizioni nei movimenti e a continui controlli. In sostanza non possono uscire dalle aree destinate allo scambio commerciale. Qualora ciò accada, c’è il rischio di essere aggrediti e bastonati da una moltitudine di cinesi furiosi. Gli stessi impiegati della compagnia delle Indie non possono risiedere sul territorio cinese per più di sei mesi l’anno, e trascorrono gli altri sei a Macao. Non possono nemmeno portare con sé le mogli o la famiglia.

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La curiosità di Vidua però la vince. Con vari espedienti, come l’accompagnare un medico della compagnia nelle sue visite ai maggiorenti della città, o dietro invito diretto di ricchi mercanti cinesi, riesce ad intrufolarsi in alcuni templi e monasteri, o in grandi ville con magnifici giardini, e persino ad assistere a rappresentazioni teatrali. Si arrischia anche, assieme ad altri tre giovani europei, a sbarcare su una spiaggia deserta a qualche chilometro dalla città, e a fare poi un giro nell’interno della campagna, mantenendosi sempre fuori vista e annotando tutto il possibile sui sistemi di coltivazione, sulle abitazioni rurali, sulle piantagioni del the, ecc. Scrive a suo padre, forse anche per dimostrargli che non va a spasso senza scopo: “La campagna nei dintorni di Cantòn è molto coltivata e le fattorie frequenti, i canali di irrigazione e i diversi livelli del suolo destinato alla coltivazione del riso molto bene curati, indicano grandi progressi anche in Cina in questo settore così importante dell’agricoltura”. È l’occhio del proprietario di risaie in Italia.

Alla fine del febbraio 1829, data del trasferimento semestrale degli europei, il governatore della Compagnia delle Indie gli offre un passaggio per Macao. A dispetto della sosta forzatamente breve Vidua è riuscito a raccogliere una gran quantità di oggetti che forniscono una importante documentazione sulla Cina dell’epoca: statuine di divinità o di personaggi del taoismo, paesaggi in miniatura, mappe locali o del Giappone, carte da gioco, armi, nonché una intera Bibliothèque Chinoise, che spedisce immediatamente al padre.

Il 3 maggio abbandona definitivamente l’Estremo Oriente continentale diretto a Singapore. Durante la primavera ha intanto iniziato la stesura di un trattato politico, in cui intende riunire proprie le osservazioni sugli ordinamenti dei luoghi visitati. Pervenuto a Cesare Balbo e confluito infine nella Biblioteca nazionale di Torino, il manoscritto dell’opera incompiuta è andato distrutto nell’incendio che devastò la biblioteca nel 1904.

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Morire nelle isole della Sonda

A metà del 1829 si trasferisce a Giava, dove rimane sei mesi ed entra in contatto con un sistema di colonizzazione diverso. La compagnia olandese delle Indie pratica una politica più morbida, ma non meno repressiva, rispetto a quella inglese: a Vidua sembra decisamente più intelligente. Ma a Giava, forse per la suggestione del paesaggio, porta avanti un altro progetto, direttamente ispirato dalla Naturgemalde (più o meno, la descrizione della natura) di Humboldt: quello di percorrere e in lungo tutta l’isola e di mapparne l’orografia, determinando con il barometro l’altezza delle principali montagne. In effetti ne scala due che superano i quattromila metri, col risultato di dover poi rimanere a letto e a digiuno per diversi giorni. Giava non è innervata da una vera e propria catena montuosa, ma sulla linea da est ad ovest sorgono ben centoventi vulcani, un quarto dei quali ancora attivi. Vidua si propone di censirli e di redigere poi una serie di tavole che presentino la distribuzione geografica delle piante, che nell’isola varia dalla foresta equatoriale lungo le coste ai boschi di tipo alpino oltre i duemila metri.

Nel marzo del 1830 si sposta alla vicina isola di Madura, e successivamente ad Ambon, nelle Molucche, dove è ospite del governatore olandese. Viaggia sull’Iris, una goletta comandata da Jan Hendrik De Boudyck-Bastiaanse, che gli dedicherà i suoi Voyages faits dans les Moluques, à la Nouvelle-Guinée et à Célèbes, avec le comte Charles de Vidua, de Conzano, à bord de la goëlette royale l’Iris (Parigi 1845). Nel corso della navigazione vengono scoperte alcune nuove isole, e ad una di esse viene dato il nome di Isola di Vidua: ciò che la dice lunga sulla stima e sull’amicizia che “il Viaggiatore”, come ormai è chiamato ovunque, riesce rapidamente a conquistarsi. Il comandante scriverà di lui che era anche un abilissimo navigatore (complimento non comune per un piemontese), e che a bordo lavorava come qualunque altro membro dell’equipaggio.

Viaggiando in rimoti paesi 26L’esplorazione delle isole della Sonda è però solo un’ulteriore tappa di avvicinamento al continente australe, rispetto al quale l’interesse torna ad essere prevalentemente politico. “Il mio scopo nel visitare la Nuova Olanda è di osservare nella sua infanzia una colonia tutta di razza europea, destinata a divenire in cento o centocinquant’anni uno stato importante. Ho visitato gli stati Uniti nell’età giovanile. Visitar la Nuova Olanda è come veder dei secondi Stati uniti ancor bambini […]

È anche ossessionato dalla perfetta salute fisica: non che sia un ipocondriaco, anzi, non manca mai, nelle lettere a parenti e amici, di sottolineare come con tutto il suo viaggiare non si sia mai beccato un malanno: e quando questo accade, nell’ultimo anno, lo rileva con rammarico e stupore, quasi un presagio.

A dispetto delle febbri intestinali, ad agosto Vidua è sull’isola di Celebes, viaggiando sempre con Bastiaanse: e qui avviene la tragedia. Durante un’escursione in una caldara scivola con una gamba nella lava bollente. Un po’ se la cerca; il governatore delle Molucche scrive ad un suo omologo: “La rapida fine del conte Vidua deve essere attribuita all’accidente che gli è capitato nelle contrade dell’interno di Menado, e del quale è stato lui stesso la causa, non avendo voluto ascoltare il capo indigeno che lo aveva avvertito del pericolo e voleva trattenerlo, cosa di cui egli si era mostrato irritato. Il defunto era posseduto da un ardore eccessivo: non concedeva al suo corpo alcun riposo”. L’incidente appare subito molto grave, ma non per questo il casalese vuole rinunciare alla sua esplorazione. Trova però un medico solo venti giorni dopo, a Ternate, la regina delle Isole delle Spezie: e qui deve necessariamente fermarsi. Sfrutta comunque l’immobilità forzata mettendo ordine nei suoi appunti e scrivendo. Spera ancora di poter riprendere il viaggio: ma la situazione si va velocemente aggravando. La cancrena alla gamba sale sino alla coscia: l’ultima flebile speranza è legata all’amputazione.

Il 21 dicembre s’imbarca pertanto per Ambon, dove spera di farsi operare: ma è troppo tardi. Muore durante il viaggio, il giorno di Natale del 1830. In una lettera inviata quindici giorni prima al governatore olandese suo amico ha scritto: “Ciò che rimpiango è di non avere davanti altri tre anni di vita, per poter raccogliere il frutto di tante fatiche, di tante ricerche, di tanto lavoro nelle quattro parti del mondo. Sia fatta la volontà di Dio”. Chiede anche che tutti i suoi scritti vengano distrutti. Il suo corpo è tumulato sulla spiaggia dell’isola, dove il governatore fa erigere un sepolcro. Anche il luogo dove è avvenuto l’incidente porta oggi il suo nome: è il Count Vidua Solfatara Field, sul vulcano Tondano.

Poi, nel 1833 almeno le sue spoglie tornano finalmente a casa. Il padre si attiva in tutti i modi e la salma, con un’ultima lunghissima navigazione che passa per Rotterdam e Genova e che sembra rinnovare postuma le peregrinazioni del Viaggiatore, è traslata a Conzano.

Pio Vidua gli sopravvive sei anni. Un anno dopo, nel 1837, muore anche la sorella. Il timore che aveva angustiato il padre per trent’anni si avvera: il ramo casalese dei Vidua si estingue. Ma si avvera anche, almeno in parte, e almeno fino ad oggi, quello che aveva angustiato il figlio: sul suo nome cade l’oblio.

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Sulle consonanze

Non mi resta ora che spiegare brevemente i motivi della particolare simpatia che provo per Carlo Vidua. Sono tantissimi e diversi, e in qualche caso anche un po’ difficili da spiegare, perché il personaggio è un groviglio di contraddizioni. Provo a riassumerli.

Intanto c’è il suo straordinario curriculum di viaggiatore. L’ho scoperto colpevolmente tardi ma ha calamitato subito il mio interesse, perché nell’Ottocento nessun altro italiano ha viaggiato quanto lui. Quando poi ho saputo dei suoi rapporti con Humboldt l’interesse naturalmente si è moltiplicato. A rendermelo particolarmente caro è stato infine il suo tragico destino, che non solo lo ha strappato alla vita ma lo ha anche relegato in un angolo in ombra della storia. Diciamo che rientra a pieno titolo tra i “quasi adatti” dei quali mi sono prevalentemente occupato: di quei “perdenti” che non inseguendo il successo, ma la virtù e la conoscenza, a volte anche inconsapevolmente, hanno in realtà vissuto esistenze straordinarie.

Che tipo di viaggiatore fosse l’ho già detto. Non è annoverabile tra i grandi camminatori perché si è mosso quasi sempre a cavallo (o su cammello), in carrozza o in nave, in genere con uno o più servitori al seguito. Nemmeno è stato un viaggiatore “eroico”, di quelli che cercano il confronto coi propri limiti o si spostano sempre sul filo della sopravvivenza. Ha visitato un’enorme fetta di mondo ben coperto sia sul piano economico che su quello delle conoscenze e delle credenziali. Era perfettamente consapevole di godere di una condizione di privilegio, non se ne scusava affatto e riteneva semmai doveroso metterla a frutto: “Coloro appunto, cui la fortuna fu larga de’suoi doni, e che talvolta come usarne non sanno, quelli potrebbero agevolmente andar ricercando le contrade straniere, onde giovare alla patria, ed illustrare il loro nome”. Non dunque da turisti, ma da studiosi. Come tale Vidua pianificava meticolosamente i suoi percorsi, solo che questi poi si dilatavano e si ramificavano in ogni direzione, senz’altro perché poteva permetterselo, ma prima ancora perché trovava costantemente nuovi motivi di interesse, scopriva e inseguiva nuove curiosità. Il fine “scientifico” di tutto questo vagare era autentico, almeno negli intenti, anche se credo che con l’andar del tempo sia diventato quasi un pretesto, e che Vidua abbia continuato a spostare sempre un po’ più in là gli orizzonti per non dover affrontare, una volta fermo, l’onere di un bilancio. A dispetto dei reiterati propositi di ritorno e di stabilizzazione definitiva, espressi soprattutto nelle ultime missive, penso che ad un certo punto il viaggio sia diventato per lui, da strumento che era, il fine. O che lo fosse sin dall’inizio.

Cos’ho trovato dunque di particolarmente attrattivo nel Vidua viaggiatore? Senz’altro la determinazione: intraprendeva quasi tutte le sue avventure in compagnia di amici o conoscenti che ad un certo punto, per vari motivi, rinunciavano, mentre lui proseguiva imperterrito. E fino all’ultimo, anche a dispetto del grave incidente occorsogli, non intendeva rinunciare al completamento del giro del mondo. Mi piace poi il suo senso di responsabilità, anche se talvolta può sembrare pretestuoso: se uno sceglie di viaggiare non è giusto, né nei confronti propri né in quelli altrui, che contragga legami ai quali poi non può convenientemente ottemperare: “Quando l’uomo si marita, conviene che rinunci ai viaggi, e stabilisca di tenere compagnia bene o male a quella donna che per sua ventura o disgrazia ha scelto”.

E mi piace infine la capacità di adattarsi. Non mi riferisco chiaramente alle condizioni materiali del viaggio, che erano comunque disagevoli, anche muovendosi col minimo di comodità concesso dall’epoca, ma a quelle psicologiche. Si trovava altrettanto a suo agio ovunque e con qualunque interlocutore, fossero sovrani, presidenti, marajà, governatori coloniali, mercanti o beduini: non adulava, non si umiliava, li interrogava mostrando un interesse genuino, li ascoltava e cercava di trarre da tutti il numero maggiore di informazioni possibili: non era lì per giudicare, anche se poi nelle lettere i suoi giudizi li esprimeva, ma per capire.

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Il Vidua “uomo” mi ha intrigato invece perché sfugge ad ogni incasellamento. È impossibile metterlo perfettamente a fuoco. Lui stesso non ha collaborato granché. Non ha lasciato opere compiute (se si eccettua la raccolta di iscrizioni antiche, che è un lavoro specialistico), fallendo malinconicamente nell’adolescenziale assillo di tutta una vita, la costruzione di una immagine di sé ricalcata su quella degli eroi antichi. Quindi non abbiamo un autoritratto “autorizzato”, la sua versione soggettiva. Ma riesce difficile anche ricostruirne un ritratto sufficientemente oggettivo attraverso ciò che ci è rimasto, perché le sue lettere, che pure di quella immagine sono piene, la cambiano poi in realtà a seconda dei destinatari: la loro scrittura si adatta di volta in volta a trasmettere ciò che Carlo riteneva l’interlocutore si aspettasse.

Viaggiando in rimoti paesi 29Ciò non significa che Vidua fosse uno Zelig, un uomo senza personalità. Era semmai un personaggio un po’ pirandelliano, costantemente lacerato tra la mozione paralizzante degli affetti e quella liberatoria degli istinti. Alla fine ha prevalso la seconda, ma non ha mai soffocato definitivamente la prima: così che ogni esperienza è stata da lui vissuta sotto una doppia luce. Dovessimo giudicare solo dalle lettere al padre, ad esempio, ne verrebbe fuori un aristocratico un po’ eccentrico che si compiace soprattutto delle sue frequentazioni altolocate – oggi sarebbe un cacciatore di selfie con le celebrità –, del rispetto tributato alle sue ascendenze nobiliari e del ruolo di ambasciatore itinerante dello stato savoiardo nel mondo: mentre è evidente che tutto questo serviva solo a tentare di giustificare davanti al genitore la propria disobbedienza, e che la frequentazione di quegli ambienti era strumentale al lavoro che intendeva compiere (e alla fama che sperava ricavarne). Così, in quelle agli altri famigliari la preoccupazione costante è di rassicurarli sul proprio stato di salute, sulla sicurezza dei viaggi e sul fatto che non si dimentica di loro, usando però spesso la formula “è stato un po’ pericoloso, o un po’ difficile, ma comunque sono ancora vivo e sano”, come a tenerli comunque allertati sull’eccezionalità di quanto stava facendo; mentre nelle lettere agli amici si compiace di inserire aneddoti, avventure e osservazioni che rimandino l’immagine di un originale freddo e coraggioso e riscattino la sua apparente diserzione dalle lotte patriottiche.

Le testimonianze esterne trasmettono invece un Carlo Vidua molto diverso: Quincey Adams ne parla come di una persona semplice e alla mano; Caillaud è conquistato dalla sua serietà e al tempo stesso dalla sua disponibilità; il comandante olandese dell’Iris racconta come sulla nave si adattasse volenterosamente a qualsiasi compito, pur essendo un passeggero pagante. Alla fine la versione meno credibile è proprio quella del suo già intimo amico e primo biografo Cesare Balbo, che nell’editarne le lettere ha costruito con tagli mirati una oleografica figurina di eroe romantico, malinconico e sfortunato.

Io mi sono fatto questo personalissimo quadro. Vidua è un personaggio anacronistico. Ma lo è nel senso più letterale del termine; sta fuori dal tempo, e non solo dal suo. Non era un romantico, pur avendone tutte le caratteristiche, non era un illuminista, pur utilizzando tutti i criteri illuministici di interpretazione della realtà. Questo crea l’impressione che non abbia mai veramente capito quanto stava accadendo e avesse idee piuttosto confuse su quanto sarebbe potuto accadere in futuro. Io credo invece che Vidua si sia volutamente (e quindi consapevolmente) rifiutato di capirlo, perché ciò che lo circondava andava a configgere, oltre che con la sua indole irrequieta, con tutte le sue idealità: e non parlo delle convinzioni politiche e religiose, ché quelle sono legate all’ambiente in cui era cresciuto e al periodo in cui ha vissuto, ma delle idealità etiche delle quali si era nutrito sin da bambino. C’è un passo di una sua lettera (a Roberto d’Azeglio) che fa intendere benissimo la sua posizione: “È vero che a Torino, a sentir le esagerazioni insopportabili di certa gente, mi sentivo sì trascinato alla liberalità, che mi facevo forza per non diventarlo eccessivamente. – Così nell’altro mondo le esagerazioni liberali mi disgustavano tanto, che mi facevo forza per non diventare partigiano delle Soirée de st.Petersbourg”. È una frase che avrebbe potuto essere pronunciata da Corto Maltese (tra l’altro, fisicamente Vidua gli somiglia un po’), e che naturalmente sottoscrivo.

Vidua era un aristocratico, ma non un codino. Era un conservatore, ma non un reazionario. Si rifaceva agli ideali degli àristoi greci e latini come raccontati da Plutarco e da Tacito, ma quelle idealità le vedeva reincarnate anche nei crociati e nei paladini cristiani, o nei missionari gesuiti del Paraguay (quelli del film Mission). Tra i contemporanei che più ammirava c’erano i quaccheri americani, perché non si limitavano a professare la fede, ma la praticavano, e il filantropo inglese John Howard, uno che aveva girata tutta l’Inghilterra e buona parte dell’Europa visitando le carceri, denunciandone le atrocità e formulando suggerimenti per il miglioramento delle condizioni di vita dei prigionieri. Ecco, Howard era il suo modello più prossimo: un grande viaggiatore (si calcola abbia percorso più di 70.000 chilometri) e un benefattore dell’umanità, ascoltato dai potenti, riconosciuto e celebrato (almeno nella sua epoca) un po’ ovunque. E Vidua lo contrappone in positivo, ad esempio, al nostro Beccaria, che si era conquistato la fama cercando di applicare alla realtà italiana i principi riformatori d’oltralpe, senza mai muoversi dal suo studio.

Insomma, Vidua era un utopista: ma non di quelli che immaginano un’utopia buona per tutti gli uomini, e cercano sciaguratamente di attuarla, bensì di coloro che se ne creano una individuale e cercano il più possibile di abitarla.

Già questo basterebbe ad assicurargli un posto nel mio cuore. C’è però molto di più. Sono convinto infatti come Machiavelli che i lettori più attenti del presente siano sempre i conservatori, che sanno ciò che perdono con il cambiamento, e non i progressisti, che oggettivamente non sanno cosa troveranno e ritengono che ogni novità sia di per sé positiva. E sono anche convinto che per lo stesso motivo i grandi reazionari (si pensi a De Maistre) siano i più sensibili ai dettagli anche minimi del cambiamento, coloro che ne scorgono prima degli altri gli indizi e ne presagiscono più lucidamente le derive negative. Il bilancio che traccia al termine del viaggio in America è la migliore testimonianza di questa capacità premonitoria.

Altri motivi di consonanza sono forse più banali, ma per me non meno significativi. Dell’ammirazione per Humboldt e di quella per De Maistre ho già parlato: aggiungerei quella per Vico, che all’epoca di Vidua era ignorato dalla gran parte dei nostri intellettuali, e ha continuato ad esserlo almeno sino alla riscoperta da parte di Croce. Ma pure quella per Plutarco e Tacito e Senofonte tra i classici antichi, e per Machiavelli tra i moderni.

C’è poi il legame forte con la campagna. Certo, nel suo caso è il legame che può avere un proprietario di risaie, dalle quali trae la rendita che gli consente di viaggiare, troppo distratto da altri impegni negli ultimi quindici anni di vita per curarne l’amministrazione. Ma dalle lettere traspare comunque un certo orgoglio per la propria origine “rurale”. Si manifesta anche in questo caso la bipolarità di Vidua, diviso tra l’ammirazione per l’industriosità e la crescita economica e la nostalgia per un mondo preindustriale che va scomparendo. Ciò spiega il fastidio per i disboscamenti selvaggi in Inghilterra prima e in America poi, la preoccupazione per perdita della centralità economica dell’agricoltura, che porta con sé il tramonto del millenario assetto sociale ad essa connesso. Ma spiega anche l’attenzione ai tipi di coltivazione, alle tecniche, alle rese, laddove la maggioranza dei viaggiatori suoi contemporanei in genere non distingueva una spiga di grano da un’erbaccia.

Viaggiando in rimoti paesi 30Tale senso di appartenenza gli fa anche ad apprezzare, ad esempio, le musiche della tradizione popolare in ogni parte del globo; e persino le espressioni dialettali, dalle quali vorrebbe liberare la nostra lingua, ma delle quali sente comunque, almeno in particolari contesti, la forza e l’espressività: racconta ad esempio divertito delle esclamazioni cui si abbandonava il suo maestro di musica: “così s’fa pu prest”, o “à l’è na bestia”.

E questo ci riporta al tema della lingua. Nel Discorso sullo stato delle cognizioni in Italia parla, come abbiamo già visto, della necessità per la lingua (e per la nostra cultura in genere) di spiemontizzarsi e sfrancesizzarsi, di “sottrarsi all’imbarbarimento”. Ma non è solo questione di tornare ad una purezza lessicale che in fondo il nostro idioma non ha mai conosciuto, e che semmai andrebbe costruita: ciò che Vidua auspica è una lingua il più possibile aderente all’oggetto, senza fronzoli e ghirigori, semplice ed efficace. Chiede di uscire dalle esasperazioni metaforiche e immaginifiche del Barocco, che nascono dall’assenza di contenuti, ma anche di rifiutare gli orrori e i languori lessicali del romanticismo. Oggi dovrebbe chiedere un risciacquo nella prosa calviniana per liberare il nostro lessico dai tecnicismi forzati, dagli anglicismi superflui, dagli idiomatismi virali, ma anche delle massicce iniezioni di concretezza nei temi e nelle argomentazioni. Sarebbe più anacronistico che mai, e si sentirebbe più che mai estraneo alla sua terra e alla sua gente. Sensazioni che conosco bene, così come conosco quella di incompiutezza, che fortunatamente in me è stata messa a tacere dall’età. Lui è stato meno fortunato.

I motivi dell’affezione per Vidua sono dunque svariati. I più significativi sono paradossalmente proprio quelli legati alle sue “debolezze”, alle incoerenze che anziché farmi avvertire una distanza me lo hanno avvicinato: il rapporto contradditorio col padre e con i luoghi dell’infanzia, l’oscillazione costante tra nostalgia del passato e speranza nel futuro, l’anelito all’assoluta libertà e la giustificazione, pur parziale del dispotismo, l’apertura e la disponibilità al confronto e l’intimo arroccamento su posizioni pregiudiziali. Ci accomuna persino il rapporto con la scrittura. Scrive a Roberto d’Azeglio: “Ho bisogno de’ tuoi consigli sullo scrivere o non scrivere viaggi — e in che lingua — la nostra è la più bella. Pur se li scrivo in Italiano, nessuno li leggerà. — Dall’uno canto ci inclino — dall’altro penso che già troppi viaggi sono stampati”.

Come esco, dunque, dal viaggio compiuto in compagnia di questo personaggio e delle sue lettere? Con un sentimento di rammarico: per lui, perché non ha completato il viaggio attorno al mondo, e soprattutto non lo ha potuto degnamente raccontare. Per me, che il viaggio non l’ho nemmeno iniziato, perché non ho mai visitato l’isola di Cos.

Viaggiando in rimoti paesi 31

Una bibliografia commentata

Nell’intraprendere la scrittura di questo pezzo ero pienamente consapevole dell’inadeguatezza delle mie forze (non ho le capacità di concentrazione indispensabili per una ricerca che risponda ai crismi “scientifici”) e anche del fatto che questo lavoro, indipendentemente dal risultato, non avrebbe contribuito granché ad arricchire e a divulgare la conoscenza del suo oggetto. Dovevo farlo per adempiere ad un impegno preso con Vidua diversi anni fa. Diciamo che era diventata una questione tra me e lui. Ho voluto comunque che nel suo piccolo la narrazione fosse la più esatta possibile. Per questo, oltre che dei testi originali delle lettere e dei pochi scritti editi di Vidua, mi sono avvalso di diversi studi a lui dedicati, scoprendo con mia sorpresa che sono molti più di quanto inizialmente reputassi. Quest’ultima constatazione da un lato mi rallegra, dall’altro mi fa deplorare il fatto che non sia ancora stata realizzata una biografia del Viaggiatore capace di sottrarlo al destino di nicchia, una di quelle cose all’inglese che rendono avvincente anche la storia di impiegato del catasto.

I materiali per un lavoro di questo genere sono a mio giudizio già presenti nel lavoro su Carlo Vidua. Un romantico atipico, di Roberto Coaloa e Andrea Testa, edito a cura del Comune di Casale Monferrato nel 2003, che rimane comunque una raccolta di testi redatti in diverse occasioni. Se organizzati in una corretta sequenza narrativa e depurati delle eccessive ripetizioni potrebbero già offrire un’immagine sufficientemente completa e accattivante del personaggio. Per quanto mi concerne, ho saccheggiato spudoratamente da questo testo le citazioni riferibili ai materiali inediti utilizzati dagli autori. Spero non me ne vogliano.

Per chi si fosse appassionato all’argomento sono reperibili (con un certo sforzo) una serie di testi su aspetti particolari della sua vicenda:

Angela Ferraris – Carlo Vidua. La virtù infelice, in “Piemonte e letteratura 1789-1870” – Atti del convegno di S. Salvatore, ottobre 1981

Vincenzo Moretti – Carlo Vidua viaggiatore, in “Piemonte e letteratura 1789-1870” – Atti del convegno di S. Salvatore, ottobre 1981

Gian Paolo Romagnani – Carlo Vidua. Un inquieto aristocratico subalpino, in “Studi piemontesi”, nov. 1986 vol. XV-2

Gian Paolo Romagnani – Carlo Vidua. Viaggiatore e collezionista – Casale M., 1987

Andrea Testa – Carlo Vidua viaggiatore italiano negli Stati uniti, in “Rivista di storia, arte e archeologia per le province di Alessandria e di Asti” CV 1996

Andrea Testa – Riflessioni sugli ultimi viaggi di Carlo Vidua alla ricerca di nuovi mondi – Atti del convegno “L’altro Piemonte nell’età di Carlo Alberto”, ottobre 1999

Esiste anche uno schizzo biografico di misura analoga a quell0 mi0, un po’ datato nell’approccio “ideologico”, ma nel complesso esauriente e piacevole. È Il conte Carlo Fabrizio Vidua viaggiatore monferrino dell’800, di Mario Cappa, comparso sulla “Rivista di Storia, Arte Archeologia per le province di Alessandria e Asti”, anno LXXXII, 1973

Per leggere direttamente Vidua si possono (insomma!) vedere

Carlo Vidua – Relazioni del viaggio in Levante e in Grecia – Olschki, Firenze 2011 (stampato in facsimile)

Carlo Vidua – In Viaggio Dal Grande Nord All’impero Ottomano – Edizioni Dell’Orso, Alessandria (lo si trova a un prezzo che va dai 350 ai 380 euro)

Carlo Vidua – Narrazione viaggio alla Nuova Guinea 1830 (testo bilingue, a cura di Marisa Viaggi Bonisoli), ed. Angolo Manzoni, Torino 2003

Le Lettere sono rintracciabili invece solo nella versione digitale o a prezzo di antiquariato: Lettere del conte Carlo Vidua pubblicate da Cesare Balbo. Tomi I – II – III, presso G. Pomba, 1834, all’indirizzo https://books.google.it/books/about/Lettere_del_conte_Carlo_Vidua.

Per una bibliografia esauriente (ma aggiornata fino al 2003) rimando al volume di Roberto Coaloa e Andrea Testa.

Gli orfani del progresso

di Paolo Repetto, 8 marzo 2021

Forse è solo un problema di disinformazione mia, dal momento che non leggo quasi più i giornali e non seguo la televisione. Mi sarà sfuggito qualcosa. Comunque sia, ho l’impressione che il recentissimo atterraggio della sonda Perseverance su Marte non abbia suscitato nell’opinione pubblica non dico entusiasmi, ma nemmeno una qualsivoglia emozione. Nei giorni successivi nessuno dei miei amici o conoscenti vi ha accennato: ed è gente che non segue solo il festival di Sanremo.

La cosa non mi ha meravigliato affatto: alla luce di quello che ci sta capitando, e pure al netto delle crisi di governo, dei giochi opachi di potere e degli intrallazzi che quotidianamente emergono, è un silenzio comprensibile. In fondo Perseverance non ha neppure il fascino della novità, visto che già altre quattro missioni hanno portato dei rover a calcare il suolo marziano, la prima addirittura venticinque anni fa (ma i primi oggetti terrestri a toccare Marte erano stati, fin dal 1971, i landers della missione sovietica Mars 3), e che in questo momento attorno al pianeta rosso ruotano una sonda cinese ed una sponsorizzata dagli Emirati arabi, mentre altre sono previste in arrivo nel corso dell’anno, per cui a breve ci vorranno i semafori. Ma sul piano prettamente tecnico-scientifico la valutazione è assai diversa: si tratta pur sempre di una missione importante, dalla quale si attendono grossi risultati. La sonda reca a bordo anche un drone, un mini elicottero, che dovrebbe scorrazzare nei cieli del pianeta, e una batteria incredibile di sensori che rileveranno l’esistenza o meno di condizioni per una ipotetica futura presenza umana. Non sono più cose da fantascienza, ma ancora sino a una decina d’anni fa lo erano.

Bene, di tutto questo a nessuno (se si escludono gli addetti ai lavori e i club di appassionati del settore), e a me per primo, lo confesso, importa granché. Un’affermazione del genere parrebbe smentita proprio da quanto dicevo prima, dall’affollamento delle orbite marziane oggi e dai possibili ingorghi sul pianeta rosso domani: ma la contraddizione è solo apparente. Il fatto è che nella percezione comune, non specialistica, queste missioni, per quanto strabilianti, non sembrano avere una ricaduta diretta, visibile, sulla nostra vita quotidiana, e nemmeno si capisce come potrebbero averne una futura (penso che per la mia generazione giochi la disillusione seguita all’avventura lunare, che per il momento, al di là di fantomatici sbocchi “turistici”, sembra tornata ad essere un’impresa fine a se stessa). Appaiono piuttosto mirate a scopi di propaganda politica, a offrire dimostrazioni di potenza tecnologica (e finanziaria, perché i costi sono altissimi). Sotto un profilo pratico, al massimo si può pensare siano finalizzate a sperimentare in condizioni estreme materiali, tecnologie, strumentazioni da riportare poi nella grande produzione sulla terra: ma credo che andare a testare su Marte macchine fotografiche o tessuti pressurizzati risulti un po’ eccessivo persino per le ambizioni produttive più sofisticate e innovative. È anche difficile immaginare che possano rivestire un vero interesse strategico, preludere ad esempio alla creazione di reti remote di controllo, perché allo stato attuale della velocità delle comunicazioni una ipotetica base marziana sotto questo aspetto non avrebbe alcun senso.

Di fatto dunque le missioni continuano, anzi, si infittiscono: ma per contro, quale che sia la consapevolezza diffusa dei loro scopi, non sembrano più sedurre nemmeno attraverso i risvolti spettacolari. C’è allora da chiedersi cosa sia accaduto negli ultimi cinquant’anni, confrontando l’attuale indifferenza con l’entusiasmo suscitato all’epoca dai primi passi umani sulla luna. Fosse un’attitudine solo mia, potrei pensare ad un problema di età: nei giorni della passeggiata di Amstrong avevo vent’anni e almeno teoricamente un mezzo secolo davanti per vedere come sarebbe andata a finire: oggi so benissimo che non lo vedrò, ma anche che tutto sommato non mi perderò molto, e non ne faccio un problema.

Ma non è una sensazione solo mia: almeno, non credo. E nemmeno penso che la scarsa attenzione collettiva sia dovuta solo al Covid, o riguardi soltanto le missioni spaziali. C’è dell’altro, la faccenda affonda più in profondità. C’è in ballo l’idea stessa di progresso, della quale queste missioni erano divenute le avanguardie. O meglio: la fine dell’idea stessa di progresso.

Ci spostiamo dunque su un tema enormemente complesso. Oserei dire, sul tema per eccellenza, quello che condizionerà la vita e le scelte delle generazioni future. In cosa potranno credere? E perché?

Non essendo un testimone di Geova non ho in mente risposte, mi limito a porre le domande. D’altro canto, chi fosse interessato ad approfondire la cosa a livello filosofico e sociologico può trovare materiale a bizzeffe: della fine del progresso si parla (e soprattutto si straparla) da oltre un secolo. La novità degli ultimissimi anni è che ormai non ci si limita a profetizzarla, ma la si certifica, se ne prende atto. Purtroppo lo si fa quasi sempre partendo da un retroterra pregiudiziale, da una condanna aprioristica emessa quando va bene sull’onda di reazioni emotive, quando va male sulla scorta di una lettura “integralista” e acrimoniosa della storia, condotta con una lente deformante. Ciò che posso cercare di fare è quindi, nei limiti delle mie conoscenze, fornire in calce qualche indicazione per letture passabilmente equilibrate.

A scendere io stesso più in profondità naturalmente non ci penso nemmeno: non ne ho le forze, ma prima ancora è un impegno che ormai mi solletica poco. Confesso tuttavia di aver coltivato per un certo periodo, davvero moltissimi anni fa, un progetto del genere, e di avere anche iniziato a lavorarci (come dimostrano le pagine che allego a questo scritto (“L’origine del progresso“), recuperate pari pari dal cassetto nel quale erano sepolte, e che mi azzardo ora a propinare solo come testimonianza della sostanziale coerenza di un percorso), nell’intento di ricostruire la genealogia di questa idealità. Se la cosa è rimasta allo stato di bozza è perché una salutare consapevolezza dei miei limiti la possedevo già a vent’anni, e non l’ho persa nel corso del tempo. Ma proprio in virtù della coerenza che rivendicavo sopra mi sento autorizzato invece a proporre, cogliendo al volo l’occasione, qualche considerazione spicciola, qualche banale constatazione di fatto, sperando di offrire anche ad altri degli spunti per riflettere.

La prima considerazione è naturalmente di carattere lessicale. L’uso linguistico è sempre un sensore affidabile dei fenomeni, oltre che il più immediato. E mai come in questo caso ritengo sia indispensabile avere ben chiaro il significato nel quale si usano le parole. Oggi quando si fanno progetti per il futuro, di qualsiasi tipo, si parla ormai solo di crescita. Quello della crescita è un concetto eminentemente quantitativo: implica il ragionare per dimensioni, volumi, e per antonomasia sottende espansione, incremento delle grandezze economiche (produzione, investimenti, occupazione, reddito, ecc…). È strettamente connesso ad una matematizzazione del mondo e di ogni aspetto della vita. Si parla del tasso di crescita, pensando ad un numero indice, mentre riferito ai singoli individui il termine viene declinato in peso e altezza, caratteristiche quantitative, o in numero di conoscenze, anch’esso in qualche modo misurabile. L’uso del termine crescita sembra garantire dunque al discorso un valore asettico, il crisma dell’oggettività.

Con maggior cautela è invece utilizzato il termine sviluppo, ormai indissolubilmente associato al limitativo sostenibile, e in questa formulazione viene contrapposto proprio alla nuda crescita. Nell’idea di sviluppo entrava un tempo una coloritura più variegata: quando si parlava di paesi in via di sviluppo, o sottosviluppati, si sottintendevano anche ritardi politici e culturali, oltre che economici, cosa che oggi cozza contro il politically correct e solo a pensarla ci si attira l’anatema. Ma quell’idea recava in sé anche una ambiguità insanabile, quella tra una concezione che leggeva lo sviluppo in termini quasi naturalistici, quasi fosse insito nelle cose stesse, ed una che lo vedeva come il prodotto di una volontà e di un disegno prettamente umani. L’ambiguità permane ancora oggi, ma nella sostanza sviluppo è passato a designare qualcosa di ben diverso da ciò che era chiamato a significare sino a cinquant’anni fa: qualcosa cioè di non ineluttabile, di estremamente complesso, da governarsi con mille attenzioni. Il problema è che in realtà il nuovo significato è molto vago, e si presta alle interpretazioni più peregrine e contrastanti.

Ad essere quasi scomparso dal lessico corrente, e già da un pezzo, è invece proprio il termine progresso. A progresso erano sottese valenze morali, sociali, politiche, ecc …, oltre a quelle economiche e tecniche, ancora più esplicite. L’avanzamento morale era considerato infatti una naturale e automatica conseguenza di quello economico e tecnico, e il tutto rappresentava l’esito di uno sforzo interamente umano. Il progresso incarnava insomma fino a qualche decennio fa la concreta manifestazione dello Spirito hegeliano, da accettarsi a scatola chiusa perché imperscrutabile nei modi e nei mezzi del suo dispiegamento, alla quale era naturale sacrificare ogni altro valore. Oggi, al contrario, il termine evoca non solo l’idea una grande illusione, ma quella di una grande menzogna, dietro la quale sono state celate e giustificate le infamie e gli sfruttamenti più sfacciati. Come si sia arrivati a questa inversione semantica è un po’ lungo da spiegare: vedremo di arrivarci per gradi.

Vorrei intanto sottolineare come la parola sviluppo susciti, anche nei critici della modernità e del modello occidentale, una reazione meno negativa di quella connessa all’uso di progresso. Credo che la spiegazione stia nel fatto che la prima ha una valenza originaria di matrice biologica: il nostro cervello nel corso della sua evoluzione ha sviluppato dei modelli conoscitivi che hanno dovuto tenere conto della mutevolezza della realtà, della incessante trasformazione del nostro corpo e di quella dell’ambiente che ci circonda, per accettarla senza essere indotto a reazioni di paura. Questi cambiamenti sono stati di conseguenza percepiti, fossero essi ciclici (stagioni, fasi lunari, ecc ..) o irreversibili, come fasi del naturale “sviluppo” di un organismo o di un intero ambiente. La parola progresso viene invece automaticamente ascritta ad un ambito “culturale”: indica qualcosa che va ben oltre, che chiama in gioco le arti e la téchne.

La seconda considerazione concerne la storia dell’idea di progresso. In genere diamo questa idea come scontata, nel senso che parrebbe aver accompagnato tutto il processo della “civilizzazione”; è invece piuttosto recente, risale a non più di quattro o cinque secoli fa, agli esordi della rivoluzione scientifica. In termini macrostorici la sua obsolescenza è quindi stata rapida (come del resto quella di tutte le idee guida sorte dopo quel periodo). In realtà la credenza nel progresso non si è mai affermata completamente, e soprattutto ha viaggiato su due binari ben distinti. All’inizio era caldeggiata solo dagli ambienti scientifici (l’Advancement of Learning, 1605, di Francesco Bacone può esserne considerato il manifesto antesignano – ma io credo che i veri precursori siano da individuarsi negli studi quattrocenteschi sulla prospettiva), mentre veniva osteggiata da quelli religiosi e dall’establishment intellettuale più conservatore, e rimaneva in pratica sconosciuta a tutto il resto della popolazione. Anche Fontenelle, che nel 1688 la teorizzò apertamente con la Digression sur les anciens et les modernes (in base al principio della costanza dell’ordine naturale, per cui come ogni altro processo di natura anche la vita dell’umanità è governata da leggi immutabili, e le differenze tra l’oggi e il passato hanno origine dall’accrescimento del sapere nel corso del tempo) non sarebbe stato assolutamente in grado di far comprendere in cosa consistesse all’atto pratico questo fantomatico progresso ai milioni di contadini che sopravvivevano stentatamente nelle campagne francesi e dell’Europa tutta. Sino alla metà del diciannovesimo secolo più dei due terzi dell’umanità del progresso conosceva solo, e a proprie spese, le ricadute tecnologiche peggiori, ovvero gli strumenti militari della colonizzazione o della repressione e quelli “civili” del controllo del tempo e del lavoro. E tuttavia, il mutamento di prospettiva aveva cominciato lentamente ad agire anche dall’interno, nelle coscienze individuali, come frutto della secolarizzazione galoppante. L’affermazione su vasta scala dell’idea fu in effetti più legata alla rivoluzione morale indotta dalla Riforma che ai ribaltamenti conoscitivi prodotti da Cartesio e da Newton.

Ciò che intendo dire è che agli inizi del Settecento nulla era ancora intervenuto tangibilmente a sconvolgere i ritmi millenari della vita contadina, ma qualcosa cominciava a smuoversi nelle coscienze, nella percezione del tempo e nelle aspettative che lo caratterizzavano. L’incontro col grande pubblico, la discesa dell’idea sulla terra, si realizzò però solo sull’onda del positivismo; le grandi esposizioni universali, il dilagare delle ferrovie, le meraviglie dell’elettricità e la diffusione delle industrie, erano qualcosa che andava concretamente a incidere sulla vita quotidiana.

Nel frattempo, tuttavia, dopo che l’Illuminismo aveva connotato “materialmente” questa progressione, portando in primo piano l’interesse per l’artigianato, per l’industria, per l’economia in generale, si era già scatenata la reazione romantica, a difesa del sentimento contro la ragione calcolante. Il progresso aveva cominciato ad essere messo in discussione non solo dalla cultura reazionaria, ma anche da quella che oggi si definirebbe cultura “progressista”. A fronte delle nuove meraviglie tecnologiche riuscivano evidenti anche i costi sociali e ambientali altissimi, e ciò alimentava da un lato le reazioni popolari, con fenomeni come il luddismo, dall’altro offendeva la sensibilità estetica e morale degli intellettuali. Nel corso dell’ottocento le due cose avrebbero poi trovato una composizione col nascere prima delle organizzazioni operaie e sindacali e col loro confluire poi in movimenti politicamente strutturati, attraverso i quali il rifiuto veniva incanalato nella direzione opposta: non era più l’idea di progresso ad essere messa in discussione dal basso, ma piuttosto la sua interpretazione in termini di una distribuzione ineguale dei benefici.

Ma proprio mentre sia il marxismo che il liberalismo cucivano l’idea di progresso sulle proprie bandiere, e persino i popoli non occidentali cominciavano a farla propria, la stessa veniva già data per spacciata a cavallo tra il XIX e il XX secolo dalla cultura decadente, tanto che dopo la prima guerra mondiale la sua parabola era considerata definitivamente chiusa. Il secolo scorso l’ha vista risorgere ancora, almeno nella coscienza popolare, nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale: ma solo per tramontare, e questa volta direi definitivamente, dopo gli anni settanta.

La storia dell’idea di progresso ha conosciuto dunque un andamento tutt’altro che lineare e progressivo, almeno per quanto riguarda la considerazione riservatale dall’ambiente intellettuale: ma, soprattutto, c’è stato uno scarto sia temporale che qualitativo notevole tra questa considerazione e la percezione che ne ha invece avuto la maggior parte dell’umanità. Ho azzardato questo pasticciatissimo riassunto per sottolineare una cosa molto semplice, che mi viene in mente ogniqualvolta leggo le requisitorie che si sono levate (e oggi più che mai si levano) da tutte le parti contro l’idea di progresso. Per quanto il mea culpa sia espresso in termini di norma molto generici (la nostra civiltà, il nostro sistema, ecc…), ho l’impressione che la responsabilità di aver coltivata (e mal digerita) tale idea venga alla fin fine tacitamente ribaltata sulla “gente”, sugli incolti che si sono lasciati abbagliare dagli effetti speciali e dalle luminarie, mentre la parte “pensante” rivendica per sé il ruolo di precoce cassandra inascoltata. Bene, le cose non stanno proprio così. Se questa idea per un certo periodo si è imposta è perché forse davvero recava con sé un nuovo tipo di speranza, un senso da dare all’esistenza, e davvero veniva suffragata, al netto di tutte le tare possibili, da effettivi e tangibili miglioramenti delle condizioni di vita. Non si è trattato della corsa insensata di una massa di allocchi ad inseguire una chimera, ma della legittima aspirazione dei molti a godere almeno in parte di ciò che ai pochi era stato da sempre garantito. Questo mi sembra doveroso chiarirlo, e va tenuto ben presente se si vuole evitare l’ipocrisia. Insomma: le semplici cifre dell’aspettativa di vita nel Seicento, ad esempio, confrontate con quelle odierne parlano chiaro. E raccontarci che non ha senso raddoppiare gli anni di vita senza riempirli di significato è uno stupido sofisma. Il ruolo del progresso, se un ruolo vogliamo attribuirgli, sarebbe quello di creare le condizioni per vivere di più, con minori fatiche e con maggiori sicurezze: a vivere meglio, nel senso di dare alla nostra esistenza un significato, dobbiamo pensare noi.

In sostanza: il popolo dei credenti nel progresso non usciva dall’Eden, checché si insista oggi a raccontare, ed è stato guidato all’esodo da un mondo immobile e tutt’altro che idilliaco proprio dalle avanguardie intellettuali. Se poi il percorso si è rivelato tortuoso, o addirittura, come pensano i più, catastrofico, una qualche responsabilità queste guide dovrebbero assumersela: prima tra tutte, quella di non aver saputo suggerire percorsi alternativi credibili, vuoi per l’incapacità spesso volontaria di comunicare con chiarezza, vuoi, soprattutto, per la presuntuosa ignoranza delle reali condizioni e delle vere aspettative delle “masse”.

La terza considerazione prende spunto direttamente dalla constatazione iniziale, dal fatto che alla “gente” appunto non importa più nulla delle missioni spaziali. Ciò non avviene perché il ripetersi di queste ultime abbia prodotta ormai una certa assuefazione: il fatto è che non si vede più nelle missioni alcun segno di progresso, non le si inquadra più in quella dimensione di speranza e di attesa per il futuro che aveva caratterizzato ad esempio il primo allunaggio. Il che significa che, lungi dall’essere distratta, la gente ha in realtà disgiunto l’idea di progresso da quella di avanzamento tecnologico: al momento vede solo quest’ultimo e si rende conto di come solo strumentalmente abbia a che fare con quella condizione di maggiore serenità e giustizia che il progresso nella visione dei suoi promotori avrebbe dovuto assicurare.

Qui si apre una questione delicata. Riguarda appunto il fatto che l’avanzare delle tecnologie è l’aspetto più clamorosamente evidente del cosiddetto progresso, ed ha finito per essere confuso ad un certo punto dai più con “il” progresso tout court. In realtà, la tecnologia dovrebbe essere solo lo strumento che rende possibile il progresso, o meglio, uno degli strumenti (altri possono essere considerati ad esempio la politica, ecc …). La tecnologia in sé è insomma come una scatola di fiammiferi in mano ad un bambino, secondo l’immagine di J. B. Haldane, e con quella il bambino può accendere delle candele che illuminano la stanza o dar fuoco a tutta la casa. In quanto strumento, se non funziona o se funziona male, può essere aggiustato, se produce disastri può essere cambiato. I tecnofobici tendono a sottolineare come da strumento essa sia diventata ad un certo punto fine a se stessa, si sia “autonomizzata”, e questo in parte è vero: ma non considerano a sufficienza il fatto che è la scelta del bambino, e non una autonoma volontà della scatola di fiammiferi, a produrre eventualmente la distruzione della casa.

È altresì vero (non lo dico io, lo afferma uno come il fisico Freeman Dyson[1]) che “negli ultimi quarant’anni gli sforzi maggiori della scienza pura si sono concentrati in campi altamente esoterici, lontani da ogni contatto con i problemi quotidiani. […] Al tempo stesso gli sforzi maggiori della scienza applicata si sono concentrati su prodotti che possano essere venduti con profitto. Poiché ci si può attendere che per i nuovi prodotti i ricchi paghino più dei poveri, la scienza applicata condurrà, come al solito, all’invenzione di giocattoli per i ricchi. […] L’incapacità della scienza di produrre benefici per i poveri in questi ultimi decenni è dovuta a due fattori che operano nella stessa direzione: gli scienziati puri sono diventati meno sensibili ai bisogni mondani dell’umanità, e gli scienziati applicati sono diventati più attenti alle prospettive di profitto immediato”. In effetti esiste anche una terza alternativa, quella che i fiammiferi vengano utilizzati solo per accendere delle sigarette. Ma non sono loro i responsabili del vizio del fumo.

Ora, l’identificazione del progresso con la tecnica, e della tecnica con la negazione della natura e col trionfo dell’artificio, è alla base di tutti gli attacchi all’ “ideologia” delle “magnifiche sorti e progressive”. Si tratta allora di capire se il progresso così inteso sia o meno intrinseco alla natura umana, sia cioè un fattore costitutivo e fondante della humanitas. E in caso affermativo, se gli esiti debbano essere considerati necessariamente quelli che abbiamo di fronte, o se invece non ci sia stato ad un certo punto uno scarto, non si sia prodotta una forzatura, che ne ha dirottato le finalità e condizionato i modi. E ancora, se questo fenomeno sia eminentemente “occidentale” oppure no, e chi e cosa abbia in tal caso prodotto la frattura.

Il discorso a questo punto diventa talmente complesso da consigliarmi di lasciare in sospeso la questione. Ho già messo sin troppa carne al fuoco. Potrà essere l’argomento per interventi futuri, meglio sarebbe se di altri.

Per il momento mi limito invece a un paio di constatazioni conclusive. Per quanto sia additata quasi universalmente come la causa di tutti i nostri guai, la tecnica (e per estensione naturalmente la scienza, della quale la tecnica costituisce la risultante performativa) è oggi è anche l’unica che ai guai – di origine naturale o artificiale che siano – può porre in qualche misura rimedio. Lanciare dei violenti j’accuse contro la mentalità scientifica, contro la “ragione calcolante”, contro la nemmeno troppo strisciante tecnocrazia, può far vendere qualche libro e procurare qualche comparsata televisiva in più, ma non offre risposte immediate e concrete ai sette e passa miliardi di umani che si aspettano domani di poter mangiare e di potersi curare. In questo momento qualche Agamben in meno e qualche scienziato in più farebbe comodo.

E a questo proposito: la vicenda Covid ha necessariamente intensificato il rapporto tra la gente comune e la scienza (ma in realtà è più corretto dire: con l’ambiente scientifico). Avrebbe potuto essere un’ottima occasione, purtroppo pagata a un prezzo salatissimo, per sottoscrivere una “nuova alleanza”, per aprire un dialogo che in realtà non c’è mai stato e per orientare la scienza stessa su obiettivi più “sociali”, distraendola da una vocazione che sta diventando sempre più “economica”. Così non è stato. Il rapporto è oggi caratterizzato da una fondamentale ambiguità, in gran parte dovuta proprio al comportamento “spettacolare” e in qualche caso decisamente incosciente degli “esperti”, esasperato poi all’ennesima potenza da una modalità di informazione becera e urlata, superficiale nel migliore dei casi e distorsiva negli altri. Così, da un lato, le diatribe tra virologi e immunologi e infettivologi hanno sconcertato un pubblico che si attendeva risposte certe, e hanno minato la credibilità dell’ambiente scientifico: dall’altro lo stesso pubblico si trova a dover confidare comunque sempre più, per ottenere risposte, in una scienza volgarmente screditata dai suoi sacerdoti. La situazione risultante non mi pare molto diversa da quella in cui sopravvivono le religioni: credere nella scienza è diventato per molti un puro atto di fede, motivato dalla disperazione. Invece di chiarire il ruolo reale che la scienza ha, che è quello di porre le domande giuste e offrire risposte sempre passibili di essere smentite o migliorate, si è accreditata da un lato l’immagine della scienza come nuova divinità, che si vuole o si spera infallibile, dall’altro quella di una grande menzogna, che non solo non risolverà il problema, ma è addirittura responsabile di averlo creato.

Non è di questo che abbiamo bisogno: abbiamo bisogno non di fede, ma di ragionevole fiducia, che significa una fiducia fondata su una maggiore conoscenza e attenzione collettiva a quel che davvero accade nel mondo scientifico. La scienza, pura o applicata che sia, può diventare “etica” e tornare a guardare alle reali necessità umane. Ma per farlo necessita di una spinta e di un controllo, e quelli siamo noi, attraverso i nostri comportamenti politici collettivi e quelli morali individuali, a doverli esercitare. Di fronte a situazioni come quelle attuali, e non mi riferisco solo alla pandemia, non ci sono più alibi per il disimpegno, e non serve a nulla ritirarci schifati sull’Aventino. Il progresso non è né il vento della volontà divina né l’alito fetido di un Moloch che ci divora. È ciò che la nostra natura e la nostra coscienza ci impongono di perseguire.

Per farlo avremo un gran bisogno di Perseverance. Ma che si muova qui, sulla terra.

Avevo promesso qualche indicazione di lettura. Eccone alcune, per cominciare.

BURY J. B. – Storia dell’idea del progresso, Feltrinelli 1964

EDELSTEIN, L., L’idea di progresso nell’antichità classica, Il Mulino 1987.

LASCH, Ch., Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Neri Poz-za, 2016

HALDANE J.B. S., Dedalo, o la scienza e il futuro, Boringhieri 2008

MUMFORD, L., Tecnica e Cultura, Il Saggiatore 1964

NACCI, M., Tecnica e cultura della crisi, Loescher 1982

ORTEGA y GASSET, J., La ribellione delle masse, SE 2017

ROSSI, P., Naufragi senza spettatore. L’idea di progresso, Il Mulino 1995.

RUSSEL, B., Icaro, o il futuro della scienza, Boringhieri 2008

SASSO, G., Tramonto di un mito. L’idea di progresso fra Ottocento e Novecento, Il Mulino 1984.

SCHELER, M., Il risentimento nella edificazione delle morali, Chiare-lettere 2019

SPENGLER, Osvald, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi 2008

SPENGLER, Osvald, L’uomo e la tecnica, Meridiana 2008

TOYNBEE, A., Civiltà al paragone, Bompiani, 1949.

[1] ne Lo scienziato come ribelle, Longanesi 2009

Un viaggiatore in giacca di velluto

di Paolo Repetto, 20 novembre 2020

Un viaggiatore in giacca di velluto

Xavier Marmier: fin dove la terra arriva

L’uomo

Lo studioso e lo scrittore

Il viaggiatore

Cinquantacinque anni di libri di viaggio

Bibliografia

In copertina: “Voyages de la Commision scientifique de Nord: en Scandinavie, en Laponie, au Spitzberg et aux Feroe, pendant les années 1838, 1839 et 1849”.

Tutte le altre immagini sono tratte da “Lettres sur l’Islande”, “Lettres sur le Nord, le Danemark, la Suède, la Norvège, la Laponie, le Spitzberg”, “Voyage pittoresque en Allemagne. Partie Mèridionale” di Xavier Marmier.

Un viaggiatore in giacca di velluto

Suave mari magno, turbantibus œquora ventis,
E terra magnum alterius spectare laborem.
(Lucr. II 1-61)

Vivere le peripezie altrui, al riparo da tempeste e pericoli, rimanendo tranquillamente a riva, nelle nostre dimore. Penso sia questo il primo segreto della fascinazione dei libri di viaggio: una sorta di transfert catartico che consente di caricare per interposta persona il fabbisogno di adrenalina, e di scaricarla poi senza rimediare cicatrici. Ma non è certamente l’unica motivazione. C’è anche quella, più razionale e pacata, data semplicemente dalla voglia di conoscenza: deleghiamo qualcuno a scoprire per conto nostro il mondo, e vediamo quest’ultimo attraverso i suoi occhi.

A volte le due motivazioni viaggiano congiunte, e prevale ora l’una ora l’altra a seconda delle situazioni oggettive nelle quali il nostro delegato incappa o si va a cacciare, e dello sguardo soggettivo col quale le fotografa e le racconta. Quando prevale la componente avventurosa, quella in cui il narratore sta sempre al centro della scena, se chi racconta è bravo finisce che ci appassioniamo ai fatti, o al personaggio, più che ai luoghi. È la linea narrativa portata all’esasperazione ad esempio da Chateaubriand, per citare un classico, o seguita da Chatwin e dai suoi innumerevoli epigoni, ma in fondo è la stessa già presente in Montaigne.

Ci sono però anche viaggiatori che riescono a farci compiere tutto il percorso senza quasi mai comparire nel quadro, pur narrando sempre necessariamente in soggettiva. Sono quelli che si scelgono un ruolo di testimone, anziché di protagonista.

In genere il loro racconto è meno appassionante, ma se la nostra aspettativa è quella della conoscenza, anziché quella adrenalinica, viene soddisfatta molto meglio. E questo vale in primo luogo per i resoconti di viaggio redatti in epoca pre-fotografica, quando cioè la testimonianza era affidata principalmente alla parola, e le immagini avevano solo la funzione di esche per attizzare la fantasia (con l’eccezione naturalmente dei viaggi a carattere scientifico, per i quali erano arruolati disegnatori e pittori specializzati nelle riproduzioni della flora e della fauna, o nel repertorio etnologico). La conoscenza che ne ricaviamo è sia geografica che antropologica, ma è prima ancora una conoscenza storica, non soltanto dei luoghi e delle genti, ma del modo in cui quei luoghi e quelle genti sono stati visti nel corso del tempo e dello spirito col quale sono stati vissuti.

Il valore “formativo” della letteratura di viaggio è oggi pressoché dimenticato. Le informazioni che forniva sono superate, luoghi e popoli si sono (o sono stati) trasformati. Ma per tutto l’Ottocento questa letteratura, diffusa attraverso i libri ma soprattutto col tramite di periodici specializzati, ha costituito la fonte pressoché unica della conoscenza geografica e antropologica popolare, nonché il primo strumento di promozione turistica (non dimentichiamo che la letteratura popolare di viaggio nasce contemporaneamente agli uffici di Thomas Cook, la prima agenzia turistica al mondo). Ha ricoperto insomma il ruolo che nel secolo successivo è stato del cinema prima e della televisione poi, e che oggi sempre più si sta trasferendo ai nuovi media. Dietro il successo di riviste come “Il giornale illustrato dei viaggi” da noi o la “Revue des deux mondes” in Francia ci sono senz’altro precisi interessi politici ed economici, legati al colonialismo e all’imperialismo, c’è la volontà di suscitare interesse e aspettative rispetto a specifiche zone del mondo, o di giustificare le politiche attuate in quelle già controllate; ma c’è anche la rispondenza di queste pubblicazioni ad un bisogno nuovo e diffuso di orizzonti più ampi, da percorrersi per il momento magari solo con la fantasia. In alcuni casi, come possono essere quello di Dumas o di Pierre Loti in Francia, o di De Amicis per l’Italia, questa produzione aspira ad un certo livello letterario (e in genere ne paga lo scotto in termini di obiettività): nella gran parte non si solleva da una dignitosa mediocrità.

Ma ciò che mi interessa, rispetto al personaggio del quale vado a parlare, non è tanto il valore letterario (che per una letteratura di questo tipo trova difficilmente dei parametri di definizione, visto che essa risponde ad aspettative singolarmente molto diverse e comunque mutevoli nel tempo) quanto quello “d’uso”. Tratterò infatti di un autore oggi praticamente dimenticato, ma che fu capace all’epoca di appassionare, informare e in molti casi motivare una marea di lettori. Non è merito da poco, e andrebbe tenuto nella giusta considerazione. Se poi oggi le sue opere appassionano molto meno, questo dipende proprio dal fatto che l’intento informativo prevale in esse su quello artistico, e che questa informazione è ormai da un pezzo ampiamente superata. Non lo sono però la passione e lo spirito con cui veniva fornita. Per questo mi sembra valga la pena riproporlo, anche a nome di tutti i moltissimi altri “artigiani” della narrazione di viaggio che come lui hanno costruito nel tempo, bene o male, l’immagine con la quale il mondo ci arriva.

Xavier Marmier: fin dove la terra arriva

Uno che a sette anni scappa di casa, non per sottrarsi a maltrattamenti famigliari o a genitori asfissianti, ma solo perché è in cerca di avventura e di evasione, non può che allertare i miei sensori. Xavier Marmier lo ha fatto, e già solo per questo merita di essere sottratto all’oblio. In realtà il record spetterebbe a mio figlio, che a nemmeno quattro anni, in una serata autunnale, poco prima di cena ha indossato il suo mini-loden, ha messo due brioches e una banana nel cestino dell’asilo e ci ha annunciato che partiva per la Cambogia. Ho dovuto scortarlo sino in piazza, alla pensilina del pullman, e ho poi impiegato quasi mezz’ora a convincerlo a rimandare la partenza al mattino successivo, e a cenare ancora una volta con noi. Credo che quest’ultimo argomento sia stato decisivo.

Xavier però faceva sul serio, e a riportarlo a casa fu un ussaro austriaco (in quel momento, nel 1815, gli eserciti della grande coalizione che aveva sconfitto Bonaparte occupavano il territorio francese), messo in sospetto da quel bambino infreddolito che tutto solo percorreva la via verso la Svizzera. Xavier si era già allontanato di diverse decine di chilometri dalla sua casa, e nei suoi ricordi non si fa cenno a come sia stato riaccolto in famiglia. Certamente si erano resi conto di aver a che fare con un tipo piuttosto irrequieto.

