Ancora su “Biografie e bibliografie”

Copertina per incontri tematici2di Carlo Prosperi, 27 gennaio 2023

La mostra “sentieri in utopia“ è tutt’altro che conclusa: prosegue semmai virtualmente. Continuiamo infatti a proporre le trascrizioni o le rielaborazioni degli interventi effettuati dagli amici in occasione dei tre “incontri” di conversazione.

È la volta ora di Carlo Prosperi, che con la consueta puntualità e acutezza allarga il campo d’indagine al rapporto vita-opere negli intellettuali di ogni epoca. Il tema in effetti è sempre “caldo”, ed è decisamente insidioso. Come scriveva in un precedente intervento Maurizio Castellaro, a proposito dei nostri eroi letterari: “[…] la loro vita reale aveva un qualche rapporto con quello che scrivevano? Davvero, da queste domande non ne esco vivo, e allora provo a semplificare”. Bene, ci provo anch’io, limitandomi però per il momento a rilanciare, anzi, a riformulare la domanda. Ovvero: dando per scontato che un rapporto tra come si vive e cosa si scrive esiste sempre, la linearità o la contraddittorietà di questo rapporto hanno una qualche rilevanza “oggettiva” come strumenti di interpretazione (e diciamolo pure, di valutazione) dell’opera? Detto più brutalmente: visto che l’autore scompare e l’opera rimane, devo leggere quest’ultima senza lasciarmi influenzare da eventuali incoerenze biografiche e dalle insofferenze che queste mi ingenerano? Personalmente ho dei dubbi in proposito, ma mi riservo di argomentarli in altra occasione: e lascio spazio a Carlo, che molti di quei dubbi me li ha già sciolti.
P.S. Non tutte le immagini che abbiamo inserite sono associabili a questo testo. Ma al tema, indubbiamente, si. (Paolo Repetto)

Sono convinto che la biografia sia importante per comprendere l’opera di un autore o, meglio, le motivazioni che l’hanno indotto a scrivere e magari a scegliere certe tematiche invece di altre. Ma nella biografia vanno comprese le influenze che cultura e letteratura, cioè le letture fatte, la bibliografia esperita, hanno esercitato su di lui. Il compianto Giorgio Barberi Squarotti soleva dire che, sì, la realtà storica, le milieu et le moment, e la stessa vita, la psicologia dell’autore valgono a spiegarne gli orientamenti ideali e ideologici, le idiosincrasie, a volte anche la mentalità, la preferenza per taluni argomenti, ma non sono decisivi. Al limite, i soggetti trattati sono indifferenti: quello che conta è come vengono trattati, la forma che assumono, i generi in cui si inseriscono (dialogicamente), lo stile. Senza contare che spesso lo scrittore si misura e fa i conti con l’immaginario collettivo, con il patrimonio di storie, di idee, di miti, di topoi e di suggestioni (anche figurative, musicali e cinematografiche) che lo alimentano. Tra questo – che costituisce il mondo delle forme – e la realtà c’è un continuo rimpallo, un assiduo rimbalzo, una contaminazione perenne: in altre parole, un rapporto dialettico permanente. Fondamentale, insomma, è l’intertestualità, perché la letteratura è un inesauribile gioco di specchi.

Di Omero, ma anche degli autori della Bibbia, de Le mille e una notte, di tante altre opere mitografiche, epiche o narrative, come, ad esempio, il Kalevala, La storia di Gilgamesh, i Veda, poco o nulla sappiamo, ma la contestualizzazione storica e geografica ci aiuta a comprenderne lo spirito: segno che lo Zeitgeist lascia sempre un’impronta notevole sulla produzione estetica. Nessuno sfugge al proprio tempo, alla realtà materiale e culturale che lo informa. Negli stessi classici è possibile cogliere la temperie dell’epoca, tracce di colore locale e temporale; se sono classici, però, è perché il loro respiro li trascende, perché più di altre opere sanno scavare a fondo nel cuore e nell’anima dell’uomo, cogliere e testimoniare quanto c’è in essi di perenne, oserei dire di eterno. Chi non crede nella “natura umana”, chi la nega, chi ritiene che l’uomo sia un animale come gli altri, vale a dire un prodotto della storia e dell’evoluzione, la penserà diversamente.

Ciò considerato, possiamo affrontare il problema della coerenza tra vita e opera. Che è anche il problema dell’identità. Ora, solo Dio – se esiste e se è fuori del tempo – può vantare un’identità perfetta, stabile e assoluta, non soggetta agli inconvenienti dell’esistenza. Ma per chi vive nel mondo sublunare l’identità deve scendere a patti col divenire, declinarsi come processo: è quindi un punto che si fa linea. E la coerenza coincide sostanzialmente con la rettitudine: concetto che potremmo spiegare come un accordo tra il prima e il poi, come un adeguamento non conflittuale o comunque in grado di riassorbire senza traumi ogni contrasto in una sintesi di vecchio e nuovo che si configuri come un arricchimento progressivo. Come una crescita della persona. Senza degenerare, senza tralignare, senza tradire. Ovviamente, dal momento che lo spirito è forte, ma la carne è debole, dinanzi agli infiniti bivi o trivi che la vita ci presenta sono sempre possibili dubbi, esitazioni, errori, smarrimenti. Tale evenienza era dagli antichi raffigurata nell’immagine di Ercole al bivio. L’importante è ravvedersi per tempo. Errare è umano, diabolico perseverare. La coerenza esige tempestivi aggiustamenti di rotta, al di là, appunto, dei possibili traviamenti. Solo all’intransigenza dei moralisti sfugge che l’uomo è un “legno storto”. Nel loro astratto rigore, essi non perdonano all’uomo le sue contraddizioni, ma il mondo in bianco e nero che essi vedono non è quello, ricco di infinite nuances (e di colori), che ci sta davanti agli occhi: è un mondo daltonico. O manicheo. La coerenza che essi pretendono alberga solamente nell’iperuranio. Questo per dire che, quando si parla di coerenza, non si deve esagerare. Noi ci accontentiamo di un’onesta rettitudine.

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Poi, anche qui, si può discettare di evoluzione e di involuzione. Ma non è detto che a distinguere la prima dalla seconda non concorra l’orientamento ideologico di chi giudica, guardando da fuori. Mettiamo che il punto di partenza, anzi il presupposto, alla luce dell’esperienza via via maturata si riveli sbagliato: sarà più onesto, allora, proseguire sulla via intrapresa in nome di una presunta coerenza o invertire marcia? O imboccare un’altra strada, anche a costo di rinnegare le scelte fatte in precedenza, in buona fede ma senza averne adeguata contezza? La coerenza nel perseguire la verità in questo caso fa aggio sull’ostinazione, che è coerenza ingiustificata e quindi solo apparente. Per spiegarmi meglio, voglio portare qualche esempio. Prendiamo Dante, passato dall’aristotelismo radicale del Convivio, incentrato su una fede assoluta nelle potenzialità della ragione, vista come unica bussola per chi voglia «seguir virtute e canoscenza», alla fede nella teologia incarnata da Beatrice, disdegnata invece dall’amico Guido Cavalcanti. La Divina commedia, sotto tale aspetto, si presenta come una palinodia del trattato, rimasto non a caso incompiuto. Nel Purgatorio il poeta taccia di follia la presunzione della ragione: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone»; e pertanto ammonisce i lettori: «State contenti, umana gente, al quia, / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria, // e desiar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto» (ed accenna ad Aristotele, a Platone e a “molti altri”). Invece di imitare Ulisse nel «folle volo»[1] che lo porta a perdersi senza risultato, ingannando con la sua splendida retorica[2] i pochi compagni superstiti, Dante si ravvede e alla hybris della ragione preferisce l’umiltà (ne è simbolo il giunco di cui lo cinge Catone sul lido del Purgatorio), la pietas di Enea che tanto contrasta con l’empietà di Ulisse (esemplificata non solo dall’aver trascurato i suoi doveri di padre, di marito e di figlio, sì anche dall’aver violato i limiti posti da Ercole «acciò che l’uom più oltre non si metta»).

La fraudolenza che condanna il Laertiade all’inferno è nelle parole, anzi nell’«orazion picciola», con cui egli convince la «compagna / picciola» a seguirlo nell’impresa dissennata: le nobili motivazioni da lui addotte sono mistificanti. Quale “virtù” può infatti animare chi trasgredisce consapevolmente le leggi divine e umane? Non certo quella che deriva, a suo dire, dal «divenir del mondo esperto / e delli vizi umani e del valore», giacché sa bene di avventudi di avventurarsi in un «mondo sanza gente». Ed anche la sua profana curiositas rimarrà delusa: egli non avrà contezza alcuna né della montagna «bruna / per la distanza» che riuscirà solo a intravedere né della vera ragione del suo naufragio. Si renderà nondimeno conto – per dirla in termini zanzottiani – dell’“oltraggio” rappresentato dalla sua “oltranza”, ma non dell’identità del suo punitore, che resterà per lui un’oscura forza del destino: «come altrui piacque». La via scelta da Dante, all’insegna della humilitas, è per contro destinata al successo. E il poeta ne ha (e ne dà) un segno nel giunco che miracolosamente, proprio «come altrui piacque», spunta al posto di quello strappato da Catone per munirne Dante sulla spiaggia del Purgatorio. Il viaggio ultraterreno del poeta – che sa benissimo di non essere né Enea né San Paolo – si realizza nel segno della grazia, non della sfida.

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Ancora su Biografie e bibliografie (5)Un altro esempio, piuttosto clamoroso, di apparente incoerenza o, se vogliamo, di involuzione è quello di Giosue Carducci: giacobino sfrenato (basti pensare ai sonetti del Ça ira) e anticlericale (fino a rasentare la blasfemia nell’Inno a Satana) in gioventù, nell’ultima fase della sua vita giungerà a riconoscere i meriti sia della monarchia sia del cristianesimo (cfr. La chiesa di Polenta) e in ogni caso i bollori rivoluzionari della giovinezza si stempereranno in una visione più pacata e pacificata della realtà. Vi contribuiranno pure le sventure familiari, come la morte del fratello e del figlioletto, ma anche l’incontro con la regina Margherita, dal cui fascino femminile resterà ammaliato. Parafrasando un detto famoso, mi verrebbe da dire: chi non è stato “rivoluzionario” a vent’anni non è mai stato giovane, chi continua ad esserlo in seguito non ha mai raggiunto la maturità. Ma a questo punto si può ancora parlare d’incoerenza o, peggio, di involuzione? Troppo facile per “gli storici del dopo” rinvenire nella storia una razionalità e un rapporto causa-effetto che a chi l’ha vissuta da dentro, nell’hic et nunc, di rado appare come tale: speranze, illusioni, cecità e fraintendimenti ne fanno parte e la visione d’insieme che ne ha il singolo individuo è spesso “falsa” (nel senso spinoziano del termine, cioè parziale e incompleta), quando non anche viziata da egoismi o da ideologismi. Non voglio credere che quegli intellettuali e quegli scrittori che, dopo avere militato, alcuni per anni, nelle file del fascismo, all’indomani della sua caduta passarono armi e bagagli alla corte di Togliatti, fossero tutti opportunisti e in malafede, ma nel novero molti furono tali. E non esitarono a saltare sul carro del vincitore.

Ancora su Biografie e bibliografie (6)Ma il discorso non riguarda solo gli italiani. Se prendiamo in considerazione Wystan Hugh Auden, è facile accorgersi di come suoni a vuoto (per non dire falsa) la campana dell’”impegno” di cui negli anni Trenta fu il portabandiera.

Auden fu infatti l’incarnazione di quella Auden Generation, di cui il rosso ideologico fu il colore politico dominante. Fu lui nella poesia Spain a parlare di poeti «rombanti come bombe» e della «consapevole accettazione della colpa di fronte al delitto necessario». Una frase simile – ebbe a notare George Orwell – avrebbe potuto scriverla «solo una persona per la quale l’assassinio è al massimo una parola. Il tipo di amoralità di Auden è possibile soltanto se siete il genere d’uomo che si trova sempre in un altro posto nel momento in cui si preme il grilletto». Parole profetiche: non a caso, nel settembre 1938, mentre era in corso la Conferenza di Monaco, il poeta inglese si affrettò a preparare i bagagli per emigrare negli USA. Molti intellettuali del suo calibro, in effetti, al di là delle prese di posizione a favore dei più nobili ideali, trovano difficile aderire ad altro che a se stessi. Ma qui andiamo ben oltre l’umana incoerenza: qui c’è anche del cinismo e della malafede. Cose che invece non ravvisiamo, ad esempio, nella “conversione” del Manzoni, che pure lo portò a un profondo cambiamento di poetica, oltre che di vita. E tanto meno nel progressivo accentuarsi e affinarsi del pessimismo di Leopardi nel passare dalla fase “storica” a quella “cosmica”, a quella “agonistica” della Ginestra.

Ancora su Biografie e bibliografie (7)Un certo opportunismo è stato denunciato da taluni critici anche nel Segretario fiorentino, che, da tecnico della politica, dopo essersi speso al servizio della Repubblica, mise le sue indubbie competenze a disposizione dei Medici. In questo c’è indubbiamente qualcosa di vero, ma, a ben guardare, si può rilevare una profonda e sotterranea coerenza tra il Machiavelli dei Discorsi e quello del Principe, dal momento che per lui lo Stato è comunque il bene primario, anzi l’unico fine che davvero giustifichi i mezzi [«Faccia dunque uno principe di mantenere lo Stato, e i mezzi saranno ritenuti laudevoli e da ciascuno laudati»]. E questo perché egli ha una visione antropologica negativa: l’uomo è malvagio di natura, egoista, smanioso di potere e di piacere, avido di ricchezze, tanto che «sdimentica più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio». Senza la maestà dello Stato che tiene a freno la violenza, regnerebbe l’anarchia e con essa la legge del più forte. Come i pesci di cui parlava Sant’Ireneo di Lione, il più grande mangerebbe il più piccolo. Per questo la preservazione dello Stato può richiedere pure il ricorso a mezzi estremi: non si tratterebbe di immoralità, ma di sacrifici necessari. Come quello del giocatore di scacchi che per vincere la partita deve all’uopo saper rinunciare a qualche pezzo. Come quello del chirurgo, che per salvare una vita deve essere pronto, all’occorrenza, ad amputare qualche membro. La moralità della politica, se così si può dire, è garantita dall’augusto suo compito.

Qualcuno fa notare che, nello scrivere il Principe, Machiavelli abiura la sua fede repubblicana: in realtà così non è. Egli rimane pur sempre dell’idea che la forma repubblicana di governo sia migliore del principato, in quanto, dove a governare è un Consiglio, la morte di uno degli amministratori non comporta la crisi dello Stato, mentre, se muore un principe, può crearsi una vacanza di potere e non è detto che il successore sia all’altezza del ruolo. E resta comunque il fatto che i fondatori degli Stati sono, in genere, persone singole, dotate di carisma: una qualità che non è tuttavia trasmissibile ereditariamente.

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Ma, a proposito di malafede, credo che la palma di primo della categoria, vada assegnata a Jean-Jacques Rousseau, il quale negli scritti si distinse sempre per il suo umanitarismo buonista e sempre inneggiò alla sacra triade liberté, égalité, fraternité, non esitando però ad abbandonare nei brefotrofi dell’epoca i figli nati dalle sue liaisons sentimentali. Ciò non significa che le sue opere non meritino di essere lette e tenute in considerazione; è tuttavia il caso di ricordare che molti predicano bene ma razzolano male. Per cui bisogna guardarsi da una identificazione troppo stretta tra biografia e bibliografia. Se l’arte – come abbiamo detto – è sempre un gioco di specchi, è fatale che la realtà ne riesca talora travisata. A volte redenta, a volte dannata, raramente qual essa è. Erano il Latini a dire: lasciva nobis pagina, sed vita proba. Né si può sempre presumere che un autore sia costantemente all’altezza della sua opera. Di conseguenza è lecito non provare alcuna simpatia per lui, senza per questo cessare di apprezzarne genio e talento. Almeno quando non manchino. E basterebbe, allora, fare un nome: Céline.

[1] La metafora del “folle volo”, con i remi della barca divenuti “ali”, rimanda chiaramente alla vicenda di Icaro, da tempo assunta come immagine o simbolo di hybris, d’intemperanza se non proprio di tracotanza, contro ogni classico ammonimento alla metriotes, all’est modus in rebus. La metafora s’inserisce perfettamente nell’atmosfera del canto, connotata appunto da tutta una serie di voli: da quello della trista nomea di Firenze che si spande nell’inferno a quelli delle lucciole che subentrano, a sera, alle zanzare, dal volo di Elia sul carro di fuoco alle fiammelle volitanti per la bolgia in cui ardono i fraudolenti.

[2] Si noti come Ulisse tenda artatamente ad attenuare la portata del suo discorso (quattro parole parenetiche ovvero – dice lui – una «orazion picciola») enfatizzandone però gli effetti (a fatica avrebbe potuto trattenere i suoi compagni – quattro gatti ormai, una «compagna / picciola») – dopo averli istigati). Poco resta loro da vivere (una «picciola vigilia» dei sensi e niente più): perché dunque non togliersi lo sfizio di andare ad  esperire il «mondo sanza gente»? Le motivazioni sono all’apparenza nobilissime, se l’impresa non fosse temeraria e non comportasse una sfida per certi versi prometeica e quindi sacrilega (Ercole era stato assunto fra gli Dèi). Senza contare che dove non ci sono uomini difficilmente sarà dato rinvenire «vizi umani» e umano «valore»: nel discorso c’è dunque un fondo di malafede. D’altra parte l’«orazion picciola» si apre con una captatio benevolentiae: Ulisse, il capo, apostrofa i compagni chiamandoli “fratelli” e prosegue con una iperbole («per cento miglia / perigli») ed una anfibologia («siete giunti all’occidente»: l’occidente qui non è solo un’indicazione geografica, ma sta pure a indicare il tramonto, la fase declinante della vita), con una perifrasi metaforica (appunto la «così picciola vigilia / de nostri sensi, ch’è del rimanente») e una litote («non vogliate negar»); tutto è infine suggellato dalla gnomica considerazione finale, che tanti critici hanno preso per oro colato, dimenticando che di nobili intenzioni è lastricata la strada dell’inferno. Sono i guasti della retorica. Ulisse riesce a guadagnarsi la solidarietà o, meglio, la complicità dei compagni ammannendo loro un piccolo capolavoro di mistificazione.

