La verità, vi prego sui cavalli

di Paolo Repetto, 30 giugno 2018

1 Prima

La verità vi prego sui cavalli QuadernoCerco di convincermi che è solo un po’ di stanchezza, lo scotto da pagare all’età. Perché a settant’anni, checché ne dicano i pensionati in fregola e la pubblicità che li titilla, è naturale che la voglia di viaggiare lasci il posto ad abitudini più pantofolaie. Ma la verità è un’altra: la depressione pre-partenza l’ho sempre sofferta, anche quando gli anni erano meno di un terzo di quelli attuali. All’avvicinarsi del giorno fatidico saltavano fuori i dubbi: cosa vado a cercare, ne vale poi la pena, avrei un sacco di cose da fare a casa (il che era anche vero), ecc … A quanto pare non ho mai avuto la natura del vero viaggiatore. Forse stavo bene dov’ero, abbastanza almeno da non desiderare altro.

Eppure ho continuato a partire, appena possibile (che significa, comunque, non troppo spesso). A differenza dei dubbi, sempre gli stessi, le motivazioni erano ogni volta diverse. Non ho mai tenuto un elenco delle destinazioni da raggiungere (o delle montagne da scalare) per poterle poi depennare. Mi sembrava, e mi sembra tuttora, una cosa stupida. Le mete nascevano lì per lì, sull’onda di un’occasione: muovermi con mio fratello o con un amico, rispondere all’invito di un altro, verificare una lettura o una notizia che mi avevano colpito, a volte semplicemente togliermi per un po’ dai piedi. Non nego che in qualche caso si sia trattato di veri e propri pellegrinaggi, ma anche questi condotti con criteri variabili: ho rispettato ad esempio la “sacralità” del castello di Tegel, dove nacque e trascorse l’infanzia Humboldt, o della tomba di Leopardi, mentre ho poi cercato nella New Forest la lapide in pietra di Alice Liddell, l’ispiratrice di Lewis Carroll, e ho visitato il cottage di Wordsworth e la casa di Thomas Mann a Lubecca.

Adesso arriva l’Islanda. Inaspettata, ormai. Era in programma una dozzina d’anni fa, dovevo attraversala in diagonale con Roberto Bruzzone, uno che divora distanze e pendenze con una gamba artificiale. Poi tutto è saltato, e le avevo messo una croce sopra. Ci ha pensato mia figlia Chiara: ha proposto una cosa molto meno sportiva ed epica, ma deve avere realizzato che per me poteva essere l’ultima occasione, e di questo le sono grato.

27389911203_435f65554b_oI dubbi tuttavia ci sono lo stesso. Perché poi, in sostanza, che ci va a fare uno in Islanda, a meno che non abbia appunto un carnet da riempire? Quando un amico me lo chiede a bruciapelo non ho pronta una spiegazione convincente (per lui, ma prima ancora per me, che già mi stavo interrogando per conto mio). Per quanto ne so c’è forse un albero per chilometro quadrato (e all’interno nemmeno quello), piove trecentosessanta giorni l’anno, a luglio, se va bene, la temperatura è sui tredici gradi, non ci sono musei e città d’arte e gli unici animali un po’ esotici sono le foche. Certo, l’aurora boreale e i geyser, ma per chi non è più in vena di trekking, non ha mai messo piede fuori dall’Europa e ha a disposizione per viaggiare ancora pochissimi anni, ci sarebbero teoricamente altre mete ben più interessanti.

Invece no. Una risposta c’è. L’Islanda ha la precedenza (e mi sa che non sia solo un “precedente”, ma anche un definitivo) perché l’aspettavo da anni: da almeno sessanta, da quando ho letto il Viaggio al centro della terra. Pur non figurando tra i miei libri preferiti, questo ha lasciato il segno. Non per la trama o per i protagonisti, proprio per l’ambientazione. All’epoca sapevo già benissimo che non è possibile scendere più di tanto nel cratere di un vulcano dormiente, ma per come Verne metteva la faccenda si poteva dare libera uscita alla fantasia e lasciarla sfogare appena sotto la crosta terrestre, perché poi è lì che svolge la storia. Soprattutto, però, a colpirmi era stata la parte “realistica”, quella dell’avvicinamento alla bocca dello Snæfellsjökull. Verne descrive una terra povera e ostile, ma al tempo stesso magnetica, e comunque traccia un percorso che chiunque può immaginare di fare. Non c’è nulla di eroico nella prima parte dell’itinerario dei nostri eroi, gli unici incontri sono quelli con i contadini che li ospitano per le tappe notturne: ma l’atmosfera è comunque strana, si carica mano a mano che ci si avvicina al cratere e che il paesaggio diventa se possibile più spoglio e lunare. Non ho impiegato molto ad aggregarmi al trio degli avventurosi.

Un’impressione altrettanto indelebile me l’ha procurata solo la descrizione che delle montagne dell’Atlante faceva Salgari: ma questa forse è più comprensibile, perché piazzava foreste lussureggianti in mezzo al deserto. (e infatti proprio quella potrebbe essere una prossima meta, sempre che alla fine mi trascini sino all’Islanda).

Verne descrive così il paesaggio islandese: “Uscendo dalla casa parrocchiale, il professore imboccò una via diritta, la quale, attraverso un’apertura della muraglia di basalto, si allontanava dal mare. Giungemmo quasi subito in aperta campagna, se così si può chiamare l’immensa massa di detriti vulcanici. Il paese sembrava come soffocato da una pioggia di enormi pietre, di trapps, di basalto, di granito e d’ogni tipo di rocce pirosseniche. Da ogni parte vedevo salire vapori verso il cielo; quei vapori bianchi detti reykir in lingua islandese, provenienti dalle sorgenti termali, confermavano, con la loro forza, l’attività vulcanica del terreno”.

14752137062_ed99faff3c_oNon credo che Verne sia mai stato in Islanda, ho fatto qualche ricerca e non risulta. Ma era uno che si documentava accuratamente, e deve aver letto le descrizioni dell’isola lasciate a partire da Olao Magno (che a sua volta non ci aveva mai messo piede) in poi. Erano disponibili quella di John Stanley, redatta alla fine del Settecento, e soprattutto quella di George Mackenzie, che aveva percorso l’isola in lungo e in largo nel 1810, entrambe comparse nelle Annales des Voyages: ma probabilmente aveva consultato anche opere più recenti. Insomma, il materiale di prima mano non gli mancava e l’ambiente che dipinge, sia pure a grandi tratti, dovrebbe essere abbastanza realistico.

Non era questa comunque la mia preoccupazione quando leggevo il Viaggio al centro della terra (anche se già allora su queste cose ero piuttosto pignolo). Alla prima menzione dell’Islanda ero andato a cercarmela sull’unica, minuscola carta geografica dell’Europa disponibile nel sussidiario, e la lampadina si era accesa lì, davanti alla posizione assolutamente sperduta dell’isola e alla sua forma frastagliata, da perfetta isola del tesoro.

La mia Islanda è rimasta dunque quella di Verne fino all’incontro col più famoso dei suoi abitanti, l’islandese eternamente fuggiasco che si confronta con la natura nel dialogo leopardiano. Qualche dettaglio in più lo avevo però ricavato nel frattempo dal primo atlante scolastico e dalla Storia Universale di Cesare Cantù, che nella prima adolescenza costituì per me un testo sacro, essendo l’unica opera di storia presente in casa. Nello specifico della geografia dell’isola Cantù era meno documentato dello stesso Verne (parla delle “pompe di una rigogliosa vegetazione” e non cita i vulcani), ma quanto alla storia costituiva una vera miniera. Pur essendo un conservatore e un terribile bigotto manifestava per gli islandesi e per la loro democrazia, della quale dimostrava di conoscere bene il funzionamento, un’ammirazione incondizionata: “in quell’asilo di libertà e indipendenza … l’Islanda diventò un’altra Scandinavia, quasi la Provvidenza avesse voluto mantenere colà il tipo originale del nordico mondo … leggi chiare e precise, ed un ordine meraviglioso per repubblica piantata sotto il circolo polare da gente cui fu unica ragione la forza. ..”. Soprattutto ne apprezzava la singolarità e l’indipendenza culturale”… la favella antica, chiamata danese, poi lingua del nord, trasferita in Islanda coll’eleganza conveniente alla nobiltà dei migrati, fu mantenuta con gelosa purezza, mentre le comunicazioni con altri popoli la alteravano in Danimarca e in Norvegia …” ( cito da un taccuino di appunti presi almeno cinquantacinque anni fa: segno che l’argomento, in mezzo a quella mole infinita di notizie, mi aveva particolarmente intrigato)

20405617315_071a17008b_oLeopardi all’Islanda ci era invece arrivato di terza mano, attraverso la lettura della Storia di Jenni, o il saggio e l’ateo, di Voltaire (1775), dove si dice che “Sempre minacciati, gli islandesi si vedon la fame davanti, cento piedi di ghiaccio e cento piedi di fiamme a destra e a sinistra sul monte loro Hekla, poiché i maggior vulcani son tutti posti su tali orrende montagne”. E anche Voltaire parlava per sentito dire. Nello Zibaldone non ho trovato cenno ad altre fonti, e non risulta che Leopardi abbia mai letto Han d’Islanda di Hugo, che pure era uscito un paio d’anni avanti la stesura del Dialogo della natura e di un islandese, e che comunque non gli avrebbe fornito alcuna notizia, perché con l’Islanda reale non ha niente a che vedere.

Leopardi non ha mai conosciuto un islandese – anche oggi dalle nostre parti pochi ne conoscono uno – così come non ha mai conosciuto un pastore kirghiso: eppure poche altre figure letterarie risultano azzeccate come le sue. Non per aderenza alla realtà ma, al contrario, per la valenza simbolica universale che assumono proprio in virtù della loro indeterminatezza. Anche se ho incontrato il suo “geografo del male” a quindici anni, quando si è pieni di sogni e di belle speranze, mi sono immediatamente identificato, e la cosa paradossale è che ho fatto miei sia il primo proposito (“deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in alcun modo di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene al mondo, vivere una vita oscura e tranquilla) che quello finale (mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire). Ancora oggi, non avendone mai conosciuto uno, l’islandese per me rimane quello.

Dopo quelli propiziati da Verne, Cantù e Leopardi (Olao Magno è arrivato molto più tardi) non ho avuto altri contatti significativi con l’Islanda fino ai primi anni novanta, quando mi sono imbattuto nell’ironico e disincantato resoconto di viaggio (Estremo Nord) di un americano, Lawrence Millman. Millman non indulge a immagini idilliache della società e della popolazione islandesi (la notte del sabato a Reykjavik è raccontata come un vero incubo), e non fa sconti nemmeno al paesaggio: “La desolazione dei campi di lava, degli altipiani, delle montagne brulle e delle morene sembra essere stata ufficialmente definita off limits per il genere umano dagli dei dell’era terziaria. Non ci sono cartelli a indicare questo divieto, ma i cartelli sono da sempre proibiti in Islanda, perché fanno apparire sgraziata quella desolazione.”: ma alla fine il risultato è che vorresti comunque essere con lui sull’isola, anche se a volte descrive ambienti da girone infernale.

Questo risultato lo ottiene soprattutto attraverso particolari gettati lì quasi per caso, come quando racconta che nel faro di Hornbjarg, nel Jökulfiördur (Fiordo del ghiacciaio), in uno dei punti più deserti e desolati di quella mano di terra che sembra salutare dal nordovest dell’isola, ci sono 16.000 volumi. Sapevo che l’Islanda è un paese di forti lettori, mi sembra naturale, come per tutti paesi nordici, visto il clima: ma ora so che è il paese in cui si leggono più libri in assoluto. O almeno, si leggevano, perché già Millman allude alla rivoluzione innescata nell’ultimo decennio dello scorso secolo dalle videocassette. Senz’altro rimane comunque il paese con la più alta percentuale di scrittori, e di buona levatura (conta anche un Nobel per la Letteratura, Halldór Laxness, nel 1955). Un islandese su dieci ha pubblicato almeno un libro. Da noi uno su dieci forse lo ha letto. Leopardi sarebbe sconcertato (o forse no). È comunque un altro ottimo motivo per andare a conoscere l’Islanda da vicino. Vederli in faccia, questi formidabili lettori e scrittori.

Il primo serio progetto di attraversamento a piedi dell’isola era nato proprio dall’incontro con Millman, avvenuto tra l’altro in una fase piuttosto disordinata e irrequieta della mia vita. È rimasto, come dicevo sopra, un progetto. Ora che sembra in procinto di concretizzarsi, sia pure in una versione banalmente turistica, scopro che la letteratura di viaggio in proposito si è largamente arricchita. Non corro a divorarla, così come non cerco anticipazioni nel copioso contributo dato dagli islandesi al boom della letteratura poliziesca scandinava, perché preferisco sempre scoprire le cose con i miei occhi, seguendo semmai le mie suggestioni adolescenziali, e confrontami solo a posteriori con le impressioni degli altri: ma non posso fare a meno di sfogliare, e di apprezzare, un libro di Claudio Giunta, Tutta la solitudine che meritate. Lo consiglierò a tutti i miei conoscenti che volessero spingersi sin lassù.

C’è infine un ultimo aspetto, se non bastassero quelli che ho elencato, che fa dell’Islanda una meta ideale per chiudere la stagione dei viaggi: è la patria della democrazia moderna. Un omaggio lo merita. Parlo di qualcosa di molto diverso dalla democrazia greca, perché quella islandese si fondava sul presupposto che tutti gli uomini fossero liberi. Anche senza mitizzarlo troppo, il sistema politico adottato dai colonizzatori nel nono secolo dopo Cristo non poteva che essere tale, come già notava il Cantù, trattandosi di esuli che fuggivano dal dispotismo dei sovrani norvegesi e che per conservare la propria libertà affrontavano un ambiente naturale ostile e una vita da strappare tutti i giorni con i denti. Già a quell’epoca (la data precisa è il 930) misero in piedi un modello rozzamente parlamentare (con un’assemblea generale, l’Alþingi, che si riuniva ogni estate nella piana di Þingvellir); e quel modello ha poi retto bene o male per gli undici secoli successivi a dominazioni straniere e a lotte intestine, istillando negli isolani un fortissimo sentimento civico, un senso di appartenenza che, questo senz’altro, sconcerterebbe ulteriormente Leopardi.

La verità vi prego sui cavalli 03

2 Durante

Lo stordimento ha inizio prima ancora di atterrare, quando uscito dalle nubi inizio a distinguere i colori del terreno. Non sono i verdi o i marroni consueti ma tinte da tuta mimetica, molto vive, un giallo-verde o un giallo-marrone, alternati al nero, che non ho mai visto altrove. Dall’alto l’aeroporto ricorda quelle stazioni polari che un po’ tutti i paesi occidentali, anche noi, hanno in Antartide, e non si sa bene a cosa servano. È solo immerso in un deserto di lava scura, anziché di neve e ghiaccio.

Ma è una volta fuori che comincio ad inquietarmi sul serio. L’impressione è di essere atterrato sulla Luna. Ho sentito dire che gli americani hanno effettuato proprio in Islanda le simulazioni dell’allunaggio (qualcuno sostiene che non si siano limitati alle simulazioni, ma a smentirlo basterebbe un particolare: qui non c’è un filo di polvere), e adesso capisco perfettamente il perché: mentre guido verso Rejkiavik ho davanti a me e ai miei fianchi solo una distesa piatta di pietrame nero ricoperto di muschio giallastro che corre fino all’orizzonte: non un albero, nemmeno un filo d’erba. Sullo sfondo, appena percepibili, grandi coni nerastri.

Ora, che non ci fossero molti alberi lo sapevo, ma qui per scorgere il primo devo attendere quarantacinque chilometri, all’ingresso della città. Sono reimpianti palesemente recenti, lunghe file dritte e isolate di piante che sembrano posticce, così come sembra artificiale la prima erba che comincio ad intravvedere in qualche aiuola. E artificiale pare anche la città: dà l’idea di essere cresciuta di botto (in effetti è così, la popolazione è quadruplicata in ottant’anni), senza seguire alcuna progettazione urbanistica, anche se la presenza di ampi spazi ha evidentemente consentito uno sviluppo non soffocante (anzi, di primo acchito parrebbe sin troppo dispersivo).

Il nostro alloggio è in pieno centro storico, in una traversa della via principale, a un centinaio di metri dal mare. Ma scopro che un centro storico vero e proprio non c’è, e che la via principale della capitale è grande come via Cairoli in Ovada.

La prima reazione dunque (non dico “a caldo” perché fuori c’è un vento gelido che martella naso e orecchie, malgrado sia uscito il sole) è di perplessità. Sarà stata una buona idea? Ho il tempo di rimuginarci, aspettando la notte, perché poi la notte non arriva. Anche qui, uno si aspetta il buio un po’ più tardi, invece il buio non c’è proprio. Niente alberi, niente buio, niente centro storico. Sono perplesso, ma anche affascinato.

Questo stato d’animo perdura nel secondo giorno, mentre percorriamo la pianura costiera che porta verso sud-est. Nella parte più interna si infittiscono i timidi tentativi di rimboschimento. Incontro persino un paio di “cittadine” importanti, completamente anonime, distribuite in largo, senza il minimo accenno a un centro, a una piazza, a un qualsiasi motivo che possa indurti a fermarti se non quello del rifornimento alimentare o di combustibile. Non si capisce dove la gente possa incontrarsi, stanti anche i prezzi proibitivi dei ristoranti e dei pub. Per il resto, trecento chilometri di deserto, punteggiato qui e là da fattorie isolate, con rare pecore che non è chiaro di cosa si nutrano. La differenza rispetto a ieri è che sulla sinistra corre oggi una catena ininterrotta di alture, naturalmente del tutto spoglie, striate dal bianco dei residui nevai, verso le quali ogni tanto si diparte una strada. E dietro le alture ad un certo punto comincia ad occhieggiare un ghiacciaio.

L’impressione più forte rimane quella della solitudine. Quella delle fattorie lontane da tutto, ma anche dell’intera isola. Penso mi sarebbe impossibile trascorrere una vita intera lì, a tre ore d’aereo dalla terra abitata più vicina. Mi sentirei soffocato, prigioniero, anche se poi in sostanza non sono uno che si sposta molto. Viene fuori tutta la natura del provinciale che non ha mai acquisito una consuetudine disinvolta con gli spostamenti aerei. La sera (sarebbe più esatto dire “più tardi”) mi ritrovo a pensare agli abitanti di luoghi come Sant’Elena o Tristan de Cunha, che vivono tutta l’esistenza in un fazzoletto di terra in mezzo all’oceano. Me ne andrei a nuoto, e ho un moto di solidarietà per Napoleone (ma anche per i Repetto che costituiscono la maggioranza dei duecento abitanti dell’isola di Tristan).

Il giorno successivo l’acclimatazione è completata e vedo tutto con occhi diversi. La perplessità lascia il posto a una fascinazione crescente.

Non voglio però raccontare il viaggio. Non l’ho mai fatto con gli altri e non comincerò adesso. Mi limito quindi a elencare le impressioni, in ordine sparso, così come sono arrivate.

20217637408_1ec52d5aa6_oInnanzitutto la luce. La luce e di conseguenza i colori, quelli della terra, del cielo, dei laghi. È probabile che ne abbia una percezione alterata, perché godiamo di otto giorni consecutivi di bel tempo, cosa che qui non accadeva forse da un paio di secoli. Diversamente non si capirebbe la cupezza della pittura scandinava in genere. I colori hanno la purezza assoluta di quelli base della tavolozza, ma la tavolozza sembra essere qui incredibilmente più ampia, e accogliere tonalità e sfumature impensabili altrove. Forse c’entra il fatto che l’inquinamento atmosferico è dieci volte inferiore a quello dell’Europa continentale, salvi i momentanei periodi di attività vulcanica.

Decisamente straniante è anche il persistere della luce nelle ore notturne. Nella mia guida il tramonto è indicato dopo le 23.30 e l’alba verso le 3.00: in realtà tra l’una e l’altra ora c’è la luce tipica di un crepuscolo. Non è mai notte. Questo, per chi ha ritmi biologici regolari, nel senso che dorme secco per otto ore di fila, non disturba più di tanto. Ma chi si alza un paio volte per notte ne esce parecchio scombussolato.

L’abbondanza di acqua. A intervalli, in mezzo al deserto di pietre, si incontrano dei corsi d’acqua piuttosto ricchi, che saltano dalle alture alla piana costiera con spettacolari cascate. I ghiacciai dell’interno sono un’ottima riserva. E non c’è solo quella. C’è l’acqua che sgorga un po’ dovunque dalle viscere della terra, bollente e fortemente solforosa, e che viene incanalata nei termosifoni e nelle docce. Gli islandesi (perlomeno quelli di Reykjavik e dintorni, quindi almeno i due terzi) si scaldano e si lavano con quella. Anche farsi una doccia in questo paese è un’esperienza avventurosa e interessante. Se incautamente apri sull’acqua calda, che arriva direttamente da sottoterra, senza filtri, a novanta gradi, ti porti via la pelle. E se alla fine non ti risciacqui due o tre volte con quella gelida di superficie, che scende dai ghiacciai pochi chilometri più in là, ti rimane addosso un puzzo fortissimo di uova marce, un alone a prova di ripetute insaponature. Il primo giorno l’idea è fastidiosa, poi ti abitui, pensi che è così per tutti e non senti più l’odore.

La viabilità. L’Islanda un paradiso per chi ama guidare. Proporrei di inviare lì per una settimana tutti i neopatentati, a macinare tre o quattrocento chilometri al giorno senza ansie e incazzature. Le strade extraurbane sono praticamente deserte e quelle cittadine, tranne nelle due ore di punta, quasi. L’unico rischio che si corre è quello di incantarsi a guardare il panorama, e uscire sulla prima curva che si incontra dopo trenta chilometri. I lunghissimi rettilinei attraversano scenari incredibili. Si supera un dosso arrivando da un paesaggio lunare e si entra in una valle timidamente verdeggiante, con qualche isolata casetta a ridosso delle alture, mentre quella successiva è nuovamente una distesa di pietre nere che paiono eruttate il giorno prima.

Il piano stradale è perfettamente liscio (insieme ai neopatentati bisognerebbe mandare in Islanda anche le nostre imprese appaltatrici) ed è sempre sopraelevato rispetto al terreno circostante: sembra una striscia d’asfalto gettata su una superfice extraterrestre, soprattutto quando il rettilineo taglia immagini da Valle della Morte, con i crateri sullo sfondo, al posto delle mesetas. Mi vengono in mente i cartoons del Vilcoyote.

Chiara riassume ancor meglio l’impressione. Pare di essere davanti ad un video-gioco, di quelli di una volta, tipo Super Mario: la strada ti viene incontro, segnata ogni trenta metri da paletti gialli che assieme al piano sopraelevato la separano da tutto il resto. La differenza è che qui non compaiono ostacoli all’improvviso, anche le rarissime pecore in fuga dai recinti se ne stanno tranquille ai bordi. Ho percorso in sette giorni più di duemila chilometri, e non mi sono minimamente stancato.

Dell’isolamento ho già detto. È la sensazione immediata più forte, anche se poi si attenua. Rimane invece quella della solitudine, che è cosa diversa (l’isolamento è un dato reale, la solitudine è una condizione percepita). Credo sia tutta questione di abituarsi ad una scala diversa delle distanze. In Islanda si accorciano. Ti rendi conto molto presto che potresti girare tutta l’isola in meno di due settimane (almeno, la parte costiera, quella antropizzata), malgrado la superficie sia un terzo di quella dell’Italia. All’epoca del progetto di traversata a piedi avevamo messo in conto un massimo di dieci o dodici giorni, per un percorso di circa trecento chilometri. Non sono dunque le distanze in sé a creare quella sensazione, ma “le distanze da cosa?” Se si escludono la capitale e a Akureyri, che sta all’estremo opposto dell’isola, non c’è un solo centro abitato degno di questo nome, che valga la pena raggiungere guidando per ore. Ma i parametri di chi vive in mezzo a duecento persone per chilometro quadrato non sono applicabili ad un luogo dove la densità è di tre persone per chilometro. Dubito che i tribunali islandesi siano oberati dalle liti tra “vicini” di casa: con tutta probabilità ogni volta che questi si incontrano è una festa. Cantù osservava: “Ivi non essendo città dove concentrarsi gli uomini e la cultura, gli uni appartati dagli altri abitanti, e rari e difficili i mezzi di comunicazione, manca ogni attrito”.