Ce la misero tutta per calmare i suoi bollenti spiriti. Fu inviato a studiare in successione in tre diversi seminari, e se ne andò da tutti e tre. Senza gesti clamorosi: semplicemente, prendeva su e se la filava. Sarebbe rimasto per sempre il suo stile. Era il primo dei maschi di famiglia (aveva tre fratelli, tutti più giovani, e due sorelle) e il padre, persona buona ma piuttosto pedante e codina, deve aver ben presto disperato di raddrizzarlo.

Xavier nasce (nel 1808) in una zona della Francia che più tranquilla e sonnolenta non si può, la Franca Contea. È l’area che confina a nord-est con la Svizzera, la zona per intenderci che fa capo a Besançon, e nel caso del nostro protagonista il confine svizzero è praticamente a due passi. Con i luoghi dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza Marmier avrà sempre un rapporto contradditorio: li ama, e li celebra anche in un libro commovente, ma da un certo punto della sua vita in poi li eviterà il più possibile. È un nomade per vocazione, come già abbiamo constatato, e un campanilista per formazione: cose che sono meno inconciliabili di quanto possa apparire.

Arrivato a vent’anni praticamente senza arte né parte, con alle spalle studi per certi versi appassionati ma assolutamente irregolari, Xavier deve decidere cosa farà da grande. Non ha affatto le idee chiare. Sogna di diventare poeta, che è tutto dire. L’unica cosa su cui non ha dubbi è ciò che non vuole: messo davanti alla prospettiva di un impiego nella biblioteca di Besançon, cortesemente declina. Ad un intellettuale, Charles Weiss, che lo aveva preso a benvolere e che rimarrà un riferimento per Xavier per tutta la vita scrive: “Dovete capire il mio scopo e il mio progetto; può essere temerario, stravagante, ma io ho vent’anni … Entrerò in una vita avventurosa, in un futuro aperto e promettente, ma difficile. Sarà un avvenire ben diverso da quello che avrebbe potuto riservarmi Besançon, e se dovessi fallire, se dovrò vivere povero e miserabile, preferisco farlo in un altro paese che non nel mio. Non è proibito osare, e quando si è giovani, quando si ha del coraggio, è meglio impiegarlo per scalare una montagna che per trascinarsi sui sentieri degli altri …”

A questo punto sparisce dalla circolazione. Nessuno dei suoi amici e dei suoi parenti sa dove sia finito. Ci sono voci che lo danno in Germania, lungo il Reno, a Londra, o addirittura sui Pirenei. Lui stesso nelle memorie biografiche non racconta molto. In realtà per qualche mese vagabonda per la Svizzera (evidentemente un suo pallino), zaino in spalla e tasche quasi vuote. Ne torna con una raccolta poetica, Esquisses poétiques, piena di piccole vedute romantiche dei laghi e delle Alpi, sullo stile di Lamartine. Scrive cose di questo genere:

I giorni muoiono, la vita si spoglia in silenzio,
Oggi è l’amore che me ne prende una foglia,
poi i lunghi colloqui di una vecchia amicizia,
poi il vago piacere d’esistere a metà,
come un napoletano nel suo molle oziare,
di sedermi al sole e di vedere senza tristezza
dissolversi le luci di un orizzonte dorato[1].

Prosegue nel vagabondaggio ancora per qualche tempo in Francia, poi torna a Besançon, dove gli amici gli procurano un posto in un giornale. Ma dura poco. “Ho avuto una discussione piuttosto vivace, – scrive al padre – qualche giorno fa, discussione seguita da pianti e recriminazioni rivolte a B…, il quale non ha osato darmi torto, ma ne aveva senz’altro voglia. Del resto, questo non è nulla e non vi deve inquietare; è solo l’effetto di questa miserabile suscettibilità contro la quale mi si troverà sempre, quando io abbia ragione, così inflessibile e indipendente come un uomo di cuore deve essere.” E promette: “Nulla potrà trattenermi in una città nella quale sono tornato solo per pagare i miei debiti e lasciare un ricordo che possa non spaventarvi quando verrete ad abitarvi; non inquietatevi mai per me, e vogliate credere che il mio carattere, la mia esistenza, la mia reputazione non possono essere sviati da quella strada che un uomo assolutamente onesto deve percorrere.”

A tal fine partecipa a un concorso indetto dall’Académie des Sciences di Besançon per una cattedra di storia, e lo vince. Non solo: due editori locali gli chiedono di pubblicare il testo prodotto per la prova. “L’elogio che M. Bourgon ha tessuto del mio studio era la cosa più dolce da ascoltare che mai avrei potuto immaginare, e i ‘bravo’, gli applausi vi hanno fatto seguito. Sono passato, per andare a ricevere il premio, in mezzo ad uno stuolo di ascoltatori che battevano le mani e mi davano le più toccanti testimonianze di simpatia.” Con questo ha pareggiato i conti con Besançon, dove in effetti durante la sua esistenza tornerà pochissime volte. E con il padre. Può partire senza lasciare debiti, di nessun tipo.

A ventiquattro anni ha dunque inizio la sua vera carriera di viaggiatore, che esordisce con un percorso esattamente inverso a quello compiuto da Heine nello stesso periodo. La destinazione è la Germania. Ovunque sfrutta le lettere di raccomandazione che gli sono state procurate per farsi aprire i salotti buoni e magari imbucarsi a pranzo, ma soprattutto per crearsi altre relazioni e amicizie. Non gli riesce difficile, è un conversatore piacevole, capace di ascoltare, erudito a dispetto dell’età, curioso e attento. A Lipzia si ferma sei mesi, il tempo per imparare decentemente il tedesco e affrontare la traduzione di opere letterarie. Spera anche in un incarico come professore di letteratura, che però non arriva. Deve tirare la cinghia. Comunque, l’anno successivo, nel 1833, è a Dresda, dove stringe amicizia con Ludvig Tieck. E poi, finalmente, a Berlino, per un breve soggiorno prima di rientrare a Parigi.

Di questo viaggio rimane testimonianza in alcuni componimenti poetici, versi d’addio, di ringraziamento o celebrativi, decisamente deboli. Ma è il primo a rendersi conto che non è quella la strada per la gloria. A Parigi, dove frequenta soprattutto Charles Nodier, comincia ad occuparsi di ricerche storiche e di studi bibliografici, ciò che gli consente almeno di sopravvivere. E intanto matura un’altra passione, la bibliofila. “Non passa giorno che non mi ci abbandoni, e comincio a pensare che stia diventando mania. Non cerco ancora i libri rari, ma quando arriverò anche a quelli dovrò farmi mettere sotto tutela per conservarmi qualche scudo.”

Il suo sogno in questo periodo è di scrivere un’opera fondamentale sulle letterature comparate: il che, per uno studioso serio, comporta intanto conoscere più lingue. Si dedica dunque ad uno studio intensivo, che lo porta in brevissimo tempo a padroneggiare, oltre che il tedesco, il russo. “Sono molto fiero di essere arrivato, da solo, a forza di pazienza, ad apprendere il russo, così difficile e così dissimile da ogni altra lingua che io conoscevo”. Ma non ha terraferma. A differenza dei suoi compatrioti, che, dice “n’aiment pas les longs voyages”, sono trattenuti a casa dalla dolcezza del clima e dalle bellezze naturali e culturali che la Francia offre, lui si sente soffocare dopo un poco in qualsiasi ambiente.

L’anno successivo riparte dunque per la Germania. Questa volta tocca Monaco, poi Praga e Vienna. Da Praga è letteralmente sedotto, la definisce “un miraggio quasi orientale”. Ma è entusiasta in pratica di tutto ciò che vede e trova a Strasburgo, Stoccarda, Monaco, Innsbruck, Trieste, Lubiana. E soprattutto dalla simpatia e dal rispetto che (a quell’epoca) i tedeschi mostrano per la Francia. Piuttosto, ha da fare qualche rilievo molto pratico: “Da quando l’ho visitata per la prima volta, la buona Germania ha imparato a fare i conti, ma non ha migliorato affatto la sua cucina. Dopo aver varcata la frontiera francese non ho più potuto bere una buona tazza di caffe. Nei suoi alberghi la vita è cara, e si vive male.” Nel frattempo dà alle stampe un libro su Goethe, che incontra un certo favore. Lui stesso ammette però che ancora non ci siamo: “Non giudicatelo – scrive a Weiss – da quel che ne dicono molti giornali: ci hanno visto il tentativo di un giovane che, pur senza raggiungere lo scopo, era quantomeno sorretto dalla voglia di fare bene. Hanno accolto con indulgenza questa prova di buona volontà.” È un giudizio molto consapevole ed onesto. Marmier aspira a ben altro: “Vorrei fare un lavoro simile per tutte le principali epopee del Nord, per il Titurel, per il Parsifal, e soprattutto per il libro degli eroi e per i Nibelunghi”.

Deve tuttavia anche sbarcare il lunario. Una volta tornato a Parigi pubblica dunque “L’Ami des petits enfants”, traduzione dall’olandese (strada facendo ha infatti imparato anche quella lingua) di fiabe popolari. Sarà il primo di una lunga e fortunata serie. In questo modo unisce l’utile al dilettevole, perché la cultura popolare (fiabe, canti, leggende) è un’altra delle sue passioni, e ne raccoglierà testimonianze in tutte le terre visitate. Già guarda comunque più lontano.

Questa volta dirigerà i suoi passi verso il grande Nord. Marmier preferisce i paesi nordici alle contrade assolate, sopporta volentieri il rigore del freddo e le temperature glaciali. Coltiva poi un sogno in particolare, quello di visitare l’Islanda (diventata di moda dopo il romanzo di Hugo, Han d’Islanda, ma in realtà quasi totalmente sconosciuta, anche allo stesso Hugo), e vorrebbe provare a vivere per un po’ di tempo l’esistenza solitaria e monotona della sua gente.

Il suo sogno probabilmente non si realizzerebbe mai, se non fosse chiamato, nel 1835, a far parte di una spedizione organizzata dall’Académie Française e diretta all’isola. Le competenze linguistiche cominciano a fruttare e gli valgono l’imbarco sulla corvetta La Recherche, attrezzata appositamente per le missioni scientifiche, assieme a un geologo, un botanico e un pittore, col compito di redigere la relazione finale del viaggio e di raccogliere tutto il materiale possibile sul linguaggio, le tradizioni, i miti, i costumi e i monumenti del paese. Dalla fine di maggio a settembre Marmier gira per l’Islanda, si addentra nell’altipiano per osservare il fenomeno dei geyser, sale sul vulcano Hekla, visita lungo la costa i miseri villaggi di pescatori e nell’interno le più sperdute fattorie, mentre nel frattempo La recherche forza il pack e arriva sulle coste della Groenlandia. Marmier ha incaricato un compagno di viaggio di raccogliere per lui, secondo una scaletta ben precisa, le impressioni ambientali e le notizie su quello sperdutissimo insediamento danese. Per quanto lo concerne, ha la capacità istintiva di caratterizzare i luoghi attraverso le forti sensazioni immediate.

Per l’Islanda, ad esempio, anziché far leva sullo sconcerto che pure quel paesaggio lunare non può non suscitare al primo impatto nel viaggiatore, si affida alla forte sensazione olfattiva. Parla del nauseabondo puzzo del pesce essiccato, che ti accompagna in ogni punto dell’isola (Oggi naturalmente non è più affatto così, l’essicazione si fa al chiuso e solo in alcune zone remote della costa settentrionale). E anche il seguito non promette meglio. Il primo approdo, Rejkiavik, è un paesotto di seicento anime, la maggior parte delle quali alloggia in case di legno. Attorno, soprattutto verso l’interno, è il deserto. Eppure, mano a mano che il viaggiatore supera lo sgomento del primo impatto e si abitua all’odore, al vento e al silenzio, l’impressione si capovolge. Xavier ci guida alla scoperta delle bellezze naturali, delle cascate, dei ghiacciai, del geyser, ma anche della sobria essenzialità dei comportamenti, della ricchezza e della profondità delle tradizioni, dell’inaspettata cura per l’istruzione (uno dei suoi pallini, il suo parametro per eccellenza di valutazione di una civiltà). Col procedere dei giorni e delle conoscenze il coraggio e la forza degli islandesi, la dignità con la quale affrontano la loro difficile esistenza, ma per contro anche la singolarissima bellezza dei luoghi, lo conquistano. Ne esce un volume, “Lettres sur l’Islande ” (1837), nel quale si raccontano non solo l’Islanda, la sua storia e i suoi costumi, ma si scava anche sulle origini dei popoli scandinavi. Il materiale raccolto è talmente ricco che l’anno successivo Marmier può pubblicare “Langue et littérature islandaises ” e trarre dalla relazione una “Histoire de l’Islande depuis sa découverte”. Ha finalmente trovato la sua vera vocazione: il successo immediato delle Lettres glielo conferma. Gli editori e il ministero francese dell’istruzione lo tengono ormai d’occhio.

Nel frattempo ha completato l’apprendimento del danese e dell’islandese, e approfondito la conoscenza delle culture scandinave. Nel 1838 è pronto a ripartire per una nuova missione, che dovrà studiare la Svezia, la Norvegia, la Lapponia, le isole Fær Øer e le Svalbard.

Questa volta la sortita è più lunga. Marmier rimane fuori per oltre un anno. Si ferma un mese a Copenhagen, dove conosce il celebre scultore Thorvaldsen e il “favoloso” Hans Christian Andersen, per poi passare in Svezia, dove percorre quasi mille chilometri tra boschi e laghi. A Uppsala, da buon bibliomane, è colpito dalla ricchissima dotazione della biblioteca, che ospita preziosissimi codici antichi, mentre a Stoccolma è ospite del re Carlo XIV. E non manca di esplorare il mercato librario, a caccia di testi rari e sconosciuti. “Brucio tutte le mie risorse nell’acquisto di libri, e le mie risorse sono alquanto limitate; tuttavia, porterò a casa delle buone cose e pagherò un tributo filiale alla biblioteca. Sto per inviare una grande cassa di libri svedesi, danesi e islandesi.” È particolarmente colpito dall’eccellenza del sistema di istruzione, in paesi che all’epoca erano considerati ancora poco più che barbari. Quello che sarà poi il suo merito maggiore di studioso, la scoperta e la rivelazione al resto dell’Europa della ricchezza culturale dei popoli nordici, nasce da questa duplice istintiva passione, per i libri e per gli ambienti. La simpatia originaria è ormai diventata un vero innamoramento.

La missione ha però anche lo scopo di indagare le effettive condizioni in cui vivono le popolazioni dell’estrema Thule, i Lapponi. Risalendo le coste norvegesi sin oltre il circolo polare La Recherche arriva a stabilire i primi contatti, lasciando nel giovane studioso l’impressione di un complesso patrimonio di credenze e tradizioni, nascosto dietro esistenze in apparenza miserabili. Per il momento deve accontentarsi di questa sensazione, senza poterla verificare, ma ha trovato uno scopo ulteriore per le sue future ricerche.

L’anno successivo la vita di Marmier sembra arrivare davvero ad una svolta. Rientrato dalla missione, ottiene la tanto sospirata nomina a docente di letterature straniere, presso l’università di Rennes. Com’era prevedibile, non dura più di un mese. Malgrado le sue prime lezioni abbiano riscosso uno straordinario successo, il fuoco continua a bruciargli sotto il sedere. La Recherche sta per prendere nuovamente il mare per una spedizione esplorativa nei dintorni del Polo Nord: dovrà costeggiare tutto l’arcipelago delle Svalbard e spingersi il più a settentrione possibile. Appena ne è avvertito, Xavier non ha esitazioni: molla tutto, scusandosi goffamente con i colleghi e gli studenti (“mi spiace, ma non mi sento ancora all’altezza”), e corre ad imbarcarsi. “Parto dopodomani per Drontheim. Là troverò una nave da guerra che mi porterà al capo Nord, e può darsi allo Spitzberg. Potrò dire allora di essermi fermato dove la terra vien meno: Nobis ubi terra defuit. Non avrei bisogno di andare così lontano per dire che mi sono fermato dove si ferma il movimento scientifico o letterario. Ho voglia di vedere queste contrade selvagge, per selvagge che siano, di tornare in Lapponia.” In effetti la missione lo porterà a superare addirittura l’ottantaduesimo parallelo, ad una latitudine che ben pochi altri uomini, e senz’altro nessun letterato, hanno toccato prima di lui. Adottando un modello di basso profilo nell’autorappresentazione, che rimarrà caratteristico di tutta la sua produzione, una sorta di understatement alla francese, non strombazzerà mai questo primato. Sa che meno ne parla più quell’esperienza assumerà per i suoi lettori connotati epici.

Ormai è un veterano di queste missioni, e comincia a pretendere un suo spazio autonomo rispetto ai naturalisti e ai geografi. Dal momento che è responsabile del settore “umanistico”, storia, letteratura e lingue, ritiene inutile la sua presenza alle Svalbard, dove non troverebbe “ni race humaine, ni langue, ni tradition, ni histoire…. “. Spenderà molto meglio il suo tempo nello studio della popolazione scandinava settentrionale, quella appunto dei Lapponi o Sami. È colpito dalla capacità di adattamento e di sopravvivenza di queste popolazioni in condizioni estreme, e si interroga sull’influenza che queste ultime hanno nello sviluppo intellettuale. “Questa povera razza, dispersa lungo le coste o attraverso le montagne, è ancora troppo poco conosciuta e soprattutto è conosciuta molto male.” È molto critico nei confronti dell’immagine superficiale e ingiusta, di marcata inferiorità intellettuale, che dei Sami è stata diffusa, soprattutto nel Settecento. Ha già condiviso nel corso della missione precedente le loro tende e i loro pasti, ha constatato come siano depositari di un patrimonio di leggende, canti e tradizioni particolarmente suggestivi, e come abbiano cura di trasmetterli ai figli. Certo, per molti versi sono poco affidabili, sono già contaminati dal problema dell’alcoolismo, e appaiono disorientati dal cambiamento di religione, ma sono anche incredibilmente ospitali e bendisposti verso gli estranei. Per ovviare a quell’immagine ritiene necessario uno studio approfondito della storia e dei costumi di questo popolo, studio che può essere compiuto solo attraverso una osservazione di lungo periodo. Arriva quindi a chiedere (nel 1839) l’autorizzazione a trascorrere un autunno e un inverno con loro, per “seguirne le migrazioni e osservare le diverse circostanze della loro vita”, magari con il supporto di un disegnatore che fissi in immagini i costumi, le fisionomie, le abitazioni, le scene particolari.

Non la ottiene, deve rientrare con il resto della spedizione, ma la mole di dati che raccoglie durante la permanenza all’estremo nord è comunque già impressionante. Chiarisce ad esempio l’esistenza di una triplice specializzazione economica, quella degli allevatori nomadi di renne, tipica dei Sami “delle montagne”, quella dei pescatori sedentari, Sami appunto “della costa”, e quella dei cacciatori, o Sami “della foresta”, ciò che lascia intravvedere un sistema economico e sociale completamente interattivo, con gruppi differenziati in funzione dello sfruttamento di un preciso habitat ecologico, e dà vita ad una conseguente varietà e differenza culturale.

Una volta tornato a Parigi riceve l’incarico di bibliotecario al ministero dell’istruzione pubblica (diverrà in seguito, dal 1846, conservatore e amministratore della Bibliothèque Sainte-Geneviève di Parigi, oltre che storiografo ufficiale del ministero della Marina). In teoria sarebbe la persona senz’altro più adatta a questa funzione, nella realtà è più che altro una sinecura, che gli consente di dedicarsi alla redazione dei suoi resoconti di viaggio, agli studi di germanistica (è anche direttore della Revue germanique) e alla preparazione di nuovi viaggi. Nel 1840 compaiono infatti le “Lettres sur le Nord, le Danemark, la Suède, la Norvège, la Laponie, le Spitzberg”, mentre nel 1841 pubblica la traduzione delle opere di Schiller. Nel frattempo, per riposarsi e riprendere fiato, si limita ad un lungo giro nei Paesi Bassi e nelle Fiandre (“Lettres sur la Hollande”, 1841).

Nel 1842 però è già nuovamente per strada. Russia, Finlandia, Polonia. Ormai è conosciuto, viene ricevuto dalle alte personalità, ha accesso alle dimore nobiliari, ma non trascura di verificare nell’impero zarista le condizioni dei servi della gleba, osservando giustamente che questi ultimi non sembrano granché ansiosi di cambiarle: alla libertà, con tutte le incertezze che comporta, preferiscono le magre sicurezze che offre loro un padrone. E in effetti, un quarto di secolo dopo, l’abolizione della servitù, decretata senza prevedere alcun sostegno per i contadini liberi, determinerà un aggravio della loro miseria.

Marnier non nasconde poi le sue simpatie per la Polonia, preda degli appetiti dei suoi vicini, la Russia, la Prussia e l’impero asburgico. Ma non risparmia le critiche alla sua classe dirigente, a quel ceto nobiliare che con le sue divisioni interne ha lacerato e indebolito la nazione. E intanto continua a raccogliere materiali per ricostruire la storia culturale dei paesi che attraversa. Non spende una parola su disagi, difficoltà, incidenti di viaggio, in un’epoca nella quale viaggiare, soprattutto in paesi come quelli, comporta comunque sempre pericoli e brutte sorprese. Del resto, l’aveva già scritto nella prefazione alle Lettres sur le Nord: “Alcuni, leggendo le pagine di questo lavoro pubblicate a suo tempo nella Revue des Deux Mondes e nella Revue de Paris, mi hanno rimproverato di non aver messo abbastanza fatti strani e avventure drammatiche. A loro parere avrei dovuto scrivere un romanzo sulle contrade del Nord. E io, ingenuo, non pensavo che a fare una relazione fedele del viaggio! Può darsi che abbia perso una bella occasione per vantarmi, con il racconto patetico di ogni sorta di immaginaria disavventura, e forse un giorno mi pentirò di non averlo fatto. Ma, in verità, non ho avuto il coraggio di propormi agli occhi del pubblico come un eroe, quando me ne andavo alle Spitzberg con una nave eccellente ed eccellenti ufficiali. Non ho pensato di impietosirmi con la mia sorte in Norvegia, quando superavo così facilmente le sue aspre montagne, né di gemere sulla mia miseria in Lapponia, quando attraversavamo per la decima volta le sue lunghe paludi con dei vigorosi cavalli norvegesi, una grande tenda e viveri di ogni tipo. Ho raccontato quello che ho visto e provato, nient’altro.”

Al ritorno dall’est sembra deciso a darsi finalmente una calmata. Il modo migliore per farlo gli pare quello di sposarsi, andando a scegliersi una moglie nella sua terra natale, la Franca-Contea. Delle circostanze in cui matura questa decisione, e della stessa giovane prescelta, sappiamo ben poco. Marmier su queste cose non si sbottona: il pudore dei sentimenti è d’obbligo per chi voglia conservare un’immagine di uomo e di studioso serio. Ma nel suo caso lo è tanto più per la sua professione di osservanza cattolica e di dovere civico. È singolare il modo in cui ne parla all’amico Weill. “Conto su di voi come su un padre in questa occasione solenne della mia vita, che mi dà gioia e al tempo stesso mi inquieta, che mi apre un nuovo avvenire e caccia nell’ombra dietro di me tutto un passato giovane, poetico, avventuroso, che mi ha tante volte a torto o a ragione affascinato, che rimpiango come si rimpiange un amore di cuore e di immaginazione.” L’uscita dalla poesia e l’ingresso nella prosa, insomma. E al di là degli stereotipi antimatrimonialisti, nel suo caso è senz’altro comprensibile che viva l’evento in questi termini. Si sposa dunque nel 1843, ma non ha nemmeno il tempo di avere grandi rimpianti. La giovane moglie muore dopo appena un anno di matrimonio, assieme al figlio che attendeva.

Non bisogna comunque credere che le incertezze manifestate da Marmier significhino freddezza o indifferenza nei confronti della sposa che aveva scelto. Forse non si trattava di una passione trascinante, ma questo valeva in fondo per quasi tutti i matrimoni dell’epoca. Senz’altro si era però creata tra i coniugi un’affettuosa complicità, quella che trapela da una poesia dedicata alla giovane, e comparsa in esergo ad una delle sue opere più famose:

Sono venuto senza te in questo paese così bello,
del quale abbiamo sovente parlato nell’ora fortunata
in cui tutto si offriva come un quadro ridente
che insieme avremmo dovuto vedere quest’anno
Non è più nulla della voce che sino a poco fa
carezzava ad un tempo la mia anima e le mie orecchie
Nulla rimane di tanti sogni dorati,
nel pallido sudario tutto dorme.

Dormi sotto la terra fredda, o giovane bel fiore,
così dolcemente schiuso e così presto reciso
dormi con i tesori del tuo casto candore,
con la tua innocenza e i tuoi teneri pensieri[2].

Xavier è realmente prostrato da questa perdita, che scompagina i suoi progetti di una vita nuova per il futuro e rende tra l’altro più insopportabile l’idea di vivere nella Franca-Contea.

Per alcuni aspetti, e per questo in particolare, la sua vita sembra la fotocopia di quella di Waterton. Ma diversa senz’altro è la reazione. Mentre il secondo si chiude dopo la perdita della moglie nel suo parco, in una sorta di oasi senza tempo, Marmier non tarda a cercare conforto tornando a viaggiare. La stagione della poesia non è del tutto finita, ma certo lo stato d’animo col quale la vive è cambiato.

In effetti, nelle “Poésies d’un voyageur”, pubblicate nel 1844 e nei “Nouvaux Souvenirs de voyages. Franche-Comté”, dell’anno successivo, l’attitudine è decisamente più malinconica. Si fa strada il sentimento di una dolce tristezza, legata al ricordo degli affetti scomparsi, degli amici assenti o dei luoghi dell’infanzia. E anche i suoi successivi libri di viaggio saranno in qualche modo più professionali, meno aperti all’entusiasmo e allo stupore.

Comunque, nel 1845 riparte, destinazione l’Egitto, passando per la Svizzera, il Tirolo, l’Ungheria, la Serbia, la Valacchia, facendo tappa a Costantinopoli e proseguendo poi attraverso la Turchia, la Siria e la Palestina. (“Du Rhin au Nil. Souvenirs de voyage”, 1852)

L’anno successivo visita l’Algeria (“Lettres sur l’Algérie”) e quello dopo ancora, nel 1847, torna in Russia, spingendosi questa volta fino alla Siberia.

Nei primi mesi del 1848 la rivoluzione lo sorprende a Parigi. Da buon reazionario legittimista (e protetto di Guizot) ne è disgustato, e vive il trionfo iniziale della repubblica come un’umiliazione nazionale. Teme inoltre gli vengano revocate le cariche e la sicurezza economica. Decide quindi di lasciare la Francia, dando tempo alla buriana di calmarsi, e a settembre intraprende il viaggio in America. Ci rimarrà sino all’agosto del 1850, passando dagli Stati Uniti al Canada, e visitando poi Cuba, l’Argentina e l’Uruguay. È amareggiato dagli “orrori” della democrazia e della repubblica, addirittura del socialismo, quindi l’attitudine con la quale sbarca negli Stati Uniti non è affatto positiva. E si traduce in antipatia a prima vista, sin dallo sbarco a Long Island.

Le impressioni americane (“Lettres sur l’Amérique”, 1851) sono un vero pezzo da antologia. La passione per la verità cede il passo ad una vena più scopertamente letteraria, caustica quando parla degli Stati Uniti, entusiasta nella descrizione del Canada. Il racconto è meno posato che nei libri precedenti, più vivace ma senza dubbio molto meno obiettivo. Marmier riesce a cogliere tutti gli aspetti della “modernità” statunitense, non gli sfugge nulla, e a volgerli in negativo, partendo dall’ironia scherzosa (“dicono di essere avanti in tutto, e già la loro giornata è in ritardo di cinque ore rispetto a quella di Parigi”), passando poi a stigmatizzarne la grossolanità delle ambizioni (“Non potrebbero tollerare il lusso delle livree della nostra servitù, perché sono democratici e puritani, ma si rifanno con quello dell’arredamento (pacchiano) delle abitazioni”) e delle abitudini (“qui non si mangia, si divora […] hanno sempre le guance piene di qualcosa”), e a irriderne il linguaggio costantemente autocelebrativo (“non c’è nulla di carino o di semplicemente piacevole, è tutto sempre ‘splendido’, fantastico”), per arrivare infine al giudizio più tranchant: “Di tutti gli uomini appartenenti al mondo civilizzato, i più laidi sono gli americani”. Addirittura “Si burlano dei Turchi, perché non usano durante i loro pasti né cucchiai né forchette. Io ricordo qualche pranzo fatto coi Turchi, e dichiaro che i loro erano dei modelli di comportamento, se paragonati a quelli cui ho dovuto assistere negli hotel e sui battelli americani.” New York gli appare come la nuova Babilonia, la città santa della religione del commercio, del culto dell’industria. Una pratica in particolare gli sembra esemplare della fondamentale ipocrisia americana, quella del rispetto assoluto del riposo domenicale, tale da fare diventare questa giornata, al contrario di quanto accade in Europa, un pozzo assoluto di noia. Ci si aspetterebbe che fosse un segno di sincera devozione, un ritagliarsi il tempo per meditare sui libri sacri: non è affatto così, come gli spiegano diversi conoscenti: “Noi siamo così impegnati per sei giorni che ce ne vuole uno per riposarci, e non riposeremmo tranquilli se dopo aver chiuso la nostra azienda, la nostra officina, vedessimo funzionare quelle dei nostri vicini. Per non essere inquietati dal pensiero della concorrenza in azione, obblighiamo tutti ad un riposo di ventiquattr’ore. Non importa che uno sia giudeo o maomettano, teista o ateo. Il problema non è questo. È essenzialmente il desiderio che abbiamo di non lavorare per un giorno con la sicurezza consolante che nessuno dei nostri rivali lavora e ci sottrae quei guadagni che avremmo potuto ottenere.”

È un ritratto senz’altro impietoso, a dispetto delle giustificazioni addotte da Marmier (che in realtà sono solo una rivendicazione di principi considerati irrinunciabili): “Vi assicuro che scrivo senza odio e senza passione. Mi dico persino, per riscattare l’America dalle impressioni sgradevoli che ne ho riportato, che ho torto a chiederle quello che non può dare, che dovrei considerarla in base al suo ‘genio’ particolare. Ma posso, per apprezzarla meglio, rinunciare alla mia natura europea, annegare le mie predilezioni nei vapori delle sue ciminiere, spogliarmi del modo di pensare del vecchio mondo per rivestirmi di questo ‘san benito’ mortale di un mondo nuovo?” Ma nondimeno risulta spassoso, e rivela la capacità di intuire alcuni aspetti davvero caratterizzanti la società americana. Aspetti che peraltro erano già stati colti, quasi vent’anni prima, sia pure con un approccio meno pregiudiziale, da Alexis de Tocqueville. Non fa alcun cenno, a differenza di quest’ultimo, al problema della schiavitù o a quello dello sterminio degli indiani, ma non credo per un assunto ideologico: semplicemente, non ha occasione di toccarli con mano, perché si affretta a lasciarsi gli Stati Uniti alle spalle.

Per fortuna, spostandosi a Nord, varcando il confine col Canada, Xavier entra in un altro mondo. “Dio sia lodato. Sono resuscitato al quarantacinquesimo e mezzo grado di latitudine e al settantatreesimo e un quarto di longitudine. Attorno a me non sento parlare che francese”. Il Canada gli fa tornare in mente l’Islanda, dove un migliaio di anni prima un gruppo di norvegesi si era rifugiato per sottrarsi al dispotismo dei conquistatori, e dove i loro discendenti hanno mantenuto intatta la lingua originaria e preservato il ricordo delle antiche saghe. I canadesi stanno facendo altrettanto, a dispetto del fatto di essere soggetti ad una amministrazione straniera, che ha fatto ogni sforzo, con il commercio, con la legislazione, con l’emigrazione dall’Irlanda, per imporre la propria lingua e i propri costumi. Il contrasto col mondo dal quale è appena uscito non potrebbe essere più forte. “Io non osavo più avvicinarmi ad uno di quegli orsi che rispondevano alle mie domande con una sorta di grugnito, sentivo che non c’era alcuna affinità, alcun punto di giunzione tra i pensieri di questa razza moltiplicante e addizionante e le fantasie della mia povera natura di viaggiatore […] Tutto a un tratto ecco che ritrovo la fisionomia viva ed espressiva della Francia, gli sguardi animati, le labbra ridenti. Invece che questa corte di meccanici e di mercanti […] incontro gente dall’aspetto aperto, che mi cerca prima che io la cerchi, che mi tende la mano, che mi offre i suoi servigi.”. Ritrovato il buonumore, tutto diventa ai suoi occhi testimonianza di una fedeltà indomita alla propria cultura. Ma anche il paesaggio, l’ambiente, a differenza di quelli incontrati a sud del Grandi Laghi, si illuminano: “Che natura stupenda, che varietà di scenari, di una bellezza selvaggia, di una grandezza superba, di una infinita grazia”. Il resto è un peana alla cultura e allo spirito dei franco-canadesi. Ancora molti anni dopo Marmier ricorderà con nostalgia quel suo soggiorno. E i canadesi si ricorderanno di lui con gratitudine, per aver fatto conoscere all’Europa la loro letteratura e la loro storia.

Marmier rientra in patria giusto in tempo per vedere spente le ceneri della fiammata rivoluzionaria. I suoi timori si sono rivelati infondati: conserva le sue cariche e i suoi appannaggi anche sotto il nuovo regime. D’altro canto, il suo è ormai un nome affermato: ha un nucleo consistente di lettori affezionati in Francia, ma è letto e conosciuto anche all’estero. Diventa uno di quegli autori onnipresenti sugli scaffali delle piccole (ma anche delle grandi) biblioteche di famiglia. Per qualche tempo però il suo nomadismo si interrompe, complice anche la morte del padre, che lo mette di fronte alle sue responsabilità di maschio primogenito.

Appena torna un po’ di tranquillità politica, i viaggi riprendono. Ogni anno nuove mete, e un nuovo libro. La sua firma è una garanzia di successo. Nel 1852 intraprende un giro che lo porterà sino al Montenegro, passando per la Germania, la Svizzera e l’Italia. (“Les Lettres sur l’Adriatique et le Monténégro”)

L’anno successivo bordeggia l’Adriatico, e riparte dal Montenegro per seguire poi le rive del Danubio e arrivare alle montagne del Caucaso. Sono regioni pressoché sconosciute al grande pubblico, ma sono una vera scoperta anche per lui. Il libro che ne ricava, “Du Danube au Caucase”, viene proibito in Russia, come ritorsione per la simpatia mostrata in precedenza per i polacchi, e a dispetto del fatto che sulla questione d’oriente Marmier si schieri dalla parte dello zar: neanche a dirlo, in una edizione clandestina ha un enorme successo.

Continua intanto il lavoro di traduzione di fiabe e leggende dalle più diverse lingue. Escono nel 1854 “Les Perce-neige”, una raccolta di noll’conti scelti nelle varie letterature. Negli anni seguenti usciranno antologie di novelle russe e di racconti americani, A Weiss, che gli rimprovera di disperdersi in lavori tutto sommato futili, risponde: “È così. La lettura dei libri stranieri mi trascina, e quando trovo pagine che mi seducono mi sembra bello condividerle con coloro che non possono leggerle in originale”. In realtà c’è dietro anche una questione economica, perché quei libri hanno un certo successo: “L’età e l’esperienza mi portano sempre di più a lavori pazienti e modesti. Ma cosa importa, se agiamo in base alle nostre forze, con una buona intenzione?

Nel 1854 si sposta nuovamente a nord e compie un lungo giro sulle coste baltiche, raccontando di castelli in rovina, antiche abbazie, fortezze abbandonate, da Amburgo a Danzica, alle coste della Pomerania, a Marienbourg, all’isola di Rugen, ad Helgoland. (“Un été au bord de la Baltique et de la mer du Nord”, 1856)

Nel 1858 esce finalmente il primo volume di una delle sue opere più ambiziose, il “Voyage pittoresque en Allemagne. Partie Mèridionale”, seguito l’anno successivo del secondo, sulla parte settentrionale. Non è il resoconto puntuale di un viaggio, ma una sorta di sontuoso riassunto della Germania, storia, letteratura, geografia, ritratti di personaggi e di città, il tutto condito da aneddoti e ricordi dell’autore, che quella terra l’ha girata a più riprese in lungo e in largo, e impreziosito dalle illustrazioni dei fratelli Rouargue, incisori di rango. Il Voyage pictoresque è una vera e propria dichiarazione d’amore per un paese che Xavier considera la sua seconda patria, ed è al tempo stesso il canto del cigno del viaggiatore-reporter (non dello scrittore). Le opere di viaggio successive, se si eccettua quella dedicata nel 1861 alla Svizzera (“Voyage en Suisse”), altro luogo del cuore visitato innumerevoli volte, sono raccolte antologiche di ricordi, a volte anche molto piacevoli e curiose, ma su un coté più letterario che giornalistico. Non c’è più la presa diretta.

A partire dai cinquant’anni Xavier rallenta infatti la sua attività di nomade. Viaggia sempre più raramente, e per periodi brevi. Ci sono di mezzo la salute (“Un tempo viaggiavo per imparare a conoscere popoli stranieri, per studiare nuove lingue e nuove poesie: oggi, viaggio per studiare i principi dell’igiene e per consultare dei medici”) nonché gli impegni legati alla nomina all’Académie de France, onorati con grande serietà, e quelli connessi ad una poco convinta militanza politica: ma c’è anche il progressivo venir meno dell’interesse del pubblico per le sue opere, la rapida obsolescenza delle stesse e della loro funzione. Allo stesso modo, diviene molto meno interessante anche per noi seguire l’ultima parte della sua vita, non priva di eventi e di riconoscimenti, ma scorrente ormai nell’alveo di una normalità sedentaria. Lo spirito nomade s’è sopito.

Ha ancora davanti trent’anni, nei quali continuerà ad essere curioso, a studiare, a scrivere e a pubblicare, proponendo edizioni aggiornate di cose vecchie, compilando storie di viaggi raccontati da altri, costruendo libri sui propri ricordi, per i quali il materiale non gli manca. Ma si rende conto che nel genere che lo aveva reso famoso non ha più molto da dire. Non è solo questione di stanchezza sua. I mondi lontani che aveva così brillantemente raccontato si sono rapidamente avvicinati, il vapore e la ferrovia li hanno resi più facilmente raggiungibili, la fotografia li disvela.

Marmier pensa tuttavia di poterli far rivivere nelle opere di fantasia, cosa che in precedenza si era sempre rifiutato di prendere in considerazione. Comincia a scrivere romanzi a cinquant’anni, su pressione del suo editore, e ottiene anche un certo successo, tanto che due di queste opere sono premiate dall’Académie. Ma ormai altri autori, primo tra tutti Verne, lo incalzano. Noi lo lasciamo a questo punto, quando ancora non ha cominciato a sopravvivere alla propria fama.

Je me considère comme un botaniste
qui fait un herbier de plantes exotiques.

L’uomo

Il primo romanzo pubblicato da Marmier è proprio quello che ha dato il via a questo recupero. Tutto è partito infatti dal rinvenimento su una bancarella di una vecchia edizione di “Un viaggio alle Spitzbergen” (ed. Capitol, 1959), traduzione italiana de “Les fiancés du Spitzberg”. Il titolo mi incuriosiva, e il nome dell’autore non mi riusciva del tutto nuovo, anche se non sapevo a cosa riferirlo. Una breve nota preposta al testo mi ha poi fornito il legame. Xavier Marmier l’avevo già incontrato ai tempi del mio viaggio in Islanda, l’avevo citato per le sue Lettere sull’Islanda, ma si trattava di una conoscenza di seconda mano. Stavolta ero deciso ad andare un po’ più in profondità. Nell’impossibilità di reperire, anche on line, le sue opere, le ho pazientemente scaricate (non tutte, ci vorrebbero mesi) da un sito provvidenziale.

Ho faticato un sacco a mettere assieme questa breve e incompleta traccia biografica. Le biografie esistenti in francese sono tutte molto vecchie, in genere affette da un intento celebrativo e tutt’ altro che accurate nelle datazioni. Le notizie le ho ricavate per lo più dalle opere stesse, ma il periodo della vita di Marmier che ho provato a raccontare è così movimentato che riesce difficile stargli dietro. Alla fine mi sono sentito come doveva sentirsi il mio biografato dopo aver completato uno dei suoi libri: ho fatto un lavoro artigianale, magari troppo compilatorio, ma a suo modo utile per la conoscenza di un autore immeritatamente rimosso, visto che in italiano non c’è assolutamente nulla.

Ma cosa importa, se agiamo in base alle nostre forze, con una buona intenzione?

Allora, che idea mi sono fatto di Marmier?

Provo a tracciarne un rapido profilo, come uomo, come studioso e come viaggiatore, anche se i tratti fondamentali della sua immagine dovrebbero già riuscire evidenti dalla storia che ho raccontato e dalle sue stesse parole che ho citato.

Per ciò che si intravvede dalla corrispondenza e dai giudizi dei suoi conoscenti, e che trova comunque poi pieno riscontro nelle sue opere, Marmier era una gran brava persona e uno spirito libero. Era leale, caldo e totalmente sincero nelle amicizie, alcune delle quali durarono una vita intera; educato, cortese e amabile, senza essere però mai servile e lezioso, e senza rinunciare all’indipendenza di giudizio, nei rapporti con tutti, a qualsiasi latitudine o longitudine e a prescindere dalle gerarchie verticali. Alla sua morte un amico scrisse: “Non so cosa la posterità conserverà delle sue opere, anche se penso che potranno sopravvivergli a lungo. In ogni caso la sua memoria rimarrà per sempre nel cuore dei suoi amici: e ne aveva molti.” Ce n’è abbastanza per dire che ha speso bene la sua vita.

Tutto questo può sembrare in contraddizione con altri aspetti del suo carattere. Era infatti anche un convinto realista, nostalgico dei Borbone e della Francia del Re Sole, anti-repubblicano viscerale. In altre parole un reazionario, in palese ritardo rispetto ai propri tempi e a disagio nella società in cui viveva. Non a caso appena possibile prendeva il largo. Ed era anche un cattolico integralista (tutti punti ulteriori di contatto con Waterton – ma le somiglianze si fermano qui). Quelli però che dovrebbero essere dei limiti, in una persona per altri versi aperta e intelligente finiscono a volte per diventare punti di forza. Come tutti i grandi reazionari, Marmier volgeva al mondo uno sguardo molto più lucido e disincantato, quando non c’erano di mezzo questioni religiose o prevenzioni consolidate (vedi quella nei confronti dell’Inghilterra), rispetto a quello dei suoi contemporanei progressisti. In qualche caso questo tipo di sguardo, proprio perché attento al passato, consente di apprezzare molto meglio la ricchezza culturale di un popolo, di comprendere il valore, anche pratico, delle sue tradizioni. Lo dimostra ad esempio il deciso rifiuto da parte di Marmier, dati alla mano, della classificazione negativa che i naturalisti settecenteschi assegnavano ai Samoiedi nella scala umana. Ma la stessa modalità prospettica gli permetteva di vedere in mezzo ai trionfi del progresso e della democrazia anche i suoi rischi. L’immagine negativa che riporta dell’America, comune del resto a molti suoi contemporanei e alla gran parte dei viaggiatori europei dell’Ottocento, da Dickens a Gorkji e ad Hamsun, è senz’ altro condizionata dall’avversione per la democrazia in genere e per tutto ciò che aveva a che fare con l’Inghilterra in particolare, ma alla fine ci dà comunque un quadro del futuro di quella società che somiglia in maniera impressionante a come ci appare oggi (non è un caso che alla presidenza ci sia Trump). E lo stesso vale per le considerazioni sulle prospettive dell’impero zarista e sulle condizioni dei contadini russi.

Marmier è anche onesto nella sua autorappresentazione. “Vi ricordate quante volte, in uno di quei paradossi spirituali coi quali volentieri giocate, mi avete accusato di essere aristocratico? Se merito questa accusa, e se è un peccato, sappiate che la espio non per una afflizione volontaria di qualche ora, ma per una penitenza multipla di ogni giorno.” Che consisterebbe nei contatti con i comportamenti grossolani, con i molteplici modi in cui si esprime la volgarità. Vale a dire: non sono un aristocratico per nascita, che non significa nulla, ma lo sono, e lo rivendico, per il mio modo di pensare e di comportarmi.

Nella tarda maturità Marmier si lasciò convincere un paio di volte a presentare la propria candidatura alle elezioni legislative nello schieramento conservatore e legittimista. Salvo poi rifiutarsi di fare campagna elettorale, e uscirne in entrambe le occasioni sconfitto. Se un poco l’ho capito, deve avere tirato dei gran sospiri di sollievo. Aveva le sue convinzioni, e c’era affezionato, ma aveva visto troppo mondo per non capire in che direzione questo stava andando, e che quella direzione poteva non piacergli, ma era ineluttabile.

Aveva poi naturalmente anche le sue ambizioni, che riguardavano soprattutto l’ingesso tra gli “immortali” dell’Académie Française. Ci teneva particolarmente perché quel posto sapeva di averlo guadagnato, e ottenne questa soddisfazione (nel 1870) senza troppo sgomitare e senza abbassarsi a manovre e raccomandazioni.

Era insomma una persona molto normale, se assumiamo a parametro della normalità l’onestà, il senso della dignità propria e il rispetto di quella degli altri. Di speciale aveva la curiosità intelligente verso tutto e la forza di volontà per cercare di soddisfarla.

Lo studioso e lo scrittore

Analogo discorso vale per la qualità della sua scrittura. È una scrittura volutamente “normale”, che non trascina, ma convince. Nel suo caso la normalità consiste in una eleganza semplice, che lascia trapelare però una squisita sensibilità, a volte persino una dolce mestizia. Anche nella parte di narrazione più prettamente documentaria sa rendere vividi i colori, e riesce a guidare il lettore in una sorta di mondo incantato, malgrado le immagini siano assolutamente realistiche. Sono i suoi occhi a filtrare il passaggio: “Questo paese mi sembrava di per sé così vario e così bello che avrei commesso una profanazione impiegando, per renderlo più interessante, dei mezzi artificiali.” Per quanto concerne la sua attualità si potrebbe dire, parafrasando un altro Xavier, il più giovane dei De Maistre, che oggi le sue pagine non aggiungono granché alla nostra conoscenza, ma regalano almeno momenti di divertimento.

Anche l’unico dei suoi romanzi che ho letto, “Les fiancés du Spitzberg”, pur non potendo vantare molti pregi sotto il profilo prettamente letterario assolve onestamente alla funzione che l’autore gli assegnava: è la continuazione del suo impegno di divulgatore con altri mezzi. I personaggi e la trama sono tutti piuttosto prevedibili, ma gli inserti storici e scientifici distribuiti lungo il percorso anziché appesantire la narrazione si amalgamano benissimo e la vivacizzano. A dispetto del suo conservatorismo e delle sue venature liriche, Marmier ha l’animo di un positivista.

Come studioso appare prima di tutto un gran lavoratore. Prende degli impegni, si dà delle scadenze, e li rispetta. Di questa capacità di lavoro è molto consapevole e orgoglioso. Dice al suo amico Weill: “Mi conosci, sai che vado fino in fondo alle cose, anche quando mi costa una fatica spropositata”. Perché non lavora solo sulla quantità, ma anche sulla qualità. È minuzioso ed esatto: ci tiene alla precisione dei dati: per ogni argomento, oltre a ciò che ha raccolto direttamente, va a consultare tutta la documentazione esistente (e spesso si compiace di dimostrarne l’inconsistenza, soprattutto quando si confronta con autori che hanno lavorato solo a tavolino). Non fa conto sull’inventiva, ma sulla capacità di memorizzare: il suo motto di lavoro è vedere, studiare, incrociare i risultati e dare conto. E non risparmia il sarcasmo nei confronti di quei viaggiatori che viaggiano senza vedere nulla, senza uscire dai loro alberghi, o per gli autori che pubblicano libri su paesi stranieri senza mai averci messo piede.

Ama maniacalmente i libri, ma non ne desidera soltanto il possesso: li legge anche, cosa che non tutti i bibliomani fanno: e questo è uno dei tratti che più me lo fa sentire vicino. Immagino che se fosse venuto a casa mia in visita si sarebbe immediatamente fiondato davanti agli scaffali della mia biblioteca. Voglio anche presumere che ne sarebbe rimasto soddisfatto. Non è comunque l’oggetto libro in sé ad interessarlo, ma ciò che rappresenta. La distruzione della biblioteca di Montreal, andata bruciata in un incendio provocato dalla popolazione di lingua inglese in rivolta, gli pare il segno più evidente della barbarie di quest’ultima.

Il viaggiatore

Ne “Les fiancés du Spitzberg” Marmier schizza un proprio autoritratto spirituale nella figura del giovane Marcel Comtois: “Aveva già navigato lungo le più belle coste del Mediterraneo, dell’Atlantico e del mare del nord: aveva oltrepassato sia il circolo polare che l’Equatore, sempre con l’ansia di vedere e con una specie di incantamento, cui partecipavano gli occhi e la mente, allo spettacolo di contrade nuove e diverse.

Parla anche della sua precocissima vocazione, quella che sin da bambino non gli dava terraferma, anche se la trasferisce in un contesto ben diverso da quella della sua famiglia e della sua terra natale: “Fin dall’infanzia sono stato cullato dai canti dei marinai, ho sentito, dalla zia che mi ha allevato, vedova di un nostromo, i racconti delle avventure marinaresche e delle prove di coraggio dei capitani che hanno resa illustre la nostra Dunkerque. Sapevo appena leggere e avevo già in mano la biografia di Jean Bart.

Confessa di essere approdato ad un sano realismo, che non gli impedisce però di professare un’immutata curiosità per la varietà infinita della natura e del mondo: “È finita l’era dei grandi avvenimenti geografici, quando l’Europa ad ogni poco sobbalzava all’annuncio di una nuova scoperta. […] Ogni mare è stato solcato, ogni arcipelago esplorato e misurate le più alte vette e scrutate dai geologi le viscere della terra. Tuttavia, se per soddisfare la sua insaziabile curiosità l’uomo ha, di volta in volta, sfidato il freddo mortale delle regioni polari e i calori insopportabili dei tropici, quanti spazi ignoti restano ancora sul globo e quanti problemi da risolvere. […] E comunque, i soli aspetti del mondo, nella loro grandiosità, nella infinita varietà dei loro mutamenti continui, non ci si presentano forse con una attrattiva, un fascino indicibili?

A motivare i suoi viaggi, però, prima ancora che gli spettacoli della natura sono i diversi aspetti della cultura. Già a partire dalle “Lettres sur l’Islande” i suoi libri sono dedicati per almeno due terzi ad analizzare minutamente ogni forma di sapere dei diversi popoli che incontra. Sistema scolastico, lingua, tradizioni, saghe, miti, cultura popolare. Un pallino costante è lo studio del sistema di istruzione. È senz’altro tra i primi ad apprezzare e a far conoscere i modelli educativi scandinavi. Ha l’umiltà di mettersi davanti a queste cose con l’atteggiamento di chi deve capire e imparare, e non giudicare. Riesce a dare una spiegazione sensata di tutto, incrociando la storia dei popoli con le diverse situazioni ambientali, e riconoscendo a ciascuno di essi una specifica capacità di adattamento.

Nell’elenco dei paesi visitati e raccontati da Marmier spiccano per la loro assenza due grandi nazioni europee come l’Inghilterra e la Spagna. In realtà in Inghilterra si recò più di una volta, mentre non mi risulta alcuna sua visita alla Spagna che sia andata oltre i Pirenei. Mi sono chiesto il perché del silenzio sulla prima (mentre peraltro nei suoi ricordi più tardi di viaggio si parla, con dolente simpatia, dell’Irlanda, che in quel periodo soffriva la più tremenda delle carestie) e l’unica risposta che sono riuscito a darmi è che l’Inghilterra rappresenta ancora, nell’anacronistica immagine politica del mondo cui Marmier è aggrappato, la nemica più acerrima della Francia, quella che le ha strappato le terre americane e il primato sui mari, che ospita gli eretici più protervi e dannosi alla vera religione, che affama di proposito, per sterminarla, la popolazione cattolica irlandese. Non sarebbe in grado di parlarne con animo sereno, e di questo si rende conto perfettamente. Finirebbe per scrivere un vero e proprio e vero pamphlet. Si rifà comunque di sponda, scaricando il suo disprezzo su quella appendice della cultura inglese che al momento è ancora rappresentata, in versione addirittura peggiorativa, dagli Stati Uniti.

Xavier Marmier sembra essere stato un viaggiatore particolarmente fortunato. Non ha mai fatto naufragio, non è stato rapito dai briganti calabresi o dai banditi del Caucaso, non ha subito incidenti particolarmente gravi o aggressioni, e non si è perso tra le nevi del nord. La disavventura più spiacevole cui fa cenno è un arresto in Germania, dopo essere stato scambiato per un malfattore, con liberazione il giorno seguente e tanto di scuse. Doveva essere in possesso di amuleti potentissimi. Oppure, semplicemente, si è sempre mosso con molto buon senso, e soprattutto con quello spirito di adattamento che tanto ammirava nei popoli da lui incontrati. Per questo non si lamenta del gelo dell’artico, degli insetti finlandesi o del clima rovente dell’Egitto. Queste cose le mette nel conto, e ce le fa intuire semmai parlando delle difficoltà che rendono dura, ma ammirevole, la vita altrui.

Mi accorgo che strada facendo Marmier mi è diventato sempre più simpatico. I presupposti c’erano già tutti sin dalla partenza, la passione per i viaggi, la bibliomania, la preferenza per i paesi e per i popoli nordici, l’attitudine assieme curiosa e disincantata: ma a fare la differenza è stata probabilmente da ultimo l’età (la mia, chiaramente, non la sua). Credo proprio che questa simpatia abbia anche una matrice anagrafica. Cessati gli eroici furori sono diventato da un pezzo un viaggiatore tranquillo. Per dirla alla Marmier, frequento più ambulatori di fisioterapia che aeroporti o stazioni. Ma la tranquillità coatta mi spinge a viaggiare maggiormente nel tempo, e mi consente di incontrare personaggi come lui.

Non è come andare in Islanda, ma offre comunque le sue soddisfazioni.

Cinquantacinque anni di libri di viaggio

1837: Lettres sur l’Islande

1838: Langue et littérature islandaises. Histoire de l’Islande depuis sa découverte jusqu’à nos jours

1839: Histoire de la littérature en Danemark et en Suède

1840: Lettres sur le Nord, 2 vol.

1841: Souvenirs de voyages et traditions populaires

1842: Chants populaires du Nord. Lettres sur la Hollande

1844: Poésies d’un voyageur. Relation des voyages de la commission scientifique du Nord, 2 vol.

1845: Nouveaux souvenirs de voyages en Franche-Comté

1847: Du Rhin au Nil, 2 vol. Lettres sur l’Algérie

1848: Lettres sur la Russie, la Finlande et la Pologne, 2 vol.

1851: Lettres sur l’Amérique, 2 vol.

1852: Les Voyageurs nouveaux, 3 vol.

1854: Lettres sur l’Adriatique et le Monténégro, 2 vol.

1856: Un été au bord de la Baltique. Au bord de la Néva

1857: Les quatre âges. Les drames intimes, contes russes

1858: Les fiancés de Spitzberg. La forêt noire

1858-1859: Voyage pittoresque en Allemagne, 2 vol.

1859: En Amérique et en Europe

1861: Voyage en Suisse

1867: De l’Est à l’Ouest, voyages et littérature

1879: Nouveaux récits de voyages

1885: Passé et présent. Récits de voyage

1889: À travers les tropiques

1890: Au Sud et au Nord. Prose et vers

Bibliografia

Non esistono (o almeno, non mi risultano) molte biografie di Xavier Marmier, nessuna comunque particolarmente recente.

Camille Aymonier, Xavier Marmier: sa vie, son œuvre, Besançon, Séquania, 1928

Alexandre Estignard, Xavier Marmier, sa vie et ses œuvres, Paris, Champion, 1893

Wendy S. Mercer, Xavier Marmier: 1808-1892, Pontarlier, Les Amis du Musée, 1992

Roger Roux, Xavier Marmier bibliophile, Jacquin, 1910

Jean Ménard, Xavier Marmier et le Canada, Québec, Presses de l’Université Laval, 1967.

I suoi libri sono stati quasi tutti riediti (in francese) nell’ultimo decennio. Molti sono leggibili in edizione anastatica on line. Ne cito solo alcuni

Voyage pittoresque en Allemagne, (partie meridionale – partie septentrionale), The British Library, 2012

Lettres sur l’Islande, Wentworth Press, 2018

Les Fiancés Du Spitzberg, BiblioLife, 2009

Lettres Sur L’adriatique Et Le Montenegro (1), HardPresse Publishing, 2019

Lettres sur le Nord, Vol. 2: Danemark, Suède, Norvège, Laponie, Et Spitzberg, Forgotten Books, 2018

Lettres sur l’Amérique, Vol. 2, Forgotten Books, 2017

Lettres sur la Russie, la Finlande Et la Pologne vol. 2, Forgotten Books,  2018

Un Été au bord de la Baltique et de la Mer du Nord: Souvenirs de Voyage, BiblioBazaar, 2008

Du Rhin au Nil. Tirol – Hongrie – Provinces danubiennes – Syrie – Palestine – Égypte, Adamant Media Corporation, 2002

Voyage en Suisse, The British Library, 2010

[1] Les jours tombent, la vie en silence s’effeuille :
C’est l’amour aujourd’hui qui m’en prend une feuille;
Puis les longs entretiens d’une vieille amitié,
Puis le vague plaisir d’exister à moitié,
Comme un Napolitain dans sa molle paresse,
De s’asseoir au soleil et de voir sans tristesse
S’efïacer les lueurs d’un horizon doré.

[2] J’y suis venu sans toi dans ce pays si beau,
Dont nous parlions souvent à l’heure fortunée
Où tout s’offrait à nous comme un riant tableau,
Et que nous devions voir ensemble cette année.
C’en est fait de la voix qui naguères encor
Saisissait à la fois mon âme et mon oreille,
C’en est fait à jamais de tant de rêves d’or ;
Dans le pâle linceul maintenant tout sommeille.
Dors sous la froide terre, ô jeune et belle fleur,
Si doucement éclose et si vite brisée ;
Dors, avec les trésors de ta chaste candeur,
Avec ton innocence et ta tendre pensée.

La traduzione è mia, e certo non rende giustizia ai meriti, pur modesti, del testo.

Ideologie coloniali

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2017

 

La scoperta degli indiani e della loro anima. 1

Buoni e cattivi selvaggi 12

Schiavitù, diversità, razza. 37

 

La scoperta degli indiani e della loro anima

Nel resoconto dei suoi primi approcci con gli indigeni delle Antille, Colombo ci anticipa attraverso alcune significative considerazioni i tratti che caratterizzano l’atteggiamento futuro dei colonizzatori. Egli annota: “Prendevano tutto quello che loro si regalava, e davano assai volentieri di tutto quello che avevano; ma parvemi che potessero dare ben poca cosa, e fosse gente sotto ogni aspetto molto povera”. Più oltre: “[…] essi debbono essere molto servizievoli e di buon carattere”. E poi ancora: “Mi sembra che se potrebbe fare subito dei cristiani, perché pare che non abbiano alcuna religione”. Infine: “Non hanno ferro. Le loro zagaglie sono bastoni senza ferro […] conoscono male l’uso delle armi […] cinquanta soldati sarebbero sufficienti a renderli inoffensivi e a far fare loro ciò che si vuole”.

C’è in primo luogo la preoccupazione di fondo, che concerne il movente principe della spedizione, quello economico. Gli indigeni sono disponibili allo scambio, e probabilmente la loro ingenuità consentirebbe traffici assai vantaggiosi: ma non possiedono nulla di ciò che muove l’interesse degli europei: né l’oro, né le spezie. Colombo non può fare a meno di rilevarlo, sia pure marginalmente, e lasciando appena trapelare la constatazione in mezzo all’entusiasmo per il compimento della traversata e alla curiosità per l’incontro con i nativi. Deve prendere atto che sotto il profilo economico l’impresa si sta rivelando fallimentare: in Spagna i suoi finanziatori attendono carichi di pepe, di cannella, di chiodi di garofano, oppure di tessuti o di preziosi, non certo pappagalli o selvaggi piumati da esibire. I suoi rivali portoghesi hanno trovato sulla rotta orientale l’oro della Guinea, e sono comunque certi di approdare prima o poi direttamente ai mercati indiani. L’ammiraglio non può ammettere che la “sua” via e le scoperte risultino antieconomiche: gli indigeni hanno poco da offrire, ma sono “molto docili e servizievoli”, e di lì a poco verrà proprio da lui la proposta ai sovrani di utilizzarli o di venderli come schiavi. Per il momento si limita a reclutare nei loro villaggi delle mogli per i propri uomini, e a portarne alcuni con sé, in Europa, come campionario.