Ritratti di famiglia

La storia è una galleria di quadri,
dove ci sono pochi originali e molte copie.

Ritratti di famiglia copertinaIn concomitanza con la mostra-rassegna delle loro attività (la prima, e con ogni probabilità anche l’unica) i Viandanti delle Nebbie offrono ai “followers” una strenna natalizia. L’idea iniziale prevedeva una plaquette sul modello dei vecchi calendarietti profumati dei barbieri, per i quali proviamo tanta nostalgia (per i libretti, ma anche per i barbieri): poi abbiamo optato per una linea meno frivola.
Distribuiremo quindi cinquanta libretti (il che significa presumere, molto ottimisticamente, un numero di lettori doppio rispetto a quelli del Manzoni) che vogliono suggerire da dove arrivano i Viandanti, chi c’è idealmente alle loro spalle. Certi dell’impunità, perché quasi tutti gli interessati non sono più in vita, ci siamo permessi di vantare nobili ascendenze.
Rispetto a molti dei personaggi evocati i gradi di separazione sono almeno quattro o cinque. Il sesto ci avrebbe portato direttamente a Gesù, e ci pareva un tantino esagerato. E tuttavia …

03 Quadri in mostraL’albero genealogico dei Viandanti è fittissimo e composito. Risalendo di due secoli (non abbiamo voluto andare oltre, era già abbastanza complicato così) si incontrano un po’ tutte le tipologie e le varietà umane: scrittori, artisti, esploratori, viaggiatori, rivoluzionari, filosofi, storici, fumettisti, ecc…). In un modo o nell’altro coloro che abbiamo rintracciato hanno contribuito a indicare percorsi, a suggerire svolte, a portare ristoro e a orientarci nella nebbia. Non sono gli unici, naturalmente, perché la nostra è una famiglia molto allargata. Potremmo citarne almeno altrettanti, e anzi, quella dei gradi meno prossimi di parentela potrebbe già essere un’idea per una strenna futura.

Abbiamo volutamente omesso ogni indicazione biografica o bibliografica relativa ai personaggi presentati. Il bello del gioco sta proprio qui: ciascuno potrà fare eventuali ricerche di approfondimento per conto proprio.
Questo è lo spirito dei Viandanti.

Nella Galleria non hanno trovato posto figure femminili. Chiamatelo maschilismo, se volete, ma di fatto non ci è venuta in mente alcuna protagonista significativa dei nostri percorsi culturali. Questo non significa che non abbiamo incontrato donne eccezionali: significa solo che queste donne non hanno lasciato il segno. Per un difetto nostro di sensibilità, indubbiamente: ma ci sembrava terribilmente ipocrita inserirne qualcuna solo in ossequio al politicamente corretto.01a Tin Tin

P.s: Il fatto che Tintin o Milù compaiano sia in prima che in quarta di copertina non è casuale: sono tra gli antenati più nobili, non potevano mancare all’appello.

04 Bustin in mostra

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

Isaiah Berlin

Camillo Berneri

Renzo Calegari

Albert Camus

Nicola Chiaromonte

Stig Dagermann. 12

Charles Darwin

Franz De Waal

Hans Magnus Enzensberger

Patrick Leith Fermor

Caspar David Friedrich

Piero Gobetti

Knut Hamsun

William Henry Hudson

Alexander von Humboldt 20

Pëtr Kropotkin

Furio Jesi

Toni Judt

Gustav Landauer

Giacomo Leopardi

Primo Levi

Jack London

Herman Melville

Albert Frederic Mummery

George Orwell

Hugo Pratt

Élisée Reclus

Mario Rigoni Stern

Albert Robida

J.D. Salinger

Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

George  Steiner

Robert Louis Stevenson

Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

Alexis De Tocqueville

Sergio Toppi

Alfred Wallace

Charles Waterton

Titn Tin con bandiera dei pirati con sfondo uniforme

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

08 Ken Parker06 Milazzo05 BerardiHo impugnato il fucile per tutta la vita, eppure, il mio popolo è stato distrutto, la mia sposa torturata a morte…
Se mio figlio vivrà dovrà trovare un altro modo di combattere…Addio, “Lungo fucile” …

Isaiah Berlin

12 Isaiah BerlinGarantire la libertà ai lupi significa condannare a morte le pecore.

Non esiste alcuna istanza primaria in base a cui la verità, una volta scoperta, debba per forza essere anche interessante

11 Isaiah Berlin

Camillo Berneri

14 Camillo BerneriL’anarchismo è il viandante che va per le vie della Storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca. Egli si sofferma per adagiarsi all’ombra avvelenata, per dissetarsi alla fontana insidiosa. Egli sa che il destino, che la sua missione è riprendere il cammino, additando alle genti nuove mete.

 

16 Camillo Berneri

Renzo Calegari

17 Renzo CalegariQuesta storia è finita come doveva, con dei vincitori e dei vinti … il mio guaio è che non appartengo né agli uni né agli altri.

19 Renzo Calegari

Albert Camus

21 Albert CamusPerché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Bisogna che si cambi in esempio.


Nicola Chiaromonte

25 Nicola ChiaromonteQuando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distogliere lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per pri-ma ci si articola nella mente è: Che cosa rimane?… Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati “belli”, direbbe Plotino… Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male, e non si può fare che sia diversa-mente (e non si deve fare che appaia diversamente).

24 Nicola Chiaromonte

La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine. 

Stig Dagermann

26 Stig DagermanLe auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà.

  27 Stig Dagerman

L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo sicuramente è vero.

 

Charles Darwin

30 Charles DarwinNella lunga storia del genere umano (e anche del genere animale) hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare ed a improvvisare con più efficacia.

  

 

32 Charles Darwin

Lo stadio più elevato di cultura morale si ha quando riconosciamo che dovremmo controllare i nostri pensieri.

 

Franz De Waal

33 Franz de WaalTutti sanno che gli animali hanno emozioni e sentimenti, e che prendono decisioni simili alle nostre. Gli unici a fare eccezione, sembrerebbe, sono alcuni universitari. 

35 Franz de Waal

Tutto conferma la mia visione della morale “venuta dal basso”. La legge morale non è né imposta dall’alto, né dedotta da principi accuratamente razionalizzati, ma nasce da valori ben radicati, presenti da tempo immemorabile. Il più fondamentale deriva dal valore della vita collettiva per la sopravvivenza. Il desiderio di appartenenza, la voglia di capirsi, di amarsi e di essere amati ci spingono a fare tutto ciò che possiamo per restare nel miglior rapporto possibile con le persone dalle quali dipendiamo.


Hans Magnus Enzensberger

38 Han Magnus EnzesbergerLa televisione è puro terrorismo. La parola scompare, e con la parola ogni possibilità di riflessione.

39 Han Magnus Enzesberger e Umberto Eco

Negli ultimi duecento anni le società più evolute hanno suscitato attese di uguaglianza che non si possono soddisfare; e al contempo hanno fatto sì che ogni giorno per ventiquattro ore la disuguaglianza venga dimostrata su tutti i canali televisivi a tutti gli abitanti del pianeta. Ragione per cui la delusione umana è aumentata con ogni progresso.

Al perdente, per radicalizzarsi, non basta quello che gli altri pensano di lui, siano essi concorrenti o sodali… Egli stesso deve metterci del suo; deve dirsi: io sono un perdente e basta. L’estinzione non solo di altri, ma anche di se stesso, è la sua soddisfazione estrema.

 

Patrick Leith Fermor

44 Patrick Leith FermorUna magica pace vive nelle rovine dei templi greci. Il viaggiatore si adagia tra i capitelli caduti e lascia passare le ore, e l’incantesimo gli vuota la mente di ansie e pensieri molesti e a poco a poco la riempie di un’estasi tranquilla.

45 Patrick Leith FermorNon si parte per andare da nessuna parte senza aver prima di tutto sognato un posto. E viceversa, senza viaggiare prima o poi finiscono tutti i sogni, o si resta bloccati sempre nello stesso sogno.

 

Caspar David Friedrich

47 Caspar David friedrichL’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un’opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio.

 

49 Caspar David friedrichPerché, mi son sovente domandato, scegli sì spesso a oggetto di pittura la morte, la caducità, la tomba? È perché, per vivere in eterno, bisogna spesso abbandonarsi alla morte.


Piero Gobetti

52 Piero GobettiIl fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

51 Piero Gobetti

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

Knut Hamsun

53 Knut HamsunQuando parlo con un uomo, non ho bisogno di guardarlo per seguire esattamente quello che dice; sento subito se egli mi dà a bere qualche cosa o me ne nasconde qualche altra; la voce, credetemi, è un apparecchio pericoloso

54 Knut Hamsun

  “Amo tre cose”, dico allora.
“Amo il sogno d’amore di un tempo, amo te e amo quest’angolo di terra.”
“E cosa ami di più?”
“Il sogno.”

 

William Henry Hudson

57 William Henry HudsonProvo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico,

58 William Henry Hudson


Alexander von Humboldt

61 Alexander von HumboldtCi sono popoli più acculturati, avanzati e nobilitati dall’educazione di altri, ma non esistono razze più valide di altre, perché sono tutte egualmente destinate alla libertà.

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La visione del mondo più pericolosa di tutte è quella di coloro i quali il mondo non l’hanno visto.

 

Pëtr Kropotkin

65 Petr KropotkinL’evoluzione non è lenta e uniforme come si vuol sostenere. Evoluzione e rivoluzione si alternano, e le rivoluzioni – i periodi cioè di evoluzione accelerata – appartengono all’unità della natura esattamente come i periodi in cui l’evoluzione è più lenta.

 

Non appena avrai scorto un’ingiustizia e l’avrai compresa – un’ingiustizia nella vita, una menzogna nella scienzao una sofferenza imposta da altri – ribellati contro di essa!  LottaRendi la vita sempre più intensa!

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E così tu avrai vissuto, e poche ore di questa vita valgono molto di più di anni interi passati a vegetare.

 

 Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.

Furio Jesi

67 Furio JesiLa cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche  Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra.

68 Furio Jesi

Toni Judt

71 Toni JudtIl problema è che i socialisti hanno sempre nutrito una fiducia incondizionata nella razionalità degli uomini.

70 Toni Judt

Lo stile materialista ed egoísta della vita contemporánea non è inerente alla condizione umana. Gran parte di quello che a noi pare “naturale” data dalla decade del 1980: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le crescenti differenze tra ricchi e poveri. E, soprattutto, la retorica che li accompagna: un’acrítica ammirazione per i mercati sregolati, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione della crescita infinita.

 

Gustav Landauer

73 Gustav LandauerLo Stato non è qualcosa che si può distruggere con una rivoluzione, dato che esso esprime una condizione, una certa relazione tra gli esseri umani, una modalità del comportamento umano; lo possiamo distruggere solo contraendo altri tipi di relazioni, assumendo altri tipi di comportamento.

 L’anarchia non riguarda il futuro, riguarda il presente; non è questione di ciò che speri, è questione di come vivi.

 


Giacomo Leopardi

74 Giacomo LeopardiPasseggere: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo.

  La ragione è un lumela Natura vuol essere illuminata dalla ragionenon incendiata. 75 Giacomo Leopardi

Primo Levi

153ab Primo LeviPerché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

 

 Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.

 

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.

156 Primo Levi

Jack London

77 Jack LondonNon era della loro tribù, non poteva parlare il loro gergo, non poteva far finta di essere come loro. La maschera sarebbe stata scoperta e, per altro, le mascherate erano estranee alla sua natura.

78 Jack London

Dalla creazione del mondola barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progressoNel corso dei secolil’abbiamo soltanto ricoperta  con una mano di vernice, nient’altro.


Herman Melville

154 Herman MelvilleNoi non possiamo vivere soltanto per noi stessi. Le nostre vite sono connesse da un migliaio di fili invisibili, e lungo queste fibre sensibili, corrono le nostre azioni come cause e ritornano a noi come risultati.  

157 Herman Melville

Io sono tormentato da un’ansia continua per le cose lontane. Mi piace navigare su mari proibiti e scendere su coste barbare.

156 Herman Melville

Dell’amicizia a prima vista, come dell’amore a prima vista, va detto che è la sola vera.

 

Albert Frederic Mummery

81 Albert Frederic MummeryLa via più difficile alle cime più difficili è sempre la cosa giusta da tentare, mentre i pendii di sgradevole pietrisco vanno lasciati agli scienziati. Il Grépon merita di essere salito perché da nessuna altra parte l’alpinista troverà torrioni più arditi, fessure più selvagge, precipizi più spaventosi.
Assolutamente impossibile con mezzi leali.

 

George Orwell

85 George OrwellSapere dove andare e sapere come andarci sono due processi mentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessa personaI pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango.

  

Così come per la religione cristiana, anche per il socialismo la peggior pubblicità sono i suoi seguaci.

86 George Orwell

Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenzaA loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto.

 

 

Hugo Pratt

88 Hugo PrattQuelli che sognano ad occhi aperti sono pericolosi, perché non si rendono conto di quando i sogni finiscono.

89 Hugo Pratt - Corto Maltese

Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…

Élisée Reclus

92 Elisée ReclusL’Anarchia è la più alta espressione dell’ordine. 

93 Elisée Reclus

Se noi dovessimo realizzare la felicità di tutti coloro che  portano una figura umana e destinare alla morte tutti coloro che hanno un muso e che non differiscono da noi che per un angolo facciale meno aperto, noi non avremmo certo realizzato il nostro ideale. Da parte mia, nel mio affetto di solidarietà socialista, io abbraccio anche tutti gli animali.


Mario Rigoni Stern

159 Mario Rigoni SternI ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia. 

 

163 Mario Rigoni SternDomando tante volte alla gente: avete mai assistito a un’alba sulle montagne? Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura.

 

160 Mario Rigoni SternIl tempo, nella vita di un uomo, non si misura con il calendario ma con i fatti che accadono; come la strada che si percorre non è segnata dal contachilometri ma dalla difficoltà del percorso.

 

Albert Robida

96 Albert RobidaMio caro Mandibola – diceva quasi sempre Farandola terminando – abbandono definitivamente ogni idea di riforma sociale, e mi lancio con tutte le vele spiegate, nella più vasta industria. Gli affari, il commercio, ecco ciò che mi occorre; e dal momento che le grandi imprese sono necessarie alla mia salute, avanti con le gigantesche speculazioni commerciali! 

  Il vecchio telegrafo permetteva di comunicare a distanza con un interlocutore. Il telefono permise di sentirlo. Il telefonoscopio superò entrambi rendendo possibile anche vederlo. Che si può volere di più?

99 Albert Robida

J. D. Salinger

100 J D SalingerIo sono una specie di paranoico alla rovescia. Sospetto le persone di complottare per rendermi felice.

 

101 J D Salinger - Il giovane HoldenLa più spiccata differenza tra la felicità e la gioia è che la felicità è un solido e la gioia è un liquido.

 

Camillo Sbarbaro

103 Camillo SbarbaroSe potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.

 

 Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.

 Si comincia a scrivere per essere notati, si seguita perché si è noti.

105 Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

107 Erwin SchrödingerIl mondo è una sintesi delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e dei nostri ricordi. È comodo pensare che esista obiettivamente, di per sé. Ma la sua semplice esistenza non basterebbe, comunque, a spiegare il fatto che esso ci appare.

Se questi dannati salti quantici dovessero esistere, rimpiangerò di essermi occupato di meccanica quantistica.

  106 Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

110 Johann Gottfied SeumeCamminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa. 

113 Johann Gottfied Seume

In tutta la mia vita non mi sono mai abbassato a chiedere qualcosa che non abbia meritato, e nemmeno chiederò mai quel che ho meritato finché esistono in questo mondo tanti mezzi di vivere onestamente: e quando poi anche questi finissero, ne resterebbero alcuni altri per non vivere più.

115 Johann Gottfied Seume

 

George  Steiner

116 George SteinerTutta la metafisica è un ramo della letteratura fantastica.

Un genio degli scacchi è un essere umano che concentra doni mentali ampi e poco compresi, e lavora su un’impresa umana alla fine insignificante.

L’etichetta di homo sapiens, a parte pochi casi, probabilmente è solo un’infondata millanteria.

120 George Steiner

Robert Louis Stevenson

121 Robert Louis StevensonNon chiedo ricchezzené speranze, né amorené un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi.
Io non ho viaggiato per andare da qualche parte, ma per il gusto di viaggiare.
La questione è muoversi.

122 Robert Louis Stevenson

La politica è forse l’unica professione per la quale non viene ritenuta necessaria alcuna preparazione specifica.


Henry David Thoreau

125 Henry David ThoreauNon c’è valore nella vita eccetto ciò che scegli di mettere in essa e nessuna felicità in nessun posto eccetto ciò che gli apporti tu.

126 Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

128 Sebastiano TimpanaroScrivere significa svolgere un ragionamento che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze. Senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali. Seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni. Chi scrive offre al lettore la propria coerenza di ragionamento e lo invita ad analoga coerenza.