I vulcani. Sono andato per salire sullo Snaefel, e neppure l’ho visto da vicino. Ho anche affrontato un tratto di sterrato, nei primi contrafforti, contravvenendo da buon italiano alle raccomandazioni degli addetti al noleggio-auto, ma sopra i quattrocento metri si entrava in una nube fittissima e non si vedeva più un accidente. Tornarci in una giornata serena, ammesso che si presentasse, significava affrontare altri cinquecento chilometri. L’ho intravisto invece da Rejkiavik, da oltre cento chilometri di distanza, piuttosto piatto e tutto imbiancato nella parte superiore.

Crateri, cascate e ghiacciai rappresentano lo stereotipo paesaggistico islandese. Al di là di questo, effettivamente suggeriscono l’idea di uno stato primordiale del pianeta. La terra prima dell’uomo, ma anche pressoché priva d’ogni altro segno di vita animale e vegetale. E ancor più questa immagine la ispirano le distese di pietrame lavico nero. La terra com’era prima, ma come potrebbe tornare ad essere dopo. Ciò che Leopardi vedeva eccezionalmente nello “sterminator Vesevo” per il suo islandese era la quotidianità.

I cavallini. In apparenza ci sono in Islanda più cavalli che pecore. In realtà si notano solo maggiormente, perché fanno branco, mentre le pecore sono molto disperse. Sono cavalli bassi, quasi dei pony, e vantano una linea di sangue di purezza assoluta, più che millenaria. Mi hanno spiegato che una legge emanata dall’assemblea del libero stato di Islanda nel 982 (non nel 1982: proprio prima del Mille), e rimasta da allora ininterrottamente in vigore, vieta l’importazione nell’isola di qualsiasi cavallo. Persino quelli che escono dal paese per le competizioni o per qualsivoglia altro motivo non possono più rientrare. Questo si chiama preservare la limpieza. Originariamente il provvedimento fu adottato dopo che il tentativo di incrocio con altre razze aveva dato pessimi risultati, animali non compatibili con le condizioni ambientali estreme: oggi viene mantenuto perché dopo tanto isolamento questi animali non hanno sviluppato alcuna immunità contro le malattie equine esistenti al di fuori dell’isola, e ne sarebbero falcidiati.

Quando ho chiesto il perché della diffusione di questi animali, molto superiore ad esempio a quella delle mucche da latte, che pure ci sono, e costituiscono anch’esse, come i cavalli e le pecore, una razza a parte, non incrociata per un millennio, mi è stato risposto che gli islandesi amano molto i cavalli, li hanno sempre utilizzati per il lavoro e oggi li utilizzano per il divertimento. L’ho presa per buona, Chiara mi conferma che nei menù che abbiamo visionato la carne di cavallo non compare mai: ma mi è rimasto qualche dubbio.

Il numero incredibile di turisti: già a maggio, che è considerata ancora stagione mezza invernale, l’isola ne è invasa. Sono quasi tutti orientali, cinesi, coreani, giapponesi e giù di lì. Ti trovi a riflettere sul fatto che se non fossimo il popolo di idioti che siamo potremmo noi stessi vivere solo di questa risorsa. Ma ti rendi anche conto che l’impatto dei turisti non è poi così “ecologicamente” compatibile. Per cavalcare questa opportunità infatti, che è diventata davvero significativa solo negli ultimissimi anni, gli islandesi stanno stravolgendo le loro abitudini. Vedi girare per Reykjavik enormi Hammer cabinati, con ruote grandi come quelle dei trattori sovietici del secolo scorso, impiegati in settimana per portare gli orientali sin sui ghiacciai e la sera del sabato per lunghe sfilate presbronza nella Laugavegur (la via principale). Di questo passo neanche i ghiacciai islandesi avranno vita lunga.

Credo che chi pensa di andare prima o poi in Islanda debba farlo subito. Forse è anzi già tardi. Certamente i vulcani, i crateri, i ghiacciai, le cascate restano, forse rimarrà anche qualche pecora (ma sono già in diminuzione), ma l’invasione turistica minaccia di essere devastante, e già sul breve periodo.

La tipologia antropologica. Gli islandesi dovrebbero essere vichinghi puri, più degli scandinavi, e forse lo sono. Ma a differenza ad esempio dei danesi, o anche degli svedesi, sono piuttosto grossolani e ordinari, tutt’altro che belli. Colpa forse dell’endogamia protrattasi per secoli, che alla lunga non seleziona i tratti migliori (un po’ come a Mornese)

È senz’altro vero che sono i più forti lettori del globo, lo dicono le statistiche, ma a vederli non si direbbe. Non che esista una morfologia caratteristica che consente di identificare il lettore, però ti aspetteresti di trovare qualcuno che legge al tavolino di un caffè, magari all’interno, stante la temperatura (ma per bersi una birra sembra andar bene anche il dehors): e soprattutto, di incontrare qualche libreria in più oltre l’unica che visto nel centro della capitale. Evidentemente quella della lettura è un’abitudine molto domestica, e funzionano bene le biblioteche. In compenso nell’appartamento che ci ospitava a Reykjavik ho trovato una copia (in inglese) della “Breve storia della vita privata” di Bryson. Questo mi pare un buon indizio.

Il costo della vita. È la prima delle informazioni che verifichi: e ti chiedi subito come facciano a reggerlo. Il reddito medio per abitante è superiore di un quarto rispetto a quello degli italiani, ma i prezzi lo sono di tre volte. Probabilmente i servizi essenziali davvero funzionano. Anche in questo caso però, dopo pochi giorni, fatta l’abitudine al cambio e usciti da Reykjavik, l’impressione si ridimensiona. Si consolida invece quella di un popolo che non bada molto all’ornamentazione superflua (leggi: moda) e che organizza i propri capitoli di spesa in modi molto diversi dai nostri.

L’alimentazione. Della cucina islandese abbiamo conosciuto solo le zuppe. Per il motivo di cui sopra: una cena al ristorante ti prosciuga la carta di credito. Ma credo che non ci siamo persi molto. Ho invece trovato interessante il pesce essiccato “da viaggio”. Sembra fosse un tempo l’alimento da portare appresso quando si affrontavano lunghi spostamenti, che in un luogo come l’Islanda significava impossibilità di trovare cibo per diversi giorni. Qualcosa come il lardo per i nostri contadini e il pemmicam per gli indiani d’America e per i trappers. Ancora oggi viene usato come alimento energetico dai giovani e dagli sportivi. Dicono sia altamente proteico. La caratteristica fondamentale, prima ancora del gusto, è l’odore: puzza in una maniera inimmaginabile. Naturalmente mi ha subito conquistato. Al gusto dopo un po’ ci si abitua, e non è male, ma il vero piacere sta nel mettere quelle scaglie sotto i denti e strapparle. Ho fatto provvista per tutto il viaggio. Le confezioni già di per sé ermetiche erano avvolte in strati successivi di borse di plastica, ma quando si apriva il portellone posteriore dell’auto durante le soste si era investiti da una terrificante zaffata di vecchio angiporto. Volevo contrabbandarne un po’ nel continente, ma mia figlia mi ha fatto giustamente rilevare che ci avrebbero cacciati immediatamente dall’aereo, magari mentre era in volo.

La povertà dell’arte. Ho visitato a Reykjavik quello indicato dalla guida come il museo più significativo dell’arte islandese. Era un’indicazione errata, si tratta di un museo creato negli ultimissimi anni in un tentativo anche un po’ patetico di offrire un panorama delle “tendenze recenti”, e che ospita in realtà cose un po’ pacchiane, rimasticature delle sperimentazioni che hanno infestato il mondo artistico negli ultimi cinquant’anni. Non ho invece visto il museo ufficiale, che dovrebbe essere più ricco, e dove forse avrei potuto trovare echi di quella pittura romantica del nord che tanto mi appassiona. Non c’era più tempo, ma ho anche considerato che non dovevo aspettarmi più di tanto in un paese che fino a pochi anni fa aveva una popolazione inferiore a quella della provincia di Alessandria.

Mi fermo qui. Ho trascurato, certo, di decantare le cascate, i crateri e i ghiacciai, ma quelli si trovano descritti e raffigurati in qualsiasi guida turistica e in centinaia di siti di viaggi e blog di viaggiatori. Sono belli come li raccontano, ma appaiono deturpati ormai dalla presenza costante e sempre più massiccia della specie homo turisticus (noi compresi). Non si tratta di deprecare l’invasione turistica facendo finta o presumendo di essere “viaggiatori” diversi. Ci confondiamo anche noi nella folla, partecipiamo della dissacrazione. Ma questo non mi impedisce di immaginare egoisticamente quanto più belle potrebbero apparirmi queste cose se fossi il solo a goderne la vista. O quanto lo sarebbero se non ci fossi neppure io.

Ps. Un’ultimissima considerazione, che c’entra nulla con l’Islanda ma molto col clima attuale. Sia durante i voli di andata e ritorno, effettuati tutti con la British Airways, che negli aeroporti, ho constatato come le hostess non corrispondano più affatto all’immagine della categoria diffusa dalla filmografia balneare e dalle commedie all’italiana degli anni cinquanta-settanta. Sono tutte signore piuttosto attempate, rispetto allo standard corrente, e nemmeno direi che conservano tracce di un passato rigoglio. Chiara mi ha poi spiegato che si tratta di una politica inaugurata appunto dalla British (ma a quanto pare fatta propria anche dalle altre compagnie) non per offrire pari opportunità a fasce d’età svantaggiate, ma per risparmiare sensibilmente sui costi (paghe ridotte, zero pericoli di maternità, ecc …). Trovo che la cosa sia a suo modo significativa del radicale cambiamento in atto.

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  1. Dopo

Cosa rimane di un viaggio in Islanda?

Di concreto rimane senz’altro una bellissima carta fisica dell’isola, datata agli anni cinquanta del secolo scorso, in scala 1: 400.000: di quelle appese un tempo alle pareti delle aule, e che ora campeggia sopra una delle mie librerie. Non è naturalmente un originale, è una copia molto ben fatta: ma trovo bello che sia proposta come souvenir per turisti. Non ho mai visto nei nostri negozi di souvenir una carta dell’Italia, né fisica, né tantomeno politica. Qualcosa deve pur significare, in termini di orgoglio e di senso di appartenenza.

Rimangono anche alcune curiosità, alle quali mi sono affrettato a cercare risposta. Ad esempio: che fine fanno tutti quei cavallini? Ho risolto il mistero. Vengono allevati per la macellazione, ma la loro carne non rientra ufficialmente nei piatti tradizionali islandesi (al contrario di quella di pecora). È esportata quasi tutta verso l’estremo oriente, soprattutto in Giappone, dove pare ne siano particolarmente ghiotti. Temo però che ora, con l’enorme afflusso di turisti orientali, anche i menù dovranno essere aggiornati.

E ancora: ci sono tanti cavalli in Islanda, mentre ci sono in compenso pochissimi immigrati. Gli islandesi li amano meno. O almeno, così era fino a qualche anno fa, quando gli stranieri non arrivavano all’un per cento della popolazione. Adesso sfiorano il dieci per cento, sono soprattutto polacchi e baltici, e rimangono comunque stranieri. Niente ius soli.

Ora, è evidente che in Islanda non si approda direttamente dall’Africa o dall’Oriente col gommone, ma si direbbe sia difficile arrivarci, per chi non è un turista, anche con altri mezzi. Un paio d’anni fa è stata però firmata da un buon numero di cittadini una petizione per l’apertura controllata delle frontiere ai richiedenti asilo provenienti dalla Siria. Probabilmente molti tra i firmatari sono abitanti delle fattorie isolate, i cui figli stanno fuggendo verso la capitale e le opportunità offerte dal boom turistico. Il governo sta valutando la cosa con molta calma, favorito dal fatto che l’isola non è tra le mete ambite nemmeno dai disperati. Vulcani permettendo, le cose dovrebbero però pian piano sbloccarsi.

E a proposito di vulcani: come ho già detto, sono andato in Islanda per salire lo Snæfellsjökull, e l’ho appena intravisto (ho persino iniziato il mio viaggio il 24 maggio, la stessa data nella quale ha inizio il racconto di Verne).

Nemmeno la democrazia ho visto direttamente in azione, se non negli scarni resoconti dei telegiornali, che dedicavano alla politica interna circa trenta secondi: ma l’ho respirata profondamente. Non ho trovato per strada una cicca o una lattina, neppure dopo i famigerati sabati sera alcoolici di cui parla Millman, e non solo a Reykjavik, ma nemmeno in mezzo ai più remoti deserti di lava: e non mi è capitato di incrociare un solo poliziotto. Se la democrazia è anzitutto senso di responsabilità, in Islanda l’ho incontrata.

Sembra invece che molti riescano a viaggiare con degli speciali occhiali deformanti. Mi spiego. Il senso civico degli islandesi si è espresso qualche anno fa in una decisa reazione alle traversie economiche che avevano condotto l’isola alla bancarotta. In pratica è accaduto questo: le tre maggiori banche del paese, che avevano attirato investimenti di capitali stranieri (soprattutto inglesi, olandesi e svedesi) garantendo rendite altissime, sono fallite, e la comunità internazionale ha chiesto allo stato islandese di rifondere il debito spalmandolo attraverso un’imposta applicata a tutti i cittadini. Questi ultimi naturalmente hanno risposto picche, con un referendum dagli esiti quasi bulgari. Lo stato ha allora concordato di sanare il debito pescando dalle riserve, ciò che ha evitato all’Islanda di essere messa al bando dalla comunità internazionale. In pratica i cittadini hanno pagato lo stesso, e un debito privato è stato rifuso comunque con denaro pubblico, né più né meno di come è accaduto in Italia o in Germania: con l’unica differenza che i manager delle banche là sono finiti in galera.

Quella reazione referendaria ha scatenato però (e questo solo in Italia) la fantasia dei soliti cretini del web, che senza capire nulla di quanto stava accadendo ne hanno diffusa una loro versione. È stata creata in pratica la favola di una rivoluzione con la quale il popolo islandese avrebbe mandato a quel paese i grandi poteri politico-finanziari, rifiutando il debito e cancellandolo unilateralmente. Solo dopo il viaggio, per un interesse di ritorno, sono capitato su blog come “Il cambiamento” e “L’Italia che cambia” che da qualche anno titolano “Islanda, quando il popolo sconfigge l’economia globale” oppure “In Islanda la rivoluzione è tornata”, e incitano gli italiani a mobilitarsi e a seguire l’esempio islandese. Ho capito da dove arrivano le sparate fatte proprie dalla Lega e dai Cinque Stelle durante l’ultima campagna elettorale, che hanno senz’altro contribuito al loro successo. Al vero esempio islandese che andrebbe seguito, quello della responsabilizzazione e del senso civico, nessuno fa cenno.

Ma ho trovato anche di peggio, e questo peggio è perfettamente riassunto nel brano che segue, che riporto per intero perché è una vera summa dello stereotipo. “Notando la prevalenza dei paesi del nord ai primi posti della classifica (della qualità della vita, n.d.r.) mi sono chiesto: “Ma non sono anche quegli stessi paesi in cui c’é il numero più elevato di suicidi ogni anno?” Si perché sembra che i paesi freddi del nord esporrebbero gli abitanti ad un maggiore rischio di depressione. Sarà il sole che in alcuni mesi splende tutto il giorno e in altri non sorge neppure, sarà il freddo, sarà il silenzio e la perfezione del sistema statale, il livello di occupazione alto, la ricchezza. Fatto sta che anche se hai la scuola perfetta o la sanità impeccabile poco importa se poi ti butti da un ponte. Reykjavik oltre ad essere la capitale dell’Islanda è anche l’unica città presente in quella landa desolata, con i suoi 100 mila abitanti ospita praticamente tutta la popolazione dell’intero Stato. Isolati dal mondo civile, chiusi in un paese deserto, i ragazzi islandesi non possono neanche “cambiare” zona; o prendono un aereo o stanno li a morire di freddo. Cosa faranno tutto il giorno? Chiusi nei pub ad ubriacarsi o dentro i gaiser a farsi il bagno!! Si divertiranno? Non posso dirlo non conosco gli islandesi e se si pensa che l’unico contatto che hanno avuto con il resto del mondo è Bjork, si capisce quanto è difficile stilare un loro profilo psicologico. Anyway, sarà il paese più vivibile del mondo e tutto quanto ma preferisco la disastrosa disorganizzazione italiana con i suoi pessimi servizi pubblici se alla fine regala un sorriso in più. Meglio gustare un espresso napoletano nel caos italiano che ritrovarsi nel “perfetto splendore” di ghiaccio di un’Islanda incantata.

Non fosse che l’autore di questa profonda riflessione certamente non ha mai letto Leopardi (gli sbreghi sintattici e grammaticali peggiori li ho corretti io: per una deformazione professionale non sopporto nemmeno di trascriverli) la sua si direbbe una posizione leopardiana, anche per l’indicazione finale del caffè in quel di Napoli (almeno ci ha risparmiato la pizza). Invece è, beninteso, solo una posizione renzarboriana – non da Renzi, ma da Renzo Arbore, che è super partes rispetto alle collocazioni politiche e rappresenta al meglio il sentire comune del nostro paese.

Sulle preferenze, ovviamente, non discuto. Ognuno ha le sue ed è libero di esprimerle – anche se sarebbe opportuno farlo in un italiano corretto e dopo aver conosciuto, almeno un po’, entrambe le realtà che si mettono a confronto. Ad irritarmi è invece il pressapochismo, la pigrizia mentale. Perché all’estensore di questo elogio del caos vivificante sarebbe bastato, con un semplice clic, accedere al sito dell’organizzazione mondiale della sanità per constatare che stava ripetendo un sacco di banalità orecchiate. Nella graduatoria dei tassi di suicidio la Finlandia è solo al ventunesimo posto, la Svezia e la Norvegia si piazzano al trentacinquesimo e al trentasettesimo, ben dopo la Francia, gli Stati Uniti e la Germania, per non parlare del Giappone e di tutti gli stati dell’ex blocco sovietico. L’Islanda, guarda un po’, è solo quarantaduesima, vicina alla Svizzera e subito prima di Trinidad e Tobago. Dopo viene tutta una serie di paesi, compresi la Siria e il Messico e chiusa in bellezza da Haiti, nei quali non è neanche il caso di affannarsi a suicidarsi, ci pensano gli altri o la natura stessa a toglierti il pensiero. L’Italia in questa macabra graduatoria è al sessantaquattresimo posto, ma sappiamo come va dalle nostre parti: un inveterato perbenismo di matrice cattolica induce a rubricare come morti accidentali molti casi di suicidio.

Bene. Avevo già archiviato con un sano rimpianto, puramente turistico, il mio breve soggiorno islandese: ma leggere queste cose mi induce ora ad un ripensamento. Non è che l’imbecillità possa essere considerata un fattore persecutorio, e l’assedio degli idioti possa giustificare una richiesta d’asilo? So guidare un trattore, potrei trovare impiego in una piccolissima fattoria vicino all’Hekla, farmi arrivare con un cargo i miei libri e qualche pacco di caffè, e dare un’occhiata ogni tanto al vulcano, aspettando la prossima eruzione.

Sarei molto più tranquillo di quanto non mi senta qui.

La verità vi prego sui cavalli 05

Un viaggiatore in giacca di velluto

di Paolo Repetto, 20 novembre 2020

Un viaggiatore in giacca di velluto

Xavier Marmier: fin dove la terra arriva

L’uomo

Lo studioso e lo scrittore

Il viaggiatore

Cinquantacinque anni di libri di viaggio

Bibliografia

In copertina: “Voyages de la Commision scientifique de Nord: en Scandinavie, en Laponie, au Spitzberg et aux Feroe, pendant les années 1838, 1839 et 1849”.

Tutte le altre immagini sono tratte da “Lettres sur l’Islande”, “Lettres sur le Nord, le Danemark, la Suède, la Norvège, la Laponie, le Spitzberg”, “Voyage pittoresque en Allemagne. Partie Mèridionale” di Xavier Marmier.

Un viaggiatore in giacca di velluto

Suave mari magno, turbantibus œquora ventis,
E terra magnum alterius spectare laborem.
(Lucr. II 1-61)

Vivere le peripezie altrui, al riparo da tempeste e pericoli, rimanendo tranquillamente a riva, nelle nostre dimore. Penso sia questo il primo segreto della fascinazione dei libri di viaggio: una sorta di transfert catartico che consente di caricare per interposta persona il fabbisogno di adrenalina, e di scaricarla poi senza rimediare cicatrici. Ma non è certamente l’unica motivazione. C’è anche quella, più razionale e pacata, data semplicemente dalla voglia di conoscenza: deleghiamo qualcuno a scoprire per conto nostro il mondo, e vediamo quest’ultimo attraverso i suoi occhi.

A volte le due motivazioni viaggiano congiunte, e prevale ora l’una ora l’altra a seconda delle situazioni oggettive nelle quali il nostro delegato incappa o si va a cacciare, e dello sguardo soggettivo col quale le fotografa e le racconta. Quando prevale la componente avventurosa, quella in cui il narratore sta sempre al centro della scena, se chi racconta è bravo finisce che ci appassioniamo ai fatti, o al personaggio, più che ai luoghi. È la linea narrativa portata all’esasperazione ad esempio da Chateaubriand, per citare un classico, o seguita da Chatwin e dai suoi innumerevoli epigoni, ma in fondo è la stessa già presente in Montaigne.

Ci sono però anche viaggiatori che riescono a farci compiere tutto il percorso senza quasi mai comparire nel quadro, pur narrando sempre necessariamente in soggettiva. Sono quelli che si scelgono un ruolo di testimone, anziché di protagonista.

In genere il loro racconto è meno appassionante, ma se la nostra aspettativa è quella della conoscenza, anziché quella adrenalinica, viene soddisfatta molto meglio. E questo vale in primo luogo per i resoconti di viaggio redatti in epoca pre-fotografica, quando cioè la testimonianza era affidata principalmente alla parola, e le immagini avevano solo la funzione di esche per attizzare la fantasia (con l’eccezione naturalmente dei viaggi a carattere scientifico, per i quali erano arruolati disegnatori e pittori specializzati nelle riproduzioni della flora e della fauna, o nel repertorio etnologico). La conoscenza che ne ricaviamo è sia geografica che antropologica, ma è prima ancora una conoscenza storica, non soltanto dei luoghi e delle genti, ma del modo in cui quei luoghi e quelle genti sono stati visti nel corso del tempo e dello spirito col quale sono stati vissuti.

Il valore “formativo” della letteratura di viaggio è oggi pressoché dimenticato. Le informazioni che forniva sono superate, luoghi e popoli si sono (o sono stati) trasformati. Ma per tutto l’Ottocento questa letteratura, diffusa attraverso i libri ma soprattutto col tramite di periodici specializzati, ha costituito la fonte pressoché unica della conoscenza geografica e antropologica popolare, nonché il primo strumento di promozione turistica (non dimentichiamo che la letteratura popolare di viaggio nasce contemporaneamente agli uffici di Thomas Cook, la prima agenzia turistica al mondo). Ha ricoperto insomma il ruolo che nel secolo successivo è stato del cinema prima e della televisione poi, e che oggi sempre più si sta trasferendo ai nuovi media. Dietro il successo di riviste come “Il giornale illustrato dei viaggi” da noi o la “Revue des deux mondes” in Francia ci sono senz’altro precisi interessi politici ed economici, legati al colonialismo e all’imperialismo, c’è la volontà di suscitare interesse e aspettative rispetto a specifiche zone del mondo, o di giustificare le politiche attuate in quelle già controllate; ma c’è anche la rispondenza di queste pubblicazioni ad un bisogno nuovo e diffuso di orizzonti più ampi, da percorrersi per il momento magari solo con la fantasia. In alcuni casi, come possono essere quello di Dumas o di Pierre Loti in Francia, o di De Amicis per l’Italia, questa produzione aspira ad un certo livello letterario (e in genere ne paga lo scotto in termini di obiettività): nella gran parte non si solleva da una dignitosa mediocrità.