Dai prosaici calcoli commerciali, la cui momentanea frustrazione non induce affatto un declino delle speranze, si passa a più elevate preoccupazioni di promozione spirituale. Gli amerindi, privi almeno in apparenza di un culto religioso, offrono una notevole occasione missionaria. I dubbi sulla loro appartenenza o meno al genere umano sorgeranno più tardi, quando sarà ormai comprovato l’isolamento del continente americano e non si riuscirà a farli rientrare in alcuna delle stirpi bibliche. Dall’evidente vacanza di una religiosità “positiva” organizzata, Colombo deduce invece soltanto che gli indigeni non hanno un dio. La sua fede non è formale e convenzionale: egli è fermamente convinto del dovere di diffondere la “vera religione”, con le buone o con le cattive: “se ne potrebbe fare subito dei cristiani”, appunto.

Infine, visto che il livello di organizzazione politica e militare è ben diverso da quello che ci si attendeva (Colombo era munito di lettere dei sovrani per il Gran Khan), emerge anche il dato tutt’altro che trascurabile dell’estrema debolezza bellica dei nativi: armi primitive e spirito fondamentalmente pacifico. Anche se l’ammiraglio sarà parzialmente smentito dalla feroce resistenza offerta dai Caribi, la sostanziale innocuità degli indigeni sarà uno dei fattori di maggiore stimolo per il moltiplicarsi delle spedizioni transoceaniche.

Sugli iniziali contatti con gli abitanti del nuovo mondo pesa tutto il retaggio di sogni, speranze, paure, fantasticherie liberatorie o paurose di cui gli europei hanno da sempre caricato il mistero occidentale. In un primo tempo è presente anche, e lo abbiamo accennato per Colombo, l’inquietudine generata da una supposta profanazione: non ha forse i tratti dell’Eden, questa terra dal clima incredibilmente mite, che nutre i suoi abitanti senza spremere il loro sudore, che appare come un immenso giardino per la varietà e la ricchezza della sua flora? La sensazione di aver violato un mondo estraneo al tempo e alla storia umana resiste anche alla concreta presa di possesso delle nuove terre, alle delusioni che essa arreca e alla nuova barbarie che sembra eccitare negli animi degli europei.

L’innocenza, la semplicità, la gioia di vivere che traspaiono dai primi resoconti sugli indigeni ravvivano l’immaginazione dei contemporanei di Machiavelli (ma non quella del segretario fiorentino), troppo mortificata dalla realtà torbida e violenta in cui sono immersi. Li eccita la libertà e al tempo stesso la naturalezza sessuale, della quale favoleggiano, secondo un inveterato costume, i marinai di ritorno: così come li affascina l’idea di un’esistenza sottratta alla schiavitù del lavoro, fondata sul piacere e sull’abbondanza. Nella fantasia di chi ascolta le meraviglie della fertilità del suolo, del tepore perenne, della debolezza e della cordialità dei nativi entrano in circuito le fabulazioni medioevali sulle Indie, assieme al sogno paganeggiante di una rinnovata età dell’oro, diffusa tra gli umanisti quattrocenteschi (Colombo è contemporaneo di Machiavelli, ma anche di Botticelli).

Il nuovo mondo dà linfa al fiorire dell’utopia: da un lato fornisce modelli esotici, sia di felice anarchismo che di efficiente organizzazione politico-amministrativa, cui attingono da Moro in avanti tutti i propugnatori di società “perfette”; dall’altro offre spazi concreti alla sperimentazione e alla realizzazione di “controsistemi” ispirati a nuovi rapporti con la natura e tra gli uomini. Del sogno utopico modifica comunque sostanzialmente i tratti. Le isole fortunate si moltiplicano, ma esse non vanno più alla deriva sugli oceani del mondo, e i loro colori sono familiari.

Al di là comunque delle fantasie liberate, la realtà dell’impatto procura agli europei più di una delusione. Si attendevano un’organizzazione politica, militare e soprattutto commerciale di alto livello, e si trovano di fronte, almeno inizialmente, ad un mondo primitivo, privo di una qualsivoglia struttura economica che consenta traffici regolari e remunerativi. Gli stessi missionari, aggregatisi sin dalla prima ora ai naviganti e ai conquistadores, nella prospettiva di immense greggi da condurre in seno alla chiesa, debbono constatare che i nativi sono riottosi alla conversione e tendono a dimenticare velocemente gli insegnamenti cristiani per tornare alla pratica dei loro culti tradizionali. I più comprensivi tra i religiosi manifestano l’impressione di trovarsi di fronte ad un popolo fanciullo, che dovrà attendere parecchio prima di giungere alla maturità. Esitano talvolta addirittura ad ammetterli ai sacramenti in cui entri in gioco una maggiore responsabilizzazione personale, come l’eucarestia. Ci sono anche coloro che, disgustati della promiscuità sessuale, delle usanze sacrificali, o semplicemente della impermeabilità dimostrata nei confronti della “vera fede”, rinunciano all’opera di evangelizzazione, affermando che “Dio mai creò gente tanto intrisa di vizi e di bestialità, senza mescolanza di bontà o urbanità”. (Tomaso Ortis).

D’altro canto, i problemi di coscienza e gli entusiasmi per il rinvenimento di una umanità più libera e felice sembrano propri soltanto di coloro che col nuovo mondo hanno rapporti puramente intellettuali o sentimentali. Chi invece ad esso concretamente approda è sospinto in genere da motivazioni che non consentono di apprezzare la “qualità della vita” degli indigeni. Al contrario, forti dell’impressione suscitata dalle armi da fuoco e dall’acciaio, ed anche del fatto che i nativi appaiono ingenui, fiduciosi e poco combattivi, gli europei non tardano a mettere in atto una spogliazione ed uno sfruttamento sistematici, improntati al più bestiale misconoscimento di ogni principio umano di carità o di giustizia. Cosa abbia significato per gli amerindi l’incontro con la “civiltà” europea lo dicono chiaramente le cifre. Nel volgere di un secolo una popolazione calcolata attorno ai venti milioni nella sola America Centrale, si riduce a circa un milione: e quella totale del continente, valutata sui quaranta milioni al momento dell’arrivo di Colombo, è ridotta alla fine del ‘500 a meno di dieci[1]. In questo sterminio hanno una gran parte le malattie, soprattutto quelle polmonari e il vaiolo, diffuse dai bianchi; ma senza dubbio la crudeltà, i massacri, le fatiche inumane imposte dai colonizzatoti rimangono il fattore principale. Nulla meglio della testimonianza di Bartolomeo de Las Casas, strenuo difensore della umanità degli Indios e del loro diritto alla libertà, può darci un’idea di ciò che avviene dopo la scoperta e nel corso della “civilizzazione”. Nella Brevisima relacion de la destruccion de las Indias troviamo descritte atrocità ai limiti del credibile. “I cristiani con cavalli e spade e lance cominciarono ad uccidere e usare indicibili crudeltà nei loro confronti. Entravano nelle terre, sventravano e squartavano senza risparmiare né ragazzi, né vecchi, né donne incinte, come se assaltassero degli agnelletti nelle loro mandrie. Scommettevano a chi con una coltellata fendeva un uomo in due, o gli tagliava lo testa di un colpo, o gli scopriva le viscere. Staccavano i neonati dalle poppe delle madri, prendendoli per i piedi, e li sfracellavano con la testa nelle rupi… I signori e la nobiltà li uccidevano normalmente in questo modo. Costruivano graticole di legno sostenute da forchette, e ve li legavano sopra, e sotto attizzavano un fuoco lento: onde poco a poco, gettando tra quei tormenti urla disperate, davano fuori l’anima […] queste cose e altre assai, che fanno fremere l’umanità, vidi io con questi occhi; ed ora ho appena il coraggio di raccontarle, desiderando io stesso non crederle, e supporre che sia stato un sogno”. Egli attacca violentemente anche gli encomenderos: “Finite le guerre, divisero tra loro gli uomini […] e così ripartiti li davano a ciascun cristiano col pretesto che dovesse ammaestrarli nelle fede cattolica: onde costoro, per lo più uomini ignoranti e crudeli, avidissimi e viziosi, eccoli divenire parrocchiani delle anime. La cura e il pensiero che ne ebbero fu di mandare gli uomini nelle miniere a estrarre oro, che è una fatica intollerabile: e le donne nelle capanne, per dissodare e coltivare il terreno, fatica da uomini molto forti e robusti. Non davano da mangiare né agli uni né alle altre, se non erbe e cose prive di sostanza […] È impossibile riferire le some di cui li caricavano, di tre o quattro arrobe, facendoli camminare cento o duecento leghe… sempre si servivano di loro come bestie da soma […] La tirannia che esercitano gli spagnoli contro gli indiani per cercare o pescare perle è una cose più riprovevoli e crudeli che siano al mondo. Non vi è sulla terra vita così infernale e disperata che possa paragonarsi a questa… li mettono in mare, tre, quattro, cinque braccia al fondo, dalla mattina al tramonto. Stanno sempre nuotando a cercare le ostriche. Vengono a galla con alcune reticelle piene di queste a respirare, e lì vi è un boia spagnolo in una barchetta, e se cercano di riposarsi li percuote coi pugni, e pigliandoli per i capelli li butta nell’acqua, perché tornino a pescare”. Las Casas mostra di avere una esatta percezione delle dimensioni dell’etnocidio, quando afferma: “Daremo per certo e reale che, nei detti quarant’anni, per le tirannie e le infernali sevizie dei cristiani sono morti ingiustamente e tirannicamente più di 12 milioni di persone, uomini, donne e bambini; ed io credo in verità, né penso di ingannarmi, che passino i quindici milioni”.

Le divergenze tra la madrepatria e i coloni sul trattamento da usare nei confronti degli indigeni risalgono già ai primi anni della conquista. I sovrani, Isabella in particolare, sono decisamente contrari all’idea dell’asservimento, caldeggiata tra gli altri da Colombo. A Nicolàs de Ovando, primo governatore inviato alle Indie spagnole, fanno pervenire più di un richiamo a non eccedere nella coercizione degli indigeni al lavoro e a retribuirli “pagando loro il salario giornaliero che sia da voi fissato: e ciò facciano e compiano come persone libere come sono, e non come servi”. L’Ovando risponde che l’unico mezzo per far fruttare le terre scoperte è proprio il lavoro coatto: i nativi, pigri e disordinati per indole, necessitano in ogni attività produttiva di una guida e di uno stimolo costante.

Una soluzione accettabile per entrambe le parti sembra essere rappresentata dall’encomienda, istituita nel 1503 nell’intento da parte dei sovrani di salvaguardare i diritti degli indigeni, senza venire a contrasto con i colonizzatori e senza rinunciare alle entrate che lo sfruttamento delle isole caraibiche prospetta. L’encomienda, come si è visto dalla testimonianza di Las Casas, si rivela una forma di schiavizzazione totale e tra le più disumane. Gli indios non “appartengono” all’encomendero, non costituiscono un suo bene o possesso, anche se costui li utilizza come tali: e ciò rende la loro situazione assai più penosa, perché neppure il senso della proprietà interviene in qualche modo a salvaguardarli. Essi sono sfruttati fino a che possono produrre, e quindi lasciati perire di stenti o di malattia; altri, bisognosi d’essere istruiti nella vera fede e “protetti”, li sostituiscono. Las Casas narra di un ufficiale cui furono affidati trecento indios, e nel giro di pochi mesi li ridusse a trenta; ottenuto un ulteriore affidamento, si ritrovò in breve tempo nella stessa situazione: e cosi continuò, dice il narratore, finché il diavolo se lo portò via.

Le prime voci ad alzarsi in difesa degli indios sono quelle dei missionari, in modo particolare quelle dei domenicani. Un religioso giunto da poco a Santo Domingo, Antonio da Montesinos, indignato per la barbarie di cui si trova ad essere spettatore, inizia nel 1511 a denunciare con violente predicazioni l’ipocrisia e la ferocia degli encomenderos. Ottiene al momento soltanto di venire in odio ai suoi vecchi compatrioti, che ne sollecitano l’allontanamento presso la corte e i superiori. Il germe di una diversa coscienza del problema indiano è comunque gettato. Tornato in patria, Montesinos si fa assertore intrepido all’interno del suo ordine e di fronte al consiglio della corona dei diritti degli indios e del rifiuto di qualsiasi forma di schiavitù; e non lotta invano, se nelle disposizioni date ai missionari domenicani è compreso da allora il rifiuto dell’assoluzione per gli encomenderos indegni. Più tiepidi al riguardo appaiono invece i francescani, che hanno nelle isole particolari concessioni e tendono a salvaguardarle sostenendo la necessità di una “tutela” ampia da esercitarsi sugli indigeni.

Nel 1514 inizia la battaglia di Las Casas. Già encomendero al seguito di Ovando, prende i voti in età matura, a 36 anni, e si trova a parteggiare, al momento dello scompiglio suscitato da Montesinos, per i coloni. Non tarda però a provare disgusto, toccato da quella predicazione, per il comportamento dei suoi compatrioti, e a rilevare Montesinos stesso nella difesa degli amerindi presso il consiglio delle Indie, fino ad ottenere il titolo di Protector de Los Indios.

In seguito alle sue sollecitazioni viene inviata ai Caraibi una commissione d’inchiesta, che constata la veridicità delle denunce, ma arriva a concludere che la soggezione degli indios, sia pure in forme mitigate, è indispensabile per la resa economica di quelle terre. Tutt’altro che domo, Las Casas si impegna allora a dimostrare concretamente il contrario. Ottenuta una concessione imperiale, nel 1520 impianta egli stesso una colonia mista di popolamento a Cumana, sulla costa del continente, fondandola sulla parità di diritti tra le due razze. L’esperimento non ha successo, soprattutto per la scarsa disponibilità alla convivenza egualitaria da parte dei bianchi; esso si risolve addirittura in un massacro, causato dalle provocazioni continue dei coloni, cui fa seguito un’immediata, crudelissima rappresaglia.

Neppure questo fallimento riesce tuttavia a far desistere Las Casas da quella che ormai considera la sua missione particolare. È un momento particolarmente difficile per la causa degli indios. Le remore morali che avevano in qualche modo condizionato il comportamento iniziale dei conquistatori, o lo avevano comunque fatto oggetto di riprovazione, sembrano venute meno. Dopo la morte di Isabella la corona si è mostrata scarsamente sollecita nella difesa della libertà degli indigeni. L’assuefazione all’idea di un loro legittimo asservimento induce un altro assioma, quello della loro inferiorità.

Nel 1524 il francescano Tomaso Ortis presenta al consiglio delle Indie una relazione molto esplicita in questo senso. Gli indios vengono in essa descritti nelle tinte più fosche: “[…] Mangiano carne umana e sono sodomiti più di qualunque altra popolazione… non provano né amore né vergogna, sono bestiali ed incostanti, incapaci di apprendimento e di correzione, traditori, crudeli, vendicativi, ostilissimi alla religione: sono stregoni, negromanti, indovini […]. Non hanno arte né abilità da uomini”. La loro resistenza alla predicazione e all’evangelizzazione è tra le colpe più gravi: “Quando si scordano delle cose della fede che hanno imparato, dicono che esse vanno bene per la Castiglia e non per loro, e che non vogliono mutare né costumi né dei”. Persino le costumanze estetiche sono interpretate come perversioni: “sono senza barba, e se gliene cresce un po’ se la tagliano”. Le accuse di cannibalismo e di sodomia sono le più ricorrenti nelle descrizioni “in negativo” delle popolazioni amerinde. La seconda è di prammatica, in tutto il corso della civiltà occidentale, nei confronti di qualsivoglia diversità o dissenso (soprattutto all’interno dei gruppi religiosi o politici). La presenza effettiva del cannibalismo, invece, pratica attribuita nel medioevo solo alle popolazioni leggendarie, colpisce profondamente l’immaginazione europea, che ingigantisce un fenomeno peraltro sporadico e di significato soprattutto rituale. Già nel 1511 un anonimo inglese dà questa descrizione degli indigeni: “… Non hanno re, né signore, né dio, possiedono tutto in comune e vanno coperti solo di piume, come bestie senza ragione vivono mangiandosi l’un l’altro e appendono le salme per affumicarle come noi la carne di maiale”; dove la mancanza di senso dell’autorità e della proprietà è associata, in un comune significato di depravazione, all’antropofagia.

Nel 1526 Gonzalo Fernandez de Oviedo dà alle stampe il suo Sumario de la natural Istoria de las Indias, nel quale vengono ribadite le tesi di Ortis, nel dichiarato intento di giustificare il comportamento degli encomenderos. Las Casas si sente vieppiù spronato nella sua opera di denuncia e di divulgazione delle atroci realtà della conquista. Continua a presentare memoriali al Consiglio delle Indie, e pubblica nel 1542 la Brevisima relaciòn, dalla quale abbiamo tratto i passi sopra riportati. Nel frattempo la chiesa si è espressa ufficialmente sul problema con la bolla Sublimis Deus, emanata da Paolo III nel 1537, nella quale si sancisce la piena umanità e razionalità degli indigeni, e conseguentemente il divieto di privarli della libertà. È una posizione che a molti riesce assai difficile accettare. Las Casas conduce una disputa quasi ventennale con Juan de Sepulveda, teorizzatore di un diritto delle nazioni “civili” a soggiogare quelle primitive, e a condurre quelle ultime alla civiltà “con qualsiasi mezzo”. Al tempo stesso, però, affianca all’impegno teorico l’azione concreta, svolta nelle terre in questione. Riesce a strappare a Carlo V, proprio con la relazione sulla distruzione delle popolazioni indigene, le Nueuas Leyes de Indias, con le quali viene abolito l’istituto dell’encomienda, lasciando in vigore solo le concessioni esistenti fino alla morte dell’affidatario. È un provvedimento un po’ tardivo per gli indigeni, ormai decimati: così come quello successivo delle Ordenanzas sobre discubrimiento del 1573; inoltre, nella realtà, la situazione muta ben poco.

Nell’ideale dibattito che lungo tutto il Cinquecento ha luogo intorno all’“umanità” degli indiani e al livello della loro civiltà, appaiono emblematici gli atteggiamenti di due tra i maggiori protagonisti della cultura dell’epoca: Montaigne e Shakespeare. Il primo ha una posizione nettamente anticolonialistica, fondata su premesse ben diverse da quelle missionarie di Las Casas. Non gli interessa che gli indiani siano in grado di abbracciare e di praticare la fede “superiore” come e più dei bianchi. La sua idea di umanità è talmente ampia da comprendere le manifestazioni più eterogenee del vivere umano, e da accettarle di per sé, senza rapportarle a paradigmi particolari di civiltà, nella fattispecie a quella europea. “Mi sembra che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi: sembra infatti noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa”. La sua amara riflessione sullo snaturamento e l’artificiosità dei rapporti umani lo spinge anzi a scorgere nello “stato di natura” degli amerindi un livello superiore di esistenza. “Quei popoli mi sembrano barbari in quanto sono stati in scarsa misura modellati dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano sempre le leggi naturali, non ancora troppo imbastardite dalle nostre […]. Possiamo dunque ben chiamarli barbari, se li giudichiamo secondo le regole della ragione, ma non confrontiamoli con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie”. Smantella e ribalta persino le accuse che maggiormente si prestavano a suffragare l’imputazione di barbarie, come quella della pratica cannibalesca: “Non lo fanno, come si può pensare, per nutrirsene, ma per esprimere una superiore vendetta… Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente […] e sotto il pretesto della pietà religiosa)”. Ed esprime il suo rammarico per uno stato di purezza e di tranquillità che nell’incontro con gli europei è andato irrimediabilmente perduto: “Temo molto che avremo assai affrettato il suo declino e la sua rovina col nostro contagio, e che gli avremo venduto a caro prezzo le nostre opinioni e le nostre arti […] Quanto a religione, osservanza delle leggi, bontà, liberalità, franchezza, ci è stato molto utile non averne quanto loro: essi si sono rovinati per tale superiorità e venduti e traditi da soli”.

Nel suo ultimo dramma, La Tempesta, Shakespeare ci offre una metafora ben diversa dei rapporti tra barbarie e civiltà. Se pure all’inizio sembra abbracciare tesi anticolonialistiche (“Se colonizzerò quest’isola, farò tutto al contrario… niente traffici, niente magistrature… né poveri, né ricchi, e tantomeno schiavi… nessuna legge né contratto… niente recinti, né lavoro, ecc…”), l’antitesi tra Calibano (anagramma di cannibale) e Prospero si rivela ben presto come lo scontro tra cultura, nella sua espressione superiore, ovvero europea, bianca, e natura, nel significato deteriore di animalità. Alcune affermazioni sembrano riecheggiare le relazioni di Tomaso Ortis, più ancora che le teorie di Sepulveda: “È un demonio, un demonio nato, sulla cui natura l’educazione non potrà mai fare presa”. C’è una componente nuova, nel disprezzo che i bianchi shakespeariani mostrano nei confronti di Calibano: è qualcosa che odora decisamente di razzismo: “[…] ma la tua bassa natura, per quanto imparassi, era tale che gli onesti non potevano sopportare di avvicinarla”. Shakespeare ha probabilmente letto il saggio di Montaigne: ma l’immagine che ha dell’uomo naturale è tutt’altro che edenica. Per lui l’essere umano è comunque soggetto alla corruzione e alla malvagità. Lo stato di natura è imperfetto, è una condizione subumana, che l’uomo civile deve correggere ed educare. Nel caso specifico poi Calibano, nero di origine africana, “a savage and deformed slave”, personifica la bruttezza, che si contrappone alla bellezza di Miranda, la malvagità bestiale opposta alla gentilezza e alla civiltà, e ciò spiega e legittima la sua condizione di schiavitù.

E tuttavia, anche dietro un ritratto così negativo spuntano alcune consapevolezze che rendono ambigua la posizione di Shakespeare. Calibano si rivela infatti violento e malvagio solo dopo aver subito prevaricazioni e provocazioni, mentre all’inizio appare gentile e ben disposto; il suo cambiamento è quindi anche frutto della corruzione portata dall’uomo civilizzato, la cui bassezza può essere persino peggiore della bestialità del selvaggio. Non tutti i bianchi sono come Prospero: anzi, la gran parte dei protagonisti de La Tempesta è di tutt’altro stampo. La malvagità è comune a entrambi i mondi.

La colpa di Calibano sta soprattutto nel desiderare la fanciulla bianca; e naturalmente, in quanto selvaggio e colorato, il suo desiderio non si esprime nella forma civile dell’“aspirare alla mano”, ma nella bestiale ignominia dello stupro. Dopo che per un secolo gli spagnoli, i portoghesi e da ultimo anche i francesi si sono prodigati a ripopolare il nuovo mondo di meticci, la prospettiva di una mescolanza razziale appare ora, a chi sta per soppiantarli nel dominio coloniale, abominevole. Calibano è in fondo la proiezione di tutte le paure che gli abitanti del vecchio mondo hanno nei confronti del nuovo, e degli stereotipi che inventano per esorcizzarle …

Questa visione anticipa dunque, e condensa, lo spirito nuovo del colonialismo, lascia trapelare una diversa inquietudine: “La tempesta è la formulazione di un giudizio, oltre che storia in forma mitologica; è l’Europa che giudica e rifiuta non solo l’indigeno americano, l’indiano, ma tutti gli americani bianchi futuri, che inevitabilmente si trasformano a immagine dell’indiano. E pure il rifiuto non è totale, in quanto quasi all’ultimo momento il portavoce della cultura europea riconosce che il nuovo uomo nato dalla potenza delle tenebre è in qualche modo derivato anche da lui” (Fielder).

Shakespeare non è nuovo a questa ambiguità. È la stessa che troviamo infatti nella vicenda di Otello, e prima ancora in quella di Shylock.

Nella storia del moro di Venezia il vero protagonista negativo è un bianco, un occidentale. Umanamente il povero Otello ispirerebbe piuttosto simpatia; è innamorato, ed è orgoglioso di essere amato da una donna bianca. Ma proprio qui è il discrimine: fin dove arriva l’amore, e dove invece l’orgoglio? Il tragico finale ci dice che è il secondo a prevalere, e questo in qualche modo avvalora il disagio, il sospetto vero che Shakespeare, attraverso Jago, ma non solo lui, insinua: più che l’amore qui sembra in gioco una rivalsa o un riscatto razziale. Non importa che Otello appaia più moderno e più aperto di tutti i suoi nemici (anche se poi, quando gli viene istillato il sospetto lascia libero corso alla sua natura primitiva). La sua colpa non è di aver commesso qualcosa, ma di essere quello che è. E proprio questo è significativo.

Allo stesso modo, ne Il mercante di Venezia Shylock risponde all’immagine demonizzante dell’ebreo già diffusa a partire dal Basso medioevo in tutta l’Europa, ma rafforzata in età controriformistica sia nei paesi cattolici che in quelli protestanti. E tuttavia, le parole che gli sono messe in bocca, alla fine del ‘500, non possono non lasciarci un sapore amaro in bocca, che guasta il “lieto” fine. “Sono un Ebreo. Non ha occhi un Ebreo? Non ha mani un Ebreo, organi, membra, sentimenti, affetti, passioni? Non si nutre con lo stesso cibo, si ferisce con le stesse armi, è soggetto alle stesse malattie, è curato con gli stessi metodi, non sente freddo d’inverno e caldo d’estate come un Cristiano? Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? E se ci fate un torto non vogliamo vendetta? Se noi siamo come voi in tutto il resto, vi rassomiglieremo anche in questo”.

 

Buoni e cattivi selvaggi

Nel Settecento non si modifica solo l’immagine fisica che gli europei hanno del globo: cambia anche la percezione delle diverse culture che questo mondo dilatato lo abitano. Dopo lo sconcerto provocato dal primo impatto i popoli “nuovi” sono ora meglio conosciuti e cominciano ad essere inseriti in un quadro che non pretende di trovare corrispondenza letterale nella Bibbia e nella geo-antropologia tradizionale, mentre quelli “antichi” vengono spogliati di tutto il repertorio immaginifico che era loro associato nella classicità e nel medioevo. Una volta conclusa la prima fase della conquista, quella americana, viene anche meno la motivazione più strumentalmente immediata a “demonizzare” le popolazioni indigene, ad accampare la loro presunta barbarie per giustificare la propria. L’immagine che ne risulta è tuttavia mediata da una serie di nuovi filtri, attraverso i quali si attua una rielaborazione del diverso ad uso “interno”. In sostanza, mentre in precedenza la supposizione immaginaria o una conoscenza per la gran parte fantasiosa induceva a proiettare sugli “altri” le paure, le speranze o i rimpianti legati ad una tradizione mitologica o scritturale (e questo vale, come abbiamo visto, ancora per lo stesso Colombo), ora il termine di confronto è costituito dallo stato stesso della civiltà occidentale, con le sue istituzioni, la sua cultura, la sua storia, e gli “altri” fungono da pietra di paragone per esaltarne i pregi o denunciarne i difetti[2].

Su questa trasformazione influiscono quindi tanto le modalità pratiche, motivazionali e psicologiche dell’approccio (ciò che sta fuori non fa più paura – anche perché lo si affronta dall’alto di una superiorità tecnologica e militare – ma incuriosisce e, per i più svariati motivi, attira), quanto il progressivo affermarsi di una “razionalizzazione”, di una concezione convenzionalistica degli istituti sociali, politici e culturali (quella che va da Machiavelli a Hobbes e a Locke per la politica, che passa per la definizione dei “generi” nella letteratura e delle “buone maniere” nel costume quotidiano, che opera attraverso l’adozione di un metodo nella cultura scientifica[3], ecc.). Si è ora disposti a guardare con altri occhi alle culture altre perché non si suppone più un’origine divina dei modelli politici, sociali e culturali propri. Ciò non implica necessariamente una “valorizzazione” del diverso: dal confronto può anche scaturire un sentimento di superiorità, che da culturale tende velocemente a trasformarsi in “razziale”; oppure si può essere indotti a considerare quello in cui vivono gli altri popoli uno stadio più arretrato dello stesso cammino, riconoscendo a tutti una potenzialità di crescita ma avendo chiaro in mente dove questo cammino debba portare. Rimane comunque il fatto che anche in questi casi le differenze di livello vengono imputate alla natura degli uomini, al loro operato, al loro rapporto con le situazioni ambientali, e non alla volontà divina.

La concezione convenzionalistica si traduce pertanto in una considerazione degli altri, dei loro costumi, delle loro credenze e tradizioni, che prescinde da scale di valori precostituite. Solo fino ad un certo punto, però: perché il possibile esito (nella fattispecie, anche il più comune) è il prevalere di una lettura simbolica e strumentale delle diverse esperienze, chiamate in causa non per quello che sono ma per quello che, proprio attraverso il confronto, dicono della cultura occidentale. L’interesse degli europei si concentra infatti sugli elementi più immediatamente funzionali al dibattito politico-filosofico interno: ad esempio, sull’atteggiamento nei confronti della proprietà, che presso i popoli di più recente scoperta o non esiste o è intesa come possesso dei beni clanico o comunitario (il che riduce ad esempio a una normale pratica di scambio ciò che dagli europei è considerato un furto, o addirittura in qualche caso associa a questo comportamento un particolare prestigio); o sulla concezione dell’autorità, e di conseguenza di quella dei limiti e dei modi della libertà individuale; oppure sugli atteggiamenti relativi alla sfera del pudore e della sessualità (dai costumi prematrimoniali alla nudità, all’incesto, ecc…). Spesso queste differenze, vere o semplicemente enfatizzate che siano, vengono giocate a sostegno di una immagine di inferiorità e di barbarie (si pensi al mito del cannibalismo): ma più spesso ancora, e anche a partire da interpretazioni diametralmente opposte, offrono lo spunto per un ripensamento radicale sui fondamenti religiosi, morali e politici su cui si è sviluppata la cultura occidentale. La stessa “barbarie” è sempre meno intesa come la risultante di una degenerazione o di una deviazione dal modello umano originario, e viene letta piuttosto come una particolare condizione storica e sociale all’interno dell’unico percorso possibile verso il modello umano compiuto. Dall’idea del “barbaro” si passa a quella del “selvaggio”.

Tanto è la gente amorevole, e senza avidità, e trattabile, e mansueta, ch’io giuro alle Altezze Vostre che nel mondo non v’è miglior gente, né miglior terra”. Nel corso del suo quarto viaggio Colombo si convince di essere approdato nel paradiso terrestre, e tenta di convincere anche i suoi finanziatori. Naturalmente è l’unico a crederci[4], perché i navigatori che nel frattempo ne hanno seguita la scia, Vespucci tra i primi, hanno capito subito di essere soltanto al cospetto di una terra e di una umanità diverse e ne hanno data notizia all’Europa. La polemica che si origina da questa coscienza e le motivazioni che la alimentano sono già state trattate in queste pagine: le conseguenze sul piano di una presunzione di superiorità non solo culturale ma biologica lo saranno più oltre. Ciò che preme ora ribadire è che alla fine, malgrado tutto, sarà l’immagine proposta da Colombo a prevalere: è sufficiente sostituire l’Eden con lo “stato di natura” e ci si accorge che il navigatore genovese ha in fondo fornito un modello interpretativo destinato ad una enorme fortuna.

Tuttavia, anche se di fatto è il primo “moderno” a parlare in positivo dei “selvaggi”, Colombo non lo fa nei termini propri della modernità, perché non è pronto a riconoscere agli “indiani” una loro originalità culturale[5]. Questo passaggio sarà reso possibile solo dal clima diffuso attorno alla metà del Cinquecento dal tardo Umanesimo, dalla visione laica del mondo e della storia che Erasmo e i suoi eredi oppongono tanto alla Riforma che alla Controriforma, ribaltando l’idea di un’umanità marchiata dal peccato originale e condizionata dal servo arbitrio. Pur considerandolo uno stadio primordiale quasi animalesco, e argomentando ciascuno in maniera diversa, Grozio e Hobbes prima, e poi Pufendorf e altri, fino a Locke e a Leibnitz, teorizzano uno “stato di natura” che suppone quest’ultima come un ordine autonomamente normato, nel quale l’umanità può svilupparsi al di fuori dei limiti sociali e culturali artificiosamente creati dalla “civilizzazione”. I costumi dei selvaggi ne sono appunto la testimonianza, e anche quando vengano interpretati come segni di inferiorità dimostrano comunque che le fedi e le culture dei popoli civilizzati sono frutto di un artificio, e le istituzioni e le leggi nascono da una convenzione.

In questo quadro teorico, e sulla scorta della documentazione fornita soprattutto dai missionari sul comportamento degli europei nei confronti di questi popoli, sugli eccidi e le nefandezze da essi compiuti, sulla sostanziale innocenza di pratiche volutamente interpretate in negativo al primo incontro, è naturale che nasca una riflessione intorno al senso e al destino della cultura occidentale. Lo ha già fatto con largo anticipo Tommaso Moro, traendone un giudizio tutt’altro che positivo: ma Moro, per quanto probabilmente suggestionato dalle notizie sull’incontro con i “selvaggi”, rimane nella sfera del vecchio mondo, al più spostando oltre l’oceano la localizzazione della sua Utopia. Ci ritorna invece con uno spirito nuovo, come abbiamo già visto, dopo la metà del Cinquecento, Montaigne.

Nel celebre “essai” Des Cannibales Montaigne non usa mai l’espressione “buon selvaggio”, che comincerà a circolare solo un secolo più tardi[6]. Le sue riflessioni si fondano soprattutto su l’Histoire d’un voyage fait en la terre du Brésil, autrement dite Amerique, di Jean de Lery (pubblicato nel 1568), resoconto entusiasta della vita degli indigeni del nuovo mondo, che sfronda tutta una serie di luoghi comuni assurdi e dà un’interpretazione in positivo della poligamia, della nudità, dell’assenza di senso della proprietà, arrivando a concludere che se esistono uomini felici, questi sono gli Americani. Montaigne attinge dunque ad una fonte laica, laddove per quasi tutto il suo secolo e quello successivo saranno soprattutto i religiosi, in primo luogo i Gesuiti, a difendere la causa dei popoli primitivi e a ribaltarne in positivo l’immagine. Questo probabilmente influisce sulle conclusioni che il filosofo ne trae, sull’assunzione di un atteggiamento scettico anziché giusnaturalistico. Non ha infatti la necessità di fare un uso polemico delle notizie cui si affida, perché non deve sostenere l’esistenza di alcuna base, naturale o religiosa, del diritto. Si limita a prendere atto della diversità e ad astenersi dal giudizio (sia pure mostrando simpatia per i “selvaggi”). Quella di Montaigne rimane comunque una posizione isolata, dettata dal buon senso e da una sensibilità che difetteranno, per un verso o per l’altro, ai suoi successori. Non è relativismo, ma la semplice coscienza del fatto che ogni cultura ha una storia propria, e che importante è conoscere e capire questa storia, piuttosto che fare confronti tra realtà per molti aspetti e per ragioni naturali e storiche incommensurabili.

Un contemporaneo di Montaigne, Giovanni Botero, scrive: “[…] danno nome di barbari a quei popoli i cui costumi si dilungano dalla ragione e dalla vita comune. Definizione che, se fosse vera, il nome de’ Barbari converrebbe più a’ Greci e a’ Latini che al resto delle genti: perché se vita comune si deve dire quella che mena la più parte delli huomini e Barbari quelli che se ne allontanano, essendo che i Greci e i Latini vivono differentemente da altri e sono meno degli altri, a loro converrebbe il nome di Barbari[7]. In pratica risponde con largo anticipo a Grozio, il quale qualche decennio dopo sosterrà che “[…] il diritto naturale è quello che viene ritenuto tale presso tutto i popoli, o tutti quelli con costumi più avanzati. Un effetto universale postula una causa universale […][8], e definirà barbari coloro che non seguono la retta ragione e la comune consuetudine degli uomini.

L’argomentazione di Botero è fatta propria a metà Seicento anche da Hobbes: “Non di rado accade che tutti i popoli appaiano perfettamente d’accordo nel tenere comportamenti che quegli scrittori (i giusnaturalisti) ritengono essere contrari alla legge naturale[9]. Il criterio non può quindi essere quello del consensus omnium, ma quello per cui la legge naturale è il “dettame della giusta ragione”. E in base a questo, ad esempio, è possibile negare la naturalità del patriarcato, o quella della proprietà privata: allo stato di natura, come dimostrano proprio i costumi dei “popoli selvaggi dell’America”, queste istituzioni non esistono. A prescindere dal fatto che per Hobbes lo stato di natura è comunque tutt’altro che edenico[10], affermare che a dispetto dell’esistenza di diversità culturali inoppugnabili e irriducibili esiste un parametro, e questo parametro non è né il consenso universale né quello dei popoli più civilizzati, è un passo fondamentale. Significa muoversi già su un altro binario, quello che attraverso Pufendorf condurrà poi a Leibnitz[11] e all’illuminismo francese.

Al di là comunque delle sfumature, sia pure tutt’altro che trascurabili, ciò che importa è che tanto Montaigne quanto Grozio e Hobbes affermano l’autonomia dell’essenza umana. Ed è questo a fare la differenza rispetto alla concezione pre-moderna. Di qui innanzi, quale che sia il giudizio che di questa essenza si verrà a dare, il dibattito ruoterà attorno all’idea di una “umanità” che esiste anche al netto della civilizzazione, oltre che della rivelazione. Naturalmente, il passaggio è graduale. Nel corso del Seicento il dibattito si svolge ancora, come abbiamo visto, a tre voci: c’è quella dei conquistatori, che procede attraverso l’uso sistematico della connotazione in negativo (i selvaggi non hanno dio, non hanno leggi morali, non indossano abiti, non conoscono la proprietà, non lavorano, non sono monogami, ecc…) ad alzare lo steccato, a sancire la barbarie e a giustificare l’asservimento; c’è quella dei missionari, quando non si accordi e non diventi strumentale alla prima, che mitiga la contrapposizione, perché pur ammettendo i difetti e l’inferiorità culturale degli indigeni riconosce loro anche una buona disposizione e una certa potenzialità di miglioramento, o meglio di “redenzione”, e rivendica l’innocenza dei loro costumi; e c’è infine quella dei “libertini”, che si innesta su un filone ideologico di polemica antispagnola in nazioni come l’Olanda, la Francia e l’Inghilterra, e sostiene la naturalezza di questi costumi, capovolgendo il non privativo in un senza dal significato liberatorio[12] e travalicando quel sistema di valori all’interno del quale l’innocenza ancora si pone.

Nel Settecento il confronto in qualche modo si semplifica. Ormai l’idea dell’esistenza di uno “stato di natura” è acquisita, viene costantemente suffragata da una conoscenza delle culture dei selvaggi scientificamente fondata su un approccio etno-antropologico, ed è divulgata dalla letteratura diaristica, dalle relazioni di viaggio e dalle illustrazioni sempre più realistiche e dettagliate che le accompagnano. Su questa base lo “stato di natura” può essere poi letto, a seconda dei casi, secondo il paradigma del “buon selvaggio” o in chiave negativa. Le scuole di pensiero tendono naturalmente a connotarsi nell’una o nell’altra direzione in ragione delle scelte coloniali delle diverse nazioni, per cui laddove i nativi sono considerati degli interlocutori, nel quadro ad esempio di una politica di alleanze o di scambi commerciali, verranno individuati gli aspetti positivi delle loro culture, mentre dove li si vede come un ostacolo nella prospettiva di un insediamento territoriale, o al più come una risorsa da sfruttare in forma schiavistica, se ne sottolineeranno soprattutto l’arretratezza e la disumanità. È così che il dibattito assume coloriture molto diverse in Francia, in Spagna o in Inghilterra[13]. La semplificazione è comunque legata anche al fatto che, una volta uscito dal chiuso dei salotti libertini o delle relazioni dei gesuiti, il dibattito si allarga ora a coinvolgere un’opinione pubblica ben più vasta, e nel farlo rinuncia sempre più alle argomentazioni sottilmente teologiche o filosofiche per dare spazio alle componenti emozionali o spettacolari. L’immagine dei “selvaggi” che circola nel Settecento è piuttosto quella diffusa dal barone di Lahontan o da De Foe, e più tardi da Bernardin de Saint-Pierre o da Bougainville, che non quella dei giusnaturalisti o degli illuministi.

Se vogliamo in qualche modo datare un inizio del “nuovo corso” possiamo farlo risalire al 1683, quando padre Louis Hennepin, un “recollet” belga già aggregato alla spedizione di La Salle, pubblica la Description de la Louisiane nouvellement decouverte au sud-ouest de la Nouvelle France. Mescolando realtà, fantasia e millanterie il francescano descrive una natura incontaminata e fertile (è il primo occidentale a vedere, o perlomeno a descrivere, le cascate del Niagara), racconta di avventure mirabolanti e di grandi passioni, presenta “selvaggi” che parlano con un’arte oratoria degna di Cicerone e conservano intatta la capacità di un alto e nobile sentire. Hennepin conosce in effetti la vita indiana, per essere stato catturato dai Sioux ed avere vissuto con loro, come prigioniero, per qualche mese (afferma addirittura di essere stato adottato da un capo indiano): ma il valore documentario della sua opera è alquanto discutibile. Indubbio è invece l’effetto: il suo racconto, oltre a ravvivare l’interesse per l’America degli ambienti politici e commerciali francesi, fino a quel momento piuttosto tiepido, accende l’entusiasmo di molti giovani assetati di avventura.

Tra costoro c’è il barone Louis Armand de Lahontan, personaggio decisamente controverso e intrigante, che nel 1683, a soli diciassette anni, si arruola nell’esercito e viene spedito in Canada, dove si trova a vivere l’epopea dell’esplorazione della zona dei grandi laghi e delle guerre tra la nazione urone e quella irochese. Lahontan rimane nella nascente colonia per dieci anni, durante i quali impara perfettamente le lingue algonchine e condivide per lunghi periodi la vita e i costumi delle popolazioni indiane. Alla fine, per contrasti nati con il governatore, diserta e rientra in Europa. Naturalmente non può tornare in Francia (anzi, fornisce esortazioni e suggerimenti al governo inglese su come subentrare ai francesi), e pubblica in Olanda nel 1703 i Nouveaux voyages de M. le baron de La Hontan dans l’Amérique septentrionale, cronaca della sua vita canadese, seguiti dai Mémoires de l’Amérique septentrionale, osservazioni sulla geografia e sulle istituzioni delle tribù indigene, nonché da un Supplément aux Voyages, ou Dialogues curieux entre l’auteur et un sauvage de bon sens qui a voyagé, in cui esalta la vita primitiva attaccando violentemente il cristianesimo e la civiltà europea. Nei suoi scritti racconta le peregrinazioni lungo l’alto corso del Mississippi e la scoperta di altro fiume, la “rivière longue”, probabilmente il Missouri, la sua permanenza per più anni nei villaggi algonchini, gli scontri con gli inglesi e con le tribù avversarie. È un racconto vivace ed incalzante, che appassiona i lettori e divulga un’immagine nuova e diversa del selvaggio americano. Nel Supplemento, in particolare, attraverso il dialogo tra lo stesso Lahontan e un capo urone di nome Adario, viene esaltata la condizione di assoluta libertà e serenità dei popoli nativi. L’idealizzazione dello “stato naturale” è mirata soprattutto a mettere sotto accusa le complicazioni e le restrizioni comportate da una civiltà europea avvelenata dalla religione, dalle leggi e dalla proprietà privata[14]. I “selvaggi” non hanno bisogno di giudici, e quindi di prigioni, perché non conoscono la proprietà e nemmeno l’uso del denaro; non hanno bisogno di preti, perché la loro religione è semplice e la loro vita è esente dai vizi tipici degli europei; non hanno bisogno di capi, di funzionari e di burocrazie perché sono liberi e completamente padroni dei loro corpi, e non conoscono discriminazioni tra ricchi e poveri.

Alla stessa immagine perviene, partendo da esperienze e motivazioni decisamente differenti, Anthony Cooper, terzo conte di Shaftesbury, in un saggio sulle “Caratteristiche di uomini, costumi, opinioni, tempi” pubblicato nel 1711. Shaftesbury non ha mai visto un selvaggio, ma non ne fa un problema: ciò che gli preme è trovare argomenti contro la dottrina del peccato originale. Gli indiani raccontati da Lahontan e da Hennepin gliene offrono a iosa: dimostrano che lo stadio “naturale” è assolutamente positivo e che fino a quando non vengono guastati da una civiltà piena di vizi, di ingiustizie e di corruzione gli uomini sono essenzialmente buoni. In un universo che è armonico e ordinato sono necessariamente tali anche le leggi che governano la sfera morale, e il bene comune si accorda pienamente con quello individuale. Non c’è conflitto tra egoismo e altruismo, dal momento che quando l’individuo opera “scelte razionali” queste tengono conto dell’interesse comune, e il singolo persegue il bene universale mentre realizza il proprio. Shaftesbury parte dal principio che “se in una creatura o in una specie v’è qualche cosa di naturale, è ciò che contribuisce alla conservazione della specie stessa e determina il suo benessere e la sua prosperità”. Pertanto, al contrario di ciò che afferma Hobbes, l’uomo è spontaneamente incline alla società con gli altri uomini, poiché l’istinto sociale è insito nella sua stessa disposizione naturale. “Se devi cercare un modello etico”, consiglia dunque al suo lettore “cercalo nella semplicità dei modi e nel comportamento innocente che era spesso proprio dei puri selvaggi, prima che essi fossero corrotti dai nostri commerci[15]. Shaftesbury va quindi oltre la posizione libertina, che era soprattutto indirizzata ad una contrapposizione ideologica. Non rifiuta la civiltà cristiana, ma la civiltà tout court. E in questo senso va oltre non solo le posizioni di Hobbes, ma quelle dello stesso Montaigne.

Le avventure di Lahontan esercitano un enorme influsso su un’opinione pubblica che cresce con la diffusione della lettura, cosi come le idee di Shaftesbury lo hanno su tutta la filosofia settecentesca: ma questo vale più sul continente che oltremanica. In Inghilterra lo sguardo sui nativi americani rimane in verità piuttosto disincantato. Colpisce in negativo la loro povertà istituzionale e l’assenza di tecnologia. Il modello del pensiero inglese è perfettamente riassunto dal Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe. Duecento anni dopo l’isola di Utopia, protagonista è un’altra isola, nella quale però il collettivismo lascia il posto all’individualismo. I selvaggi possono essere buoni, come Venerdì, quando sono disposti a fungere in pratica da schiavi (il fatto stesso che Robinson gli imponga un nome, come fa Adamo con tutte le cose dopo la creazione, invece di chiedergli se ne ha uno, è una chiara presa di possesso), o cattivi, come i cannibali che frequentano l’isola per i loro macabri banchetti, che vanno quindi combattuti e possibilmente sterminati. L’idea di avere qualcosa da imparare da loro non passa a Robinson nemmeno per il capo.

D’altro canto, sia pure con esiti più sfumati, ma adottando comunque un angolo visuale non molto dissimile, il tema del selvaggio americano era già stato trattato da Locke nel secondo dei Due trattati sul Governo (1690). Locke va al sodo. “Mi chiedo se nelle foreste vergini o negli immensi spazi incolti dell’America, abbandonati alla natura senza alcuna bonifica, alcun dissodamento o coltivazione, un migliaio di acri forniranno ai poveri e disgraziati indigeni altrettante comodità di vita quante ne forniscono dieci acri di terra ugualmente fertile nel Devonshire, dove son ben coltivati […]” Poveri e disgraziati: altro che vita beata nella natura. Verrebbe da chiedere a chi i dieci acri fornissero le comodità di vita, stanti le condizioni in cui versavano i contadini inglesi ai primi del Settecento: ma Locke non sta a sottilizzare: “in mancanza dell’incremento apportato dal lavoro, non hanno nemmeno la centesima parte delle comodità di cui godiamo noi”. Il lavoro, la proprietà, il denaro, prima ancora che lo sviluppo delle tecnologie, che era stato uno degli argomenti a favore della superiorità occidentale nel Seicento, costituiscono per Locke il discrimine tra uno stato naturale di miseria ed uno civile di benessere. Da notare che Locke è un sostenitore dello “stato di natura”[16], e che in un altro capitolo dello stesso trattato utilizza in funzione polemica antilegittimista il tema della concordia interna ai gruppi tribali e dell’assenza di dinastie monarchiche, dal momento che i selvaggi eleggono i loro governanti[17], e conferiscono loro poteri limitati ai periodi di belligeranza: “I Re degli indiani sono poco più che generali delle loro armate. Pur avendo un comando assoluto in guerra, tuttavia negli affari interni e in tempo di pace essi esercitano un potere assai esiguo […]”. Ma se la naturale condizione umana non è per Locke la guerra di tutti contro tutti, e ogni uomo ha in sé una naturale predisposizione alla giustizia e alla pace, è solo nello stato di diritto, o stato sociale, che le regole impresse dalla natura nel suo cuore trovano la piena e concorde attuazione. Gli uomini sono stati creati per vivere in società, e non in solitudine.

In Francia e sul continente il filone letterario-filosofico del “buon selvaggio” trova un terreno più consono, ed è declinato nelle sue più diverse sfumature. Il padre gesuita Joseph François Lafitau (scopritore tra l’altro delle virtù del ginseng canadese e considerato uno dei fondatori dell’antropologia) nel 1724 pubblica Moeurs des Suavagés ameriquains, comparées au moeurs des premiers temps. In questo caso l’esperienza è maturata sul campo, con uno studio approfondito delle popolazioni irochesi, ma è fortemente mediata da una intenzione ideologica (Lafitau sostiene il monogenetismo, e di conseguenza il diffusionismo culturale). Nei riti e nelle credenze dei popoli primitivi ritrova la spiegazione dei riti e delle credenze di quelli classici, tanto da arrivare ad affermare che gli indiani americani sono i diretti discendenti dei Lacedemoni, arrivati nel nuovo continente dopo aver attraversato tutta l’Asia e superato lo stretto di Bering. Anche se non crede ad una assoluta eguaglianza degli spiriti (cosa che invece credeva Fontenelle[18]), Lafitau vede la condizione dei “selvaggi” come uno stadio significativo della storia dell’umanità (in linea peraltro con quanto afferma quasi contemporaneamente Giovan Battista Vico nei Principi di una Scienza Nuova, del 1725). Quindi uno stadio primitivo, nel quale sopravvivono però le qualità fondamentali di coraggio, schiettezza e lealtà proprie degli antichi eroi della classicità.

Ludovico Antonio Muratori, dal canto suo, propone nel 1743, con il Cristianesimo felice de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai, una storia delle riduzioni gesuitiche compilata in funzione apologetica dell’operato della Compagnia, proprio nel pieno della tempesta che porterà di lì a qualche anno alla sua soppressione. In questo caso lo “stato di natura” è per Muratori quello che rende possibile la riaffermazione della “vera chiesa”, che consente di veder riapparire “lo spirito dei primi cristiani”, nei quali “abita l’umiltà” che la cristianità europea ha dimenticato. Gli intenti possono apparire diametralmente opposti a quelli di Shaftesbury, ma il presupposto è in fondo lo stesso.

Nelle Lettere irochesi (1752) di Jean Henry Maubert de Gouvest, un ex gesuita dal dente avvelenato, l’irochese Igli è un invece un pretesto in puro stile libertino per mettere alla berlina la religione cristiana, e in generale tutte le fedi, ma anche la cultura formalistica e storicistica degli europei: a questa il “selvaggio” contrappone il suo gusto per la vita e per la natura. Lo stesso spirito informa L’ingénu di Voltaire (1767), dove si raccontano le malinconiche vicende di un indigeno americano schietto e innocente, catturato dagli inglesi, finito a vivere in Francia, convertito al cristianesimo e alle maniere civili, solo per trovarsi a constatare quanto immorale e falsa sia la società evoluta. Voltaire ha peraltro già affrontato il tema dei “selvaggi” nell’Essai sur les moeurs, dove li cita a modello, ma anche in questo caso solo per parlare male dei civilizzati[19]. (Salvo poi darne, come vedremo, un giudizio completamente opposto in un’altra occasione).

Persino Benjamin Franklin, rappresentante di una nazione che nasce sulla negazione agli indiani del diritto alla propria terra e alla propria cultura, che li ha combattuti prima e arriverà poi quasi a sterminarli, prende posizione in loro favore nei Remarks concerning the savages of North America (1784). “Selvaggi li chiamiamo noi – scrive – perché le loro maniere sono diverse dalle nostre, e noi pensiamo di aver raggiunto la perfezione della Civiltà: ma essi pensano la stessa cosa di se stessi”. Franklin rivolge questo scritto, nel quale non manca peraltro di fare le punte a certe esagerazioni e ai luoghi comuni del mito, ai coloni suoi connazionali. «Non dovete essere così sicuri che il vostro stile di vita sia l’unico modo di vivere dignitosamente. Gli indiani sono brave persone, con una forte fede. Il fatto che non sia la stessa fede che praticate voi non significa che non sia “buona”. Dovete anzi sforzarvi di essere più simili a loro, in quanto sono persone ospitali». Troverà un uditorio alquanto distratto.

In Europa invece il mito del “buon selvaggio” conosce un’ulteriore definitiva consacrazione presso il grande pubblico (anche quello femminile, che non legge le relazioni di viaggio o i pamphlets polemici) quasi a fine secolo, nel romanzo Paul et Virginie di Bernardin de Saint Pierre (1787). In realtà, qui i selvaggi c’entrano poco, dal momento che i protagonisti sono figli della cultura europea che hanno la ventura di crescere in mezzo all’oceano indiano, in un’isola che pare modellata su quella degli utopiani, dove gli abitanti vivono e lavorano in perfetta armonia, collaborazione ed eguaglianza, e che dovrebbe rappresentare le condizioni esistenti allo “stato di natura”. Ma ci sono tutti gli ingredienti per toccare i cuori ed appagare la voglia di esotismo da cartolina che una nuova forma di sensibilità va diffondendo: una storia d’amore tra adolescenti, lo sfondo di un ambiente da sogno, lontano dalle convenzioni sociali e dalla corruzione della civiltà, il tragico epilogo. Di illuministico c’è solo la formazione dell’autore: per il resto, con Paul et Virginie siamo già in atmosfera preromantica, in una concezione sentimentale della vita e spiritualistica della natura[20]. I passi successivi saranno Les Natchez di Chateaubriand (ma siamo già nel 1801), dove l’idillio scocca tra un europeo e una “selvaggia” figlia della natura, e l’Ultimo dei Mohicani, dove le parti addirittura si rovesciano.

Nel frattempo, però, continua ad essere mostrata anche l’altra faccia della medaglia, quella del “cattivo selvaggio”. Non si tratta necessariamente di rivangare la crudeltà e la brutalità che imperano allo stato primitivo, rappresentazione che anima ad esempio in Inghilterra un acceso dibattito durante la guerra dei sette anni sull’utilizzo di alleati indiani[21]. Anche senza far ricorso ai cannibali o ai sacrifici umani ci si richiama ad una valutazione realistica delle miserabili condizioni, rapportate ai parametri europei, in cui vivono le popolazioni americane: sono condizioni che non sembrano lasciare alcuno spazio a quelle prospettive di costante miglioramento che l’illuminismo pone a significato ultimo dell’uomo.

Il giovane ecclesiastico olandese Cornelius de Pauw pubblica nel 1768 le Recherches philosophiques sur les Américains, un poderoso studio sulla natura delle Americhe e sui loro abitanti. De Pauw ribalta completamente la prospettiva. Sottolinea il ritardo economico, tecnologico e culturale dei selvaggi, e lo spiega da un lato con la natura troppo rigogliosa del continente, che consente di sopravvivere senza impegnarsi molto, dall’altro con la “pusillanimità innata” dei suoi abitanti, la “constitution de la vie sauvage”. In sostanza, la fortuna di un popolo è vivere su una terra che non dia nulla senza la contropartita di uno sforzo, perché induce a produrre più del necessario. Questo è verificabile peraltro anche nei comportamenti dei conquistatori europei: i coloni inglesi stanno “risanando” l’ambiente naturale americano con il loro lavoro, e stanno cercando di trasmettere il loro spirito operoso anche agli aborigeni, mentre quelli spagnoli e portoghesi si sono lasciati ammorbare dall’ambiente e contagiare dalla pigrizia degli indigeni. Come spesso accade, le posizioni più conservatrici o reazionarie si rivelano poi le più lungimiranti. Du Pauw ignora volutamente tutta la letteratura “positiva” delle relazioni gesuitiche e dei pamphlets libertini, ma preconizza un futuro radioso per l’America, sia sul piano economico che su quello culturale, anche se lo pospone di almeno tre secoli (forse per dare il tempo agli aborigeni di estinguersi e agli inglesi di dissodare)[22]. Se si prescinde delle tesi razziste, il suo è in realtà un ritratto dell’America alla metà del Settecento molto più veridico di quelli che circolano nel milieu libertino: ed è anche rimarcabile il fatto che in conclusione l’autore si auguri che non si ripeta in altri continenti quello che è accaduto nel nuovo, dove gli Europei hanno fatto una strage orrenda degli abitanti originari: se non sappiamo far altro che peggiorare la loro situazione, scrive De Pauw, lasciamoli almeno vivere in pace nella loro miseria[23]. Che è già qualcosa di meglio della pretesa di “civilizzarli”, e di più realistico di quella di farne dei modelli.

Uno schivo e misconosciuto frequentatore del gruppo degli enciclopedisti, Nicolas Antoine Boulanger, fa piazza pulita di tutta la mitologia sull’Eden primordiale ne L’Antiquité dévoilée par ses usages, pubblicata nel 1766. Boulanger è un pensatore fuori dal coro, particolarmente ecclettico, precursore di Wittfoghel ma anche di Alfred Wegener, lo scopritore della deriva dei continenti. Parte dall’analisi delle religioni, dei riti e dei miti antichi, ripercorre le fasi dell’imporsi di un dispotismo teocratico originario, fondato sulla paura e sulla debolezza della ragione, e disegna un percorso evolutivo dell’uomo sociale. L’intento è quello di arrivare a smascherare ogni forma di dispotismo politico, che a suo parere altro non è che una teocrazia laica, nella quale le ritualità religiose sono semplicemente sostituite da un cerimoniale politico altrettanto artificioso. Il cammino verso la libertà, intrapreso solo dall’uomo occidentale, perché gli orientali continuano ad essere sottomessi a dispotismi di vario genere, è insieme un percorso sociale e individuale di liberazione dalla natura originaria, tutt’altro che innocente e fiera, di progressiva emancipazione dalle paure e dalla superstizione.

Boulanger non costituisce un’anomalia: testimonia il fatto che nell’ambiente illuminista la naturale bontà dei “selvaggi” e le meraviglie dello stato di natura non sono dei dogmi, ma piuttosto dei pretesti per il dibattito sui modi e sugli esiti del processo di “civilizzazione”. Anche i maggiori esponenti del movimento, primo tra tutti Voltaire, nutrono più di un dubbio. D’Holbach stesso (che peraltro è l’editore delle opere di Boulanger) riporta raccapriccianti episodi delle guerre indiane riferitigli dal barone di Dieskau (quello rappresentato in celebre quadro di Benjamin West mentre sta per essere scalpato da un irochese e viene salvato in extremis dal generale Johnson). Tanto il quadro che il racconto sottolineano il contrasto tra il senso dell’onore e il rispetto dell’avversario degli europei e la vile ferocia dei selvaggi (il barone Dieskau è ferito e indifeso)[24].

La fase americana della guerra dei Sette Anni, combattuta al di fuori di ogni regola militare e di ogni convenzione morale, smorza alquanto gli entusiasmi dei fautori dello stato di natura. Nel frattempo, però, si apre un orizzonte alternativo. Vengono pubblicate in rapida successione le relazioni sui viaggi d’esplorazione nelle terre australi di Byron, di Wallis, di Carteret, di Bougainville e di James Cook, tutti compiuti nel volgere di una manciata di anni, che rivelano l’esistenza di una cultura edenica conservatasi intatta, lontano dalla civiltà e dalla cristianizzazione[25]. Lo specchio nel quale riflettersi non sono più gli indiani americani, ma gli indigeni polinesiani.

I “selvaggi” dei Mari del Sud non sono feroci come gli irochesi né apatici come gli indios sudamericani. Sono allegri, spontanei, ospitali. Non conducono una vita stentata e miserabile[26]. Al momento di ripartire, dopo aver scoperto Tahiti e avervi soggiornato per qualche tempo, Wallis non riesce a trattenere la commozione[27]. Sin dal primo impatto Bougainville è affascinato dalla loro fisicità, gli uomini robusti e tatuati, le donne aggraziate e sensuali: “Le piroghe erano piene di donne che, per l’aspetto gradevole non apparivano di certo inferiori alla maggior parte delle europee, e con queste avrebbero potuto gareggiare con vantaggio”. Il paesaggio stesso suggerisce dolcezza, facilità e felicità del vivere: “Io stesso ho passeggiato diverse volte all’interno dell’isola. Mi credevo trasportato nei giardini dell’Eden[28]”. Ma mentre passeggia nell’Eden lo sta già profanando. Nel corso della prima spedizione Cook scrive nel suo diario: “Stiamo corrompendo la loro integrità morale, già di per sé portata al vizio, e diffondiamo tra loro bisogni e forse anche malanni prima sconosciuti per loro e che servono solo a turbare la tranquilla felicità di cui essi e i loro progenitori hanno sinora goduto”. È trascorso solo un anno dalla partenza di Bougainville.