Alexis De Tocqueville

135 Alexis De TocquevilleSe cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?

137 Alexis De Tocqueville 

In una rivoluzione, come in un raccontola parte più difficile è quella di inventare un finale.

 

Sergio Toppi

138 Sergio ToppiIo detesto essere chiamato artista: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo.

 

139 Sergio ToppiIl suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai d’imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l’incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri.

 

Alfred Wallace

142 Alfred WallaceQuesta progressione, per piccoli passi, in varie direzioni, ma sempre controllata ed equilibrata dalle condizioni necessarie, soggette alle quali solo l’esistenza può essere preservata, può, si crede, essere seguita in modo da concordare con tutti i fenomeni presentati da esseri organizzati, la loro estinzione e successione nelle epoche passate, e tutte le straordinarie modificazioni di forma, istinto e abitudini che esibiscono.

146 Alfred Wallace

 

Charles Waterton

147 Charles WatertonMentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione.

Tin Tin si avvia

La verità, vi prego sui cavalli

di Paolo Repetto, 30 giugno 2018

1 Prima

La verità vi prego sui cavalli QuadernoCerco di convincermi che è solo un po’ di stanchezza, lo scotto da pagare all’età. Perché a settant’anni, checché ne dicano i pensionati in fregola e la pubblicità che li titilla, è naturale che la voglia di viaggiare lasci il posto ad abitudini più pantofolaie. Ma la verità è un’altra: la depressione pre-partenza l’ho sempre sofferta, anche quando gli anni erano meno di un terzo di quelli attuali. All’avvicinarsi del giorno fatidico saltavano fuori i dubbi: cosa vado a cercare, ne vale poi la pena, avrei un sacco di cose da fare a casa (il che era anche vero), ecc … A quanto pare non ho mai avuto la natura del vero viaggiatore. Forse stavo bene dov’ero, abbastanza almeno da non desiderare altro.

Eppure ho continuato a partire, appena possibile (che significa, comunque, non troppo spesso). A differenza dei dubbi, sempre gli stessi, le motivazioni erano ogni volta diverse. Non ho mai tenuto un elenco delle destinazioni da raggiungere (o delle montagne da scalare) per poterle poi depennare. Mi sembrava, e mi sembra tuttora, una cosa stupida. Le mete nascevano lì per lì, sull’onda di un’occasione: muovermi con mio fratello o con un amico, rispondere all’invito di un altro, verificare una lettura o una notizia che mi avevano colpito, a volte semplicemente togliermi per un po’ dai piedi. Non nego che in qualche caso si sia trattato di veri e propri pellegrinaggi, ma anche questi condotti con criteri variabili: ho rispettato ad esempio la “sacralità” del castello di Tegel, dove nacque e trascorse l’infanzia Humboldt, o della tomba di Leopardi, mentre ho poi cercato nella New Forest la lapide in pietra di Alice Liddell, l’ispiratrice di Lewis Carroll, e ho visitato il cottage di Wordsworth e la casa di Thomas Mann a Lubecca.

Adesso arriva l’Islanda. Inaspettata, ormai. Era in programma una dozzina d’anni fa, dovevo attraversala in diagonale con Roberto Bruzzone, uno che divora distanze e pendenze con una gamba artificiale. Poi tutto è saltato, e le avevo messo una croce sopra. Ci ha pensato mia figlia Chiara: ha proposto una cosa molto meno sportiva ed epica, ma deve avere realizzato che per me poteva essere l’ultima occasione, e di questo le sono grato.

27389911203_435f65554b_oI dubbi tuttavia ci sono lo stesso. Perché poi, in sostanza, che ci va a fare uno in Islanda, a meno che non abbia appunto un carnet da riempire? Quando un amico me lo chiede a bruciapelo non ho pronta una spiegazione convincente (per lui, ma prima ancora per me, che già mi stavo interrogando per conto mio). Per quanto ne so c’è forse un albero per chilometro quadrato (e all’interno nemmeno quello), piove trecentosessanta giorni l’anno, a luglio, se va bene, la temperatura è sui tredici gradi, non ci sono musei e città d’arte e gli unici animali un po’ esotici sono le foche. Certo, l’aurora boreale e i geyser, ma per chi non è più in vena di trekking, non ha mai messo piede fuori dall’Europa e ha a disposizione per viaggiare ancora pochissimi anni, ci sarebbero teoricamente altre mete ben più interessanti.

Invece no. Una risposta c’è. L’Islanda ha la precedenza (e mi sa che non sia solo un “precedente”, ma anche un definitivo) perché l’aspettavo da anni: da almeno sessanta, da quando ho letto il Viaggio al centro della terra. Pur non figurando tra i miei libri preferiti, questo ha lasciato il segno. Non per la trama o per i protagonisti, proprio per l’ambientazione. All’epoca sapevo già benissimo che non è possibile scendere più di tanto nel cratere di un vulcano dormiente, ma per come Verne metteva la faccenda si poteva dare libera uscita alla fantasia e lasciarla sfogare appena sotto la crosta terrestre, perché poi è lì che svolge la storia. Soprattutto, però, a colpirmi era stata la parte “realistica”, quella dell’avvicinamento alla bocca dello Snæfellsjökull. Verne descrive una terra povera e ostile, ma al tempo stesso magnetica, e comunque traccia un percorso che chiunque può immaginare di fare. Non c’è nulla di eroico nella prima parte dell’itinerario dei nostri eroi, gli unici incontri sono quelli con i contadini che li ospitano per le tappe notturne: ma l’atmosfera è comunque strana, si carica mano a mano che ci si avvicina al cratere e che il paesaggio diventa se possibile più spoglio e lunare. Non ho impiegato molto ad aggregarmi al trio degli avventurosi.

Un’impressione altrettanto indelebile me l’ha procurata solo la descrizione che delle montagne dell’Atlante faceva Salgari: ma questa forse è più comprensibile, perché piazzava foreste lussureggianti in mezzo al deserto. (e infatti proprio quella potrebbe essere una prossima meta, sempre che alla fine mi trascini sino all’Islanda).

Verne descrive così il paesaggio islandese: “Uscendo dalla casa parrocchiale, il professore imboccò una via diritta, la quale, attraverso un’apertura della muraglia di basalto, si allontanava dal mare. Giungemmo quasi subito in aperta campagna, se così si può chiamare l’immensa massa di detriti vulcanici. Il paese sembrava come soffocato da una pioggia di enormi pietre, di trapps, di basalto, di granito e d’ogni tipo di rocce pirosseniche. Da ogni parte vedevo salire vapori verso il cielo; quei vapori bianchi detti reykir in lingua islandese, provenienti dalle sorgenti termali, confermavano, con la loro forza, l’attività vulcanica del terreno”.

14752137062_ed99faff3c_oNon credo che Verne sia mai stato in Islanda, ho fatto qualche ricerca e non risulta. Ma era uno che si documentava accuratamente, e deve aver letto le descrizioni dell’isola lasciate a partire da Olao Magno (che a sua volta non ci aveva mai messo piede) in poi. Erano disponibili quella di John Stanley, redatta alla fine del Settecento, e soprattutto quella di George Mackenzie, che aveva percorso l’isola in lungo e in largo nel 1810, entrambe comparse nelle Annales des Voyages: ma probabilmente aveva consultato anche opere più recenti. Insomma, il materiale di prima mano non gli mancava e l’ambiente che dipinge, sia pure a grandi tratti, dovrebbe essere abbastanza realistico.

Non era questa comunque la mia preoccupazione quando leggevo il Viaggio al centro della terra (anche se già allora su queste cose ero piuttosto pignolo). Alla prima menzione dell’Islanda ero andato a cercarmela sull’unica, minuscola carta geografica dell’Europa disponibile nel sussidiario, e la lampadina si era accesa lì, davanti alla posizione assolutamente sperduta dell’isola e alla sua forma frastagliata, da perfetta isola del tesoro.

La mia Islanda è rimasta dunque quella di Verne fino all’incontro col più famoso dei suoi abitanti, l’islandese eternamente fuggiasco che si confronta con la natura nel dialogo leopardiano. Qualche dettaglio in più lo avevo però ricavato nel frattempo dal primo atlante scolastico e dalla Storia Universale di Cesare Cantù, che nella prima adolescenza costituì per me un testo sacro, essendo l’unica opera di storia presente in casa. Nello specifico della geografia dell’isola Cantù era meno documentato dello stesso Verne (parla delle “pompe di una rigogliosa vegetazione” e non cita i vulcani), ma quanto alla storia costituiva una vera miniera. Pur essendo un conservatore e un terribile bigotto manifestava per gli islandesi e per la loro democrazia, della quale dimostrava di conoscere bene il funzionamento, un’ammirazione incondizionata: “in quell’asilo di libertà e indipendenza … l’Islanda diventò un’altra Scandinavia, quasi la Provvidenza avesse voluto mantenere colà il tipo originale del nordico mondo … leggi chiare e precise, ed un ordine meraviglioso per repubblica piantata sotto il circolo polare da gente cui fu unica ragione la forza. ..”. Soprattutto ne apprezzava la singolarità e l’indipendenza culturale”… la favella antica, chiamata danese, poi lingua del nord, trasferita in Islanda coll’eleganza conveniente alla nobiltà dei migrati, fu mantenuta con gelosa purezza, mentre le comunicazioni con altri popoli la alteravano in Danimarca e in Norvegia …” ( cito da un taccuino di appunti presi almeno cinquantacinque anni fa: segno che l’argomento, in mezzo a quella mole infinita di notizie, mi aveva particolarmente intrigato)

20405617315_071a17008b_oLeopardi all’Islanda ci era invece arrivato di terza mano, attraverso la lettura della Storia di Jenni, o il saggio e l’ateo, di Voltaire (1775), dove si dice che “Sempre minacciati, gli islandesi si vedon la fame davanti, cento piedi di ghiaccio e cento piedi di fiamme a destra e a sinistra sul monte loro Hekla, poiché i maggior vulcani son tutti posti su tali orrende montagne”. E anche Voltaire parlava per sentito dire. Nello Zibaldone non ho trovato cenno ad altre fonti, e non risulta che Leopardi abbia mai letto Han d’Islanda di Hugo, che pure era uscito un paio d’anni avanti la stesura del Dialogo della natura e di un islandese, e che comunque non gli avrebbe fornito alcuna notizia, perché con l’Islanda reale non ha niente a che vedere.

Leopardi non ha mai conosciuto un islandese – anche oggi dalle nostre parti pochi ne conoscono uno – così come non ha mai conosciuto un pastore kirghiso: eppure poche altre figure letterarie risultano azzeccate come le sue. Non per aderenza alla realtà ma, al contrario, per la valenza simbolica universale che assumono proprio in virtù della loro indeterminatezza. Anche se ho incontrato il suo “geografo del male” a quindici anni, quando si è pieni di sogni e di belle speranze, mi sono immediatamente identificato, e la cosa paradossale è che ho fatto miei sia il primo proposito (“deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in alcun modo di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene al mondo, vivere una vita oscura e tranquilla) che quello finale (mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire). Ancora oggi, non avendone mai conosciuto uno, l’islandese per me rimane quello.

Dopo quelli propiziati da Verne, Cantù e Leopardi (Olao Magno è arrivato molto più tardi) non ho avuto altri contatti significativi con l’Islanda fino ai primi anni novanta, quando mi sono imbattuto nell’ironico e disincantato resoconto di viaggio (Estremo Nord) di un americano, Lawrence Millman. Millman non indulge a immagini idilliache della società e della popolazione islandesi (la notte del sabato a Reykjavik è raccontata come un vero incubo), e non fa sconti nemmeno al paesaggio: “La desolazione dei campi di lava, degli altipiani, delle montagne brulle e delle morene sembra essere stata ufficialmente definita off limits per il genere umano dagli dei dell’era terziaria. Non ci sono cartelli a indicare questo divieto, ma i cartelli sono da sempre proibiti in Islanda, perché fanno apparire sgraziata quella desolazione.”: ma alla fine il risultato è che vorresti comunque essere con lui sull’isola, anche se a volte descrive ambienti da girone infernale.

Questo risultato lo ottiene soprattutto attraverso particolari gettati lì quasi per caso, come quando racconta che nel faro di Hornbjarg, nel Jökulfiördur (Fiordo del ghiacciaio), in uno dei punti più deserti e desolati di quella mano di terra che sembra salutare dal nordovest dell’isola, ci sono 16.000 volumi. Sapevo che l’Islanda è un paese di forti lettori, mi sembra naturale, come per tutti paesi nordici, visto il clima: ma ora so che è il paese in cui si leggono più libri in assoluto. O almeno, si leggevano, perché già Millman allude alla rivoluzione innescata nell’ultimo decennio dello scorso secolo dalle videocassette. Senz’altro rimane comunque il paese con la più alta percentuale di scrittori, e di buona levatura (conta anche un Nobel per la Letteratura, Halldór Laxness, nel 1955). Un islandese su dieci ha pubblicato almeno un libro. Da noi uno su dieci forse lo ha letto. Leopardi sarebbe sconcertato (o forse no). È comunque un altro ottimo motivo per andare a conoscere l’Islanda da vicino. Vederli in faccia, questi formidabili lettori e scrittori.

Il primo serio progetto di attraversamento a piedi dell’isola era nato proprio dall’incontro con Millman, avvenuto tra l’altro in una fase piuttosto disordinata e irrequieta della mia vita. È rimasto, come dicevo sopra, un progetto. Ora che sembra in procinto di concretizzarsi, sia pure in una versione banalmente turistica, scopro che la letteratura di viaggio in proposito si è largamente arricchita. Non corro a divorarla, così come non cerco anticipazioni nel copioso contributo dato dagli islandesi al boom della letteratura poliziesca scandinava, perché preferisco sempre scoprire le cose con i miei occhi, seguendo semmai le mie suggestioni adolescenziali, e confrontami solo a posteriori con le impressioni degli altri: ma non posso fare a meno di sfogliare, e di apprezzare, un libro di Claudio Giunta, Tutta la solitudine che meritate. Lo consiglierò a tutti i miei conoscenti che volessero spingersi sin lassù.

C’è infine un ultimo aspetto, se non bastassero quelli che ho elencato, che fa dell’Islanda una meta ideale per chiudere la stagione dei viaggi: è la patria della democrazia moderna. Un omaggio lo merita. Parlo di qualcosa di molto diverso dalla democrazia greca, perché quella islandese si fondava sul presupposto che tutti gli uomini fossero liberi. Anche senza mitizzarlo troppo, il sistema politico adottato dai colonizzatori nel nono secolo dopo Cristo non poteva che essere tale, come già notava il Cantù, trattandosi di esuli che fuggivano dal dispotismo dei sovrani norvegesi e che per conservare la propria libertà affrontavano un ambiente naturale ostile e una vita da strappare tutti i giorni con i denti. Già a quell’epoca (la data precisa è il 930) misero in piedi un modello rozzamente parlamentare (con un’assemblea generale, l’Alþingi, che si riuniva ogni estate nella piana di Þingvellir); e quel modello ha poi retto bene o male per gli undici secoli successivi a dominazioni straniere e a lotte intestine, istillando negli isolani un fortissimo sentimento civico, un senso di appartenenza che, questo senz’altro, sconcerterebbe ulteriormente Leopardi.

La verità vi prego sui cavalli 03

2 Durante

Lo stordimento ha inizio prima ancora di atterrare, quando uscito dalle nubi inizio a distinguere i colori del terreno. Non sono i verdi o i marroni consueti ma tinte da tuta mimetica, molto vive, un giallo-verde o un giallo-marrone, alternati al nero, che non ho mai visto altrove. Dall’alto l’aeroporto ricorda quelle stazioni polari che un po’ tutti i paesi occidentali, anche noi, hanno in Antartide, e non si sa bene a cosa servano. È solo immerso in un deserto di lava scura, anziché di neve e ghiaccio.

Ma è una volta fuori che comincio ad inquietarmi sul serio. L’impressione è di essere atterrato sulla Luna. Ho sentito dire che gli americani hanno effettuato proprio in Islanda le simulazioni dell’allunaggio (qualcuno sostiene che non si siano limitati alle simulazioni, ma a smentirlo basterebbe un particolare: qui non c’è un filo di polvere), e adesso capisco perfettamente il perché: mentre guido verso Rejkiavik ho davanti a me e ai miei fianchi solo una distesa piatta di pietrame nero ricoperto di muschio giallastro che corre fino all’orizzonte: non un albero, nemmeno un filo d’erba. Sullo sfondo, appena percepibili, grandi coni nerastri.

Ora, che non ci fossero molti alberi lo sapevo, ma qui per scorgere il primo devo attendere quarantacinque chilometri, all’ingresso della città. Sono reimpianti palesemente recenti, lunghe file dritte e isolate di piante che sembrano posticce, così come sembra artificiale la prima erba che comincio ad intravvedere in qualche aiuola. E artificiale pare anche la città: dà l’idea di essere cresciuta di botto (in effetti è così, la popolazione è quadruplicata in ottant’anni), senza seguire alcuna progettazione urbanistica, anche se la presenza di ampi spazi ha evidentemente consentito uno sviluppo non soffocante (anzi, di primo acchito parrebbe sin troppo dispersivo).

Il nostro alloggio è in pieno centro storico, in una traversa della via principale, a un centinaio di metri dal mare. Ma scopro che un centro storico vero e proprio non c’è, e che la via principale della capitale è grande come via Cairoli in Ovada.

La prima reazione dunque (non dico “a caldo” perché fuori c’è un vento gelido che martella naso e orecchie, malgrado sia uscito il sole) è di perplessità. Sarà stata una buona idea? Ho il tempo di rimuginarci, aspettando la notte, perché poi la notte non arriva. Anche qui, uno si aspetta il buio un po’ più tardi, invece il buio non c’è proprio. Niente alberi, niente buio, niente centro storico. Sono perplesso, ma anche affascinato.