Ma ciò che mi interessa, rispetto al personaggio del quale vado a parlare, non è tanto il valore letterario (che per una letteratura di questo tipo trova difficilmente dei parametri di definizione, visto che essa risponde ad aspettative singolarmente molto diverse e comunque mutevoli nel tempo) quanto quello “d’uso”. Tratterò infatti di un autore oggi praticamente dimenticato, ma che fu capace all’epoca di appassionare, informare e in molti casi motivare una marea di lettori. Non è merito da poco, e andrebbe tenuto nella giusta considerazione. Se poi oggi le sue opere appassionano molto meno, questo dipende proprio dal fatto che l’intento informativo prevale in esse su quello artistico, e che questa informazione è ormai da un pezzo ampiamente superata. Non lo sono però la passione e lo spirito con cui veniva fornita. Per questo mi sembra valga la pena riproporlo, anche a nome di tutti i moltissimi altri “artigiani” della narrazione di viaggio che come lui hanno costruito nel tempo, bene o male, l’immagine con la quale il mondo ci arriva.

Xavier Marmier: fin dove la terra arriva

Uno che a sette anni scappa di casa, non per sottrarsi a maltrattamenti famigliari o a genitori asfissianti, ma solo perché è in cerca di avventura e di evasione, non può che allertare i miei sensori. Xavier Marmier lo ha fatto, e già solo per questo merita di essere sottratto all’oblio. In realtà il record spetterebbe a mio figlio, che a nemmeno quattro anni, in una serata autunnale, poco prima di cena ha indossato il suo mini-loden, ha messo due brioches e una banana nel cestino dell’asilo e ci ha annunciato che partiva per la Cambogia. Ho dovuto scortarlo sino in piazza, alla pensilina del pullman, e ho poi impiegato quasi mezz’ora a convincerlo a rimandare la partenza al mattino successivo, e a cenare ancora una volta con noi. Credo che quest’ultimo argomento sia stato decisivo.

Xavier però faceva sul serio, e a riportarlo a casa fu un ussaro austriaco (in quel momento, nel 1815, gli eserciti della grande coalizione che aveva sconfitto Bonaparte occupavano il territorio francese), messo in sospetto da quel bambino infreddolito che tutto solo percorreva la via verso la Svizzera. Xavier si era già allontanato di diverse decine di chilometri dalla sua casa, e nei suoi ricordi non si fa cenno a come sia stato riaccolto in famiglia. Certamente si erano resi conto di aver a che fare con un tipo piuttosto irrequieto.

Ce la misero tutta per calmare i suoi bollenti spiriti. Fu inviato a studiare in successione in tre diversi seminari, e se ne andò da tutti e tre. Senza gesti clamorosi: semplicemente, prendeva su e se la filava. Sarebbe rimasto per sempre il suo stile. Era il primo dei maschi di famiglia (aveva tre fratelli, tutti più giovani, e due sorelle) e il padre, persona buona ma piuttosto pedante e codina, deve aver ben presto disperato di raddrizzarlo.

Xavier nasce (nel 1808) in una zona della Francia che più tranquilla e sonnolenta non si può, la Franca Contea. È l’area che confina a nord-est con la Svizzera, la zona per intenderci che fa capo a Besançon, e nel caso del nostro protagonista il confine svizzero è praticamente a due passi. Con i luoghi dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza Marmier avrà sempre un rapporto contradditorio: li ama, e li celebra anche in un libro commovente, ma da un certo punto della sua vita in poi li eviterà il più possibile. È un nomade per vocazione, come già abbiamo constatato, e un campanilista per formazione: cose che sono meno inconciliabili di quanto possa apparire.

Arrivato a vent’anni praticamente senza arte né parte, con alle spalle studi per certi versi appassionati ma assolutamente irregolari, Xavier deve decidere cosa farà da grande. Non ha affatto le idee chiare. Sogna di diventare poeta, che è tutto dire. L’unica cosa su cui non ha dubbi è ciò che non vuole: messo davanti alla prospettiva di un impiego nella biblioteca di Besançon, cortesemente declina. Ad un intellettuale, Charles Weiss, che lo aveva preso a benvolere e che rimarrà un riferimento per Xavier per tutta la vita scrive: “Dovete capire il mio scopo e il mio progetto; può essere temerario, stravagante, ma io ho vent’anni … Entrerò in una vita avventurosa, in un futuro aperto e promettente, ma difficile. Sarà un avvenire ben diverso da quello che avrebbe potuto riservarmi Besançon, e se dovessi fallire, se dovrò vivere povero e miserabile, preferisco farlo in un altro paese che non nel mio. Non è proibito osare, e quando si è giovani, quando si ha del coraggio, è meglio impiegarlo per scalare una montagna che per trascinarsi sui sentieri degli altri …”

A questo punto sparisce dalla circolazione. Nessuno dei suoi amici e dei suoi parenti sa dove sia finito. Ci sono voci che lo danno in Germania, lungo il Reno, a Londra, o addirittura sui Pirenei. Lui stesso nelle memorie biografiche non racconta molto. In realtà per qualche mese vagabonda per la Svizzera (evidentemente un suo pallino), zaino in spalla e tasche quasi vuote. Ne torna con una raccolta poetica, Esquisses poétiques, piena di piccole vedute romantiche dei laghi e delle Alpi, sullo stile di Lamartine. Scrive cose di questo genere:

I giorni muoiono, la vita si spoglia in silenzio,
Oggi è l’amore che me ne prende una foglia,
poi i lunghi colloqui di una vecchia amicizia,
poi il vago piacere d’esistere a metà,
come un napoletano nel suo molle oziare,
di sedermi al sole e di vedere senza tristezza
dissolversi le luci di un orizzonte dorato[1].

Prosegue nel vagabondaggio ancora per qualche tempo in Francia, poi torna a Besançon, dove gli amici gli procurano un posto in un giornale. Ma dura poco. “Ho avuto una discussione piuttosto vivace, – scrive al padre – qualche giorno fa, discussione seguita da pianti e recriminazioni rivolte a B…, il quale non ha osato darmi torto, ma ne aveva senz’altro voglia. Del resto, questo non è nulla e non vi deve inquietare; è solo l’effetto di questa miserabile suscettibilità contro la quale mi si troverà sempre, quando io abbia ragione, così inflessibile e indipendente come un uomo di cuore deve essere.” E promette: “Nulla potrà trattenermi in una città nella quale sono tornato solo per pagare i miei debiti e lasciare un ricordo che possa non spaventarvi quando verrete ad abitarvi; non inquietatevi mai per me, e vogliate credere che il mio carattere, la mia esistenza, la mia reputazione non possono essere sviati da quella strada che un uomo assolutamente onesto deve percorrere.”

A tal fine partecipa a un concorso indetto dall’Académie des Sciences di Besançon per una cattedra di storia, e lo vince. Non solo: due editori locali gli chiedono di pubblicare il testo prodotto per la prova. “L’elogio che M. Bourgon ha tessuto del mio studio era la cosa più dolce da ascoltare che mai avrei potuto immaginare, e i ‘bravo’, gli applausi vi hanno fatto seguito. Sono passato, per andare a ricevere il premio, in mezzo ad uno stuolo di ascoltatori che battevano le mani e mi davano le più toccanti testimonianze di simpatia.” Con questo ha pareggiato i conti con Besançon, dove in effetti durante la sua esistenza tornerà pochissime volte. E con il padre. Può partire senza lasciare debiti, di nessun tipo.

A ventiquattro anni ha dunque inizio la sua vera carriera di viaggiatore, che esordisce con un percorso esattamente inverso a quello compiuto da Heine nello stesso periodo. La destinazione è la Germania. Ovunque sfrutta le lettere di raccomandazione che gli sono state procurate per farsi aprire i salotti buoni e magari imbucarsi a pranzo, ma soprattutto per crearsi altre relazioni e amicizie. Non gli riesce difficile, è un conversatore piacevole, capace di ascoltare, erudito a dispetto dell’età, curioso e attento. A Lipzia si ferma sei mesi, il tempo per imparare decentemente il tedesco e affrontare la traduzione di opere letterarie. Spera anche in un incarico come professore di letteratura, che però non arriva. Deve tirare la cinghia. Comunque, l’anno successivo, nel 1833, è a Dresda, dove stringe amicizia con Ludvig Tieck. E poi, finalmente, a Berlino, per un breve soggiorno prima di rientrare a Parigi.

Di questo viaggio rimane testimonianza in alcuni componimenti poetici, versi d’addio, di ringraziamento o celebrativi, decisamente deboli. Ma è il primo a rendersi conto che non è quella la strada per la gloria. A Parigi, dove frequenta soprattutto Charles Nodier, comincia ad occuparsi di ricerche storiche e di studi bibliografici, ciò che gli consente almeno di sopravvivere. E intanto matura un’altra passione, la bibliofila. “Non passa giorno che non mi ci abbandoni, e comincio a pensare che stia diventando mania. Non cerco ancora i libri rari, ma quando arriverò anche a quelli dovrò farmi mettere sotto tutela per conservarmi qualche scudo.”

Il suo sogno in questo periodo è di scrivere un’opera fondamentale sulle letterature comparate: il che, per uno studioso serio, comporta intanto conoscere più lingue. Si dedica dunque ad uno studio intensivo, che lo porta in brevissimo tempo a padroneggiare, oltre che il tedesco, il russo. “Sono molto fiero di essere arrivato, da solo, a forza di pazienza, ad apprendere il russo, così difficile e così dissimile da ogni altra lingua che io conoscevo”. Ma non ha terraferma. A differenza dei suoi compatrioti, che, dice “n’aiment pas les longs voyages”, sono trattenuti a casa dalla dolcezza del clima e dalle bellezze naturali e culturali che la Francia offre, lui si sente soffocare dopo un poco in qualsiasi ambiente.

L’anno successivo riparte dunque per la Germania. Questa volta tocca Monaco, poi Praga e Vienna. Da Praga è letteralmente sedotto, la definisce “un miraggio quasi orientale”. Ma è entusiasta in pratica di tutto ciò che vede e trova a Strasburgo, Stoccarda, Monaco, Innsbruck, Trieste, Lubiana. E soprattutto dalla simpatia e dal rispetto che (a quell’epoca) i tedeschi mostrano per la Francia. Piuttosto, ha da fare qualche rilievo molto pratico: “Da quando l’ho visitata per la prima volta, la buona Germania ha imparato a fare i conti, ma non ha migliorato affatto la sua cucina. Dopo aver varcata la frontiera francese non ho più potuto bere una buona tazza di caffe. Nei suoi alberghi la vita è cara, e si vive male.” Nel frattempo dà alle stampe un libro su Goethe, che incontra un certo favore. Lui stesso ammette però che ancora non ci siamo: “Non giudicatelo – scrive a Weiss – da quel che ne dicono molti giornali: ci hanno visto il tentativo di un giovane che, pur senza raggiungere lo scopo, era quantomeno sorretto dalla voglia di fare bene. Hanno accolto con indulgenza questa prova di buona volontà.” È un giudizio molto consapevole ed onesto. Marmier aspira a ben altro: “Vorrei fare un lavoro simile per tutte le principali epopee del Nord, per il Titurel, per il Parsifal, e soprattutto per il libro degli eroi e per i Nibelunghi”.

Deve tuttavia anche sbarcare il lunario. Una volta tornato a Parigi pubblica dunque “L’Ami des petits enfants”, traduzione dall’olandese (strada facendo ha infatti imparato anche quella lingua) di fiabe popolari. Sarà il primo di una lunga e fortunata serie. In questo modo unisce l’utile al dilettevole, perché la cultura popolare (fiabe, canti, leggende) è un’altra delle sue passioni, e ne raccoglierà testimonianze in tutte le terre visitate. Già guarda comunque più lontano.

Questa volta dirigerà i suoi passi verso il grande Nord. Marmier preferisce i paesi nordici alle contrade assolate, sopporta volentieri il rigore del freddo e le temperature glaciali. Coltiva poi un sogno in particolare, quello di visitare l’Islanda (diventata di moda dopo il romanzo di Hugo, Han d’Islanda, ma in realtà quasi totalmente sconosciuta, anche allo stesso Hugo), e vorrebbe provare a vivere per un po’ di tempo l’esistenza solitaria e monotona della sua gente.

Il suo sogno probabilmente non si realizzerebbe mai, se non fosse chiamato, nel 1835, a far parte di una spedizione organizzata dall’Académie Française e diretta all’isola. Le competenze linguistiche cominciano a fruttare e gli valgono l’imbarco sulla corvetta La Recherche, attrezzata appositamente per le missioni scientifiche, assieme a un geologo, un botanico e un pittore, col compito di redigere la relazione finale del viaggio e di raccogliere tutto il materiale possibile sul linguaggio, le tradizioni, i miti, i costumi e i monumenti del paese. Dalla fine di maggio a settembre Marmier gira per l’Islanda, si addentra nell’altipiano per osservare il fenomeno dei geyser, sale sul vulcano Hekla, visita lungo la costa i miseri villaggi di pescatori e nell’interno le più sperdute fattorie, mentre nel frattempo La recherche forza il pack e arriva sulle coste della Groenlandia. Marmier ha incaricato un compagno di viaggio di raccogliere per lui, secondo una scaletta ben precisa, le impressioni ambientali e le notizie su quello sperdutissimo insediamento danese. Per quanto lo concerne, ha la capacità istintiva di caratterizzare i luoghi attraverso le forti sensazioni immediate.

Per l’Islanda, ad esempio, anziché far leva sullo sconcerto che pure quel paesaggio lunare non può non suscitare al primo impatto nel viaggiatore, si affida alla forte sensazione olfattiva. Parla del nauseabondo puzzo del pesce essiccato, che ti accompagna in ogni punto dell’isola (Oggi naturalmente non è più affatto così, l’essicazione si fa al chiuso e solo in alcune zone remote della costa settentrionale). E anche il seguito non promette meglio. Il primo approdo, Rejkiavik, è un paesotto di seicento anime, la maggior parte delle quali alloggia in case di legno. Attorno, soprattutto verso l’interno, è il deserto. Eppure, mano a mano che il viaggiatore supera lo sgomento del primo impatto e si abitua all’odore, al vento e al silenzio, l’impressione si capovolge. Xavier ci guida alla scoperta delle bellezze naturali, delle cascate, dei ghiacciai, del geyser, ma anche della sobria essenzialità dei comportamenti, della ricchezza e della profondità delle tradizioni, dell’inaspettata cura per l’istruzione (uno dei suoi pallini, il suo parametro per eccellenza di valutazione di una civiltà). Col procedere dei giorni e delle conoscenze il coraggio e la forza degli islandesi, la dignità con la quale affrontano la loro difficile esistenza, ma per contro anche la singolarissima bellezza dei luoghi, lo conquistano. Ne esce un volume, “Lettres sur l’Islande ” (1837), nel quale si raccontano non solo l’Islanda, la sua storia e i suoi costumi, ma si scava anche sulle origini dei popoli scandinavi. Il materiale raccolto è talmente ricco che l’anno successivo Marmier può pubblicare “Langue et littérature islandaises ” e trarre dalla relazione una “Histoire de l’Islande depuis sa découverte”. Ha finalmente trovato la sua vera vocazione: il successo immediato delle Lettres glielo conferma. Gli editori e il ministero francese dell’istruzione lo tengono ormai d’occhio.

Nel frattempo ha completato l’apprendimento del danese e dell’islandese, e approfondito la conoscenza delle culture scandinave. Nel 1838 è pronto a ripartire per una nuova missione, che dovrà studiare la Svezia, la Norvegia, la Lapponia, le isole Fær Øer e le Svalbard.

Questa volta la sortita è più lunga. Marmier rimane fuori per oltre un anno. Si ferma un mese a Copenhagen, dove conosce il celebre scultore Thorvaldsen e il “favoloso” Hans Christian Andersen, per poi passare in Svezia, dove percorre quasi mille chilometri tra boschi e laghi. A Uppsala, da buon bibliomane, è colpito dalla ricchissima dotazione della biblioteca, che ospita preziosissimi codici antichi, mentre a Stoccolma è ospite del re Carlo XIV. E non manca di esplorare il mercato librario, a caccia di testi rari e sconosciuti. “Brucio tutte le mie risorse nell’acquisto di libri, e le mie risorse sono alquanto limitate; tuttavia, porterò a casa delle buone cose e pagherò un tributo filiale alla biblioteca. Sto per inviare una grande cassa di libri svedesi, danesi e islandesi.” È particolarmente colpito dall’eccellenza del sistema di istruzione, in paesi che all’epoca erano considerati ancora poco più che barbari. Quello che sarà poi il suo merito maggiore di studioso, la scoperta e la rivelazione al resto dell’Europa della ricchezza culturale dei popoli nordici, nasce da questa duplice istintiva passione, per i libri e per gli ambienti. La simpatia originaria è ormai diventata un vero innamoramento.

La missione ha però anche lo scopo di indagare le effettive condizioni in cui vivono le popolazioni dell’estrema Thule, i Lapponi. Risalendo le coste norvegesi sin oltre il circolo polare La Recherche arriva a stabilire i primi contatti, lasciando nel giovane studioso l’impressione di un complesso patrimonio di credenze e tradizioni, nascosto dietro esistenze in apparenza miserabili. Per il momento deve accontentarsi di questa sensazione, senza poterla verificare, ma ha trovato uno scopo ulteriore per le sue future ricerche.

L’anno successivo la vita di Marmier sembra arrivare davvero ad una svolta. Rientrato dalla missione, ottiene la tanto sospirata nomina a docente di letterature straniere, presso l’università di Rennes. Com’era prevedibile, non dura più di un mese. Malgrado le sue prime lezioni abbiano riscosso uno straordinario successo, il fuoco continua a bruciargli sotto il sedere. La Recherche sta per prendere nuovamente il mare per una spedizione esplorativa nei dintorni del Polo Nord: dovrà costeggiare tutto l’arcipelago delle Svalbard e spingersi il più a settentrione possibile. Appena ne è avvertito, Xavier non ha esitazioni: molla tutto, scusandosi goffamente con i colleghi e gli studenti (“mi spiace, ma non mi sento ancora all’altezza”), e corre ad imbarcarsi. “Parto dopodomani per Drontheim. Là troverò una nave da guerra che mi porterà al capo Nord, e può darsi allo Spitzberg. Potrò dire allora di essermi fermato dove la terra vien meno: Nobis ubi terra defuit. Non avrei bisogno di andare così lontano per dire che mi sono fermato dove si ferma il movimento scientifico o letterario. Ho voglia di vedere queste contrade selvagge, per selvagge che siano, di tornare in Lapponia.” In effetti la missione lo porterà a superare addirittura l’ottantaduesimo parallelo, ad una latitudine che ben pochi altri uomini, e senz’altro nessun letterato, hanno toccato prima di lui. Adottando un modello di basso profilo nell’autorappresentazione, che rimarrà caratteristico di tutta la sua produzione, una sorta di understatement alla francese, non strombazzerà mai questo primato. Sa che meno ne parla più quell’esperienza assumerà per i suoi lettori connotati epici.

Ormai è un veterano di queste missioni, e comincia a pretendere un suo spazio autonomo rispetto ai naturalisti e ai geografi. Dal momento che è responsabile del settore “umanistico”, storia, letteratura e lingue, ritiene inutile la sua presenza alle Svalbard, dove non troverebbe “ni race humaine, ni langue, ni tradition, ni histoire…. “. Spenderà molto meglio il suo tempo nello studio della popolazione scandinava settentrionale, quella appunto dei Lapponi o Sami. È colpito dalla capacità di adattamento e di sopravvivenza di queste popolazioni in condizioni estreme, e si interroga sull’influenza che queste ultime hanno nello sviluppo intellettuale. “Questa povera razza, dispersa lungo le coste o attraverso le montagne, è ancora troppo poco conosciuta e soprattutto è conosciuta molto male.” È molto critico nei confronti dell’immagine superficiale e ingiusta, di marcata inferiorità intellettuale, che dei Sami è stata diffusa, soprattutto nel Settecento. Ha già condiviso nel corso della missione precedente le loro tende e i loro pasti, ha constatato come siano depositari di un patrimonio di leggende, canti e tradizioni particolarmente suggestivi, e come abbiano cura di trasmetterli ai figli. Certo, per molti versi sono poco affidabili, sono già contaminati dal problema dell’alcoolismo, e appaiono disorientati dal cambiamento di religione, ma sono anche incredibilmente ospitali e bendisposti verso gli estranei. Per ovviare a quell’immagine ritiene necessario uno studio approfondito della storia e dei costumi di questo popolo, studio che può essere compiuto solo attraverso una osservazione di lungo periodo. Arriva quindi a chiedere (nel 1839) l’autorizzazione a trascorrere un autunno e un inverno con loro, per “seguirne le migrazioni e osservare le diverse circostanze della loro vita”, magari con il supporto di un disegnatore che fissi in immagini i costumi, le fisionomie, le abitazioni, le scene particolari.

Non la ottiene, deve rientrare con il resto della spedizione, ma la mole di dati che raccoglie durante la permanenza all’estremo nord è comunque già impressionante. Chiarisce ad esempio l’esistenza di una triplice specializzazione economica, quella degli allevatori nomadi di renne, tipica dei Sami “delle montagne”, quella dei pescatori sedentari, Sami appunto “della costa”, e quella dei cacciatori, o Sami “della foresta”, ciò che lascia intravvedere un sistema economico e sociale completamente interattivo, con gruppi differenziati in funzione dello sfruttamento di un preciso habitat ecologico, e dà vita ad una conseguente varietà e differenza culturale.

Una volta tornato a Parigi riceve l’incarico di bibliotecario al ministero dell’istruzione pubblica (diverrà in seguito, dal 1846, conservatore e amministratore della Bibliothèque Sainte-Geneviève di Parigi, oltre che storiografo ufficiale del ministero della Marina). In teoria sarebbe la persona senz’altro più adatta a questa funzione, nella realtà è più che altro una sinecura, che gli consente di dedicarsi alla redazione dei suoi resoconti di viaggio, agli studi di germanistica (è anche direttore della Revue germanique) e alla preparazione di nuovi viaggi. Nel 1840 compaiono infatti le “Lettres sur le Nord, le Danemark, la Suède, la Norvège, la Laponie, le Spitzberg”, mentre nel 1841 pubblica la traduzione delle opere di Schiller. Nel frattempo, per riposarsi e riprendere fiato, si limita ad un lungo giro nei Paesi Bassi e nelle Fiandre (“Lettres sur la Hollande”, 1841).

Nel 1842 però è già nuovamente per strada. Russia, Finlandia, Polonia. Ormai è conosciuto, viene ricevuto dalle alte personalità, ha accesso alle dimore nobiliari, ma non trascura di verificare nell’impero zarista le condizioni dei servi della gleba, osservando giustamente che questi ultimi non sembrano granché ansiosi di cambiarle: alla libertà, con tutte le incertezze che comporta, preferiscono le magre sicurezze che offre loro un padrone. E in effetti, un quarto di secolo dopo, l’abolizione della servitù, decretata senza prevedere alcun sostegno per i contadini liberi, determinerà un aggravio della loro miseria.

Marnier non nasconde poi le sue simpatie per la Polonia, preda degli appetiti dei suoi vicini, la Russia, la Prussia e l’impero asburgico. Ma non risparmia le critiche alla sua classe dirigente, a quel ceto nobiliare che con le sue divisioni interne ha lacerato e indebolito la nazione. E intanto continua a raccogliere materiali per ricostruire la storia culturale dei paesi che attraversa. Non spende una parola su disagi, difficoltà, incidenti di viaggio, in un’epoca nella quale viaggiare, soprattutto in paesi come quelli, comporta comunque sempre pericoli e brutte sorprese. Del resto, l’aveva già scritto nella prefazione alle Lettres sur le Nord: “Alcuni, leggendo le pagine di questo lavoro pubblicate a suo tempo nella Revue des Deux Mondes e nella Revue de Paris, mi hanno rimproverato di non aver messo abbastanza fatti strani e avventure drammatiche. A loro parere avrei dovuto scrivere un romanzo sulle contrade del Nord. E io, ingenuo, non pensavo che a fare una relazione fedele del viaggio! Può darsi che abbia perso una bella occasione per vantarmi, con il racconto patetico di ogni sorta di immaginaria disavventura, e forse un giorno mi pentirò di non averlo fatto. Ma, in verità, non ho avuto il coraggio di propormi agli occhi del pubblico come un eroe, quando me ne andavo alle Spitzberg con una nave eccellente ed eccellenti ufficiali. Non ho pensato di impietosirmi con la mia sorte in Norvegia, quando superavo così facilmente le sue aspre montagne, né di gemere sulla mia miseria in Lapponia, quando attraversavamo per la decima volta le sue lunghe paludi con dei vigorosi cavalli norvegesi, una grande tenda e viveri di ogni tipo. Ho raccontato quello che ho visto e provato, nient’altro.”