Il tema del degrado della condizione indigena, della corruzione degli animi e dei costumi indotta dal contatto con gli europei, ricorre nei resoconti di tutti i viaggiatori dell’ultima parte del Settecento e di tutto il secolo successivo. Lo ritroviamo in Georg Forster, che partecipa alla seconda spedizione di Cook, e poi in Humboldt, in Darwin e in Wallace. Costituirà in effetti il leit-motiv di tutta la letteratura etnografica otto-novecentesca, fino a Levi-Strauss e oltre. Riflessioni di questo genere non erano certo mancate anche nei secoli precedenti, rispetto alle civiltà e alle culture americane: ma sono decisamente rafforzate dall’incontro con le popolazioni dei mari del Sud. I motivi, come abbiamo visto, sono essenzialmente due: da un lato la situazione incontrata dai primissimi scopritori, che presenta davvero tutti i requisiti per far pensare all’Eden[29], dall’altro la rapidità con la quale questa situazione si degrada. Tra il racconto di Bougainville e quello di Forster intercorrono dieci anni, e dalla meraviglia si è già passati al rimpianto[30]. È ora di iniziare a tirare qualche somma.

Guillaume Raynal, altro gesuita tornato allo stato laicale, pubblica nel 1770 l’Histoire philosophique et politique des établissements des Européens dans les deux Indes. Nel decennio successivo ne verranno edite altre due successive versioni, ampliate fino a raddoppiarne l’estensione e a conferirle un respiro immenso. Alla fine l’opera viene a costituire quella che può essere considerata la prima storia della globalizzazione, ripercorsa ed interpretata da ogni angolo visuale e con uno sguardo che pone problemi ancora oggi di stretta attualità. L’Hisoire costituisce in effetti il pendant storico dell’Encyclopédie: non a caso dietro ad entrambe c’è il genio di Denis Diderot, non soltanto ispiratore ma materiale estensore e responsabile delle parti più significative. Non si tratta solo della redazione di un bilancio: l’opera è un vero, appassionato manifesto di denuncia di un modello di civilizzazione ferocemente imperialista, che ha esportato in tutto il mondo il dispotismo, le diseguaglianze sociali, l’assenza di libertà e i costumi corrotti tipici della società europea.

Diderot ha una sua particolare posizione sullo “stato di natura”. Pur essendo un apostolo della scienza e più ancora delle sue applicazioni pratiche, delle tecnologie, nelle quali vede lo strumento per un continuo progresso, nel Supplément au voyage de Bougainville, pubblicato nel 1772, sembra non sottrarsi al mito del buon selvaggio. “Noi siamo innocenti, noi siamo felici; e tu non puoi che nuocere alla nostra felicità. Noi seguiamo il puro istinto della natura; e tu hai cercato di cancellarne il carattere dalle nostre anime. Qui tutto appartiene ad ognuno; e tu ci hai insegnato non so quale distinzione tra il tuo e il mio. Noi siamo liberi; ed ecco che tu hai sotterrato nella nostra terra il simbolo della nostra schiavitù futura”. Chi parla in questo modo è un vecchio tahitiano, che descrive a Bougainville gli effetti prodotti tra la sua gente dall’arrivo degli Europei.

Il vecchio risponde a distanza di ottant’anni ai giudizi di Locke: “Noi possediamo tutto ciò che ci è necessario, tutto ciò che è bene per noi. Siamo forse degni di disprezzo per non aver saputo crearci bisogni superflui? Quando abbiamo fame, noi abbiamo di che sfamarci; quando abbiamo freddo, noi abbiamo di che vestirci […] Ricerca fin dove vuoi quelle che tu chiami comodità della vita; ma consenti a esseri forniti di buon senso di arrestarsi quando essi potranno ottenere soltanto, dalla continuazione dei loro sforzi penosi, dei beni immaginari”. La risposta in verità vale anche per il Bougainville reale, che a giustificazione della partenza per il suo giro attorno al mondo aveva scritto: “Si troverà nei mari del sud una sorgente inesauribile di esportazione per i prodotti francesi, a vantaggio delle popolazioni immense che li abitano e che, nell’ignoranza in cui vivono, apprezzeranno infinitamente ciò che la nostra cultura ha reso così comune e ha ridotto da noi a così vil prezzo. Di lì trarremo i beni che la natura offre laggiù[31].

Il portavoce di Diderot mette persino in questione la superiorità razionale degli europei: “Lasciaci i nostri costumi; essi sono più saggi e più onesti dei tuoi: non vogliamo scambiare ciò che tu definisci la nostra ignoranza con i tuoi lumi inutili”. La conclusione è perfettamente in linea con quelle di Lahontan e di Shaftesbury, e in parte, come vedremo, anche con quelle di Rousseau: “Esisteva un tempo un uomo naturale; all’interno di quest’uomo si è introdotto un uomo artificiale, e nella caverna si è accesa una guerra continua che dura per tutta la vita. Talvolta l’uomo naturale è piú forte, talvolta è invece sconfitto dall’uomo morale e artificiale. […]

Ma allora, si deve civilizzare l’uomo, oppure abbandonarlo al suo istinto? Se si deve rispondere francamente, dirò che dovete civilizzarlo, se avete intenzione di diventarne il tiranno: avvelenatelo quanto piú potete di una morale contraria alla natura; frapponetegli ostacoli di ogni specie; impedite i suoi movimenti in mille modi; ispirategli fantasmi che lo spaventino; perpetuate la guerra nella caverna, di modo che l’uomo naturale sia sempre incatenato ai piedi dell’uomo artificiale. Se invece lo volete felice e libero, non intervenite nelle sue faccende: già troppi incidenti imprevisti lo condurranno alla luce e alla disperazione; e restate pur sempre convinti che non è a vostro profitto, ma per proprio vantaggio, che alcuni saggi legislatori vi hanno costruiti e conformati così come siete”.

Mezzo secolo dopo sembra di sentir ripetere il discorso di Adario a Lahontan. Ma non è la stessa cosa. In mezzo ci sono una militanza illuminista eclettica e perennemente curiosa, fatta di profonde e sincere amicizie e di rispetto intellettuale per le opinioni altrui, i rapporti con il sensismo materialistico di Condillac e D’Holbach, la conoscenza del pensiero di Shaftesbury, del quale Diderot ha tradotto le opere principali e adottate le idee di tolleranza: c’è, soprattutto, una rara capacità di mettere in discussione i propri convincimenti, di fronte alle realtà e alle situazioni che le nuove conoscenze fanno intravvedere. Diderot non pensa affatto che l’uomo debba abbandonarsi ai suoi istinti o lasciarsi determinare dalle forze naturali. La libertà dell’individuo sta per lui proprio nella capacità di dominare gli uni e le altre, o quantomeno di sottrarsi al loro condizionamento, e quindi alla superstizione e ai pregiudizi, attraverso la conoscenza tanto dei fenomeni naturali che della storia umana. È ben lontano dall’idea di uno stato naturale edenico. Ma ci sono degli aspetti del racconto di Bougainville che lo hanno profondamente colpito. Il primo è la sensualità spontanea e innocente dei tahitiani (“La ragazza lasciò cadere negligentemente una stoffa che la copriva e apparve agli occhi di tutti nello stesso modo in cui Venere apparve al pastore frigio”, scriveva Bougainville), che al contatto con gli europei si è degrada immediatamente a lussuria. Diderot fa dire al vecchio: “Le nostre figlie e le nostre donne sono comuni; tu hai condiviso con noi questo privilegio, e hai acceso in esse furori sconosciuti. Esse sono diventate folli nelle tue braccia, e tu sei diventato feroce tra le loro. Esse hanno cominciato a odiarsi; voi vi siete battuti per esse, e ci sono ritornate macchiate del vostro sangue”. La prima lotta per la liberazione dalle paure e dai tabù concerne per Diderot proprio la sfera del corpo (coerentemente col suo sensismo): conoscerlo e viverlo appieno significa riprenderne possesso, dopo l’espropriazione operata per tanti secoli tanto dalla chiesa quanto dai poteri civili.

Il secondo aspetto concerne i rapporti sociali e il loro legame con il regime economico, l’assenza di sperequazioni tra ricchi e poveri. Bougainville aveva scritto: “È probabile che i tahitiani pratichino fra loro una lealtà che non conosce incrinature. Siano essi in casa o no, giorno o notte, le case sono aperte. Ciascuno coglie i frutti nel primo albero che incontra, o ne prende nella casa in cui entra. Parrebbe che, per le cose assolutamente necessarie alla vita, non esista il diritto di proprietà, e tutto appartenga a tutti”. E infatti il vecchio accusa: “Qui tutto appartiene ad ognuno; e tu ci hai insegnato non so quale distinzione tra il tuo e il mio”. Il paradiso perduto, insomma, non è tanto quello esotico dei mari del Sud, ma quello domestico di un’Europa dove la “civilizzazione” ha coinciso con un progressivo asservimento: “Richiamiamoci a tutte le istituzioni politiche, civili e religiose: esaminatele profondamente – e, se non mi inganno, vi vedrete la specie umana piegata di secolo in secolo sotto il giogo che un ristretto numero di imbroglioni si proponeva di imporle. Diffidate di colui che vuol mettere ordine”.

Di questo asservimento mascherato dai vuoti rituali politici e religiosi e dall’ipocrisia delle buone maniere, messo ora a nudo attraverso la brutalità con la quale si è espanso a tutto il globo, l’Histoire di Raynal e Diderot offre una radiografia cruda e indignata. È una lettura delle forme del potere e del nascente imperialismo che lascerà il segno, anche se a prevalere nell’immediato parrà piuttosto la lezione di Rousseau.

Paradossalmente, tra i pensatori illuministi Rousseau è quello meno vicino al mito del buon selvaggio. Mentre il modello giusnaturalista dava dello stato di natura un’interpretazione “realistica”, collocandolo in un periodo storico o in uno stadio particolare del processo di incivilimento, Rousseau lo assume invece come categoria teorica[32]. Con lui lo “stato di natura” diventa in maniera esplicita un criterio di giudizio per sviluppare la critica del presente e condannare le ingiustizie e le disuguaglianze indotte dalla civiltà. Pur essendo un avido lettore di resoconti di viaggio non è particolarmente entusiasta dei costumi delle popolazioni amerindiane (e nemmeno appare commosso dal loro sciagurato destino)[33]. I dati etnografici gli servono soltanto a elaborare il paradigma di una ideale “sauvagerie”. Il selvaggio da lui ipotizzato non è né buono né cattivo, vive in una sorta di limbo di innocenza. Nel Discorso sulle scienze dice: “I selvaggi non sono precisamente cattivi, per-ché non sanno cosa sia essere buoni; poiché non è l’accrescimento dei lumi né il freno della legge, ma la calma delle passioni e l’ignoranza del vizio che impedisce loro di fare il male”. Adeguando esattamente i loro bisogni alle risorse di cui dispongono non necessitano di sviluppare le arti e le tecniche o di creare istituzioni sociali. Allo stadio naturale l’uomo torna ad apparire a Rousseau come un essere “senza”, senza occupazione, senza linguaggio, senza domicilio, senza guerra e senza legami[34]. È evidente che non sta pensando agli Uroni o agli indios amazzonici, ed anche che non auspica un ritorno allo stato “selvatico”.

L’“uomo naturale” possiede in potenza due strumenti fondamentali per uscire da questo torpore: il libero arbitrio e la capacità di perfezionarsi. Stimolato da fattori esterni, ambientali, l’uomo ha utilizzato questi strumenti, ma in maniera sbagliata: ha iniziato a costruirsi una famiglia, ha inventato la metallurgia e l’agricoltura, le quali a loro volta hanno indotto il senso della proprietà e le disuguaglianze, e di conseguenza lo Stato, per difenderle e perpetuarle. L’uscita dallo stato primitivo ha coinciso quindi con il passaggio dall’uguaglianza primitiva alla disuguaglianza propria della società progredita: in questo senso la storia non è che una “deviazione”. Per certi versi l’uomo civile è superiore all’uomo primitivo: ma si tratta di recuperare la bontà e la felicità che furono propri di quest’ultimo, e lo si può fare solo con una diversa educazione, che lo lasci liberamente sviluppare secondo natura.

I buoni selvaggi sono quindi per Rousseau piuttosto i montanari svizzeri (peraltro già portati ad esempio anche da Locke) che gli americani. La prossimità alla natura consiste per lui nella fedeltà a una vita semplice e operosa, rispettosa delle antiche tradizioni di libertà: quella in definitiva che può essere riscontrata, senza tanti esotismi, nella repubblica ginevrina. Non sono tanto i modi della vita, quanto i sentimenti naturali, la contrapposizione ai costumi corrotti degli stati assolutistici, a determinare il grado di libertà.

L’incontro settecentesco con la diversità non riguarda però solo i “selvaggi”. Sono “diverse” anche quelle culture con le quali esiste un’antica consuetudine, ma che vengono ora riscoperte sull’onda di un espansionismo economico (e presto politico e militare) che ingenera necessariamente anche una curiosità culturale. L’immagine dell’Oriente era rimasta per secoli quella trasmessa da Marco Polo e dagli altri viaggiatori nel XIII e XIV secolo, mediata prima dai rapporti con Bisanzio e poi da quelli intrattenuti soprattutto da Venezia con il mondo ottomano, e per suo tramite con la cultura arabo-mussulmana: una mescolanza di mistero, di favola, di crudeltà e di vita intensa dei sensi. Ancora agli inizi del Seicento la letteratura (si pensi al Tasso o a Marino) insiste su questa immagine fortemente sensuale, ripresa e rafforzata negli scritti degli esploratori e dei viaggiatori, che sottolineano sempre gli aspetti “scandalosi” o semplicemente disinvolti della sessualità nelle popolazioni extra-europee: l’idea dei mondi nuovi come luoghi della libidine e dell’eros si riverbera anche su quelli antichi.

La penetrazione dei portoghesi prima e di olandesi, britannici e francesi poi nell’estremo oriente fa conoscere però anche altre realtà: e sono soprattutto i missionari gesuiti affluiti in Cina e in India a strappare il sipario del favoloso e a raccontare agli stupefatti occidentali di società ordinate, laboriose e civili quanto e forse più quella europea. Verso la fine del XVII secolo le relazioni di Matteo Ricci e dei suoi confratelli, le opere di Athanasius Kirkner, insieme all’importazione delle sete, delle ceramiche e del segreto della porcellana, creano una vera e propria mania per le cineserie, ma anche una forte curiosità intellettuale per i costumi di un popolo che sembra aver elaborato leggi perfette, che utilizza amministratori reclutati per concorso ed ha elaborato un sapere filosofico di altissimo livello. La Cina influenza per quasi un secolo il gusto europeo non solo in ambito letterario (Il mandarino meraviglioso di Carlo Gozzi), ma nell’architettura, nell’arredo, nella costruzione dei giardini, sposandosi felicemente con il rococò. Dopo la metà del Settecento, invece, in concomitanza con il tentativo di colonizzazione francese dell’India e la guerra anglo francese che ne consegue, l’interesse si sposta e la sinomania lascia il posto allo studio dei costumi e della religione indiana, aprendo tra l’altro un nuovo fondamentale capitolo negli studi linguistici.

Anche l’oriente arabo conosce un forte ritorno di interesse a partire dai primi anni del sec. XVIII, ma in una direzione diversa. L’edizione francese de Le mille e una notte, del 1704, nella traduzione di Antoine Galland, avvalora l’immagine di luoghi magici e favolosi e incontra un’enorme fortuna tanto in Francia quanto in Inghilterra, dando l’avvio alla moda letteraria del racconto o della fiaba ambientati in un Oriente che è tutto una caverna di Aladino. Gli stereotipi di questa forma di esotismo sono quelli perfettamente riassunti nel Vathek (1786) di William Beckford (autore anche di pregevoli libri di viaggio), dove la magia, e addirittura il demoniaco, si mescolano con l’erotismo, la violenza, la crudeltà, i saperi misteriosi e ogni altro ingrediente capace di solleticare i sensi e la fantasia, piuttosto che la razionalità. Ma la speziatura orientale viene utilizzata, con finalità diverse, anche in altri contesti: per aggiungere sapore al racconto galante (il Sophà di Crébillon fils) o per travestire sotto spoglie esotiche la critica dei costumi e della società occidentali.

Un’utilizzazione satirica dell’esotismo era già stata fatta da Montaigne, che aveva raccontato gli stupori e le perplessità di due cannibali capitati a Rouen. Alla fine del Seicento Giovanni Paolo Marana ne “L’esploratore turco nelle corti dei principi cristiani” (che i francesi traducono “L’espion turc”) fa giudicare gli Europei da un preteso viaggiatore orientale e lancia un nuovo modo di far satira, che di lì a poco conoscerà il suo capolavoro con le Lettres Persanes (1721) di Montesquieu.

Nell’opera di Montesquieu le Lettres stanno a L’Esprit des Lois come in quello di Diderot il Supplément sta all’Histoire. Sono una dichiarazione d’intenti, alla quale seguirà lo studio approfondito dei costumi civili e politici. Montesquieu non può essere iscritto tra i fautori dello stato di natura, anche se nell’opera maggiore indica le società primitive come modelli di virtù e di saggezza[35]. Le culture cui fa riferimento in questo caso sono piuttosto quelle remote nel tempo che quelle lontane geograficamente e, come avviene per Rousseau, la società che lo interessa non è quella naturale, ma quella civile. Non rifiuta lo Stato, ma vuole che sia legittimato dall’equilibrio dei poteri: e non sono certo gli uroni o gli irochesi a potergli fornire dei modelli convincenti. Nemmeno i persiani, a dire il vero: ma questi perlomeno gli offrono lo spunto per criticare le manie, i pregiudizi e gli abusi della civiltà moderna da un pulpito reso credibile da millenni di storia. I suoi due orientali non sono né naturali né ingenui, ma hanno quello sguardo lucido e disincantato che consente di cogliere da “fuori” tutto ciò che risulta oggettivamente ridicolo e assurdo.

I persiani non sono lì per caso. Nel corso della seconda metà del XVII secolo diversi francesi, tra cui Jean Baptiste Tavernier e Jean Chardin, soggiornano a lungo in Persia, attratti soprattutto dal commercio delle pietre preziose, tanto ricercate dalla corte del re sole. Da Versailles vengono inviate anche ambascerie ufficiali, e sono ricambiate. Gli usi e i costumi del paese vengono conosciuti con ricchezza di dettagli, naturalmente anche con qualche esagerazione, e suscitano una impressione positiva, che verrà rafforzata dopo la pubblicazione de Le mille e una notte. La moda persiana è però destinata a tramontare presto. Ad un certo punto, nel secolo successivo, l’influenza francese sulla corte persiana diverrà fastidiosa per la Compagnia inglese delle Indie Orientali, che si mobiliterà per subentrare. I francesi si ritireranno in buon ordine, ma solo per lasciare spazio al nuovo competitore che si affaccia nello scacchiere dell’Asia centrale: la Russia.

 

Schiavitù, diversità, razza

L’attenzione a modelli di civiltà e di cultura diversa, l’assunzione ad esemplarità di uno stato naturale edenico o l’ipotesi di un possibile progresso culturale coinvolgono i popoli asiatici e gli indigeni americani o polinesiani, ma non i neri africani.

Il parametro del giudizio rimane nei viaggiatori del Sei e del Settecento la prossimità al modello bianco. Bougaiville, dopo aver decantato le delizie della “Nuova Citera” e le virtù dei suoi abitanti arrischia il complimento più grande: “Nulla distingue i loro tratti da quelli degli Europei; e se fossero vestiti, se vivessero meno all’aria aperta e in pieno sole, sarebbero bianchi come noi”. Più avanti conclude: “Per il resto abbiamo osservato, nel corso di questo viaggio, che in generale gli uomini con la pelle nera sono molto più cattivi di coloro il cui colore è vicino al bianco”.

Dumont d’Urville descrive così gli abitanti della nuova Zelanda: “I Maori sono di un colore bruno, un po’ più scuro di quello degli spagnoli. Sono molto alti: i loro lineamenti sono generalmente regolari e piacevoli a vedersi. L’influenza del clima più freddo avvicina la loro fisionomia a quella degli europei; il naso aquilino, lo sguardo pensieroso, la fronte rugosa, manifestano un carattere più virile, dalle passioni più durature, una attività più perseverante. […] I Manga-Manga sono invece più piccoli e più robusti; il loro colore è assai scuro; hanno capelli e barba assai crespi e occhi piccoli… i lineamenti del viso poco espressivi”. Lo stesso vale per gli abitanti delle Fiji: “Il colore della loro pelle è poco scuro, soprattutto tra i capi, e questo fatto dà a molti di loro una somiglianza ancor più marcata con gli europei delle contrade meridionali. Ci sono anche individui che alla taglia più bella, al portamento più nobile, alle forme più perfette uniscono i tratti più delicati e un colore quasi bianco o semplicemente abbronzato”.

Quando si vuole sottolineare in positivo l’umanità e la possibilità di integrazione degli indigeni si ricorre alle sfumature: “Sono di alta statura, ben fatti e proporzionati…il loro colore è bronzino, ma piuttosto chiaro” (John Byron)” oppure si abbinano i caratteri fisici all’industriosità e alle capacità tecniche: “Questi indiani sono di color bronzino […] hanno dei bei e lunghi capelli neri […] i loro lineamenti sono di mediocre statura, ma straordinariamente agili, vigorosi e attivi” che si accompagna a “le loro piroghe sono ben lavorate e con molta destrezza” (Carteret).

Il colore bronzino, possibilmente tendente al chiaro, sembra costituire per gli scopritori dei paradisi del Pacifico il limite ultimo tollerabile nella scala cromatica dell’umanità. Oltre c’è il nero, o il tendente al nero, c’è la diversità assoluta, anziché la differenza. Un’istintiva antipatia e contrapposizione verso tutto ciò che è scuro ha da sempre caratterizzato la cultura e il gusto occidentale, portando ad associare simbolicamente il bianco con ciò che è puro e buono e il nero con ciò che è malvagio ed ha a che fare con la morte o con le tenebre. Ma in questo caso all’istinto[36] si sovrappone un convincimento culturale di recentemente acquisito. Questi viaggiatori, e gli scienziati e i filosofi che ne leggono e ne commentano le relazioni, sono figli di Linneo e del nuovo atteggiamento “scientifico”: hanno indossato gli occhiali di un pregiudizio che non è più fondato su contrapposizioni religiose o etniche, ma su una sistematizzazione delle conoscenze in termini di “razionalità” e “scientificità”. Magari senza averne alcuna coscienza, sono portatori di un germe che si svilupperà proprio in seno alla cultura illuministica della tolleranza etnica e religiosa e dell’universalismo. Il razzismo è dunque un virus nuovo, generato, coltivato e diffuso proprio dalla “modernità”.

Il concetto delle differenze razziali basate sulla ereditarietà e sulla biologia si sviluppò soltanto tra popoli che da secoli si erano liberati del servaggio e della schiavitù, ma che mantenevano essi stessi degli schiavi. È importante notare che, fino a quando il commercio degli schiavi fu considerato cosa lecita e nessuna voce si alzò contro di esso, gli schiavi, per quanto trattati come bestie, furono sempre ritenuti esseri umani, sotto ogni aspetto, salvo quello dello status sociale” (Montagu).

In effetti, prima del diffondersi della tratta africana la civiltà occidentale non ha mai postulato nessi di fondo tra schiavitù e diversità etnica. È vero che già Aristotele, nella Politica, giustificava l’esistenza della schiavitù affermando che “[…] per natura, alcuni esseri comandano, altri obbediscono, ai fini della reciproca sicurezza […]” e che “[…] colui che è abile soltanto ad eseguire con la fatica del corpo è inferiore, e naturalmente schiavo”: ma le sue argomentazioni non fanno riferimento a caratteri biologici specifici, quanto piuttosto ad una attitudine spirituale, che non ha legami di sorta con i tratti morfologici. È solo il concetto della “superiorità” culturale diffuso nel mondo greco, portato alle estreme conseguenze attraverso la razionalizzazione. Da quel mondo arriva piuttosto, per voce del suo più famoso viaggiatore, la testimonianza di un criterio estetico non etnocentrico che farà difetto ai moderni. Parlando degli Etiopi Erodoto infatti dice: “Vi si trovano gli uomini più alti, più belli e più longevi”. Un atteggiamento altrettanto aperto, e più moderno ancora, troviamo nella cultura romana. Nel De Legibus Cicerone afferma che “gli uomini, diversi quanto a sapere, sono però tutti uguali nella loro attitudine al sapere: non c’è nessuna razza (genus) che guidata dalla ragione non possa raggiungere la virtù[37]. Ha qualche dubbio, in verità, nei confronti degli ebrei, ma il dato di fondo è l’assenza di qualsiasi discriminazione pregiudiziale. Certo, possiamo trovare altrettanti riscontri di un atteggiamento opposto, in Plinio il Vecchio[38], ad esempio, in Pomponio Mela, in Strabone e in Tacito[39], ma anche questi autori non arrivano mai a mettere in discussione l’unicità di quel genus.

Le cose non cambiano in epoca cristiana. San Paolo sancisce l’unità di tutti i popoli in Cristo[40]. È vero che Agostino, prendendo spunto proprio da Plinio, si pone il problema di una comune discendenza di tutti i popoli della Terra da un solo progenitore, soprattutto di quelli “mostruosi che abitano i confini del mondo”; ma lo risolve con una professione di fede monogenetica[41] e soprattutto, quantunque “africano bianco”, non accenna minimamente ad un problema specifico posto dalla “negritudine”.

La presunzione di una superiorità “latina” e poi “cristiana” rimane certamente viva, e si accentua, in età medioevale: si alimenta però sempre di contrapposizioni culturali o religiose (è il caso degli ebrei) e sottolinea le differenze etniche soltanto in funzione di queste ultime. Si arriva al più a dare credito alle favole su esseri intermedi, su uomini con la coda ed altre straordinarie ibridazioni, confinando comunque queste presenze ai limiti del mondo, in una dimensione che non comporta problemi di valutazione biologica.

Non solo. Nel Medio Evo si può addirittura rintracciare un certo apprezzamento per i “mori”, al contrario di quanto avviene nei confronti degli ebrei. Un primo motivo è verosimilmente legato al fatto che i neri sono comunque lontani, non costituiscono una presenza tangibile e inquietante, mentre gli ebrei sono presenti e pongono quotidianamente con la loro presenza il problema della diversità. Ma esistono anche altre ragioni plausibili. L’ultima delle svariate localizzazioni del mito del prete Gianni, ad esempio, colloca in Africa, nella regione etiope, il favoloso regno dal quale dovrà arrivare soccorso contro gli islamici. E probabilmente si lega a questo mito la comparsa di un nero tra i magi rappresentati nelle Natività. Una condizione di parità sembra vigere persino nel repertorio dei santi, che vede un san Maurizio bianco nelle prime versioni e poi improvvisamente e definitivamente nero, e un san Gregorio il Moro venerato addirittura in Germania. Non viene neppure negata l’appartenenza alla nobiltà ai mulatti generati da nobili con schiave nere e riconosciuti dal genitore (è il caso di Alessandro “il Moro”, della famiglia dei Medici), o a ex schiavi nordafricani adottati da famiglie nobiliari (Leone Africano, anch’egli accolto nella grande famiglia medicea). Solo nella penisola iberica la presenza islamica e il suo retaggio portano precocemente all’associazione tra pelle nera e schiavitù; ciò che spiega peraltro la naturalezza e la disinvoltura con la quale i portoghesi sin dai primi impatti con l’Africa subsahariana hanno dato avvio alla tratta.

Delineare il percorso che dai primi approdi portoghesi nel golfo di Guinea conduce al razzismo “scientifico” del secondo Ottocento è tutt’altro che semplice, soprattutto in un lavoro di sintesi. È sufficiente ad esempio dare un’occhiata alla sterminata produzione storiografica sul razzismo per rendersi conto che la scelta stessa di retrodatare o di posticipare l’apparizione di sintomi evidenti del fenomeno, o di restringere o allargare i criteri per una sua definizione, ne modifica radicalmente la chiave di lettura. Ho scelto pertanto, per praticità e chiarezza, di distinguere nei limiti del possibile e trattare in successione le due angolazioni dalle quali il tema può essere affrontato, quella dello schiavismo moderno e della sua giustificazione e quella conseguente e parallela del razzismo. In parte queste tematiche sono già state sviluppate, almeno per quanto concerne i risvolti pratici, parlando della tratta. In quanto aspetti di uno stesso fenomeno naturalmente si fondono e si incrociano, ma a partire da un certo punto percorrono anche vie autonome. Lo dimostra il fatto stesso che la cessazione della tratta non ha implicato automaticamente la fine dello schiavismo, e che l’abolizione di quest’ultimo non ha affatto coinciso con una ritirata del razzismo (semmai, è avvenuto il contrario).

Stante quello che si è a più riprese affermato nelle pagine precedenti, e cioè che la xenofobia e l’etnocentrismo hanno caratterizzato da sempre, in ogni tempo e cultura, la storia dell’umanità, ma né nell’antichità né nel medioevo e né in Europa né in Oriente hanno mai assunto una vera connotazione “razziale”, resta da capire da quando può essere significativamente documentata la comparsa di quest’ultima tendenza. Credo che la metà del XV secolo possa rappresentare un plausibile spartiacque, per la concomitanza di una serie di eventi che a vario titolo risultano connessi alla nostra direzione d’indagine. Intanto, la caduta di Costantinopoli cambia la percezione della presenza ottomana e del pericolo che rappresenta per l’intera Europa, inducendo la ricerca di rotte commerciali alternative (e quindi aprendo l’epoca delle grandi scoperte geografiche) ma anche una contrapposizione frontale che si alimenta di reciproche demonizzazioni.

Dal lato opposto del Mediterraneo, la “normalizzazione” e la sete di rivincita che seguono la cacciata definitiva degli Arabi dalla Spagna portano ad elaborare, proprio a partire dalla metà del secolo, gli statuti della purezza del sangue (limpieza de sangre). Gli statuti in realtà non fanno che tradurre in uno strumento giuridico codificato dei provvedimenti e un modo di sentire diffuso che erano nati già dieci secoli prima, rivolti specificamente contro gli Ebrei[42]. Ora però tali provvedimenti vengono allargati ai moriscos. Si tratta di una discriminazione su base religiosa, almeno negli intenti: ma diventa invece, visto il clima di sospetto che continuerà a gravare sui conversos, ebrei o arabi che siano, lo strumento per indurre una concezione “ereditaria” della differenza. Per esseri che portano dentro il gene del male non c’è conversione che tenga. Pertanto, una volta “ripulita” la penisola iberica, tutte le immagini negative associate nei secoli precedenti ai moriscos e agli ebrei, soprattutto ai neoconvertiti, verranno in automatico proiettate sugli indigeni americani e sugli schiavi africani.

Negli stessi anni in cui vengono emanati i primi statuti fa la sua comparsa la tratta, e a suo supporto prende avvio il processo di de-umanizzazione dei neri. Gomes Eanes de Zurara sostiene, nella seconda metà del XV secolo, che “i neri sono i discendenti di Cam, la cui razza era destinata a restar sottomessa a tutte le razze del mondo, come afferma Giuseppe nelle ‘Antichità Ebraiche’ […]” Sta facendo appello ad una argomentazione che discendente da una lettura impropria della Bibbia, e che fatta propria dalla cultura islamica è divenuta presto funzionale alla pratica schiavistica diffusa nel mondo arabo: gli abitanti dell’Africana sub-sahariana sono appunto considerati dai musulmani i discendenti di Cam, maledetti e condannati alla schiavitù perpetua.

Sembra non mancare nulla: statuti di purezza del sangue, giustificazione della schiavitù per appartenenza etnica. Tutto parrebbe avere inizio prima ancora della scoperta dei nuovi mondi. In realtà sarà quest’ultima a portare le argomentazioni decisive per la svolta verso il razzismo “moderno”.

Lo strappo è costituito, alla fine dello stesso secolo, dall’incontro con i nativi americani. Il confronto con i “selvaggi” del nuovo mondo non dà luogo ad una vera e propria concezione “razzista”, ma sono proprio questi popoli a mettere in moto quel diverso meccanismo di approccio che ne indurrà i presupposti teorici. Il problema di fondo che essi pongono è quello dell’origine, per la quale non c’è riscontro nella narrazione biblica (a meno di volerli considerare, come qualcuno in effetti subito fa, i discendenti di una delle tribù disperse di Israele). Ci si chiede quindi se si tratti o meno di discendenti di Adamo, e le possibili risposte hanno le implicazioni più diverse, relative al peccato originale, alla possibilità di ricevere il battesimo, ecc…

Il dibattito non rimane comunque circoscritto nei termini dell’esegesi biblica, anche se fino alla metà del XVII secolo il confronto più serrato e significativo si svolgerà proprio su questo piano. L’isolamento plurimillenario induce a pensare che questi popoli non abbiano un’origine comune con quelli da sempre conosciuti, e non basta la bolla papale Sublimis Deus, del 1537, emanata per scongiurare la riduzione degli indigeni in schiavitù[43], a restituire loro la parentela diretta con gli “umani”. Anzi, il pronunciamento ufficiale della Chiesa accelera probabilmente la comparsa e l’affermazione delle teorie poligenetiche, non fosse altro per un automatica presa di distanza da parte del mondo protestante.

Le prime ipotesi in questa direzione cominciano infatti ad essere formulate proprio da posizioni ereticali, come nel caso di Giordano Bruno e di Paracelso. Per quest’ultimo la diversa origine è già sinonimo di inferiorità: gli indigeni sono privi di anima, in quanto creati non da Dio, ma dagli influssi di una particolare congiuntura astrale. Non è un’argomentazione particolarmente pregnante, ma sottintende la possibilità che altre forze, oltre la volontà divina, possano agire o aver agito nella definizione del quadro della vita. Sarà sufficiente sostituire la natura, come agente autonormativo, agli influssi degli astri per entrare nella nuova mentalità scientifica.

Nell’ambito dell’ortodossia prevale invece naturalmente la teoria monogenetica, sostenuta soprattutto dai gesuiti; anticipando di secoli le conclusioni della genetica delle popolazioni essi sostengono per quanto concerne i nativi americani l’ipotesi di una migrazione dall’Asia, anzi, di una serie di migrazioni, che spiegherebbero i differenti livelli di civiltà cui i vari popoli sono pervenuti.

La controversia sull’origine degli indiani si svolge comunque su un terreno nel quale hanno gioco fattori e interessi i più svariati. Lo stesso Colombo passa dal primo entusiasmo ai dubbi appena incontra, già al secondo viaggio, delle resistenze[44]. I conquistadores e gli encomenderos devono giustificare il trattamento inumano riservato agli indigeni. I libertini, nel secolo successivo, usano l’argomento per confutare la narrazione biblica, mentre i gesuiti sostengono l’opinione contraria per giustificare i loro esperimenti di cristianizzazione totale. Altri, come ad esempio il mercante-navigatore George Best, incaricato di redigere il resoconto ufficiale della spedizione di Frobisher, rifiutano la comune discendenza perché questa avvalora l’idea che le differenze fisiche tra gli esseri umani siano da attribuirsi esclusivamente al clima e all’ambiente, idea che può scoraggiare gli europei dal cambiare continente o emisfero. Nella prospettiva di avviare progetti di colonizzazione in tutte le aree del globo, comprese le zone torride o glaciali, è invece necessario fugare nei potenziali coloni ogni timore di una possibile “degenerazione” morfologica, a partire dalla pigmentazione della pelle, affermando che i caratteri sono stati fissati da Dio una volta per tutte e citando a sostegno la solita maledizione di Cam.

Tutto sommato, comunque, la gran parte delle valutazioni espresse sul carattere e sui costumi di questi popoli sono positive, e arrivando quasi sempre da missionari fanno riferimento in particolare alla permeabilità religiosa: le stesse valutazioni verranno poi paradossalmente riprese ed utilizzate nella direzione opposta, della libertà di pensiero e della naturalità dei costumi, dalla cultura libertina. Nell’un caso e nell’altro l’origine comune non è messa in discussione. Meno frequenti sono invece le descrizioni totalmente negative, anche perché le popolazioni americane vengono viste ancora come un insieme unico, nel quale spiccano alcune civiltà che hanno raggiunto un alto livello organizzativo. Non si rende quindi necessario ricorrere a teorie esplicative della differenza culturale e somatica tra i vari popoli della terra su basi biologiche.

Quanto ai neri, il problema si pone in altri termini. Con la loro diversità gli europei hanno convissuto per millenni; non costituisce una sorpresa, non ha mai creato eccessivi interrogativi. Ne hanno dato spiegazioni naturalistiche già gli autori classici, da Erodoto[45] a Plinio, svariando dagli effetti del clima a quelli dell’alimentazione, senza trascurare peraltro anche ipotesi degenerative, ma mai accampando un’origine separata.

L’incontro con le popolazioni della costa subsahariana proietta però la negritudine in una prospettiva nuova, in termini sia economici che psicologici. Il quasi contemporaneo contatto con gli indigeni brasiliani sembra intanto confutare ogni ipotesi di pigmentazione legata al clima e all’ambiente. Sotto il sole dei tropici vivono sulle due sponde dell’oceano uomini dal colore, dai tratti, dalle corporature e dai costumi completamente diversi, difficilmente rapportabili ad un genitore comune. Gli stessi europei, anche dopo lunghe permanenze nelle zone equatoriali, mantengono sotto una momentanea arrossatura il colorito chiaro. Gli africani condividono poi il territorio con specie antropomorfe che suggeriscono una scala dell’essere a gradini distinti: e la contiguità viene facilmente tradotta in una prossimità di “stato”, che relega i neri al fondo della scala. Anche la “protesta” religiosa, soprattutto nella versione luterana, decisamente contraria alla politica di inclusione e di conversione di massa promossa dalla chiesa, porta a cogliere nella diversità il segno di un’esclusione divina: a livello popolare è diffusa, in particolare in Germania, la credenza che il mancato rispetto della Bibbia produca la degenerazione fisica, e che il segno più manifesto sia proprio l’iscurimento della pelle. La responsabilizzazione individuale di fronte al peccato non fa sconti ai popoli “bambini” (nemmeno a quelli più anziani, a giudicare dall’odio di Lutero per gli Ebrei), e non concede loro alcun credito di una crescita futura: esattamente come farà la cultura laico-scientifica.

L’ipotesi poligenetica comincia infatti a diventare dominante verso la fine del Seicento, in una prospettiva ormai sganciata dalle motivazioni religiose, polemiche o apologetiche che siano: il problema della diversità si ripropone ora in termini “scientifici”. Agli inizi essa non comporta un esito necessariamente razzista: uno dei suoi primi sostenitori, Arthur Isaac La Peyrère, nel Pre-Adamitae (1655) afferma che l’origine dei negri è più antica di quella dei bianchi, secondo un’interpretazione che è appunto definita “preadamitica”, dalla quale non trae peraltro alcuna valutazione gerarchica. Ma il preadamitismo compare in un’epoca nella quale l’attenzione si va spostando dal selvaggio americano a quello africano; il primo, buono o cattivo che lo si voglia considerare, del tutto inadatto alla fatica e allo sfruttamento, il secondo al contrario eccezionalmente resistente e utilizzabile in ogni settore lavorativo. Inoltre, si afferma contemporaneamente al maturare di tentativi di interpretazione biologica della diversità orientati verso l’ipotesi di una catena degli esseri.

Già William Petty nel 1677 parla di differenze esistenti tra gli uomini “come tra le diverse razze dei cani”. Nel 1684 poi François Bernier divide gli uomini in cinque razze: europei, negri, americani, lapponi, ottentotti[46], e anche se il suo impiego della categoria di “razza” non implica giudizi morali è automatico che questi scaturiscano dalla suddivisione stessa. È così che verso la fine del ‘600 vi sono autori che possono già intendere il senso riposto di queste elaborazioni dottrinali come un tentativo di giustificazione dello schiavismo. Morgen Goodwin (The Negro’s and Indians advocate, 1680) afferma che sono i proprietari di schiavi a sostenere la teoria preadamitica, in quanto ciò consente loro di evitare di battezzare i propri servi, eludendo così ogni controllo religioso e statale sul trattamento ad essi inflitto. Occorre d’altro canto osservare che si trovano argomentazioni del tutto opposte. Un medico che ha lavorato su navi negriere, John Atkins, sostiene il poligenismo proprio contro le conversioni con le quali i religiosi giustificano la schiavitù.

I due problemi della diversità razziale e della schiavitù cominciano quindi ad essere posti in correlazione. Nel frattempo, le anticipazioni della teoria poligenetica sembrano trovare una conferma scientifica nelle osservazioni di Malpighi e di Ruysch: si comincia a parlare di un “reticolo mucoso” individuato, durante la dissezione di negri, tra lo strato esteriore e quello interno dell’epidermide. Un’argomentazione simile si ha già ne L’Espion Turc del Marana (1686), dove si sostiene espressamente che i bianchi e i negri appartengono a due specie differenti, e si cita la testimonianza di un celebre medico parigino che afferma di aver trovato “una sorta di vascular plexus, che si stendeva per tutto il corpo come una tela”. L’autore ne deduce che “la natura, per distinguerli gli uni dagli altri ha dato dei marchi interni ed esterni per far conoscere la differenza dei loro corpi”. Lo stesso tipo di testimonianza si ritrova in Tyssot de Payot (Voyages ed adventures de Jacques Massé, 1710): “[…] immediatamente sotto l’epidermide trovammo una membrana estremamente delicata, […] ciò diede luogo a ragionamenti sull’origine degli Etiopi, che sembra non essere quella degli altri uomini, vista questa rimarchevole differenza”.

Agli inizi del ‘700 la vecchia interpretazione che attribuiva la differenza di colore agli influssi climatici è ormai in disuso. Anche il linguaggio si adegua. Il termine “razza” compare per la prima volta in un vocabolario francese nel 1690. Il fatto è che quando si trasferisce l’utilizzo di questo termine dalle specie animali a quella umana il fattore di diversità più immediatamente evidente è proprio il colore della pelle. Nelle colonie nordamericane comincia ad essere utilizzato già nel ‘600 l’acronimo Wasp (White Anglo-Saxon Protestant), ad indicare i discendenti dei primi colonizzatori, rigorosamente inglesi, non contaminati con ebrei, afro-americani, slavi o asiatici, appartenenti alle chiese presbiteriane o anglicana. È significativo che la connotazione “cromatica” preceda sia quella etnica che quella dell’appartenenza religiosa. Ma in fondo “Dio è bianco”, e i popoli dell’Europa occidentale, che nel pallore del loro incarnato maggiormente gli si avvicinano, forniscono il parametro sul quale misurare quantitativamente il grado di civiltà le altre culture[47]. Tempo un secolo e in Europa si affermerà il termine ariano, che fa corrispondere ai caratteri morfologici, primo tra tutti naturalmente il colore, un insieme molto più nutrito di peculiarità psicologiche e linguistiche.

Si adegua intanto velocemente anche il mondo scientifico. Le ricerche degli anatomisti sulle cause della diversa pigmentazione dei negri si sono moltiplicate. Oltre alla tesi sul reticulum mucosum ve ne sono altre che parlano di un fermentum nigricans, o individuano l’origine nel sangue e nella bile. Tutte comunque portano ormai allo stesso risultato: la razza nera è separata dalle altre da una barriera biologica. È pur vero che nell’ambito più strettamente scientifico Linneo prende le distanze da una interpretazione forzata del suo Systema naturae (1735): ma in realtà l’opera, anche nella sua neutralità, apre la strada ad una convalida scientifica di quanto era venuto maturando alla fine del XVII secolo[48]. Il fissismo non ammette evoluzioni o salti qualitativi.

La spiegazione “razzista” trova dunque numerosissimi adepti[49], anche se nel mondo scientifico incontra ancora alcuni oppositori. Buffon nelle Varietà della specie umana (1749 e poi 1777) sostiene che a differenziare gli uomini sono solo le sfumature: se vi sono differenze tra questi popoli, esse non concernono che il più o il meno di difformità. Pur parlando di “razza”, e introducendone in pratica il concetto antropologico, non intende assolutamente il termine in senso biologico. Ciò malgrado, riesce ad essere razzista su altri presupposti: sostiene infatti la teoria della degenerazione, in base alla quale tutti gli uomini discendono da un ceppo unico, ma alcuni popoli, per fattori legati al clima e all’ambiente si sono allontanati dalle caratteristiche originarie. Nei confronti della schiavitù non esprime alcuna condanna, limitandosi ad osservare che i maltrattamenti inflitti ai neri non sono degni di bianchi “superiori”.

Tra i più accesi sostenitori del razzismo biologico e gerarchico è invece Voltaire, che desume dalle varietà e dalle differenziazioni “scientificamente sperimentate” dei convinti giudizi di valore. Egli vuole sbarazzare il campo di tutte le nozioni relative a ciò che non è naturale, come quella di “indole” usata da Buffon. Per natura le specie sono fisse, immutabili, al più si possono ottenere degli ibridi infecondi. Le enormi differenze esistenti tra le razze umane sono incontestabili, e poiché hanno dato origine a civiltà di diverso livello, occorre trarne classificazioni gerarchiche: i vari gradi di umanità corrispondono ai vari gradi di civiltà. Così che “ottentotti, samoiedi, lapponi, cafri … sono animali”. Voltaire non ha dubbi, cita anch’egli le testimonianze sul reticolo mucoso, e sembra in definitiva interpretare quella che è l’opinione comune corrente della sua epoca. Il paradosso sta nel fatto che pur disprezzando profondamente i neri (e gli ebrei) attacca lo schiavismo come un prodotto del cristianesimo, mentre gli sta offrendo tutta una serie di giustificazioni laiche e “razionali”.

Verso la fine del secolo James Burnett (Lord Monboddo), autore di Of the origin and progress of language (1792), ritiene che la recente scoperta dell’orangutan nelle isole malesi comprovi l’esistenza di una grande catena dell’essere, che va dall’inorganico sino all’uomo cosciente, e nella quale “il fratello dell’uomo”, così simile ai neri africani, costituisce l’anello superiore animale, mentre i neri sono quello più basso della specie umana. Lo stesso orangutan viene posto dal suo contemporaneo Edward Long, un coltivatore giamaicano impegnato a difendere lo schiavismo attraverso l’ipotesi poligenetica, al livello dei neri, in una specie inferiore, dalle caratteristiche più bestiali che umane[50]. Proprio dalla Giamaica parte, con questa grossolana risposta alla nascita del movimento abolizionista, l’offensiva del razzismo compiutamente “moderno”, quello che lasciando cadere le vecchie argomentazioni testamentarie pretende di fondarsi sulle più avanzate ricerche e acquisizioni scientifiche, e che tanto successo avrà negli Stati Uniti[51].

Anche in Europa comunque la tesi della differenza razziale biologica viene molto presto quasi universalmente accettata, malgrado in autori come Herder[52] e Blumenbach[53] si ritrovi la teoria dell’unicità dell’origine umana. Un collega di Blumenbach a Gottinga, Christoph Meiners, redige addirittura, a pochi anni dalla comparsa della terza edizione dell’Histoire di Raynal e Diderot, una storia universale di segno diametralmente opposto, (Lineamenti di una storia dell’Umanità) basata sulla tesi dello sviluppo separato di razze umane diverse ab origine, con caratteri ereditari non mutabili, valutate sulla base di un criterio estetico-morfologico che naturalmente pone in una sfera superiore gli europei[54]. Meiners anticipa molte delle future teorie di De Gobineau, schierandosi contro ogni mescolanza inter-razziale.

Qualche anno dopo Petrus Camper classifica in una sua Dissertazione[55] (1791) le razza umane in base alle misure anatomiche (è l’inventore dell’angolo facciale), che dovrebbero fornire un criterio estetico basato sull’anatomia comparativa. Questo consente a Charles White, un chirurgo inglese, di affermare che “per la struttura e l’economia corporee, il nero è più vicino alla scimmia dell’europeo[56]. Da un altro versante, e pur se alieno da ogni ipotesi razzista ed etnocentrica, anche Johann Kaspar Lavater con la Fisiognomica (1778) finisce per supportare le tesi della differenza. Le sue silhouettes forniscono un metodo per la comparazione dei tratti somatici, meno scientifico rispetto all’analisi biometrica ma egualmente soggetto ad interpretazione.

È infine lo stesso Kant, con il trattato “Le differenti razze dell’umanità” a introdurre in Germania l’ipotesi poligenetica e il concetto di razza, anche se non ne dà poi alcuna connotazione morale[57]. Si tratta oramai però di una acquisizione ideologica che si è autonomizzata, perché lo schiavismo ha in realtà fatto la sua epoca.

L’evolversi dell’atteggiamento occidentale nei confronti delle ipotesi genetiche può essere quindi seguito parallelamente allo sviluppo dell’istituto schiavistico nelle colonie. Fino a quando si tratta di popoli coi quali si mantiene un rapporto commerciale, nulla induce a porsi problemi sulla loro appartenenza o meno a pieno diritto al genere umano. Ma allorché si passa ad una forma diversa di colonizzazione, intesa alla produzione diretta, e diventa necessario “usare” intere popolazioni tenendole in uno stato inumano, ecco sorgere il corrispettivo scientifico della loro non umanità. Evidentemente non è un caso che proprio il secolo dei lumi veda l’affermazione del razzismo: e non tanto perché i criteri di omogeneità e di commensurabilità sottesi alla razionalizzazione comportano una valutazione negativa e gerarchizzata del diverso, quanto piuttosto perché questa razionalizzazione si attua all’insegna di un nuovo esperimento produttivo, di cui lo schiavo è soltanto la prima cavia. Per questo, non appena gli orientamenti economici mutano e il sistema schiavista viene superato dall’incalzare della nuova realtà industriale, il pensiero illuminista potrà abbracciare la causa dell’abolizionismo, senza per questo rinnegare le sue acquisizioni “scientifiche” razziste.


[1] Le stime relative alla demografia dell’America precolombiana sono a tutt’oggi assai controverse. Vanno, per l’intero continente, da un minimo di 10/12 milioni a un massimo di oltre 100. Sulle valutazioni pesano fattori legati alla metodologia di ricerca, ma è poi determinante l’atteggiamento ideologico. Per la seconda ipotesi, quella di un continente sovrappopolato (la stessa Europa di fine XV secolo non raggiunge i cento milioni) propende un gruppo di storici terzomondisti, tra i quali il più autorevole è Pierre Chaunu, per ovvie ragioni, mentre la maggioranza degli studiosi valuta ragionevole una consistenza attorno ai trenta milioni. Esiste infine una corrente minimalista, che basandosi sulla relativa povertà di siti archeologici, non è disposta ad ammettere cifre superiori ai dodici milioni.

[2]Sino ad oggi i moralisti avevano cercato l’origine e i fondamenti della società nelle società che avevano sotto gli occhi. Ma dopo che si è visto che le istituzioni sociali non derivano né dai bisogni della natura né dai dogmi della religione, poiché innumerevoli popoli vivono indipendenti e senza culto, si sono scoperti i vizi sella morale e della legislazione nella formazione stessa delle società” (Denis Diderot, Pensées détachées remis à l’Abbé Raynal)

[3] Un metodo che insegna a dubitare anche del concetto di “consenso universale”. Nel Discours de la méthode Cartesio scrive: Vedendo come molte cose che, malgrado a me sembrino assolu-tamente stravaganti e ridicole, sono tuttavia comunemente riconosciute e approvate da altri grandi popoli, ho imparato a non credere troppo a ciò di cui ero stato persuaso dagli esempi e dal costume diffuso […]”.

[4] Il riferimento all’Eden, o all’età dell’oro, è presente anche nelle Decades de orbe novo di Pietro Martire d’Anghiera, pubblicate qualche anno più tardi: ma in questo caso è la cultura umanistica, e quindi metaforica, a prevalere, piuttosto che quella religiosa.

[5] Gli indigeni gli sembravano, però, appartenere ad una civiltà inferiore, da convertire, ma anche da assoggettare: “devono essere buoni servitori e ingegnosi, perché osservo che ripetono tutto quello che dico loro” annotò.

[6] Per la precisione nel 1672, nell’opera teatrale La conquista di Granada, di John Dryden.

[7] Giovanni Botero, Relazioni Universali, parte IV, Venezia 1596

[8] Ugo Grozio, De jure belli et pacis, 1625

[9] Thomas Hobbes, De Cive, Londra 1642

[10] Per Hobbes nello stato di natura gli uomini vivono in uno stato di guerra perpetuo di ciascuno contro tutti gli altri (“bellum omnium contra omnes”) e la vita è nasty, brutish, and short (spiacevole, grezza, e breve). La conservazione di se stessi è un principio naturale, e proprio il naturale diritto a conservare la propria vita e la propria integrità fisica autorizza l’uomo, nello stato di natura, ad aggredire il suo vicino per difendersi da lui prevenendolo. Per uscire da questa situa-zione e garantire la sicurezza degli individui si deve costituire una società efficiente. Gli individui devono quindi rinunciare ai propri diritti naturali, stringendo un patto con cui li trasferisco-no a una singola persona, che può essere o un monarca, oppure un’assemblea di uomini, che si assume il compito di garantire la pace entro la società.

[11] In una lettera ad Hobbes del 1670 Leibnitz sostiene che quella dello “stato di natura” deve esse-re considerata una pura finzione concettuale, e non una realtà storica. Dio non può aver creato un mondo nel quale non ci siano obblighi morali e diritti individuali. Tuttavia consente con Hobbes sul fatto che la “società civile” nasca per motivi di sicurezza reciproca tra uomini spinti dal timore.

[12] Il senza era stato utilizzato in una valenza negativa da André Thévet, un compagno di De Léry: “L’America è abitata da genti meravigliosamente strane e selvagge, senza fede, senza legge, senza, religione, senza civiltà alcuna, ma che vivono come animali privi di ragione nel modo in cui la natura li ha generati, che mangiano radici e restano sempre nudi sia gli uomini che le donne … (La singularité de la France Anctartique .., 1558). Lahontan scriverà invece: “Ah! Vi-va gli Uroni, che senza leggi, senza prigioni e senza torture passano la vita nella dolcezza, nel-la tranquillità, e godono di una felicità sconosciuta ai francesi”. (Dialogues curieux …, 1703)

[13] Questo avviene anche all’interno della chiesa cattolica. Vedi il dibattito gesuiti-francescani, che si disputano il controllo delle reducciones e la gestione della evangelizzazione degli indigeni. Particolarmente crudo sarà il confronto tra la Compagnia di Gesù e i cosiddetti “recollets”, che sono gli apripista dell’evangelizzazione soprattutto nel Nord-America.

[14] C’è in queste accuse un forte coinvolgimento personale, perché Lahontan si arruola per sfuggi-re ai creditori, e sia in America sia dopo la diserzione verrà sempre a conflitto con ogni autorità costituita, religiosa o laica.

[15] Anthony Shaftesbury Advice to an author (1712)

[16] Anche se è disposto a dar credito ai racconti più assurdi sui “selvaggi”: “Vi sono luoghi dove la gente mangia i propri bambini. Gli abitanti dei Caraibi erano soliti castrare i bambini apposi-tamente per ingrassarli e mangiarli. Garcilaso de la Vegas ci racconta di un popolo nel Perú il quale ingrassava e mangiava i bambini che avevano dalle loro prigioniere, le quali venivano conservate come concubine per quello scopo e quando avevano passato l’età della procrea-zione venivano anch’esse uccise e mangiate” (Saggio sull’intelletto umano).

[17]Benché essi preferiscano di solito l’erede del loro re defunto, tuttavia, se lo trovano in qual-che modo debole o incapace lo mettono da parte e stabiliscono a loro governatore l’uomo più forte e coraggioso […]”.

[18] Bernard de Fontenelle riteneva che tutti i popoli “civili” fossero passati per uno stato simile a quello dei selvaggi: “I Greci furono un tempo dei selvaggi cosi come lo sono oggi gli America-ni: quando erano un popolo nuovo non pensavano affatto più ragionevolmente di quanto pen-sino i barbari d’America, i quali erano, a quanto pare, un popolo buonissimo, quando furono scoperti dagli spagnoli” (Histoire des oracles, 1686).

[19]Voi intendete per selvaggi dei villanzoni che vivono nelle capanne con le loro famiglie e qualche animale […] che parlano un dialetto che non si comprende nelle città (…) che hanno poche idee e per conseguenze poche espressioni […], che si riuniscono in una specie di ca-panna per celebrare delle cerimonie di cui non comprendono nulla […]? Il fatto è che vi sono di tali selvaggi in tutta l’Europa. Bisogna convenire che i popoli del Canadà e i Cafri, che noi chiamiamo selvaggi, sono infinitamente superiori ai nostri. L’Urone, l’Algonchino, l’Illinois, il Cafro, l’Ottentotto hanno l’arte di fabbricare essi stessi tutto ciò c di cui hanno bisogno. Le popolazioni dell’America e dell’Africa sono libere, e noi selvaggi non abbiamo nemmeno l’idea di cosa sia la libertà” (Essai sur les Moeurs).

[20]Voi europei, il cui spirito si riempie sin dall’infanzia di tanti pregiudizi contrari alla felicità, non riuscite a concepire che la natura possa procurare tanti lumi e tanti piaceri. La vostra anima circoscritta in una piccola sfera di conoscenze umane presto attinge il termine dei suoi godimenti artificiali: ma il cuore e la natura sono inesauribili”.

[21] Anche dopo la rivolta delle colonie, in un discorso pronunciato alla Camera dei Lord nel 1777, William Pitt il Vecchio denuncia gli atti di violenza e addirittura di cannibalismo perpe¬trati da-gli ausiliari indiani contro “innocenti”.

[22]Au bout de trois cent années, l’Amérique rassemblera aussi peu à ce qu’elle est aujourd’hui, qu’elle ressemble aujourd’hui peu à ce qu’elle étoit au temps de la découverte”.

[23]Ne massacrons pas les Papous pour connaître, au thermomètre de Réaumur, le climat de la Nouvelle Guinée”.

[24] La credibilità del racconto è a dire il vero un po’ inficiata dalla reputazione di Johnson, che era chiamato “il selvaggio bianco” per l’atteggiamento spietato.

[25] Questa immagine viene ulteriormente rafforzata dalla vicenda del Bounty, che ha una larga risonanza sia per lo scandalo dell’ammutinamento che per la scelta dell’equipaggio di rimanere nelle Isole Felici.

[26]Gli indigeni danno l’impressione di essere felici come nessun altro popolo sotto la cappa del cielo e oltre a tutto il necessario dispongono anche a profusione di quegli agi e voluttà che abbelliscono la vita” scrive Cook nei Diari di bordo.

[27]Tutti questi nostri amici, e specialmente la Regina, diedero l’ultimo addio ai nostri in una maniera così sensibile, che Mister Wallis avendo il cuore nell’estrema costernazione, non fece altro per lungo tempo che sfogarsi anch’egli a piangere dirottamente”.

[28] Luois Antoine de Bougainville, Voyage autour du mond, 1771

[29] Anche se non mancano le eccezioni. A proposito delle Isole Salomone Carteret scrive: “Se può giudicarsi dello stato di un popolo da quello delle sue abitazioni, questi selvaggi dovevano es-sere certamente negli estremi gradi della vita selvaggia, avendo per dimora le più miserabili che si fossero giammai vedute nel mondo”.

[30] Georg Forster, Viaggio attorno al mondo, 1780. “Purtroppo io temo che la nostra conoscenza sia stata del tutto svantaggiosa per gli abitanti dei Mari del Sud”.

[31] Bougainville, Voyage autour du mond, Lettera introduttiva

[32]Lo stato di natura non esiste più, forse non è mai esistito, probabilmente non esisterà mai” (Discours sur l’origine de l’inegalité, 1755)

[33] Non si può nemmeno parlare di primitivismo o di culto della barbarie, anche perché Rousseau è ben consapevole dei limiti di quello stadio di vita. “Non vi era né educazione né progresso, le generazioni si moltiplicavano inutilmente e, poiché ognuno partiva sempre dal medesimo punto, i secoli scorrevano e rimaneva inalterata la rozzezza dell’età primitiva, la specie era già vecchia e l’uomo rimaneva sempre bambino”.

[34] Nel Discours sur l’origine de l’inegalité scrive: “Errando nella foresta senza lavoro, senza pa-rola, senza domicilio, senza guerra e senza legami, senza alcun bisogno dei suoi simili, così come senza alcun desiderio di nuocer loro, persino senza mai riconoscerne alcuno individualmente, l’uomo selvaggio, soggetto a poche passioni e bastante a se stesso, non aveva che i sentimenti e i lumi propri a quello stato, non provava che i bisogni veri, non guardava se non quanto aveva interesse di vedere e la sua intelligenza non faceva maggiori progressi della sua vanità”.

[35] Montesquieu, al pari di Locke, non ha una grossa stima dei “selvaggi”. Ne “L’Esprit des Lois” usa a modo di parabola la storia di un popolo che, avendo scelto di vivere allo stato di natura, finisce per degradarsi ed estinguersi. Non è nemmeno un entusiasta delle civiltà orientali: basandosi su una relazione di Dampierre depreca l’uso tonchinese e cinese di affidare le cariche amministrative agli eunuchi, che produce una serie di contraddizioni: “Si affidano a quelle persone le magistrature perché non hanno famiglia; e d’altro lato, si permette loro di sposarsi perché hanno le magistrature […] Nella storia della Cina si trovano un gran numero di leggi per togliere agli eunuchi tutte le cariche civili e militari: ma vi ritornano sempre. Sembra che gli eunuchi in Oriente siano un male necessario”.