Questo stato d’animo perdura nel secondo giorno, mentre percorriamo la pianura costiera che porta verso sud-est. Nella parte più interna si infittiscono i timidi tentativi di rimboschimento. Incontro persino un paio di “cittadine” importanti, completamente anonime, distribuite in largo, senza il minimo accenno a un centro, a una piazza, a un qualsiasi motivo che possa indurti a fermarti se non quello del rifornimento alimentare o di combustibile. Non si capisce dove la gente possa incontrarsi, stanti anche i prezzi proibitivi dei ristoranti e dei pub. Per il resto, trecento chilometri di deserto, punteggiato qui e là da fattorie isolate, con rare pecore che non è chiaro di cosa si nutrano. La differenza rispetto a ieri è che sulla sinistra corre oggi una catena ininterrotta di alture, naturalmente del tutto spoglie, striate dal bianco dei residui nevai, verso le quali ogni tanto si diparte una strada. E dietro le alture ad un certo punto comincia ad occhieggiare un ghiacciaio.

L’impressione più forte rimane quella della solitudine. Quella delle fattorie lontane da tutto, ma anche dell’intera isola. Penso mi sarebbe impossibile trascorrere una vita intera lì, a tre ore d’aereo dalla terra abitata più vicina. Mi sentirei soffocato, prigioniero, anche se poi in sostanza non sono uno che si sposta molto. Viene fuori tutta la natura del provinciale che non ha mai acquisito una consuetudine disinvolta con gli spostamenti aerei. La sera (sarebbe più esatto dire “più tardi”) mi ritrovo a pensare agli abitanti di luoghi come Sant’Elena o Tristan de Cunha, che vivono tutta l’esistenza in un fazzoletto di terra in mezzo all’oceano. Me ne andrei a nuoto, e ho un moto di solidarietà per Napoleone (ma anche per i Repetto che costituiscono la maggioranza dei duecento abitanti dell’isola di Tristan).

Il giorno successivo l’acclimatazione è completata e vedo tutto con occhi diversi. La perplessità lascia il posto a una fascinazione crescente.

Non voglio però raccontare il viaggio. Non l’ho mai fatto con gli altri e non comincerò adesso. Mi limito quindi a elencare le impressioni, in ordine sparso, così come sono arrivate.

20217637408_1ec52d5aa6_oInnanzitutto la luce. La luce e di conseguenza i colori, quelli della terra, del cielo, dei laghi. È probabile che ne abbia una percezione alterata, perché godiamo di otto giorni consecutivi di bel tempo, cosa che qui non accadeva forse da un paio di secoli. Diversamente non si capirebbe la cupezza della pittura scandinava in genere. I colori hanno la purezza assoluta di quelli base della tavolozza, ma la tavolozza sembra essere qui incredibilmente più ampia, e accogliere tonalità e sfumature impensabili altrove. Forse c’entra il fatto che l’inquinamento atmosferico è dieci volte inferiore a quello dell’Europa continentale, salvi i momentanei periodi di attività vulcanica.

Decisamente straniante è anche il persistere della luce nelle ore notturne. Nella mia guida il tramonto è indicato dopo le 23.30 e l’alba verso le 3.00: in realtà tra l’una e l’altra ora c’è la luce tipica di un crepuscolo. Non è mai notte. Questo, per chi ha ritmi biologici regolari, nel senso che dorme secco per otto ore di fila, non disturba più di tanto. Ma chi si alza un paio volte per notte ne esce parecchio scombussolato.

L’abbondanza di acqua. A intervalli, in mezzo al deserto di pietre, si incontrano dei corsi d’acqua piuttosto ricchi, che saltano dalle alture alla piana costiera con spettacolari cascate. I ghiacciai dell’interno sono un’ottima riserva. E non c’è solo quella. C’è l’acqua che sgorga un po’ dovunque dalle viscere della terra, bollente e fortemente solforosa, e che viene incanalata nei termosifoni e nelle docce. Gli islandesi (perlomeno quelli di Reykjavik e dintorni, quindi almeno i due terzi) si scaldano e si lavano con quella. Anche farsi una doccia in questo paese è un’esperienza avventurosa e interessante. Se incautamente apri sull’acqua calda, che arriva direttamente da sottoterra, senza filtri, a novanta gradi, ti porti via la pelle. E se alla fine non ti risciacqui due o tre volte con quella gelida di superficie, che scende dai ghiacciai pochi chilometri più in là, ti rimane addosso un puzzo fortissimo di uova marce, un alone a prova di ripetute insaponature. Il primo giorno l’idea è fastidiosa, poi ti abitui, pensi che è così per tutti e non senti più l’odore.

La viabilità. L’Islanda un paradiso per chi ama guidare. Proporrei di inviare lì per una settimana tutti i neopatentati, a macinare tre o quattrocento chilometri al giorno senza ansie e incazzature. Le strade extraurbane sono praticamente deserte e quelle cittadine, tranne nelle due ore di punta, quasi. L’unico rischio che si corre è quello di incantarsi a guardare il panorama, e uscire sulla prima curva che si incontra dopo trenta chilometri. I lunghissimi rettilinei attraversano scenari incredibili. Si supera un dosso arrivando da un paesaggio lunare e si entra in una valle timidamente verdeggiante, con qualche isolata casetta a ridosso delle alture, mentre quella successiva è nuovamente una distesa di pietre nere che paiono eruttate il giorno prima.

Il piano stradale è perfettamente liscio (insieme ai neopatentati bisognerebbe mandare in Islanda anche le nostre imprese appaltatrici) ed è sempre sopraelevato rispetto al terreno circostante: sembra una striscia d’asfalto gettata su una superfice extraterrestre, soprattutto quando il rettilineo taglia immagini da Valle della Morte, con i crateri sullo sfondo, al posto delle mesetas. Mi vengono in mente i cartoons del Vilcoyote.

Chiara riassume ancor meglio l’impressione. Pare di essere davanti ad un video-gioco, di quelli di una volta, tipo Super Mario: la strada ti viene incontro, segnata ogni trenta metri da paletti gialli che assieme al piano sopraelevato la separano da tutto il resto. La differenza è che qui non compaiono ostacoli all’improvviso, anche le rarissime pecore in fuga dai recinti se ne stanno tranquille ai bordi. Ho percorso in sette giorni più di duemila chilometri, e non mi sono minimamente stancato.

Dell’isolamento ho già detto. È la sensazione immediata più forte, anche se poi si attenua. Rimane invece quella della solitudine, che è cosa diversa (l’isolamento è un dato reale, la solitudine è una condizione percepita). Credo sia tutta questione di abituarsi ad una scala diversa delle distanze. In Islanda si accorciano. Ti rendi conto molto presto che potresti girare tutta l’isola in meno di due settimane (almeno, la parte costiera, quella antropizzata), malgrado la superficie sia un terzo di quella dell’Italia. All’epoca del progetto di traversata a piedi avevamo messo in conto un massimo di dieci o dodici giorni, per un percorso di circa trecento chilometri. Non sono dunque le distanze in sé a creare quella sensazione, ma “le distanze da cosa?” Se si escludono la capitale e a Akureyri, che sta all’estremo opposto dell’isola, non c’è un solo centro abitato degno di questo nome, che valga la pena raggiungere guidando per ore. Ma i parametri di chi vive in mezzo a duecento persone per chilometro quadrato non sono applicabili ad un luogo dove la densità è di tre persone per chilometro. Dubito che i tribunali islandesi siano oberati dalle liti tra “vicini” di casa: con tutta probabilità ogni volta che questi si incontrano è una festa. Cantù osservava: “Ivi non essendo città dove concentrarsi gli uomini e la cultura, gli uni appartati dagli altri abitanti, e rari e difficili i mezzi di comunicazione, manca ogni attrito”.

I vulcani. Sono andato per salire sullo Snaefel, e neppure l’ho visto da vicino. Ho anche affrontato un tratto di sterrato, nei primi contrafforti, contravvenendo da buon italiano alle raccomandazioni degli addetti al noleggio-auto, ma sopra i quattrocento metri si entrava in una nube fittissima e non si vedeva più un accidente. Tornarci in una giornata serena, ammesso che si presentasse, significava affrontare altri cinquecento chilometri. L’ho intravisto invece da Rejkiavik, da oltre cento chilometri di distanza, piuttosto piatto e tutto imbiancato nella parte superiore.

Crateri, cascate e ghiacciai rappresentano lo stereotipo paesaggistico islandese. Al di là di questo, effettivamente suggeriscono l’idea di uno stato primordiale del pianeta. La terra prima dell’uomo, ma anche pressoché priva d’ogni altro segno di vita animale e vegetale. E ancor più questa immagine la ispirano le distese di pietrame lavico nero. La terra com’era prima, ma come potrebbe tornare ad essere dopo. Ciò che Leopardi vedeva eccezionalmente nello “sterminator Vesevo” per il suo islandese era la quotidianità.

I cavallini. In apparenza ci sono in Islanda più cavalli che pecore. In realtà si notano solo maggiormente, perché fanno branco, mentre le pecore sono molto disperse. Sono cavalli bassi, quasi dei pony, e vantano una linea di sangue di purezza assoluta, più che millenaria. Mi hanno spiegato che una legge emanata dall’assemblea del libero stato di Islanda nel 982 (non nel 1982: proprio prima del Mille), e rimasta da allora ininterrottamente in vigore, vieta l’importazione nell’isola di qualsiasi cavallo. Persino quelli che escono dal paese per le competizioni o per qualsivoglia altro motivo non possono più rientrare. Questo si chiama preservare la limpieza. Originariamente il provvedimento fu adottato dopo che il tentativo di incrocio con altre razze aveva dato pessimi risultati, animali non compatibili con le condizioni ambientali estreme: oggi viene mantenuto perché dopo tanto isolamento questi animali non hanno sviluppato alcuna immunità contro le malattie equine esistenti al di fuori dell’isola, e ne sarebbero falcidiati.

Quando ho chiesto il perché della diffusione di questi animali, molto superiore ad esempio a quella delle mucche da latte, che pure ci sono, e costituiscono anch’esse, come i cavalli e le pecore, una razza a parte, non incrociata per un millennio, mi è stato risposto che gli islandesi amano molto i cavalli, li hanno sempre utilizzati per il lavoro e oggi li utilizzano per il divertimento. L’ho presa per buona, Chiara mi conferma che nei menù che abbiamo visionato la carne di cavallo non compare mai: ma mi è rimasto qualche dubbio.

Il numero incredibile di turisti: già a maggio, che è considerata ancora stagione mezza invernale, l’isola ne è invasa. Sono quasi tutti orientali, cinesi, coreani, giapponesi e giù di lì. Ti trovi a riflettere sul fatto che se non fossimo il popolo di idioti che siamo potremmo noi stessi vivere solo di questa risorsa. Ma ti rendi anche conto che l’impatto dei turisti non è poi così “ecologicamente” compatibile. Per cavalcare questa opportunità infatti, che è diventata davvero significativa solo negli ultimissimi anni, gli islandesi stanno stravolgendo le loro abitudini. Vedi girare per Reykjavik enormi Hammer cabinati, con ruote grandi come quelle dei trattori sovietici del secolo scorso, impiegati in settimana per portare gli orientali sin sui ghiacciai e la sera del sabato per lunghe sfilate presbronza nella Laugavegur (la via principale). Di questo passo neanche i ghiacciai islandesi avranno vita lunga.

Credo che chi pensa di andare prima o poi in Islanda debba farlo subito. Forse è anzi già tardi. Certamente i vulcani, i crateri, i ghiacciai, le cascate restano, forse rimarrà anche qualche pecora (ma sono già in diminuzione), ma l’invasione turistica minaccia di essere devastante, e già sul breve periodo.

La tipologia antropologica. Gli islandesi dovrebbero essere vichinghi puri, più degli scandinavi, e forse lo sono. Ma a differenza ad esempio dei danesi, o anche degli svedesi, sono piuttosto grossolani e ordinari, tutt’altro che belli. Colpa forse dell’endogamia protrattasi per secoli, che alla lunga non seleziona i tratti migliori (un po’ come a Mornese)

È senz’altro vero che sono i più forti lettori del globo, lo dicono le statistiche, ma a vederli non si direbbe. Non che esista una morfologia caratteristica che consente di identificare il lettore, però ti aspetteresti di trovare qualcuno che legge al tavolino di un caffè, magari all’interno, stante la temperatura (ma per bersi una birra sembra andar bene anche il dehors): e soprattutto, di incontrare qualche libreria in più oltre l’unica che visto nel centro della capitale. Evidentemente quella della lettura è un’abitudine molto domestica, e funzionano bene le biblioteche. In compenso nell’appartamento che ci ospitava a Reykjavik ho trovato una copia (in inglese) della “Breve storia della vita privata” di Bryson. Questo mi pare un buon indizio.

Il costo della vita. È la prima delle informazioni che verifichi: e ti chiedi subito come facciano a reggerlo. Il reddito medio per abitante è superiore di un quarto rispetto a quello degli italiani, ma i prezzi lo sono di tre volte. Probabilmente i servizi essenziali davvero funzionano. Anche in questo caso però, dopo pochi giorni, fatta l’abitudine al cambio e usciti da Reykjavik, l’impressione si ridimensiona. Si consolida invece quella di un popolo che non bada molto all’ornamentazione superflua (leggi: moda) e che organizza i propri capitoli di spesa in modi molto diversi dai nostri.

L’alimentazione. Della cucina islandese abbiamo conosciuto solo le zuppe. Per il motivo di cui sopra: una cena al ristorante ti prosciuga la carta di credito. Ma credo che non ci siamo persi molto. Ho invece trovato interessante il pesce essiccato “da viaggio”. Sembra fosse un tempo l’alimento da portare appresso quando si affrontavano lunghi spostamenti, che in un luogo come l’Islanda significava impossibilità di trovare cibo per diversi giorni. Qualcosa come il lardo per i nostri contadini e il pemmicam per gli indiani d’America e per i trappers. Ancora oggi viene usato come alimento energetico dai giovani e dagli sportivi. Dicono sia altamente proteico. La caratteristica fondamentale, prima ancora del gusto, è l’odore: puzza in una maniera inimmaginabile. Naturalmente mi ha subito conquistato. Al gusto dopo un po’ ci si abitua, e non è male, ma il vero piacere sta nel mettere quelle scaglie sotto i denti e strapparle. Ho fatto provvista per tutto il viaggio. Le confezioni già di per sé ermetiche erano avvolte in strati successivi di borse di plastica, ma quando si apriva il portellone posteriore dell’auto durante le soste si era investiti da una terrificante zaffata di vecchio angiporto. Volevo contrabbandarne un po’ nel continente, ma mia figlia mi ha fatto giustamente rilevare che ci avrebbero cacciati immediatamente dall’aereo, magari mentre era in volo.

La povertà dell’arte. Ho visitato a Reykjavik quello indicato dalla guida come il museo più significativo dell’arte islandese. Era un’indicazione errata, si tratta di un museo creato negli ultimissimi anni in un tentativo anche un po’ patetico di offrire un panorama delle “tendenze recenti”, e che ospita in realtà cose un po’ pacchiane, rimasticature delle sperimentazioni che hanno infestato il mondo artistico negli ultimi cinquant’anni. Non ho invece visto il museo ufficiale, che dovrebbe essere più ricco, e dove forse avrei potuto trovare echi di quella pittura romantica del nord che tanto mi appassiona. Non c’era più tempo, ma ho anche considerato che non dovevo aspettarmi più di tanto in un paese che fino a pochi anni fa aveva una popolazione inferiore a quella della provincia di Alessandria.

Mi fermo qui. Ho trascurato, certo, di decantare le cascate, i crateri e i ghiacciai, ma quelli si trovano descritti e raffigurati in qualsiasi guida turistica e in centinaia di siti di viaggi e blog di viaggiatori. Sono belli come li raccontano, ma appaiono deturpati ormai dalla presenza costante e sempre più massiccia della specie homo turisticus (noi compresi). Non si tratta di deprecare l’invasione turistica facendo finta o presumendo di essere “viaggiatori” diversi. Ci confondiamo anche noi nella folla, partecipiamo della dissacrazione. Ma questo non mi impedisce di immaginare egoisticamente quanto più belle potrebbero apparirmi queste cose se fossi il solo a goderne la vista. O quanto lo sarebbero se non ci fossi neppure io.

Ps. Un’ultimissima considerazione, che c’entra nulla con l’Islanda ma molto col clima attuale. Sia durante i voli di andata e ritorno, effettuati tutti con la British Airways, che negli aeroporti, ho constatato come le hostess non corrispondano più affatto all’immagine della categoria diffusa dalla filmografia balneare e dalle commedie all’italiana degli anni cinquanta-settanta. Sono tutte signore piuttosto attempate, rispetto allo standard corrente, e nemmeno direi che conservano tracce di un passato rigoglio. Chiara mi ha poi spiegato che si tratta di una politica inaugurata appunto dalla British (ma a quanto pare fatta propria anche dalle altre compagnie) non per offrire pari opportunità a fasce d’età svantaggiate, ma per risparmiare sensibilmente sui costi (paghe ridotte, zero pericoli di maternità, ecc …). Trovo che la cosa sia a suo modo significativa del radicale cambiamento in atto.

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  1. Dopo

Cosa rimane di un viaggio in Islanda?

Di concreto rimane senz’altro una bellissima carta fisica dell’isola, datata agli anni cinquanta del secolo scorso, in scala 1: 400.000: di quelle appese un tempo alle pareti delle aule, e che ora campeggia sopra una delle mie librerie. Non è naturalmente un originale, è una copia molto ben fatta: ma trovo bello che sia proposta come souvenir per turisti. Non ho mai visto nei nostri negozi di souvenir una carta dell’Italia, né fisica, né tantomeno politica. Qualcosa deve pur significare, in termini di orgoglio e di senso di appartenenza.