Al ritorno dall’est sembra deciso a darsi finalmente una calmata. Il modo migliore per farlo gli pare quello di sposarsi, andando a scegliersi una moglie nella sua terra natale, la Franca-Contea. Delle circostanze in cui matura questa decisione, e della stessa giovane prescelta, sappiamo ben poco. Marmier su queste cose non si sbottona: il pudore dei sentimenti è d’obbligo per chi voglia conservare un’immagine di uomo e di studioso serio. Ma nel suo caso lo è tanto più per la sua professione di osservanza cattolica e di dovere civico. È singolare il modo in cui ne parla all’amico Weill. “Conto su di voi come su un padre in questa occasione solenne della mia vita, che mi dà gioia e al tempo stesso mi inquieta, che mi apre un nuovo avvenire e caccia nell’ombra dietro di me tutto un passato giovane, poetico, avventuroso, che mi ha tante volte a torto o a ragione affascinato, che rimpiango come si rimpiange un amore di cuore e di immaginazione.” L’uscita dalla poesia e l’ingresso nella prosa, insomma. E al di là degli stereotipi antimatrimonialisti, nel suo caso è senz’altro comprensibile che viva l’evento in questi termini. Si sposa dunque nel 1843, ma non ha nemmeno il tempo di avere grandi rimpianti. La giovane moglie muore dopo appena un anno di matrimonio, assieme al figlio che attendeva.

Non bisogna comunque credere che le incertezze manifestate da Marmier significhino freddezza o indifferenza nei confronti della sposa che aveva scelto. Forse non si trattava di una passione trascinante, ma questo valeva in fondo per quasi tutti i matrimoni dell’epoca. Senz’altro si era però creata tra i coniugi un’affettuosa complicità, quella che trapela da una poesia dedicata alla giovane, e comparsa in esergo ad una delle sue opere più famose:

Sono venuto senza te in questo paese così bello,
del quale abbiamo sovente parlato nell’ora fortunata
in cui tutto si offriva come un quadro ridente
che insieme avremmo dovuto vedere quest’anno
Non è più nulla della voce che sino a poco fa
carezzava ad un tempo la mia anima e le mie orecchie
Nulla rimane di tanti sogni dorati,
nel pallido sudario tutto dorme.

Dormi sotto la terra fredda, o giovane bel fiore,
così dolcemente schiuso e così presto reciso
dormi con i tesori del tuo casto candore,
con la tua innocenza e i tuoi teneri pensieri[2].

Xavier è realmente prostrato da questa perdita, che scompagina i suoi progetti di una vita nuova per il futuro e rende tra l’altro più insopportabile l’idea di vivere nella Franca-Contea.

Per alcuni aspetti, e per questo in particolare, la sua vita sembra la fotocopia di quella di Waterton. Ma diversa senz’altro è la reazione. Mentre il secondo si chiude dopo la perdita della moglie nel suo parco, in una sorta di oasi senza tempo, Marmier non tarda a cercare conforto tornando a viaggiare. La stagione della poesia non è del tutto finita, ma certo lo stato d’animo col quale la vive è cambiato.

In effetti, nelle “Poésies d’un voyageur”, pubblicate nel 1844 e nei “Nouvaux Souvenirs de voyages. Franche-Comté”, dell’anno successivo, l’attitudine è decisamente più malinconica. Si fa strada il sentimento di una dolce tristezza, legata al ricordo degli affetti scomparsi, degli amici assenti o dei luoghi dell’infanzia. E anche i suoi successivi libri di viaggio saranno in qualche modo più professionali, meno aperti all’entusiasmo e allo stupore.

Comunque, nel 1845 riparte, destinazione l’Egitto, passando per la Svizzera, il Tirolo, l’Ungheria, la Serbia, la Valacchia, facendo tappa a Costantinopoli e proseguendo poi attraverso la Turchia, la Siria e la Palestina. (“Du Rhin au Nil. Souvenirs de voyage”, 1852)

L’anno successivo visita l’Algeria (“Lettres sur l’Algérie”) e quello dopo ancora, nel 1847, torna in Russia, spingendosi questa volta fino alla Siberia.

Nei primi mesi del 1848 la rivoluzione lo sorprende a Parigi. Da buon reazionario legittimista (e protetto di Guizot) ne è disgustato, e vive il trionfo iniziale della repubblica come un’umiliazione nazionale. Teme inoltre gli vengano revocate le cariche e la sicurezza economica. Decide quindi di lasciare la Francia, dando tempo alla buriana di calmarsi, e a settembre intraprende il viaggio in America. Ci rimarrà sino all’agosto del 1850, passando dagli Stati Uniti al Canada, e visitando poi Cuba, l’Argentina e l’Uruguay. È amareggiato dagli “orrori” della democrazia e della repubblica, addirittura del socialismo, quindi l’attitudine con la quale sbarca negli Stati Uniti non è affatto positiva. E si traduce in antipatia a prima vista, sin dallo sbarco a Long Island.

Le impressioni americane (“Lettres sur l’Amérique”, 1851) sono un vero pezzo da antologia. La passione per la verità cede il passo ad una vena più scopertamente letteraria, caustica quando parla degli Stati Uniti, entusiasta nella descrizione del Canada. Il racconto è meno posato che nei libri precedenti, più vivace ma senza dubbio molto meno obiettivo. Marmier riesce a cogliere tutti gli aspetti della “modernità” statunitense, non gli sfugge nulla, e a volgerli in negativo, partendo dall’ironia scherzosa (“dicono di essere avanti in tutto, e già la loro giornata è in ritardo di cinque ore rispetto a quella di Parigi”), passando poi a stigmatizzarne la grossolanità delle ambizioni (“Non potrebbero tollerare il lusso delle livree della nostra servitù, perché sono democratici e puritani, ma si rifanno con quello dell’arredamento (pacchiano) delle abitazioni”) e delle abitudini (“qui non si mangia, si divora […] hanno sempre le guance piene di qualcosa”), e a irriderne il linguaggio costantemente autocelebrativo (“non c’è nulla di carino o di semplicemente piacevole, è tutto sempre ‘splendido’, fantastico”), per arrivare infine al giudizio più tranchant: “Di tutti gli uomini appartenenti al mondo civilizzato, i più laidi sono gli americani”. Addirittura “Si burlano dei Turchi, perché non usano durante i loro pasti né cucchiai né forchette. Io ricordo qualche pranzo fatto coi Turchi, e dichiaro che i loro erano dei modelli di comportamento, se paragonati a quelli cui ho dovuto assistere negli hotel e sui battelli americani.” New York gli appare come la nuova Babilonia, la città santa della religione del commercio, del culto dell’industria. Una pratica in particolare gli sembra esemplare della fondamentale ipocrisia americana, quella del rispetto assoluto del riposo domenicale, tale da fare diventare questa giornata, al contrario di quanto accade in Europa, un pozzo assoluto di noia. Ci si aspetterebbe che fosse un segno di sincera devozione, un ritagliarsi il tempo per meditare sui libri sacri: non è affatto così, come gli spiegano diversi conoscenti: “Noi siamo così impegnati per sei giorni che ce ne vuole uno per riposarci, e non riposeremmo tranquilli se dopo aver chiuso la nostra azienda, la nostra officina, vedessimo funzionare quelle dei nostri vicini. Per non essere inquietati dal pensiero della concorrenza in azione, obblighiamo tutti ad un riposo di ventiquattr’ore. Non importa che uno sia giudeo o maomettano, teista o ateo. Il problema non è questo. È essenzialmente il desiderio che abbiamo di non lavorare per un giorno con la sicurezza consolante che nessuno dei nostri rivali lavora e ci sottrae quei guadagni che avremmo potuto ottenere.”

È un ritratto senz’altro impietoso, a dispetto delle giustificazioni addotte da Marmier (che in realtà sono solo una rivendicazione di principi considerati irrinunciabili): “Vi assicuro che scrivo senza odio e senza passione. Mi dico persino, per riscattare l’America dalle impressioni sgradevoli che ne ho riportato, che ho torto a chiederle quello che non può dare, che dovrei considerarla in base al suo ‘genio’ particolare. Ma posso, per apprezzarla meglio, rinunciare alla mia natura europea, annegare le mie predilezioni nei vapori delle sue ciminiere, spogliarmi del modo di pensare del vecchio mondo per rivestirmi di questo ‘san benito’ mortale di un mondo nuovo?” Ma nondimeno risulta spassoso, e rivela la capacità di intuire alcuni aspetti davvero caratterizzanti la società americana. Aspetti che peraltro erano già stati colti, quasi vent’anni prima, sia pure con un approccio meno pregiudiziale, da Alexis de Tocqueville. Non fa alcun cenno, a differenza di quest’ultimo, al problema della schiavitù o a quello dello sterminio degli indiani, ma non credo per un assunto ideologico: semplicemente, non ha occasione di toccarli con mano, perché si affretta a lasciarsi gli Stati Uniti alle spalle.

Per fortuna, spostandosi a Nord, varcando il confine col Canada, Xavier entra in un altro mondo. “Dio sia lodato. Sono resuscitato al quarantacinquesimo e mezzo grado di latitudine e al settantatreesimo e un quarto di longitudine. Attorno a me non sento parlare che francese”. Il Canada gli fa tornare in mente l’Islanda, dove un migliaio di anni prima un gruppo di norvegesi si era rifugiato per sottrarsi al dispotismo dei conquistatori, e dove i loro discendenti hanno mantenuto intatta la lingua originaria e preservato il ricordo delle antiche saghe. I canadesi stanno facendo altrettanto, a dispetto del fatto di essere soggetti ad una amministrazione straniera, che ha fatto ogni sforzo, con il commercio, con la legislazione, con l’emigrazione dall’Irlanda, per imporre la propria lingua e i propri costumi. Il contrasto col mondo dal quale è appena uscito non potrebbe essere più forte. “Io non osavo più avvicinarmi ad uno di quegli orsi che rispondevano alle mie domande con una sorta di grugnito, sentivo che non c’era alcuna affinità, alcun punto di giunzione tra i pensieri di questa razza moltiplicante e addizionante e le fantasie della mia povera natura di viaggiatore […] Tutto a un tratto ecco che ritrovo la fisionomia viva ed espressiva della Francia, gli sguardi animati, le labbra ridenti. Invece che questa corte di meccanici e di mercanti […] incontro gente dall’aspetto aperto, che mi cerca prima che io la cerchi, che mi tende la mano, che mi offre i suoi servigi.”. Ritrovato il buonumore, tutto diventa ai suoi occhi testimonianza di una fedeltà indomita alla propria cultura. Ma anche il paesaggio, l’ambiente, a differenza di quelli incontrati a sud del Grandi Laghi, si illuminano: “Che natura stupenda, che varietà di scenari, di una bellezza selvaggia, di una grandezza superba, di una infinita grazia”. Il resto è un peana alla cultura e allo spirito dei franco-canadesi. Ancora molti anni dopo Marmier ricorderà con nostalgia quel suo soggiorno. E i canadesi si ricorderanno di lui con gratitudine, per aver fatto conoscere all’Europa la loro letteratura e la loro storia.

Marmier rientra in patria giusto in tempo per vedere spente le ceneri della fiammata rivoluzionaria. I suoi timori si sono rivelati infondati: conserva le sue cariche e i suoi appannaggi anche sotto il nuovo regime. D’altro canto, il suo è ormai un nome affermato: ha un nucleo consistente di lettori affezionati in Francia, ma è letto e conosciuto anche all’estero. Diventa uno di quegli autori onnipresenti sugli scaffali delle piccole (ma anche delle grandi) biblioteche di famiglia. Per qualche tempo però il suo nomadismo si interrompe, complice anche la morte del padre, che lo mette di fronte alle sue responsabilità di maschio primogenito.

Appena torna un po’ di tranquillità politica, i viaggi riprendono. Ogni anno nuove mete, e un nuovo libro. La sua firma è una garanzia di successo. Nel 1852 intraprende un giro che lo porterà sino al Montenegro, passando per la Germania, la Svizzera e l’Italia. (“Les Lettres sur l’Adriatique et le Monténégro”)

L’anno successivo bordeggia l’Adriatico, e riparte dal Montenegro per seguire poi le rive del Danubio e arrivare alle montagne del Caucaso. Sono regioni pressoché sconosciute al grande pubblico, ma sono una vera scoperta anche per lui. Il libro che ne ricava, “Du Danube au Caucase”, viene proibito in Russia, come ritorsione per la simpatia mostrata in precedenza per i polacchi, e a dispetto del fatto che sulla questione d’oriente Marmier si schieri dalla parte dello zar: neanche a dirlo, in una edizione clandestina ha un enorme successo.

Continua intanto il lavoro di traduzione di fiabe e leggende dalle più diverse lingue. Escono nel 1854 “Les Perce-neige”, una raccolta di noll’conti scelti nelle varie letterature. Negli anni seguenti usciranno antologie di novelle russe e di racconti americani, A Weiss, che gli rimprovera di disperdersi in lavori tutto sommato futili, risponde: “È così. La lettura dei libri stranieri mi trascina, e quando trovo pagine che mi seducono mi sembra bello condividerle con coloro che non possono leggerle in originale”. In realtà c’è dietro anche una questione economica, perché quei libri hanno un certo successo: “L’età e l’esperienza mi portano sempre di più a lavori pazienti e modesti. Ma cosa importa, se agiamo in base alle nostre forze, con una buona intenzione?

Nel 1854 si sposta nuovamente a nord e compie un lungo giro sulle coste baltiche, raccontando di castelli in rovina, antiche abbazie, fortezze abbandonate, da Amburgo a Danzica, alle coste della Pomerania, a Marienbourg, all’isola di Rugen, ad Helgoland. (“Un été au bord de la Baltique et de la mer du Nord”, 1856)

Nel 1858 esce finalmente il primo volume di una delle sue opere più ambiziose, il “Voyage pittoresque en Allemagne. Partie Mèridionale”, seguito l’anno successivo del secondo, sulla parte settentrionale. Non è il resoconto puntuale di un viaggio, ma una sorta di sontuoso riassunto della Germania, storia, letteratura, geografia, ritratti di personaggi e di città, il tutto condito da aneddoti e ricordi dell’autore, che quella terra l’ha girata a più riprese in lungo e in largo, e impreziosito dalle illustrazioni dei fratelli Rouargue, incisori di rango. Il Voyage pictoresque è una vera e propria dichiarazione d’amore per un paese che Xavier considera la sua seconda patria, ed è al tempo stesso il canto del cigno del viaggiatore-reporter (non dello scrittore). Le opere di viaggio successive, se si eccettua quella dedicata nel 1861 alla Svizzera (“Voyage en Suisse”), altro luogo del cuore visitato innumerevoli volte, sono raccolte antologiche di ricordi, a volte anche molto piacevoli e curiose, ma su un coté più letterario che giornalistico. Non c’è più la presa diretta.

A partire dai cinquant’anni Xavier rallenta infatti la sua attività di nomade. Viaggia sempre più raramente, e per periodi brevi. Ci sono di mezzo la salute (“Un tempo viaggiavo per imparare a conoscere popoli stranieri, per studiare nuove lingue e nuove poesie: oggi, viaggio per studiare i principi dell’igiene e per consultare dei medici”) nonché gli impegni legati alla nomina all’Académie de France, onorati con grande serietà, e quelli connessi ad una poco convinta militanza politica: ma c’è anche il progressivo venir meno dell’interesse del pubblico per le sue opere, la rapida obsolescenza delle stesse e della loro funzione. Allo stesso modo, diviene molto meno interessante anche per noi seguire l’ultima parte della sua vita, non priva di eventi e di riconoscimenti, ma scorrente ormai nell’alveo di una normalità sedentaria. Lo spirito nomade s’è sopito.

Ha ancora davanti trent’anni, nei quali continuerà ad essere curioso, a studiare, a scrivere e a pubblicare, proponendo edizioni aggiornate di cose vecchie, compilando storie di viaggi raccontati da altri, costruendo libri sui propri ricordi, per i quali il materiale non gli manca. Ma si rende conto che nel genere che lo aveva reso famoso non ha più molto da dire. Non è solo questione di stanchezza sua. I mondi lontani che aveva così brillantemente raccontato si sono rapidamente avvicinati, il vapore e la ferrovia li hanno resi più facilmente raggiungibili, la fotografia li disvela.

Marmier pensa tuttavia di poterli far rivivere nelle opere di fantasia, cosa che in precedenza si era sempre rifiutato di prendere in considerazione. Comincia a scrivere romanzi a cinquant’anni, su pressione del suo editore, e ottiene anche un certo successo, tanto che due di queste opere sono premiate dall’Académie. Ma ormai altri autori, primo tra tutti Verne, lo incalzano. Noi lo lasciamo a questo punto, quando ancora non ha cominciato a sopravvivere alla propria fama.

Je me considère comme un botaniste
qui fait un herbier de plantes exotiques.

L’uomo

Il primo romanzo pubblicato da Marmier è proprio quello che ha dato il via a questo recupero. Tutto è partito infatti dal rinvenimento su una bancarella di una vecchia edizione di “Un viaggio alle Spitzbergen” (ed. Capitol, 1959), traduzione italiana de “Les fiancés du Spitzberg”. Il titolo mi incuriosiva, e il nome dell’autore non mi riusciva del tutto nuovo, anche se non sapevo a cosa riferirlo. Una breve nota preposta al testo mi ha poi fornito il legame. Xavier Marmier l’avevo già incontrato ai tempi del mio viaggio in Islanda, l’avevo citato per le sue Lettere sull’Islanda, ma si trattava di una conoscenza di seconda mano. Stavolta ero deciso ad andare un po’ più in profondità. Nell’impossibilità di reperire, anche on line, le sue opere, le ho pazientemente scaricate (non tutte, ci vorrebbero mesi) da un sito provvidenziale.

Ho faticato un sacco a mettere assieme questa breve e incompleta traccia biografica. Le biografie esistenti in francese sono tutte molto vecchie, in genere affette da un intento celebrativo e tutt’ altro che accurate nelle datazioni. Le notizie le ho ricavate per lo più dalle opere stesse, ma il periodo della vita di Marmier che ho provato a raccontare è così movimentato che riesce difficile stargli dietro. Alla fine mi sono sentito come doveva sentirsi il mio biografato dopo aver completato uno dei suoi libri: ho fatto un lavoro artigianale, magari troppo compilatorio, ma a suo modo utile per la conoscenza di un autore immeritatamente rimosso, visto che in italiano non c’è assolutamente nulla.

Ma cosa importa, se agiamo in base alle nostre forze, con una buona intenzione?

Allora, che idea mi sono fatto di Marmier?

Provo a tracciarne un rapido profilo, come uomo, come studioso e come viaggiatore, anche se i tratti fondamentali della sua immagine dovrebbero già riuscire evidenti dalla storia che ho raccontato e dalle sue stesse parole che ho citato.

Per ciò che si intravvede dalla corrispondenza e dai giudizi dei suoi conoscenti, e che trova comunque poi pieno riscontro nelle sue opere, Marmier era una gran brava persona e uno spirito libero. Era leale, caldo e totalmente sincero nelle amicizie, alcune delle quali durarono una vita intera; educato, cortese e amabile, senza essere però mai servile e lezioso, e senza rinunciare all’indipendenza di giudizio, nei rapporti con tutti, a qualsiasi latitudine o longitudine e a prescindere dalle gerarchie verticali. Alla sua morte un amico scrisse: “Non so cosa la posterità conserverà delle sue opere, anche se penso che potranno sopravvivergli a lungo. In ogni caso la sua memoria rimarrà per sempre nel cuore dei suoi amici: e ne aveva molti.” Ce n’è abbastanza per dire che ha speso bene la sua vita.

Tutto questo può sembrare in contraddizione con altri aspetti del suo carattere. Era infatti anche un convinto realista, nostalgico dei Borbone e della Francia del Re Sole, anti-repubblicano viscerale. In altre parole un reazionario, in palese ritardo rispetto ai propri tempi e a disagio nella società in cui viveva. Non a caso appena possibile prendeva il largo. Ed era anche un cattolico integralista (tutti punti ulteriori di contatto con Waterton – ma le somiglianze si fermano qui). Quelli però che dovrebbero essere dei limiti, in una persona per altri versi aperta e intelligente finiscono a volte per diventare punti di forza. Come tutti i grandi reazionari, Marmier volgeva al mondo uno sguardo molto più lucido e disincantato, quando non c’erano di mezzo questioni religiose o prevenzioni consolidate (vedi quella nei confronti dell’Inghilterra), rispetto a quello dei suoi contemporanei progressisti. In qualche caso questo tipo di sguardo, proprio perché attento al passato, consente di apprezzare molto meglio la ricchezza culturale di un popolo, di comprendere il valore, anche pratico, delle sue tradizioni. Lo dimostra ad esempio il deciso rifiuto da parte di Marmier, dati alla mano, della classificazione negativa che i naturalisti settecenteschi assegnavano ai Samoiedi nella scala umana. Ma la stessa modalità prospettica gli permetteva di vedere in mezzo ai trionfi del progresso e della democrazia anche i suoi rischi. L’immagine negativa che riporta dell’America, comune del resto a molti suoi contemporanei e alla gran parte dei viaggiatori europei dell’Ottocento, da Dickens a Gorkji e ad Hamsun, è senz’ altro condizionata dall’avversione per la democrazia in genere e per tutto ciò che aveva a che fare con l’Inghilterra in particolare, ma alla fine ci dà comunque un quadro del futuro di quella società che somiglia in maniera impressionante a come ci appare oggi (non è un caso che alla presidenza ci sia Trump). E lo stesso vale per le considerazioni sulle prospettive dell’impero zarista e sulle condizioni dei contadini russi.

Marmier è anche onesto nella sua autorappresentazione. “Vi ricordate quante volte, in uno di quei paradossi spirituali coi quali volentieri giocate, mi avete accusato di essere aristocratico? Se merito questa accusa, e se è un peccato, sappiate che la espio non per una afflizione volontaria di qualche ora, ma per una penitenza multipla di ogni giorno.” Che consisterebbe nei contatti con i comportamenti grossolani, con i molteplici modi in cui si esprime la volgarità. Vale a dire: non sono un aristocratico per nascita, che non significa nulla, ma lo sono, e lo rivendico, per il mio modo di pensare e di comportarmi.

Nella tarda maturità Marmier si lasciò convincere un paio di volte a presentare la propria candidatura alle elezioni legislative nello schieramento conservatore e legittimista. Salvo poi rifiutarsi di fare campagna elettorale, e uscirne in entrambe le occasioni sconfitto. Se un poco l’ho capito, deve avere tirato dei gran sospiri di sollievo. Aveva le sue convinzioni, e c’era affezionato, ma aveva visto troppo mondo per non capire in che direzione questo stava andando, e che quella direzione poteva non piacergli, ma era ineluttabile.

Aveva poi naturalmente anche le sue ambizioni, che riguardavano soprattutto l’ingesso tra gli “immortali” dell’Académie Française. Ci teneva particolarmente perché quel posto sapeva di averlo guadagnato, e ottenne questa soddisfazione (nel 1870) senza troppo sgomitare e senza abbassarsi a manovre e raccomandazioni.

Era insomma una persona molto normale, se assumiamo a parametro della normalità l’onestà, il senso della dignità propria e il rispetto di quella degli altri. Di speciale aveva la curiosità intelligente verso tutto e la forza di volontà per cercare di soddisfarla.

Lo studioso e lo scrittore

Analogo discorso vale per la qualità della sua scrittura. È una scrittura volutamente “normale”, che non trascina, ma convince. Nel suo caso la normalità consiste in una eleganza semplice, che lascia trapelare però una squisita sensibilità, a volte persino una dolce mestizia. Anche nella parte di narrazione più prettamente documentaria sa rendere vividi i colori, e riesce a guidare il lettore in una sorta di mondo incantato, malgrado le immagini siano assolutamente realistiche. Sono i suoi occhi a filtrare il passaggio: “Questo paese mi sembrava di per sé così vario e così bello che avrei commesso una profanazione impiegando, per renderlo più interessante, dei mezzi artificiali.” Per quanto concerne la sua attualità si potrebbe dire, parafrasando un altro Xavier, il più giovane dei De Maistre, che oggi le sue pagine non aggiungono granché alla nostra conoscenza, ma regalano almeno momenti di divertimento.