[36] Parlo di istinto non perché ritenga che i pregiudizi di gruppo siano geneticamente determinati (come sostengono William Hamilton, Richard Dawkins ed Edward O. Wilson), ma perché so-no comunque universalmente diffusi, sotto le specie dell’etnocentrismo, e agiscono come un automatismo di difesa e di sopravvivenza.

[37] Quaecumque est hominis definitio, una in omnes valet (De Legibus, I, X, 29)

[38] Naturalis Historia, libro VII

[39] Nel De origine et situ Germanorum, soprattutto, insiste sulla non contaminazione dei popoli germanici, dei quali esalta il coraggio, la semplicità, il senso dell’ospitalità e la monogamia, in contrasto con l’immoralità dei costumi romani (non manca però di sottolineare quanto siano pigri e barbari). Negli Annales esprime invece a più riprese un profondo disprezzo per gli ebrei.

[40] Nell’Epistola ai Galati (III, 27): Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più né schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Gesù Cristo.

[41] Agostino di Ippona, De civitate dei, libro XIX. Agostino sostiene anche, però, che la schiavitù va vista come la sanzione divina di una colpa (che può anche essere collettiva). Una legittimazione della schiavitù arriva nel XIII secolo da Tommaso d’Aquino, aristotelico convinto, che ritiene giustificata la schiavitù se conseguente ad una condanna per un grave delitto, alla cattura in una guerra giusta, alla nascita in stato servile.

[42] Già nel Concilio di Elvira (IV secolo) si proibiva ai cristiani il matrimonio con gli ebrei o addi-rittura di consumare con essi il pasto.

[43] Preceduta peraltro da una legge di Carlo V, del 1539, che perseguiva lo stesso scopo.

[44] A differenza dei Tainos, che gli erano parsi la miglior gente di questo mondo “i Caribi, sono gente fiera e combattiva, ma affrancata da quella loro crudeltà, sarebbero schiavi dei migliori che siano al mondo” scrive nel memoriale ad Antonio de Torres del 1494.

[45] Erodoto, al solito il più moderno, fa risalire le differenze alla sola “tradizione culturale”.

[46] Nouvelle division de la Terre par les différentes éspèces ou races d’homme qui l’habitent.

[47]Nel Settecento si escludeva che i cinesi fossero ‘bianchi’ in quanto non se ne riconosceva più la pari dignità culturale. La convinzione che esistesse per forza un nesso fra il colore della pel-le da un lato e il carattere di una razza o di un popolo dall’altro, e che vi fosse altresì una gerarchia culturale, nella quale il primo posto spettava ai bianchi europei e l’ultimo ai neri dell’Africa, implicava non solo che una carnagione scura dovesse comunque corrispondere a un’inferiorità di cultura e di carattere, ma anche, per converso, che quanti non erano adeguati allo standard delle ‘nazioni progredite dell’Europa’ non potessero, appunto perciò, essere bianchi”. (Demel, Walter – Come i cinesi divennero gialli – Vita e pensiero 1997).

[48] Lineo distingue tra europei, indiani d’America, asiatici, africani. Utilizza come criterio distinti-vo il colore della pelle (bianchi, rossi, gialli e neri) e descrive i primi come “perspicaci, ottimisti, creativi, governati dalle leggi”, i secondi come “collerici”, i gialli come “apatici”, gli ultimi come “furbi, indolenti, negligenti, malinconici, governati dal capriccio”.

In verità nelle prime edizioni del suo Systema Naturae (ad esempio in quella del 1740), l’uomo asiatico è definito “fuscus” (scuro), ma nel 1756 diventa “luridus” (giallastro).

[49] Tra questi anche David Hume (Essays, 1741), che ritiene i neri “inferiori per natura”, privi di doti razionali e incapaci di sviluppo civile.

[50] History of Jamaica, 1774 – Lang ritiene esistano solo tre specie del genere umano: gli europei e, molto a margine, i gialli e i rossi; i negri e gli orang-utan; le scimmie senza coda.

[51] Una delle eccezioni è costituta da Thomas Jefferson, che nelle Notes on Virginia (1784) sostiene la parità morale dei neri coi bianchi. Un po’ più dubbioso è su quella intellettuale, mentre non ha dubbi sulla superiorità estetica dei secondi.

[52] Johann Gottfried von Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-91) – In realtà, anche se combatte lo schiavismo e il colonialismo, Herder inaugura con la sua teoria del Volkgeist, lo spirito del popolo, una sorta di razzismo culturale.

[53] Johann Friedrich Blumenbach De generis humani varietate nativa (1776). – Per lui il significato di razza è quello di tipo ideale, un’astrazione teorica. Suddivide l’umanità in cinque gruppi: caucasici, mongoli, etiopi, americani e malesi, sottolineandone le caratteristiche somatiche, piuttosto che quelle morali. Non ha dubbi che tutti gli esseri umani appartengano alla stessa specie, ma neppure sul fatto che sia quella caucasica la razza umana originaria, quella che presenta gli esemplari più belli be più giusti e che ha la forma del cranio più aggraziata.

[54] Christoph Meiners, Grundiss der Geschichte der Menscheit, 1785

[55] On the Points of Similarity between the Human Species, Quadrupeds, Birds, and Fish.

[56] In An Account of the Regular Gradation in Man, (1799) Charles White sostiene l’esistenza di quattro razze e ne definisce una precisa gerarchia, ponendo gli asiatici subito dopo gli europei in quanto a intelligenza.

[57] Immanuel Kant, Von der verschiendenen Racen der Menschen, 1775 – Kant distingue quattro razze: bianca, nera, mongolica e indù. Afferma che “si possono definire appartenenti ad una ‘razza’ quegli animali che conservano la loro purezza malgrado la migrazioni da una zono all’altra […] così i negri e i bianchi non sono certo due differenti tipi di specie, ma nondimeno due razze differenti”. Definisce i cinesi una “semirazza”, nelle vene della quale però scorre sangue unnico.

 

L’età d’oro del viaggio scientifico

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2017

Caratteri del viaggio scientifico. 1

L’esplorazione dei mari 10

L’esplorazione dei continenti 22

 

Caratteri del viaggio scientifico

Nelle precedenti conversazioni si è parlato di viaggi metaforici e di viaggi immaginari. Ripartiamo da questi ultimi, ma solo per dire che una componente immaginaria in realtà è presente in ogni viaggio, e soprattutto nel racconto che del viaggio si fa. Ed è molto presente, a dispetto di quanto verrebbe spontaneo pensare, anche nei resoconti di quella particolare tipologia di viaggio di cui mi accingo a parlare oggi: il viaggio scientifico.

Mi spiego. La componente “immaginaria” del viaggio agisce in più modi e in diversi momenti. Agisce nel momento stesso in cui si viaggia, e prima ancora in quello in cui si desidera e si progetta il viaggio. Le nostre aspettative rispetto ai luoghi che ci accingiamo a vedere o alle persone che andremo ad incontrare nascono infatti da un’immagine che abbiamo elaborato “a priori”, sulla scorta dei racconti di esperienze altrui o di qualsivoglia altra testimonianza. Noi quindi “prefiguriamo” il viaggio, ci attendiamo di vedere cose, di provare emozioni delle quali già assaporiamo il gusto. Nel corso del viaggio saremo molto condizionati da queste nostre attese, che ci porteranno a cogliere e a privilegiare alcuni aspetti del mondo che andiamo a conoscere, e a trascurarne, o addirittura ad ignorarne, altri. Anche nel caso in cui si facciano delle vere e proprie scoperte, o si provino delle grosse delusioni, tutto questo avviene in rapporto a quanto ci attendevamo. Siamo meravigliati, o delusi, perché non ci attendevamo quella, ma un’altra cosa. L’impressione che riportiamo, e il conseguente giudizio che diamo, sono tarati su quelle aspettative.

Sul racconto del viaggio agisce poi quella che potremmo definire la selezione della memoria, che in parte è inconsapevole, in parte no. Si racconta cioè ciò che ci ha maggiormente colpito, in negativo o in positivo, ma si racconta soprattutto ciò che ha corrisposto alle nostre aspettative o, al contrario, le ha deluse, oppure ci ha positivamente sorpresi e ci ha aperto ad una prospettiva, ad uno sguardo nuovo.

In sostanza potremmo dire, semplificando molto, che la componente immaginaria agisce sul viaggio e sul suo racconto in tre modi e in tre momenti: sulla motivazione, e quindi sulle aspettative, prima; sulla percezione, durante; sul racconto, dopo.

Questo vale per tutti i viaggi, anche paradossalmente per quelli non progettati, non desiderati ma imposti, come nel caso dell’esilio o della fuga, nei quali l’aspettativa è solo quella di una qualche salvezza. E vale, come si diceva in apertura, alla stessa maniera per il tipo di viaggio di cui parleremo oggi: il viaggio scientifico. Come, e in che misura, è quanto mi propongo di esemplificare, raccontandovi alcuni dei viaggi e degli uomini che del “viaggio scientifico” sono stati i protagonisti per antonomasia.

L’epoca eroica delle grandi scoperte geografiche si esaurisce nel breve volgere di un secolo. Ha il suo apice addirittura in un solo trentennio, quello che intercorre grosso modo tra il primo viaggio di Colombo e la prima circumnavigazione del globo da parte di Magellano, ed è poi seguita da una fase nella quale i rinvenimenti sensazionali lasciano il posto alla ricognizione delle coste e dei mari. Le terre casualmente incontrate sono ancora considerate, soprattutto dalle nazioni rimaste al palo nella fase iniziale, un ostacolo da superare piuttosto che una opportunità da sfruttare: e per tutto il XVI secolo questo rimane l’atteggiamento di fondo, anche se nella seconda metà gli oceani vecchi e nuovi sono ormai sistematicamente violati ed esiste una rete di approdi lungo tutte le coste occidentali del nuovo mondo. Il problema che aveva dato l’avvio a tutta la vicenda, l’individuazione di una via diretta per i paesi delle spezie, rimane in sostanza irrisolto.

Un diagramma ideale dei ritmi dell’attività esplorativa a partire dagli inizi del ‘600 evidenzierebbe un andamento discontinuo, con punte di vivace intensità che si alternano a prolungati momenti di stanca. Dopo i viaggi di Drake e di Cavendish[1], ad esempio, passa oltre un secolo prima che venga compiuta una nuova circumnavigazione completa del globo. E non sempre c’è concomitanza tra lo sviluppo della ricerca e una concreta politica di espansione. I primi decenni del XVII secolo, ad esempio, caratterizzati da un relativo rilassamento dell’attività esplorativa, vedono il decollo dell’espansionismo commerciale olandese. Al contrario, il risveglio dell’impulso alla scoperta nella seconda metà del secolo, legato per la Francia al trionfo dell’assolutismo e della politica mercantilistica e per l’Inghilterra all’assunzione in proprio da parte della corona del progetto politico coloniale, trova poi al di là degli oceani un debole corrispettivo in termini di volume dei traffici o di insediamenti. A cavallo tra il Seicento e il Settecento agiscono infatti in negativo la politica di Luigi XIV e le conseguenti guerre per l’egemonia nel vecchio continente, assorbendo e disperdendo le risorse economiche ed umane degli europei. La spinta si rinnoverà solo a partire dal terzo decennio del Settecento, sposandosi questa volta anche ad una coscienza scientifica assolutamente inedita.

Nel corso di questi duecento anni cambiano radicalmente sia i modi che i moventi della attività di esplorazione, così come le nazioni che le promuovono. E cambiano anche le direttrici lungo le quali essa si muove. Quelle classiche orizzontali, di levante e di occidente, sono in pratica esaurite dal ripetersi delle circumnavigazioni sul finire del ‘500. Esse hanno offerto le basi per una valutazione di massima delle dimensioni del globo e della reale estensione di continenti e oceani. Un secolo dopo il mondo è conosciuto anche nella gran parte dei contorni litoranei: le zone costiere sono state toccate al 90%, sia pure, spesso, da semplici ricognizioni periferiche, ed è possibile abbozzare un profilo riassuntivo della fisionomia terrestre. Il quadro va poi via via completandosi nel ‘700, fino ad assumere alla vigilia della rivoluzione francese un’immagine pressoché definitiva, spoglia anche degli ultimi residui di quella geografia fantastica che affondava le sue radici nella classicità, e che paradossalmente aveva tratto nuovi spunti proprio dalle scoperte rinascimentali. Ad essa si sostituiscono gradualmente i dati di una conoscenza più prosaica, scientifica, informata appunto all’ottica razionalistica del secolo. La scoperta settecentesca viene ad essere così altrimenti motivata, e non è casuale, ma perseguita, e in alcuni casi addirittura prevista.

È possibile quindi enucleare alcune specifiche caratteristiche che fanno dei secoli XVIII e XIX l’epoca d’oro del viaggio scientifico. I viaggi con finalità e con modalità scientifiche in realtà ci sono sempre stati. Erodoto e altri giramondo meno famosi di lui hanno viaggiato, dopo e qualcuno anche prima, con gli occhi ben aperti su aspetti particolari della natura e dell’antropologia. Ma quando si parla di viaggio scientifico ci si riferisce a spedizioni collettive o ad intraprese individuali esplicitamente e principalmente votate all’osservazione e allo studio, con protocolli e metodologie di osservazione ben definiti e universalmente accettati e adottati. E questo può avvenire solo dopo che siano stati redatti i protocolli stessi, sia stato dettato uno statuto della ricerca scientifica. Cioè dopo Bacone, dopo Galileo, dopo il secolo della rivoluzione scientifica.

Possono essere allora definiti “scientifici” i viaggi promossi, intrapresi e attuati sulla scorta di finalità e di metodologie di approccio dichiarate e condivise nel mondo scientifico, quali che siano poi gli altri fini, magari meno nobili e meno espliciti.

Riassumendo, le condizioni che permettono e che motivano questo tipo di intraprese sono:

  1. l’allargamento degli orizzonti conseguente le scoperte geografiche, e quindi la crescita degli appetiti e delle motivazioni sia politiche che economiche;
  2. la rivoluzione scientifica e l’affermazione delle scienze fisiche e naturali, e poco alla volta anche di quelle umane, come discipline autonome, svincolate dalla religione e dalla filosofia (almeno in apparenza, perché poi hanno una enorme valenza, positiva o negativa anche in questi ambiti);
  3. la nascita delle accademie e delle società scientifiche, sponsorizzate dagli stati nazionali o dall’iniziativa privata, ovvero dagli interessi coloniali dei primi e da quelli commerciali e produttivi dei secondi;
  4. l’esistenza di protocolli d’osservazione, di sperimentazione e di ricerca dettati dagli scienziati del XVII secolo e ormai consolidati, divenuti di uso comune e accettati universalmente dalla comunità scientifica;
  5. la disponibilità di una strumentazione scientifica, sia per la navigazione che per la rilevazione e l’osservazione, sempre più raffinati ed efficaci;
  6. la nuova intraprendenza degli scienziati, che una volta messo da parte Aristotele vogliono andare a toccare con mano, direttamente o tramite rappresentanti qualificati e accreditati della comunità scientifica.

Analizziamo brevemente questi cinque presupposti:

  1. La curiosità nasce dalla diversità, e le scoperte geografiche che si rincorrono tra la fine del ‘400 e la prima metà del ‘500 di diversità ne offrono molte. Non solo diversità di etnie, di usi e costumi, di istituzioni politiche e di religioni, ma anche diversità della flora e della fauna, del panorama celeste, dei fenomeni naturali. Mentre procedono alla metodica penetrazione nei nuovi continenti disvelati, alla loro conquista, allo sfruttamento e spesso alla distruzione delle nuove popolazioni, o alla loro evangelizzazione, gli occidentali non possono fare a meno di rilevare queste differenze e di relazionarne. È questo allargamento stesso di orizzonti a far crollare i presupposti su cui si fondavano la scienza antica e quella medioevale, e a postularne una rifondazione.
  2. Questa rifondazione prende il nome di rivoluzione scientifica; è una trasformazione della mentalità che procede dal macrocosmo – la scoperta di altri emisferi e dell’altra metà della calotta celeste – verso il microcosmo (la vita microscopica) e che induce la necessità di fare ordine, di passare ad un certo punto dall’accumulo di nuove conoscenze alla loro sistemazione. Il viaggio scientifico appartiene appunto a questo secondo momento, è figlio di Linneo e di Buffon e nipote di Bacone, e si incarna in uomini come Cook e Humboldt, che applicano “sul terreno” le nuove tecniche matematiche di rilevazione, raccogliendo un’incredibile messe di misurazioni astronomiche e fisiche e sistemandole in un quadro organico. Nasce con essi la moderna geografia, con la quale conoscenze che ancora a metà del XVII secolo venivano distinte e considerate separatamente confluiscono in un’unica disciplina[2].
  3. Le Accademie Scientifiche nascono in pratica in contrapposizione alle Università e al tipo di sapere, prevalentemente umanistico e retorico, che queste coltivano. Le Università si danno come scopo quello della conservazione e diffusione di un sapere ritenuto già consolidato e compiuto, le Accademie sono invece finalizzate ad una nuova costruzione del sapere (nuovi metodi) e alla costruzione di un sapere nuovo (nuovi contenuti). Nascono anche col patrocinio e come espressione del nuovo modello di potere politico, le monarchie nazionali, ed economico, la borghesia, e dei loro interessi (economici, politici e militari), mentre le Università rientravano, sia pure con uno status di costante marginalità, nel quadro istituzionale pre-rinascimentale.
  4. Gli scienziati del XVII secolo cominciano a lavorare di concerto, mantenendo contatti epistolari o personali che consentono di superare le distanze, e non soltanto quelle fisiche. Lo scambio di informazioni diventa una prassi consolidata, crea le condizioni per l’instaurarsi di quella ecumene scientifica transnazionale che caratterizzerà soprattutto il Settecento. Perché questo scambio sia davvero efficace è necessario però che vengano condivisi i protocolli di osservazione, di sperimentazione e di comunicazione delle ricerche effettuate, e che la commensurabilità di queste ricerche sia garantita dall’adozione di strumenti comuni, tarati sugli stessi valori e utilizzati con le stesse procedure.
  5. In tal senso è disponibile una strumentazione scientifica, sia per la navigazione che per la rilevazione e l’osservazione, sempre più raffinata ed efficace. Fondamentale per la determinazione delle coordinate geografiche è ad esempio la sempre maggiore precisione dei misuratori di tempo. Il cronometro marittimo realizzato attorno alla metà del secolo da John Harrison (incentivato da un grosso premio in denaro messo in palio dalla Commissione inglese per la longitudine) ha un margine d’errore inferiore ai due minuti, il che significa mantenere la rotta per una traversata dell’Atlantico entro lo scarto di qualche chilometro. Ma si utilizzano poi anemometri, termometri, barometri, bussole di inclinazione e di declinazione, sestanti, teodoliti, igrometri, ecc…, e si dispone di accurate carte nautiche. Naturalmente, malgrado i progressi (il cronometro di Harrison è poco più grande di un orologio da taschino) l’equipaggiamento scientifico rimane molto ingombrante. L’attrezzatura di ricerca utilizzata da Humboldt nel suo viaggio, ad esempio, occupa due bauli ed è trascinata per migliaia di chilometri lungo foreste, in mezzo a paludi o attraverso le montagne. Ed ancora, gli strumenti sono estremamente delicati, fabbricati artigianalmente, e non c’è alcuna possibilità di reperire pezzi di ricambio.
  6. I nuovi protocolli impongono in primo luogo l’osservazione diretta (vedere di persona, e non conoscere per “sentito dire”, o per appreso dai testi sacri della religione o della sapienza antica), sorretta da rigore e da canoni ben precisi e definiti; e poi parametri comuni di misurazione, coordinate geografiche, quadri e tassonomie di riferimento. Se l’osservazione ha da essere compiuta di persona, la diffusione delle conoscenze postula al contrario un’impostazione rigorosa e standardizzata, che ha come presupposto l’uscita dell’osservatore dalla scena. Quindi l’assoluta imparzialità.

Gli scienziati vogliono dunque toccare con mano, osservare direttamente i fenomeni. È il nuovo imperativo di botanici, geologi e naturalisti in genere. Scandagliano laghi, mari, foreste, vulcani: e quando non possono farlo di persona, dettano le istruzioni per i loro inviati o corrispondenti. Nel corso del Settecento si diffondono dei veri e propri vademecum del viaggiatore, e nella fattispecie del viaggiatore “scientifico”, che codificano ambiti e modi dell’osservazione. Tra i compilatori più autorevoli e più famosi troviamo lo stesso Linneo e il geologo Woodword, e in Italia Lazzaro Spallanzani, che sono peraltro al tempo stesso anche viaggiatori in proprio.

La diffusione e il successo della letteratura di viaggio sono una conseguenza del moltiplicarsi dei viaggi, ma anche un volano per motivarli. La stampa permette da un lato una diffusione quantitativa, consente di raggiungere un vastissimo pubblico; dall’altro per la sua stessa capacità di fissare una tradizione testuale, di rendere possibile una distinzione chiara tra ciò che è dato come noto, come acquisito, e ciò che è ignoto alla letteratura tramandata, stimola a perseguire la novità. Il racconto di viaggio importante è quello che aggiunge qualcosa alle conoscenze ricevute.

A questo successo contribuiscono anche le nuove tecnologie. Il linotype consente di produrre e diffondere immagini realistiche e scientificamente corrette di ambienti, piante ed animali, oltre a carte dettagliate. Ma permette anche di togliere la briglia alla fantasia dell’immaginario iconografico, e di corredare i testi con rimandi suggestivi a mondi tutti da scoprire.

La nascita e la precoce diffusione di riviste scientifiche consente anche ad un platea sempre più vasta di seguire i progressi della ricerca. Quando poi nell’Ottocento si aggiungeranno i giornali specificamente dedicati ai viaggi, l’interesse si allargherà al grande pubblico. La vicenda della ricerca dei superstiti della spedizione di John Franklin è esemplare: una campagna di stampa fortemente voluta dalla moglie dell’esploratore induce il governo britannico ad uno sforzo eccezionale, e a mettere in campo addirittura dodici successive spedizioni.

Ad incrementare l’interesse e l’attenzione per le tematiche connesse al viaggio (le avventure, gli incontri, il confronto, l’esotismo) contribuiscono naturalmente anche le rielaborazioni romanzesche di vicende realmente accadute, o le narrazioni a carattere fantastico e satirico. I casi più clamorosi sono senz’altro costituiti dal Robinson di De Foe, dal Gulliver di Swift e dal Candide di Voltaire, ma un po’ tutta la letteratura del Settecento sembra prediligere le narrazioni di ambiente esotico.

 

Le tappe di questa evoluzione qualitativa e quantitativa del sapere geografico sono infine sintetizzate visivamente negli sviluppi della cartografia, anche se in realtà le rappresentazioni cartografiche dell’epoca risultano, dal confronto con i giornali di viaggio, poco aggiornate rispetto allo stato effettivo delle conoscenze. I ritardi nell’introdurre i dati nuovi o nell’escludere i miti della geografia immaginaria si spiegano con la propensione comune, ma diffusa soprattutto tra i portoghesi e gli olandesi (che pure sono all’avanguardia nella cartografia), ad un uso interno ed esclusivo degli aggiornamenti, coerente con la difesa monopolistica delle rotte commerciali. Fino a che non si impone l’attitudine scientifica settecentesca i più prodighi di informazioni restano i missionari, soprattutto i gesuiti, anche se spesso le loro relazioni, ricchissime sotto il profilo etnologico e antropologico, appaiono tutt’altro che precise per quanto concerne il riconoscimento geografico. Ciò è dovuto sia ad un effettivo difetto di basi scientifiche, sia anche, talvolta, ad una giustificata reticenza ad aprire popolazioni inermi alla “civilizzazione” materiale europea. È il caso, ad esempio, dei missionari operanti in Africa o nel cuore dell’America del sud, alle cui spalle si muovono negrieri e bandeirantes.

Sul piano tecnico, dopo la rivoluzione introdotta da Mercatore con l’uso delle proiezioni, un ulteriore perfezionamento viene dalle tavole di Keplero, che consentono di correggere gravi errori nei calcoli della longitudine (lo stesso conosciutissimo Mediterraneo è ridimensionato di più di mille chilometri). Per tutto il ‘600, comunque, i progressi appaiono molto lenti. Il Novus Atlas di Blaeuw (1658), redatto ad un secolo dai mappamondi di Mercatore e di Ortelius e destinato a godere a lungo di un crisma ufficiale di attendibilità, continua a dare per scontata l’esistenza dello stretto di Anian, leggendario canale che dovrebbe separare l’Asia dall’America all’altezza del 60° di latitudine nord, del quale nessun navigatore ha dato per un secolo riscontro; rappresenta inoltre la Corea come un’isola, non fa menzione della Siberia e riduce di molto rispetto al reale le dimensioni della penisola del Deccan e la massa continentale asiatica in generale. L’America del Nord conserva un profilo molto allungato, che le conferisce una estensione spropositata, mentre la parte meridionale del continente, più precisa nella fisionomia, è molto difettosa nelle proporzioni. Manca naturalmente del tutto l’Oceania, mentre la gran parte dell’emisfero australe è occupata dalla vastissima “terra australis nondum cognita”, per la quale si ipotizza uno sviluppo costiero alquanto accidentato.

Nel frattempo vanno però maturando le condizioni per una vera e propria rivoluzione nel campo della rilevazione cartografica. A propiziarle è il lavoro di Gian Domenico Cassini, già titolare della cattedra di astronomia a Bologna e chiamato in Francia da Colbert al fine esplicito di lavorare al calcolo della longitudine. Cassini sguinzaglia per il mondo diverse spedizioni incaricate di rilevare con la maggior esattezza possibile la longitudine e la latitudine di svariate località, dalla Guyana ai Caraibi, da Capo Verde all’Egitto, ma anche in Madagascar, in Siam e in Cina. La messe di dati raccolti viene scientificamente sistemata dal cartografo Guillaume De l’Isle, che adotta la proiezione conica e la levata astronomica come fondamento matematico dei rilevamenti. Le carte dello stesso De l’Isle, che lavora anche per Pietro il Grande, del suo successore Baptiste d’Anville, del danese Nieburh, sono frutto di un accurato lavoro di revisione critica dei calcoli e dei dati, molto spesso anche di rilevamenti compiuti in prima persona, e non esitano ad indicare con vaste macchie bianche le aree non esplorate. Anche questi spazi, comunque, appaiono destinati a coprirsi in tempi brevi dei nomi e dei simboli della nuova geografia empirica, cacciando dai suoi estremi rifugi quella millenaria del sogno.

Le ricerche condotte dai cartografi portano anche alla risoluzione di un ultimo grande problema, quello relativo alla forma della terra. Una serie di discrepanze emerse nei rilevamenti induce infatti a dubitare che la terra sia una sfera perfetta. Le due ipotesi contrarie che ne derivano, quella di un allungamento e quella di uno schiacciamento ai poli, sono sostenute rispettivamente dal figlio di Cassini e da Newton. È l’Académie des Sciences a farsi carico di dare una risposta definitiva. Nel 1735 vengono inviate due spedizioni, l’una, affidata a Maupertuis, nell’Artide, l’altra, sotto la guida di Charles Marie de la Condamine, a Quito, sulla linea dell’Equatore. I risultati danno ragione a Newton: la terra è una sfera schiacciata.

 

L’esplorazione dei mari

Nei secoli XVII e XVIII le più significative imprese di esplorazione marittima mirano proprio a sciogliere gli ultimi grandi nodi ereditati dalla geografia fantastica: il passaggio, a nord-ovest o a nord-est, dall’Atlantico al Pacifico, e la “terra australis”. L’esistenza dell’introvabile passaggio è il postulato sotteso alla volontà e alla necessità di aprire una via più diretta alle Indie, e gli sforzi profusi nella ricerca, spesso con esito tragico, testimoniano di un potere di autoconvincimento capace di dare lo spessore della certezza ad un fantasma della speranza. Inglesi, olandesi, francesi, russi, coltivano con uguale ostinazione il progetto, arrivando infine a trasferirne il valore sul piano scientifico-sportivo quando sarà accertata la sua inattuabilità economica. Ma nel frattempo le loro ricerche consentono di acquisire conoscenze utili per la pesca, per la caccia alla balena e per il riconoscimento delle estreme propaggini settentrionali dei tre continenti interessati.

 

Dopo i tentativi cinquecenteschi di Frobisher e di Davis ad occidente e di Barents ad est, la corsa al passaggio continua cocciutamente nei primi decenni del XVII secolo. Henry Hudson, un tipico avventuriero inglese, della stoffa di Drake o di sir Walter Raleigh, negli ultimi cinque anni della sua vita guida quattro spedizioni sotto tre diverse bandiere. Nel 1607 e nel 1608 naviga per conto della Compagnia di Moscovia: punta dapprima ad ovest e poi a nord-est e raggiunge il punto più settentrionale dell’arcipelago delle Svalbard, a meno di seicento miglia dal Polo Nord, dove è fermato dai ghiacci. Nel 1609, passato alla Compagnia olandese delle Indie Orientali, esplora e cartografa tutta la costa orientale del Nord America, risalendo anche per un tratto il fiume che prenderà il suo nome. Nel 1610, dopo essere stato arrestato per tradimento al ritorno in Inghilterra, è nuovamente in mare, stavolta sotto bandiera inglese, per conto della Compagnia della Virginia. Raggiunto quello che sarà chiamato lo stretto di Hudson presso la punta settentrionale del Labrador, si inoltra nella baia omonima, cercando uno sbocco occidentale: ma al sopraggiungere dell’inverno, con la nave intrappolata tra i ghiacci, non gli resta che sbarcare e cercare di sopravvivere. Nella primavera del 1611 vorrebbe proseguire l’esplorazione, ma l’equipaggio ammutinato lo abbandona alla deriva in una piccola barca assieme al figlio. Di loro non si saprà più nulla.

Lo scopo dichiarato, il passaggio occidentale, non è stato raggiunto, ma la scoperta della baia avrà comunque un peso enorme per la futura politica coloniale inglese nell’America settentrionale. Battuti sul tempo dai francesi nell’esplorazione interna del Canada occidentale, i britannici potranno accampare i diritti acquisiti sull’immenso territorio canadese attraverso l’accesso da nord: quando ne entreranno in possesso, dopo la Guerra dei Sette Anni, la ricognizione di tutto il litorale settentrionale e della sua fascia interna, sino all’Alaska, sarà già stata completata.

Una delle spedizioni inviate alla ricerca di Hudson, guidata da William Baffin, giunge comunque nel 1616 all’imbocco di quella che effettivamente è la via d’acqua tra i due oceani e naviga sin oltre lo Stretto di Davis, scoprendo la baia a nord che ora porta il nome dell’esploratore e toccando 77° 45’ di latitudine Nord: rinuncia poi ad avanzare, nella convinzione di trovarsi di fronte ancora una volta ad un mare chiuso. Per qualche tempo quindi, in seguito a peggioramenti intervenuti nella situazione politica europea, il problema viene accantonato. Attorno alla metà del secolo tornano però a trovare credito, anche negli ambienti marittimi più informati, le voci dell’esistenza di uno stretto che separa l’America dall’Asia (il già citato stretto di Anian). Ciò sembra sciogliere ogni dubbio sulla possibilità di accedere da settentrione al Pacifico, al punto che in Inghilterra viene costituita la “Compagnia della Baia di Hudson” (1670) per la gestione del futuro commercio interoceanico sulla via del nord. Ma i diversi tentativi promossi dalla società si arrestano inevitabilmente di fronte alla banchisa di ghiaccio, fino a quando l’attività esplorativa non viene interrotta dallo scoppio delle ostilità anglo-francesi.

Nella prima parte del Settecento sopravviene un nuovo calo d’interesse, anche perché comincia ed essere evidente che una eventuale via a latitudini così alte avrebbe scarsa rilevanza commerciale. Pertanto le ultime spedizioni, rimesse in moto dalla scoperta dello stretto di Bering (1728)[3], avranno un carattere quasi esclusivamente scientifico. Nel 1776 Cook, al suo terzo viaggio, constata una volta di più la possibilità di aprirsi una via tra i ghiacci artici: ed esperienze analoghe faranno prima della fine del secolo anche La Pérouse ed Alessandro Malaspina. In effetti, bisognerà attendere fino agli inizi del nostro secolo perché il “passaggio a nord-ovest” venga effettivamente percorso per via marittima, ma a titolo ormai puramente sportivo.

Ad esiti ben diversi conduce invece la navigazione nei Mari del Sud. Qui si erano rifugiate ormai, agli inizi del ‘600, la sete di novità e la fantasia geografica, dopo che per un secolo il globo era stato percorso in lungo e in largo, e più volte circumnavigato. Solo le alte latitudini dell’emisfero australe non erano state raggiunte e potevano riservare ancora qualche sorpresa. I geografi, dal canto loro, non avevano dubbi. La presenza di una vasta massa continentale, superiore a quella di tutti gli altri continenti conosciuti, era già stata ipotizzata da Ipparco di Nicea e ripresa da Claudio Tolomeo, sulla base di una argomentazione semplice quanto, evidentemente, convincente. Per equilibrare il peso del blocco euroasiatico nell’emisfero settentrionale, stante la differenza di peso della terra e del mare, era necessario un altro continente nell’emisfero opposto: per l’appunto, la terra australis incognita. La tesi era stata accolta e sviluppata dai geografi arabi, e quindi da quelli europei del medioevo. Ancora nel 1520, facendo riferimento ad una relazione di viaggio portoghese (della quale non rimane in verità alcuna altra notizia: ma tanto i portoghesi quanto gli spagnoli tenevano il più possibile segrete le loro scoperte), l’astronomo tedesco Johann Schröner disegna un globo che riporta attorno all’odierna Antartide un’enorme massa terrestre, separata dall’Africa e dall’America del Sud solo da brevi tratti di mare. Il viaggio di Magellano sembra confermare questa ipotesi, dal momento che la spedizione ha doppiato il continente americano forzando lo stretto tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, e quest’ultima è stata interpretata come la punta più settentrionale del continente sconosciuto. Di lì a qualche anno un’ulteriore conferma sembra venire dalla casuale scoperta della Nuova Guinea operata da Dom Jorge de Mendes e da una prima incompleta ricognizione costiera dell’isola effettuata nel 1527 da Alvaro de Saavedra. A questo punto i portoghesi, impegnati a consolidare i loro avamposti in india e a Malacca e a difendere il loro monopolio sulla rotta circumafricana, abbandonano la ricerca.

L’incarico di sciogliere anche questo enigma se lo assumono invece gli spagnoli, che si considerano i grandi esclusi dall’estremo Oriente, e che a partire dalla metà del secolo hanno iniziato a gettare un ponte sul Pacifico partendo dalle loro basi americane e prendendo possesso delle Filippine. Nel 1567 Alvaro de Mendana salpa dal Perù con il preciso mandato di scoprire la Terra Australe, ma nel corso di una rapida e tormentata esplorazione del Pacifico meridionale riconosce soltanto una serie di arcipelaghi, tra cui le Salomone; in un tentativo molto più tardo, durante il quale troverà la morte, arriverà alle Marchesi (1595). Qualche anno dopo il suo vecchio pilota, Pedro de Quiros, crede di aver realmente realizzata la scoperta, toccando terra alla più bassa latitudine sino ad allora raggiunta: si tratta invece delle isole Ebridi. Quiros è costretto a tornare indietro a causa di un ammutinamento, ma un suo ufficiale, Torres, prosegue con una seconda nave sino a traversare lo stretto di mare tra Australia e Nuova Guinea, senza però rendersi conto che quella che lascia alla sua sinistra è una massa continentale.

Intanto cominciano a muoversi anche i nuovi inquilini del sud-est asiatico, gli olandesi. Per evitare la caccia delle flotte portoghesi e spagnole che incrociano nell’Oceano Indiano, e che dopo il 1581, a seguito della riunificazione delle corone nella persona di Filippo II, conducono una guerra congiunta ai Paesi Bassi, gli olandesi una volta doppiato il Capo di Buona speranza mantengono una rotta molto meridionale, all’altezza del quarantesimo parallelo (i famosi “40 ruggenti”). Ciò consente loro di sfruttare correnti marine favorevoli, risparmiando mesi di viaggio rispetto alla rotta circumafricana degli iberici, e ad impattare inevitabilmente il continente sconosciuto. Per incarico della Compagnia Olandese delle indie Orientali, nata solo dieci prima, Willelm Jenszoon tocca già nel 1605 le coste della Nuova Guinea e dell’Australia nordorientale, ritenendole parte di un unico continente. Dopo di lui, in rapida successione, Hendrick Brouwer (1611), Dirk Hartog (1616), Frederik Hauptman (1619), Willem de Vlamingh (1624) e Peter Nuyts (1627) approdano sul litorale australiano occidentale. Questi viaggi confermano l’esistenza di una vasta piattaforma continentale, ma hanno anche l’effetto di raffreddare alquanto gli entusiasmi, poiché le terre rinvenute appaiono tutt’altro che ricche ed accoglienti, ben lontane dalla favolosa immagine che della terra australis avevano costruito geografi e poeti. Per questi navigatori, che sono spinti essenzialmente da interessi commerciali, esse non sembrano offrire alcuna prospettiva, tanto più che il litorale occidentale, molto lineare, non consente di individuare baie adatte ad accogliere eventuali porti. Comunque, prima di sospendere le ricerche la Compagnia organizza ancora un viaggio esplorativo nel 1642, affidandolo ad Abel Tasman. Partendo da Batavia la spedizione scende a toccare quella che oggi è appunto la Tasmania, costeggia la Nuova Zelanda e risale poi lungo la Nuova Guinea. Ha modo di verificare che questa è separata dalla massa continentale meridionale, e che pertanto tra il continente asiatico ed altre eventuali piattaforme terrestri a sud c’è una grossa distanza.

Gli inglesi si spingono alle latitudini meridionali solo nel 1686, con William Dampier, che tocca la costa nord-occidentale australiana. In un secondo viaggio (1699-1700) l’ex filibustiere[4] percorre lo stretto di Torres, che separa la Nuova Guinea da quella che viene chiamata Nuova Olanda, esplora le coste settentrionali australiane e si ferma soltanto quando trova lo sbarramento della grande barriera corallina. Guida poi altre due spedizioni nei Mari del Sud nel 1703 e nel 1708, compiendo un ricognizione accurata dello sviluppo costiero dell’Australia e scoprendo la Nuova Britannia e la Nuova Irlanda. Al di là dell’effettiva rilevanza delle sue scoperte, e del fatto che conferma in pie-no l’impressione negativa già riportata dagli olandesi, Dampier ha il merito di aver saputo creare interesse attorno ai mari tropicali con le sue avventurosissime relazioni (soprattutto con A New Voyage round the World, del 1697), conquistando anche il grosso pubblico dei non specialisti alla letteratura e ai problemi geografici. Ciò avrà molta importanza nel creare una favorevole spinta dell’opinione pubblica per le spedizioni scientifiche della seconda metà del secolo.

Agli inizi del Settecento, comunque, la confusione sui dati geografici di quest’area è ancora enorme. Le coste della terra australis sono state respinte a latitudini meridionali sempre più alte; ma essa è tutt’altro che rimossa dai miraggi di avventurieri e navigatori. Lo conferma la spedizione dell’olandese Jacob Roggeveen, che a dispetto del veto della Compagnia olandese delle Indie, poco disposta a tollerare iniziative private in una zona che considera di suo monopolio, tenta in proprio la ricerca nel 1722. Roggeveen giunge sino all’isola di Pasqua, prima di essere bloccato dai suoi compatrioti e costretto a rientrare.

Al disinteresse olandese si contrappone invece la crescente attenzione dei francesi per i Mari del Sud. La Compagnia francese delle Indie, che attraversa un felice momento commerciale, affida nel 1738 a Jean Baptiste Bouvet de Lozier l’incarico di cercare la terra australe. Bouvet si spinge sino al 54° parallelo, naturalmente senza trovare traccia di masse continentali. Ormai è gara aperta tra Francia ed Inghilterra. Nel 1764 sono gli inglesi ad armare una spedizione esplorativa al comando di John Byron: essa punta sull’Atlantico meridionale, esplora le coste della Patagonia e della terra del Fuoco, spingendosi anche nel Pacifico, ma non riesce a toccare la costa antartica. Due anni dopo un’altra spedizione, al comando di Samuel Wallis, fa vela verso i mari dell’Oceania, arrivando sino a Tahiti[5]. Anche Louis Antoine de Bougainville, partito nel dicembre dello stesso 1766, tocca l’isola nel 1768. La sua circumnavigazione del globo è la risposta francese non solo a Wallis, ma anche alla sconfitta subita nella guerra dei Sette Anni (della quale tra l’altro Bougainville è stato un protagonista, combattendo valorosamente prima in Canada e poi sul Reno). Cacciata dall’America settentrionale e dall’India, la Francia cerca nuovi spazi di espansione in Oceania. Dopo una tappa al Rio della Plata e una sosta a Rio de Janeiro, Bougainville ha guadagnato il Pacifico attraverso lo stretto di Magellano ed ha esplorato l’arcipelago delle Tuamotu e le isole del Vento. Lasciata Tahiti tocca ancora le Samoa, si spinge a sud alla ricerca della Terra Australis, scopre la grande barriera corallina, che gli impedisce la ricognizione delle coste australiane orientali, risale alle Salomone e all’arcipelago della Sonda (dove scopre di essere stato preceduto di pochi mesi, nella scoperta di Tahiti, da Wallis). Riapproda in patria nel marzo del 1769, e due anni dopo pubblica il diario del viaggio de La Boudeuse e de L’Etoile (Voyage autour du monde), che darà un grosso contributo alla diffusione dell’immagine del “buon selvaggio”.

Questo crescente impegno nelle missioni esplorative, sia nell’uno che nell’altro paese, consente ai navigatori e ai geografi di accumulare un importante bagaglio di esperienze che daranno modo nei decenni successivi di affrontare con determinazione scientifica il problema. Nel 1768 salpa infatti da Londra un’altra spedizione, al comando di James Cook. È un’intrapresa a carattere eminentemente scientifico, patrocinata dalla Reale Società Geografica londinese con lo scopo preciso di ottenere dei rilevamenti astronomici da un punto di osservazione privilegiato, proprio Tahiti, in occasione di una eclissi totale di Sole[6].

Cook è arrivato al comando relativamente tardi, perché ha trascorso tutta la giovinezza in campagna ed è entrato nella marina reale solo a ventisette anni, nel 1755, partendo come semplice marinaio. Di lì in poi però la sua carriera è stata rapidissima, e il giovane è stato notato dalla Royal Society per le sue eccezionali qualità di cartografo. In effetti da tutti i suoi viaggi ha poi riportato una mole impressionante di informazioni di carattere naturalistico, cartografico e storico, per la gran parte raccolte e annotate di persona. La nave di Cook, l’Endeavour, è stata per l’occasione attrezzata a vero e proprio laboratorio scientifico, con biblioteca, gabinetto di studio e serre per la conservazione delle specie vegetali tropicali. Fanno parte della spedizione due botanici, due naturalisti, un astronomo e un disegnatore specializzato. Cook approda a Tahiti nel marzo 1769, compie i rilevamenti richiesti e fa rotta sulla Nuova Zelanda; la circumnaviga e dopo aver superato l’ostacolo della barriera corallina esegue una ricognizione sulle coste orientali australiane, dove individua la localizzazione del primo futuro insediamento inglese nella Botany Bay.

Quindi fa vela verso l’Europa. Sia pure decimata dalle febbri tropicali, la spedizione giunge a Londra nel 1771. I risultati sono eccezionali dal punto di vista scientifico, ma anche da quello geografico. Intanto si restringe ulteriormente l’area di ricerca del fantomatico continente australe, e si tracciano carte precise degli arcipelaghi polinesiani e della Nuova Zelanda: ma soprattutto è importante il fatto che le osservazioni di Cook relativamente all’Australia sono favorevoli, e inducono il governo a prendere in considerazione un progetto di colonizzazione. Ciò giustifica la sollecitudine con cui viene armata una seconda spedizione, ancora affidata a Cook, che ha con sé una nuova equipe di scienziati[7]. L’accertamento dell’esistenza della terra australis, già compreso nelle istruzioni del primo viaggio, costituisce questa volta lo scopo primario. Cook naviga per quattro mesi in direzione orientale senza fare scalo, ad una latitudine molto alta (circa 67 gradi). Giunge ad una settantina di chilometri dalla piattaforma continentale ma non riesce a raggiungerla, essendo indotto a desistere dal pericolo degli iceberg. Nell’estate del 1773 raggiunge e supera il circolo polare, scopre la Nuova Caledonia e torna a Londra nel 1775.

Sotto l’aspetto della conoscenza geografica è questo il suo viaggio più fruttuoso. Oltre alle numerose isole scoperte o riscoperte, esso cancella ogni residua illusione sulla esistenza di un ulteriore continente australe abitabile, e sposta definitivamente l’attenzione inglese sull’Australia. Rende conto inoltre, per la prima volta, dell’esistenza dell’Antartide.

Risolto l’enigma australe, l’Inghilterra appare decisa ormai a dare soluzione anche a quello settentrionale. Cook viene incaricato nel 1776 della ricerca del passaggio a nord-ovest, tentandolo però dal versante del Pacifico. Dopo aver costeggiato il continente americano fin oltre l’Alaska, ed aver toccato i 70° di latitudine Nord, l’esploratore constata l’impossibilità di avanzare e torna indietro per svernare alle Hawaii, dove è ucciso dagli indigeni nel 1779.

Il confronto tra Cook e Bougainville è particolarmente significativo. Mentre il primo è figlio di un bracciante agricolo, e ha scalato con la sola forza della sua intelligenza i gradi che lo portano al comando di una nave, Bougainville appartiene alla più alta nobiltà ed ottiene l’autorizzazione a compiere la circumnavigazione del globo, primo francese, per i suoi meriti ma soprattutto per il suo rango. Le differenze si vedono nello stile adottato dai due nel condurre le rispettive spedizioni. Cook è incredibilmente determinato, mentre Bougainville sfiora più volte la scoperta eccezionale, ma o è battuto per pochissimo sul tempo (a Tahiti, da Samuel Wallis) o rinuncia quando è già in vista dell’obiettivo (l’Australia, raggiunta e rivendicata solo l’anno successivo proprio da Cook).

Ma anche i risultati scientifici conseguiti sono molto diversi. Cook è capace di mappature incredibilmente precise e dettagliate. Il materiale raccolto nelle sue spedizioni darà lavoro per anni ai naturalisti e ai cartografi, rivoluzionando le conoscenze botaniche e riempiendo la gran parte degli ultimi spazi bianchi sulle mappe marittime.

Bougainville riporta invece soprattutto delle impressioni, la convinzione di avere trovato a Tahiti una sorta di paradiso terrestre nel quale è ancora presente l’innocenza originaria, e le affida al suo Voyage au tour du monde, destinate ad alimentare il dibattito filosofico (Diderot scrive un Supplement au Voyage de Bougainville che diverrà molto più famoso dell’originale) e il mito del buon selvaggio. Bada molto più alla dimensione umana che non a quella scientifica, ed è questo forse che gli consente di chiudere la sua circumnavigazione, durata due anni e mezzo, avendo perso solo sette uomini su oltre duecento. Anche nelle spedizioni di Cook i costi umani sono molto bassi, ma ciò è dovuto più che all’umanità del polso alla dieta alimentare comprendente agrumi e crauti, che il comandante impone e che previene lo scorbuto.

 

Il successo dei viaggi di Cook induce la Francia a intensificare gli sforzi di esplorazione. Luigi XVI invia nel 1785 Jean Francois Galaup de la Pérouse a completare le esplorazioni inglesi nel Pacifico meridionale, a prendere possesso delle terre nuove scoperte e a tentare ancora una volta il passaggio a nord-ovest dal versante occidentale. Come quella di Cook, la spedizione di La Pérouse ha un imponente corredo di strumenti, laboratori, volumi scientifici, e naturalmente di astronomi, naturalisti, meteorologi ecc… L’esito è tragico, perché entrambe le navi vanno disperse: ma nel corso del viaggio l’esploratore ha potuto inviare in patria una interessante messe di osservazioni e di rilevamenti.

Un’altra spedizione scientifica è organizzata negli stessi anni dalla corona spagnola e affidata all’italiano Alessandro Malaspina. Composta di naturalisti e cartografi, essa compie con le corvette Descubierta e Atrevida (equivalente spagnolo di Discovery e Resolution, i nomi delle navi dell’ultima spedizione di Cook) una ennesima ricognizione del Pacifico, durata quasi cinque anni, e suggella un secolo di esplorazioni con un ultimo, e ormai quasi simbolico, tentativo di forzare il nord-ovest. Al suo rientro Malaspina è ricompensato con un’accusa di tradimento (motivata dal fatto che si espresso in favore di una maggiore autonomia da concedersi ai territori coloniali) e con dieci anni di detenzione. Anche i risultati, davvero eccezionali, tanto dal punto di vista cartografico, per l’accuratezza e la quantità dei rilevamenti costieri, quanto più in generale per l’enorme messe di dati scientifici, oceanografici, geologici, botanici e antropologici raccolti, giaceranno purtroppo sepolti per oltre un secolo negli archivi segreti dell’ammiragliato[8].

Il Settecento si chiude comunque sull’onda di una spinta esplorativa rilevante e di segno nuovo, che sgombra definitivamente il campo dai vecchi miti e da quell’attitudine avventuriera, individualista e disordinata che aveva caratterizzato l’epoca eroica dell’espansione marittima.

È il clima culturale settecentesco, indubbiamente, a spingere verso una autonomia di significato dell’esplorazione, verso l’affermazione della curiosità scientifica come suo movente primario: ma vi concorrono anche le mutate condizioni politiche ed economiche, il subentrare dello stato nella gestione della politica coloniale, l’attenuarsi dell’urgenza dei fattori commerciali dopo che le correnti di traffico principali si sono stabilizzate, nonché l’apporto di uomini come Cook, capaci di far tesoro delle esperienze di tre secoli e di tradurle in capacità organizzative e in efficienza. È fondamentale anche la riorganizzazione che quasi tutti gli stati, spinti dalle nuove esigenze colonialistiche, intraprendono nel campo della marina militare, alla quale competono ormai funzioni non più limitate al campo bellico, ma allargate alla sperimentazione tecnica e alla ricerca scientifica. Queste ultime costituiscono anzi spesso la giustificazione, di fronte ai contribuenti, per il mantenimento di un elevato potenziale e di un alto livello di efficienza.

Gli stimoli alla ricerca vengono come abbiamo già visto dai progressi delle varie scienze, soprattutto dell’astronomia e della biologia. Le Accademie scientifiche sorte nel Seicento sotto il patrocinio e a spese dei sovrani caldeggiano rilevamenti sempre più accurati di dati meteorologici ed idrografici, chiedono raccolte e descrizioni di esemplari di fauna e flora tropicali, aggiornano le mappe astronomiche coi cieli degli antipodi. L’impulso iniziale legato alla competizione commerciale e militare (non è un caso che sia proprio un sovrano come Pietro il Grande a dare tra i primi l’esempio di una gestione diretta dell’attività di esplora-zione) si trasferisce alla competizione scientifica. Il destino ed il significato della scoperta mutano radicalmente, essa trae valore dalla priorità, e quindi dalla divulgazione immediata: alla segretezza e alla diffidenza subentra la pubblicità e la collaborazione. Inglesi e russi si incontrano ai limiti del circolo polare artico, impegnati nella stessa ricerca, si festeggiano e si scambiano informazioni. Esploratori francesi fanno tappa negli insediamenti britannici, in piena guerra tra i due paesi, per rifornimenti. L’Europa e le sue beghe sono diventate troppo piccole per chi sta allargando i confini del mondo.

I successi straordinari delle imprese di esplorazione del secondo Settecento nascono infine anche da ragioni tecniche. Le protagoniste di questi viaggi sono imbarcazioni di nuova concezione, dalla sagoma agile e veloce, adatte tanto alla navigazione in alto mare come a costeggiare. Sono fregate, corvette, golette, che si sostituiscono ai pesanti galeoni spagnoli, alle caravelle portoghesi, alle tozze caracche mediterranee[9]. I perfezionati criteri di costruzione garantiscono l’impermeabilità delle connessure, la resistenza all’erosione della salsedine e la compattezza generale della chiglia. L’applicazione di ricoperture di rame sulle chiglie, per limitare il formarsi di incrostazioni di alghe o di teredini, nonché il disegno più basso ed allungato degli scafi comportano, oltre ad una migliore penetrazione e quindi ad una aumentata velocità di crociera, un maggiore equilibrio di galleggiamento, ciò che permette l’utilizzo di alberi più alti e quindi di una velatura più ampia.

Queste ed altre soluzioni, compresa una serie di accorgimenti che garantiscono un minimo di sicurezza nelle manovre, permettono di governare la nave con un equipaggio ridotto e con turni meno massacranti. Il minore affollamento consente a sua volta di alloggiare gli equipaggi in ambienti più salubri, pur se ancora tutt’altro che confortevoli. Cambia anche il sistema di reclutamento degli ufficiali, sino al secolo precedente ristretto ai soli appartenenti alle classi nobiliari, e ciò permette a uomini capaci come Cook, figlio di contadini, di arrivare ad esercitare il comando.

La strumentazione nautica si arricchisce di apparecchi di riflessione e di cronometri, che consentono di determinare la longitudine in mare con margini d’errore sempre più contenuti, di bussole di rilevamento, di carte nautiche reticolate con meridiani e paralleli. Miglioramenti considerevoli si hanno anche nelle condizioni umane dei viaggi: grazie alla scoperta delle proprietà delle verdure e degli agrumi per combattere lo scorbuto, e più in generale alla maggior cura del vitto e dell’igiene, sia Bougainville che Cook riescono a compiere circumnavigazioni della durata di due o tre anni con costi umani ridottissimi.

 

L’esplorazione dei continenti

Accanto all’attività di esplorazione marittima prosegue intanto quella terrestre di penetrazione dei nuovi continenti e di ricognizione delle zone sconosciute dell’Asia e dell’Africa.

Nell’America del Nord gli spagnoli risalgono lungo le sierre dell’alto Messico, fino alla penisola di California. Missionari e avventurieri ripercorrono gli itinerari di Coronado e di Cabeza de Vaca, fermandosi però a nordovest davanti alle Montagne Rocciose e ai deserti dell’Arizona, ad est ai primi contraffarti degli Allegheny e al Mississippi. Più a settentrione, invece, i francesi dilagano dai loro primi insediamenti sul San Lorenzo, in una foga di esplorazione alla quale non è estranea la speranza di trovare un passaggio via terra per l’Oriente. Non appena Champlain ha rafforzato la colonia canadese cominciano a percorrere come cacciatori o commercianti di pellicce i territori dell’interno, spingendosi tra il 1650 e il 1660 fino alla Baia di Hudson e riconoscendo tutta la zona dei grandi laghi. Quest’area è già battuta nel secondo decennio del secolo dal giovane Etienne Brulé, che raggiunge l’Ontario e il Lago Superiore, ma finisce poi ucciso (e secondo la leggenda, cucinato) dagli indiani. Negli anni Quaranta Jean Nicollet, sempre alla ricerca del mitico passaggio, rinfocolata dai racconti indiani sull’esistenza di una “grande acqua”, si spinge sino al lago Michigan, mentre Chouart e Radisson esplorano nel decennio successivo il Wisconsin.

Negli anni Settanta sono Luois Joillet e Jacques Marquette a completare il quadro, identificando il Lago Eire e scendendo il tratto superiore del Mississippi, fino a convincersi che il fiume non li sta conducendo al Pacifico, ma all’oceano orientale. A seguirne il corso sino alla foce e a prendere possesso della regione retrostante gli Appalachi è invece, tra il 1779 e il 1784, Robert Cavalier de la Salle (assieme all’italiano Enrico Tonti). Prima della fine del secolo una cintura di forti e di stazioni di scambio collega il Canada con il golfo del Messico, e sulle coste di quest’ultimo viene fondata Nouvelle Orléans, a suggellare l’espansione della Louisiana.

L’interesse francese però, soprattutto negli ultimi due decenni di regno di Luigi XIV e durante quello del suo successore, è tutto concentrato sull’Europa. Non essendoci alle spalle un progetto significativo di colonizzazione le iniziative sono lasciate ai singoli. Così anche quando nel 1731 Pierre de La Vérendrye ed i suoi figli puntano dritto ad ovest, toccano il lago Winnipeg e arrivano alle pendici delle Montagne Rocciose, la loro ricognizione non ha alcuna ricaduta pratica.

Gli inglesi, dal canto loro, conservano a lungo un’idea alquanto imprecisa dell’estensione del continente. All’estremo nord, mentre i francesi si muovono lungo la direttrice di terra, i britannici portano avanti soprattutto la ricognizione costiera. Esplorano la baia scoperta da Hudson nel 1610 e sessant’anni dopo, nel 1668, fondano la Compagnia omonima, che ha nella carta costitutiva due scopi espliciti: cercare il varco marittimo per il mar della Cina e dare sviluppo al commercio delle pellicce. Lungo la costa settentrionale la Compagnia stanzia avamposti fortificati, dai quali partono poi le esplorazioni dell’interno. In pratica si crea una sorta di terra di tutti e di nessuno, nella quale si giocano le rivalità tra le diverse compagnie nazionali. La lotta per assicurarsi il monopolio sulle pellicce si svolge senza esclusione di colpi, destabilizza l’equilibrio già precario dei rapporti tra le varie le tribù indiane e trova una soluzione solo dopo la metà del Settecento, al termine della guerra dei Sette Anni.

A questo punto infatti l’iniziativa rimane tutta nelle mani degli inglesi. Molte colonie si sono viste riconoscere sulla carta di fondazione il diritto all’espansione illimitata in profondità, basato sul presupposto di una relativa vicinanza dell’oceano Pacifico: ma solo dopo la guerra di successione di Spagna e la pace di Utrecht si è dato inizio ad una attività esplorativa, e solo attorno alla metà del ‘700 questa attività comincia a produrre risultati, soprattutto nella fascia settentrionale. Antony Hendry ripercorre nel 1754 l’itinerario tracciato da La Vérendrye, mantenendosi leggermente più a nord e risalendo il corso del fiume Saschastkevan sino a raggiungere le Montagne Rocciose. Nel 1770 Samuel Hearne, anch’egli partendo dalla baia, risale verso nord-ovest fino al Mar Glaciale Artico e scopre il Grande Lago degli Schiavi. La sua ricognizione conferma l’impossibilità di arrivare dalla baia di Hudson al mar della Cina per via d’acqua, anche se, come vedremo, non chiude definitivamente il capitolo.

La situazione cambia ancora una volta nell’ultimo quarto del Settecento. Lo scontro tra le colonie e la madrepatria introduce sulla scena una nuova rivalità, e quando le prime ottengono l’indipendenza la corsa riparte con finalità diverse. I britannici devono giocare d’anticipo per arginare future pretese statunitensi di espansione verso occidente, e il riconoscimento geografico del territorio conferisce una sorta di diritto di prelazione. Prima ancora che il nuovo stato abbia trovato un assetto istituzionale definitivo Alexander Mackenzie, funzionario della Compagnia del Nord-Ovest, che ha rimpiazzato quella della Baia di Hudson, compie una serie di viaggi esplorativi terrestri con l’esplicito intento di raggiungere il Pacifico. Nel 1789 un primo tentativo lo conduce, con la discesa del fiume che oggi porta il suo nome, a sbucare sul Mar Glaciale Artico molto più ad ovest del punto raggiunto da Hearne. Nel 1793 riparte dal lago Atabasca, mantiene una direzione più meridionale e arriva, dopo aver superate le montagne Rocciose, a toccare l’oceano a nord dell’isola di Vancouver. È la prima traversata continentale compiuta a nord dell’odierno Messico, in pratica lungo la linea che costituirà il futuro confine tra gli stati uniti e il territorio canadese.

Una volta affermata la priorità della scoperta, sulle orme di Mackenzie si organizza a partire dai primi dell’800 un vero e proprio servizio di ricognizione topografica. Un altro funzionario della compagnia, Simon Frazer, arriva al Pacifico ad una latitudine inferiore, seguendo il fiume che da lui prenderà il nome sino di fronte all’isola di Vancouver. David Thompson rileva in una campagna ventennale di esplorazioni tutti i principali fiumi e i grandi laghi tra il 50° e il 60° parallelo, arrivando a superare più volte le Montagne Rocciose attraverso valichi diversi e scendendo al Pacifico lungo il bacino del Columbia (1801). La sua opera viene proseguita, molto più a nord, da John Franklin, che nel 1819 è incaricato di completare il riconoscimento costiero del mar Glaciale artico e della zona a nord del 60° parallelo. La prima spedizione rientra dopo aver trascorso due inverni a terra e aver perso molti membri, ma nel 1825 Franklin è nuovamente sulle rive dell’Artico. Altre spedizioni si spingono sino a discendere la prima parte del corso dello Yukon, arrestandosi però di fronte alla reazione di un’altra compagnia per il commercio delle pellicce: l’Alaska è infatti di competenza russa.