Rimangono anche alcune curiosità, alle quali mi sono affrettato a cercare risposta. Ad esempio: che fine fanno tutti quei cavallini? Ho risolto il mistero. Vengono allevati per la macellazione, ma la loro carne non rientra ufficialmente nei piatti tradizionali islandesi (al contrario di quella di pecora). È esportata quasi tutta verso l’estremo oriente, soprattutto in Giappone, dove pare ne siano particolarmente ghiotti. Temo però che ora, con l’enorme afflusso di turisti orientali, anche i menù dovranno essere aggiornati.

E ancora: ci sono tanti cavalli in Islanda, mentre ci sono in compenso pochissimi immigrati. Gli islandesi li amano meno. O almeno, così era fino a qualche anno fa, quando gli stranieri non arrivavano all’un per cento della popolazione. Adesso sfiorano il dieci per cento, sono soprattutto polacchi e baltici, e rimangono comunque stranieri. Niente ius soli.

Ora, è evidente che in Islanda non si approda direttamente dall’Africa o dall’Oriente col gommone, ma si direbbe sia difficile arrivarci, per chi non è un turista, anche con altri mezzi. Un paio d’anni fa è stata però firmata da un buon numero di cittadini una petizione per l’apertura controllata delle frontiere ai richiedenti asilo provenienti dalla Siria. Probabilmente molti tra i firmatari sono abitanti delle fattorie isolate, i cui figli stanno fuggendo verso la capitale e le opportunità offerte dal boom turistico. Il governo sta valutando la cosa con molta calma, favorito dal fatto che l’isola non è tra le mete ambite nemmeno dai disperati. Vulcani permettendo, le cose dovrebbero però pian piano sbloccarsi.

E a proposito di vulcani: come ho già detto, sono andato in Islanda per salire lo Snæfellsjökull, e l’ho appena intravisto (ho persino iniziato il mio viaggio il 24 maggio, la stessa data nella quale ha inizio il racconto di Verne).

Nemmeno la democrazia ho visto direttamente in azione, se non negli scarni resoconti dei telegiornali, che dedicavano alla politica interna circa trenta secondi: ma l’ho respirata profondamente. Non ho trovato per strada una cicca o una lattina, neppure dopo i famigerati sabati sera alcoolici di cui parla Millman, e non solo a Reykjavik, ma nemmeno in mezzo ai più remoti deserti di lava: e non mi è capitato di incrociare un solo poliziotto. Se la democrazia è anzitutto senso di responsabilità, in Islanda l’ho incontrata.

Sembra invece che molti riescano a viaggiare con degli speciali occhiali deformanti. Mi spiego. Il senso civico degli islandesi si è espresso qualche anno fa in una decisa reazione alle traversie economiche che avevano condotto l’isola alla bancarotta. In pratica è accaduto questo: le tre maggiori banche del paese, che avevano attirato investimenti di capitali stranieri (soprattutto inglesi, olandesi e svedesi) garantendo rendite altissime, sono fallite, e la comunità internazionale ha chiesto allo stato islandese di rifondere il debito spalmandolo attraverso un’imposta applicata a tutti i cittadini. Questi ultimi naturalmente hanno risposto picche, con un referendum dagli esiti quasi bulgari. Lo stato ha allora concordato di sanare il debito pescando dalle riserve, ciò che ha evitato all’Islanda di essere messa al bando dalla comunità internazionale. In pratica i cittadini hanno pagato lo stesso, e un debito privato è stato rifuso comunque con denaro pubblico, né più né meno di come è accaduto in Italia o in Germania: con l’unica differenza che i manager delle banche là sono finiti in galera.

Quella reazione referendaria ha scatenato però (e questo solo in Italia) la fantasia dei soliti cretini del web, che senza capire nulla di quanto stava accadendo ne hanno diffusa una loro versione. È stata creata in pratica la favola di una rivoluzione con la quale il popolo islandese avrebbe mandato a quel paese i grandi poteri politico-finanziari, rifiutando il debito e cancellandolo unilateralmente. Solo dopo il viaggio, per un interesse di ritorno, sono capitato su blog come “Il cambiamento” e “L’Italia che cambia” che da qualche anno titolano “Islanda, quando il popolo sconfigge l’economia globale” oppure “In Islanda la rivoluzione è tornata”, e incitano gli italiani a mobilitarsi e a seguire l’esempio islandese. Ho capito da dove arrivano le sparate fatte proprie dalla Lega e dai Cinque Stelle durante l’ultima campagna elettorale, che hanno senz’altro contribuito al loro successo. Al vero esempio islandese che andrebbe seguito, quello della responsabilizzazione e del senso civico, nessuno fa cenno.

Ma ho trovato anche di peggio, e questo peggio è perfettamente riassunto nel brano che segue, che riporto per intero perché è una vera summa dello stereotipo. “Notando la prevalenza dei paesi del nord ai primi posti della classifica (della qualità della vita, n.d.r.) mi sono chiesto: “Ma non sono anche quegli stessi paesi in cui c’é il numero più elevato di suicidi ogni anno?” Si perché sembra che i paesi freddi del nord esporrebbero gli abitanti ad un maggiore rischio di depressione. Sarà il sole che in alcuni mesi splende tutto il giorno e in altri non sorge neppure, sarà il freddo, sarà il silenzio e la perfezione del sistema statale, il livello di occupazione alto, la ricchezza. Fatto sta che anche se hai la scuola perfetta o la sanità impeccabile poco importa se poi ti butti da un ponte. Reykjavik oltre ad essere la capitale dell’Islanda è anche l’unica città presente in quella landa desolata, con i suoi 100 mila abitanti ospita praticamente tutta la popolazione dell’intero Stato. Isolati dal mondo civile, chiusi in un paese deserto, i ragazzi islandesi non possono neanche “cambiare” zona; o prendono un aereo o stanno li a morire di freddo. Cosa faranno tutto il giorno? Chiusi nei pub ad ubriacarsi o dentro i gaiser a farsi il bagno!! Si divertiranno? Non posso dirlo non conosco gli islandesi e se si pensa che l’unico contatto che hanno avuto con il resto del mondo è Bjork, si capisce quanto è difficile stilare un loro profilo psicologico. Anyway, sarà il paese più vivibile del mondo e tutto quanto ma preferisco la disastrosa disorganizzazione italiana con i suoi pessimi servizi pubblici se alla fine regala un sorriso in più. Meglio gustare un espresso napoletano nel caos italiano che ritrovarsi nel “perfetto splendore” di ghiaccio di un’Islanda incantata.

Non fosse che l’autore di questa profonda riflessione certamente non ha mai letto Leopardi (gli sbreghi sintattici e grammaticali peggiori li ho corretti io: per una deformazione professionale non sopporto nemmeno di trascriverli) la sua si direbbe una posizione leopardiana, anche per l’indicazione finale del caffè in quel di Napoli (almeno ci ha risparmiato la pizza). Invece è, beninteso, solo una posizione renzarboriana – non da Renzi, ma da Renzo Arbore, che è super partes rispetto alle collocazioni politiche e rappresenta al meglio il sentire comune del nostro paese.

Sulle preferenze, ovviamente, non discuto. Ognuno ha le sue ed è libero di esprimerle – anche se sarebbe opportuno farlo in un italiano corretto e dopo aver conosciuto, almeno un po’, entrambe le realtà che si mettono a confronto. Ad irritarmi è invece il pressapochismo, la pigrizia mentale. Perché all’estensore di questo elogio del caos vivificante sarebbe bastato, con un semplice clic, accedere al sito dell’organizzazione mondiale della sanità per constatare che stava ripetendo un sacco di banalità orecchiate. Nella graduatoria dei tassi di suicidio la Finlandia è solo al ventunesimo posto, la Svezia e la Norvegia si piazzano al trentacinquesimo e al trentasettesimo, ben dopo la Francia, gli Stati Uniti e la Germania, per non parlare del Giappone e di tutti gli stati dell’ex blocco sovietico. L’Islanda, guarda un po’, è solo quarantaduesima, vicina alla Svizzera e subito prima di Trinidad e Tobago. Dopo viene tutta una serie di paesi, compresi la Siria e il Messico e chiusa in bellezza da Haiti, nei quali non è neanche il caso di affannarsi a suicidarsi, ci pensano gli altri o la natura stessa a toglierti il pensiero. L’Italia in questa macabra graduatoria è al sessantaquattresimo posto, ma sappiamo come va dalle nostre parti: un inveterato perbenismo di matrice cattolica induce a rubricare come morti accidentali molti casi di suicidio.

Bene. Avevo già archiviato con un sano rimpianto, puramente turistico, il mio breve soggiorno islandese: ma leggere queste cose mi induce ora ad un ripensamento. Non è che l’imbecillità possa essere considerata un fattore persecutorio, e l’assedio degli idioti possa giustificare una richiesta d’asilo? So guidare un trattore, potrei trovare impiego in una piccolissima fattoria vicino all’Hekla, farmi arrivare con un cargo i miei libri e qualche pacco di caffè, e dare un’occhiata ogni tanto al vulcano, aspettando la prossima eruzione.

Sarei molto più tranquillo di quanto non mi senta qui.

La verità vi prego sui cavalli 05

Cari al cielo

di Paolo Repetto, 21 luglio 2022

Muor giovane colui ch’al cielo è caro
(Leopardi, Amore e morte)

Da un vecchio quaderno a copertina nera (di quelli grandi, con le pagine bordate in rosso) sbuca fuori una lunga lista di nomi. Non è un fatto inconsueto: ormai passo la gran parte del tempo a rovistare in cassetti e scartafacci e a spulciare polverosi faldoni, e di questi ritrovamenti ne capitano un sacco. Un tempo ero un compilatore seriale di liste: stilavo elenchi di libri “urgenti” o comunque “indispensabili”, di brani musicali per la colonna sonora dei miei viaggi, o indici per saggi che non ho mai portato a termine o addirittura mai intrapreso a scrivere. Li ho sparsi un po’ dovunque, nelle agende e nei block notes accumulati in quasi tre quarti di secolo (ho cominciato molto presto) o in fogli volanti che non mi decido mai a buttare. E mi compiaccio ogni tanto nel constatare che qualcuno di quei programmi l’ho anche realizzato, che alcune di quelle voci le posso spuntare. Purtroppo però ho smesso di compilare liste ormai da un pezzo, e questo è un segno inequivocabile dell’età: ogni lista era infatti un progetto per il futuro.

Quella rinvenuta nel quadernone mi ha intrigato particolarmente. Non ho un’idea precisa del periodo cui risale. È un elenco di personaggi che avevano suscitato per motivi diversi il mio interesse, e comprende figure eterogenee, alpinisti ed esploratori, militanti anarchici e scienziati, artisti e sportivi, ecc … Sono almeno una cinquantina. Sul retro compare però una seconda lista, più ristretta, che raccoglie dodici nomi scelti tra i precedenti: e questo numero è stato raggiunto attraverso successive cancellature e aggiunte.

Questa seconda lista ha fatto scattare il filo della memoria: non per un qualche collegamento evidente tra le attività svolte dai personaggi prescelti, che anzi, hanno operato tutti in ambiti molto diversi, ma appunto per il numero. Dodici sono infatti i mesi dell’anno (lo sono anche gli apostoli, ma qui non c’entrano), e quell’elenco era finalizzato alla realizzazione di una sorta di almanacco laico, di un calendario che in capo ad ogni mese presentasse un personaggio fortemente simbolico – almeno per me – e consentisse, a partire da quello, di trattare in poche righe i temi più disparati. E fin qui, direi, nulla di particolarmente strano: lo schema forniva un pretesto come un altro per fare quello che ho sempre fatto, ovvero viaggiare a ruota libera, con una parvenza minima di sistematicità.

Occorreva però che tra i vari personaggi corresse un filo. Come dicevo, questo non era rappresentato dal tipo di attività svolta, né da una particolare provenienza, e neppure da esperienze condivise: era invece legato ad un banale (insomma!) dato anagrafico. Tutti coloro che sono inclusi nell’una e nell’altra lista hanno infatti in comune il fatto di essere morti prima dei quarant’anni. Il perché di questo criterio un po’ strambo, e nello specifico dell’assunzione di quel limite, non lo ricordo: la spiegazione più plausibile è che fosse legato alla mia età di allora. Aggiornando Dante alle aspettative di vita attuali potevo considerare i quaranta “il mezzo del cammin di nostra vita”.

Avevo quindi iniziato col compilare una lista di personaggi che a dispetto della scomparsa prematura hanno lasciato una traccia profonda nella storia e nella cultura. Non che intendessi iscrivermi al loro club e mettermi in concorrenza: sono da sempre a mio agio nella vita e ho per fortuna una nitida coscienza dei limiti del mio ingegno, coi quali convivo senza eccessive recriminazioni. Volevo invece proporre degli exempla, che nascevano dalla curiosità e dal desiderio di rendere, nel mio piccolo, giustizia a certi protagonisti sottovalutati della storia. Le precocità eccezionali mi hanno sempre intrigato (e infatti ne ho scritto altrove), ma in questo caso si trattava di andare oltre, presentare esistenze la cui parabola potesse considerarsi in qualche modo compiuta. Col che non intendo “chiusa”, non pensavo che a questi protagonisti non restasse altro da dire o da fare, ma ritenevo che le loro esistenze fossero pur nella loro brevità estremamente significative. Per capirci: uno che a trentanove anni ha alle spalle L’infinito e La ginestra e tutto quello che c’è in mezzo, il suo tempo lo ha impiegato benissimo, e se gliene rimanesse potrebbe viverlo di rendita.

***

A questo punto sarà già chiaro che il nome che compare in testa alla lista, anzi, in entrambe le liste, è quello di Leopardi. Accanto c’è un segno di spunta, e credo di sapere cosa significasse. Di Leopardi a quell’epoca avevo già scritto, e più ancora ho scritto dopo, per cui la spunta ci sta tutta. Ma se il progetto di almanacco fosse andato in porto, nella pagina dedicata ai letterati avrei probabilmente scritto di altre parabole esistenziali brevi e compiute, legate ad altri nomi che compaiono nel primo elenco; a quello di Rimbaud, ad esempio, o di Poe, ma soprattutto alla meteora ancora più breve di Stig Dagerman. Dei primi due da qualche parte ho trattato, mentre la pratica Dagerman è rimasta purtroppo inevasa, non posso mettere alcuna spunta, e nemmeno avrà l’opportunità di aprire una prossima lista. Per questo mi ci soffermo.

cari al cielo02 Stig DagermanStig Dagerman potrebbe essere ospitato anche nel mese degli anarchici, ma io l’ho conosciuto prima di tutto come letterato. Ero rimasto folgorato dal suo ultimo libro di racconti, Il Viaggiatore. Folgorato significa in questo caso annichilito, agghiacciato: un simile spietato faccia a faccia con la realtà l’ho ritrovato poi solo nei libri di Thomas Bernhard. La stupefazione non si è ripetuta con i romanzi, perché c’è un limite anche a quanto a lungo uno è disposto a reggere un simile sguardo: ma ho poi letto quel concentrato di disperazione e angoscia, mista alla volontà di sperare, che è Il nostro bisogno di consolazione. Per leggerlo occorrono non più di cinque minuti: il problema è poi digerirlo. Qui ne riporto un paio di citazioni che potrebbero andare in esergo ad un possibile mini-saggio:

Posso camminare sulla spiaggia e all’improvviso sentire la spaventosa sfida dell’eternità alla mia esistenza nell’incessante movimento del mare e nell’inarrestabile fuga del vento. [,,,] Ma può accadere sulla spiaggia che la stessa eternità che ha poco fa suscitato la mia paura sia ora testimone della mia nascita alla libertà. […] Posso riconoscere che il mare e il vento non potranno che sopravvivermi, e che l’eternità non si cura di me. Ma chi mi chiede di curarmi dell’eternità. La mia vita è breve solo se la colloco sul patibolo del calcolo del tempo”.

Ecco, l’almanacco avrebbe dovuto proporre indicazioni di questo tipo, e qualche breve considerazione o citazione in proposito, a partire sempre dai nomi della lista definitiva, ma coinvolgendo poi anche tutti gli altri. Dal momento che ormai ho preso l’avvio, posso farlo in parte adesso, andare sino in fondo e azzardare un abstract di quel che avrebbe potuto ospitare. È un esercizio mentale del tutto gratuito, buono solo per queste interminabili giornate di afa: ma può tornare utile almeno a rinfrescare un po’ la memoria, e non solo la mia.

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cari al cielo03Dunque: inaugurato l’anno con i letterati, febbraio l’avrei potuto riservare agli artisti. Il mese corrisponde bene all’immagine (quasi sempre falsa) di vite povere e disperate, di pasti saltati e di studi gelidi. È un’immagine che va bene per Modigliani, per Van Gogh e per Caravaggio, un po’ meno per Pellizza da Volpedo e per Egon Schiele, per nulla con Raffaello. Tutti sono comunque accomunati da un’attività frenetica. Schiele, ad esempio, che avevo scelto come testimonial ufficiale della categoria e che è morto di spagnola a soli ventotto anni, ha lasciato circa trecentoquaranta dipinti e duemilaottocento tra acquarelli e disegni, mentre Van Gogh fu autore di quasi novecento dipinti e di più di mille disegni. Danno l’idea di una corsa disperata a produrre, quasi presaghi di un tempo limitato a disposizione.