Anche l’unico dei suoi romanzi che ho letto, “Les fiancés du Spitzberg”, pur non potendo vantare molti pregi sotto il profilo prettamente letterario assolve onestamente alla funzione che l’autore gli assegnava: è la continuazione del suo impegno di divulgatore con altri mezzi. I personaggi e la trama sono tutti piuttosto prevedibili, ma gli inserti storici e scientifici distribuiti lungo il percorso anziché appesantire la narrazione si amalgamano benissimo e la vivacizzano. A dispetto del suo conservatorismo e delle sue venature liriche, Marmier ha l’animo di un positivista.

Come studioso appare prima di tutto un gran lavoratore. Prende degli impegni, si dà delle scadenze, e li rispetta. Di questa capacità di lavoro è molto consapevole e orgoglioso. Dice al suo amico Weill: “Mi conosci, sai che vado fino in fondo alle cose, anche quando mi costa una fatica spropositata”. Perché non lavora solo sulla quantità, ma anche sulla qualità. È minuzioso ed esatto: ci tiene alla precisione dei dati: per ogni argomento, oltre a ciò che ha raccolto direttamente, va a consultare tutta la documentazione esistente (e spesso si compiace di dimostrarne l’inconsistenza, soprattutto quando si confronta con autori che hanno lavorato solo a tavolino). Non fa conto sull’inventiva, ma sulla capacità di memorizzare: il suo motto di lavoro è vedere, studiare, incrociare i risultati e dare conto. E non risparmia il sarcasmo nei confronti di quei viaggiatori che viaggiano senza vedere nulla, senza uscire dai loro alberghi, o per gli autori che pubblicano libri su paesi stranieri senza mai averci messo piede.

Ama maniacalmente i libri, ma non ne desidera soltanto il possesso: li legge anche, cosa che non tutti i bibliomani fanno: e questo è uno dei tratti che più me lo fa sentire vicino. Immagino che se fosse venuto a casa mia in visita si sarebbe immediatamente fiondato davanti agli scaffali della mia biblioteca. Voglio anche presumere che ne sarebbe rimasto soddisfatto. Non è comunque l’oggetto libro in sé ad interessarlo, ma ciò che rappresenta. La distruzione della biblioteca di Montreal, andata bruciata in un incendio provocato dalla popolazione di lingua inglese in rivolta, gli pare il segno più evidente della barbarie di quest’ultima.

Il viaggiatore

Ne “Les fiancés du Spitzberg” Marmier schizza un proprio autoritratto spirituale nella figura del giovane Marcel Comtois: “Aveva già navigato lungo le più belle coste del Mediterraneo, dell’Atlantico e del mare del nord: aveva oltrepassato sia il circolo polare che l’Equatore, sempre con l’ansia di vedere e con una specie di incantamento, cui partecipavano gli occhi e la mente, allo spettacolo di contrade nuove e diverse.

Parla anche della sua precocissima vocazione, quella che sin da bambino non gli dava terraferma, anche se la trasferisce in un contesto ben diverso da quella della sua famiglia e della sua terra natale: “Fin dall’infanzia sono stato cullato dai canti dei marinai, ho sentito, dalla zia che mi ha allevato, vedova di un nostromo, i racconti delle avventure marinaresche e delle prove di coraggio dei capitani che hanno resa illustre la nostra Dunkerque. Sapevo appena leggere e avevo già in mano la biografia di Jean Bart.

Confessa di essere approdato ad un sano realismo, che non gli impedisce però di professare un’immutata curiosità per la varietà infinita della natura e del mondo: “È finita l’era dei grandi avvenimenti geografici, quando l’Europa ad ogni poco sobbalzava all’annuncio di una nuova scoperta. […] Ogni mare è stato solcato, ogni arcipelago esplorato e misurate le più alte vette e scrutate dai geologi le viscere della terra. Tuttavia, se per soddisfare la sua insaziabile curiosità l’uomo ha, di volta in volta, sfidato il freddo mortale delle regioni polari e i calori insopportabili dei tropici, quanti spazi ignoti restano ancora sul globo e quanti problemi da risolvere. […] E comunque, i soli aspetti del mondo, nella loro grandiosità, nella infinita varietà dei loro mutamenti continui, non ci si presentano forse con una attrattiva, un fascino indicibili?

A motivare i suoi viaggi, però, prima ancora che gli spettacoli della natura sono i diversi aspetti della cultura. Già a partire dalle “Lettres sur l’Islande” i suoi libri sono dedicati per almeno due terzi ad analizzare minutamente ogni forma di sapere dei diversi popoli che incontra. Sistema scolastico, lingua, tradizioni, saghe, miti, cultura popolare. Un pallino costante è lo studio del sistema di istruzione. È senz’altro tra i primi ad apprezzare e a far conoscere i modelli educativi scandinavi. Ha l’umiltà di mettersi davanti a queste cose con l’atteggiamento di chi deve capire e imparare, e non giudicare. Riesce a dare una spiegazione sensata di tutto, incrociando la storia dei popoli con le diverse situazioni ambientali, e riconoscendo a ciascuno di essi una specifica capacità di adattamento.

Nell’elenco dei paesi visitati e raccontati da Marmier spiccano per la loro assenza due grandi nazioni europee come l’Inghilterra e la Spagna. In realtà in Inghilterra si recò più di una volta, mentre non mi risulta alcuna sua visita alla Spagna che sia andata oltre i Pirenei. Mi sono chiesto il perché del silenzio sulla prima (mentre peraltro nei suoi ricordi più tardi di viaggio si parla, con dolente simpatia, dell’Irlanda, che in quel periodo soffriva la più tremenda delle carestie) e l’unica risposta che sono riuscito a darmi è che l’Inghilterra rappresenta ancora, nell’anacronistica immagine politica del mondo cui Marmier è aggrappato, la nemica più acerrima della Francia, quella che le ha strappato le terre americane e il primato sui mari, che ospita gli eretici più protervi e dannosi alla vera religione, che affama di proposito, per sterminarla, la popolazione cattolica irlandese. Non sarebbe in grado di parlarne con animo sereno, e di questo si rende conto perfettamente. Finirebbe per scrivere un vero e proprio e vero pamphlet. Si rifà comunque di sponda, scaricando il suo disprezzo su quella appendice della cultura inglese che al momento è ancora rappresentata, in versione addirittura peggiorativa, dagli Stati Uniti.

Xavier Marmier sembra essere stato un viaggiatore particolarmente fortunato. Non ha mai fatto naufragio, non è stato rapito dai briganti calabresi o dai banditi del Caucaso, non ha subito incidenti particolarmente gravi o aggressioni, e non si è perso tra le nevi del nord. La disavventura più spiacevole cui fa cenno è un arresto in Germania, dopo essere stato scambiato per un malfattore, con liberazione il giorno seguente e tanto di scuse. Doveva essere in possesso di amuleti potentissimi. Oppure, semplicemente, si è sempre mosso con molto buon senso, e soprattutto con quello spirito di adattamento che tanto ammirava nei popoli da lui incontrati. Per questo non si lamenta del gelo dell’artico, degli insetti finlandesi o del clima rovente dell’Egitto. Queste cose le mette nel conto, e ce le fa intuire semmai parlando delle difficoltà che rendono dura, ma ammirevole, la vita altrui.

Mi accorgo che strada facendo Marmier mi è diventato sempre più simpatico. I presupposti c’erano già tutti sin dalla partenza, la passione per i viaggi, la bibliomania, la preferenza per i paesi e per i popoli nordici, l’attitudine assieme curiosa e disincantata: ma a fare la differenza è stata probabilmente da ultimo l’età (la mia, chiaramente, non la sua). Credo proprio che questa simpatia abbia anche una matrice anagrafica. Cessati gli eroici furori sono diventato da un pezzo un viaggiatore tranquillo. Per dirla alla Marmier, frequento più ambulatori di fisioterapia che aeroporti o stazioni. Ma la tranquillità coatta mi spinge a viaggiare maggiormente nel tempo, e mi consente di incontrare personaggi come lui.

Non è come andare in Islanda, ma offre comunque le sue soddisfazioni.

Cinquantacinque anni di libri di viaggio

1837: Lettres sur l’Islande

1838: Langue et littérature islandaises. Histoire de l’Islande depuis sa découverte jusqu’à nos jours

1839: Histoire de la littérature en Danemark et en Suède

1840: Lettres sur le Nord, 2 vol.

1841: Souvenirs de voyages et traditions populaires

1842: Chants populaires du Nord. Lettres sur la Hollande

1844: Poésies d’un voyageur. Relation des voyages de la commission scientifique du Nord, 2 vol.

1845: Nouveaux souvenirs de voyages en Franche-Comté

1847: Du Rhin au Nil, 2 vol. Lettres sur l’Algérie

1848: Lettres sur la Russie, la Finlande et la Pologne, 2 vol.

1851: Lettres sur l’Amérique, 2 vol.

1852: Les Voyageurs nouveaux, 3 vol.

1854: Lettres sur l’Adriatique et le Monténégro, 2 vol.

1856: Un été au bord de la Baltique. Au bord de la Néva

1857: Les quatre âges. Les drames intimes, contes russes

1858: Les fiancés de Spitzberg. La forêt noire

1858-1859: Voyage pittoresque en Allemagne, 2 vol.

1859: En Amérique et en Europe

1861: Voyage en Suisse

1867: De l’Est à l’Ouest, voyages et littérature

1879: Nouveaux récits de voyages

1885: Passé et présent. Récits de voyage

1889: À travers les tropiques

1890: Au Sud et au Nord. Prose et vers

Bibliografia

Non esistono (o almeno, non mi risultano) molte biografie di Xavier Marmier, nessuna comunque particolarmente recente.

Camille Aymonier, Xavier Marmier: sa vie, son œuvre, Besançon, Séquania, 1928

Alexandre Estignard, Xavier Marmier, sa vie et ses œuvres, Paris, Champion, 1893

Wendy S. Mercer, Xavier Marmier: 1808-1892, Pontarlier, Les Amis du Musée, 1992

Roger Roux, Xavier Marmier bibliophile, Jacquin, 1910

Jean Ménard, Xavier Marmier et le Canada, Québec, Presses de l’Université Laval, 1967.

I suoi libri sono stati quasi tutti riediti (in francese) nell’ultimo decennio. Molti sono leggibili in edizione anastatica on line. Ne cito solo alcuni

Voyage pittoresque en Allemagne, (partie meridionale – partie septentrionale), The British Library, 2012

Lettres sur l’Islande, Wentworth Press, 2018

Les Fiancés Du Spitzberg, BiblioLife, 2009

Lettres Sur L’adriatique Et Le Montenegro (1), HardPresse Publishing, 2019

Lettres sur le Nord, Vol. 2: Danemark, Suède, Norvège, Laponie, Et Spitzberg, Forgotten Books, 2018

Lettres sur l’Amérique, Vol. 2, Forgotten Books, 2017

Lettres sur la Russie, la Finlande Et la Pologne vol. 2, Forgotten Books,  2018

Un Été au bord de la Baltique et de la Mer du Nord: Souvenirs de Voyage, BiblioBazaar, 2008

Du Rhin au Nil. Tirol – Hongrie – Provinces danubiennes – Syrie – Palestine – Égypte, Adamant Media Corporation, 2002

Voyage en Suisse, The British Library, 2010

[1] Les jours tombent, la vie en silence s’effeuille :
C’est l’amour aujourd’hui qui m’en prend une feuille;
Puis les longs entretiens d’une vieille amitié,
Puis le vague plaisir d’exister à moitié,
Comme un Napolitain dans sa molle paresse,
De s’asseoir au soleil et de voir sans tristesse
S’efïacer les lueurs d’un horizon doré.

[2] J’y suis venu sans toi dans ce pays si beau,
Dont nous parlions souvent à l’heure fortunée
Où tout s’offrait à nous comme un riant tableau,
Et que nous devions voir ensemble cette année.
C’en est fait de la voix qui naguères encor
Saisissait à la fois mon âme et mon oreille,
C’en est fait à jamais de tant de rêves d’or ;
Dans le pâle linceul maintenant tout sommeille.
Dors sous la froide terre, ô jeune et belle fleur,
Si doucement éclose et si vite brisée ;
Dors, avec les trésors de ta chaste candeur,
Avec ton innocence et ta tendre pensée.

La traduzione è mia, e certo non rende giustizia ai meriti, pur modesti, del testo.

Barbari e no

una risposta a I buoni e i cattivi maestri

di Paolo Repetto, 21 aprile 2020

Caro Stefano, non c’è stato alcuno sconfitto, meno che mai un K.O., per il semplice motivo che non c’è stato nessuno scontro di ideologie, ma un confronto di idee. Quindi possiamo proseguire, non prima però che io ti abbia ringraziato, perché questo match (forzatamente) a distanza mi ha aiutato a riflettere in un momento nel quale stanchezza e rassegnazione stavano avendo il sopravvento. Parto dalle tue argomentazioni, ma vorrei procedere su due piani distinti: quello dei fatti, o della razionalità, e quello delle simpatie, o dell’emozionalità.

Faccio una premessa. Io mi reputo una persona quasi sempre razionale (e quanto a questo, sotto molti aspetti, tu lo sei senz’altro più di me). Per questo motivo, al di là dei modi un po’ ruvidi nei quali mi esprimo, ma in genere solo con chi ritengo essere in grado di capire che appunto di schiettezza si tratta, e non di arroganza, tendo a non formulare giudizi, ma a dare delle valutazioni: il che non è esattamente la stessa cosa. Un giudizio si basa, come giustamente dici tu, sulla presunzione dell’esistenza di valori assoluti, relativamente ai quali una cosa appare buona o cattiva. Una valutazione ha invece un carattere più “utilitaristico”, nel senso che valuta la mia compatibilità con un oggetto, una persona o una situazione. Questo non significa che non creda nei valori assoluti: l’amicizia, ad esempio, e la lealtà; ma anche la giustizia, intesa come equità e reciprocità, l’eguaglianza, intesa come parità delle opportunità, e la libertà, intesa come pratica del rispetto per gli altri e legittima pretesa di rispetto da parte degli altri. Non è nemmeno del tutto vero, però, che mi astenga dal formulare dei giudizi: solo che in questi non hanno peso né il genere, né l’etnia, né la religione né altri fattori pregiudiziali. Distinguo semplicemente tra persone che reputo intelligenti e persone che ritengo stupide, e tale distinzione mi sembra necessaria per poter fare delle scelte e garantire la mia sopravvivenza senza compromettere quella altrui. Questo per dire che per me uno svedese cretino è un cretino, una donna intelligente è intelligente, un equadoregno laborioso è una persona laboriosa (non ridere!). E cerco di comportarmi di conseguenza.

Veniamo ai fatti. Ho viaggiato molto meno di te, e ho quindi un campo di esperienze assai più ristretto. Sufficiente comunque a confermarmi quel che ho sempre pensato, ovvero che in giro, come in montagna, uno, a meno di imbattersi in situazioni particolarmente sfortunate, ci trova quel che ci porta (e questo vale ovunque, in Italia come in tutto il resto del mondo). Ho ricordi molto belli di gesti di ospitalità totalmente gratuiti in Germania e in Olanda, di grande urbanità e simpatia in Spagna e in Grecia, magari un po’ meno in Inghilterra e in Francia (che comunque per molti aspetti adoro). Persino in Alto Adige e in Austria ho trovato un’atmosfera decisamente amichevole, in quest’ultima addirittura dopo un iniziale cortese rifiuto alla prenotazione, venuto meno quando si è chiarito che non eravamo romani (e chissà perché, non ho dubitato un istante che il pregiudizio fosse figlio di una qualche sgradevole esperienza). Non posso dire nulla invece dei paesi extraeuropei, a meno di considerare tale la Turchia (quella pre-Erdogan, che mi ha affascinato), perché non li conosco: ma conosco neri e gialli e magrebini di diversa provenienza, e con alcuni ho un rapporto di stima reciproca che potrebbe senz’altro diventare amicizia se si desse l’occasione di una frequentazione più assidua. Lo so, suona un po’ come il classico “non sono razzista, ma …”, ma tu mi conosci ormai abbastanza per sapere che vuol dire un’altra cosa. E comunque, questi sono i fatti.

Quindi, certamente, è il bagaglio delle esperienze specifiche a condizionare la nostra disposizione. Poi ci sono quegli aspetti più generali della cultura e delle abitudini di ciascun popolo nei confronti dei quali vale piuttosto il tipo di educazione ricevuta o di condizionamento ambientale. Ma anche qui, la chiave profonda di lettura rimangono per me le attitudini “genetiche” individuali. Nel mio caso, come dicevo prima, dicono di una razionalità talmente esasperata da rasentare l’autismo. Non sopporto letteralmente le manifestazioni chiassose, ad esempio ogni forma di mascheramento o di travestitismo o di auto-spettacolarizzazione, e di lì, a salire, i professionisti della trasgressione e della provocazione, ecc … Nonché tutta una serie di scarti anche piccoli dalla linearità che tocchino o invadano in qualche modo i miei spazi (leggiti il mio Il libro degli abbracci). Cose che per gli altri possono risultare divertenti, o quantomeno tollerabili, mi intristiscono e mi mettono a disagio. Per venire all’oggetto specifico della nostra discussione, ad esempio, non sopportando minimamente l’ubriachezza (la ritengo una totale assenza di rispetto di sé e degli altri) ho molti problemi a capire la diffusione di un problema del genere tra i nordici. Anzi, proprio non la capisco, e nemmeno mi sforzo di farlo. Avranno i loro motivi, ma per me nessun motivo giustifica il degradare se stessi e mettere a disagio gli altri. Quindi la mia stima per popoli che paiono coltivare quell’abitudine è tutt’altro che incondizionata (e dico paiono, perché poi in realtà nemmeno in Islanda, il sabato sera, quando secondo la leggenda girano auto deputate appositamente a raccogliere gli ubriachi riversi per strada, ne ho visto uno. Ho tuttavia la testimonianza diretta di mia figlia Chiara, che in Inghilterra ci vive ed è cittadina inglese, e racconta di colleghi che occupano ruoli di responsabilità e prestigio nella sua azienda e si sbronzano regolarmente al pub il venerdì sera. Quindi, non è solo leggenda).

Ma, e qui viene il punto che mi preme chiarire, quando si parla di temi come l’Europa e la sua possibilità di essere o meno una vera e unica comunità, non sono il carattere, l’espansività o la cupezza dei singoli o di intere comunità ad interessarmi, ma la loro affidabilità: e l’affidabilità si misura nella capacità di far fronte agli impegni che si assumono nei confronti degli altri.

Ora, io capisco a cosa ti riferisci quando parli delle emozioni, e dei ricordi che si stampano nella mente. Un suk o un parco nazionale africano, o un villaggio nepalese, ti emozionano certamente più di un centro commerciale di Parigi o di Stoccolma, e probabilmente anche più di Notre Dame o di un lago finlandese. Allo stesso modo in cui impressionano meglio la memoria fotografica. Ma non dobbiamo confondere i due piani. Quando sono in giro, mi fa molto piacere trovare persone cordiali, allegre e sorridenti anziché musoni freddi come i finlandesi, ma ciò che importa poi davvero, se penso in una possibile prospettiva di “convivenza”, politica ed economica, è ad esempio che se devo andare da A a B e mi viene dichiarato che il percorso in ferrovia è di due ore, ci arriverò al massimo in due ore e cinque, non in quattro, e soprattutto che arriverò. Oppure, che troverò persino su una perduta scogliera, per non parlare dei centri cittadini, delle toilettes pubbliche pulite e funzionanti. Questo ti farà sorridere, ma la misura del civismo di un popolo si misura a cominciare da poche cose “neutre” ma basilari. Le amicizie poi, se ho voglia e tempo e fortuna, me le conquisto, ma i servizi che un paese mi promette, come cittadino o come semplice turista, mi spettano e li esigo. Sono una condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché io mi senta nello spirito giusto. Se non mi vengono offerti, mi rimane anche poca disposizione per le amicizie. E non mi sembra leale dire: sono fatti così, è il loro carattere, ci si deve adeguare, cosa sono in fondo due ore in più, perché stando così le cose si rinuncia in partenza alla possibilità di stare assieme, venendo a mancare i fondamentali del rispetto reciproco. (Conoscendomi sai anche che se parto con lo spirito di sopravvivere nutrendomi di bacche o di pane raffermo da due mesi e camminando sedici ore al giorno sono – pardon, ero – in grado di farlo: ma qui si parla di un’altra cosa).

Ora, a me risulta che tutti i paesi entrati a far parte della comunità europea abbiano aderito di loro spontanea volontà, abbiano anzi spinto per anni per poter essere ammessi, consapevoli che nella comunità vigevano certi regolamenti e certi vincoli, e che chi ha voluto andarsene lo abbia fatto liberamente (Brexit docet). Non capisco allora perché ci si lamenti quando ci viene chiesto di rispettarli. Obiezione prevedibile: ma anche gli altri (vedi Germania con le sue banche, la Francia con i suoi prodotti agricoli, ecc) non sempre li hanno rispettati. Esatto: solo che noi non siamo mai stati in grado di richiamare alcuno all’ordine, perché eravamo costantemente impegnati a piatire flessibilità finanziarie e dilazioni per riforme che dovrebbero essere operanti da decenni.

Ecco. A questo proposito, cioè al “quanto agli altri”, credo vadano fatte delle precisazioni. Accenni ad esempio nella tua mail all’inclinazione dei norvegesi al suicidio. Come a dire: se si ammazzano a frotte significa che poi tanto perfetta questa loro società non è. Ora, lasciamo andare le componenti legate all’impronta luterana e anche quelle dovute alla condizione climatica: passiamo ai fatti. Se vai a scorrere le ultime pagine del mio La verità vi prego sui cavalli, il libricino dedicato al viaggio in Islanda, ci troverai queste cifre, desunte dalle tabelle ufficiali dell’OMS per il 2018: “Nella graduatoria dei tassi di suicidio la Finlandia è solo al ventunesimo posto, la Svezia e la Norvegia si piazzano al trentacinquesimo e al trentasettesimo, ben dopo la Francia, gli Stati Uniti e la Germania, per non parlare del Giappone e di tutti gli stati dell’ex blocco sovietico. L’Islanda, guarda un po’, è solo quarantaduesima, vicina alla Svizzera e subito prima di Trinidad e Tobago. Dopo viene tutta una serie di paesi, compresi la Siria e il Messico e chiusa in bellezza da Haiti, nei quali non è neanche il caso di affannarsi a suicidarsi, ci pensano gli altri o la natura stessa a toglierti il pensiero. L’Italia in questa macabra graduatoria è al sessantaquattresimo posto, ma sappiamo come va dalle nostre parti: un inveterato perbenismo di matrice cattolica induce a rubricare come morti accidentali molti casi di suicidio”. Sono dati ufficiali (li ho ripresi dal mio scritto perché in questo momento internet non mi funziona), che mi pare smentiscano definitivamente la vulgata dei nordici iperdepressi.

E ancora. Le malefatte nascoste, ciò che si cela dietro l’immagine tirata a lucido di civismo e probità dei paesi di cui stiamo parlando. Mi spiace, ma devo rimandarti ancora una volta ad un mio scritto. Non è un delirio di autocitazionismo o una presunzione di possesso della verità, ma trattandosi di cose che ho già cercato di approfondire in altre occasioni faccio prima a spedirti direttamente alla fonte. Questa volta si tratta del libretto dedicato alla Svizzera, Ho visto anche degli Svizzeri felici. La Svizzera non rientra nel novero dei paesi della comunità, ma si presta benissimo ad esemplificare la persistenza di certi stereotipi sulle magagne altrui. È stata accusata ad esempio di aver respinto, durante l’ultima guerra mondiale, decine di migliaia di ebrei, condannandoli a finire nei campi di sterminio. Ora: “Dall’inizio alla fine della guerra hanno chiesto ospitalità alla Svizzera e sono stati accolti nel suo territorio 293.773 rifugiati e internati provenienti da tutta Europa. Circa 60.000 sono civili perseguitati (dei quali 28’000 ebrei), ai quali si aggiungono i circa 60.000 bambini e i 66.000 profughi provenienti dai paesi limitrofi, e 104.000 tra militari, disertori, renitenti alla leva e prigionieri di guerra evasi”. Questo in un paese di quattro milioni di abitanti, chiuso tra le potenze dell’Asse e in costante procinto di essere invaso. La commissione ebraica incaricata di verificare i respingimenti ne ha accertati circa tremila. E sai che gli ebrei in queste cose sono scrupolosi. Ora, tralasciando il piccolo particolare che quei poveretti chiedevano asilo là perché erano perseguitati proprio qui da noi, proviamo a fare un pensierino a come percepiamo il fenomeno e a come ci comportiamo, oggi, nei confronti di chi fugge dalla Libia o dalla Siria o da altri paesi dove la guerra è endemica.