Nel frattempo anche gli Stati Uniti cominciano a muoversi. Nel 1783 con la pace di Parigi hanno annesso tutti territori tra gli Appalachi e il Mississippi: nel 1803 comprano da Napoleone la Louisiana. Si tratta di territori non del tutto ignoti, già in parte percorsi da spagnoli e francesi, abitati da popolazioni bellicose: un’immensa tavola piatta, poco protetta dalle masse d’aria provenienti da nord e da sud, quindi soggetta ad un clima marcatamente continentale, e il cui confine occidentale è definito solo dalla barriera naturale delle Montagne Rocciose. È quasi automatico che le iniziative di esplorazione siano volte soprattutto a superare queste ultime, a trovare vie d’accesso per la fascia costiera del Pacifico. Ed è anche sintomatico del mutamento intervenuto negli scopi il fatto che queste iniziative siano tutte affidate a militari.

Nel 1804 il governo statunitense incarica i capitani Meriwether Lewis e William Clark di risalire il Missouri, il maggior affluente del “padre delle acque”, per riconoscerne le sorgenti ma soprattutto per individuare possibili vie di accesso al Pacifico. La spedizione ha pieno successo. I due capitani arrivano nell’estate successiva a bagnarsi i piedi nelle acque dell’oceano e nel corso del viaggio stabiliscono contatti con le diverse nazioni indiane, individuano quelle potenzialmente ostili e stringono rapporti con quelle meglio disposte, assolvendo ad un ruolo che va ben oltre quello puramente esplorativo. Sulla via del ritorno si dividono per effettuare una ricognizione a più ampio raggio dei possibili percorsi alternativi, e a due anni dalla partenza sono nuovamente a Washington. È la risposta statunitense a Mackenzie, ed è rimasta tanto nell’immaginario quanto nella storiografia nordamericana come “la spedizione” per antonomasia.

Lewis e Clark sono però solo i primi e i più famosi di una fitta schiera di esploratori a stelle e strisce. Mentre ancora i due sono impegnati lungo il Missouri il tenente Zebulon Pike attraversa tutta la pianura centrale, arriva alle falde delle Rocciose, devia verso sud, segue il Rio Grande, spingendosi in profondità in territorio messicano, e torna poi attraverso il Texas. Il nuovo stato è ancora in fasce, e già sgomita in tutte le direzioni.

Dopo la guerra che li oppone nel 1812 agli Inglesi diventa ancora più pressante per gli Stati Uniti l’esigenza di riconoscere tutti i territori di confine col Canada, soprattutto di individuare lo spartiacque dal quale ha origine il bacino del Mississippi. Nel 1823 il maggiore Samuel Long esplora l’area degli odierni Wisconsin e Minnesota, nella quale dovrebbero essere rintracciabili le sorgenti del fiume: a questa spedizione si aggrega anche un italiano, Giacomo Agostino Beltrami, che ad un certo punto proseguirà la sua avventurosa ricerca da solo e si convincerà di aver trovato le sorgenti.

All’estremo ovest, su e giù per le Montagne Rocciose, tra il Grande Lago Salato e i fiumi Columbia e Colorado, si snodano le esplorazioni di Jededya Smith, che identifica tutte quelle che diverranno le vie classiche d’accesso alla California.

Ma il più grande sforzo esplorativo organizzato è quello che tra il 1842 e il 1853 vede il maggiore J. C. Freemont battere a tappeto con una serie di percorsi orizzontali tutto il Far West, l’Oregon e la California. Freemont è un valente cartografo, formatosi alla scuola del francese Nicollet. Le sue rilevazioni e le sue carte sono definitive. L’esplorazione dell’America settentrionale, a questo punto, è conclusa.

Tra il XVII e il XVIII secolo prosegue nel continente meridionale la penetrazione di portoghesi e spagnoli (per un certo periodo, tra il 1580 e il 1640, congiuntamente, per l’unificazione delle corone). Dal punto di vista geografico si tratta di completare un quadro del quale sono state sbozzate solo le linee generali, anche se gli itinerari della conquista hanno tagliato in lungo e in largo il continente. Le aree inesplorate rimangono in realtà vastissime, e in esse trovano ancora rifugio le fantasie medioevali che dalla scoperta hanno tratto nuovo alimento, dal mito dell’Eldorado a quelli delle Sette città di Cibola e delle donne guerriere. In un primo periodo sono però soprattutto i missionari, francescani e gesuiti, a battere la pista verso l’interno, alla ricerca di anime da convertire, il più possibile lontane dalla contaminazione europea. Alla fine del secondo decennio del ‘600 due francescani ripetono le imprese di Orellana e di Aguirre, discendendo il Rio delle Amazzoni su una canoa, dal Perù sino alla foce. Pochi anni dopo, nel 1637, è invece il portoghese Pedro Teixeira a risalire il fiume alla guida di una grande spedizione (quaranta imbarcazioni e circa 2.500 uomini), partendo dalla foce e riguadagnando dopo due anni l’oceano rifacendo a ritroso il percorso. Paradossalmente questa poderosa ricognizione, invece di sfatare una volta per tutte le leggende, contribuisce ad alimentarle. I gesuiti che accompagnano Teixeira e redigono la cronaca della spedizione riportano infatti gli accenni a luoghi e popoli favolosi come voci di seconda mano, ma non le mettono affatto in dubbio. Nella stessa zona compie invece interessanti rilevamenti idrografici, a cavallo tra il Seicento e il Settecento, un loro confratello tedesco: Samuel Fritz redige la prima carta attendibile del percorso del fiume ed apre la strada alla seconda ondata di esploratori, quella degli scienziati-naturalisti.

Nel 1743 è un francese, Charles Marie de la Condamine, inviato alcuni anni prima in Perù per una misurazione astronomica, a discendere in tutta la sua lunghezza la grande via d’acqua brasiliana. Con i risultati di questa esperienza De la Condamine aggiorna e completa le carte di Fritz, e individua alcuni problemi dei quali lascia ai posteri la soluzione, contribuendo in questo modo a suscitare ulteriore curiosità geografica in numerosi giovani scienziati. Il primo, e il più famoso, è il prussiano Alexander von Humboldt, che nel corso di un viaggio di esplorazione intrapreso in compagnia del pittore e botanico francese Aimée Bompland proprio alla fine del secolo attraversa diagonalmente la fascia più settentrionale del Sudamerica. Dopo aver risalito l’Orinoco sino alle sorgenti e aver appurato l’esistenza di una comunicazione fluviale diretta tra questo e il bacino delle Amazzoni, i due partono dal Venezuela, attraversano le Ande, arrivano sino al Perù e scendono poi al Cile, per tornare infine ad esplorare il Messico e l’isola di Cuba. Oltre ad effettuare rilevazioni scientifiche di straordinaria importanza (viene ad esempio scoperta la corrente fredda che lambisce le coste cilene e sale verso il nord), ne riportano dopo cinque anni vastissime collezioni di nuove specie animali ed erbari sterminati. I viaggi di Humboldt contribuiscono a fissare definitivamente la fisionomia del continente: ma come quello di De la Condamine, e più ancora di quello, data la risonanza che avranno negli ambienti scientifici europei, aprono una infinità di altre prospettive.

Di conseguenza, per tutta la prima metà dell’800, e anche oltre, sulle orme del barone prussiano e del pittore francese si muoveranno innumerevoli naturalisti e ricercatori scientifici di diverse nazionalità, favoriti dalle progressive indipendenze conquistate dei paesi latinoamericani e quindi dalla facilità di accesso. Saranno loro, personaggi come lo zoologo francese Alcide d’Orbigny che per sette anni vagabonda tra il Brasile e la Patagonia, o il tedesco R.H. Schomburgk, che ripercorre e amplia gli itinerari di Humboldt tra Gujana e Venezuela, o un altro francese, il conte Francois de Castelnau, che tra il 1843 e il 1847 va e viene tra il Mato Grosso, il Gran Chaco e gli altipiani andini (perdendo nell’ultimo viaggio tutto il materiale scientifico raccolto) a riempire gli ultimi spazi bianchi rimasti sulle carte del Sudamerica[10]; o ancora, l’entomologo inglese H. W. Bates, inizialmente compagno di avventura di Alfred Wallace, che esplora lungo undici anni tutto il bacino delle Amazzoni, e Richard Spruce, che in Amazzonia rimane quindici anni e ne riporta una collezione di quasi trentamila piante, di cui settemila sconosciute; o infine, l’italiano Antonio Raimondi, che intraprende un più che ventennale lavoro di mappatura del territorio peruviano, percorrendolo praticamente tutto a piedi[11].

In Asia giunge a compimento nei corso del XVII secolo la progressiva conquista russa della Siberia. Essa aveva preso l’avvio già negli ultimi decenni del secolo precedente, durante il regno di Ivan il Terribile, ma i contatti risalivano ad un’epoca più antica, immediatamente successiva alla cacciata dei Tartari, ed erano legati ai commercio delle pellicce. Mercanti e cacciatori avevano iniziato molto presto a varcare gli Urali, seguiti dopo la metà del ‘500 da bande cosacche che avevano sconfitto e sottomesso le tribù siberiane occidentali. Su questo slancio si era immediatamente inserito lo stato moscovita, organizzandolo in un disegno preciso di penetrazione a tappe forzate. La prima parte di questa avanzata è lineare, e mira a raggiungere velocemente l’oceano Pacifico, isolando la parte settentrionale del continente ed evitando lo scontro con le forti popolazioni del Turkestan. Essa si muove principalmente lungo i grandi fiumi che sfociano nell’oceano Glaciale Artico, che corrono per lunghi tratti in direzione longitudinale e sono facilmente navigabili. Non incontra ostacoli di sorta, né naturali né umani, trattandosi di una immensa landa semi pianeggiante e pressoché disabitata. Le varie tappe sono scandite da altrettante città, fondate sulle rive dei fiumi via via raggiunti: Tobolsk nel 1587 sull’Ob, Turkhansk nel 1607 sullo Jenissei, Jakustk nel 1632 sulla Lena. Nel 1649 è raggiunto l’oceano Pacifico, sulle cui coste viene fondata Okostk. Mentre è tracciato l’asse di penetrazione alcuni esploratori si spostano perpendicolarmente ad esso, compiendo peripli di ricognizione lungo i bacini fluviali: Poliarkov e Kabarov verso il sud, Stadovkin e Denjev a nord-est, fino all’estrema propaggine continentale. Denjev nel 1648 attraversa sul ghiaccio lo stretto di Bering, dando inizio all’interesse russo per l’Alaska.

L’espansione avviene senza clamori, e gli europei si accorgono di avere un nuovo concorrente affacciato sul Pacifico solo alla fine del Seicento, quando russi e cinesi tentano una definizione dei confini, dopo gli iniziali dissapori creati dall’ostilità cinese per la nuova inquietante vicinanza.

La conquista a quest’epoca è compiuta ancora soltanto sulla carta, anche se le basi effettive sono state poste. La maggior parte delle popolazioni nomadi e delle tribù kirghise sono tutt’altro che dome. Esse continuano ad incontrarsi nelle poste commerciali e nelle grandi fiere estive con i mercanti della Russia, ma si oppongono alle esazioni fiscali, all’introduzione della legislazione russa, alla conversione al cristianesimo. La messa in valore dell’immenso territorio non si fonda comunque sulle popolazioni indigene: essa è demandata alla colonizzazione contadina. Migliaia di servi della gleba cominciano a scegliere ogni anno di valicare gli Urali, alla conquista della libertà e di una terra propria. Con essi numerosi sono i dissidenti religiosi, appartenenti al raskol dei “Vecchi Credenti”, ferocemente perseguitato nella seconda metà del ‘600. Come il Nord-America, la Siberia sembra consentire nella sua immensità, nella sua natura desertica, la fuga verso la libertà e la possibilità di vivere in armonia con le proprie convinzioni. Ma a differenza di là, qui lo stato è presente e intende farsi sentire, almeno dove può giungere. La sua presenza si caratterizza quasi subito nell’aspetto più repressivo, in quanto la Siberia comincia ben presto ad ospitare i bagni penali, diventando così il simbolo stesso dell’oppressione autocratica.

Nel Settecento, soprattutto a partire dal 1720, Pietro il Grande organizza l’esplorazione siberiana in modo più sistematico. Sul continente Atlassov percorre la Kamchatka, completando così il profilo generale siberiano. Sul mare il danese Titus Bering è incaricato di cercare il passaggio che consenta la comunicazione diretta con la Cina attraverso i mari settentrionali (1728). Nel corso di questa spedizione scopre lo stretto che porta il suo nome e che separa l’Asia dall’America. In un viaggio successivo tocca le Aleutine, dove qualche anno dopo i cacciatori russi di pellicce fisseranno una loro stazione; ma il passaggio a nord-ovest rimane inviolato, anche se nel corso del secolo quasi tutta la costa bagnata dall’oceano Glaciale Artico viene riconosciuta sia da terra che per via marittima.

A dispetto dell’interesse che l’Europa del Seicento e del Settecento manifesta nei confronti della Cina e della sua civiltà, i rapporti diretti col grande impero rimangono in tutto questo periodo alquanto limitati. Dopo il tramonto della potenza portoghese e fino agli inizi del XVIII secolo le frontiere cinesi sono chiuse ai commercio occidentale, e soltanto alcune missioni gesuitiche ottengono agli inizi del Seicento di poter svolgere all’interno dell’impero la loro opera di evangelizzazione. Proprio questi gesuiti, portati dalla loro attività missionaria a percorrere gran parte del territorio cinese, raccolgono i dati più significativi della loro esperienza nel Nuovo Atlante della Cina (1655), che offre un quadro generale dei costumi e del pensiero cinese, oltre che della geografia del paese, e che viene aggiornato vent’anni dopo nella Cina Illustrata di padre Athanasius Kircher. Nella seconda parte del ‘700 questa opera di esplorazione e di divulgazione ha termine, per la polemica insorta all’interno stesso dell’ordine e ripresa poi dalle autorità ecclesiastiche, sulla tolleranza nei confronti dei riti cinesi, in particolare del culto degli antenati e di Confucio. Il riassunto globale delle conoscenze acquisite è comunque riversato nella prima carta moderna della Cina, che Jean-Baptiste D’Anville redige nel 1735.

Nel 1685 viene creata a Canton una dogana marittima per l’approdo di navi straniere, e nel 1699 gli inglesi ottengono di aprire in città un ufficio commerciale. Di lì a poco la stessa concessione sarà rilasciata ai francesi (1734), e nel 1784 addirittura alla neonata repubblica statunitense. Quando però le potenze occidentali cercano di forzare la mano, come nel caso della missione inglese guidata da lord George Mc Cartney nel 1783, l’imperatore ostenta uno sprezzante disinteresse[12]; salvo poi accettare, solo due anni dopo, un’analoga proposta per l’avvio di scambi commerciali e culturali da parte dell’emissario della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, Isaac Titsingh[13].

L’atteggiamento cinese è dunque estremamente contradditorio: da un lato si manifesta un sostanziale disinteresse per quanto l’Occidente ha da offrire, tanto sul piano culturale come su quello economico, dall’altro vengono commissionate ai gesuiti intraprese scientifiche o artistiche di grande rilievo[14]. Quello occidentale rimane invece sempre improntato a grande curiosità, e le relazioni e le immagini riportate anche da missioni sostanzialmente fallimentari come quella di Mc Cartney, che annovera nel suo seguito anche due pittori, contribuiscono ad alimentare l’interesse e la moda delle “cineserie”.

Una notevole curiosità suscita anche in questo periodo la regione del Tibet, che dopo essere stata visitata e descritta nel Trecento da Oderico da Pordenone non era più stata toccata da alcun europeo. Dalla relazione del viaggiatore francescano si ricava la suggestiva immagine di una società fondata su basi essenzialmente religiose, e ciò costituisce un ulteriore stimolo per i gesuiti. Essi risalgono dall’India, fondano una prima missione alle falde dell’altipiano e nel 1661 sono ricevuti anche a Lhasa. Ma i rapporti non tardano a guastarsi in seguito ad una ondata xenofoba causata dagli attriti tra i tibetani e l’impero cinese, ed anche questa regione torna a rifiutare per secoli l’approccio dell’occidente.

Decisamente più misterioso rimane anche nel XVIII secolo il Giappone. Per tutto il periodo Edo, dal 1639 sino alla metà dell’Ottocento, viene perseguita dagli shogun la politica del sakoku, l’isolamento totale. La popolazione non deve avere alcun contatto con la cultura occidentale. A tal fine viene anche inasprita la caccia ai nuclei cristiani creati dalla evangelizzazione cinquecentesca dei gesuiti, e gli unici occidentali ad avere accesso ad uno scalo portuale (a Nagasaki) per l’importazione e l’esportazione sono gli olandesi[15]. Eppure, anche durante questo periodo, nonostante la chiusura nei confronti del mondo esterno, in Giappone si studiano le scienze e la tecnica dell’Occidente, soprattutto le discipline geografiche, astronomiche, mediche, naturalistiche e astronomiche, nonché la fisica, e in particolare la meccanica.

Il resto del continente asiatico non è interessato nei due secoli in esame da importanti iniziative di esplorazione. Progredisce, naturalmente, la conoscenza geografica dell’India, in ragione del peso prima commerciale e poi politico che la regione va assumendo per gli europei. Si tratta comunque di un’area le cui caratteristiche generali erano già note fin dall’antichità. Assai meno conosciuta è invece la penisola indocinese, al cui interno penetrano soltanto alcune spedizioni missionarie francesi nella seconda metà del ‘600.

Infine, una prima relazione a carattere scientifico sulle regioni araba ed iranica si ha nella seconda metà del ‘700, ad opera del danese Carsten Niebuhr, protagonista di un viaggio avventuroso e tragico[16]. La spedizione di cui fa parte, promossa dalla corona danese, muove nel gennaio 1761 alla volta della penisola arabica, passando per l’Egitto. Dopo due anni, e dopo aver visitato lo Yemen e le coste occidentali dell’India, dei cinque scienziati che ne facevano parte rimane in vita il solo Niebuhr, che rientra in patria con un viaggio terrestre di tre anni attraverso l’Oman, la Persia, l’Iraq, la Siria, la Palestina e la penisola anatolica[17].


[1] Francis Drake aveva circumnavigato il globo con un viaggio durato tre anni, dal 1577 al 1580, intrapreso a fini militari piuttosto che esplorativi. Thomas Cavendish fu invece il primo navigatore a proporsi coscientemente, a soli 26 anni, di compiere l’intero periplo, ad imitazione di Drake e con finalità quasi sportive. Non mancò tuttavia, durante il viaggio, di dare la caccia alle navi spagnole e di impadronirsi delle immense ricchezze del Galeone di Manila (1586-1588).

[2] Bernardo Varelio, nella Geographia Generalis (1650), distingueva tra geographia generalis, “che studia i caratteri o qualità della terra”, geographia specialis, “che studia la configurazione e posizione di ogni paese” e una geografia “civile”, che studia le forme di governo e l’azione degli uomini sull’ambiente naturale.

[3] Vitus Bering era un ufficiale della marina danese, che dopo aver maturato diverse esperienze nei mari artici venne incaricato da Pietro il Grande di scoprire se l’America e l’Asia fossero collegate e nel 1728 identificò lo stretto che ne reca il nome e che separa la Siberia dall’Alaska. Bering morì nel corso della spedizione, assieme alla gran parte dei membri del suo equipaggio.

[4] William Dampier è davvero un personaggio da romanzo. Ebbe una vita avventurosissima, che lo portò anche a militare tra i pirati della filibusta. Ispirò a Swift la figura di Gulliver, e proprio il suo ritratto compariva nella copertina della prima edizione dei famosissimi Viaggi.

[5] Wallis circumnavigò il mondo tra il 1766 e il 1768 con l’HMS Dolphin. Attraverso lo Stretto di Magellano si inoltrò nel Pacifico toccando Tahiti, quindi attraversò sino a Batavia, e tornò in patria doppiando il Capo di Buona Speranza. Fu il precursore di Cook, e diversi uomini del suo equipaggio navigarono anche con quest’ultimo.

[6] Il Settecento è il secolo nel quale la “repubblica delle lettere” creatasi all’insegna della comune causa dell’Illuminismo tra gli scienziati e gli uomini di cultura di tutto l’occidente stimola la collaborazione nella ricerca. In questo caso, per l’eccezionalissimo doppio transito di Venere da-vanti al sole, nel 1761 e nel 1769, vennero inviate spedizioni in ogni parte del globo, dalla Norvegia al Capo di Buona Speranza, da Terranova a Tahiti e al Madagascar, per consentire agli astronomi inglesi, francesi, russi e tedeschi di seguire il pianeta e determinare, attraverso il confronto dei dati rilevati, la misura della distanza della Terra dal Sole. Non sempre però le cose andarono bene. L’astronomo Christian Mayer, che doveva osservare il transito a San Pietroburgo, trovò il cielo annuvolato per un mese di fila. Ma l’oscar della sfortuna va al francese Guillaume Le Gentil, che viaggiò per otto anni per tentare di osservare entrambi i passaggi, non ci riuscì e venne dato per morto, perdendo anche la moglie, che si risposò.

[7] I botanici sono questa volta i tedeschi Georg Foster e suo padre Johan. Georg, una volta rientrato in patria, pubblica il suo Viaggio attorno al mondo, che otterrà in Germania un enorme successo e influenzerà von Humboldt.

[8] Per completezza devo però ancora citare almeno altri tre navigatori-esploratori inglesi, attivi nella prima metà del XIX secolo, animati più dallo spirito pragmatico di un Cook che da quello illuministico di un Bougainville. Dietro le loro imprese ci fu sempre la figura e la determinazione del secondo segretario dell’ammiragliato, John Barrow, che alla esplorazione artica riuscì a conquistare per quarant’anni l’entusiasmo del paese e notevolissimi finanziamenti.

La prima delle spedizioni varate all’indomani della fine delle guerre napoleoniche (che avevano selezionato ufficiali particolarmente capaci) venne affidata a John Ross, e l’obiettivo era per l’ennesima volta il passaggio a nord-ovest. Si interruppe per una controversa decisione del comandante nello stretto di Lancaster, che in effetti avrebbe dato accesso al passaggio, e l’insuccesso sembrò chiudere la carriera di Ross. Questi aveva però cominciato ad intuire le potenzialità delle più recenti innovazioni meccaniche, e raccolse finanziamenti per una spedizione privata da effettuarsi su una piccola imbarcazione, la Victory, attrezzata con un motore a vapore.

Le peripezie di questa nuova spedizione durarono quattro anni, con altrettanti inverni trascorsi intrappolata dai ghiacci sull’isola di King William, e superati solo con l’aiuto degli inuit. Il risultato più importante fu forse in definitiva l’incredibile (stante la situazione) contenimento delle perdite: solo tre uomini.

Un partecipante alla prima spedizione di Ross, William Parry, fu incaricato di ripercorrerne l’itinerario e di spingersi il più possibile ad occidente, cosa che fece toccando i 110º di longitudine O. Ciò in pratica provava l’esistenza del famoso passaggio. Anche lui fu costretto dai ghiacci a svernare oltre il circolo polare artico, e ne approfittò per organizzare una spedizione esplorativa sulla terraferma. Nei dieci anni successivi fu poi a capo di altre tre spedizioni, l’ultima delle quali in direzione del Polo Nord.

Il nipote di John Ross, James Clark, che aveva cominciato a navigare a undici anni, partecipò sia alle spedizioni dello zio che a quelle di Parry. Ebbe quindi modo di maturare sin da giovanissimo un’enorme esperienza delle zone e delle condizioni artiche, oltre a conoscenze scientifiche che gli consentirono di determinare la posizione del polo magnetico boreale. Ciò indusse poi il governo britannico ad affidargli il comando di una spedizione nell’Antartico, che non conseguì lo stesso risultato ma portò alla conferma che al di là della barriera di ghiaccio si stendesse la terraferma.

[9] Dal galeone secentesco, caratterizzato da imponenti so¬vrastrutture a più piani (i ca¬stelli) a prua e a poppa e da un rapporto lar¬ghezza-lunghezza di 4 a 1 (di norma, qua¬ranta metri per dieci), si passa ai primi del Settecento al vascello, che abbassa o elimina del tutto i castelli, mentre innal-za notevolmente gli alberi – uno dei vascelli più fa¬mosi, la HSM Victory, che combatté anche a Trafalgar, era alto dal pelo dell’acqua alla cima dell’albero maestro più di 60 metri – e triplica o qua¬druplica il tonnellaggio; per arrivare poi, nella se¬conda metà del secolo, alla fregata, che aumenta il rapporto lunghezza-larghezza a 5 a 1, rendendo più snello lo scafo, conserva un solo ponte e aggiunge una quarta vela ai primi due alberi e velacci e controvelacci anche a quello di mez¬zana. Da rilevare che in una caracca come la Santa Maria di Colombo il rapporto era pari o di poco superiore a 3 a 1.

[10] Ma vanno ricordati anche i due più diretti discepoli tedeschi di Humboldt, Karl von Martius e Johann von Spix, che risalgono tra il 1819 e il 1821 il Rio delle Amazzoni ed esplorano il baci-no del Rio Negro: e, subito dopo la metà del secolo, i francesi Jules Crévaux e Henri Coudreau, che mappano gli affluenti di destra e di sinistra del Rio.

[11] Altri italiani sono affascinati dall’Amazzonia. Gaetano Osculati ripete tra il 1846 e il 1848 il viaggio di Orellana. Ermanno Stradelli dedicherà invece, a cavallo tra Otto e Novecento, i due terzi della sua esistenza all’esplorazione dei bacini idrografici maggiori del Sudamerica, quelli del Parà, dell’Orinoco e dell’Amazzoni.

[12] Quando la delegazione inglese ottenne udienza, trovò soltanto il trono vuoto e un messaggio dell’imperatore Qianlong, che definendo “barbari” gli occidentali faceva seccamente presente come la Cina, “terra del centro”, non avesse alcun bisogno dei beni da loro offerti. Avendo poi rifiutato di prosternarsi davanti all’imperatore, i britannici dovettero lasciare la Cina alla chetichella, senza aver concluso alcun trattato.

[13] Che, al contrario di Mc Cartney, non ebbe problemi a prosternarsi. Titsingh aveva maturato in decenni di servizio per la VOC, una lunga esperienza di confronto con le culture orientali, prima in Giappone, poi in India e in Indonesia. Fu ricevuto con tutti gli onori ed ebbe anche modo di attraversare in pieno inverno mezza Cina, vedendo luoghi che nessun occidentale aveva mai visto prima.

[14] Come la compilazione di un nuovo calendario (redatto dal padre Johann Adam Shall von Bell) o la composizione di enormi dipinti celebrativi delle imprese degli imperatori (grandi rotoli, fino a sessanta metri di lunghezza, pensati e coordinati da Giuseppe Castiglione.

[15] Che si sono guadagnati il privilegio bombardando da una loro nave un castello nel quale si era-no asserragliati i cristiani.

[16] Un affascinante racconto del viaggio è fornito in Arabia Felix, di Thorkild Hansen.

[17] Una ricognizione minuziosa del territorio (ma anche dei costumi, dell’archeologia e dell’etnologia) dell’impero ottomano e dell’area mediorientale viene offerta nella seconda metà del Seicento nel Libro dei Viaggi, opera sterminata (10 volumi) dell’erudito turco Evliyã Çelebi, che non sarà però conosciuta in occidente prima della fine dell’Ottocento.

 

La fortuna di Mister Wallace

di Paolo Repetto, 30 settembre 2012

L'importante è non nascere adatti WallaceIl mio interesse per Wallace dura da lunga data, ma era rimasto sino a qualche tempo fa piuttosto epidermico, legato più ad una sua presunta appartenenza al mio album dei “perdenti” che ad una effettiva conoscenza della complessità del personaggio. Devo il cambiamento radicale di attenzione alla bellissima biografia pubblicata da Ferruccio Focher nel 2006, “L’uomo che gettò nel panico Darwin”, alla quale questo scritto vorrebbe essere solo un’introduzione.

 

Al mondo c’è qualcosa di meglio da fare
che affannarsi ad accumulare denaro.
Alfred Russel Wallace

Nascendo in coda a nove fratelli, in Galles e ai primi dell’Ottocento, si avevano due possibilità: o uno la prendeva male, perché capiva che non gli sarebbe toccato niente, oppure cercava di vedere il lato positivo della faccenda, e cioè l’immensa libertà che una simile condizione avrebbe potuto regalargli, dal momento che quasi subito tutti si sarebbero dimenticati di lui. I figli di Thomas Wallace, indipendentemente dall’ordine di nascita, non ebbero nemmeno l’imbarazzo della scelta; il padre si piccava di avere il pallino degli affari ma era in realtà un pasticcione, e provvide da solo con una serie di investimenti sbagliati a bruciarsi una già modesta rendita e a ridurre la famiglia praticamente sul lastrico. Ciò significava tra l’altro dover cambiare continuamente residenza, alla ricerca di sistemazioni sempre più rurali ed economiche.

Come si diceva, situazioni come questa hanno in genere opposti risvolti: nel nostro caso quello positivo era rappresentato da un’infanzia trascorsa in piena libertà, a pesca nei torrenti o a zonzo per i boschi, e conseguentemente dall’imprinting di un forte rapporto con la natura, mentre quello negativo fu la necessità di uscire assai precocemente dall’infanzia. I fratelli Wallace dovettero infatti ingegnarsi molto presto a guadagnare la pagnotta: lo fece il primogenito William, il quale cominciò a lavorare giovanissimo come agrimensore: lo fece John, che trovò impiego a Londra come carpentiere, e lo fece di lì a poco anche il penultimo figlio, Alfred Russel, nato nel 1823, che a quattordici anni raggiunse William e insieme a lui riallacciò quello stretto contatto con la natura che avrebbe caratterizzato tutta la sua esistenza.

La sfortunata condizione di nascita si rivelò quindi per un verso una manna per il ragazzo, che non dovette sorbirsi il nonnismo e la monotonia imperanti nelle scuole superiori inglesi, e mantenne così intatto l’entusiasmo per la cultura, mentre acquisiva sul campo le cognizioni pratiche che ne fecero un grande naturalista: ma sottraendolo anzitempo agli studi regolari ne condizionò anche fortemente la carriera scientifica, decretandogli una sorta di apartheid o comunque di scarsa considerazione da parte degli ambienti accademici, e in ultima analisi negandogli quel riconoscimento di co-paternità della teoria dell’evoluzione che gli sarebbe invece spettato.

Queste righe non vogliono però essere un contributo alla rivalutazione della figura di Alfred Russel Wallace, che non ne ha certo bisogno: vorrebbero invece indagare sul peso che hanno realmente il successo e il riconoscimento per un animo nobile e per uno studioso e ricercatore entusiasta, e verificare che magari è piuttosto limitato.

Per intanto seguiamo le vicissitudini di Wallace, il cui apprendistato alla vita, seppur precoce, non è in realtà così tribolato o drammatico (niente a che vedere, per capirci, con i suoi coetanei raccontati da Dickens). Per sette anni, dal 1837 al 1844 il nostro lavora a fianco del fratello: in giro per campi e boschi sei giorni la settimana, occupato in un’attività che lo accomuna idealmente ad altri grandi di ogni parte del mondo, da Niebhur a Thoreau, sguinzagliati a tracciare confini e a mappare proprietà pubbliche e private.[1]

Il lavoro gli piace moltissimo: scrive ad un amico, elencando i pro e i contro della sua occupazione (ma soprattutto i primi): “è incantevole in una bella giornata estiva tagliare in lungo e in largo la campagna, ammirare le bellezze della natura, respirare la fresca e pura aria delle colline e infine, nella calura del mezzogiorno, gustarsi il pranzo a base di pane e formaggio in una valle ridente, sulle rive di un ruscello gorgogliante. … Quelli che se ne stanno in casa tutto il giorno non hanno idea del piacere che si prova a sedersi davanti ad una buona cena e sentirsi tanto affamati da mangiare fondina, piatto e tutto il resto”.

L'importante è non nascere adatti Wallace (2)Visto che nel frattempo è diventato un giovanottone lungo e magro, non c’è da dubitarne. La sera poi, e le domeniche e qualsiasi altro momento libero, sono dedicati allo studio appassionato di materie che davvero lo interessano, a letture che lo entusiasmano. Con i primi soldi guadagnati si procura testi naturalistici d’ogni genere, tra i quali gli Elementi di Botanica di Lindley, e in pratica li manda a memoria, applicando ogni nuova conoscenza alle osservazioni sul campo. È in effetti il fratello ad occuparsi delle questioni pratiche e dei rapporti con i committenti, e Alfred si trova a godere della libertà di un lavoro che svolge come un gioco e che gli consente di coltivare e approfondire ciò che più gli interessa. Anche quando dovrà interromperlo, per un calo delle richieste, e adattarsi senza molto entusiasmo a fare per un paio d’anni il maestro di scuola a Leicester, continua a scoprire e a leggere i naturalisti. Divora con passione i Viaggi alle regioni equinoziali di Humboldt e il Diario della “Beagle” di Darwin, ma conosce anche Vestigia della storia naturale della creazione[2]., un testo divulgativo che propone un’interpretazione evoluzionistica del mondo e che suscita alla sua uscita, nel 1844, molto interesse e diverse polemiche Legge inoltre il Saggio sul principio della popolazione di Malthus, che avrà sulla sua futura svolta evoluzionistica lo stesso effetto sortito su Darwin: insomma, conosce le cose giuste al momento giusto. Wallace è in sostanza un autodidatta di genio, come quasi tutti coloro di cui ho raccontato, da Dolomieu a Raimondi, allo stesso Darwin e a Leopardi (il che offrirebbe un interessante argomento di dibattito sul ruolo della scuola. Un altro tema di indagine potrebbe essere costituito dall’influenza esercitata da Humboldt sugli animi più avventurosi nella prima metà dell’Ottocento).

Il giovane Wallace ricorda quel personaggio dei fumetti d’anteguerra che alla fine di ogni storia ribaltava situazioni sfortunatissime, guadagnandoci sempre un milione. A Leicester non vince un milione, ma trova in compenso un amico. Il suo colpo di fortuna è rappresentato infatti in questa occasione dall’incontro con Henry Walter Bates, che si rivela decisivo per il suo futuro. Bates è un altro “dilettante” di genio come lui, un entomologo della domenica (gli altri giorni della settimana lavora sodo come apprendista magazziniere) che si è già creata una non trascurabile collezione privata, e che gli trasmette immediatamente il gusto e la passione per la vita degli insetti. In realtà è molto più che un dilettante, e avrà modo di dimostrarlo. È uno che si prepara meticolosamente, e una volta sul campo mostrerà una tenacia, un coraggio, una capacità di adattamento e di sopportazione dei disagi assolutamente insospettabili, soprattutto in un giovane gracile, affetto da ogni sorta di malattia articolare e dalla necessità di portare lenti spesse un dito.[3]

Nello stesso periodo, a dire il vero, Wallace contrae anche altre passioni, quella per l’occultismo e per il soprannaturale da un lato, e quella per l’impegno sociale dall’altro. Partecipa ad alcune sedute spiritiche e rimane impressionato dai fenomeni connessi al mesmerismo, convincendosi di essere in possesso di facoltà magnetiche particolari. Per un appassionato della natura la cosa è quanto meno singolare: ma la personalità vulcanica e onnivora di Wallace riesce a far convivere (non sempre pacificamente) le due cose. Al momento, comunque, non mescola i due ambiti, e quello dello spiritismo rimane in secondo piano.

Si mescola invece agli interessi naturalistici la sensibilità per le ingiustizie e l’aspirazione ad una società più equa. Il lavoro di agrimensore gli ha fatto toccare con mano, attraverso l’ostilità che i contadini riversano su lui e sui suoi colleghi, le devastanti conseguenze della legge sulle recinzioni (Enclosures Act) Si rende conto che sta collaborando ad “una rapina legalizzata a danno dei poveri”. E questo avrà un peso determinante nella sua scelta di abbandonare la professione.

I due giovani ed entusiasti naturalisti devono a questo punto decidere il grande passo. L’orizzonte inglese è palesemente troppo stretto per le loro ambizioni e per la loro sete di conoscenza, ma i vincoli di tipo familiare o economico non consentono di guardare realisticamente oltre. Almeno fino a quando a smuovere la situazione arriva un evento luttuoso. William muore nell’inverno del 1846, il che complica per Alfred la possibilità di tornare a esercitare la professione di agrimensore e va a sommarsi ai dubbi e agli scrupoli sociali. Non è comunque questo ciò che vuole dalla vita. L’amicizia con Bates si rafforza e si trasforma in complicità, che è quella condizione nella quale si ha un progetto comune e si cerca di realizzarlo assieme. A scalpitare maggiormente, sull’onda dell’entusiasmo procuratogli dalle letture, è Wallace, ma anche Bates, che pure ha un carattere più riflessivo, non intende ammuffire nel magazzino e prende molto sul serio la cosa. Sono proprio le discrete credenziali che quest’ultimo si è conquistato negli ambienti scientifici come collezionista a consentir loro di ottenere il patrocinio del direttore dei giardini botanici di Kew e del conservatore della sezione naturalistica del British Museum: in questo modo i due trovano anche un intermediario per la vendita dei futuri esemplari raccolti.

 

Il momento non potrebbe essere migliore. In Inghilterra, ma in sostanza in tutto il mondo occidentale, sta giungendo a compimento una profonda trasformazione del gusto, in particolare per quel che concerne la percezione della natura. Questa trasformazione ha radici complesse, che affondano un po’ in tutte le direzioni, dalla riforma protestante alla rivoluzione scientifica e a quella industriale, dall’esplorazione del mondo al conseguente confronto con altre culture, e quindi all’adozione di nuove abitudini alimentari e voluttuarie e allo scambio di specie e di essenze. Sta cambiando insomma radicalmente il modo di rapportarsi all’ambiente naturale, con un decorso anche molto contradditorio, perché si è partiti dal “per dominare la natura occorre conoscerla” di Bacone per arrivare al “se conosci davvero la natura ti passa la voglia di dominarla” di Wordsworth e dei romantici. È un esito testimoniato ad esempio dall’inedita curiosità per le montagne e per i luoghi “selvatici”, dalla compassione per gli animali[4], dalla tendenza a difendere e conservare le zone boschive, ed è a sua volta contraddittorio, perché le montagne poi le si scala e i luoghi selvatici diventano mete turistiche, allo stesso modo in cui la scoperta di nuove specie è spesso solo il preludio alla loro estinzione.

Per quanto concerne l’attenzione “scientifica” per la natura c’è un effetto volano. La scoperta e l’introduzione in Europa di nuove specie, soprattutto botaniche, all’inizio ha finalità pratiche, alimentari o farmaceutiche o ornamentali,[5] ma induce ad un certo punto la necessità di riordinare un po’ le idee, perché le vecchie conoscenze sono state completamente sovvertite. Il nuovo modello conoscitivo è fornito da Linneo, che delinea uno schema ed elabora una griglia tassonomica di lettura; la classificazione alimenta a sua volta la voglia di riempire o ampliare l’album delle specie, nonché gli interstizi tra l’una e l’altra. La curiosità destata da piante e animali totalmente sconosciuti si traduce quindi ben presto in passione collezionistica, magari motivata più dall’attrazione per le “forme notevoli” che dallo spirito scientifico, e si trasferisce dai grandi musei e dagli orti botanici anche alle dimore private: naturalmente viene subito monetizzata con la fioritura di un commercio, spesso clandestino e tutt’altro che privo di pericoli, che fa affluire in Europa prodotti sempre più nuovi per nicchie sempre più specialistiche. Ci sono importatori che accumulano vere e proprie fortune, sguinzagliando in giro per il mondo avventurieri o sponsorizzando entusiasti naturalisti che individuano le specie incognite e le contrabbandano nel vecchio continente. Uno di questi è Samuel Stevens, abilissimo a propagandare i nuovi arrivi divulgando presso il pubblico dei collezionisti, attraverso un uso sapiente e mirato della stampa, le lettere e le avventure dei suoi “cacciatori di specie”. Diverrà il referente in patria di Wallace e di Bates, e quest’ultimo sarà in assoluto il suo miglior fornitore.

 

Nella primavera del 1848, galvanizzati dai più recenti resoconti di altri naturalisti-viaggiatori (l’ultimo in ordine di tempo è A Voyage up to Amazon, di W.H. Edwards, uscito l’anno prima), i due si imbarcano per il Brasile. Per i primi quattro mesi bazzicano assieme le foreste lungo il rio Parà, un fratello minore dell’Amazzoni. Poi decidono di separarsi, per ampliare il raggio d’azione e le specie di interesse. Risalgono fino a Manaus e lì si dividono: Wallace setaccerà il bacino del Rio Negro, Bates quello dell’Amazzoni. A metà dell’anno successivo Wallace è raggiunto dal fratello minore Herbert e con lui prosegue le missioni di esplorazione-ricerca, peraltro non molto fruttuose. Il fratello decide quindi dopo un paio di mesi di rientrare, ma proprio nel porto in cui attende l’imbarco si ammala di febbre gialla e muore in pochi giorni.

Sul Britannia, il brigantino che ha portato in Brasile lo sfortunato Herbert, viaggiava anche Richard Spruce. Spruce è destinato a rimanere in Amazzonia quindici anni e a diventare il più importante botanico specialista nella flora di quell’area[6]. Ha alle spalle una storia di autodidatta molto simile a quella dei nostri eroi, e una salute malferma che lo apparenta a Bates. Li incontra una prima volta a Santarem, reduci da un giro di esplorazione di nove mesi, in una serata molto alcoolica promossa da pittoresco commerciante inglese. Rivedrà poi il solo Wallace tre anni dopo, e faticherà alquanto a riconoscerlo.[7]

Dopo il triste intermezzo dell’arrivo e della morte del fratello Wallace ha infatti ripreso le sue spedizioni in solitaria. Risale il rio Negro sino al punto di minor distanza dal bacino dell’Orinoco, e raggiunge quest’ultimo, probabilmente lungo lo stesso itinerario percorso in senso inverso da Humboldt. In questa occasione viene mollato in mezzo alla foresta dai suoi assistenti indigeni e deve cavarsela da solo (a Bates va anche peggio: i suoi lo rapinano e gli portano via persino gli stivali). Torna quindi a Manaus, ma per ripartire quasi subito: questa volta punta sullo Uaupés, un affluente del rio Negro, mai percorso prima da viaggiatori bianchi. È però allo stremo: la malaria gli provoca un collasso, e i suoi indigeni lo riportano indietro quasi in fin di vita. È in questo stato che lo ritrova Spruce, il quale organizza il suo trasporto a valle e raccoglie il testimone dell’esplorazione dell’Uaupés e del Rio Negro.

Nel corso di questi tre anni Wallace ha accumulato un discreto numero di esemplari interessanti, ma ha la piena consapevolezza di quanto il suo bottino sia modesto rispetto all’enorme ricchezza ancora nascosta nella foreste. Dispone di mezzi e di tempo limitati, e deve forzatamente accontentarsi di ciò che è a portata immediata. A differenza di Bates, più rilassato e meticoloso, capace di soggiornare per anni nello stesso luogo e di setacciarlo a tappeto, ha un approccio veloce all’esplorazione (e questo spiega probabilmente anche la loro decisione di separarsi). Gli interessano, non fosse altro per motivi economici, gli esemplari da raccolta, ma gli importa forse più cogliere le peculiarità e le differenze tra zona e zona, e indagare i meccanismi che le producono. Ciò comporta coprire l’area più vasta possibile, e disporre di elementi diversi da comparare.

I problemi logistici connessi ad una esplorazione di questo tipo sono naturalmente molto più grandi. È ad esempio difficile assicurare il regolare invio in patria del materiale raccolto. Accade così che al termine di quattro anni, quando è costretto dalla salute e dalla necessità di far fruttare il lavoro svolto a rientrare in patria, la gran parte delle sue collezioni sia ancora imballata ad attenderlo nel porto di partenza brasiliano.

Ciò che ne segue è una vicenda che avrebbe stroncato qualsiasi spirito appena meno forte e positivo di quello di Wallace. La nave sulla quale si imbarca con le sue collezioni trasporta gomma e resine infiammabili, non adeguatamente protette, che ad un certo punto si comportano come era prevedibile. L’intero scafo va a fuoco, e l’equipaggio fa appena a tempo ad allontanarsi su due scialuppe. Wallace recupera solo qualche schizzo e un orologio, mentre sulla nave bruciano e poi si inabissano il suo diario, innumerevoli disegni, ma soprattutto il materiale che rivenduto avrebbe dovuto assicurargli una piccola fortuna, oltre ad una collezione privata “che comprendeva centinaia di nuove specie che avrebbero reso il mio gabinetto di storia naturale uno dei più ricchi d’Europa”.

E non finisce qui. I naufraghi sono in salvo, ma rimangono in completa balìa dell’Oceano, a circa settecento miglia dalle Bermude. Vagano così per dieci giorni, con viveri ed acqua scarsissimi, fino a quando non vengono tratti in salvo da una nave di passaggio. Naturalmente si tratta di una vecchia carretta, appena in grado di galleggiare e a corto a sua volta di viveri. I disagi rimangono quelli già patiti sulle scialuppe, e in più ci si aggiungono un paio di tempeste tropicali dalle quali la nave esce per puro miracolo, semi devastata.

La vicenda si chiude per fortuna senza ulteriori drammi, anche se l’approdo in terra inglese avviene a rischio di un naufragio nella Manica, spazzata per l’occasione da una burrasca di insolita violenza. Alfred ringrazia il cielo per lo scampato pericolo e comincia, una volta cessata la paura, a realizzare l’entità delle sue perdite; eppure, cinque giorni dopo il suo ritorno in Inghilterra sta già meditando su quale sarà la sua prossima meta.

Vista con gli occhi di oggi la vicenda delle collezioni di Wallace potrebbe apparire da oscar della sfortuna. Per certi versi senz’altro lo è, ma all’epoca non sarebbe certamente entrata nel Guinnes. L’eventualità di perdere tutto durante il viaggio era sempre ben presente ai naturalisti, come del resto a tutti coloro che dovevano affidare qualche merce all’oceano, tanto che in genere cercavano di diversificare il più possibile gli invii. E l’aneddotica dei naufragi è ricchissima di casi a fronte dei quali la sfortuna di Wallace impallidisce.

L’ornitologo e botanico francese Jules Verreaux, per citarne uno, aveva collezionato esemplari per ben tredici anni in Africa. Quando si decise a riportarli a casa la nave incappò in una tempesta proprio davanti al porto di La Rochelle, e naufragò. Lo stesso Verreaux riuscì a raggiungere la riva a nuoto, unico superstite: ma forse avrebbe preferito affogare.

Stamford Raffles, uno dei pionieri dell’impero britannico, fondatore di Singapore e governatore di Sumatra, era anche un appassionato di scienze naturali e accanito collezionista. Dopo una vita trascorsa in Oriente e dopo aver perso quattro figli in un anno per malattie decise di tornare in Inghilterra con la moglie e l’unica figlia superstite, oltre che con tutte le sue preziose collezioni, dagli uccelli impagliati alle conchiglie, ai serpenti sotto spirito: ma la nave che li imbarcava andò a fuoco dopo due giorni di viaggio. Perse tutto, tranne la famiglia.

Non parliamo poi dei cacciatori di specie finiti in fondo all’oceano assieme alle loro collezioni, o di quelli che non arrivarono neppure ad imbarcarsi per il ritorno, dal momento che cadute, malattie, sabbie mobili, serpenti, rinoceronti o cacciatori di teste li fermarono prima. Il tributo di esistenze versato alla scienza in questo campo è davvero impressionante.

Ma c’erano anche altri modi, sotto certi aspetti ancora più maligni, di essere malamente ripagati degli sforzi e dei sacrifici di anni. Dopo aver riportato sana e salva dall’Africa una splendida collezione di uccelli e di pelli di altri animali, William Burchell non trovò nessun privato o istituzione disponibili ad accoglierle e classificarle: il frutto delle sue ricerche rimase dimenticato e imballato per oltre un secolo, prima di essere riesumato ed esposto in un museo di storia naturale. Il povero Burchell naturalmente non ebbe il minimo riconoscimento, e consumò gli ultimi anni della sua vita in una crescente disperata rassegnazione.

 

Wallace quanto meno riporta a casa la propria pelle, anche se un po’ malconcia. Pur essendo abituato a vivere a contatto con la natura ha sofferto moltissimo il clima tropicale, che stranamente sembra debilitare soprattutto quelli più robusti, mentre risveglia le forze di gente come Bates e di Spruce, che in patria avevano grossi problemi di salute[8]. Le vicissitudini del viaggio hanno fatto il resto. Appena sbarcato manda un messaggio ai suoi, avvertendoli che lo troveranno parecchio malmesso, ma che non devono preoccuparsi. In effetti, come si è visto, non ci mette molto a riprendersi.

Una volta tornato a Londra però ricomincia a scalpitare. Ormai non c’è più nulla che lo trattenga in patria. Della grande famiglia sono rimaste solo la madre e una sorella; il denaro ricavato dalla vendita delle poche collezioni inviate durante il primo anno si assottiglia rapidamente: prospettive di impiego presso gli enti scientifici non se ne vedono, e dal canto suo Wallace non fa molto per procurarsele. La prima volta che è chiamato a raccontare in pubblico la sua esperienza amazzonica, con una conferenza sulle scimmie americane presso la Linnean Society, lamenta il fatto che da parte dei curatori delle collezioni non venga in genere indicata con precisione l’area di provenienza degli esemplari. Lo afferma senza alcuna presunzione o volontà polemica, nell’intento di contribuire a migliorare i criteri di classificazione e nell’ottica di un quadro della distribuzione delle specie che comincia a fasi strada nella sua mente. Ma alle orecchie di molti dei convenuti suona come una implicita rivendicazione di scientificità alla sola ricerca sul campo e come un atto di accusa a tutto l’establishment naturalistico. Una posizione simile susciterebbe reazioni anche se fosse assunta da un accademico, figuriamoci da un outsider come Wallace. Nei suoi confronti scatta un sottile ostracismo, manifestato con reazioni infastidite dalla componente più conservatrice, ma sotto sotto condiviso un po’ da tutto l’ambiente (e la vicenda dei suoi rapporti con Darwin, ma soprattutto con l’entourage di quest’ultimo, lo conferma). Anche il resoconto delle sue peripezie americane, pubblicato nel 1853 col titolo A narrative of travels on the Amazon and Rio Negro, incontra un’accoglienza molto tiepida, per non dire nulla.

A dispetto di tutto ciò Wallace partecipa alla vita della comunità scientifica, e gli viene comunque dato accesso alle riunioni delle maggiori società naturalistiche. Ma si sente ancora un intruso: lui stesso ritiene di non essersi guadagnato credenziali sufficienti. E soprattutto c’è il richiamo della foresta, motivato ormai non tanto dalla caccia agli esemplari da collezione quanto dal desiderio di trovare sul terreno il supporto alle idee che confusamente gli stanno maturando in testa. Sceglie stavolta l’oriente, e nello specifico l’arcipelago della Sonda, perché è molto meno battuto dai suoi colleghi e perché è necessario suffragare la nascente teoria con prove raccolte in aree diverse e lontane tra loro. Sulla scelta influisce anche il fatto che le isole malesi sono terra di oranghi, una specie che era già stata oggetto di attenzione e di dibattito nel Settecento e un paio di esemplari della quale avevano destato una forte impressione a Londra (tanto da finire anche nelle storie di Sherlock Holmes). Prima della scoperta e degli studi sui gorilla e sugli scimpanzé gli oranghi erano le antropomorfe che più si avvicinavano all’uomo, e che potevano avvalorare l’ipotesi di una parentela.

Ancora una volta trova l’appoggio giusto, nella persona del presidente stesso della Royal Geographic Society, e riesce ad ottenere un passaggio gratuito per Singapore, via Mediterraneo, con traversata di un pezzo di deserto e reimbarco a Suez. Nel luglio del 1854 è a Singapore. Per acclimatarsi raccoglie esemplari di insetti nelle foreste della penisola di Malacca, assieme ad un giovanissimo assistente, Charles Allen, che lo ha seguito da Londra. Le sue aspettative sulla ricchezza faunistica ed entomologica dell’area trovano piena conferma. Nel corso degli otto anni successivi collezionerà qualcosa come centoventicinquemila esemplari, non solo di insetti, ma anche di mammiferi di grossa taglia e di uccelli. E questa volta si preoccupa di scaglionare i suoi invii, potendo fare affidamento sul sistema rapido e sicuro di trasporti marittimi messo in piedi dagli olandesi.

Anche la qualità delle sue scoperte è di altissimo livello. Non raccoglie nessuna nuova specie particolare, ma studia dettagliatamente nel loro ambiente e nei loro comportamenti animali che in Europa erano conosciuti solo per le fantasiose descrizioni di qualche viaggiatore. Alleva persino per qualche mese un cucciolo di orango, “un piccolo orfano” scrive “ che si è aggiunto alla mia famiglia”.

Nel 1855 è a Sarawak, ospite del famoso sir James Brook, il “rajà bianco”, quello raccontato da Salgari come il più implacabile nemico di Sandokan (il che è storicamente vero, fatta salva la figura della tigre della Malesia, perché James Brook diede una caccia spietata ai pirati della Sonda). E proprio a Sarawak, dove il rajà lo tratta con tutti gli onori, per il piacere di avere come ospite un interlocutore brillante sul piano scientifico, Wallace condensa in un breve saggio le conclusioni cui è pervenuto dopo aver avuto la possibilità di confrontare realtà naturalistiche tanto simili per un lato ma tanto lontane tra loro per altri. “Sulla legge che ha regolato l’introduzione di nuove specie” viene pubblicato nello stesso anno su un’autorevole rivista scientifica inglese. Pur nella sua essenzialità l’articolo è una pietra miliare nell’avvicinamento ad una teoria compiuta dell’evoluzione. Wallace elenca i fatti geologici e geografici sui quali si basa l’evidenza evolutiva e parla apertamente di nuove speciazioni, ossia della discendenza di specie affini da un antenato comune: “… la successione naturale delle affinità rappresenta anche l’ordine secondo il quale le varie specie sono venute alla luce, ciascuna come diretta discendente di un antetipo rappresentato da una specie strettamente affine esistente al tempo della sua origine.” Riassume il suo ragionamento in una legge che afferma: “Ogni specie ha avuto un’origine coincidente sia nello spazio che nel tempo con una specie preesistente strettamente affine”, e suggerisce anche chiavi di lettura che verranno sviluppate oltre un secolo dopo (ad esempio, quella di un processo che conosce brusche impennate e lunghi momenti di stasi – gli equilibri punteggiati di Gould ed Eldredge – anziché uno sviluppo lento e costante.

Alla base della sua riflessione ci sono le esperienze comparate dell’Amazzonia e della Malesia. L’importanza della distribuzione geografica degli animali, quella già sottolineata con forza nella conferenza sulle scimmie amazzoniche, è ormai diventata il suo chiodo fisso. E come succede in questi casi, diventa il filtro attraverso il quale leggere l’insieme dei fenomeni, il sensore che si accende davanti ad ogni elemento di conferma. Nel caso specifico è determinante il fatto di proseguire le ricerche in un ambiente per molti versi simile (la foresta tropicale) ma nel quale si sviluppano forme di vita diverse: il che porta allo scoperto i limiti della teoria di Lamarck, e prova che alla base dell’evoluzione c’è qualcosa di più del condizionamento ambientale. Quale sia questo fattore Wallace non è ancora in grado di dirlo, ma la strada all’intuizione è ormai aperta. Per intanto getta le basi di quella che verrà conosciuta come “biogeografia”[9] e formula la domanda chiave: “… in ogni caso le specie più affini si trovano geograficamente vicine. La domanda che si pone ad ogni mente pensante è: perché è così?

Ci si attenderebbe che il lavoro di Wallace faccia fare salti sulla sedia ad un sacco di gente, di entusiasmo o di dispetto a seconda delle diverse convinzioni naturalistiche. Invece non accade praticamente nulla. Lo scritto non viene ignorato, lo stesso Darwin lo legge e lo segnala a Lyell, ma a quanto pare non lo trova particolarmente interessante (Lyell, al contrario, che professava convinzioni fissiste, ne è turbato, e intravvede quegli sviluppi che in effetti si daranno di lì a pochi anni). È probabile che a indisporlo sia il linguaggio. Wallace ha infatti volutamente evitato la terminologia evoluzionistica, usando ad esempio il termine “create” anziché “evolute” quando parla di nuove specie. Questo accorgimento non gli giova granché neppure negli ambienti ufficiali, accademie o società scientifiche, dove prevale piuttosto il fastidio per un “cacciatore di specie” che si mette a formulare teorie rivoluzionarie. L’unico a manifestare entusiasmo è Bates, il vecchio compagno di avventure, ancora in piena attività in Amazzonia, che profetizza a Wallace: bravo, hai centrato in pieno il problema e hai dato spiegazione di tutto. Peccato soltanto che il mondo scientifico “che conta” non sia affatto pronto a capire quello che dici.

Wallace deve constatare che il suo compagno ha visto giusto. Riceve, si, una paio di lettere di complimenti da Darwin, che ribadisce peraltro quanto Bates aveva già detto: ma tutto finisce lì. Almeno per il momento.

 

Nelle lettere di risposta a Wallace Darwin accenna allo stato delle proprie ricerche, dicendo che c’è ancora molto da fare e che occorreranno anni per arrivare ad una proposta teorica saldamente fondata. Di anni in realtà Darwin se ne è già presi parecchi, se si considera che le prime riflessioni sulla selezione naturale e sui possibili fattori evolutivi risalgono almeno al 1838, a ridosso immediato del viaggio del Beagle, e che un abbozzo della teoria era già stato dato in lettura ad alcuni amici nel 1844. Perché non arriva ad una conclusione?

Darwin è in realtà frenato da due diversi timori. Intanto, è una persona decisamente “solida” nel modo di pensare: come tale, alle teorie vuole che corrispondano i fatti, anzi, vuole che le prime discendano dai secondi; e anche se la stragrande maggioranza dei fatti confermano il suo modello teorico, rimangono comunque alcune zone oscure che potrebbero rendere fragile e attaccabile l’insieme dell’edificio teorico. Darwin non ama il rischio: vuole certezze, e vuole trasmetterle.

In secondo luogo, è il primo ad essere spaventato dalle conseguenze delle sue scoperte. Non ne è turbato per motivi religiosi, ma senz’altro per quella che potrebbe essere la ricaduta etica. Capisce benissimo che gli spiriti alti non possono che essere gratificati da una conoscenza nuova, ma non è affatto sicuro che la cosa valga per tutti. Teme che la sua teoria possa essere strumentalizzata, come in effetti avverrà, e piegata a giustificare posizioni politiche e morali che in essa non sono affatto implicite. Per questo passerà il resto della sua vita a prendere le distanze da qualsiasi interpretazione non scientifica dell’evoluzionismo. Teme insomma che la verità che emerge dai suoi studi possa essere sentita come troppo cruda da chi non ha gli strumenti e l’apparato per digerirla. Per questo sta cincischiando, e continua a raccogliere materiali su materiali, quasi a dare alla sua teoria una consistenza inattaccabile, a schiacciare sotto il peso della documentazione qualsiasi obiezione.

Wallace ha un carattere diverso. Mentre veleggia su e giù per l’arcipelago, alla ricerca dell’uccello del paradiso (compie tre spedizioni, alle isole Aru nel 1857, alle Molucche l’anno successivo e in Nuova Guinea nel 1860; verranno descritte nel 1862 in Narrative of Search after Birds of Paradise), continua a rimuginare sull’ultima parte ancora scoperta della sua teoria, quella che dovrebbe rispondere alla domanda: in che modo avviene l’evoluzione? “Il saggio che scrissi a Sarawak mi aveva convinto che la trasformazione della specie doveva aver luogo per una naturale successione genealogica: lentamente o velocemente una specie si trasforma in un’altra. Tuttavia l’esatto processo della trasmutazione e le cause che lo rendevano possibile erano totalmente sconosciute, tanto da sembrare quasi inconcepibili.[10] Per trovare la risposta deve attendere un accesso febbrile (ancora la malaria) che da un lato lo costringe ad un forzato riposo, dall’altro gli induce evidentemente uno stato di eccitazione mentale particolare. Gli capita più o meno quello che è accaduto a Cartesio, che da un letto di infermo ha rivoluzionato la percezione e la rappresentazione dello spazio. La folgorazione è attivata dall’improvvisa reminescenza del saggio di Malthus sulla popolazione. La chiave è lì, nei freni alla crescita demografica che Malthus elenca e nella capacità di sopravvivenza di coloro che riescono meglio ad adattarsi. Vista ora, sembra la scoperta dell’acqua calda: è ovvio che chi è più adatto sopravvive meglio: ma pensiamo a che salto comporta rispetto alla convinzione che gli dei chiamino a sé prematuramente i migliori, che una morte in battaglia o un martirio per fede valgano mille vite, convinzione che in varie versioni e riletture aveva dominato tanto la cultura classica quanto quella cristiana, ed era tornata in auge col romanticismo. È una bella doccia gelata per la presunzione di superiorità e unicità spirituale dell’uomo, visto che la legge vale per lui come per ogni altro animale.