Resta l’interrogativo di quel che avrebbero potuto fare in una seconda parte della loro vita. Non è detto che avrebbero continuato a produrre capolavori. In effetti potevano finire anche come De Chirico o come Picasso, a ripetere sempre più stancamente le stesse cose. Sono pochi gli artisti che abbiano superato nella maturità i risultati ottenuti nella giovinezza. Questo perché “Lo stile può trasformarsi in maniera. Questo avviene quando l’artista diventa consapevole del suo stile e di conseguenza viene meno l’immediatezza che caratterizzava la relazione tra lui e il suo stile. La perdita dello stile è una forma di oggettivazione, alienazione o esteriorizzazione. Gli artisti giungono a vedere il loro proprio stile dal punto di vista esterno della terza persona. Chagall forse aveva uno stile ma ora ha una maniera, e spesso si accusa di essere un auto-plagiario o, per essere generosi, di ripetere se stesso” (Regina Wenninger, Lo stile individuale dopo la fine dell’arte).

Dopo la fine dell’arte, appunto, e dopo il trionfo del mercato.

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Di marzo vi do una peschiera,
[…] con pescatori e navicelle a schiera
e barche, saettie e galeoni
le quai vi portino tutte le stagioni
a qual porto vi piace a la primera.
(Folgore da San Giminiano)

cari al cielo04Marzo sembra un mese adatto ai viaggiatori e agli esploratori. Il nome che compare nella mia lista definitiva è quello di Mungo Park. È probabile lo avessi scelto perché non avevo ancora trovato né una edizione dei suoi scritti né una biografia dedicata. A tutt’oggi i suoi Viaggi all’interno dell’Africa non sono mai stati tradotti in italiano, così come non esistono nella nostra lingua sue biografie. Per averne notizie bisogna ancora rivolgersi alla Treccani. La stessa cosa accade comunque per René Caille, mentre le vicende di Meriwether Lewis e di John Hanning Speke sono abbastanza conosciute, non fosse altro perché sono stata raccontate in un paio di bel film.

Park morì mentre cercava di discendere su una canoa il corso del Niger e tentava di difendersi dai continui attacchi che gli erano portati dagli indigeni. All’epoca della progettazione del calendario non avrei dovuto tenere conto del Black Lives Matter, il movimento che abbatte i monumenti e vuol cancellare la memoria di coloro che a vario titolo sono considerati complici dell’asservimento e dello sfruttamento dei popoli di colore. Non lo faccio nemmeno ora, naturalmente, perché mi sembra uno dei cascami più stupidi della cultura “post-modernista”, ma non posso evitare di sottolineare come al momento in cui il fenomeno è esploso, un paio d’anni fa, ci sia stata la solita corsa dell’intellighentia di sinistra per mettersi al pari, Saviano in testa e gli altri subito dietro. Rendendosi ancora più ridicoli, perché hanno poi dovuto esibirsi in acrobatici distinguo per tenere in piedi il Colosseo o la Colonna Traiana.

Ma al di là di queste patetiche rincorse alle mode d’oltreoceano, il tema serio è quello del prevalere odierno della memoria particolaristica sulla storia. Una umanità senza storia è una umanità senza futuro. E infatti, questo pare il nostro destino.

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cari al cielo05Aprile, “il più crudele dei mesi”, non poteva essere dedicato che agli alpinisti. Sono quelli con le più alte probabilità di uscire prematuramente di scena. La ricerca di nomi da iscrivere nella lista non era stata difficile: ne compaiono addirittura dieci. Si parte da Mummery, che ricompare nell’elenco ristretto, perché in effetti la sua figura mi ha sempre affascinato, e poi vengono nell’ordine Mallory, Comici, Gervasutti, Paul Preuss, Willo Welzenbach, Casarotto, Gian Piero Motti e Andrea Oggioni. Ho poi saldato il mio debito con tutti costoro ne La tentazione dell’inutile, da cui riporto alcune considerazioni maturate nella mia pur limitatissima esperienza alpinistica: che è stata comunque quella della fine di un mondo e di un modo genuino e “divertito” di confrontarsi con la montagna, e dell’ingresso definitivo nella “lotta con l’Alpe” e nella spettacolarizzazione mercificata di quest’ultima. Di qui la simpatia per Mummery, che considero l’ultimo dei puri.

L’alpinismo non scaturisce da una naturale spinta biologica. Questa spinta non esiste in natura perché non risponde ad alcuna strategia di sopravvivenza o riproduttiva. Nessuno stambecco ha mai sentito il bisogno di salire in vetta al Gran Paradiso, pur vivendo appena mille metri più in basso. Il desiderio di scalare una montagna appartiene solo all’uomo: può essere giustificato, a seconda delle epoche, in maniere diverse, con motivazioni politiche, religiose, scientifiche, nazionalistiche, superomistiche, sportive, economiche o legate al successo: ma è comunque frutto di una elaborazione culturale. In due sensi: nel primo perché l’assenza di fini concreti in un’azione che richiede sacrificio, impegno, dispendio energetico, e al limite anche assunzione di rischio, è misura della distanza di questa azione dai dettami dell’istinto. Nel secondo perché penso che l’affermazione vada presa anche alla lettera; non è un caso se la gran parte degli alpinisti ha un livello di cultura superiore, e se un tempo la cosa poteva dipendere dalla diversa disponibilità di tempo e di denaro nelle differenti classi sociali, oggi questo discrimine non esiste più.

L’alpinismo è dunque una forma di cultura, per un verso soggetta al variare dei climi culturali, storicizzata, per l’altro legata ad un modo d’essere “naturalizzato” degli umani, effetto reversivo dell’evoluzione.

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Maggio è invece tutto per gli anarchici, altra categoria ad alto rischio. Lo è perché nel maggio del 1937 veniva ucciso a Barcellona da sicari stalinisti Camillo Berneri, del quale ho poi raccontato ne Le foglie secche dell’utopia, e che per me rappresentava già la figura esemplare per eccellenza. In realtà nella lista grande compaiono meno nomi di militanti dell’anarchismo di quanti avrei potuto aspettarmene. (Gaetano Bresci, Sante Caserio, Michele Schirru) tutti peraltro appartenenti all’ala “bombarola”, alla scuola di Bakunin, nella quale non mi sono mai riconosciuto. È vero che ci sono anche Bartolomeo Sacco e Nicola Vanzetti, anarchici di altra pasta, più vicini alla mia idea della militanza: ma non mi sorprende constatare che i grandi anarchici, quelli che all’azione hanno saputo unire un percorso di pensiero coerente, sono stati capaci di sopravvivere a lungo, a dispetto di vite rocambolesche, senza perdere il loro smalto.

cari al cielo06Il commento lo lascio a uno morto anche lui troppo presto, non tanto però da rientrare nei “cari agli dei”: Gustav Landauer.

Rivoluzione è diventata una parola alla quale ci siamo abituati a tal punto da non potercene staccare, anche se non ci crediamo più. Ci sono bambini che già da tempo sono in grado di bere dalla tazza, come si deve e a modino, ma non vogliono abbandonare il ciuccio.

Nel frattempo, però, coloro che non sono responsabili del fatto che la rinascita profonda e radicale della società tarda a venire, devono continuare a lavorare con energia e coraggio. A noi, che un tempo avevamo la rivoluzione nel cuore, spetta continuare a servire fedelmente l’amata segreta, anche se le dobbiamo attribuire altri nomi: bisogna creare organizzazioni economiche fondate sul mutuo appoggio, contando su tutti coloro che vogliono e possono farlo; educare all’autonomia e all’iniziativa individuale; organizzare la vita in modo indipendente e coraggioso; promuovere la rivolta contro ogni forma di autoritarismo; fare piazza pulita dei cascami e del marciume del passato, che s’insinua nel presente sotto forma d’istituzioni minacciose e ancora potenti. C’è così tanto da lavorare con se stessi e con gli altri che non si deve affatto disperare per il fatto di essere nati per caso in un tempo che mostra un volto diverso da quello che prima pareva ostentare.

Mi dilungo nella citazione di Landauer perché davvero le sue parole mi sembrano uscire dal tempo, e quindi anche dai limiti imposti al mio almanacco.

cari al cielo07È diventato quasi un dogma tra gli anarchici considerare l’uccisione dei capi di Stato, una volta compiuta, come qualcosa di anarchico. Si tenga conto che quasi tutti gli attentatori degli ultimi decenni si sono effettivamente nutriti di principi anarchici. Coincidenza singolare dirà l’ingenuo, perché cosa mai può 90 avere a che fare l’uccisione di altri uomini con l’anarchismo, con la dottrina del raggiungimento di una società senza Stato e senza costrizione autoritaria; cosa c’entra con il movimento contro lo Stato e contro la violenza legalizzata? Proprio niente. Ma gli anarchici si rendono conto che dottrine e proclami non bastano: non si può erigere la nuova società a causa della violenza di coloro che detengono il potere, pertanto – argomentano – accanto alla propaganda svolta con i discorsi e gli scritti e accanto all’opera di costruzione bisogna iniziare anche un’opera di distruzione. Sono troppo deboli per abbattere tutte le barriere, quindi è almeno necessario sollecitare l’azione, e poi con questa fare propaganda. Se i partiti politici fanno attività politica positiva, allora anche gli anarchici, come singoli, devono fare antipolitica positiva, cioè attività politica negativa. Tale ragionamento spiega l’attività politica degli anarchici, la propaganda del fatto, il terrorismo individuale. Non esito a dire con grande nettezza – e so bene che non mi guadagnerò encomi né da una parte né dall’altra – che l’antipolitica degli anarchici muove in parte dal tentativo di un piccolo gruppo di imitare i grandi partiti. Alla base c’è smania di protagonismo. Anche noi facciamo politica, dicono, non siamo inattivi, ed essi devono fare i conti con noi. A me pare che questi anarchici non siano abbastanza anarchici, perché rimangono un partito politico e addirittura portano avanti una primitiva politica riformatrice: uccidere uomini fa parte degli ingenui tentativi di miglioramento dei primitivi.

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Nella lista compaiono diversi altri nomi di libertari e di rivoluzionari, da Felice Orsini a Piero Gobetti, da Pisacane a Matteotti, fino ai fratelli Rosselli e ad Emiliano Zapata. Alcuni di loro non figurano tra gli anarchici solo perché non si sono mai definiti tali, e ciascuno avrebbe potuto degnamente rappresentare nel mese di giugno un più ampio schieramento libertario. Io ho scelto Gobetti, pur essendo molto tentato anche da Pisacane e da Orsini. Come Landauer, Gobetti aveva idee molto chiare sui rischi di una democrazia che non si fondasse in primo luogo su una rivoluzione delle coscienze, e sulle possibili involuzioni totalitarie di una rivoluzione calata dall’alto.

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

cari al cielo08Dove le condizioni obiettive non sono mature per uno sviluppo rigoroso, abbiamo processi patologici che dagli stessi principi conducono a conseguenze contrastanti; il liberismo diventa socialismo di stato, il liberalismo democrazia demagogica o nazionalismo dilettantesco, come in sede culturale la dialettica cede all’eristica e alla retorica.

E aveva anche lucidamente presenti le caratteristiche peculiari del popolo italiano:

In pratica le cose in Italia non cambiano mai, cambiano i nomi e le occasioni della storia, ma, in definitiva, i nostri mali e i nostri vizi rimangono sempre desolatamente uguali.

Il fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali: per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

Il mussolinismo è […] un risultato assai più grave del fascismo stesso, perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza.

Potrebbe scrivere le stesse parole ancora oggi.

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Luglio possiamo riservarlo ai pensatori e ai filosofi, e la scelta del capofila era all’epoca dettata dal mio entusiasta rapporto con l’opera di Furio Jesi e dal fatto di averlo mancato per un soffio di persona. Avremmo dovuto incontrarci un fine settimana, eravamo curiosi l’uno dell’altro, io senz’altro molto più di lui, ma Jesi era morto per un incidente domestico due giorni prima dell’appuntamento. Aveva naturalmente trentanove anni.

cari al cielo09Non mi ero appuntato molti altri nomi: solo Otto Weininger, Carlo Michelstaedter e Claudio Baglietto. I pensatori e gli studiosi sembrano vivere molto a lungo (è scientificamente provato che pensare allunga l’esistenza: immagino sia per questo che l’aspettativa di vita ultimamente si sta abbassando) e comunque, dovessi stilare oggi la lista, non saprei chi aggiungere. Non era solo l’età del decesso ad intrigarmi, ma ciò che l’aveva preceduta. Weininger e Michelstaedter addirittura si erano dati la morte a ventitré anni, ma prima avevano prodotto cose come Sesso e carattere e La Persuasione e la Rettorica. L’una e l’altra opera possono essere discutibili sotto molti aspetti (quella di Weininger praticamente sotto tutti), ma appunto, obbligano alla riflessione, alla discussione, e lasciano intravvedere uno sforzo intellettuale immane. Forse proprio il timore di non poter andare oltre ha determinato le tragiche scelte degli autori. Baglietto era invece allora un filosofo quasi sconosciuto, e lo rimane ancor più oggi. Non ha lasciato opere epocali, ma ha testimoniato la sua tempra etica, di stampo kantiano, rompendo con l’ambiente accademico che gli faceva ponti d’oro (Gentile era un suo sponsor convinto) e scegliendo di contrapporsi al fascismo con l’esilio.

Quanto a Jesi, andrebbe riletto oggi con attenzione, magari anche con atteggiamento critico, per ritrovare i fondamentali della distinzione tra destra e sinistra, quella distinzione che oggi si dichiara scomparsa: “La cultura di destra è quella entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra”.

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Per la seconda metà dell’anno ho faticato un po’ a definire altre categorie. Quelle individuate all’epoca mi sembravano meno rappresentative, senz’altro erano meno rappresentate nelle mie liste. Evidentemente ad un certo punto il gioco, oltre ad essere ozioso, rischiava di diventare anche noioso. Anche ora comincio ad annoiarmi un po’, ho già la mente ad altri intriganti rinvenimenti, per cui cercherò di tirar via il più velocemente possibile. Ma non assicuro di riuscirci.

cari al cielo10Agosto vede comunque protagonisti gli scienziati. Nella lista avevo appuntato un paio di matematici, Evariste Galois, naturalmente, e Niels Abel, e altrettanti fisici, Ettore Majorana e Aldo Pontremoli, accomunati soprattutto dalla tragicità delle loro vicende e in un paio di casi dal mistero che ancora le circonda. Galois è famoso, prima ancora che per il suo contributo alla soluzione delle equazioni algebriche, per l’assurdità delle circostanze della sua morte. Il norvegese invece non lo è, mentre meriterebbe cento volte di esserlo, sia per l’impulso fondamentale dato alla disciplina che a risarcimento della sfortuna che lo accompagnò lungo tutta la sua breve esistenza. Per due volte Abel presentò a università diverse, in Danimarca e a Parigi, delle memorie scientifiche che avrebbero rivoluzionato gli studi matematici, ed entrambe le volte l’ambiente accademico le smarrì. Il che può farci immaginare quanto altro sapere debba essere andato disperso nel confronto con istituzioni culturali come minimo fossilizzate e distratte, e più spesso governate da logiche lobbistiche. È quindi Abel, cui fu recapitata la nomina ad una cattedra all’università di Berlino due giorni dopo che era morto praticamente di stenti, l’uomo di agosto.

Abel scriveva: “Per arrivare ad un risultato specifico, bisogna dare al problema una forma tale in modo che sia sempre possibile risolverlo, cosa che si può sempre fare con qualsiasi problema. Invece di affaticarci intorno ad una soluzione che non sappiamo se esista o no, domandiamoci piuttosto se tale soluzione è possibile… Presentando il problema sotto questa forma, l’enunciato stesso contiene il germe della soluzione e indica la strada che deve essere presa per giungervi, e io credo che vi siano pochi casi in cui non si possa arrivare a risultati più o meno importanti, anche se non si può rispondere completamente al quesito a causa della complessità dei calcoli”.

Si riferiva alla soluzione delle equazioni generali, quelle di grado superiore al quarto. Ma mi sembra che l’indicazione di metodo possa valere per qualunque problema, di qualsiasi tipo: prima di pretendere una soluzione, cerca di capire la vera natura del problema.

Più in generale però gli scienziati confermano quanto dicevo sopra sulla longevità di chi studia e pensa molto. Ho constatato che tendono a campare sino ad età molto avanzate (la Levi Montalcini ne è un esempio recente), e soprattutto ad arrivarci in piena lucidità. E sono la categoria che trae maggior vantaggio da una prolungata esperienza, ovvero che migliora invecchiando.

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Settembre è allietato dai musicisti. Al contrario degli scienziati, i musicisti sembrano però godere di una salute piuttosto cagionevole. Alzando solo di un paio d’anni il limite ne avrei imbarcati parecchi altri. Non so darmene alcuna spiegazione. Anche così comunque la rappresentanza era già notevole. Ci rientravano Mozart, Chopin, Bellini, Schubert, Mendelssohn Bartholdy, Georges Bizet. E mi ero limitato a pescare nell’arco di meno di un secolo, in quello che considero il periodo d’oro della musica.

cari al cielo11Credo che per i musicisti valga almeno in parte quanto ho già detto per i pittori e gli artisti in generale. Il rischio è la ripetitività. E tuttavia la reazione indotta è diversa: un ascoltatore è portato a cercare e ad apprezzare il riconoscimento di una particolare “impronta”. L’ambizione di ogni musicofilo è di riconoscere da quattro note prese a caso qualsiasi sinfonia. Ora, non voglio infilarmi in speculazioni per le quali non ho gli strumenti, ma mi sembra ovvio che nasca tutto dalla diversa modalità della percezione. Nell’ascolto entra in ballo il tempo anziché lo spazio. Mentre i colori e forme sono fissati e immobili, i suoni arrivano in sequenza, viaggiano, e sono resi più significativi proprio dal loro ritorno. Ho trovato qualche giorno fa questa considerazione (di un pittore che ama la musica): “Il brano mi provoca l’emozione in quanto ce l’ho dentro, lo conosco e so che di lì a poco, mentre ascolto il susseguirsi delle note iniziali, sta per arrivare la parte che mi colpisce maggiormente. È come quando aspetti una persona cara alla stazione, e sai che quando il treno si ferma scenderà, a momenti”. Rende bene l’idea. È vero che mi procura emozione anche vedere un dipinto, e che se si tratta di un’opera che amo particolarmente questa emozione si ripete ad ogni nuovo incontro; ma non posso negare che di fronte alla sua “immobilità” si attivi anche la razionalità analitica, che mi spinge di volta in volta a coglierne sempre più i dettagli anziché l’assieme. Questo mi spiega perché, ad esempio, dell’impressionismo apprezzi più l’espressione musicale (Ravel, Debussy, …) che non quella pittorica. E perché all’epoca avessi scelto George Bizet come uomo di settembre.