Di più: la Svizzera è stata anche accusata di aver trattenuto i beni depositati nelle sue banche appartenenti ad ebrei internati in Germania e scomparsi. Infatti: solo che già prima del Duemila le Banche svizzere hanno sborsato un miliardo e 250 milioni di dollari per chiudere la vicenda dei fondi ebraici in giacenza. Non so quanto la cifra fosse equa, ma l’hanno fatto. Da noi, dove pure gli espropri di stato dei beni ebraici sono stati consistenti, non è mai stata stanziata nemmeno una lira. In compenso sono al lavoro da cinquant’anni quattro commissioni. Ho fatto qualche ulteriore ricerca, e non mi risulta che altri stati, tranne almeno parzialmente la Germania, abbiano risarcito chicchessia per le ruberie e i danni materiali e morali provocati ad altri popoli (il contenzioso nostro con la ex-Jugoslavia è aperto ancora oggi, la Grecia ci ha rinunciato già da quel dì, un contentino è stato dato a suo tempo solo a Gheddafi, per garantirci i rifornimenti di petrolio). Non vado oltre, ma potrai trovare altri illuminanti dettagli.

Infine. I gestori tedeschi dell’albergo hanno senz’altro peccato di una preconcetta supponenza, ma io direi più ancora di goffaggine, perché in fondo intendevano farvi un complimento. Se non ricordo male, però, tu stesso mi hai raccontato che in Etiopia vi hanno sputato letteralmente in faccia, e conoscendovi non dubito che il vostro comportamento non fosse stato diverso da quello tenuto in Germania. Vi hanno sputato solo perché italiani, il che, al di là dell’ignoranza e della maleducazione della persona singola, la dice però lunga sul tipo di ricordo che abbiamo lasciato in quelle popolazioni, e smentisce la favola che ci siamo sempre raccontati degli “Italiani, brava gente”. Anche in questo caso ti rimando a un paio di libri, questa volta per fortuna non miei: uno si intitola appunto “Italiani, brava gente”, scritto da Angelo del Boca, lo storico più accreditato delle nostre avventure/disavventure africane; l’altro è “Tempo di massacro”, di Ennio Flaiano, testimonianza in presa diretta.

Ora, tutta questa pappardella per arrivare a dire in fondo tre semplici cose (le altre, e sono tante, avremo modo spero di dibatterle ancora).

La prima è che al di là di tutto dovremmo ringraziare il cielo di essere nati qui e non in un’altra parte del mondo, magari meno grigia, più variopinta, più calda, ma senz’altro meno sicura. Io lo faccio tutti i giorni, forse per il retaggio inconscio della precarietà che ho vissuto da bambino. Sono anche contento di non avere come vicini gli iraniani, i messicani, i colombiani, i russi, ecc. Nulla di personale, ma mi vanno bene i francesi, gli svizzeri, gli austriaci e gli sloveni, che pure qualche pregiudizio nei nostri confronti ce l’hanno.

La seconda, conseguente immediatamente la prima, è che dobbiamo fare attenzione agli stereotipi. Ne siamo pieni, io stesso nel desktop della mente ho le figurine degli inglesi spocchiosi, dei tedeschi grezzi, dei francesi pieni di sé e maligni, ma poi all’atto pratico bado alle persone e non alla loro provenienza. E nemmeno mi disturba più di tanto che gli altri abbiano di noi un’immagine tutta pizza e mafia e inaffidabilità (i tedeschi qualche ragione ce l’hanno, in due guerre abbiamo girato loro le spalle per due volte), perché so che una immagine simile la coltivano in realtà solo gli imbecilli, dei quali mi importa francamente poco, e che semmai avrò occasione di dimostrare quanto siano infondate. Non mi sono mai sentito umiliato in nessuna parte d’Europa. Come dice Enzensberger (lo faccio dire a lui perché io questa esperienza non l’ho fatta), come atterri arrivando da un altro continente in qualsiasi aeroporto europeo ti senti subito a casa. E lui era un terzomondista, una volta.

La terza, quella che purtroppo ha riscontro nell’attualità di questi giorni, è che dopo un inizio all’insegna della ritrovata fraternità nazionale, di una compattezza davanti al pericolo, del “siamo un popolo di eroi di santi e di cantanti (dal balcone)”, tutto questo afflato di orgoglio patriottico, originato dalla strizza per la crescita delle cifre dei contagi e dei decessi, si è già sgonfiato: ciascuno va per conto suo, è iniziata la caccia ai responsabili (in vista magari di future richieste di risarcimento), le procure aprono nuove inchieste mentre ce ne sono milioni che giacciono ferme da anni, i rom fanno tranquillamente i loro funerali, gli autonomi si scontrano nuovamente con la polizia, che a differenza che nelle Filippine non può sparare, persino Sgarbi è tornato in tivù. Davanti a una situazione come questa, altro che dibattito sul MES: non sarà necessario chiedere di uscire dall’Europa matrigna. Se almeno gli altri hanno imparato qualcosa da questa vicenda, provvederanno loro a buttarci direttamente fuori.

La Cina è pronta ad accoglierci, potremmo diventare una sua ennesima provincia, come il Tibet. Solo che la flessibilità cinese è inferiore anche a quella tedesca o olandese, è paragonabile solo a quella della ghisa. Ovvero, pari a zero.

 

Un’estate da cinque lune

di Paolo Repetto, 9 ottobre 2018

Un'estate da cinque luneSi, un’estate davvero particolare. A maggio il mare era già un brodino e neppure ora (siamo ai primi di ottobre) il bel tempo pare intenzionato ad arrendersi. Una sorta di “alto continuo” che rischia persino di venire un po’ a noia. La cosa non dovrebbe stupire – semmai deve allarmare – perché l’anomalia di stagioni calde precoci e prolungate sta diventando una regola, e c’entrano senz’altro il surriscaldamento del pianeta e la sciagurata presunzione degli umani: ma anche perché in realtà il fenomeno non è del tutto nuovo. Accadeva la stessa cosa mezzo secolo fa, negli anni sessanta. O forse allora si trattava solo di una mia percezione, dettata dal fatto che le scuole iniziavano a ottobre e dall’intensità con la quale vivevo ogni singolo giorno. L’effetto comunque era identico: mi aggrappavo ad ogni nuova mattinata di sole come fosse l’ultima.

A dilatare ulteriormente questa stagione eccessiva è ancora una volta il mio status anagrafico. Non più la condizione adolescenziale, purtroppo, bensì quella di pensionato. So di scoprire l’acqua calda, ma fino a quando non ci sei dentro certe cose le puoi solo immaginare, senza capirle davvero: l’assenza di un confine preciso tra il tempo istituzionalmente consacrato al lavoro e quello “libero”, la condizione di feria perpetua, scombina i ritmi sia biologici che psicologici, per quanto uno resista alle sirene del burraco e si crei gli impegni più disparati. Con la pensione si entra in una sorta di limbo, senza la speranza in un’amnistia o in un condono. Tutto ciò che fai lo fai guardando indietro, anziché avanti.

Forse per questo mi è parsa un’estate strana. Intanto mi ha riportato indietro non solo nei ricordi ma anche nel recupero di sensazioni. Ho ritrovato ad esempio la totale confidenza con l’acqua, in particolare con quella del fiume, vincendo i timori (e gli avvertimenti espliciti) di complicazioni reumatiche che da qualche anno mi stavano frenando. Non siamo ai livelli di quando rimanevo in ammollo tre o quattro ore al giorno, o inseguivo i record del primo e dell’ultimo bagno stagionale, ma per tre mesi ho nuotato quasi quotidianamente, di buon mattino, spesso in perfetta solitudine, nel lago superiore della Lavagnina. E da domani si replica, al mare.

Sono anche tornato a lavori manuali di un certo impegno senza pagare dazi allo sciatico. Ho finalmente imparato a tenere ritmi bassi ma continui, a muovermi come gli astronauti sulla luna, col risultato che i lavori arrivano comunque in porto, sia pure in tempi doppi. Per gli altri sarà una notizia di nessun rilievo, come del resto tutto ciò di cui ho parlato sinora, ma c’è il fatto che imbarcarsi in attività di manutenzione o addirittura di nuova edificazione sembra smentire quanto ho detto sopra, supporre uno sguardo in avanti: mentre in realtà lo sguardo mira talmente avanti da andare persino “oltre”, da non riguardare cioè il mio futuro. Idealmente ho lavorato per i posteri (senza chiedermi però che ne faranno di muretti, pergolati e tettoie o degli alberi da frutta che ho messo a dimora), in verità l’ho fatto per sentirmi in qualche modo ancora agganciato al mio passato.

Rimane la soddisfazione di non aver perso una sola ora. Che non è l’atteggiamento più indicato in vista del prossimo inverno e del domani in genere, ma al momento è confortante. Diverso è invece il bilancio della scrittura. Cresce la sindrome da saturazione e da insignificanza, e mentre sulle prime la cosa un po’ mi preoccupava, ora sto iniziando a trovarla normale. Come giustamente dice un amico: “Se non scrivi è perché non hai niente da scrivere”. In effetti è così, o forse mi sono soltanto stufato di parlare di me stesso a me stesso (ma non so concepire diversamente questa attività). Cambia poco: il risultato è che dagli inizi di giugno non ho buttato giù una riga. La cronaca ufficiale non mi ha aiutato (è dominata da Di Maio e Salvini), quella personale l’ho già esaurita, perché – fortunatamente – non ho eventi da raccontare. Quale che sia la loro lunghezza, le stagioni alla Stand by me, quelle dell’avventura, reale o fantasticata, delle scoperte e degli incontri che danno un’altra direzione alla tua vita, quelle non tornano.

Ora, pochi mesi di stipsi improduttiva non costituiscono poi un gran problema, anche se per i ritmi cui ero abituato e per il valore terapeutico che attribuivo alla scrittura a me paiono già un’eternità. E sarebbero comunque anche questi un po’ fatti miei, non fosse che di nuovo, proprio con lo scrivere queste pagine, mi sto contraddicendo.

La verità è che del tutto improduttivi questi mesi non sono stati. Nel tempo liberato dalla non scrittura ho ripreso a leggere con continuità e ho trovato cose che possono forse risultare interessanti anche per altri. Per questo scendo dall’Aventino: se non ho nulla di significativo da dire c’è almeno qualcosa che vorrei ricordare, e di cui sarà bene lasciare una traccia scritta, prima di perderlo. La diaspora neuronale galoppa.

Quello che segue sarà pertanto un resoconto delle letture estive, delle scoperte e delle conferme che mi hanno regalato: un personalissimo memorandum, affidato anche al sito nella remota e un po’ balzana ipotesi di lettori che non abbiano di meglio da fare (di qualcosa bisogna pur nutrirlo questo benedetto sito, se vogliamo tenerlo in vita). Lo considero un ennesimo aggiornamento di Elisa nella stanza delle meraviglie: ormai ne conta più della Treccani.

Purtroppo devo ricostruire a memoria, perché ho smesso da tempo di tenere una qualsiasi forma di diario. È un peccato. Una volta avrei potuto citare date e persino luoghi di acquisto di ogni singolo libro, nonché l’ordine giornaliero delle letture. Per trenta e passa anni ho annotato, sera dopo sera, eventi, incontri, stranezze, qualche volta anche sensazioni ed emozioni, sia pure in maniera telegrafica: e la parte più interessante, a posteriori, rimane proprio quella relativa alle acquisizioni librarie e alle letture. Può sembrare una cosa stupida, un’inutile registrazione contabile, invece è importantissima. Quando scorro le agende di quarant’anni fa colgo proprio nella successione dei titoli un percorso, si illuminano le scelte, vanno al loro posto i tasselli del caotico mosaico della mia formazione. Senza parlare di quando le letture sono commentate, o collegate ad altre precedenti, oppure rinviano a libri o ad autori non ancora conosciuti (Urgente! Vedere subito!). La nostalgia o i rimpianti qui non c’entrano: per capire chi siamo – sempre che della cosa ci importi – è fondamentale avere chiaro da dove arriviamo (le letture) e come ci siamo arrivati (l’ordine delle letture). Mi sono anche proposto più volte di riprendere questa abitudine, non arrivando però poi mai oltre la metà di gennaio. Immagino voglia dire qualcosa. Non seguirò dunque l’ordine cronologico, che non sono in grado di ricostruire, ma procederò con un criterio, diciamo così, emozionale.

Accennavo sopra a scoperte e a conferme. Le scoperte riguardano alcuni saggisti italiani della generazione di mezzo (quella che comprende i nati tra la prima metà degli anni sessanta e quella degli anni ottanta), e sono un po’ tardive, dal momento che costoro sono sulla breccia da un pezzo. Non li conoscevo perché evidentemente non fanno opinione, meno che mai in tivù e comunque non nei salotti di prima serata (di questo però non garantisco: non seguo i talk e potrebbero quindi benissimo essermi sfuggiti): ma frequentano con parsimonia anche i supplementi culturali dei quotidiani, affidandosi piuttosto alle “riviste” on-line, e lì sono io a bazzicare poco, per una insuperabile idiosincrasia alla lettura in modalità digitale. Ammetto inoltre di essere stato a lungo fuorviato dal preconcetto che tutta la generazione cresciuta all’ombra di Vattimo e del “pensiero debole”, e oggi scaldata dal sole di Grillo, fosse perduta per ogni causa.

Per fortuna non è così. Lo dimostrano i casi di Claudio Giunta e Daniele Giglioli. Al primo sono arrivato per vie traverse, leggendo in primavera un suo reportage sull’Islanda (Tutta la solitudine che meritate). Non volevo anticipazioni su quel paese prima di averlo visitato, già viaggiavo con un bagaglio sin troppo pieno di suggestioni letterarie. Ma questo libro mi era stato suggerito da un amico di cui mi fido, e in effetti valeva la pena. Così al ritorno dal viaggio ho immediatamente cercato altre cose dell’autore, e ho trovato “L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso”, uscito nel 2008, “Una sterminata domenica”, del 2013 e infine, più recente, “E se non fosse la buona battaglia?”, edito lo scorso anno. Letture sufficienti a darmi un po’ di ristoro, in mezzo alla congerie di idiozie che, più ancora dell’afa, hanno reso pesante l’aria di questi mesi.

Il conforto non arriva certamente dagli scenari che dipingono, ma dalla constatazione che altri vedono le stesse cose che vedo io, col mio stesso stato d’animo. Giunta in effetti dice nulla di nuovo: almeno, nulla che già non conoscessi, o non pensassi, o di cui addirittura non avessi già scritto. Ma lo dice benissimo. Mette cioè in fila fenomeni, atteggiamenti, segnali che io ho continuato per anni a cogliere in ordine sparso, anche se sapevo fare capo a una matrice unica. Non vedevo nell’assieme quella che lui definisce una “rivoluzione culturale”, forse perché continuo ad attribuire inconsciamente un significato positivo, costruttivo, al termine rivoluzione. Ma anche perché sono portato a pensare che quando una deriva demenziale coinvolge molta gente – nel nostro caso la quasi maggioranza – non siano necessariamente da ipotizzare cause recondite e complesse: la si può tranquillamente spiegare con la stupidità, ovvero con l’esasperazione maligna e autodistruttiva di un naturale egoismo, che è un fattore troppo trascurato a dispetto della sua evidenza e diffusione e persistenza, o con quel tipo di ignoranza “rivendicata” che della stupidità è sia madre che figlia. In genere concorrono entrambe le cose. Il mio limite è che scorgo attorno il puro sfascio, un degrado inarrestabile che si autoalimenta e si diffonde con accelerazione crescente: e lo sfascio non si lascia raccontare in un discorso articolato.

Giunta non si accontenta di questa spiegazione “fenomenologica” (nel senso che basti guardarsi attorno per constatare quanto idiota può essere la famigerata “gente”). Ha uno sguardo “sociologico”, va in profondità e iscrive tutti gli indizi nel quadro storico e sociale della “condizione postmoderna”, qualunque cosa poi questa stia a significare.

Non è nemmeno il primo a farlo. Riprende in fondo un argomento già trattato, ad esempio, da Alessandro Baricco (ne I Barbari. Saggio sulla mutazione (2006). Ma Baricco lo affrontava in questi termini: ‟Dovendo riassumere, direi questo: tutti a sentire, nell’aria, un’incomprensibile apocalisse imminente; e, ovunque, questa voce che corre: stanno arrivando i barbari. Vedi menti raffinate scrutare l’arrivo dell’invasione con gli occhi fissi nell’orizzonte della televisione. Professori capaci, dalle loro cattedre, misurano nei silenzi dei loro allievi le rovine che si è lasciato dietro il passaggio di un’orda che, in effetti, nessuno però è riuscito a vedere. E intorno a quel che si scrive o si immagina aleggia lo sguardo smarrito di esegeti che, sgomenti, raccontano una terra saccheggiata da predatori senza cultura. I barbari, eccoli qua.

Ora: nel mio mondo scarseggia l’onestà intellettuale, ma non l’intelligenza. Non sono tutti ammattiti. Vedono qualcosa che c’è. Ma quel che c’è, io non riesco a guardarlo con quegli occhi lì. Qualcosa non mi torna.”

Ognuno di noi sta dove stanno tutti, nell’unico luogo che c’è, dentro la corrente della mutazione, dove ciò che ci è noto lo chiamiamo civiltà, e quel che ancora non ha nome, barbarie. A differenza di altri penso che sia un luogo magnifico.”

Beato lui. Che ha senz’altro delle buone ragioni per ritenerlo tale, visto che alle sue conferenze (ricordo una lettura con commento de “L’infinito” da far avere le convulsioni alle ossa di Leopardi) incontra folle adoranti, alle quali di capire o anche semplicemente ascoltare qualcosa di Leopardi non importa nulla, andrebbe benissimo anche l’esegesi del linguaggio di Jerry Calà, ma che delibano l’ambrosia culturale vaporizzata dall’incantatore e si portano via il suo ultimo libro, possibilmente autografato. Quanto all’onestà intellettuale, forse questa avrebbe richiesto all’autore una riflessione a posteriori sulla differente eco che i media hanno riservata alla sua posizione rispetto a quella di Giunta o di altri “apocalittici” sgomenti, non certo in virtù di un superiore livello dell’analisi. E un’altra dovrebbe dettargliene oggi, a dieci anni di distanza, sulla presenza o meno di “orde di predatori senza cultura”.

Tra l’altro, nemmeno Baricco è originale: riprende a sua volta quanto predicato da Michel Maffesoli ne “Il tempo delle tribù (2004)” e nelle “Note sulla postmodernità” del 2005, (che su un sito immodestamente titolato “La rivista culturale” erano recensiti così: “Un esempio felice e virtuoso nel documentare la nostra contemporaneità che lui chiama il tempo delle tribù, del lusso, di dionisio, del nomadismo, del comunitario, dell’immaginario e del ritorno del tragico e del “sacrale”. Non commento, perché di Maffesoli ho parlato già sin troppo altrove). E comunque, potrei proseguire il gioco andando a ritroso per almeno un altro mezzo secolo a caccia di precursori.

Ecco, queste interpretazioni sono per me già esempi perfetti di legittimazione di ciò che in pubblico definisco “uno sfascio etico e culturale” e in privato “il trionfo dei cretini”. Ne L’assedio del presente Giunta lo tratta invece come una “rivoluzione”, e ne vede tutte le possibili declinazioni e derive, partendo dal sovvertimento delle norme sociali, dalla crisi delle agenzie educative tradizionali e dalla frantumazione dell’autorità per arrivare all’eclissi del senso storico e alla perdita di validità dell’esempio, e leggendo tutto questo attraverso le trasformazioni del linguaggio televisivo, del ruolo della scuola e dell’università e dei concetti di cultura e di arte. Sugli esiti di questa “rivoluzione” culturale, o sulla deriva insensata delle politiche educative, non si scosta poi di molto da quel che penso io: ma interpreta giustamente i vari problemi secondo criteri di causa ed effetto, e ne coglie il concatenamento. Uno per tutti: l’ingresso della logica di mercato nell’Università e la banalizzazione della cultura indotta dal moltiplicarsi – ma anche già solo dall’esserci – degli “eventi” (il proliferare di festival della mente, della scienza, della lettura, della storia, della filosofia, le mostre “monstre” sui Grandi Artisti, sempre gli stessi, con Van Gogh e Caravaggio superstar, le passerelle “artistiche” sui laghi o i concerti in alta quota, e tutta la paccottiglia che viene spacciata col bollino culturale doc da una schiera superpagata di addetti ai lavori, reclutata per l’appunto negli atenei). Il libro risale a dieci anni fa, quando il fenomeno non aveva ancora raggiunto i livelli attuali di squallore, ma li lascia ampiamente presagire.

Con i pezzi raccolti in Una domenica sterminata Giunta fornisce poi le esemplificazioni concrete e puntuali di questo sfascio, o rivoluzione che dir si voglia. Sono istantanee che colgono situazioni apparentemente marginali, personaggi di secondo piano, furberie di bassa lega, da poveracci, e che proprio per questo radiografano perfettamente, molto più della produzione seriale di libelli sulle caste, sui grandi evasori e sui conflitti di interesse, la malafede e la tabe di fondo della società italiana. Perché ci ricordano che esiste una complicità diffusa, una partecipazione di massa al trionfo dell’illegalità e dell’imbecillità, che si trincera ipocritamente dietro l’indignazione per gli scandali clamorosi (Onestà! Onestà!). Il bello, ma anche il rischio connesso a questi pezzi, è che riescono addirittura amaramente divertenti, e lo sono per sé, per gli argomenti trattati, senza che Giunta faccia alcuno sforzo per ingraziarsi il lettore. Il paragone potrebbe essere col Diario minimo di Umberto Eco, con la differenza che là Eco metteva in campo la tecnica già postmoderna dello spiazzamento interpretativo, facendo ricorso all’ironia e anche ad una certa gigioneria (vedi L’elogio di Franti), mentre Giunta si limita a fotografare la realtà.

Daniele Giglioli prende le mosse dalla stessa realtà impietosamente raccontata da Giunta, ma poi va oltre. L’incontro con Giglioli è recentissimo. Naturalmente non ricordo già più come l’ho scovato (a proposito di memoria!), forse è arrivato di sponda da qualche altra lettura: ma ciò che importa è che mi sono immediatamente riconosciuto.

Ho scoperto che un suo saggio critico, All’ordine del giorno è il terrore, aveva movimentato la superfice dello stagno culturale italiano già nel 2008 (è stato riedito quest’anno, con una lunga postfazione). In verità, movimentato è una parola grossa: diciamo che l’aveva leggermente increspata. Come docente di letterature comparate Giglioli andava a rintracciare nella letteratura del passato la continuità dell’uso politico del terrorismo, in tutte le sue manifestazioni, quelle ufficialmente riconosciute e rivendicate (anarchico, rivoluzionario, islamico, ecc…) e quelle mascherate (guerre umanitarie, ecc. …). Ciò che veramente gli premeva era però arrivare al nocciolo, al fatto cioè che l’immagine del terrorista risponde a un bisogno radicato in profondità nelle nostre coscienze: il bisogno di attribuire ad altri, percepiti come assolutamente diversi, le debolezze e il senso di impotenza che rifiutiamo di riconoscere in noi. In sostanza: di fronte alla crescente insignificanza dei singoli decretata dalla modernità, allo smarrimento e alla fragilità inerme dei quali sono in continua balia, cresce negli individui un rancore sordo, un desiderio represso di riscatto violento.