Come racconterà nella sua autobiografia, Wallace scrive di getto, in una sola sera, un articolo che poi mette in bella copia nei due giorni successivi; e lo spedisce immediatamente a Darwin, certo di fargli una cosa enormemente gradita. Il saggio arriva al destinatario quasi quattro mesi dopo, e per poco non gli procura una sincope. È la versione riassunta in venti pagine di quanto Darwin sta mettendo assieme da vent’anni[11].

È forse utile precisare che quando si parla per Wallace di una improvvisa folgorazione e per Darwin di un lento e ponderato percorso, questi non concernono l’idea di evoluzione, ma la spiegazione dei meccanismi evolutivi. Il frutto dei due diversi approcci è insomma una teoria fondata sull’osservazione diretta dei fenomeni e sull’assemblaggio e la rielaborazione meditata dei loro significati. Nessuno dei due “scopre” l’evoluzione: scoprono entrambi, più o meno contemporaneamente e pressoché negli stessi termini, come l’evoluzione funziona.

Una visione evoluzionistica della vita era in realtà presente, a livello però semplicemente intuitivo, da moltissimo tempo; addirittura potremmo risalire al pensiero dei “fisiologi” della scuola ionica di Mileto, i filosofi-naturalisti pre-socratici. Già nella prima metà del VI secolo Anassimandro postulava l’esistenza di un processo evolutivo delle specie animali (uomo compreso)[12], e tracce di una concezione “evolutiva”, almeno per quanto concerne il livello di civiltà umana, le troviamo anche in Democrito; tracce che attraversano tutta l’epoca classica e riemergono in Epicuro e in Lucrezio (anche qui, però, in connessione con una generica idea di progresso)

Un altro ionico, Anassagora, aveva sottolineato la funzione evolutiva di alcuni organi, primo tra tutti la mano. Malgrado questa osservazione fosse stata poi sconfessata e oscurata dal magistero di Aristotele, che imponeva il fissismo, la sua eco permane evidentemente anche nella tarda antichità e nel pensiero cristiano, se Gregorio Nisseno nella seconda metà del IV secolo torna sul tema della mano per spiegare la superiorità dell’uomo rispetto agli altri animali, e dice che ad un certo punto la natura dotò l’uomo della mano (si badi bene, la natura, non Dio), o addirittura che le zampe si evolsero in mano.

A cercarli, gli indizi di una concezione evolutiva carsicamente riemergente si troverebbero anche nella filosofia medioevale: ma è nella seconda metà del seicento che essa comincia a trovare formulazioni esplicite e concrete fondamenta scientifiche, prendendo spunto soprattutto dalla “rivoluzione” delle teorie geologiche innescata da Thomas Burnet[13] e portata a compimento da Hutton[14] e da Lyell. L’input arriva dai primi studi sui fossili. Nicola Stenone inferisce dalla successione stratigrafica di quelli che erano stati in precedenza liquidati come “divertimenti divini” un mutamento costante che interessa le specie[15]. L’idea di una trasmutazione vera e propria viene sostenuta da Benoit de Maillet[16], mentre Pierre–Louis de Maupertuis parla di sopravvivenza del più adatto[17] e Buffon abbraccia decisamente l’idea di un lento processo di nuove speciazioni[18]. Nei dialoghi che segnano la nascita del materialismo moderno Diderot si fa assertore della continua rinascita dei diversi organismi in forme nuove.[19] Lo stesso nonno di Darwin, Erasmus, applica una concezione evoluzionistica ai suoi studi di botanica e di genetica [20]

Nella prima metà dell’ottocento il concetto di evoluzione è quindi, almeno a livello scientifico, ormai acquisito. La prima compiuta formulazione teorica arriva con Jean-Baptiste Lamarck, che fonda il processo evolutivo sulla ereditarietà dei caratteri acquisiti[21]. È un serio tentativo di identificare quei meccanismi che rendono possibile lo sviluppo delle differenze all’interno di una specie, e sul lungo periodo la nuova speciazione. Il limite, giustificabilissimo in base alle conoscenze dell’epoca, è quello di postulare che un agente esterno possa indurre nell’organismo modificazioni ereditabili. In Inghilterra si procede con maggior cautela: si accumulano mattoni di varia provenienza in vista della costruzione finale. William Charles Wells, ad esempio, studia l’adattamento degli organismi al clima, mentre Patrick Mattews parla chiaro e tondo di “selezione” dei più adatti e Charles Lyell nel campo della Geologia fissa definitivamente il concetto di trasformazione costante della cresta terrestre[22]. Nel 1844 addirittura, come abbiamo già visto, Robert Chambers anticipa una compiuta teoria evoluzionistica, che non ha il supporto di intuizioni scientifiche innovative (l’assunto è lamarkiano, il presupposto è creazionista) ed è finalizzata soprattutto a giustificare l’idea di un progresso sociale, ma azzarda comunque un disegno globale[23]. A questa farà riferimento nel decennio successivo la filosofia evoluzionistica di Herbert Spencer,[24] che nel suo Sistema di filosofia generale si richiama a Darwin, ma ha già adottato un approccio evoluzionistico almeno a partire dal 1851.

Insomma, l’evoluzionismo non è solo nell’aria, ha già fondamenta solide ed è ormai radicato nella cultura anglosassone. A questo punto manca soltanto l’enigmista in grado di unire i puntini degli indizi e delle evidenze e ricavarne un concetto che riassuma i meccanismi evolutivi. Il concetto è quello di selezione naturale, o sopravvivenza del più adatto, e nel 1858 gli enigmisti sono addirittura due.

 

In quell’anno va infatti in scena una vicenda che ha molti aspetti ambigui, ma che tutto sommato mi pare edificante, per la lealtà e la dirittura morale mostrata da entrambi i protagonisti.

Quando si riprende dallo shock che la lettura dello scritto di Wallace gli ha procurato Darwin non sa che pesci pigliare. L’articolo riassume quasi esattamente il suo pensiero, gli è stato inviato con la preghiera di farlo leggere a Lyell e di renderlo pubblico, inoltrandolo alla Linnean Society, e tecnicamente è la prima comunicazione ufficiale di una teoria che spieghi i meccanismi dell’evoluzione. L’idea di ignorarlo non lo sfiora nemmeno: onestamente ritiene che a Wallace debba essere riconosciuto il suo merito, e medita di inoltrare subito lo scritto ad alcune riviste scientifiche. Dall’altro lato, però, ci sono i vent’anni spesi nella costruzione del proprio edificio teorico. Si rivolge quindi a Lyell, che già conosce il percorso di Wallace e ne aveva intuiti i possibili esiti, e si affida a lui. Lyell, assieme ad un altro corrispondente e amico di Darwin, il botanico Joseph Hooker, trova la soluzione che salva capra e cavoli. Viene organizzata una presentazione congiunta alla Linnean Society, nella quale è data lettura sia di un manoscritto che Darwin aveva fatto circolare tra alcuni amici nel 1844, che contiene il primo abbozzo della teoria, assieme ad una lettera sullo stesso tema indirizzata al naturalista americano Asa Gray nel 1857, sia del breve saggio di Wallace. Darwin non presenzia nemmeno alla seduta: proprio in quei giorni sta infatti vivendo il dramma della perdita di un figlio. La scelta di presentare il manoscritto del 1844, invece che un estratto dell’opera in gestazione, ha comunque un ben preciso scopo: si sancisce una primogenitura, si brevetta l’idea originale. Nel contempo Darwin, che per uno scrupolo etico continua a nutrire riserve sulla soluzione adottata, viene stimolato ad uscire dai dubbi e dal torpore, e comincia a lavorare a tempo pieno per pubblicare il prima possibile almeno una parte di quanto ha già scritto.

Anche questa volta sulle prime la comunicazione congiunta non suscita grosse reazioni: ma è una bomba a reazione ritardata, e ad accelerare l’innesco provvedono proprio gli amici di Darwin, in particolare Thomas Huxley[25], che creano una particolare aspettativa attorno all’opera tanto annunciata. A Wallace viene comunicato come si è proceduto, e ne è addirittura entusiasta. L’idea di essere stato messo alla pari con un’autorità riconosciuta come Darwin non gli pare vera. E poi, è perfettamente conscio che la priorità morale, almeno per quanto concerne i tempi e la quantità degli studi dedicata, spetta a quest’ultimo. “Naturalmente non solo fui d’accordo, ma sentii che essi mi avevano onorato e riconosciuto maggior credito di quanto meritassi, nell’equiparare la mia fulminea intuizione – scritta in fretta e sottoposta subito al parere di Darwin e Lyell – al lungo lavoro di Darwin, il quale aveva raggiunto lo stesso risultato vent’anni prima di me.”

In realtà, il risultato non è esattamente lo stesso. Le due teorie non sono identiche. Per Wallace la selezione degli inadatti è operata dall’ambiente, mentre Darwin parla piuttosto di competizione tra gli individui. Sullo sfondo ci sono due “culture politiche” diverse, perché Wallace ha una formazione socialisteggiante e crede nella natura positiva dell’uomo, convinzione che come vedremo è rafforzata dal contatto con le fiere popolazioni malesi, laddove Darwin, più conservatore, ha in mente lo stato miserabile di brutalità in cui durante il viaggio del Beagle ha visto vivere i fuegini. Per Wallace, inoltre, la selezione persegue un fine superiore, la realizzazione di un uomo perfetto, e conseguentemente di una società giusta: Darwin sottolinea invece che l’evoluzione non è necessariamente un “progresso”, ma essenzialmente una successione di stati.

Quando l’anno successivo esce “L’origine delle specie” l’ambiguità della situazione si risolve da sola. Wallace è lontano, in Nuova Guinea, in cerca di esemplari dell’uccello del paradiso: è preso da altre cose, e proprio in questo periodo invia alla Linnean Society un altro lungo articolo, “Sulla zoologia geografica dell’arcipelago malese” che viene apprezzato e che può essere considerato l’atto di fondazione della biogeografia evoluzionistica.

La battaglia si scatena quindi tutta attorno all’opera e al pensiero di Darwin. Il nome di Wallace, nell’infuocato dibattito successivo, non compare nemmeno. Egli stesso ritiene che sia giusto così, e continuerà a ribadirlo sino alla fine: «È stato affermato… che io e Darwin abbiamo simultaneamente scoperto la selezione naturale: anzi, alcuni commentatori hanno dichiarato che fui io il primo a scoprirla e ad aprire la strada a Darwin. Credo sia opportuno riportare i fatti oggettivi nel modo più semplice e chiaro. L’unico fatto che mi associa a Darwin è che l’idea di ciò che oggi chiamiamo “selezione naturale” o “sopravvivenza del più adatto”, insieme alle sue pregnanti conseguenze, ci venne in mente indipendentemente. Quello che invece viene spesso dimenticato è che tale idea venne a Darwin nel 1838, ovverossia quasi vent’anni prima che a me, e che durante tutti quei vent’anni egli aveva continuato a raccogliere prove … Perché così sono andati i fatti, io non avrei avuto alcun motivo di lamentarmi se da allora i nostri rispettivi contributi fossero stati stimati proporzionalmente al tempo che ciascuno di noi aveva dedicato al problema, il che sarebbe come dire vent’anni contro una settimana”[26]».

Quindi Wallace non si aspetta, quando finalmente nel 1862 rientra in patria, dopo otto anni di permanenza “sul campo”, di trovare attorno a sé un particolare interesse. Gli è sufficiente sapere di essere stato lo strumento inconsapevole che ha smosso Darwin dalle sue incertezze. D’altro canto Darwin lo apprezza, Huxley e Lyell lo ricevono a casa loro, forse anche perché si sentono un po’ in colpa: tutto sommato ritiene di non avere di che lamentarsi, dal momento che ormai, grazie anche a queste conoscenze, è entrato a pieno titolo nel novero dei naturalisti degni di considerazione.

 

Nel frattempo il clamore delle polemiche accese dall’opera di Darwin non accenna a spegnersi. Nel 1863 Huxley getta ulteriore benzina sul fuoco con la pubblicazione de Il posto dell’uomo nella natura, nel quale abbandona ogni cautela e parla senza mezzi termini di discendenza dell’uomo da un antenato scimmiesco (mentre Darwin ne “L’origine” aveva accuratamente evitato di toccare l’argomento, ancorché la cosa fosse implicita). La rottura del tabù sull’origine dell’uomo incoraggia anche Wallace a trarre delle conclusioni dalle sue esperienze di viaggiatore-esploratore: nel 1864 pubblica un saggio su “L’origine delle razze e l’antichità dell’uomo”, che riscuote stavolta una grossa attenzione e che assieme ai diari offre il destro per valutare la sua posizione sul tema delle razze umane e il suo atteggiamento nei confronti delle culture primitive con le quali è venuto a contatto. Per seguire lo sviluppo del suo pensiero, che è piuttosto tortuoso, è opportuno però tornare all’esperienza amazzonica.

La terza e più inattesa sensazione di sorpresa (le prime due riguardano la maestosità della foresta vergine e la strabiliante varietà e squisita bellezza delle farfalle e degli uccelli) e di gioia fu il mio primo incontro e la vita a contatto con l’uomo allo stato di natura, con selvaggi assolutamente incontaminati” scrive nella sua autobiografia[27]. Quello del “selvaggio incontaminato” è un topos che ricorre in tutti i resoconti di viaggio dei naturalisti-esploratori, da Humboldt a Darwin, da Beltrami a Boggiani. “…Quegli autentici indios selvaggi non avevano nulla di ciò che noi chiamiamo vestiti, ma solo bizzarri ornamenti … ma erano soprattutto il loro aspetto complessivo e i loro modi di essere differenti, i loro lavori e i loro svaghi, per i quali andavano tutti di qua e di là, non avevano nulla a che vedere con l’uomo bianco e con le sue abitudini: camminavano con il passo sciolto dell’indipendente uomo della foresta e non facevano la benché minima attenzione a noi, puri stranieri di una razza aliena …”. Non è più il “buon selvaggio” del Settecento, né quello filosofo di Chateaubriand, ma non è neanche il “bruto” della gerarchia razziale positivista. “Erano uomini autentici che contavano solo sulle proprie forze, senza alcuna dipendenza dalla civilizzazione, e che riuscivano benissimo a vivere a modo loro, come avevano fatto per innumerevoli generazioni”.

Il confronto tra l’abbrutimento morale e anche fisico degli indigeni “civilizzati” e la dignitosa fierezza di quelli “bravos” induce le più amare considerazioni sugli effetti corruttori della “civilizzazione”. “Mi è sempre sembrata una vergogna della nostra civiltà il fatto che quelle brave genti non siano mai state salvaguardate, nemmeno in un caso, dalla corruzione dovuta ai vizi e alle follie delle nostre classi più degradate …Quello che abbiamo fatto, o lasciato che non venisse fatto, avendo avuto come risultato la degradazione e il lento sterminio di un così bel popolo, è una delle tragedie più tristi della nostra civiltà.”

Considerazioni analoghe sono suggerite a Wallace dall’incontro con le popolazioni malesi. Mentre nel primo villaggio di cui è ospite sulle isole Aru constata che “una grande monotonia e una piatta uniformità caratterizzano la vita quotidiana … la loro mi sembrò un’esistenza veramente misera”, quando si inoltra nella foresta vergine e arriva ad un villaggio tradizionale, lontano dai contatti con la civiltà, sente che “ … più ne approfondivo la conoscenza, più cresceva in me l’interesse per questa gente che rappresentava un chiaro esempio della popolazione autoctona delle Aru: veri selvaggi praticamente immuni da mescolanze forestiere…. Gli indigeni di razza pura hanno una migliore qualità di vita, come risulta dal fatto che godono di maggior salute, hanno fisici più prestanti e in genere la pelle più pulita” [28].

Queste osservazioni vengono sviluppate in chiave teorica ne L’origine delle razze, ma per certi aspetti ne risultano anche contraddette. Andiamo con ordine. Wallace si inserisce nel dibattito tra poligenisti e monogenisti, reso incandescente dalla questione della schiavitù e, proprio in quegli anni, dalla guerra civile americana[29]. Lo fa adottando una posizione molto sfumata. Parte sottolineando le differenze esistenti tra le società animali e quelle umane, anche quelle rimaste ad un livello di civiltà più basso. In queste ultime, dice, esistono comunque fenomeni di cooperazione, di “mutuo soccorso” e di divisione del lavoro, che non sono presenti nelle prime. Esiste anche la competizione, come vuole Darwin, ma si svolge tra gruppi, piuttosto che tra individui. Il salto è netto: a livello di specie non ci sono posizioni intermedie, da attribuirsi a “creazioni” o a “evoluzioni” separate. C’è invece una sola specie originaria, che a sua volta si è differenziata in diverse razze per opera dei meccanismi naturali, in primis la selezione.

La selezione ha continuato infatti ad operare a livello di modificazioni fisiche, determinando prima la speciazione, poi all’interno della specie le differenti caratteristiche morfologiche dei gruppi, sino a quando gli uomini non hanno sviluppato facoltà superiori, vale a dire intellettive e morali: da quel momento in poi la pressione ambientale si è trasferita sulle menti. “Dal momento in cui la prima pelle venne adoperata come coperta, la prima rozza lancia venne forgiata per essere usata nella caccia, il primo seme interrato o il primo germoglio piantato, una grande rivoluzione si realizzò nella natura … perché era comparso un essere non più inevitabilmente costretto a modificarsi al mutare dell’universo – era nato un essere che, in un certo senso, era superiore alla natura, visto che sapeva come controllarne e regolarne l’azione, e che poteva mantenersi in armonia con essa non tanto modificandosi nel corpo, quanto progredendo con la mente”. Questa rivoluzione non concerne quindi solo il rapporto con la natura, ma anche quello tra gli individui: induce cioè la nascita di sentimenti morali e sociali, primo tra tutti quello della solidarietà. Ora, proprio i gruppi più capaci di cooperazione sono quelli destinati a trionfare, mentre gli altri finiscono per estinguersi. Ma perché tale capacità si è sviluppata maggiormente in alcune razze piuttosto che in altre, determinando livelli diversi di civilizzazione? Wallace la spiega così: “Dal momento in cui quel potere, che fino ad allora aveva manipolato il corpo, trasferì la sua azione sulla mente, le razze sarebbero migliorate e progredite solo grazie alla severa disciplina di un suolo sterile e di stagioni inclementi … Non è forse vero che in tutte le epoche e in tutti gli angoli della terra gli abitanti dei paesi temperati sono sempre stati superiori a quelli che vivevano nelle regioni tropicali?” Il che parrebbe portarci, a dispetto del fatto che il termine razza venga usato in una accezione culturale e non biologica, pericolosamente vicini al confine che separa i sostenitori di una insuperabile diversità dagli assertori di una sfumata differenza.

Ma le cose non stanno così. Alla luce di una pubblicazione successiva, lo studio su I limiti della selezione naturale applicata all’uomo(1870), si capisce dove Wallace vada veramente a parare. Come vedremo, l’intento del saggio è dimostrare che al di là della selezione, per quanto concerne l’uomo, “qualche altra legge è stata all’opera”. Ciò che però qui ci interessa è che dall’analisi delle comparazioni craniometriche e dal confronto tra le facoltà raziocinanti, linguistiche, estetiche e morali dell’uomo civilizzato e del selvaggio Wallace deduce che “ogni significativo sviluppo di queste facoltà sarebbe per il selvaggio inutile o persino dannoso, poiché potrebbe in qualche modo interferire con la supremazia di quelle facoltà percettive e istintive sulle quali egli fa spesso affidamento proprio per sopravvivere all’aspra battaglia che deve condurre contro la natura e contro i propri simili. Tuttavia, in nuce, tutte queste potenzialità e questi sentimenti esistono sicuramente in lui … Possiamo concludere che esse sono sempre latenti e che il suo grande cervello è sovradimensionato per le reali richieste della sua condizione di selvaggio”.

Nulla a che vedere quindi con differenze biologiche, e ciò si riconcilia in qualche modo con la considerazione positiva dei “selvaggi”, e ci riporta nell’ambito non di una forma di razzismo, ma piuttosto di un ambiguo differenzialismo: magari poco in sintonia con la tendenza dell’epoca, ma senz’altro molto attuale.

 

Una volta riambientatosi nella “civiltà” Wallace cerca di recuperare il tempo perduto, e a quarantatré anni sposa una ragazza che ne ha venticinque di meno. Nel giro di cinque anni nascono tre figli, due dei quali sopravvivono. La vita sentimentale e familiare sarebbe serena, non fosse per i problemi economici. La reputazione, sia pure relativa, che i suoi studi gli hanno creato e la frequentazione degli ambienti ufficiali non bastano ad assicurargli una sistemazione decorosa. Non riesce a trovare un impiego (alla Royal Geografic Society è in concorrenza proprio con Bates, e gli viene preferito quest’ultimo), cerca invano di ottenere la direzione di qualche museo, si improvvisa progettista di parchi pubblici, ma senza alcun risultato. Riesce persino ad imbarcarsi in alcune speculazioni sbagliate, che danno fondo a quel che rimane del piccolo gruzzolo accumulatogli da Stevens durante la campagna di ricerca in Malesia. Sembra di rivedere il film della sua infanzia: inanella una serie infinita di traslochi (l’ultimo ad ottant’anni), ogni volta ricominciando da capo. Darwin e gli altri suoi corrispondenti scientifici non sanno mai da dove arriverà la prossima missiva.

È proprio Darwin, infine, nel 1881, a perorare e ad ottenere in suo favore il conferimento di una pensione per meriti scientifici. Non è molto, ma è sufficiente a garantirgli una certa tranquillità. Tutt’altro che tranquilla è invece l’attività intellettuale e scientifica di Wallace (il che probabilmente spiega anche le difficoltà a trovare un impiego fisso). Con l’articolo sull’origine delle razze umane ha infatti inizio la sua fase “revisionista” (una “metamorfosi in direzione retrograda”, la definisce Darwin). In realtà non sconfessa nulla di quanto ha scritto in precedenza, ma ritiene che occorra andare oltre. L’evoluzionismo e la selezione naturale spiegano tutto, ma si fermano di fronte all’uomo. Quell’oltre non ha più nulla a che vedere con la selezione naturale e con gli altri meccanismi evolutivi. Quell’oltre è lo spirito.

In un primo momento, in realtà, sono piuttosto “gli spiriti”. L’attrazione per l’occulto e il paranormale, sopita dalle esperienze di ricerca negli angoli più remoti del globo, si riaccende una volta tornato a Londra. Partecipa a sedute spiritiche e ad esperimenti di ipnotismo, e si fa apostolo di queste pratiche. Propone una partecipazione persino ad Huxley, il “mastino di Darwin”, e par di vedere quest’ultimo mentre gli risponde senza mezzi termini che sono cose per matti o per dementi. Scrive anche una serie di saggi su “L’aspetto scientifico del soprannaturale”, che lasciano seriamente imbarazzati gli amici, primo tra tutti Darwin. Ma l’imbarazzo diventa profonda delusione quando nel già citato saggio apparso nel 1870 mette in questione “I limiti della selezione naturale applicati all’uomo”. Qui non si tratta più di stramberie: è in gioco la credibilità dell’intera teoria evoluzionistica, tanto più che Darwin è uscito allo scoperto ed è in procinto di pubblicare, l’anno successivo, “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale”.

Il ragionamento dal quale muove Wallace è il seguente: “Se troviamo nell’uomo dei caratteri che, in base a tutte le prove in nostro possesso, mostrano di essere stati veramente dannosi al primo momento della loro comparsa, o degli organi specializzati del tutto inutili per l’uomo, o il cui utilizzo non è proporzionato all’effettivo grado di sviluppo, ciò potrebbe significare che non sono stati prodotti dalla selezione naturale … che qualche altra legge o qualche altra forza è stata all’opera. Se poi ci accorgessimo che proprio queste modificazioni, ancorché nocive o inutili al tempo della loro comparsa, divennero molto più tardi estremamente vantaggiose, e sono ora essenziali per il pieno sviluppo morale e intellettuale della natura umana, dovremmo dedurne l’azione di una mente che prevede e lavora per il futuro”. Parte in fondo dalla stessa constatazione che tanto turbava Darwin, quella della comparsa e soprattutto del persistere inspiegabile di caratteri non solo inutili, ma oggettivamente d’impaccio nella lotta per la sopravvivenza (la famosa coda del pavone): e tiene anche conto correttamente del fatto che la positività o negatività di un carattere va giudicata sul lunghissimo periodo, nell’ottica di possibili trasformazioni ambientali. Tutto questo, però, solo per dedurne che se compare un carattere la cui utilità o funzione non è immediata, e questo carattere non viene spazzato via dalla selezione naturale, ciò accade perché esiste un preciso disegno finalistico-teleologico nel quale ogni mutazione è iscritta. Ciò, agli occhi di un darwiniano ortodosso, che assume il caso a motore unico dell’evoluzione, suona come una resa e come un’eresia.

Non è la fine della carriera scientifica di Wallace, che come abbiamo visto continua a fornire contributi di valore nel campo della biogeografia. I suoi scritti sull’argomento, La distribuzione delle piante (1876) e Island Life (1880), sono entusiasticamente recensiti da Darwin, e ancora a metà degli anni ottanta Huxley propone di chiamare “linea di Wallace” la linea di demarcazione tra l’est e l’ovest dell’arcipelago malese, dove il naturalista aveva maturato le sue prime osservazioni sulla distribuzione e sull’evoluzione delle specie zoologiche. Ma è indubbiamente un grosso colpo alla sua credibilità come evoluzionista, e viene percepito come un disconoscimento di paternità, anche se Wallace continua coerentemente a sostenere, per tutto il mondo animato tranne che per l’uomo, la validità della selezione naturale come spiegazione del meccanismo evolutivo (tanto da pubblicare nel 1889 un trattato sulla selezione naturale con il titolo “Darwinismo”).

 

Confesso che ho una spiccata tendenza a liquidare ogni discorso sullo spiritismo e il paranormale, ma anche sul soprannaturale in genere, come “temporanea apparizione mentale”, per usare un eufemismo; provo irritazione e una notevole riluttanza anche solo a parlarne. Nel caso di Wallace sento però di poter fare un’eccezione. Non è questione di simpatia di pelle, che a tutto mi indurrebbe tranne che a giustificare queste inclinazioni: è che ci scorgo dietro qualcosa di più di una semplice mania o debolezza psicologica, e soprattutto non mi sembra in contraddizione più di tanto rispetto al filone serio del suo pensiero.

Mi spiego. Ho letto gli scritti di Wallace sullo spiritismo e sul paranormale, e li ho trovati, come già avevano fatto Darwin e Huxley, imbarazzanti, patetici nella pochezza e nel candore col quale si ostinano a perorare una causa assurda e a tentare di darne spiegazione su basi scientifiche, partendo dall’assunto che la scienza deve indagare proprio i misteri, e non rigettarli a priori. “L’esistenza di tali intelligenze preter-umane, – afferma – qualora provata, aggiungerebbe solo un ulteriore esempio, il più strabiliante di qualsiasi altro finora osservato, di quanto minima sia la porzione del grande cosmo che i nostri sensi ci permettono di conoscere” Wallace ritiene che l’uomo sia “una dualità, consistente in una forma spirituale organizzata, evolutasi in permeante coincidenza con il corpo fisico, e dotata di sviluppo e organi corrispondenti”, che “la morte scinde questa dualità senza produrre sullo spirito alcun cambiamento, né morale né intellettivo” e che “gli spiriti possono comunicare con i vivi attraverso individui dotati di capacità medianiche”. E aggiunge: “Noi siamo circondati da una schiera di parenti e amici partiti prima di noi, che hanno un certo potere di influenzare, e in certi casi persino di determinare, le azioni dei vivi”. Ora, è comprensibile che possa essere consolante per lui sentirsi accanto il fratello William, che gli aveva fatto da padre, o Herbert, per la morte del quale un po’ si sentiva responsabile, oppure il piccolo Herbert Spencer, il suo primogenito morto a sei anni: ma conoscendo i suoi articoli sulla selezione naturale vien rabbia a pensare che tanta intelligenza e acutezza possano essersi sprecate su simili argomenti. E tuttavia …

Tuttavia nel caso di Wallace ci sta; nel senso che è almeno spiegabile. Intanto c’è una motivazione “esterna”, quella che meno giustifica, ma che va comunque tenuta in considerazione: spiritismo, occultismo e paranormale sono molto di moda nel secondo Ottocento, soprattutto nell’Inghilterra vittoriana (e sono spiritisti addirittura i maggiori grandi rappresentanti del pragmatismo americano, William James e Charles Peirce). Questa potrebbe sembrare semmai un’aggravante – anche Darwin e Huxley vivono nell’Inghilterra vittoriana, ma di spiriti non vogliono sentir parlare – mentre in realtà rivela che Wallace è in fondo più moderno dei due granitici positivisti, perché è già permeato dallo spirito, appunto, del decadentismo. Il che non è un gran merito, almeno ai miei occhi, ma rivela una sensibilità più complessa.

C’è però dell’altro, e questo mi pare importante. A dispetto del campo delle sue ricerche e degli esiti di queste ultime Wallace non è mai stato un materialista convinto. La sua curiosità per lo spiritismo risale come abbiamo visto al periodo di Leicester, e già dai tempi dell’Amazzonia alcuni esperimenti di comunicazione mentale compiuti con gli indigeni, dei quali racconta nel suo diario, rivelano una concezione “psichica” dell’universo, l’idea che esista una dimensione ulteriore, nella quale gli spiriti degli uomini d’ogni tempo sopravvivono alla corruttibile materialità, e che costituisce una impalpabile e rassicurante rete comunicativa. Tutto questo parrebbe esulare dalla concezione evoluzionistica, ma per Wallace ne è invece il compimento: in sostanza, tutto il processo evolutivo, tutte le leggi che lo governano, sarebbero finalizzate al raggiungimento di questo stadio di perfezione. Non solo: è ipotizzabile, anzi, è certo che prima o poi anche tale dimensione immateriale possa essere indagata con gli stessi criteri di scientificità con i quali si è fatta luce sui meccanismi dell’evoluzione (non arriva a tempo a conoscere gli esiti filosofici della psicoanalisi, ma certamente lo avrebbero intrigato).

Ciò comporta naturalmente l’idea di una eccezionalità umana, di un destino speciale per la nostra specie. Antropocentrismo, si dirà. Fino ad un certo punto. Nella concezione di Wallace c’è spazio per tutti, con eguale dignità: “Pensai alle lunghe epoche del passato, durante le quali generazioni e generazioni di questa piccola creatura avevano f atto il loro corso, di anno in anno, nascendo, vivendo e morendo nel fitto di scure e tenebrose foreste, senza che nessun occhio intelligente ne osservasse lo splendore. A quanto pare un inutile spreco di bellezza. …. Tale considerazione ci porta inevitabilmente a negare l’assunto secondo il quale tutti gli esseri viventi furono fatti per l’uomo. … La loro felicità e i loro piaceri, i loro amori e odi, le loro lotte per la sopravvivenza … sembrano avere direttamente a che fare solo con il loro benessere individuale e la loro riproduzione.[30] D’altro canto tutti hanno la stessa origine: ma allo stesso modo in cui da una specie ne nasce un’altra, compiendo un salto qualitativo, può essere ipotizzato un salto qualitativo all’interno della specie stessa. E questo salto l’uomo, secondo Wallace, lo ha fatto. Scrive nella introduzione al saggio sui limiti della teoria della selezione: “Credo di aver provato che, non appena l’intelletto umano ebbe raggiunto un grado di sviluppo al di sopra di una soglia minima, il corpo dell’uomo avrebbe cessato di essere materialmente influenzato dalla selezione naturale, in quanto lo sviluppo delle sue facoltà mentali avrebbe reso inutili significative modifiche della sua forma e della sua struttura”. Non è un argomento banale.

D’altro canto, non è l’unico a sostenerlo: nello stesso periodo lo dice anche Marx (Engels ne è un po’ meno convinto) quando sostiene che per quanto concerne l’uomo ad un certo punto la storia naturale ha lasciato il posto a quella culturale. I modi e i percorsi che poi ne derivano sono per i due molto diversi, ma la finalità, in fondo, è la stessa: il progresso e il perfezionamento dell’uomo. Questo è il motore dell’eresia di Wallace: l’idea che tutta quell’immane vicenda di nascite e crescite ed estinzioni che lui stesso ha contribuito a chiarire debba aver uno scopo ben più nobile del puro perpetuarsi della vita. Non accetta le conseguenze di ciò che ha capito, e questo lo porta, visto che razionalmente non ci sono vie d’uscita, a buttarsi tra le braccia dell’irrazionale. È una debolezza, certo, ma è indotta da un entusiasmo persino eccessivo per ciò che lo ha appassionato, al punto di non consentirgli di accontentarsi del risultato.

 

Con l’articolo del 1858 Wallace sente di aver raggiunto solo uno scopo parziale, quello scientifico. Ha risposto alla domanda: come accade? Non è svuotato, ma al contrario di Darwin, che continua a girare attorno al suo edificio teorico e produrrà tutte le sue ulteriori opere a suffragio e completamento de L’Origine, non lo sente più come l’interesse prioritario. Probabilmente ha anche la coscienza di non possedere i mezzi per andare oltre nella spiegazione. Il suo contributo lo ha dato, agli altri (agli specialisti come Huxley e Hooker) sta ora il compito di portarlo avanti.

Non per questo abbandona l’idea di evoluzione. Semplicemente la sposta, dalla biologia allo studio dei comportamenti e dei problemi sociali. Entra nel campo davanti al quale la biologia si arresta. Si pone la domanda: perché?

La risposta che concepisce induce anche un cambio di atteggiamento per quanto concerne la presenza pubblica. Schivo e sin troppo modesto, Wallace è rimasto senza troppi problemi nell’ombra, sino a quando si è trattato di studiare la natura. Ora, dopo che il suo interesse si è trasferito decisamente sul problema della società umana, sente il dovere di esporsi pubblicamente, magari facendo valere le sue credenziali scientifiche: non certo per trarne qualche vantaggio o celebrità, ma per giovare alla causa dei suoi simili. Sempre più frequentemente quindi interviene nel dibattito pubblico, e non c’è causa sociale che non lo veda schierato.

Wallace non può essere ascritto ad alcun movimento politico specifico. Si professa apertamente socialista (“Sono assolutamente convinto che il socialismo non solo sia perfettamente attuabile, ma sia anche l’unica forma di società degna di uomini civili. Solo esso infatti può assicurare all’umanità un contino avanzamento intellettuale e morale ….”), ma il suo socialismo che non ha nulla a che vedere con il marxismo o con le altre varianti del progressismo riformatore o rivoluzionario: non prende spunto da Marx ma dai romanzi utopistici di Bellamy[31]. Sarebbe forse più corretto definirlo in negativo, come un anticapitalista. Il socialismo è per lui “l’organizzazione del lavoro per il bene di tutti”. “Che economia si avrà quando tutte le industrie di un intero paese saranno uniformemente strutturate per il bene comune, quando tutti gli impieghi assolutamente inutili o non necessari saranno aboliti – come le miniere d’oro o di diamanti, o come i nove decimi degli avvocati e di tutti i faccendieri e i giocatori di borsa? È chiaro che in un sistema così organizzato un lavoro di tre o quattro ore al giorno per cinque giorni la settimana, svolto da tutte le persone di età compresa tra i venti e i cinquant’anni, produrrebbe in abbondanza e per tutta la popolazione tutto il necessario per vivere in agiatezza, con tutte le raffinatezze e i sani piaceri della vita.” È una visione utopistica della società che discende direttamente, come abbiamo visto, dalla fiducia totale nella perfettibilità dell’uomo.

Wallace è anche un ecologista, fervido sostenitore ante-litteram del “piccolo è bello”. In un articolo contro l’adozione del libero scambio scritto nel 1879 preconizza i rischi di un mondo globalizzato. Lo fa alla sua maniera, immaginando piccole comunità semiautonome, quasi villaggi dei Puffi, localizzate in un territorio poco fertile ma ricco nel sottosuolo, i cui componenti “si godono l’aria pura e le bellezze del paesaggio, e una buona percentuale è impegnata in salutari lavori all’aria aperta”. Questo idillio è rovinato dalla scoperta che si possono acquistare i prodotti alimentari a prezzi più bassi dai vicini, mentre si possono sfruttare ed esportare le ricchezze minerarie, naturalmente sconvolgendo tutto il territorio. Wallace sembra raccontare una favoletta, mentre non fa altro che descrivere quanto è veramente accaduto nel corso dell’ultimo secolo nella sua Inghilterra, soprattutto nel suo Galles (fatta la debita tara ai “salutari lavori all’aria aperta”, che in genere erano più salutari di quelli in miniera o nelle industrie, ma non impedivano alla popolazione di morire di fame). È tra l’altro una favoletta che avrà un grosso successo in Germania (sarà una delle icone del nazismo), ed è in fondo la condizione di partenza (e di arrivo) della componente più pura e originaria dell’anarchismo. Ma è anche un modello che, nelle tenebre della crisi che ci illudiamo oggi di attraversare e che in realtà ci sta inghiottendo, torna con insistenza sempre maggiore a ripresentarsi, non più come sogno utopico, bensì come unica alternativa minimamente plausibile alla catastrofe (purtroppo, forse davvero solo immaginabile).

Nella terra ideale di Wallace non si parla però di comunismo o di proprietà collettiva dei mezzi di produzione: meno che mai di dittatura del proletariato. “La maggior parte delle persone rifiuta persino l’idea di socialismo perché pensa che una società socialista si possa instaurare solo con l’imposizione. Se così fosse ripugnerebbe anche a me. Infatti io credo nell’organizzazione volontaria per il bene comune: anzi, sono quasi sicuro che noi abbiamo bisogno di un periodo di sano individualismo – di competizione in condizioni di perfetta uguaglianza per sviluppare tutte le energie e tutte le nostre migliori qualità, così da predisporci a quella volontaria organizzazione che adotteremo con profitto quando saremo pronti, ma che non potrà esserci imposta con la forza, prima di allora”. Qui, al di là dell’ingenuità sulla perfetta uguaglianza, non si parla di rigettare la selezione naturale, ma di ripulire il terreno di gara per garantire una competizione leale e davvero mirata al perfezionamento. La condizione è che tutti abbiano pari opportunità di realizzare appieno le loro potenzialità: perché “senza pari opportunità per tutti non può esistere vero individualismo, nessuna leale competizione”.

Da buon naturalista Wallace pensa che il primo campo nel quale la competizione deve essere riformata sia quello della selezione sessuale. Il sistema capitalistico, creando differenze di classe, induce infatti le donne a scegliere sulla base della convenienza economica, lasciando da parte le spinte istintuali e spirituali. Questo inibisce il potere selettivo della natura, spingendole nelle braccia di uomini che non desiderano e che magari sono affetti da tare fisiche e morali trasmissibili. C’è un fondo di eugenetica nella visione di Wallace (apprezza molto i lavori sul “genio ereditario” di Francis Galton), mitigato dalla introduzione di fattori di scelta legati anche alla sintonia spirituale. L’idea di una selezione che agisse anche secondo criteri di scelta sessuali era stata avanzata da Darwin ne “L’origine dell’uomo”, ma in quel contesto era stata rifiuta da Wallace: non gli piaceva naturalmente il fatto che la scelta fosse pensata in termini di semplice egoismo riproduttivo, di puro istinto materiale. Ora invece rientra dalla finestra quando il tema è affrontato in termini sociali. Nella sua versione i “mariti più desiderabili” non sono solo quelli che danno migliori garanzie riproduttive, ma quelli che vengono liberamente scelti dalle donne secondo criteri estetico-spirituali: il che è possibile solo se le donne hanno le stesse opportunità economiche e sono emancipate dai secolari pregiudizi e vincoli che sono stati costruiti loro addosso.

Quindi il socialismo, come affermazione progressiva delle pari opportunità, naturalmente non solo di genere, ma per tutte le classi sociali, va inteso come strumento per consentire la migliore attuazione del processo evolutivo e come tappa fondamentale della “spiritualizzazione” di questo processo.

 

La sensibilità sociale di Wallace non si esaurisce comunque nelle teorizzazioni sulle pari opportunità e sul socialismo venturo. Si concretizza in un impegno continuativo e diretto nelle cause umanitarie più disparate: Wallace diventa presidente (beninteso, senza percepire senza alcun gettone) della Società per la nazionalizzazione delle terre, si occupa dei problemi della disoccupazione (che in qualche misura lo concernevano direttamente), milita nelle associazioni anticolonialistiche e nel movimento contro la vaccinazione antivaiolosa. Ha tempo per tutto e per tutti, e la cosa ancor più straordinaria è che non lo ruba alla famiglia o alle amicizie: ha capito perfettamente quali siano i veri valori, e questo gli consente di coltivarli armoniosamente.

La frase che ho posto in esergo mi aveva colpito non per una particolare originalità (un sacco di altri prima di lui hanno detto, e qualcuno anche pensato, la stessa cosa), ma perché si attagliava perfettamente al poco che sapevo del personaggio. Posso anzi dire che proprio quella frase è all’origine di questo schizzo biografico. È probabile che tale filosofia di vita sia stata trasmessa a Wallace dal padre, costretto a fare di necessità virtù, dal momento che di accumulare denaro, e nemmeno di tenersi quel poco che aveva, proprio non gli riusciva. O può essere stata elaborata dal figlio stesso, visto come andavano le cose al padre e forte poi delle esperienze proprie. Sta di fatto che Alfred Russel Wallace questa massima l’ha applicata per tutta la vita con perfetta coerenza, e che il paio di volte che ha provato a fare un’eccezione è stato subito ricondotto dalla sorte sulla retta via.[32] Anzi, ne ha esteso il significato facendo rientrare nel superfluo anche l’accumulo di onorificenze e di riconoscimenti. Il che non significa che gli spiacesse veder riconosciuti i suoi meriti, non sarebbe umano: semplicemente non si avviliva più di tanto quando questo non accadeva (e non accadeva quasi mai). Altri suoi colleghi, altrettanto e forse più sfortunati, ne fecero delle vere e proprie malattie, con tutte le ragioni di questo mondo: Wallace non cessò invece di pensare che in fondo andava bene così, che l’importante era il trionfo della scienza, e non quello dei suoi ministri.

Questo atteggiamento non gli rovinò il fegato, non gli compromise la digestione e non gli fece perdere il sonno, così che il nostro campò come Humboldt sino a novant’anni, e soprattutto ci arrivò perfettamente lucido e ancora proteso verso il futuro.A novant’anni era capace di saltare su una sedia o sul divano per raggiungere un libro riposto su un alto ripiano dello scaffale, o di muoversi svelto nello studio in cerca di un articolo che intendeva citare”. I suoi figli lo ricordano così, costantemente indaffarato a progettare parchi e giardini per le sue nuove case, ad apportare modifiche e migliorie, che magari non sempre riuscivano tali, ma appagavano la sua sete perenne di miglioramento, la sua volontà di partecipare in ogni modo al grande disegno di perfezionamento: in fondo procedeva come la natura, per tentativi, con lo scopo della perfezione. In questo era coadiuvato (e sotto l’aspetto pratico, pare, guidato) dalla moglie Annie, figlia non a caso di un illustre botanico, con la quale convisse felicemente, a dispetto ella differenza d’età, per quarantasette anni (Annie gli sopravvisse solo un anno). Appena era possibile li trascinava tutti, con qualsiasi tempo, in lunghissime passeggiate escursionistiche, a caccia di stupendi panorami o delle singolarità di un insetto o di una pianta; ed educava i figli ad ignorare le recinzioni e i divieti d’accesso che si moltiplicavano nella campagna inglese, in nome di un diritto universale a godere dei beni e delle bellezze della natura. Teneva libero nello studio uno strano lucertolone inviatogli dalla California da suo fratello John, andava pazzo per i nonsense e i giochi di parole di Lewis Carrol e li condivideva con i figli, amava cucinare ed era in grado di cavarsela egregiamente in ogni attività pratica, dalla costruzione di un muro al rammendo dei calzini e dei pantaloni.

Lo stesso atteggiamento positivo e propositivo Wallace lo trasferiva pari pari nell’impegno sociale, anche quando perorava le cause più strampalate, come quella dello spiritismo e del paranormale. Un vicino di casa (di una delle ultime case) scrive di lui: “Un’ardua lotta per una causa impopolare, meglio se del tutto impopolare, o qualunque argomento in favore di una tesi generalmente disprezzata, avevano per lui un fascino al quale non poteva resistere”. Il che non significa che fosse un bastian contrario. Wallace prendeva posizioni scomode su questioni che erano date per scontate, non curandosi del fatto che potessero rovinare la sua immagine di scienziato progressista, e spesso ne coglieva risvolti che sarebbero venuti poi alla luce solo molto più tardi, allo stesso modo delle sue intuizioni non ortodosse relative ai modi dell’evoluzione. Ne è un esempio la lunga battaglia condotta contro la vaccinazione antivaiolosa. Non sosteneva che questa fosse inutile, sosteneva che non fosse più utile nella seconda metà dell’Ottocento, quando il morbo si era quasi estinto, e il vaccino risultava più pericoloso della malattia stessa. E non affermava queste cose per partito preso, ma sulla scorta di cifre e di quadri statistici accuratissimi, mantenendo comunque sempre il massimo rispetto per le opinioni altrui (cosa che non sempre avveniva nei confronti delle sue). È comunque innegabile che molte delle sue “cause perse”, così come i caratteri recessivi di molti individui all’interno della specie, siano tornate a distanza di tempo a far rumore (la contestazione dei vaccini è più che mai attuale, e la battaglia di Wallace ha quanto meno contribuito a renderli più sicuri).

Questo personaggio, che a tutta prima, paragonato ai suoi illustri contemporanei e colleghi scienziati appare così ingenuo ed ottimista da sembrare persino un sempliciotto, che è curioso di tutto e di tutto si occupa in un’epoca che consacra la specializzazione, che è spesso in contraddizione con se stesso e quasi sempre con il suo tempo, che parla di spiriti nell’età incipiente del materialismo, che crede nella bontà intrinseca degli uomini mentre avvalora la legge della lotta per la sopravvivenza, che considera felici i “selvaggi” a dispetto della sua fede nel progresso, che immagina (e nel suo piccolo cerca di creare) oasi di ruralità mentre attorno trionfa l’industrializzazione, questo personaggio risulta, quando lo si conosce un po’ più in profondità, incredibilmente attuale, e persino ancora abbastanza scomodo da crearci qualche inquietudine, qualche dubbio. Non è un post-moderno, perché per lui i valori forti esistono eccome, anche se rispetta i modi e i credi altrui: piuttosto trascende ogni modernità, perché è un modello di uomo e di scienziato che apparentemente viene sconfitto in tutte le epoche, ma torna poi immancabilmente a riproporsi, per inocularci quel vaccino contro la paralizzante sfiducia nella natura umana del quale abbiamo costantemente bisogno.

 

Wallace si presta quindi benissimo a testimoniare la possibilità di una vita vissuta (nel suo caso è più che legittimo dire: paradossalmente) fuori dagli schemi che ci vogliono egoisti e competitivi. Il teorico dell’operato della selezione parrebbe la persona meno adatta alla sopravvivenza e all’agone riproduttivo, sia a quello biologico che a quello culturale: e invece risulta alla fin fine un vincitore, nell’uno e nell’altro campo. Come uomo appare pienamente realizzato. Un matrimonio felice, figli che lo adorano e gli rimangono accanto, una giovinezza all’insegna dell’avventura e una vecchiaia attiva e lucidissima sino all’ultimo istante, una vita intera dedicata a quel che più gli piaceva. Come scienziato, ha la tranquillizzante coscienza di aver fatto, e bene, la propria parte, a dispetto di condizioni di partenza sfavorevoli; e nutre anche la consolante speranza che il lavoro verrà portato avanti da altri, che il progresso delle conoscenze scientifiche non si arresterà.

Non credo abbia lasciato ai figli una consistente eredità, se non di affetti: ma ha senz’altro lasciato a noi un patrimonio di intuizioni che si rivelano oggi più che mai stimolanti e di conoscenze che hanno cambiato radicalmente il nostro modo di pensare: e più ancora, l’esempio di una vita spesa in ciò che davvero importa.

Direi che la cosa, soprattutto oggi, merita più di una riflessione.

L'importante è non nascere adatti Wallace (1)

Bibliografia 

Ecco alcuni riferimenti per chi volesse approfondire la conoscenza di Wallace.

BARSANTI, G. – Una lunga pazienza cieca – Einaudi 2005

CONNIFF, R. – Cacciatori di specie – Le Scienze 2012

DESMOND, A. – MOORE, J. – Darwin – Boringhieri 2009

FOCHER, F. – L’uomo che gettò nel panico Darwin – Boringhieri 2006

GREENE, J. C. – La morte di Adamo – Feltrinelli, 1971

PIEVANI, T. – La teoria dell’evoluzione – Il Mulino 2006

PIEVANI, T. – In difesa di Darwin– Bompiani 2007

WITHE, T. – Cacciatori di piante – Rizzoli

VON HAGEN, V. – Scienziati–esploratori nell’America Meridionale – Rizzoli

Non esiste una traduzione italiana dei suoi diversi scritti, tranne che di quelli sullo spiritismo, scaricabili da LiberLiber.

Esistono invece diverse recenti biografie in inglese:

JOHN G. WILSON – The Forgotten Naturalist: In Search of Alfred Russel Wallace – Australian Scholarly Publishing Pty Ltd, 2000

PETER RABY – Alfred Russel Wallace: A Life – Princeton University Press, 2001

JANE CAMERINI – The Alfred Russel Wallace Reader: A Selection of Writings from the Field – The Johns Hopkins University Press, 2002

 

 

[1] In Inghilterra sono in questo periodo in piena espansione le enclosures ed è stato rivoluzionato il regime degli affitti terrieri, per cui un incredibile numero di giovanotti inglesi di media condizione e di una qualche istruzione si trova nella prima metà dell’Ottocento a sbarcare il lunario con questo mestiere.

[2] Vestiges of the Natural History of Creation uscì anonimo. Solo nel 1871, e solo dopo che erano state fatte le più svariate ipotesi, si conobbe la vera identità dell’autore, Robert Chambers, un estroso editore e divulgatore scientifico. Nel frattempo Chambers era morto.

[3] Nel corso della sua campagna amazzonica, che dura undici anni, Bates raccoglierà e spedirà in Inghilterra quasi quindicimila esemplari, la metà dei quali appartenenti a specie sconosciute. Ha anche notevoli intuizioni, soprattutto per quanto concerne l’adattamento di alcune specie, e afferma: “La natura scrive su una tavoletta la storia delle modificazioni della specie”. Questo molto prima della comparsa del libro fondamentale di Darwin. Lo stesso Darwin lo stimolerà poi a scrivere un diario-saggio, Un naturalista sul rio delle Amazzoni, che rimarrà a lungo la migliore descrizione esistente dell’Amazzonia. Dalle sue esperienze non trarrà però alla fine alcuna conclusione teorica: anche perché al ritorno in patria, fisicamente spossato dalle privazioni (le malelingue dicono anche dalla frequentazione delle giovani indigene) e psicologicamente prostrato dai lunghi periodi di semi-solitudine trascorsi in mezzo agli indios, abbandona la ricerca scientifica attiva. A trentaquattro anni ottiene un modesto impiego alla Royal Geografic Society, e si eclissa. Gli rimane addosso una struggente nostalgia dell’Amazzonia: “…lunghi crepuscoli grigi …le ciminiere delle industrie e le folle di operai sporchi che di primo mattino si affrettano a correre al lavoro … preoccupazioni artificiose, convenzioni sociali schiavizzanti. Tornavo in mezzo a questo mondo opaco, lasciando un paese dall’estate perenne” (e soprattutto le ragazze indigene sempre sorridenti).

[4] È sintomatica la posizione assunta da Jeremy Bentham, nella sua “Introduzione ai principi della morale e della legislazione”, dove afferma che degli animali non dovremmo chiederci se sanno parlare o ragionare, ma se possono soffrire.

[5] Si pensi a vicende come quelle dei tulipani, dei gigli e delle dalie, o del thé, per rimanere nel campo della botanica, e a quella dei bachi da seta e di specie rare di uccelli per la zoologia.

[6] Prima di lui avevano raccolto piante nella zona La Condamine, Humboldt e Bompland, i loro emuli von Martius e von Spix, Edward Popping e Francois de Castelnau. Nessuno però aveva intrapreso un lavoro sistematico quale quello che sarà portato a termine da Spruce.

[7] I due rimarranno amici per tutta la vita, e alla morte di Spruce sarà Wallace a curare l’edizione dei suoi diari.

[8] Una rapida e limitatissima ricerca mi ha indotto a pensare che esista una diretta relazione tra le affezioni tipiche dell’emisfero boreale e la resistenza ai climi tropicali. Forse gli anticorpi poco efficaci per le prime, ma comunque attivati, si rivelano invece efficientissimi rispetto alle malattie indotte dai secondi

[9] La “biogeografia” ha dei padri nobili: il modello potrebbe essere individuato nello studio della distribuzione delle piante già portato avanti da Humboldt. Lo specifico delle diversità biologiche viste in rapporto alla loro distribuzione erta stato anticipato invece da Geoffroy Saint-Hilaire.

[10] A. R. WALLACE –My lif.e. A record of Events and Opinions- Londra 1905

[11] Questa storia (anzi, entrambe le storie, perché anche Darwin ha un approccio alla scienza tutt’altro che specialistico) conferma che le grandi intuizioni non scaturiscono mai dagli specialisti, troppo chiusi nel loro orticello, gelosi delle interferenze e impermeabili alle suggestioni provenienti da altri campi. Si potrebbe parlare di una sorta di divisione del lavoro: ci sono quelli che portano i semi delle idee, e li raccolgono perché viaggiano in spazi più ampi (in questo caso, sia metaforicamente che concretamente), e quelli che poi li piantano e li coltivano nelle serre dei laboratori. Alla prima schiera appartengono, almeno fino alla metà dell’ottocento, i grandi savants enciclopedici, gente come Humboldt o Goethe, destinati nella seconda metà del secolo ad essere soppiantati dalla specializzazione positivistica. E tuttavia i savants non sono scomparsi senza eredi: il modello, se non quello di un sapere enciclopedico almeno quello di una conoscenza “trasversale”, si sta riaffermando oggi, proprio in virtù delle nuove tecnologie dell’informazione, che permettono un accesso velocissimo a conoscenze un tempo riservate a pochi. C’entra anche comunque la constatazione che la specializzazione estrema conduce a strade senza sbocco.

[12]dall’acqua e dalla Terra riscaldate nacquero pesci o animali simili; entro di loro si generarono feti umani che crebbero fino alla pubertà; poi, spezzate le loro membrane, ne uscirono uomini e donne che erano ormai in grado di nutrirsi autonomamente». Censorino, De die natali, 4, 7

[13] Thomas Burnet,

[14] James Hutton, Theory of the eart (1788)

[15] Nicolai Stenonis, Elementorum myologiae specimen, seu museuli descriptio geometrica (1667)

[16] Benoit de Maillet, Telleamed (1748, ma scritto nel 1715)

[17] Pierre–Louis de Maupertuis Vénus Phisique, 1745)

[18] George-Louis Leclerc de Buffon, Histoire naturelle

[19] Denis Diderot, Le reve de d’Alambert, (1769)

[20]Erasmus Darwin, The botanic Garden (1789)

[21] Jean-Baptiste Lamark, Philosophie zoologique (1809)

[22] Charles Lyell, Principles of geology, 1833. La lettura di quest’opera fu importante per Wallace quanto lo era stata per Darwin

[23] Robert Chambers, Vestiges of the natural history of creation, 1844. Il libro ebbe un’enorme importanza per il successo di pubblico che ottenne, essendo scritto in una forma facile e divulgativa. A dispetto della fragilità delle spiegazioni, ebbe il merito di far circolare l’idea di evoluzione presso il grande pubblico. Anche Chambers prese lo spunto per le sue idee dalla lettuira di Lyell.

[24] Herbert Spencer, First Principles (1862)

[25] Biologo, coetaneo di Wallace, diverrà il più convinto assertore della causa evoluzionista. È lui a sostenere, in rappresentanza del riluttante Darwin, il famoso dibattito di Oxford con il vescovo Wilberforce.

[26] Dal discorso pronunciato da Wallace in occasione del cinquantesimo anniversario della lettura congiunta, presso la Linnean Society, nel luglio del 1908

[27] My Life.

[28] A. R. Wallace – The Malay Archipelago, the Land of the Orang-utan and the Bird of Paradise; a Narrative of Travels with Studies of Man and Nature – Londra 1869

[29] Gli sudi e le posizioni dei poligenisti, che affermano una differenziazione razziale ab origine, sono finanziati dalla lobby schiavista, ma trovano molti sostenitori anche al nord. Il più famoso degli scienziati poligenisti è Agassiz, ma la maggior messe di dati fu fornita dai “misuratori di crani”, come Samuel George Morton.

[30] The Malay Archipelago (1869)

[31] Edward Bellamy, Nell’anno duemila (1882) ed Equality (1886)

[32] È emblematico l’episodio della scommessa. Wallace vinse una scommessa di 500 sterline con un ricco (ed evidentemente molto ignorante) aristocratico che sosteneva che la terra fosse piatta, dimostrandogli il contrario. Ci mise dieci anni a riscuoterla, e alla fine si era mangiata in spese legali una cifra molto superiore a quella riscossa.

 

 

La raccolta dei sogni al Paraguay

di Paolo Repetto, 30 settembre 2012

Le prime notizie sulla vita di Guido Boggiani le ho rinvenute in un libro di Alberto Viviani, Guido Boggiani, edito dalla Paravia in una vecchia e benemerita collana dedicata a “I grandi viaggi di esplorazione”. Le ho poi approfondite sul volume curato da Maurizio Leigheb ed edito nel 1986 dalla regione Piemonte: Guido Boggiani. Pittore, esploratore, etnografo, che riporta anche alcune bellissime riproduzioni dei dipinti, degli schizzi e dei materiali etnografici e una bibliografia accurata degli articoli e studi dedicasti al pittore. I “Viaggi di un artista nell’America meridionale” sono rintracciabili solo in alcune biblioteche specializzate, le opere etnografiche neppure in quelle.

 

“…egli era svelto odiatore di salmerie e di scorte,
 e silenzioso era il suo ardimento, e cadde
sotto la spada del predone selvaggio…”
Gabriele d’Annunzio, Laus vitae

15Il successo a vent’anni è una bella fregatura: hai davanti un’intera vita di lotta per conservarlo o per rinverdirlo, oppure per farlo dimenticare. Molti non reggono; qualcuno provvede da solo a entrare nel novero dei “cari agli Dei”, qualcuno c’è iscritto dalla sorte, i più finiscono per autodistruggersi o per trascinarsi in una patetica parodia di se stessi. Ma c’è anche un’altra soluzione, in verità poco praticata: quella di infischiarsene, prendere su e mollare tutto. L’esempio che corre subito alla mente è quello di Rimbaud: smette di scrivere poesie e va a vendere armi in Africa. Se dovessimo citarne un secondo, però, saremmo in difficoltà: e invece lo abbiamo in casa. Si tratta di Guido Boggiani, prima pittore, pianista, poeta, poi esploratore, trafficante, etnologo, linguista.

Il caso Boggiani è da manuale. Guido nasce sul Lago Maggiore, in uno dei più bei luoghi d’Italia, nell’anno dell’unità, in una famiglia benestante e colta: grande appassionato d’arte il padre, scienziato il nonno materno. Vive un’infanzia dorata e si ritrova adolescente di successo, ricco e bello, ottimo pianista, poeta, brillante conversatore. E in possesso di un vero talento artistico nella pittura. Si diploma in soli due anni all’Accademia di Brera e diventa l’allievo prediletto di Filippo Carcano. A vent’anni espone a Milano con successo e a ventidue vince il premio “Principe Umberto” con La raccolta delle castagne. È acclamato socio onorario dell’Accademia e viene salutato come la grande promessa nel futuro della pittura italiana. Per sprovincializzarsi si trasferisce a Roma e qui entra nel giro intellettuale di D’Annunzio, di Edoardo Scarfoglio e della rivista Cronaca Bizantina. Presta lo studio al poeta per le sue avventure galanti, bazzica la corte, partecipa alle feste della nobiltà porporata. Ce n’è abbastanza per farne un idiota o un trombone, un fatuo o un disadattato. E invece…

Invece nel 1887 è preso da “una invincibile smania di vedere mondo nuovo e gente nuova, nuove terre e nuovi orizzonti[1] Non ci pensa su due volte. Si imbarca per il Sudamerica e va a stabilirsi a Buenos Aires, dove espone i suoi quadri e continua a lavorare. Ma a anche Buenos Aires non si ferma più d’un anno; non ha varcato l’oceano per ritrovare una caricatura di ciò che si è lasciato alle spalle. Sta cercando qualcosa che né il mondo dell’arte né quello dei salotti decadenti riescono a dargli: non gli è affatto chiaro cosa sia, ma ha a che fare con l’autenticità, la concretezza, l’avventura, la voglia di misurarsi con se stesso fuori dall’ovatta della “civiltà”. È anche piuttosto confuso sugli orientamenti sessuali, il che gli fornisce ulteriori motivazioni. Infine, è in buona compagnia: come abbiamo visto, la sua scelta segue di un decennio quella di Rimbaud e precorre quelle più celebri ed esotiche, anche se non altrettanto radicali, di Gauguin, di Stevenson e di un sacco d’altri giovanotti di belle speranze.