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cari al cielo12Le due categorie successive risultano in realtà un po’ forzate e non del tutto congruenti con il progetto dell’almanacco. Quella dei personaggi dello sport, ad esempio, per la quale avevo annotato i nomi di Serse Coppi, di Stan Ockers, di Alessandro Fantini e di Tommy Simpson (quest’ultimo poi inserito anche nella lista ristretta), non ha molto senso. È evidente che uno sportivo a quarant’anni deve aver già dato tutto il meglio di sé, sia esso un pugile o un ciclista. A meno di far rientrare nella categoria i giocatori di scacchi, quelli di bocce o quelli di biliardo. Io avevo pescato solo nel mio sport preferito. Ci sarebbe stata anche la boxe, e lì il problema non era certo quello di trovare atleti morti prematuramente: negli ultimi centotrenta anni ne sono deceduti sul ring più di seicento. Era piuttosto di trovare un senso, una giustificazione a queste morti, che infatti non ne hanno. I ciclisti che ho nominato sono scomparsi invece all’apice di sfolgoranti carriere, due di loro erano stati campioni del mondo, tutti avevano vinto grandi classiche. La loro parabola era almeno parzialmente compiuta. Sono rimasti nella storia dello sport come dei vincenti. Tutto sommato è giusto che illustrino il mese di ottobre, quello in cui si chiudono le competizioni su strada e si fanno i bilanci.

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Altrettanto difficile era stato, a giudicare dalla lista, individuare protagonisti fortemente simbolici tra i personaggi dello spettacolo. Scartati i nomi più ovvii, da James Dean a Marylin Monroe, attorno ai quali è scattata l’artificiosa mitologizzazione della società dello spettacolo, avevo finito per annotare il solo John Garfield.

Garfield aveva in effetti tutti i requisiti. Era cresciuto nelle gang di strada, aveva scaricato la sua aggressività nella boxe, per quasi un anno aveva vagabondato per tutto il paese saltando da un treno all’altro come Jack London, si era affermato nel teatro e affiliato a un gruppo di simpatizzanti della sinistra: tutto questo prima dei vent’anni. Poi erano venuti la carriera cinematografica, il successo con Il postino suona sempre due volte, la fondazione di una casa produttrice indipendente, la messa sotto accusa durante la caccia alle streghe scatenata dalla commissione McCarty. Al momento della morte, poco dopo il compimento dei fatidici trentanove anni, la sua parabola era in netto declino.

Una biografia avvincente, sotto ogni aspetto: ma il tratto fondamentale, per quanto mi concerneva, era il legame col mondo della boxe. Garfield non solo l’aveva praticata, e a buon livello, ma l’aveva portata due volte sullo schermo, in Hanno fatto di me un criminale e soprattutto in Anima e corpo, uno dei film più duri e realistici mai girati sul pugilato. Li ho visti entrambi, ad una età nella quale il mio sogno maggiore era la cintura europea dei mediomassimi (non quella mondiale: come ho già detto, avevo una precoce conoscenza dei miei limiti, e a livello mondiale giravano allora personaggi come Cassius Clay e Archie Moore).

I film sul pugilato costituivano un avvenimento. La televisione era di là da venire, almeno a casa mia, e seguivo gli incontri per radio, cercando di immaginare i montanti, gli uppercut, le schivate. Visto sullo schermo tutto questo, per quanto fittizio, era ben altra cosa. Anima e corpo, Stasera ho vinto anch’io, con Robert Ryan e L’uomo di ferro, con Jeff Chandler, erano schizzati in testa al mio indice di gradimento, superavano persino i migliori western. E gli attori che li interpretavano sono rimasti a far parte del mio ristrettissimo pantheon.

Dagli anni Sessanta, dopo che i miei sogni avevano ormai gettata la spugna, di film sul pugilato ne sono stati girati parecchi, un centinaio almeno. Dalla interminabile saga di Rocky a Il campione, da Toro scatenato fino ad Alì e oltre. Ma non è più stata la stessa cosa: il colore, gli effetti speciali, il sangue che schizza sull’obiettivo, tutto questo li rende esasperati e poco credibili.

cari al cielo13L’eroe-simbolo del mese di novembre è dunque Garfield, del quale riporto una battuta tratta da Il postino suona sempre due volte: “È come quando stai aspettando una lettera che non vedi l’ora di ricevere, e tu fai su e giù davanti alla porta per paura di non sentire il postino. Non tieni conto che il postino suona sempre due volte”.

Una lettera, magari col francobollo? Ma in che mondo, in che secolo ho vissuto?

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cari al cielo14Se qualcuno è riuscito a seguirmi sino a questo punto si sarà accorto che non ho ancora citato una sola figura femminile. Nella lista originaria in realtà alcuni nomi di donna c’erano, ma ho preferito raggrupparli in una categoria e in un mese a parte. Senza alcun intento discriminatorio, checché se ne vorrà pensare: se non avessi fatto così avrei rischiato davvero di non citarle o di lasciarle a margine. Nella lista compaiono i nomi di Ada Lovelace, la figlia di Byron, una matematica che già nella prima metà dell’Ottocento aveva contribuito alla realizzazione della prima macchina analitica, un rudimentale computer; di Rosalind Franklin, che scoprì il DNA ma venne vergognosamente esclusa da un Nobel strameritato, di Charlotte Brönte, delle viaggiatrici Isabelle Eberhardt, Annemarie Swarzenbach e Amelia Earhart, e infine quello di Simone Weil, poi transitato nell’elenco ristretto, per la filosofia. Sulla Weil, che era stata oggetto del mio primo (ed unico) corso tenuto all’università, sono tornato a più riprese, anche ultimamente, prendendo a dire il vero una sempre maggiore distanza. Non è dunque lei la regina di dicembre. In un libro letto recentemente[1]. ho invece scoperto che la Franklin era riservata, aspra e diffidente, poco attraente e molto gelosa del proprio lavoro (il suo rivale Watson, quello che le sottrasse il merito della scoperta, la definisce come “la terribile e bisbetica Rosy”). Sarebbe bastato anche meno a rendermela simpatica. Merita di essere il simbolo di questo mese che non cancella il passato ma lo archivia, e apre al futuro.

Dovessi aggiornare ad oggi le liste mi troverei in difficoltà. Le donne hanno la scorza più dura e tagliano più facilmente la boa dei quarant’anni. E fioriscono intellettualmente più tardi. Per un motivo semplice. Una donna deve impiegare metà della sua esistenza a liberarsi degli stereotipi che le hanno inculcato, degli abiti che le hanno cucito addosso, e riesce ad esprimersi compiutamente solo dopo. Questo alla longevità, si guardi ad esempio ad un qualsiasi elenco delle viaggiatrici più famose: a parte le tre che ho citato io, vi figurano una centenaria (Freya Stark) e diverse ultranovantenni: lo stesso vale per le scienziate.

Al di là di questo andrebbe comunque chiarita una volta per tutte l’annosa questione: la scarsa presenza femminile, e non mi riferisco solo alle mie futili liste, ma più in generale ad ogni narrazione storica, è solo frutto di pregiudizi radicati in una cultura e in una società maschiliste, o ha motivazioni oggettive? Non è certo un almanacco semi-serio la sede più adatta per dirimerla, ma penso che almeno un paio di telegrafici spunti di riflessione possano venire anche da queste pagine.

Partiamo dai dati di fatto. Il dimorfismo sessuale esiste in natura, è comune a tutte le specie, ed è particolarmente accentuato proprio tra quelle a noi più prossime, i primati antropomorfi. Negli umani, peraltro, si è di molto ridimensionato, almeno per quanto riguarda peso, altezza, ecc., e questo in conseguenza del carattere reversivo della evoluzione culturale. In altre parole, la progressiva redistribuzione dei ruoli tra i due generi ha favorito la selezione di caratteristiche morfologiche meno distintive. Quindi, non ci piove sulle differenze, tra le quali quella di fondo, e almeno per il momento l’unica ancora incontestabile, rimane la funzione riproduttiva: ma non piove nemmeno sul fatto che le differenze si vadano riducendo.

Ora, io credo che occorra distinguere tra ciò che è una condizione e ciò che rappresenta una situazione. La condizione è un dato di natura, la situazione è un portato storico, cioè culturale. Il dato di natura è che fino ad oggi l’anatomia maschile è risultata più adatta a certe attività, lavorative, militari o ricreative, il portato storico è che queste attività sono state costruite nel tempo su misura dell’anatomia maschile, quello culturale è che tale “superiorità” fisica è stata poi estesa a presunzione di superiorità intellettiva e trasportata in altri ambiti, quali quello politico, quello scientifico e più genericamente tutti quelli delle attività di ingegno.

La polarizzazione dei ruoli ha toccato il suo apice nelle civiltà classiche (in quella greca più che in quella romana), ha cominciato ad essere erosa dal cristianesimo (almeno da quello originario) e nel corso del medioevo, ha retto a stento ai colpi della rivoluzione scientifica e a quella industriale, è stata messa sotto accusa a partire dall’Ottocento. Con la conseguenza che là dove i “limiti” biologici non entravano in gioco, o quelli supposti dalla cristallizzazione dei ruoli erano superati dall’avvento di tipi e modalità diversi di espressione (un esempio potrebbe essere, in letteratura, il passaggio dal poema cavalleresco al romanzo, o più ancora, l’avvento della stampa e quindi di nuove modalità di fruizione della lettura) si sono create situazioni di “pari opportunità”. La Austen, le sorelle Brönte e Virginia Wolf non sarebbero d’accordo, ma nessuna scrittrice contemporanea potrebbe negarne l’esistenza. Lo stesso vale, sia pure con qualche ritardo in più, per la musica e per le arti.

Bene, a questo punto devo allora a maggior ragione spiegare (e quando scrivo spiegare non intendo “giustificare”: l’almanacco è mio e me lo immagino come voglio io) l’esigua presenza di figure femminili nelle mie liste. È presto fatto. Le mie liste riguardavano alcune attività nelle quali i limiti biologici sono prevalenti, e altre nelle quali non erano ancora stati superati i tabù dettati culturalmente. Gli esempi possono essere quelli dell’alpinismo, o delle esplorazioni, per il primo caso, e quello dell’anarchismo per il secondo. Voglio dire con questo che l’alpinismo è un’attività riservata ai maschi, perché hanno fisici più robusti? No, intendo dire che è un’attività prima di tutto “pensata” con mentalità maschile (spirito di conquista e di avventura), che nasce e che si basa su un tipo particolare di consapevolezza fisica. Che venga poi esercitata oggi ad ottimi livelli anche da donne non è una prova di “parità”, e nemmeno, a voler essere sinceri, di “pari opportunità”, perché quelle biologiche non lo sono affatto. Significa solo che anche alcune donne hanno adottato un rapporto “aggressivo” con la montagna, non in competizione, ma ad imitazione dei maschi. Tanto più la cosa vale per altri sport, come il calcio, il rugby o il pugilato. Questi non sono passi avanti, ma denunciano anzi una colonizzazione in profondità della psicologia femminile.

Altro discorso va fatto per la scarsa visibilità delle donne in categorie (anarchici, libertari, ecc…) che sino a ieri sono state appannaggio “culturale” dei maschi. In questo caso l’idea che si tratti di una presenza “gregaria” è frutto del persistere di una deformazione ottica che coglie e privilegia solo attività “muscolari”, perché in realtà ogni momento “rivoluzionario”, dalla nascita del cristianesimo all’esplosione delle eresie, dalla rivoluzione francese alla resistenza al nazifascismo, ha sempre trovato le donne in prima linea. Si pensi ad esempio all’operato di Ada Gobetti o a quello di Giovanna Caleffi e Maria Luisa Berneri, rispettivamente moglie e figlia di Camillo. Eppure le loro figure rimangono nell’ombra dei mariti o dei padri.

Perché non erano “care al cielo”, per loro fortuna, ma soprattutto perché la lista l’ho compilata quarant’anni fa, quando ancora contavo di redigerne un sacco di altre, e magari di riservarne alle donne una specifica, basata su criteri un po’ meno peregrini. Ora il tempo non c’è più, ma almeno un accenno sono riuscito a farlo. Evitando di porgere omaggi, ma riconoscendo loro semplicemente quello che loro spetta.

Alla fine, l’almanacco è praticamente già composto. Non resterebbe che aggiungere qualche immagine, inserire il calendario, reimpostare la grafica e stamparlo. Ma temo che il tempo massimo per gli almanacchi sia scaduto da un bel po’. Persino il passeggere leopardiano tirerebbe dritto senza acquistarlo.

[1] Brenda Maddox, Rosalind Franklin: La donna che scoprì la forma del DNA, Mondadori, 2004

Andai nei boschi e … inciampai

di Fabrizio Rinaldi, 20 giugno 2021

C’è in tutti noi un limite alla tolleranza, superato il quale c’è chi spara, chi sbraita, chi fa finta di nulla e tira dritto divenendo indifferente: e poi c’è chi scrive. In questo ultimo caso non lo si fa per trovare altri che la pensino al nostro stesso modo, o per convincerli a farlo, ma per non sparare o per non mettersi a urlare. Io il limite l’ho toccato leggendo una frase semplicissima, apparentemente innocente, che recensiva l’ennesimo libro-fotocopia di Tiziano Fratus sugli alberi: “Venite a camminare nei boschi, le foglie vi insegneranno saggezza”. A quanto pare ho soglie di tolleranza basse.

Le foglie vi insegneranno la saggezza! No, non ne posso più dei professionisti della fitness naturistica, di chi celebra le proprietà salvifiche dello stare nei boschi, di chi propina cure antidepressive basate sul vivere nel verde, di chi crede al potere rigenerante dell’abitare nelle campagne, e lo fa dal teleschermo o ingolfando le librerie.

Io in mezzo alla natura ci vivo da sempre. Sono nato e cresciuto fra le colline dell’ovadese, sin da piccolo ho rastrellato campi, zappato l’orto, vendemmiato, sfrondato rami e sistemato balle di fieno nella cascina dei nonni. Divenuto adulto, ho finito per fare altro di mestiere, ma ho perseverato nel vivere in campagna piuttosto che in città, proprio per gli indubbi vantaggi di tranquillità, benessere e, non ultimo, di un costo della vita più vicino alle mie possibilità.

Un po’ dunque la campagna la conosco, e so per esperienza che queste cose sono in parte vere. So anche, questo per un po’ di semplice buon senso, che l’essere umano nella natura ci sta a suo agio da sempre (senza che qualche sapientone glielo spieghi), e so persino che ciò è possibile, tra l’altro, per la presenza nel sottobosco, nell’orto e un po’ ovunque nell’habitat naturale, del batterio Mycobacterium vaccae che, attivando il rilascio di serotonina, riduce l’ansia e favorisce il rafforzamento del sistema immunitario.

Ci vivo, ma non sono più saggio di chi abita nella metropoli solo perché distinguo l’acero dal pino. Le foglie rastrellate in autunno non mi hanno mai svelato il vero significato della nostra effimera esistenza. Sarò insensibile ai poteri sapienziali dell’ambiente naturale (che poi di “naturale” non ha più nulla) ma, pur riconoscendo i privilegi dello stare qui piuttosto che a Marghera o a Rovereto, non ne ignoro i costi in fatica fisica e scomodità.

Quindi mi sento in diritto di dire la mia. Che non è poi solo la mia. Se proviamo a domandare a chiunque viva di prodotti agricoli – ma “viva” davvero di questo e non sia un millantatore –, dirà che sì, vivere nel verde è delizioso, ma anche che “la terra è bassa”. Che cioè per ripagarti con uno stipendio appena appena dignitoso ti chiede una gran fatica. È bello vedere ex-direttori di banca o rampolli di buona famiglia che si reinventano come imprenditori agricoli di successo: sarebbe però interessante anche capire di quali risorse, e relazioni, hanno potuto disporre, e soprattutto se tutto questo ha ancora davvero a che fare col vivere nella natura.

Andai nei boschi e inciampai (3)Perché anche già soltanto a viverci, nella natura, è fatica. Dopo una nevicata, anziché fermarmi a rimirare romanticamente il paesaggio innevato, se voglio raggiungere il posto di lavoro in tempo o accompagnare le bimbe a scuola devo armarmi di pazienza, pala, turbina e … spalare, senza contare troppo su aiuti esterni. Arrivata la primavera è necessario porre rimedio agli effetti di neve, acquazzoni, frane e altre amenità più o meno naturali, andando a tagliare gli alberi stroncati dalle gelate e dal peso dei fiocchi, a liberare i fossi, a ripristinare il muretto di contenimento e così via.