Quello che Giglioli trova nella letteratura, viaggiando da De Sade a DeLillo, via Schiller, Dickens, Dostoevskij, Conrad, Ballard e decine d’altri, compreso l’insospettabile Manzoni, noi possiamo molto più banalmente coglierlo nel tema dominante nel cinema attuale (ma prevalente da sempre, ad esempio, nel filone western): la vendetta. Alla faccia dell’esecrazione e della messa al bando ufficiale della giustizia fai da te, il grande schermo è popolato oggi come non mai di vicende in cui le vittime, gli umiliati e i perseguitati, rifiutano il ruolo passivo nel quale sarebbero obbligati e scavalcano leggi, ordinamenti e organismi che non garantiscono più, se mai l’hanno fatto, la loro difesa. A partire dai classici, cose tipo Il giustiziere della notte e Un borghese piccolo piccolo, le varianti della storia sono poi infinite. Pochi giorni fa sono passati in tivù nella stessa serata Harry Brown e Il buio dell’anima, dove a ribellarsi alla pavida passività sono un vecchio e una donna, che vendicano rispettivamente un amico e il proprio fidanzato. Nei colpi di pistola esplosi da due rappresentanti delle categorie più indifese si sublima il desiderio di milioni di individui che si sentono abbandonati, schiacciati nella loro solitudine tra l’indifferenza del potere e l’impunità dei carnefici. E anche se francamente non penso di soffrire di quella sindrome, confesso di aver atteso anch’io con un senso di esaltata liberazione il compimento della vendetta, di essermi identificato con le vittime, di aver non solo giustificato, ma invocato la loro reazione, e premuto il grilletto assieme a loro.

La differenza rispetto a quel che accadeva nei western della mia infanzia sta nel fatto che Shane, il cavaliere della Valle Solitaria, agiva in un contesto quasi mitologico, in una dimensione che anche un bambino percepiva come totalmente altra, ed era un pistolero, dal quale non ci si poteva attendere altro che coraggio, precisione e velocità nell’estrarre, mentre Harry Brown è un pensionato con l’asma, e vive (e muore) in un mondo che avverto sempre più prossimo, nel tempo e nello spazio. Asma a parte, potrei benissimo essere io, e Jodie Foster potrebbe essere qualsiasi donna. Shane era la mano armata di un ideale di giustizia, rozza e sbrigativa quanto si vuole, ma superiore, impersonale: era legittimato da una speciale integrità etica, che gli imponeva di mettere la sua abilità al servizio dei deboli, e sparava, quando tirato per i capelli, per sgombrare la strada al futuro, assicurando a ciascuno pari opportunità. E uscendo poi di scena, una volta ristabiliti gli equilibri violati. Gli eroi di oggi reagiscono e uccidono proprio perché in quell’ideale non credono più, per rispondere a personalissime offese e chiudere i conti con le cicatrici del passato. E sulla scena tendono a restarci.

Dopo aver letto il libro di Giglioli sono andato a cercare sul web traccia delle recensioni che gli erano state dedicate. Non si può dire che i critici si siano sprecati (e questo almeno in parte spiega perché non l’abbia conosciuto prima), ma soprattutto non hanno affatto compreso qual era il vero assunto dell’autore. Anche quando gli tributano lodi per l’intelligenza e per il coraggio, gli rimproverano poi di non aver fatto i dovuti distinguo tra un terrorismo in qualche modo giustificato e uno insensato: che significa riportare un discorso che ha una dimensione “antropologica” al livello più superficiale della contingenza storica. A Giglioli non interessava affatto indagare o denunciare le diverse facce del fenomeno, ma rintracciarne la radice, che è unica, nella risposta a una condizione esistenziale.

Se questa volontà non fosse stata già chiara, Giglioli l’ha ribadita ed esplicitata in maniera inequivocabile qualche anno dopo in Critica della vittima (2014), un saggio più breve, quasi un pamphlet, col quale affonda il coltello nella piaga senza usare anestetici. L’ho letto ripetendomi ad ogni pagina: Eccolo lì, vedi che allora non sono un menagramo lagnoso e inacidito.

Faccio prima, anziché raccontarlo, a far parlare Giglioli stesso. “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. … nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa … la vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi.” E di conseguenza: “… chi sta con la vittima non sbaglia mai.” Che parrebbe lapalissiano, ma non lo è. Perché: “La mitologia della vittima trova la sua ragion d’essere nel venir meno di una credibile, positiva idea di bene”. Ergo, con l’idea di una trionfante iniquità che “eleva a martire chi è stato colpito, o lo desidererebbe, o lo pretende per legittimare il suo stato. Col corredo di affetti inevitabili: risentimento, invidia, paura.” Il tutto riassumibile in una citazione da Christopher Lasch: “È proprio questa la ferita più profonda inferta dalla vittimizzazione: si finisce per affrontare la vita non come soggetti etici attivi, ma solo come vittime passive, e la protesta politica degenera in un piagnucolio di autocommiserazione” (da L’Io minimo, del 1984, ma uscito in Italia solo nel 2004: giusto in tempo comunque per fotografare la situazione attuale).

Giglioli analizza puntualmente tutti i sintomi del fenomeno. Parte dalla sovrapposizione della memoria alla storia, anzi, dalla rimozione in blocco di quest’ultima a favore della prima. “La memoria configura un rapporto con il passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato. Isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti.” Denuncia le ambiguità di fondo del credo umanitario, che “è una una tecnica, un insieme di dispositivi che disciplinano il trattamento delle parole, delle immagini, delle reazioni emotive ingiunte agli spettatori: estetizzazione kitsch, sensazionalismo riduttivo, naturalizzazione vittimaria di intere popolazioni.” E che riserva al clemente, al misericordioso il ruolo di “testimone legittimo”, accreditato a parlare in nome delle vittime. Le quali “sono private di ogni soggettività, di ogni diritto che non sia quello al soccorso”.

Procede quindi, in una concatenazione perfettamente logica, dalla colpevolizzazione della modernità, del novecento, della cultura occidentale in genere e della prassi politica che ha espresso, per approdare alla paura che come un gas nervino viene diffusa nell’immaginario sociale e paradossalmente si autoalimenta, in quanto assunta come arma difensiva, come strumento immunitario. Una paura che crea risentimento e appunto identificazione, e partorisce da un lato la necessità di “individuare un ostacolo, un estraneo da espellere, un nemico di cui dichiararsi vittime”, dall’altro l’emergere di leader che di questo atteggiamento si fanno interpreti, riassumono in sé la condizione di vittime, e la usano per legittimare una loro assoluta insindacabilità. Sono i meccanismi di fondo del populismo. Il quale viaggia e prospera soprattutto nell’universo del web, che è “il paradiso immaginario della soggettività irrelata, incontrollata, senza filtri apparenti”, mentre in realtà rimane sotto il ferreo controllo dei grandi gestori. Un paradiso nel quale allo spirito critico genuino è negato in realtà ogni accesso, dove impera la rissosità e dove ogni contradditorio è subito virato in persecuzione. Non penso sia difficile riconoscere trame e interpreti del melodramma tragico cui stiamo assistendo.

E mi fermo qui, alla primissima parte del saggio: ma credo che basti. Non voglio guastare il piacere (insomma) di scoprire il resto ad eventuali lettori. Direi che comunque è sufficiente a spiegare perché del libro non avevo sentito parlare prima.

Non ho invece ancora letto “Stato di minorità”. Dalle poche righe della presentazione arguisco che sia un tentativo di passare alla pars construens. “Mi sono accorto che la domanda attorno a cui ruotavo era sempre la stessa: quali sintomi si manifestano in una società in cui l’agire politico è sentito come qualcosa di impossibile, non perché proibito, ma perché ineffettuale, senza esito, svuotato di ogni concretezza … L’obbiettivo di questo saggio non è tanto la constatazione quanto l’elaborazione di un lutto. Elaborare un lutto comporta attraversarlo e superarlo”. Sono curioso di verificare come, e andando verso dove.

Un po’ defilato, e comunque in linea con i due incontri precedenti, ce n’è un terzo, quello con Sergio Benvenuto. Benvenuto non appartiene alla generazione di mezzo, ha esattamente la mia età ed evidentemente abbiamo parecchie altre cose in comune, visto che ha visitato anche lui in occasione dei settant’anni, proprio durante l’ultima estate, per la prima volta l’Islanda (e ne ha scritto un bellissimo reportage). Non ho letto libri suoi perché è uno psicanalista, e della psicanalisi non mi importa granché, ma ho raccolto in uno dei miei preziosi libricini gli articoli postati negli ultimi tre anni su DoppioZero, trovandoci una notevole consonanza. Intanto Benvenuto, a dispetto della sua formazione e della sua professione, usa un linguaggio decisamente semplice (che non significa povero): vale a dire che parla e argomenta in maniera tale che persino un idiota potrebbe capirlo (non fosse che gli idioti di norma non leggono, e non comunque quelle cose). Quanto ai contenuti, potrebbe sembrare appiattito sulla linea di una “sinistra del buon senso”, ma dal momento che il buon senso ha in questo momento con la sinistra un rapporto molto conflittuale, non è affatto un megafono dell’establishment. Rischia anzi di sembrare un eretico: che parli di anti-politica, di leggende metropolitane, della “straordinaria affermazione di Renzi nel referendum del 4 dicembre”, non è mai in linea con gli umori prevalenti. E infine, per quanto mi riguarda più personalmente, è la dimostrazione che a dispetto delle differenti situazioni di partenza (ha studiato a Parigi, ha vissuto un Sessantotto da protagonista, o quasi – tutti indizi di una condizione ben diversa dalla mia) l’approdo, per chi appunto del buon senso fa la propria bussola, è poi lo stesso.

Nota a margine. Questi incontri mi hanno rievocato, per un processo analogico che non sto qui a spiegare, sensazioni provate molti anni fa leggendo l’opera forse meno conosciuta di Luigi Meneghello, “Il dispatrio”. Che sono andato quindi puntualmente a rileggere. È stata una rilettura molto condizionata, perché ho cercato soprattutto quello che Meneghello non diceva, ma balzava già fuori con evidenza dal confronto implicito con la realtà inglese. E anche una rilettura tonificante, perché mi ha indotto a risfogliare Pomo Pero e i Fiori italiani, con benefici effetti sul morale.

Forse mi sono dilungato troppo sulle new entry della mia personale classifica: c’è altro di cui vale la pena parlare, anche se il legame con l’attualità è molto più sottile, o addirittura quasi invisibile. La prima parte dell’estate l’ho dedicata al recupero di testi, notizie, memorie archiviate nel cassetto, relativi ad un argomento che potrebbe sembrare un po’ peregrino, oltre che inattuale (ma non lo è). Da qualche tempo mi frulla in testa questo interrogativo: perché gli anarchici amano la geografia, e i socialisti, o meglio, i marxisti, prediligono la storia? In effetti i due pensatori anarchici più significativi dell’800 (almeno per me), Piotr Kropotkin e Élisée Reclus, erano entrambi geografi – ma ce ne sono altri. Ho cercato di darmi una risposta, che contavo di sviluppare, e della quale comunque posso già anticipare la tesi di fondo: gli anarchici prendono in considerazione innanzitutto il rapporto dell’uomo con la natura, quindi con lo spazio, mentre i comunisti considerano solo quello tra gli uomini, che ha come teatro il tempo. Non a caso Marx riteneva che con le prime grandi civiltà, e quindi con la prima organizzazione dello sfruttamento, si fosse conclusa la storia naturale, per lasciare il posto a quella culturale (o sociale).

Stanti i miei umori attuali temo che questa riflessione abbia poche probabilità di essere un giorno debitamente argomentata: ma ho scoperto, sempre durante l’estate, che almeno una parte del lavoro, quella riguardante il rapporto degli anarchici con la geografia, è già stata fatta. Ne Il mondo senza la mappa. Élisée Reclus e i geografi anarchici Federico Ferretti si occupa non solo del grande geografo francese ma anche del suo collaboratore Metchnikoff e del cartografo Perron, oltre naturalmente che di Kropotkin. Viene fuori che gli anarco-geografi diffidavano assolutamente della cartografia piana, che schiaccia la realtà riducendo tutto a segni e simboli e linee, funzionali solo a una lettura politica, mentre propugnavano l’uso didattico di modelli tridimensionali che offrissero in scala un rilievo realistico della crosta terrestre, con la sua orografia e i suoi bacini idrografici. (In pratica quei plastici – ma allora erano di gesso o di cartapesta – che fino a qualche tempo fa prendevano polvere negli armadi delle aule di scienze). In questo modo, pensava Reclus, è possibile davvero trasmettere l’idea che fiumi e catene montuose non sono degli ostacoli, non segnano dei confini tra gli uomini ma, al contrario, li mettono in comunicazione, agevolano i loro incontri. Aveva persino progettato un enorme globo, di quasi centotrenta metri di diametro, in vista della Esposizione universale di Parigi (quella della Tour Eiffel), sul quale avrebbe dovuto essere riprodotta l’intera superfice terrestre, dentro il quale doveva essere ospitata una biblioteca e attorno e sopra il quale i visitatori avrebbero girato con un complesso sistema di scale. Naturalmente non se ne fece nulla (ne fu esposto uno di quaranta metri che Reclus giudicava malfatto e assolutamente impreciso). Rimane solo il frammento di rilievo che il suo cartografo Perron realizzò del territorio svizzero, tendo conto della curvatura terrestre. Preso dall’entusiasmo Perron adottò la scala 1:400.000, il che avrebbe comportato, per rilevare la superfice di tutto il globo, costruire una sfera di 400 metri di diametro: e tuttavia su quella sfera ideale il Cervino è un grumo di gesso a punta che non raggiunge i cinque centimetri di altezza.

Sono queste le cose che mi scaldano il cuore, o quantomeno mi spronano a continuare nella ricerca del materiale “preparatorio”. Così, sul pensiero di Reclus ho letto ad esempio Natura ed educazione, una silloge di interventi che ne scandagliano un po’ tutti gli interessi, quello geografico in primis. Le opere più significative del geografo francese non sono più state edite in Italia dalla fine dell’800, ma si può rimediare scaricandole da Liberliber (certo, il primo dei diciannove volumi della Nuova Geografia Universale consta di ottocento pagine più le cartine fuori testo, mentre per L’uomo e la Terra i volumi sono soltanto sei … ). Per il momento mi sono accontentato di ciò che era alla portata della mia stampante, la Storia di un ruscello e la Storia di una montagna: libri persino ingenui nella loro aspirazione a fare una divulgazione scientifica non noiosa, ma che restituiscono senz’altro l’immagine di uno scienziato e di un uomo incredibilmente libero e buono.

A questo punto però il percorso si è complicato e ha imboccato un nuovo sentiero. Mentre ripercorrevo velocemente la storia del pensiero anarchico ho cominciato a chiedermi come mai tanti filosofi e rivoluzionari ebrei abbiano optato per l’anarchismo anziché per il comunismo. In fondo gli ebrei sono per antonomasia il popolo del tempo, la loro adesione a un approccio storicistico parrebbe scontata. Invece, cercando una risposta ne L’anarchico e l’ebreo (una raccolta di saggi a cura di Amedeo Bertolo), ho preso atto che la mia concezione dell’anarchismo è consonante solo col filone meno conosciuto, quello popolato appunto dai pensatori ebrei. Qui forse vale la pena di spiegarmi meglio, perché in definitiva il discorso va a sfociare direttamente non solo in quanto ho detto sopra a proposito di Giunta, Giglioli e Benvenuto, ma in tutto ciò in cui ho continuato a credere e di cui sto scrivendo da quasi sessant’anni. Farò quindi un breve abstract di qualcosa che da troppo tempo mi propongo di riconsiderare con calma

Semplificando al massimo, si possono identificare due modelli di anarchismo, molto diversi, quasi antitetici, che partono da differenti premesse e approdano a prassi diversissime. Da un lato c’è il modello insurrezionalista incarnato da Bakunin, che sfocia poi nel terrorismo bombarolo di fine ottocento, e che è perfettamente riassunto nel motto “La passione per la distruzione è anche una passione creativa” . Il secondo aspetto della passione Bakunin non ebbe mai modo di sperimentarlo.

Dall’altro c’è una concezione che potremmo definire “gradualista”, più individualistica, che procede per una linea piuttosto tortuosa e difficile da identificare, partendo da Max Stirner per arrivare sino a Berneri. Il motto potrebbe essere in questo caso quello di Reclus, “L’anarchia è la più alta espressione dell’ordine” (dove l’ordine è quello che nasce dall’assunzione di responsabilità degli individui, e non quello imposto dal potere di uno stato): ma anche quello di Landauer “La scoperta (da intendere come “coscienza piena”) di essere costretto in condizioni indegne costituisce il primo passo per la liberazione da queste condizioni”. Su questa linea si collocano in prevalenza i pensatori ebrei, da Landauer appunto fino a Mühsam e a Benjamin.

Dove sta lo specifico ebraico che li porta a immaginare e praticare un anarchismo ben lontano da quella che ne è l’immagine diffusa e accreditata? A mio parere sta nel rifiuto, o perlomeno nella lettura critica, di una concezione millenaristica che molto deve alla radice cristiana, dell’aspettativa soteriologica di una apocalisse che faccia piazza pulita dell’ingiustizia e della malvagità e prepari il terreno ad un mondo nuovo. Può sembrare un paradosso, perché proprio all’ebraismo si tende ad attribuire la paternità del millenarismo. Invece le cose non stanno così. Gli ebrei sono convinti che la salvezza dipenda innanzitutto da una trasformazione individuale, non demandata ad una forza superiore, sia essa Dio o il popolo. Sono più interessati alla fase costruttiva che a quella distruttiva, e questo perché la seconda sembra lontana a venire, mentre la prima può cominciare ad essere attuata nell’intimità del singolo, nella cerchia ristretta delle sue relazioni con gli altri.

Il modello anti-insurrezionalista era già presente sia in Reclus che in Kropotkin, con la differenza che in essi (che infatti ebrei non erano) c’è al fondo un ottimismo “spontaneista” di matrice positivistica, una interpretazione solidaristica dell’evoluzionismo, (quello che Berneri chiamava “l’anarchismo dagli occhiali rosa”). Come a dire che anche se non sarà un Dio a portare la giustizia e l’armonia in questo mondo, e magari neanche un movimento o un partito progressista, provvederà la natura stessa: quasi un naturalismo deterministico.

C’è invece chi rifiuta di demandare la trasformazione ad un “attore esterno”, sia esso un’entità superiore come la Provvidenza, lo Spirito Assoluto o la Natura, o un ideale, nelle vesti di Ragione, Libertà, Progresso, Spirito assoluto, o una entità impersonale, come il popolo o le classi sociali, e fa degli uomini, intesi come singoli che si associano e cooperano volontariamente, i soggetti attivi della storia.

Questa è la sostanza del pensiero di Gustav Landauer. E proprio a lui sono approdato. Landauer non è molto conosciuto, neppure nella ristrettissima cerchia di coloro che ancora si interessano alla storia e al pensiero politico. Delle sue opere è stata tradotta in italiano, a un secolo dalla comparsa, soltanto La rivoluzione: io stesso lo ricordavo sino a ieri solo per quello che ne aveva scritto il suo amico Martin Buber in Sentieri in Utopia (anche questo rimasto però per anni introvabile). Ora il vuoto è almeno in parte colmato da un poderoso saggio biografico di Gianfranco Ragogna, Gustav Landauer anarchico ebreo tedesco. Al di là del valore intrinseco dell’opera, che sta tanto nella ricchezza dell’informazione che nella profondità dell’analisi, questa lettura mi ha stimolato a cercare in rete tutto ciò che poteva essere rintracciabile. Ho trovato ben poco, praticamente solo il breve saggio Per una storia della parola anarchia. Ma anche quel poco è estremamente interessante.

Landauer è lontano anni luce dall’idea di una rivolta distruttrice di massa, quella propugnata da Bakunin, ma anche dalla fede “deterministica” del materialismo storico. Ha una concezione etica del mutamento, che chiama in causa i singoli individui e li mette di fronte alla loro responsabilità. Il sistema può essere combattuto qui e ora, e da ciascuno, senza attendere gli sviluppi “dialettici”, economici o politici, postulati dal marxismo. Si può già costruire una “controsocietà” fuoruscendo dal sistema esistente e recuperando un rapporto con la terra e la natura che modelli il legame sociale su basi solidaristiche e comunitarie. In altre parole, cominciamo noi, come singoli, a creare degli exempla di vita buona, a vivere “come se” la trasformazione fosse già attuata: questo ci darà modo di condividere con altri ragioni di vita, obiettivi concreti, aspettative, utopie, che non debbono essere il risultato della “rivoluzione”, ma costituirne le premesse. Siamo come uomini primitivi di fronte all’indescritto e indescrivibile, non abbiamo niente davanti a noi, ma tutto solo dentro di noi: dentro di noi la realtà ovvero la forza non dell’umanità a venire, bensì dell’umanità già esistita e per questo in noi vivente e consistente, in noi l’operare, in noi il dovere che non ci travia, che ci conduce sul nostro sentiero, in noi l’idea di ciò che deve diventare realtà compiuta, in noi la necessità di uscire da sofferenza e umiliazione, in noi la giustizia che non lascia nel dubbio o nell’incertezza, in noi la dignità che esige reciprocità, in noi la razionalità che riconosce l’interesse altrui. In coloro che provano questi sentimenti nasce dalla più grande sofferenza la più grande temerarietà; coloro che vogliono tentare, malgrado tutto, un’opera di rinnovamento, orbene, si devono unire.”

Non è un sognatore, perso nelle nuvole. È anzi assai più realista di coloro che si attendono la liberazione dall’azione di “soggetti sociali collettivi”, o cercano di anticiparla con la “violenza libertaria”, gettando bombe o sparando ai simboli del potere. Per lui “ogni violenza è o dispotismo o autorità”. Il suo è, come scrive Ragogna, un modo d’essere insieme politico e impolitico. Impolitico, per un verso, perché era sulle relazioni tra gli uomini in tutti gli aspetti della vita che Landauer puntava per inaugurare un’epoca del tutto nuova: una vera e propria mutazione antropologica. Etico-politico, per un altro verso, perché egli continuava a credere in forme forti di azione collettiva, collocate al di fuori della sfera d’influenza dello Stato ma orientate a un fine dai contenuti spiccatamente universalisti: l’uguaglianza, la pace e, in esse e grazie a esse, la libertà.”

Ma la libertà è un concetto vago, che diventa addirittura pericoloso quando può essere manipolato dal potere stesso. Mi ha colpito, in mezzo alle tante altre, una considerazione: “Mi chiedo se siamo sicuri di essere in grado di sopportare tutto quello che adesso comincia a imperversare al posto dello spirito mancante, fra istituzioni coercitive che lo sostituiscono, se saremo capaci di sopportare la libertà senza lo spirito, la libertà dei sensi, la libertà del piacere scevro da responsabilità”. La libertà incondizionata non può che portare all’individualismo atomistico, e mette i singoli individui alla mercé del pensiero dominante e di chi lo controlla. Landauer ha fotografato il nostro tempo, la nostra società, con un secolo d’anticipo.

Nella storia del pensiero anarchico novecentesco solo Berneri è a questi livelli, e di Berneri ho già parlato diffusamente altrove. Segnalo soltanto che in Anarchismo e politica nel problemismo e nella critica dell’anarchismo Stefano d’Errico ne ha fatta una rilettura magari non sempre condivisibile, ma senza dubbio intelligente. E soprattutto, molto chiara e articolata. (Può essere la buona occasione per un primo approccio a questa figura tanto eccezionale quanto misconosciuta, in alternativa alla minibiografia che io stesso ne ho sbozzato nel volumetto Lo zio Micotto e le cattive compagnie).

Mi sembra però anche giusto sottolineare come paradossalmente gli anarchici “razionali”, quelli che diffidavano delle soluzioni insurrezionali e rifiutavano la scelta terroristica, siano poi quelli che, al bisogno, hanno combattuto in prima fila, e hanno pagato con la vita la difesa di idee e di scelte che magari nemmeno condividevano appieno. È accaduto a Landauer a Berlino e a Berneri in Spagna (quest’ultimo assassinato proprio da chi la rivoluzione avrebbe dovuto difenderla). I grandi agitatori rivoluzionari, da Bakunin stesso a Lenin, sono morti al contrario tutti nel proprio letto .