Nel 1888 è quindi nell’alto Paraguay, una regione che a dispetto di quasi quattro secoli di dominazione spagnola (o forse proprio per questo) è ancora praticamente inesplorata e sconosciuta. Ottiene dal governo paraguagio un piccolo appezzamento di terra a Puerto Pacheco, estremo avamposto fluviale della presenza bianca, in pratica quattro baracche attorno alle quali ruotano i miseri commerci con le immense aree del Chaco e del Mato Grosso. L’intento è quello di organizzare delle spedizioni etnografiche fra le tribù indigene dell’interno, alcune delle quali non hanno mai conosciuta, per loro fortuna, la civiltà occidentale. Ma l’etnografia è uno scopo a lungo termine: per l’immediato è necessario trovare un modo per sbarcare il lunario e un pretesto credibile per avvicinare queste tribù, magari ricavandoci anche qualcosa. L’uno viene individuato nell’esportazione di legname verso l’Italia, l’altro nel commercio delle pelli di cervo.

A questo secondo scopo Boggiani si mette in società con due avventurieri bianchi, due ispanici, e si addentra nel Gran Chaco, un immenso bassopiano, quasi un prolungamento settentrionale delle pampas, che è diviso tra Argentina a sud e Bolivia e Paraguay a nord-est, nella propaggine occidentale attraversata dal Rio Paraguay. La zona di esplorazione e di traffico di Boggiani e soci è quella più settentrionale, che per un buon tratto appartiene al Brasile. Le appartenenze politiche sono comunque all’epoca piuttosto confuse e contestate (lo sono ancora oggi) e il territorio è in realtà controllato da due popolazioni indigene in costante conflitto, i Ciamacoco, che abitano la sponda occidentale del Rio Paraguay, e i Caduveo, che vivono lungo un affluente di sinistra di quest’ultimo, il Rio Nabileque, in territorio brasiliano. I primi hanno ormai una certa consuetudine coi bianchi, dalla quale hanno ricavato soprattutto alcoolismo e malattie: i secondi vivono più in disparte, nel folto della foresta. Da questo momento gli uni e gli altri saranno l’oggetto principale dell’interesse, degli studi e dei pennelli dell’artista in fuga.

Boggiani non è uno scienziato: non possiede la preparazione botanica, zoologica e geologica dell’esploratore-naturalista tipo dell’Ottocento, modello Humboldt o Darwin. Ma qualcosa sa, e il resto lo impara poco alla volta, direttamente sul campo, mostrando soprattutto una grande sensibilità e attitudine per la ricerca etnologica e linguistica. Studia i costumi, le tradizioni, gli idiomi degli indigeni; apprezza da artista la qualità e l’estetica dei loro prodotti artigianali, ed è affascinato soprattutto dalla fantasia delle decorazioni corporee; compila dei glossari delle lingue indiane e scrive relazioni etnografiche da inviare alle maggiori riviste di geografia; butta giù un sacco di schizzi e disegni, che magari inizialmente erano pensati in funzione della pittura, ma che costituiscono invece ancora oggi, di per sé, un importantissimo repertorio documentario. “La riproduzione autotipica di alcuni schizzi all’acquarello o a lapis, è l’unico materiale artistico che io potei raccogliere affrettatamente durante la mia escursione, e che io non volli ritoccare né acconciare in nessuna maniera, perché anche se fossi riuscito a renderli, per il volgo, più comprensibili, avrei certamente loro tolto parte del loro merito, che è quello della assoluta fedeltà col vero, al che io tengo assai più che a qualunque altra cosa”.

Come commerciante Boggiani non è diverso dagli altri: compra le pelli pagandole con il micidiale aguardiente, ma d’altro canto è questa la moneta di scambio più richiesta dagli indigeni. Almeno, a differenza dei suoi soci, non disprezza gli indios. Non si può dire che li ami, il suo sembra piuttosto l’interesse di un entomologo: ma almeno lo incuriosiscono, e al contrario degli altri bianchi, che ci tengono a marcare la differenza, cerca il più possibile di comprendere i loro costumi e, quando è loro ospite, di adeguarvisi. Il contatto con gli indios lo induce anche a forgiare il suo fisico, adattandolo alla natura selvaggia del Chaco: si allena a soffrire per fondersi con l’ambiente, come farà dopo di lui Lawrence nel deserto siriano. Ecco come lo racconta un altro pittore, il toscano Lorenzo Viani: “Il pittore cereo, dai piedi delicati, per assuefarsi ai travagli degli spini e delle morsicature delle serpi, che s’adeguano al colore della vegetazione insidiosamente, passeggiava a piedi nudi, sopra i pruni. L’orme si macchiavano del suo sangue vivo; i piedi suppliziati, piagati come quelli di un martire cristiano, si cicatrizzarono lentissimamente, risuolando le piante di cuoio battuto e ribattuto dai poderosi martellamenti del cuore. Dopo il supplizio, Guido Boggiani, solo, con un sacco, delle fiale, una siringa, dei lapis, della carta, e una bandiera italiana (sotto cui furono rinvenute le sue ossa) si avventurò nel Chaco pauroso”. [2] Magari non era esattamente così (soprattutto per quanto concerne la bandiera), ma il personaggio corrisponde a questa descrizione.

Non si tratta comunque di un capriccio passeggero. Boggiani rimane nel Chaco, in questo primo soggiorno, per cinque anni, pur andando ogni tanto a respirare, con la scusa degli affari, una “boccata di civiltà” ad Asunciòn o Buenos Aires. Ma fa sul serio. Diventa un trafficante vero, impara i trucchi e le astuzie dello scambio, si guadagna il rispetto e la fiducia degli indios e persino una certa reputazione di taumaturgo. Soprattutto, diventa tramite di scambio tra gli eterni nemici, Ciamacoco e Caduveo, procurando ai primi il prezioso urucù, una pasta rossa che serve per dipingere il corpo nelle grandi occasioni, e che è prodotta solo dai secondi. Nel frattempo porta avanti con costanza i suoi studi etnografici, raccogliendo una massa di materiali che ne fanno il primo vero studioso di queste popolazioni, come riconoscerà anche Levi-Strauss in “Tristi tropici”.

L’atteggiamento scientifico, come dicevo, è correttamente neutrale. Quando racconta rituali, costumi, cerimonie, Boggiani non valuta e non giudica: riferisce con scrupolo di esattezza, lasciando che parlino i fatti. Ma non per questo è freddo: nel diario non nasconde talvolta l’irritazione per la scarsa affidabilità degli indigeni, per la loro insistenza nelle richieste continue di regali, per la crudeltà spesso gratuita: ma dimostra anche di capire perfettamente che sono portatori di un’altra concezione della vita, di altri valori, e che questi atteggiamenti sono spesso solo la logica risposta all’aggressività e al disprezzo che i bianchi manifestano nei loro confronti. Non dimentichiamo che Boggiani è in fondo figlio dell’età di Spencer, di Darwin e di Lombroso, di un’epoca in cui tutta la cultura occidentale è permeata dalla convinzione di una propria “naturale” superiorità. E non solo: cresce anche in un ambiente nel quale va diffondendosi, soprattutto attraverso d’Annunzio, un’interpretazione razzista e semplicistica del superomismo nietzschiano. Eppure il suo modo di rapportarsi al mondo degli indios lascia trapelare qualcosa che va oltre quella che può essere letta come un’istintiva simpatia di pelle. Non arrivo a dire che invidi gli indigeni, ma certo manifesta una sorta di nostalgia per il rapporto quasi edenico con la natura che soprattutto i Caduveo hanno saputo salvaguardare, e che i bianchi hanno perduto per sempre. Non ripropone l’esaltazione settecentesca dello stato di natura e il mito del “buon selvaggio”, e neppure naturalmente anticipa un qualche sentire “terzomondista”: ha invece la consapevolezza di vivere un’occasione probabilmente irripetibile, in uno degli ultimissimi angoli che ancora si sottraggono alla volontà occidentale di dominio sulla natura: e sente il rammarico per una perdita imminente e irrimediabile, che per l’occidente si è già da tempo consumata.

Nel 1893 torna però in Italia. Va bene la vita selvaggia, ma per mettere ordine nel materiale etnografico raccolto e per pubblicarlo ha bisogno di tranquillità e di supporti scientifici adeguati, che può trovare solo in patria; e poi, c’è anche un po’ di nostalgia per i piaceri della civiltà. È un ritorno alla grande, che rinfocola l’interesse attorno allo stravagante artista e viaggiatore. Anche dalla sua postazione ai confini della civiltà non ha infatti mai interrotto i contatti con l’ambiente artistico, e ora porta con sé le tele realizzate in Sudamerica: per questo riceve dal governo la proposta di recarsi come delegato per le arti all’Esposizione mondiale di Chicago, incarico che accetta con orgoglio. Quando rientra si stabilisce a Roma, dove presso la biblioteca del museo Kircheriano si dedica alla sistemazione e alla divulgazione dei materiali scientifici, subito considerati di primissimo ordine: lo stesso Vittorio Bottego, all’epoca l’esploratore italiano di maggiore spicco, vuole conoscerlo. I dipinti li espone al pubblico in occasione di conferenze organizzate dalla Società Geografica Nazionale, che riscuotono un grosso successo, mentre tutti i materiali raccolti li trasferisce ai musei etnografici nazionali.

Nel 1894 pubblica uno studio etnografico su I Ciamacoco e i Viaggi d’un artista nell’America Meridionale e l’anno successiovo dà alle stampe un secondo studio su I Caduvei, e il Vocabolario dell’idioma Guanà. I Viaggi di un artista sono una cosa a metà tra il diario di viaggio e lo studio antropologico, arricchito da disegni e dalle riproduzioni di alcuni suoi quadri. Il libro è pieno di annotazioni curiose, spesso divertite, e non indulge all’autocelebrazione. Anzi, di sé Boggiani parla davvero poco; riserva ai commenti, alle emozioni e alle considerazioni personali solo alcuni siparietti, e lo fa sempre in toni piuttosto ironici.

Tra i moltissimi disegni c’è ad esempio un ritratto femminile che egli intitola, scherzosamente ma non troppo, “Ritratto di mia moglie”. Lo commenta così: “Ho pensato bene, o male che sia, di contrattare coi padroni della schiavetta, perché essa rimanga con me per tutto il tempo che resterà qui ancora. Dopo trattative andate assai per le lunghe, vi hanno acconsentito mediante il pagamento anticipato di una decina di metri di tela cotona, di alcuni fazzoletti dai colori vivaci e di altre piccole cosette di poca importanza. Per cui da oggi in poi sono ammogliato… sino a nuova avviso. Mi va il pensiero a M.me Chrysantheme di Pierre Loti; ma che differenza tra i Giapponesi ed i Caduvei! Quelli industriosi, delicati, pieni di gentilezze e di raffinatezze; questi invece primitivi, grossolani e poco scrupolosi. Se però non la si può paragonare a quella, questa non è meno bella di forme e, forse, artisticamente anche più bella. È formata come una statua, e ben contento sarebbe un artista d’avere modelli simili a lei. Ha due begli occhi vivacissimi e mani e piedi bellissimi. Quanto a carattere, non posso dirne molto, ma è allegra e ignorantissima di ogni cosa, ciò che non guasta affatto. Un bel mobile, insomma…”. Quest’ultima espressione può lasciare un po’ sconcertati, ma ripeto, siamo a fine Ottocento, in pieno rigoglio delle teorie razziali. E comunque Boggiani non dice in fondo nulla di diverso da quello che D’Annunzio teorizza nei suoi romanzi, che Sartre praticherà nel privato e che la televisione ci propina oggi con i vari reality sulle veline e su uomini e donne. Boggiani non è Multatuli, non auspica per gli indios del Chaco alcun “riscatto” nel segno di idealità religiose o progressiste: anzi, gli piacciono perché sono così, sa che dovranno sparire e vuole provare a conoscerli a fondo prima che ciò accada. In questo caso non sta esprimendo soltanto l’atteggiamento e la mentalità del bianco, ma anche un perfetto adeguamento ai costumi e alla mentalità delle popolazioni in mezzo alle quali vive: magari aggiungendoci quel pizzico di umanità che negli altri suoi contemporanei difficilmente si riscontra.

Proprio per questo appare ancora più straordinaria la facilità con la quale si reinserisce nell’ambiente intellettual-mondano. È accolto con entusiasmo nella cerchia dannunziana, che gravita ora attorno alla rivista estetizzante Il convito di Adolfo DeBosis. Con D’Annunzio prende parte nell’estate del 1895 ad una crociera mediterranea (un viaggio “a traverso un sogno di poesie e di cultura” lo definirà il vate) sullo yacht Fantasia dell’editore napoletano Edoardo Scarfoglio. L’itinerario disegnato dal poeta prevede di bordeggiare i luoghi della classicità da Corinto a Delfi, di spingersi quindi fino a Costantinopoli e alle rovine di Troia, per tornare poi lungo la costa turca a Rodi e toccare l’Egitto, la Tripolitania, Malta, e la Sicilia. Con Boggiani, oltre all’editore, al poeta, all’equipaggio e a due gatti, ci sono il francese Georges Hérelle, traduttore di D’Annunzio, e l’avvocato abruzzese Pasquale Masciantonio, personaggio altrettanto fondamentale nella vita dell’immaginifico. La crociera inizia nel segno della gloria e della classicità, con i novelli argonauti che la sera declamano sul ponte i passi dell’Iliade e dell’Odissea, ma volge rapidamente alla farsa. I gatti patiscono il mal di mare, hanno le pulci e vomitano continuamente, D’Annunzio si aggira nudo sulla tolda, Scarfoglio e Masciantonio non pensano ad altro che a tirar su prostitute in tutti i porti che toccano (il che spiegherebbe la malinconia dei libri di Matilde Serao, la moglie dell’editore). Ci si mette anche il maltempo, con il mare quasi sempre agitato, ragion per cui l’ambizioso piano di navigazione viene drasticamente ridimensionato. Dopo aver visitato Olimpia, Eleusi, Atene, Micene e Tirinto sotto le vampe del sole greco agostano D’Annunzio e Masciantonio ne hanno le scatole piene di classicità, sono provati dalla vita in barca e dal mal di mare e decidono di tornare in Italia con un piroscafo. Hérelle e Boggiani si fermano invece sull’isola di Milos, dove restano fino a metà settembre. Guido lavora, come ha continuato a fare per tutto il viaggio, per portare a termine i suoi lavori etnografici “da troppo tempo abbandonati”.

Sia D’Annunzio che Hérelle e Boggiani tengono un diario del viaggio. Quello di D’Annunzio (compreso nei Taccuini) è già finalizzato alla traduzione in poesia, che avverrà nel primo libro delle Laudi, Maia (su Boggiani in particolare i vv. 5125-5302), ed è attendibile come tutti gli altri suoi scritti diaristici, cioè zero. Quello di Boggiani è custodito oggi nella biblioteca della Yale University, ed è anche corredato da mappe e disegni, ma non è mai stato pubblicato. Dal poco che ho potuto conoscerne sembra che il giovane piemontese sia l’unico a prendere sul serio la full immersion nella classicità, nel senso almeno che invece di trasfigurare tutto per renderlo adeguato alle proprie aspettative, come fa D’Annunzio, vede quello che realmente c’è, ad esempio il degrado nel quale è lasciato il patrimonio artistico della culla dell’Occidente. Ciò non gli impedisce di provare emozione, e persino commozione. Dopo aver visto l’Hermes di Prassitele, ad Olimpia, scrive: “L’ho toccato, poiché gli occhi non bastavano per goderne; l’ho toccato più volte, come si toccano le immagini divine…Quel marmo di una dolcezza infinita, di una perfezione sovrumana, merita un pellegrinaggio da qualunque punto più remoto della terra.” Altrove fa uso della sua sensibilità pittorica per descrivere il paesaggio: “Di quassù tutte le accidentalità della costa dell’isola si staccano perfettamente disegnate sul mare che ha tinte indescrivibili di dolcezza verso il largo e più vigorose presso gli scogli; sono mille e mille toni di celeste, di turchino e d’azzurro verdastro sino al più puro smeraldo, il tutto raddolcito ed amalgamato da una leggiera nebbia e dalla irradiazione solare”.

Dalle pagine del diario di Hérelle si intuisce invece quale clima regni realmente nella brigata. Il traduttore annota con fastidio che “c’è in molti italiani un’assenza totale di pudore che mi sorprende sempre. Lunghe docce di Scarfoglio, di D’Annunzio, di Masciantonio; interminabili lavaggi con il sapone; semi-nudità durante pomeriggi interi, sul ponte. Boggiani, che è del nord, ha tutt’altro carattere: non si stupisce di niente, ma si burla di questo lasciarsi andare e dice ridendo: “Sono dei bambini maleducati!”. E ancora: “Gabriele D’Annunzio amerebbe viaggiare con tutte le comodità e assai lussuosamente. È molto assorbito dalla sua toilette: ha portato otto paia di scarpe, trenta o quaranta camicie, sei vestiti bianchi, ecc. Diceva ieri: “Quando saremo ad Atene, che piacere sarà prendere un gelato al caffè francese, in smoking!” … C’è in D’Annunzio qualcosa di candido e di puerile. … E si affligge di non avere il cappello a cilindro, si sgomenta all’idea di non potersi vestire con sufficiente eleganza per le visite da fare ad Atene”.

Le affinità che Herelle, autore trent’anni dopo, sotto pseudonimo, di una Histoire de l’amour grec dans l’antiquité, scopre di avere con Boggiani vanno molto oltre, diventano una vera attrazione fisica, oltre che spirituale. “Prima di andare a dormire chiacchiero un po’ con Boggiani. Egli pensa, come me, che viaggiamo troppo all’inglese, troppo velocemente. “Non sanno viaggiare né gli uni né gli altri mi dice. Non sono curiosi dei paesi che attraversano, non ne percepiscono le vere bellezze, non hanno il desiderio di imbeversene. Scarfoglio pensa solamente ai suoi piaceri, al gelato, ai meloni. Gabriele D’Annunzio e Masciantonio hanno un po’ di più il desiderio di vedere; ma né l’uno né l’altro comprendono che in viaggio la stanchezza, il caldo, e anche certe piccole privazioni, fanno parte delle impressioni del viaggiatore ed aggiungono qualche cosa di vivo agli aspetti del paesaggio. Sono subito stanchi e non pensano ad altri che a dormire. Il vero, solo viaggiatore della nostra banda, è Boggiani; e io sono stupito di vedere quanto, in ogni cosa, le nostre opinioni concordino […]“

A settembre Boggiani è di nuovo a Roma, per partecipare ai lavori del secondo Congresso Geografico Italiano: porta come contributo tre relazioni, tutte sul Paraguay, ma soprattutto prende posizione sul metodo della ricerca, da effettuarsi sul campo, con l’osservazione diretta e partecipe, e non dietro le cattedre universitarie o nelle biblioteche. Il richiamo del Chaco è di nuovo prepotente, e viene amplificato prima della fine dell’anno dalla morte della madre, uno degli ultimi vincoli che lo trattenevano in Italia. La crociera parodistica del Fantasia, D’Annunzio nudo, i sottili veleni dell’ambiente scientifico ufficiale hanno fatto il resto.

Il primo di Luglio del 1896 riparte per il Paraguay, dove riprende immediatamente le sue attività e le esplorazioni verso l’interno. È molto più consapevole di sé della prima volta: allora era un ragazzo, ora è un uomo. “Mi guardai allo specchio”, scrive; “Il sole mi aveva talmente abbronzato che ero irriconoscibile. Eppure non ero dimagrato. Al contrario stavo benone, ero ingrossato ed avevo un’aria di salute e di forza quale non avevo mai avuto prima”. Si è anche attrezzato meglio per la ricerca. Porta con sé una macchina fotografica, con la quale impressionerà più di quattrocento lastre di vetro, soprattutto ritratti. Sono suoi i primi documenti fotografici delle tribù dei Caduveo, dei Bororo e dei Chamacoco. Come racconta nel diario, ha il suo daffare a convincere i soggetti, che temono di vedersi portar via l’anima, ma ottiene ottimi e preziosi risultati. Quelle tribù sono oggi scomparse, o sono state assorbite e snaturate dalla civiltà, e quella di Boggiani è l’unica e l’ultima testimonianza della loro vita libera. Molte di queste foto vengono poi pubblicate nella Revista del Instituto Paraguayo, che Boggiani stesso fonda nel 1897 ad Asunciòn, e in qualche modo, dando ai soggetti dignità di studio scientifico, contribuiranno a salvaguardali almeno in parte dallo sterminio sistematico e silenzioso.[3] Dà inoltre inizio ad una raccolta di oggetti, archi, lance, suppellettili domestiche, che dovrebbero andare a costituire una collezione privata (e che oggi sono ospitati nel museo etnografico di Berlino). Li ottiene attraverso gli scambi, ma non si fa scrupolo di acquisirli anche per vie meno legittime: “Ebbi notizia che in un punto centrale del Paraguay era stato sorpreso dai contadini di una estancia un accampamento di indiani guayachì, i quali nella loro precipitosa fuga avevano abbandonato sul terreno una quantità di oggetti che erano stati raccolti e trasportati nell’estancia. […] C’è una serie di frecce lavorate a scalpello d’osso, preziosa. Vi sono parecchi archi di varie dimensioni. Vi sono parecchie accette di pietra senza manico e due magnifiche, molto grandi, coi loro manici di legno. Vi sono tre piccole olle di terracotta così rozze e grossolanamente lavorate che non ricordo di averne viste di comparabili nessuna, neppure tra quelle dei tempi preistorici più remoti.” Continua infine ad inviare comunicazione dei suoi studi anche in Italia: nel 1897 compare Nei dintorni di Corumba, nel 1998 Guaicurù.

In questo secondo soggiorno impara ad apprezzare sempre di più i Caduveo. Già alla fine dell’Ottocento essi sono l’ultimo gruppo rimasto di lingua guaikurù. Vantano un’antica tradizione guerriera, e sono stati a lungo i più strenui oppositori della penetrazione degli spagnoli, che li chiamavano indios caballeiros. Infatti hanno adottato il cavallo appena questo si è diffuso nel nuovo continente, il che ha radicalmente mutate le loro abitudini nomadi (paradossalmente rendendoli più sedentari, dal momento che il cavallo consente un raggio d’azione giornaliero della caccia molto più ampio). La loro società è rigidamente gerarchica, suddivisa in classi sociali separate, che vanno dai nobili ai guerrieri, ai servi (le altre popolazioni indigene di agricoltori che si aggregano alla tribù) e agli schiavi (i prigionieri di guerra). Sono fieri e leali, al contrario dei Ciamacoco, ormai abbrutiti dalla frequentazione dei bianchi, e sono soprattutto dei veri artisti della decorazione corporea.

Tra loro Boggiani si ferma a lungo, acquisendosi amicizie davvero sincere e devote, svincolate da ogni aspettativa mercenaria. E i Caduveo manterranno vivo per generazioni il ricordo e l’affetto per questo insolito ospite. Quando, oltre mezzo secolo dopo, l’etnologo brasiliano Darcy Ribeiro incontrerà i resti della tribù, ormai confinata a languire e ad estinguersi in una riserva, scoprirà che anche i più giovani hanno sentito raccontare del mitico Bet’rra (e contribuirà lui stesso ad alimentare il mito, raccontando loro della fine di Boggiani per mano degli odiati Ciamacoco).

Dopo i primi entusiasmi l’irrequietudine torna però a farsi strada. Dal Paraguay scrive a Herélle chiedendogli dei libri di storia e di cultura classica, e lascia trasparire il peso e “la miseria di questa vita solitaria e triste”. Nell’estate del 1901 è quindi in procinto di rientrare nuovamente in Italia, quando sente parlare di recenti avvistamenti di una tribù ancora selvaggia e praticamente sconosciuta, quella dei Barbudos o Moros, noti anche con il nome di Ayoréos. Questi indios nomadi godono tra le altre tribù di una tristissima fama, quella di praticare il cannibalismo e di essere incredibilmente crudeli, e forse anche per questo non sono mai stati avvicinati da nessun europeo. È un colpo da non mancare, la perla che può coronare tutto il suo lavoro scientifico e consacrare la sua fama di esploratore. Rimanda pertanto i progetti di rientro e si mette in cammino ai primi di agosto, penetrando nella foresta del Chaco boreale, con una piccola scorta armata. Come scrive il 18 ottobre nell’ultima lettera al fratello Oliviero, è intenzionato ad attraversare longitudinalmente tutto il Gran Chaco, spingendosi sino in vista delle Ande orientali e confidando di incontrare prima o poi la tribù sconosciuta. Vuol chiudere insomma questa seconda permanenza sudamericana in bellezza. Teme però che la vista di troppi uomini armati spaventi le popolazioni indigene, abituate alle incursioni di sterminio dei bianchi, e faccia fallire la spedizione; a dispetto di tutti gli avvertimenti degli atterriti Ciamacoco decide pertanto ad un certo punto di rimandare indietro la scorta. Il 24 ottobre lascia, insieme all’amico paraguayano Felix Gregorio Gavilàn e a soli quattro indiani, la fattoria di Los Mèdanos, ultimo avamposto della civiltà. Da allora scompare nel nulla.

Dopo otto mesi senza notizie i suoi amici di Asunción decidono di inviare una spedizione di ricerca, capitanata dallo spagnolo José Fernandez Cancio. Cancio trova labili tracce del passaggio di Boggiani, resti di fuochi, capanne di rami, perfino una scarpa e due cavalli abbandonati. La ricerca prosegue però molto lentamente, tra i problemi di approvvigionamento idrico creati dalla stagione secca e le diserzioni degli indigeni assunti come guide. Finalmente, dopo quattro mesi, arriva in un villaggio Ciamacoco dove il mistero si svela. Vengono rinvenuti i corpi di Boggiani e del suo compagno, dai quali sono state staccate la teste; viene recuperata la macchina fotografica con una serie di lastre rovinate, insieme ad altri oggetti appartenuti all’esploratore e che adesso sono esibiti come ornamento da diversi abitanti della tolderia. Viene anche individuato un colpevole, un indio di nome Luciano. Boggiani insomma non sarebbe stato ucciso dai crudelissimi Ayoréo, che non ha fatto nemmeno in tempo ad incontrare: è stato fatto fuori a randellate da indios “domesticati”, per una banalissima questione d’onore. Questa è almeno la versione ufficiale data dall’indio Luciano, che dichiara di aver ucciso l’esploratore, sorprendendolo nel sonno, per vendicare la sua relazione con la moglie di un amico assente. La realtà vera probabilmente è un’altra, e cioè che tutto il villaggio, comprese le guide indigene, abbia partecipato all’aggressione, un po’ per la paura dei contatti ravvicinati con i Moros che Boggiani insiste a cercare, un po’ per spartirsi i pochi beni dei due bianchi: ma questo non lo sapremo mai, perché Luciano dopo essere stato incarcerato e condannato riesce a fuggire dal carcere e non verrà mai più rintracciato[4].

La tragica ironia della sorte vuole che Boggiani, artista sensibile, esploratore ardimentoso, etnologo sul campo, estimatore degli indigeni e, tra le altre cose, omosessuale, venga ufficialmente ucciso da uno dei suoi pacifici Ciamacoco per aver corteggiato un’indigena.[5]

Boggiani pittore lascia un’ottantina di tele sparse tra musei, gallerie e collezioni private. Uno di questi quadri, “La raccolta delle castagne”, fu pagato nel 1883 seimila lire, una quotazione per l’epoca (e per il mercato italiano) altissima. Eppure oggi Boggiani è ricordato (si fa per dire) più come studioso che come artista. Per quel che vale la mia opinione, credo sia giusto: vedendo i suoi quadri, i pochi che ho potuto ammirare dal vivo, si ricava l’impressione di un pittore molto bravo, ma che ha già detto tutto quello doveva dire. E si tratta di opere dipinte tra i venti e i venticinque anni. Credo che lo stesso Boggiani, proprio per la sua sensibilità, fosse cosciente di percorrere una via senza sbocchi. I suoi contemporanei si chiamavano Cezanne, Van Gogh, Segantini. Lui stava facendo un buon lavoro, dava al pubblico quello che il pubblico voleva, e ne veniva ripagato col successo: ma sentiva di non avere nelle sue corde la scintilla per dire qualcosa di nuovo e di originale. Rischiava di diventare un onesto e quotato artigiano della tavolozza, condannato ad una pittura da repertorio per i tinelli buoni di ambienti gozzaniani, almeno fino a che i gusti non fossero cambiati. A Boggiani il successo non poteva bastare.

Cosa cercava, allora? Tralasciando ogni commento sullo spazio poi riservatogli nella memoria patria, torniamo all’interrogativo iniziale: cosa può spingere un giovane di venticinque anni, già all’apice della fama, ricco e ammirato, a mollare tutto e ad andare a cercarsi guai, e addirittura la morte, in mezzo a popolazioni selvagge, apparentemente lontane anni luce dai suoi interessi? La prima risposta che verrebbe spontaneo dare è: la noia. La noia da successo, la smania di esperienze nuove tipica di chi dalla vita sembra già avere avuto tutto. Probabilmente c’è anche questo: ma se la fuga di Boggiani fosse solo il capriccio di un giovane viziato ed annoiato, se pensassi che solo di questo si tratta, non sarei qui ora a scriverne. Di gente così ce n’è un sacco, l’ultimo che mi viene in mente è un rampollo dei Rockfeller che faceva l’antropologo ed è scomparso anni fa nel Borneo. No, il caso di Boggiani mi sembra un po’ particolare; e se anche così non fosse, si presta comunque a dettare qualche riflessione su ciò che davvero vogliamo dalla vita.

Boggiani vuole conoscere. Parrebbe un’ambizione ovvia e comune, ma non lo è affatto. La conoscenza “disinteressata”, non funzionale alla immediata sopravvivenza, dovrebbe costituire la peculiarità dell’essere, quanto meno di quello umano, o se vogliamo la sua anomalia: in realtà i più si accontentano di un sapere pragmatico, quello che consente di avere e quindi di apparire. Quando ha la prima, forse un po’ confusa, consapevolezza di ciò che davvero gli importa, Boggiani indirizza la sua sete di conoscenza nella direzione più gratificante: vuole conoscere ciò che è sconosciuto a tutti gli altri, ciò di cui può essere il primo indagatore. In questo senso parrebbe in fondo solo cercare la gloria per altra via o, al massimo, voler estendere la conoscenza, più che approfondirla. E forse l’intendimento iniziale era proprio questo. Ma poi la cosa gli prende la mano: a contatto con un mondo così lontano, così apparentemente incomprensibile, l’ambizione diventa insieme sfida intellettuale e passione; l’interesse si trasferisce dall’indagatore all’oggetto indagato. È un approccio diverso da quello di Antonio Raimondi[6], che elabora subito un progetto più sistematico e vive in maniera avventurosa solo quando non può farne a meno, mentre Boggiani riserva volutamente un margine all’avventura: ma alla fine il risultato è pressoché identico. Si manifesta indubbiamente in Boggiani anche una forte componente estetizzante, e ci mancherebbe altro, in uno che nasce come pittore e cresce nel milieu di D’Annunzio. Ma si ha l’impressione che, al contrario dei dannunziani, egli non sia tutto concentrato a guardarsi vivere, a mettere cornici ad ogni finestra della sua vita per farne dei quadri. Non pare tanto interessato a offrire l’immagine di una vita vissuta straordinariamente, quanto a vivere una vita straordinaria. Se un qualche anelito al superomismo lo coltiva, è del tipo più genuinamente nietzchiano, quello che il confronto lo prevede con se stesso, anziché con gli altri. E poi, è davvero affascinato da ciò che incontra in un mondo selvaggio, sporco, crudele, ma immediato e semplice. Insomma, si direbbe che uscito dall’infanzia, e avendo sperimentato una vita che alla fin fine non gli piace, vada cercando nuovamente quell’infanzia in un altro mondo, che un po’ infantile, almeno agli occhi di un occidentale raffinato e disilluso, lo è.

In fondo è ciò cui un po’ tutti aspiriamo, soprattutto se ci siamo formati sui libri di Salgari (non a caso suo contemporaneo, ed espressione di una analoga forma di “regressione”, quella che fa sublimare per iscritto ciò che non si riesce a vivere nella realtà). Non tutti partono per Asunciòn, ma un pensierino ce lo fanno: io stesso, dopo la lettura de Il tesoro del presidente del Paraguay e una punizione che ritenevo ingiusta, avevo già progettato una fuga da casa con destinazione la Plata (poi rientrata per maltempo).

Avviene che proiettiamo in un altrove spaziale il nostro desiderio di fermare il tempo. Non so quanto questo valga ancora oggi, per i nostri figli e nipoti, in un mondo che vede le distanze azzerate da tempi di percorrenza tendenti a zero, dalla possibilità di vivere in diretta gli accadimenti di ogni angolo della terra, da usi e consumi uniformati su scala globale, e che ha cancellato la distinzione tra passato, presente e futuro, fondendoli in un’unica durata estesa (nella quale ormai il blocco del tempo passa per la via chirurgica anziché per quella del sogno); ma senz’altro è valso per tutto il passato che ci separa dalla primordiale consapevolezza del trascorrere irreversibile del tempo.

Senonché sempre più spesso, e segnatamente nell’età moderna, il sogno di fuga individuale si è tradotto in una rêverie collettiva di riscatto, di ritorno sì all’infanzia, ma a quella dell’umanità, all’Eden originario. Ovvero, si è trasformato in utopia. E questo ci offre il pretesto per qualche altro appunto a margine della storia di Boggiani, che riguarda non il nostro eroe, ma il luogo da lui scelto per sognare e per morire.

 

Se c’è un paese che da sempre, sin dalla prima scoperta della sua esistenza da parte degli europei, si è candidato a localizzazione geografica della fuga e del sogno, questo è il Paraguay. Piazzato com’è al centro del continente, privo di un accesso diretto dal mare, è rimasto più a lungo di tutte le altre aree del mondo nuovo una macchia bianca, una terra incognita, ed ha precocemente calamitati fantasie e progetti di ingegneria sociale, con i tragici conseguenti sforzi di tradurli in realtà.

Cominciano subito gli spagnoli, importando la prima versione del sogno, quella molto prosaica della caccia all’Eldorado. Nel 1524, quando ancora nemmeno si sospetta l’esistenza dell’impero inca, Aleixo Garcia già risale il Rio Paraguay alla ricerca del Cerro de Plata (la montagna d’argento, probabilmente identificabile nel Potosì) che dovrebbe trovarsi al centro di un territorio governato da “el rey blanco”. Arriva sin quasi al territorio boliviano, ma solo per incontrarvi le ferocissime tribù del Mato Grosso, gli antenati dei Caduveo, che lo costringono a battere in ritirata e alla fine lo uccidono. Vent’anni dopo le sue tracce sono ricalcate da un personaggio la cui vita va oltre ogni fantasia, Alvar Nunez Cabeza de Vaca[7], a caccia della Noticia Rica, un favoloso regno dell’interno decantato allo stesso Garcia dagli indigeni rivieraschi.[8] Il risultato è pressoché identico, ma gli spagnoli non si scoraggiano facilmente. Un altro esploratore, Nuflo de Chaves, intraprende dopo la metà del secolo una nuova spedizione verso il nord del Rio Paraguay, includendo negli obiettivi della ricerca tutto il repertorio mitico della conquista, dall’Eldorado alle Amazzoni, dalla Noticia Rica al Paititi. Quando si imbatte in una fortezza costruita nel bel mezzo della pampa, nell’assalto alla quale lascia sul terreno un mucchio di uomini, capisce che è ora di tornare. Dopo questa ennesima fallimentare esperienza i suoi connazionali decidono che forse non vale la pena perdere tanto tempo e tanti uomini in quel labirinto di paludi e foreste, e cedono il sogno ad altri.[9]

Gli altri sono i Gesuiti, e la storia è quella in parte raccontata nel film Mission. A partire dal 1609, sotto l’impulso del nuovo generale, il padre Montoya, la Compagnia di Gesù fonda una serie di missioni nell’area compresa tra i corsi del rio Paranà e del rio Paraguay, attestandosi nelle zone più interne e inaccessibili. Ha ottenuto dalla corona spagnola che quelle terre diventino una sorta di riserva indiana, interdetta ad ogni penetrazione bianca, militare o commerciale, e danno luogo in pratica al primo esperimento di utopia realizzata. Nel corso di un secolo e mezzo arrivano a fondare ben trenta reducciones, che coprono un territorio grande una volta e mezza l’Italia e contano una popolazione di oltre centomila indios, quasi tutti guarani. Le reducciones sono organizzate ufficialmente in funzione della cura delle anime, ma per arrivare a questo scopo occorre in primo luogo indurre gli indigeni ad abbandonare il nomadismo, il che significa fare tabula rasa di tutta la loro cultura e riorganizzarne totalmente l’esistenza. Ad un certo punto anche nelle intenzioni dei missionari, che devono prendere atto dello scarso entusiasmo religioso degli indios, è proprio l’aspetto dell’organizzazione sociale e produttiva a prevalere. Ogni reduccion è ampiamente autonoma, anche se alcune regole generali valgono per tutte (nell’architettura, negli schemi urbanistici e nell’organizzazione del lavorio, ad esempio). In esse l’amministrazione della giustizia spetta ai religiosi, mentre quella dell’economia è affidata agli indigeni. I villaggi sono edificati in base ad una pianta geometrica, con epicentro nella piazza della chiesa, gran parte della produzione è comunitaria, anche se non viene mai del tutto abolita la proprietà privata, e ogni aspetto della vita sociale è minuziosamente regolamentato, a partire dagli orari di lavoro e di preghiera. È in pratica il tentativo paternalistico di tenere questo popolo fuori dalla storia, tentativo tutto sommato benemerito, dal momento che la storia per essi è rappresentata soprattutto dai bandeirantes, i cacciatori portoghesi di schiavi. Proprio per difendere gli indigeni da questi ultimi i padri gesuiti ottengono dalla corona l’autorizzazione a organizzare delle milizie, che sotto la guida dei soldati di Cristo diventano particolarmente efficienti (tanto da essere in qualche occasione utilizzate persino come milizie mercenarie). La vocazione “militarista” del Paraguay ha paradossalmente le sue radici più nell’insegnamento gesuitico che nella naturale bellicosità delle tribù indigene. Il piccolo esercito non è però sufficiente quando, dopo il 1750, tutto il territorio di pertinenza delle reducciones viene ceduto dalla Spagna al Portogallo. I gesuiti sono espulsi, le loro missioni smantellate, gli indios, forzatamente abbandonati a se stessi, non possono far altro che dare alle fiamme i villaggi abbandonati e rifugiarsi nelle foreste: moltissimi sono uccisi, gli altri vengono ridotti quasi tutti in schiavitù. I guerrieri che avevano fermato Cabeza de Vaca e Nuflo Chavez, una volta trasformati in contadini, non sono più in grado di sfruttare il vantaggio ambientale.

L’esperimento gesuitico è stato variamente giudicato. Tra i contemporanei Montesquieu e Voltaire lo hanno elogiato, mentre Ludovico Antonio Muratori ne ha raccontato dettagliatamente la storia ne “ Il cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay”. Qualche decennio dopo Joseph de Maistre vi ha visto prefigurato visto il modello del suo stato teocratico.

La lettura si è invece modificata, in senso decisamente negativo, nel corso dell’Ottocento. Michelet scriveva che i Guarani erano tenuti “come in una repubblica di fanciulli, dove si mostra un’arte sovrana ad accordare loro tutto, tranne ciò che potrebbe sviluppare l’uomo dal neonato”. Grosso modo è questo il giudizio ancora oggi corrente: in effetti gli indios erano davvero trattati come dei bambini da difendere e da indirizzare costantemente, e molti non riuscirono mai ad adeguarsi al modello di vita sedentario e regolamentato imposto dai gesuiti. Le fughe e il ritorno alla foresta erano all’ordine del giorno, e in qualche caso vennero duramente punite, malgrado nelle missioni non fosse contemplata la pena di morte. Ma va anche ricordato che sul piano pratico le reducciones produssero un enorme aumento del benessere materiale, e preservarono almeno per un secolo queste popolazioni da una schiavitù ben più feroce. Inoltre, se paragonato agli altri esperimenti di ingegneria sociale tentati nel secolo scorso, quello dei gesuiti appare un mondo quasi idilliaco.

 

Il sogno dei gesuiti in realtà non si dissolve completamente con la scomparsa delle reducciones. Se ne fa erede oltre mezzo secolo dopo una singolare figura di dittatore, Josè Gaspar Rodriguez de Francia, l’uomo che prima ancora di Bolivar e di Josè de San Martin proclama l’indipendenza di un paese dell’America spagnola. Francia si fregia dell’appellativo di “El Supremo” ed è un altro personaggio coi controfiocchi. È un devoto di Voltaire e di Rousseau, oltre che di Machiavelli, tiene sulla scrivania un busto di Robespierre e assomma tutte le contraddizioni dell’integralismo illuministico. Dà prova di un eccezionale coraggio nella ribellione contro il governo spagnolo, di una rara incorruttibilità al momento della fondazione della nuova repubblica, di una maniacale propensione al sospetto e di una implacabile brutalità una volta salito al potere. Dietro la sua feroce dittatura c’è però un disegno ben preciso. In mezzo alle guerre civili che cominciano ad insanguinare l’America meridionale Francia si erge a difensore intransigente dell’indipendenza nazionale, e vuole fare del Paraguay un modello di razionalità amministrativa e politica. L’intero paese viene “nazionalizzato”, sono bloccati tutti gli accessi terrestri o fluviali ed è impedito l’ingresso agli stranieri. Quelli già presenti vengono semplicemente trattenuti in stato di semidetenzione (accade anche al povero Aimée Bompland, il compagno di viaggio di Humboldt, che rimane ostaggio di Francia per dieci anni, vittima ignara e incolpevole di un sottile ricatto diplomatico). Ogni altra autorità, prima tra tutte quella della Chiesa, è liquidata. Francia abolisce l’Inquisizione, chiude conventi e seminari, proclama la libertà di culto (“qui da noi potrete seguire la religione che più vi piace, potrete essere cristiani, ebrei mussulmani, tutto tranne che atei”, disse ad un medico svizzero), cancella le aristocrazie e le differenze sociali, prima tra tutte la schiavitù: con una legge apposita vieta il matrimonio tra bianchi e impone il meticciato, fa edificare fattorie “di stato” per migliorare l’agricoltura e pubblicare manuali tecnici per educare gli abitanti alle arti e all’industria. La stessa Asunciòn è sventrata e ricostruita secondo il modello geometrico che Ippodamo di Mileto aveva disegnato per il Pireo, con le vie perfettamente allineate e perpendicolari. Tutto questo è perseguito con una feroce determinazione, sorretta dal sincero convincimento di fare il bene del popolo e di essere l’unico a sapere quale è questo bene. Per scoraggiare le incursioni che gli indios del Mato Grosso sono soliti compiere nel nord del paese Francia ne fa catturare e uccidere alcune migliaia, e fa porre le loro teste sui pali che delimitano quella che di lì innanzi dovrà essere per loro una frontiera invalicabile. Lo stesso metodo lo utilizza per dissuadere i suoi guarani dalla pratica del furto. Le spie sguinzagliate ovunque a caccia di dissidenti riempiono le carceri di prigionieri, e il dittatore esprime più volte la machiavellica convinzione che qualche centinaio di condanne a morte nuocerà al paese molto meno di una guerra civile. È immaginabile quanto apprezzi gli intellettuali (“quando un paese ha bisogno di mais e di manioca, a cosa servono le orgogliose divagazioni degli intellettuali?”), e in questo sirifà direttamente al modello utopistico primo, quello di Platone.

Gli intellettuali naturalmente lo ripagano con la loro moneta, soprattutto quelli stranieri che riescono a venirne fuori dopo anni di forzata permanenza. I fratelli John e William Robertson pubblicano nel 1835 Il regno del terrore di Francia, che suscita un grande dibattito, e che vede l’intervento di Thomas Carlyle a difesa del dittatore: “quando (Francia) tornò nel Paraguay si distinse per il suo valore a tutta prova. Non esitò mai a difendere il debole contro il forte, il povero contro il ricco. Faceva pagare l’onorario solo a coloro che potevano … e acquistò presto una grande reputazione di competenza, di onestà e di incorruttibilità”. [10] Il che, se riferito alla sua professione di avvocato, è anche vero, così come è vero che Francia ottenne come presidente il risultato di tenere il paese fuori dalle guerre civili e di portare il Paraguay ad un livello di produttività e di benessere decisamente superiore a quello degli stati confinanti.

Sulle valutazioni della figura di Francia e dei risultati del suo quarto di secolo di dominio hanno pesato indubbiamente nell’ottocento il legame dichiarato del dittatore con gli ideali della cultura illuministica e libertina e la sua ammirazione per Robespierre, nel novecento le inquietanti similitudini riscontrabili con altri regimi dittatoriali e utopici, sia della prima che della seconda metà del secolo. Oggi sembra esserci la tendenza, almeno in patria, a rivalutarlo, a considerarlo come un padre dell’indipendenza e un riformatore sociale, tanto che la sua effige compare sulle banconote paraguayane. Rimane il fatto che, anche se le valutazioni ostili erano spesso fondate sul favoleggiamento, come nel caso della descrizione della detenzione di Bompland fatta dai Robertson, le testimonianze dei pochi visitatori che tornarono dal Paraguay per raccontarla concordano su un clima cupo e invivibile, nel quale l’odio per Francia era pari solo al terrore per la sua repressione. Il dittatore stesso, secondo la testimonianza del solito medico svizzero, era stupito “del fatto che tutti i suoi concittadini camminassero sempre a testa bassa”. Ennesima conferma del fatto che i sogni di palingenesi, quando vengono forzatamente tradotti in realtà, si traducono in incubi terribili.

Meno controverso è invece il giudizio sui successori del Supremo, che in un crescendo di dissolutezza e crudeltà portano in mezzo secolo il paese alla completa rovina, trascinandolo in insensati e ininterrotti conflitti di confine. Sotto l’ultimo, Francisco Solano Lopez, la popolazione passa da oltre mezzo milione a 220.000 abitanti, di cui solo circa trentamila maschi, per le conseguenze una guerra contro Argentina, Brasile e Uruguay. Quando viene restaurata una pur parziale normalità diventa fondamentale incoraggiare l’arrivo di immigrati. Molti tra questi sono italiani, e non si tratta più di esuli politici (come Garibaldi e Raimondi) ma di contadini piemontesi, lombardi e veneti, e successivamente meridionali, rovinati dalla filossera o dalle politiche doganali della sinistra storica. Non sono portatori di utopie, bensì di storie di miseria e della volontà di riscattarle, che spesso fanno pagare proprio agli indios. Boggiani viaggia con loro, ma certamente non li rappresenta.[11]

Eppure in questo periodo il Paraguay torna ad essere, proprio per la politica di incentivo all’immigrazione, terra promessa per la creazione di società utopiche. Nel 1887, nello stesso anno in cui arriva Boggiani, viene fondata da Bernhard Förster, cognato di Friedrich Nietzsche[12], la Nueva Germania, una colonia basata su un progetto utopico confusamente socialisteggiante ed eugenetico, e indubitabilmente insensato. Förster è a capo di un gruppo di prussiani antisemiti, e nei suoi intenti la colonia deve diventare il rifugio di tutti i tedeschi che vogliono preservare la propria identità culturale e la purezza ariana. Vivendo a stretto contatto con una natura tanto ricca quanto pericolosa potranno tornare alle fonte originaria dell’energia vitale e riacquistare la salute corporea e mentale compromessa dalle mollezze della modernità. La colonia è pertanto assolutamente chiusa ai non ariani, massime agli ebrei, e mira a difendersi da qualsiasi nefasto influsso della cultura angloamericana. Nueva Germania viene però fondata nel bel mezzo della foresta pluviale, in una delle zone più povere del Paraguay, e non tarda ad andare a bagno. Delle venti famiglie trapiantate non una regge al confronto con la natura selvaggia, e lo stesso Förster finisce per suicidarsi solo un paio d’anni più tardi. Rimane però in Paraguay, oltre al suo corpo, anche il suo ricordo, che sarà riesumato negli anni trenta, quando si creeranno tra gli immigrati di origine tedesca gruppi con forti simpatie per il nazismo: in questo modo si aprirà la strada, dopo la seconda guerra mondiale, all’afflusso di moltissimi criminali di guerra nazisti, primo tra tutti il famigerato dottor Menghele, che nel Paraguay troveranno un rifugio sicuro.

C’è una Nueva Germania, ma c’è anche una Nueva Londres. L’ideatore di quest’ultima è William Lane, un giornalista australiano che dopo aver letto i libri di Robert Owen matura il proposito di creare un “eden“ comunitario in un luogo isolato della Terra. La legge paraguaiana sull’immigrazione sembra fatta apposta per consentirgli di metterlo in pratica. Nel 1893 il governo di Asunciòn concede alla società creata da Lane oltre duecentomila ettari di terreno, destinati ad un migliaio di coloni provenienti dall’Australia. Al momento dell’insediamento i coloni sono meno della metà, ma sono sufficienti a formare due o tre comunità organizzate secondo i modelli del socialismo utopistico. Anche in questo caso però l’esperimento non regge. Dopo un paio d’anni molti coloni tornano in Australia, mentre quelli che rimangono si integrano nella cultura e nell’economia paraguayana.

Non è ancora finita. Per qualche tempo, negli anni novanta dell’ottocento, in piena esplosione dell’antisemitismo, il Paraguay viene preso in considerazione anche dai sionisti, come possibile rifugio per la nuova diaspora ebraica. Prevale poi il partito del focolare palestinese, e non se ne fa nulla (anche se a partire dall’inizio del XX secolo l’emigrazione ebraica verso il Paraguay è consistente, cosa che senz’altro avrà fatto rivoltare Förster nella tomba). Ma non c’è alcuna volontà di creare una comunità separata. Questa è invece assolutamente negli intenti di un nuovo gruppo di immigrati, i mennoniti[13]. Eredi diretti dell’anabattismo, perseguitati per secoli in Europa, i mennoniti hanno trovato nel nuovo mondo le condizioni per vivere in comunità il più possibile chiuse e separate, all’interno delle quali praticare i principi della nonviolenza, della fratellanza e della povertà (o meglio, sobrietà) individuale e conservare intatte le loro tradizioni. Negli anni venti del Novecento quelli di lingua tedesca si trovano a dover lasciare il Canada, loro ultimo rifugio, per non sottostare ad una legge che impone una lingua ufficiale unica. Esplorano le possibilità dell’America Latina e alla fine, a partire dal 1927, optano per il Chaco centrale, dove sono garantiti la libertà di culto, la possibilità di una organizzazione scolastica propria, l’autonomia linguistica e l’esonero dal servizio militare. Negli anni successivi saranno raggiunti da altri confratelli provenienti dalla Russia e dalla Polonia. In questo caso, forse per la consuetudine ai trapianti maturata dai mennoniti in secoli di persecuzioni, l’esperimento ha successo, e la colonia prospera (attualmente è la più consistente, dopo quella statunitense).

 

Infine, l’ultima diaspora che interessa il Paraguay, come abbiamo già visto, è quella nazista nell’immediato dopoguerra[14]. Gli aguzzini dei campi di sterminio sono in questo caso alla ricerca non di una terra felice, ma di un rifugio sicuro e segreto. Il Paraguay è ancora una volta il luogo ideale per rifarsi una vita completamente nuova. Al di là delle simpatie per il nazismo manifestate dalla sua colonia tedesca, ci sono una tradizione ormai consolidata di incentivo all’immigrazione, che ha cancellato in pratica ogni filtro, l’acquiescenza e comunque la scarsa capacità di controllo del territorio da parte delle autorità, soprattutto nell’immensa e quasi disabitata zona del Chaco, e la distanza fisica e storica dai luoghi dove si è consumata l’infamia. A conti fatti, sembra proprio questo l’esperimento più riuscito. Delle migliaia di criminali che attraverso le connivenze degli alleati e del Vaticano hanno trovato rifugio nella terra tra i due fiumi, solo poche decine sono stati individuati: gli altri sono stati tranquillamente inghiottiti dalla foresta, per riemergerne in qualche caso con un’identità nuova e immacolata, o per godersi in santa pace una immeritata vecchiaia.

 

Quello che alla fine del Settecento il naturalista Felix de Azara descriveva come un paradiso terrestre è oggi uno dei paesi più poveri dell’America Latina, secondo in questa poco ambita classifica solo ad Haiti. Nella prima metà del Novecento ha visto succedersi trentun presidenti, quasi tutti buttati fuori da sommosse popolari o da colpi di stato, in buona parte liquidati direttamente in attentati. Nella seconda metà ne ha avuto uno soltanto, Alfredo Stroessner, che ha instaurato un regime crudele come quello di Francia e letale come quello di Solano Lopez, senza neppure l’attenuante del busto di Robespierre, e che è rimasto al potere per oltre trentacinque anni. Il bilancio complessivo è desolante: la rete ferroviaria attiva del paese copre attualmente trentun chilometri, dopo essere arrivata nel secolo scorso a quasi cinquecento; l’economia è da quarto mondo e le risorse utilizzabili per un qualche sviluppo sono tutte controllate da capitali stranieri; il parlamento è nelle mani dei grossi latifondisti ed è considerato il più corrotto dell’America Latina (che è tutto dire); l’ultimo colpo di stato ha portato al potere un tizio che di cognome fa Franco. Neppure il meticciato già voluto da Francia, attivamente praticato da Boggiani e rilanciato oggi dalla globalizzazione come futuro modello demografico, ha dato gli esiti che i suoi nuovi teorici decantano. La popolazione paraguaiana è al novantacinque per cento meticcia (un buon quaranta per cento ha anche sangue italiano nelle vene), ma per metà vive sotto la soglia ufficiale della miseria e in un pesante analfabetismo di ritorno.

A dispetto (o forse proprio in ragione) di tutti i sogni e di tutti i progetti che ha calamitato, il Paraguay non è mai stato una terra felice. Oggi lo è meno che mai. È scomparso dall’immaginario, dalle canzonette popolari e dai libri d’avventura, e i media ne parlano solo in occasione di qualche partita di calcio finita in un massacro. La quasi totalità degli italiani non saprebbe neppure individuarlo su una carta geografica. Non ci sono più i Caduveo, e anche le foreste che li ospitavano stanno velocemente scomparendo. Boggiani ha davvero fatto appena in tempo a vederne gli ultimi angoli incontaminati.

Letta in questa luce, la sua fine è stata in fondo un prezzo equo da pagare.

[1] Viaggi d’un artista nell’America meridionale, 1895

[2] “Corriere della Sera” del 29 Settembre 1935

[3] La storia di queste lastre meriterebbe un racconto a parte. Molte di esse furono recuperate dal botanico ed esploratore cecoslovacco Alberto Vojtěch Frič, che giunse in Paraguay qualche anno dopo il Boggiani e instaurò buoni rapporti con gli indios. Era arrivato in Sudamerica spinto dalla passione per i cactus e si era poi affezionato al popolo Chamacoco, tanto che aveva cercato di curare le loro malattie intestinali. La sua vita è stata raccontata da Claudio Magris in Dalla Mitteleuropa alla giungla. Avventure e follie di un botanico.

[4] Il suo nome però non sarà dimenticato, e diventerà sinonimo di tradimento. A metà degli anni trenta, in uno dei primi fumetti di avventura italiani, Ulceda di Moroni Celsi, ambientato nelle foreste del gran Chaco, l’indio traditore e infido si chiama proprio Luciano.

[5] Claudio Magris banalizza la cosa, in un tentativo non riuscito di essere spiritoso: “[…] venendo ucciso, sembra per le sue spicce attenzioni a una donna india, nonostante fosse conosciuto presso gli indigeni anche come Lily, per le attenzioni rivolte agli uomini, cosa nient’affatto strana in una cultura pervasa dal sentimento panico di una sensualità indifferenziata” (“Dalla Mitteleuropa alla giungla. Avventure e follie di un botanico”). Appunto. Una sessualità indifferenziata, nella quale ci sta di tutto, tranne che gli indios lo conoscessero come Lily!

[6] Cfr. Voglio andarmene in Perù.

[7] Durante una spedizione nel continente nordamericano Cabeza de Vaca era sopravvissuto alla strage di quasi tutti i suoi compagni, era stato catturato dagli indigeni e aveva vissuto presso di loro prima come schiavo poi come uomo della medicina, era fuggito e aveva peregrinato per otto anni nelle foreste, prima di raggiungere un avamposto spagnolo sulla costa del golfo del Messico.

[8] Padre Gonzalez Paniagua, che era al seguito di Cabeza de Vaca, riporta che “gli indios gli raccontarono di un regno di donne guerriere, in un lago molto grande, e questi indigeni, senza contraddirsi tra di loro gli dissero che dieci giorni da quel luogo in direzione nordest abitavano in grandi villaggi delle donne che avevano molto metallo bianco e giallo e che le posate con le quali mangiavano era tutte fatte di quel metallo e che avevano come regina una donna e che son guerriere, e che in un certo mese dell’anno si uniscono con indigeni di altre provincie e hanno con essi rapporti carnali e se quelle che restano incinta partoriscono femmine le tengono con loro mentre se partoriscono maschi li tengono con loro fino a che li svezzano e poi li reinviano ai loro padri … e che è gente che possiede metallo bianco e giallo in tanta quantità che non si servono con vasi di terracotta, ma con vasi e pentole e padelle di quel metallo […]”.

[9] Nuflo de Chaves era giunto al cospetto di bastioni costruiti con tronchi d’albero dai Moxos, alleati degli Incas. I Moxos opposero una strenua resistenza, causando la morte di una ventina di spagnoli, di circa trecento indigeni alleati degli Europei e di quaranta cavalli. Gli invasori dovettero ritirarsi e si divisero in due gruppi: alcuni si diressero verso sud-est, per raggiungere il territorio dei pacifici Xarayes, mentre gli uomini di Chaves si diressero verso sud-ovest. Le vicende della spedizione ricordano molto l’Anabasi e le sue moderne versioni cinematografiche, da Passaggio a nord-ovest a Tamburi lontani, da Obiettivo Burma a I guerrieri della notte.

[10] Thomas Carlyle ed altri –El doctor Francia – Asunctiòn 1987

[11] Non sempre la storia di questa emigrazione è limpida. Quando Boggiani si imbarca per il Paraguay non si è ancora spenta l’eco della noche triste de los italianos, una notte di follia provocata ad Asunciòn nel 1870 dai nostri connazionali col pretesto di una falsa accusa, che causò decine di vittime e centinaia di arresti.

[12] Nietrsche lo detestava al punto da rifiutarsi di presenziare al matrimonio della sorella.

[13] Membri della setta protestante fondata a Zurigo nel 1525 da Menno Simons (1496-1559), come costola del movimento anabattista, costretti a emigrare lontano dalla Germania dopo la distruzione di Munster

[14] Tra i più tristemente noti, oltre a Menghele, Martin Bormann ed Edward Rosehmann, il gaulaiter del campo di Riga.

 

 

Chi sono i Viandanti delle Nebbie

di Paolo Repetto, 30 dicembre 1996

Forse si farebbe prima a dire “cosa” non sono. I “Viandanti” non sono un partito politico, ma oppongono una resistenza politica ad ogni forma di omologazione istupidente; non sono un gruppo sportivo, ma praticano la disciplina sportiva più pura, quella che richiede solo buone gambe, volontà e fantasia; non sono un’agenzia di viaggi, ma promuovono una conoscenza non utilitaristica del territorio; non sono un’associazione ecologica, ma si battono da bravi indigeni per la difesa del “loro” ambiente; non sono un’accademia culturale, ma coltivano ogni manifestazione non istituzionalizzata del sapere; non sono un ordine mendicante, ma rifiutano la logica della mercificazione di ogni idealità.
In breve, non rispondono ai requisiti di visibilità imposti dal dominio dell’insignificanza virtuale. Sono invece un’esperienza, anzi tante, diverse, continue esperienze di (r)esistenza extra-catodica e post-cellulare, cioè di vita degna di questo nome, di amicizie, di letture, di escursioni, di convivi, di scoperte, che non vogliono essere consumate in un arcadico distacco, ma vanno trasmesse nelle forme più semplici, dirette e genuine, attraverso le quali è possibile esprimere sogni, idee ed emozioni, ed invitare gli altri ad esserne partecipi (e non spettatori).

 

Io sono un viandante, uno scalatore, disse egli al proprio cuore; io non amo le pianure e, a quanto pare, non posso starmene a lungo tranquillo. E qualunque destino o esperienza mi tocchi, – in essi sarà sempre un peregrinare e un salire sulle montagne: alla fine non si esperimenta che se stessi.
FRIEDRICH NIETZSCHE