La linea gradualista, che i duri e puri bollano come “revisionista”, è indubbiamente la meno conosciuta. Se si chiede (io l’ho fatto) a qualche animatore dei tanti circoli anarco-insurrezionalisti, anarco-rivoluzionari, anarco-ecologisti, quelli che fanno cagnara appena fiutano odor di telecamera, chi fossero Berneri o Landauer o Reclus, per non parlare di Benjamin, si ottengono risposte desolanti. Ma non mi scandalizza l’ignoranza in sé, quella la do per scontata, in fondo è proprio la sua persistenza a inverare il “gradualismo” revisionista, a obbligarmi ad avere in sospetto le masse rivoluzionarie inferocite e chi le guida: mi irrita invece il fatto che essa fa gioco al potere, perché gli consente di liquidare in blocco l’anarchismo come un movimento di sballati, se non addirittura di terroristi. E mi irrita anche perché non è affatto innocente, è solo comoda: consente di mettersi al traino di un’idea di rivoluzione che non ti chiede di responsabilizzarti individualmente, ma ti offre dei “responsabili” sui quali scaricare la tua rabbia e le tue frustrazioni.

A riprova del fatto che si è trattato di un’estate di immersioni totali, non solo nelle acque della Lavagnina, c’è un altro libro legato all’ebraismo, L’esilio della parola, di André Neher. Il legame in questo caso è diretto, perché l’autore si interroga sui diversi significati del silenzio, quello di Dio e quello degli uomini, nella Bibbia, desumendo da una lettura filologicamente serratissima una interpretazione molto originale della spiritualità ebraica. Anche in questo caso è meglio lasciare direttamente a lui la parola: “La lettura ebraica della Bibbia in piena logica della Genesi scopre l’illogico. Nel ritmo regolare dell’insieme scopre delle irregolarità sorprendenti. Alla concezione (greca) di un universo creato nella sua totalità, con tutti i suoi elementi, sostituisce la visione di un mondo in cui ci sono lacune, vuoti, e inversamente supplementi e aggiunte. Infine, è sensibile al fatto che alcune creature, lungi dal piegarsi alla Parola divina, le oppongono resistenza, si mostrano indocili e provocano così rivolte, accidenti, drammi. Osa penetrare nel mondo per scoprire, con stupore, ma senza compiacimento, che tale opera non è stata affatto meditata né realizzata secondo un piano prestabilito, ma che, al contrario, essa è scaturita da un’impreparazione radicale, e ha conservato lungo tutta la sua esecuzione i caratteri a volta deludenti o stimolanti di una improvvisazione”. Questo significa, secondo Neher, che non c’è una provvidenza divina a regolare il mondo. Dio tace, davanti alle invocazioni affinché metta un po’ d’ordine, per lasciare all’uomo uno spazio di libertà, perché l’uomo impari a rispondere con parole proprie, perché sia indotto a cooperare al completamento o al miglioramento dell’opera. Dio si ritira, dicevano i cabalisti, per lasciar sussistere il mondo. Ma “creando libero l’uomo, Dio ha introdotto nell’universo un fattore radicale di incertezza … l’uomo libero è l’improvvisazione fatta carne e storia … che mette in pericolo il piano divino nel suo insieme”. E il rischio nasce quando Dio dice, nel primo capitolo della Genesi, “facciamo l’uomo”, perché con quel plurale proprio all’uomo si rivolge. “Facciamo l’uomo insieme – tu, uomo e io, Dio – e questa alleanza fonda per sempre la libertà dell’uomo, di cui essa ha fatto per sempre il partner di Dio. Pertanto, le fasi successive e drammatiche della storia sono altrettanti ‘momenti di apprendistato’ della libertà. Tutto si svolge come se Dio tentasse l’uomo, obbligandolo a temprare la sua libertà.” È dunque una libertà tragica, se si vuole, ma è l’unica vera e possibile. Apre all’uomo un campo d’azione infinito, e lo carica della responsabilità di agire.

Come si può immaginare è un libro complesso, che parrebbe richiedere una concentrazione difficilmente conciliabile con le atmosfere dell’estate: in realtà mi ha preso e affascinato come un romanzo, e mi ha fatto rimpiangere di non aver frequentato l’università a Strasburgo, dove Neher insegnava e dove alla fine degli anni sessanta deve essersi creata una eccezionale concentrazione di cervelli (erano in fuga da Parigi, dove imperversava invece Cohn Bendit – altro ebreo, altro anarchico, poi eletto però per ben quattro volte parlamentare europeo). Mi ha anche indotto a riprendere in mano Linguaggio e silenzio di George Steiner, per avere conferma che parla d’altro ma dice in fondo le stesse cose.

Non soltanto. Mentre leggevo il saggio di Neher mi sono ricordato di un piccolo saggio che da tempo giaceva sepolto nel settore “ebraismo” della mia libreria, L’odio di sé ebraico, di Theodor Lessing. Ero quasi certo di averlo già letto, ma ho poi realizzato che lo confondevo con un altro scritto dal titolo quasi identico, Ebraismo e odio di sé (si tratta in realtà di un capitolo estrapolato da Sesso e Carattere di Otto Weininger), ma di ben più modesta levatura. Quello di Lessing è un classico della storia dell’antisemitismo (nella fattispecie, di quella particolare forma di antisemitismo espressa dagli stessi ebrei), anche se si tratta di un opuscoletto smilzo, un centinaio pagine di piccolo formato e stampate a caratteri grandi. La lettura mi ha preso poco più di un’ora, ma ci sono tornato su più volte nei giorni successivi: anche in questo caso si imponeva immediato il confronto con l’interpretazione del fenomeno che Steiner da ne La barbarie dell’ignoranza e in Nel castello di Barbablù.

Lessing può essere letto in continuità con Neher (anche se scrive quarant’anni prima), nel senso che va già oltre il tema della responsabilità, e legge la singolarità, e il dramma, del popolo ebraico nei termini del senso di colpa. Quando si chiede il perché dell’odio che ha accompagnato gli ebrei nel corso di tutta la loro vicenda si dà una spiegazione non storica, ma religioso-filosofica: “Gli eventi della storia umana … sarebbero insopportabili se l’uomo non potesse introdurre un senso in tutti questi ciechi avvenimenti. Non gli è affatto sufficiente scoprire fondato casualmente tutto l’accadere, lo vuole piuttosto scoprire fondato con pienezza di senso … Questo rendere pienamente sensato anche tutto il patire insensato può però risultare da due vie. O addossando all’altro la colpa, o cercando quest’ultima in se stessi. Ora, una delle più certe conoscenze della psicologia dei popoli è che il popolo ebraico è il primo, anzi, l’unico tra tutti i popoli a cercare solo in se stesso la colpa dell’accadere mondiale.”

Questa colpa collettiva deriva “dal frantumarsi di una totalità originaria, di uomo e mondo. La rottura di questa totalità è operata dallo ‘spirito’ e avviene per ragioni interne al suo stesso costituirsi: esso si realizza spingendo la ‘vita’ a rovesciarsi contro se stessa, in quanto ‘sapere’, a mortificare la vita… Una scissione può essere data solo nello stato di ‘veglia”, ovvero nel momento in cui si comincia a riflettere e a separare l’esperienza dalla riflessione sull’esperienza. Quando cioè si comincia a pensare. “Tutto il pensare presuppone il due e la dualità”. E quando si comincia a pensare ci si avvia a sostituire l’immediatezza della vita con il sapere attorno al vivente.

In altre parole: gli Ebrei sono colpevoli perché hanno spinto più innanzi di qualunque altro popolo o civiltà l’autocoscienza. Lo hanno fatto per una forma di autodifesa, in quanto eterna minoranza. Il loro “è un caso speciale del destino generale di ogni creatura oppressa, bisognosa, ritagliata dall’elemento vitale… Dovunque la minoranza deve badare a non scoprire nessun punto debole. Essa vive sospettosa, attenta e sotto il controllo della sua coscienza critica. Per essa “il pericolo consiste nel perdere la propria immediatezza e nell’entrare sotto una sorveglianza attenta. A ciò è però connessa una inclinazione all’ironia. Qualcosa di diffidente. Uno stare a lato. Una impercettibile sfiducia in se stessi.” Insomma, per autodifesa gli ebrei sviluppano uno spirito critico che mina definitivamente il loro legame empatico con la vita immediata. E contagiano con tale spirito il resto dell’umanità. Questa la loro colpa. Che, espressa in termini molto più confusi e da punti di vista opposti, è esattamente quella imputata loro da sempre dagli antisemiti.

Non è ancora finita. Ebreo è anche Bruno Bettheleim, del quale ho letto Sopravvissuti (solo la prima parte, quella sui campi di sterminio). Bettheleim sta tra quegli autori che hanno conosciuto davvero il terrore, anzi, l’orrore, prodotto dall’odio antiebraico del quale Lessing tentava di dare una spiegazione, e hanno poi sentito l’urgenza di testimoniarlo (constatando amaramente quanto questo orrore fosse incomunicabile, indescrivibile). Ma a differenza di altri tenta di spiegarlo sottraendolo alla sua unicità, alla sua storicità, e impiegando categorie interpretative più generali (alcune accostabili a quelle di Lessing). L’impressione è che usi gli strumenti del suo mestiere (era uno psicanalista, come Benvenuto) per creare una distanza “scientifica”, il che è normale e corretto, ma che ecceda poi nel “raffreddare” e neutralizzare sotto il microscopio le cicatrici della sua personale esperienza. Non mi ha particolarmente impressionato, né del tutto convinto: ora, in attesa di essere ripreso, sta nello scaffale assieme a Primo Levi, a Robert Antelme, a Jean Amery, ma anche assieme a Solgenitzin, a Salamov e a Gustav Hering.

Di quest’ultimo ho portato invece a termine la rilettura di Un mondo a parte: gliela dovevo, perché quarant’anni fa lo avevo frettolosamente rubricato nella memorialistica concentrazionaria. Invece è un gran libro, anche sotto l’aspetto letterario, e sul tema delle vittime, dei rapporti tra loro e con i carnefici, ha molto da insegnare.

Gli ebrei compaiono infine, sia pure nell’ombra, anche ne “La politica e i maghi“, del solito Giorgio Galli (dico il solito perché ha già scritto sulle stesse tematiche “Occidente misterioso” e “Hitler e il nazismo magico“: tutt’altro che paccottiglia, al di là di quel che i titoli potrebbero far pensare). Galli dà molto credito all’influenza che sarebbe stata esercitata sulla politica moderna (parte da Richelieu e dai Rosacroce) da sette iniziatiche e da personaggi ambigui e a volte insospettabili. A volerlo seguire, anche se non si sbilancia mai in interpretazioni esplicite e disegna tutti i passaggi e collegamenti in maniera apparentemente “neutra”, in una forma documentaria e oggettiva, si arriva a ipotizzare una rete estesa su tutta l’Europa e anche oltreoceano (Reagan, e sin qui è anche credibile, Clinton, un po’ meno): una rete che dai tempi di Elisabetta I si tende sino a Churchill, da Marx alla Russia di Bresnev, da Goethe ad Heisemberg .

Non sto a dire la mia opinione in proposito: è tuttavia indubbio che dal Cinquecento ad oggi c’è stata una continuità nel proliferare di società iniziatiche e sapienziali. Per come la vedo io, ciò è avvenuto in risposta al bisogno congenito degli uomini di presumere una possibilità di controllo o di dominio totale sulle cose e sui fatti, o al desiderio di appartenere comunque alla cerchia ristretta di coloro che questo potere lo deterrebbero. Non c’è necessità di alcuna trasmissione sapienziale diretta, di riti particolari di affiliazione: gli uomini sono sempre pronti ad affidarsi all’irrazionale, quando la ragione non dà loro le risposte che vorrebbero. E hanno necessità di credere che se è stato così da sempre, ciò non sia frutto dei loro limiti cognitivi, ma dell’esistenza di un velo che solo una speciale iniziazione può squarciare.

Sono arrivato in fondo al libro con una certa fatica, per via di una forma spesso approssimativa e di numerose ripetizioni, forse evitabili. Ero comunque incuriosito dai risvolti segreti di personaggi e vicende che davo per scontati e dei quali conoscevo invece solo una faccia o una versione.

Ho notato però la strana assenza, in questo festival della bizzarria, di Adam Weishaupt, il fondatore degli Illuminati di Baviera. Alla setta bavarese Galli dedica solo una brevissima nota, forse perché la magia ha nella vicenda una parte molto marginale. È invece esauriente ed eccezionalmente documentata in proposito la Storia segreta. Adam Weishaupt e gli Illuminati, di Mario Arturo Jannaccone.

Nel mio personalissimo arrangiamento della teoria dei sei gradi di separazione (che è affascinante ma fasulla), ogni libro può essere collegato a qualunque altro attraverso una catena di relazioni. In questo caso la relazione col libro di Galli sarebbe addirittura di primo grado, ma non sono arrivato a Jannaccone per suo tramite. Confesso di aver preso il volume perché l’ho trovato ad un euro, ma poi l’ho immediatamente letto, prima ancora di quello di Galli, perché rispondeva a un interesse che dura da moltissimo tempo.

La mia passione per le sette e le associazioni segrete è infatti precocissima, si perde nella notte dell’infanzia. È probabilmente legata a un particolare senso dell’amicizia. Sin da bambino ho concepito quest’ultima come un legame più forte di qualsiasi parentela. Mi sono anche chiesto se a muovermi fosse un’idea di possesso esclusivo, ma posso onestamente dire che non è così, perché mi piaceva allargare costantemente le mie amicizie e non ne sono mai stato geloso. Al contrario, era piuttosto un costante desiderio di vedere tutti vivere in una armoniosa e costruttiva concordia. Una sindrome da dio insoddisfatto di come gli è venuta la creazione, che cerca di mettere ordine. Questa disposizione all’apertura ha fatto paradossalmente di me anche un intollerante: in linea di principio sono sempre stato convinto che tutti meritassero la mia amicizia, e felice di ottenere la loro: ma di fatto, per guadagnarla certi requisiti mi sono sempre sembrati imprescindibili: in assenza di questi, scatta pesante l’esclusione.

Torniamo però alle società segrete. Queste parrebbero andare in direzione contraria, giocare appunto sull’esclusivismo. Io le interpretavo piuttosto non come una istituzionalizzazione, una ufficializzazione del legame amicale, ma come un rafforzamento. Un modo per cementare il sodalizio attraverso la condivisione di un particolare rituale e di conoscenze riservate. So che potrebbe somigliare sinistramente al matrimonio, ma non è così. Mi importava l’identificazione forte in un gruppo, prima ancora che in una idea, perché sono convinto che le idee debbano essere molte, e consacrarsi ad una finisca per essere limitante, e davvero escludente. Il criterio è la piena fiducia nell’altro, come uomo, a prescindere da come la pensa. Una concezione balzachiana, e d’altro canto la Storia dei tredici è uno dei primi libri “adulti” che ho letto.

Perché il carattere ha la sua parte, ma a fare il resto sono le suggestioni letterarie. Le mie fonti erano innumerevoli. Trovavo società segrete, positive o negative, nei libri scolastici, ad esempio la carboneria: ma soprattutto nei fumetti di Gim Toro, con la Hong del Drago e le Triadi, nei libri di Salgari, con i Tughs, ne “I compagni di Jehù” di Dumas padre, in Balzac, appunto. Il modello originario era però quello de “I ragazzi della via Paal” (ancora oggi darei chissà cosa per ritrovare la vecchia edizione Salani-Biblioteca dei miei ragazzi, con le illustrazioni di Faorzi, per anni la mia Bibbia).

Dei ragazzi di Molnar gli Illuminati avevano in realtà ben poco. Il merito di Storia segreta è quello di raccontarne la vicenda senza nulla concedere a suggestioni misteriche. Il fondatore, Weishaupt, era nella vita quotidiana un modesto professore universitario che aveva ottenuto la cattedra per via di protezioni, quindi fortemente inviso a tutti colleghi e senza ulteriori prospettive di carriera. Ma la percezione che aveva di sé era ben diversa: si vedeva come un campione della lotta contro l’oscurantismo, perseguitato dai suoi avversari ma deciso a far trionfare i lumi della ragione, all’occorrenza servendosi anche di strumenti ben poco razionali. Creò dal nulla una società segreta, si inventò ascendenze nobili, come quella rosacrociana, mutuò rituali e simboli dalla massoneria, fece balenare agli affiliati la prospettiva di rivelazioni sapienziali risalenti addirittura agli egizi, riuscì ad infiltrare gli adepti nelle istituzioni. Ma al dunque la società segreta si rivelò un grande bluff, un castello di carte fondato sul nulla: non c’era un piano, non c’erano scopi precisi se non quello molto vago di una rivoluzione illuminata, non c’erano segreti sapienziali da rivelare, e in assenza di tutto questo gli affiliati erano mossi ognuno da intenti e da finalità diverse. Presto si crearono all’interno del gruppo delle fazioni, delle rivalità, e non appena le autorità ebbero sentore della sua esistenza e cominciarono a intervenire la setta si squagliò.

Il dato più interessante (e sconcertante) che emerge da questa vicenda è l’incredibile facilità con la quale tante persone, anche di discreto livello culturale, siano state pronte ad abboccare e a rischiare la reputazione, se non la pelle. L’altro dato è come la cospirazione abbia suscitato all’epoca un allarme del tutto spropositato rispetto alla sua totale inconsistenza, e come sia stata circonfusa in seguito da un alone di leggenda, andando ad infoltire il già vastissimo repertorio del complottismo. D’altro canto, è comprensibile che l’idea di una setta di “illuminati” che congiura per rendere più razionale e più ragionevole il mondo susciti interesse e simpatia. Vorremmo davvero tutti continuare a credere che qualche Illuminato è ancora tra noi. Anche contro ogni evidenza.

Non ho passato però tutto il mio tempo su testi “impegnati” o funzionali alle mie ricerche. In pomeriggi assolati trascorsi ai bordi della piscina di un amico, lontano dai bombardamenti musicali o pubblicitari e da marmocchi insopportabili con genitori a carico, immerso insomma in quello che i malevoli bollerebbero come un paradiso radical chic ed è invece semplicemente un’oasi di civismo, ho gustato Una vita da libraio, di Shaun Bythell. È il diario di un anno tenuto non da un agente segreto, da un navigatore solitario o da un politico di punta, ma da un semplice rivenditore di libri vecchi o antichi. Va da sé che non è un libro d’azione, che non ha una trama, e che in esso non solo non accadono eventi eccezionali, ma anzi, non accade proprio nulla, se non il ripetersi dei giorni. Eppure ogni giorno ha la sua nota diversa, e dopo un po’ arrivi a conoscere i clienti abituali, con le loro manie e pretese e stramberie, e ti aspetti di rivederli. Come Giunta, Bytell non ha bisogno di condire la realtà con una dose supplementare di ironia: gli è sufficiente raccontarla per tenerci di ottimo umore per oltre duecento pagine.

Non va sempre così, naturalmente. Penso di dover citare in coda anche le “non letture”, ovvero le letture tentate e interrotte. Una riguarda David Foster Wallace. Wallace non è una scoperta recente, perché già lo conoscevo, avevo letto alcuni suoi reportage e tenevo in casa da un pezzo un paio di libri suoi. Ho aperto, confesso senza troppa convinzione, Jnfinite Jest, che avevo accantonato per via della mole (sono milletrecento pagine), e ho trovato uno scrittore bravissimo ma adatto ai ventenni, a chi ha molto tempo davanti (e non sa come trascorrerlo). L’ho richiuso quasi subito. È andata un po’ meglio con Considera l’aragosta, del quale ho letto tre o quattro pezzi, riportandone comunque la stessa impressione: è bravo, ma non è più per me.

Un discorso analogo vale per William Volmann. Volmann mi era però assolutamente sconosciuto fino a un mese fa, sono arrivato a lui solo per aver raccolto un vago accenno ad un libro sulle missioni gesuitiche in Canada nel XVII secolo. Naturalmente l’ho cercato subito e ho scoperto un pazzo scatenato che ha scritto decine di migliaia di pagine sugli argomenti più strampalati. Venga il tuo regno fa parte di una serie di sette volumi, immagino della stessa mole (siamo poco oltre le cinquecento pagine, ma stampate in corpo otto o nove, un vero attentato alla vista), che ricostruiscono varie fasi della storia americana. Altri sette li ha scritti sul tema della violenza, colta in tutte le sue possibili e a volte più improbabili manifestazioni, e in almeno venti altri ha viaggiato tra l’ultima guerra mondiale, il mondo della prostituzione e il teatro Nö giapponese. Mi sono perso dopo trenta pagine.

Quasi quante ne ho scritte tra ieri e oggi (in compenso non ho letto nulla). Mi fermo qui. Non garantisco di non aver dimenticato qualcosa, anzi, sono sicuro del contrario, ma evidentemente si tratta di cose che hanno lasciato poco segno. D’altro canto, venti libri letti in una estate, sia pure di cinque mesi, possono già sembrare molti: ma a conti fatti sono meno di uno la settimana. In tutto questo periodo la pila dei volumi tenuti “in caldo” sul ripiano della scrivania non si è comunque affatto abbassata. Ne sono entrati più di quanti ne siano usciti. A occhio e croce c’è materiale per i prossimi venti anni. È una prospettiva magari un po’ ottimistica, ma i segni sono buoni. La sesta luna di questa estate infinita si è fatta proprio oggi. E oggi era una giornata stupenda.

Libri letti, in ordine di apparizione

Claudio Giunta – L’assedio del presente – Il Mulino 2008,
Claudio Giunta – Una sterminata domenica Il Mulino 2013
Daniele Giglioli – All’ordine del giorno è il terrore- Bompiani 2007
Daniele Giglioli – Critica della vittima – Nottetempo 2014
Luigi Meneghello – Il dispatrio – Rizzoli 1993
Federico Ferretti – Il mondo senza la mappa. Élisée Reclus e i geografi anarchici Zero in Condotta, 2007
Élisée Reclus – Natura e educazione- Bruno Mondadori 2007
Élisée Reclus – Storia di un ruscello – Guerini 2005 (introvabile)
Élisée Reclus – Storia di una montagna – Tararà 2008 (idem)
Amedeo Bertolo – L’anarchico e l’ebreo Eleuthera 2017
Gianfranco Ragogna- Gustav Landauer: anarchico ebreo tedesco – Editori Riuniti, 2010
Gustav Landauer – Per una storia della parola Anarchia – (web)
Stefano d’Errico – Anarchismo e politica nel problemismo e nella critica dell’anarchismo Mimesis 2007
André Neher – L’esilio della parola Marietti 1991
Theodor Lessing – L’odio di sé ebraico Mimesis 1995
Bruno Bettelheim – Sopravvivere – Feltrinelli 1981
Gustav Herling – Un mondo a parte – Laterza 1958
Giorgio Galli – La politica e i maghi – Rizzoli 1995
Mario A. Jannaccone – Storia segreta. Adam Westhaupt e gli Illuminati – Sugarco 2005
Shaun Bythell – Una vita da libraio – Einaudi 2018
David Forster Wallace – Considera l’aragosta – Einaudi 2006

Libri almeno tentati, parzialmente letti o solo citati 

Claudio Giunta -Tutta la solitudine che meritate – Quodlibet 2014
Claudio Giunta – E se non fosse la buona battaglia? –Il Mulino 2017
Daniele Giglioli – Stato di minorità – Laterza 2015
Alessandro Baricco – I Barbari – Feltrinelli 2006
Michel Maffesoli – Il tempo delle tribù – Guerini 2004
Michel Maffesoli – Note sulla postmodernità Lupetti 2005
Christopher Lasch – L’Io minimo – Feltrinelli 1984
Martin Buber – Sentieri in Utopia Comunità 1967
Gustav Landauer – La rivoluzione Diabasis, 2009
Luigi Meneghello – Pomo Pero – Rizzoli 1974
Luigi Meneghello – Fiori Italiani – Rizzoli 1976
George Steiner – Linguaggio e silenzio – Garzanti 2001
George Steiner – Nel castello di Barbablù SE 1971
George Steiner – La barbarie dell’ignoranza Nottetempo, 2005
Otto Weininger Ebraismo e odio di sé – Studio Tesi, 1994
Honoré de Balzac – La storia dei tredici Sansoni 1965
David Forster Wallace – Jnfinite Jest – Einaudi 2006
William T. Volmann – Venga il tuo regno- Alet 2011