Ci sono poi i disagi nei rapporti col “mondo esterno”, quello che sta là fuori. Ad esempio, la reale velocità di internet che posso raggiungere qui: di vedere l’ultima serie su Netflix certamente me lo scordo (non che mi interessi particolarmente, però ogni tanto un film …), ed è già un miracolo che le mie figlie siano riuscite a seguire le lezioni in DAD durante la pandemia, tra continue interruzioni di rete e voli funambolici dalla connessione della saponetta internet di casa all’hotspot del cellulare.

Le distanze per fare acquisti, necessari e superflui che siano, sono oggettivamente irrisorie. Ciò che non trovo qui vicino posso facilmente trovarlo, ordinarlo e averlo in pochissimi giorni attraverso Amazon. Ma se voglio andare oltre il facile acquisto e visitare ad esempio una mostra devo spostarmi di almeno 30-50 km. Per capirci: in questi giorni è uscito un documentario intitolato “Paolo Cognetti. Sogni di grande nord”, che mi intrigava molto: ci ho rinunciato, perché lo proiettavano solamente per pochissimi giorni, e solo in alcuni cinema di Genova e di Cuneo. Non proprio a due passi.

Peccato, perché prometteva bene: l’autore di “Le otto montagne” e il suo amico Nicola Magrin (bravo illustratore dei libri di Rigoni Stern, Levi, Terzani e molti altri) raccontano il loro viaggio a piedi in Alaska, citando la gran parte degli scrittori di viaggi e natura a me cari. Potrà sembrare una piccola rinuncia, ma io ci tenevo molto. Per un motivo molto semplice.

L’aver letto i moltissimi autori che dal Romanticismo in poi hanno trovato negli spazi naturali la loro ispirazione mi aiuta ad accettare i disagi e le fatiche dello stare qui. È confortante sapere che personaggi del calibro di London, Kerouac, Chatwin (beh, lui no: si sa che era refrattario allo sforzo), Thoreau, Emerson, Frost, Krakauer e gli italiani Calvino, Pavese, Rigoni Stern, Camanni, hanno provato la fatica dello stare in natura. A ragion veduta Leopardi scriveva: “O natura, o natura / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?” (da “A Silvia”).

Mentre metto via la legna per l’inverno penso al “vecio” Rigoni intento a fare altrettanto. Quando squarcio la neve per raggiungere l’auto che ho lasciato prudentemente in cima alla salita lo faccio meglio se rivado ad una situazione simile raccontata nei fumetti di Ken Parker. Se grondo sudore a zappare mi viene in mente ciò che fece Thoreau nei primi mesi del suo isolamento: non lesse, ma piantò fagioli.

La cosa funziona: nel senso che se condivisi con i miei eroi anche i gesti più banali, i lavori più ripetitivi, acquistano subito un altro sapore. Ciò non toglie che i gesti occorra compierli e i lavori affrontarli. La saggezza, l’equilibrio, il benessere, vengono da quelli, e non dalle foglie. Quando sai che la terra è bassa ci cammini sopra in un altro modo: meno leggero, magari, ma più consapevole.

Quindi: venite pure a camminare nei boschi, ma assieme alle bibite e ai panini portatevi dietro tanto buon senso. Non sperate di vederlo colare dai rami delle piante. I boschi non insegnano nulla, ci offrono solo l’occasione di concentrarci un po’ di più su noi stessi. Lo dice anche Thoreau in Walden o vita nei boschi: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”.

“Quanto essa, la vita, e non le foglie, aveva da insegnarmi”. È noi che dobbiamo interrogare, e i testi delle domande non ce li devono scrivere i nuovi guru naturisti. E se non siamo in grado di farlo da soli, allora ce li meritiamo.

Andai nei boschi e inciampai (5)

Thoreau descrive nel suo libro una esperienza di vita appartata, lontano dai rumori e gli odori delle città, ma non al punto da impedirgli di incontrare ogni tanto qualcuno con cui dialogare. Credo che questa sia la condizione che ho cercato anch’io nel luogo dove abito. Pur ammettendo una certa affinità con Dinamite Bla che, nei fumetti Disney, dal suo Cucuzzolo del Misantropo, caccia i seccatori con l’archibugio caricato a sale, mi reputo una persona accogliente, propensa all’ascolto e ad imparare dagli altri quando hanno qualcosa da insegnargli. In me convivono la propensione a un pensiero non conformista e una sensibilità ai temi ambientali, ma ritengo che questi debbano essere vissuti nel quotidiano, in un rapporto concreto, e quindi non idealizzato, con il luogo dove vivo: solo su questa base si possono fare scelte, personali e/o politiche, fondate e non velleitarie, per non divenire preda di inciviltà. In tal caso, dietro la porta non ho il fucile, ma – a ragion veduta – l’arco e le frecce. Non si sa mai.

Andai nei boschi e inciampai (2)

Tutto sommato sono ottimista. C’è una qualche speranza di essere per il futuro in buona compagnia: negli ultimi anni è comparsa un’innegabile attenzione per i cambiamenti climatici, una consapevolezza che non esisteva negli anni del dopoguerra e del boom economico. Per i più questa consapevolezza si ferma all’acquisto di prodotti bio o alla raccolta differenziata, ma certamente ci sono anche molti che provano davvero ad attuare scelte di minor consumo, magari non acquistando l’ultimo libro che parla delle interazioni bioenergetiche fra gli alberi, bensì provando a piantar pomodori invece che comprarli.

È una scelta complessa, e sicuramente elitaria, poiché non è concepibile una popolazione intera che viva in modalità “minimalista” (non in “decrescita felice” perché – a parer mio – i termini sono incompatibili), e spersa nelle campagne e sulle montagne perché in antitesi con un’economia basata sull’acquisto di scempiaggini.

Il vero salto di qualità comporterebbe divenire parte integrante della classe politica ed imprenditoriale, per incoraggiare dall’interno queste diversità: ma temo che per questo, sempre che sia poi realisticamente possibile, ci vorrà ancora qualche scossone.

La natura i suoi avvertimenti li dà, e da un bel pezzo. Sta a noi finalmente svegliarci dal torpore del “benessere” a buon mercato, e coglierli. Ma dobbiamo farlo con la nostra testa, senza abbracciare nuovi credi e religioni. I credi e le religioni nascono tutti con buonissimi intenti, ma finiscono poi inevitabilmente per creare delle chiese, un clero, dei dogmi, e per riaddormentare le coscienze. Qui si tratta invece, ad esempio, di volere e realizzare (in qualche caso, perché no, anche imporre) delle scelte di presidio “vero” del territorio, che non può essere demandato – e lo vediamo benissimo tutti i giorni –alle istituzioni, ai carrozzoni delle protezioni civili o alle giornate di pulizia dei fiumi o dei boschi, ma va gestito direttamente (e quindi, in qualche forma non assistenzialistica) proprio dalle comunità appartate territorialmente: questo non solo per garantire la cura costante di luoghi che oggi corrono verso lo sfacelo idrogeologico, con contraccolpi anche nelle città (vedi le inondazioni che immancabilmente avvengono alla prima pisciata del cielo), ma anche per innescare fiducia in un modello di convivenza differente e possibile.

Insomma, dobbiamo finirla di guardare alle scelte di vita appartate e rurali come ad esperienze “strane”, eccezionali, buone per i servizi televisivi dei programmi “verdi”, chiuse in se stesse e riservate a pochi eletti, o ad originali e un po’ strambi con l’archibugio sempre a portata di mano, che sopravvivono grazie alle melanzane coltivate nell’orto. La valorizzazione realistica e concreta (e non la spettacolarizzazione) delle micro-economie ancora esistenti o di quelle che stanno rinascendo e delle esperienze sociali a queste connesse può offrire grossi spunti di riflessione per ragionare su un’economia fondata su differenti paradigmi e su modi diversi di stare al mondo. Leggere la diversità sociale come un gesto artistico è né più né meno come marginalizzarla. Leggerla come una possibilità concreta, diffusa, terra terra, è un antidoto alla monocultura consumistica.

Non abbiamo bisogno di nuovi evangelisti. Sono sufficienti onesti divulgatori, che non traducono il linguaggio delle foglie, ma sanno fare quattro conti su costi e ricavi “globali” dei diversi tipi di rapporto con la terra, e sanno che la terra è bassa. Alla Carlo Petrini, per intenderci.

Andai nei boschi e inciampai (4)Collezione di licheni bottone

… dell’ultimo orizzonte / il guardo esclude

di Paolo Repetto, 30 aprile 2020

Per titolare questa raccolta ho malamente saccheggiato un’espressione leopardiana, forzando il verso da cui l’ho tratta a un significato opposto a quello originario. La siepe che escludeva lo sguardo di Leopardi da ogni lato in realtà liberava la sua immaginazione, lo portava a sollevarsi da terra come a bordo di una mongolfiera (all’epoca, anche la più sfrenata delle fantasie non aveva immaginato lo Shuttle), a vedere l’orizzonte allontanarsi verso l’infinito, a perdere il senso del tempo, sino al punto da causargli uno “spauramento” del cuore e della mente.  Il virus che abbiamo di fronte noi, al contrario, annichilisce ogni nostra capacità di immaginare un domani, di proiettarci in una prospettiva futura, e ci costringe a vivere da fermi quello spazio che virtualmente conosciamo sempre più grande, e teoricamente mai come oggi aperto e percorribile.

In un’altra occasione avevo descritto la struttura de “L’Infinito” paragonandola a un sistema di assi cartesiani, con il tempo computato sulle ascisse e lo spazio nelle ordinate, e con l’autore che partendo dal punto zero e salendo in verticale introduce, tramite l’ascensione impostagli dalla siepe, una terza dimensione, perpendicolare ad entrambe le altre: il suo è appunto un  moto verso l’infinito, attraverso il quale lo sguardo può sganciarsi dal presente per cogliere il passato e il futuro, e si stacca dal qui per perdersi in distanza, nell’altrove.

Ebbene, noi viviamo la condizione opposta. La zavorra del virus non ci permette di staccarci da terra e dal presente, non scorgiamo un futuro e questo rende irrilevante anche la conoscenza del passato. Vediamo solo virtualmente il mondo intero, e persino l’universo: telecamere e mappe satellitari e sonde spaziali ce li mostrano nei minimi dettagli, ma sentiamo che non ci appartengono, quando va bene, oppure, peggio, che celano un pericolo.

Non sto annunciando la fine del mondo: il mondo ha conosciuto epidemie, pestilenze e tsunami e follie umane ben più devastanti, che hanno provocato ogni volta decine e decine di milioni di morti: ed è comunque sopravvissuto, “più bello e più forte che pria” avrebbe detto Petrolini. È anche probabile che il contagio che oggi ci angoscia si lascerà alle spalle una scia di morti inferiore, almeno in proporzione, rispetto quelle di altri flagelli che hanno decimato le popolazioni di interi paesi. Forse alla fine i grandi numeri daranno ragione a chi ritiene sopravalutata la pericolosità del covid 19. Ma io non mi riferisco all’effetto epidemiologico, bensì a quello psicologico. I danni più gravi li porterà non la diffusione del contagio, che pure ha “realizzato”, reso tangibile, lo stato effettivo della globalizzazione, ma la percezione che ne abbiamo.

La novità di questa percezione sta nel fatto che abbiamo potuto seguire la progressione di questa epidemia in tutto il globo minuto per minuto, e che come noi lo ha fatto tutta quanta l’umanità. Questo non era mai accaduto prima. Ogni area viveva separatamente il suo dramma, e aveva vaghe notizie, o nulle, di quelli vissuti in altre parti del mondo. E queste parti di mondo erano comunque sempre circoscritte. Di quei flagelli è rimasta la memoria storica e letteraria, ma non certamente una memoria come questa, universamente condivisa, di una vicenda che ha coinvolto tutti in prima persona, non fosse altro attraverso i provvedimenti restrittivi.

È una memoria diretta che interesserà almeno quattro generazioni. Poi anche questa si perderà, ricoperta dalle macerie delle calamità future e dalla vegetazione delle rinascite. È possibile che di questo momento già per i nostri nipoti rimangano solo i numeri, o il vago ricordo di un periodo strano in cui si usciva pochissimo di casa. Ma anche quando la improvvisa trasformazione del modo di vivere, di stare assieme, di pensare e di sperare sarà ormai metabolizzata (e questo avverrà, indipendentemente dalla introduzione di vaccini preventivi o di piani antipandemici e di terapie efficaci) nel profondo dell’inconscio l’idea che sia esistito un prima, e che questo prima era diverso, rimarrà. Vale forse la pena allora scriverne, anche se lo stanno facendo in troppi, e testimoniare dal vivo questa trasformazione.

 

I diseredati

di Paolo Repetto, 7 marzo 2019

Qual è il titolo della poesia dedicata da Leopardi a Teresa Fattorini, la concittadina morta in giovanissima età?” Gli occhi del concorrente s’illuminano. Stavolta va sul sicuro: “La vispa Teresa.” Un secondo dopo la metà del boccone che stavo masticando torna nel piatto, mentre l’altra s’incastra tra esofago e trachea. Negli spasmi della tosse rovino all’indietro con la sedia, ma per fortuna due mani soccorrevoli mi bloccano all’ultimo momento e mi percuotono violentemente la schiena. Evito d’un soffio lo strozzamento, anche se porterò i lividi per una settimana. Fossimo in un telefilm di Law & Order farei causa alla RAI per tentato omicidio e chiederei un risarcimento sostanzioso.

In un paese normale a una cosa del genere dovrebbe seguire la fustigazione del concorrente, irrogata subito, in diretta, e nei giorni successivi una interrogazione parlamentare. Invece non accade nulla. Il conduttore del programma glissa, se è indignato non lo dà a vedere, non si mette a piangere e nemmeno passa alle maniere forti. Assegna un pallino rosso, la gara continua. Siamo al duello finale, e su dieci domande complessive i due sfidanti collezionano nove pallini rossi. Lo spettatore occasionale potrebbe pensare ad una serata speciale riservata agli idioti, invece questa è quasi la norma. Lo so perché non sono uno spettatore occasionale.

Devo fare outing. Come tutti, ho anch’io le mie perversioni. Questa de “l’Eredità” è una forma particolare di masochismo, peggiore ancora del vizio del fumo. Mi ci dedico spesso perché occupa i tempi morti che precedono o accompagnano la cena, e produce danni materiali contenuti, al massimo qualche piatto rotto. È una pratica ambigua: ricorda la vecchia barzelletta del tizio che si dava martellate sulle dita delle mani, asserendo di godere ogni volta che sbagliava la mira (nella versione originale in realtà non si parlava di dita). Penso sia mossa dalla perversa volontà di vedere fino a che livello può scendere l’ignoranza, dopo che il fondo del barile è stato raschiato via da un pezzo e si scava ormai nel terreno. Non nego che possa esserci sotto sotto, inconfessata, la speranza di venir contraddetto, e che eccezionalmente accada anche questo: ma le vere emozioni me le assicura l’ignoranza, perché i record di profondità in assetto libero sono costantemente battuti.

“L’Eredità” è la versione democratizzata e post-moderna di “Lascia o raddoppia”. Lo è in termini quantitativi, perché andando in onda tutti i giorni ininterrottamente da anni ha offerto sino ad oggi la possibilità di partecipare ad una platea enormemente più ampia: e lo è nel format, perché una parte delle domande prevede la scelta tra diverse opzioni proposte, come nei test all’americana, e le eliminazioni si verificano attraverso lo scontro diretto tra due concorrenti: ma la “democratizzazione” riguarda soprattutto i contenuti, perché gli argomenti interessati possono essere i più peregrini e assurdi.

All’epoca di Mike Bongiorno, checché ne pensasse Umberto Eco, si valorizzava se non altro una certa forma di erudizione, nozionistica quanto si vuole ma concreta. Oggi, per coinvolgere indiscriminatamente tutti e in linea con una concezione usa e getta della conoscenza (leggi: spazzatura, settore indifferenziata), le domande possono vertere sui colori preferiti da Lady Gaga, sui riti scaramantici di un calciatore o di un attore, ecc … Mentre i campioni di “Lascia o raddoppia” si guadagnavano un’ammirazione reverente, perché portavano a casa i cinque milioni (di lire) ma soprattutto perché, in virtù di doti speciali di intelligenza, di memoria o di impegno, erano detentori di un sapere che faceva premio, quelli de “l’Eredità” suscitano al più invidia, come i vincitori al “Gratta e vinci”, per aver goduto di una botta di buona sorte.

La ricaduta a pioggia in termini di autostima è indiscutibile. Dal momento che la gran parte dei quesiti è di livello elementare o demenziale tutti ne escono gratificati. A casa, davanti al televisore, ognuno può ritagliarsi la sua postazione vincente: persino i bambini bruciano sul tempo i concorrenti, confortando i genitori sulla bontà di fondo delle loro conoscenze e avallando domani, nei colloqui con gli insegnanti, la protesta per le valutazioni inique.

In realtà il gioco è affidato essenzialmente alla fortuna o al capriccio degli autori, che a domande quasi offensive nella loro stupidità alternano ad esempio la richiesta di riconoscere termini desueti, o di uso prettamente tecnico: col risultato che la selezione non dipende affatto dall’intelligenza, sia pure da una sua forma cumulativa, o da una robusta conoscenza di base, ma dalla casualità della successione e dall’assurdità dei quesiti. La prova finale della ghigliottina poi, che pure intende valorizzare almeno le capacità associative, è resa insensata dall’arbitrarietà dei riferimenti che dovrebbero evocare la parola misteriosa (il titolo di una canzonetta, il nome segreto di un supereroe della Marvel, ecc …).

Prescindendo comunque degli appunti critici, che alla fin fine riescono scontati e non meno banali della trasmissione stessa, si deve ammettere che anche “l’Eredità” ha i suoi meriti (il che vale come risposta preventiva all’obiezione: perché allora la segui?). Questi meriti non nascono dal paragone vincente con quanto offerto dalla concorrenza, da “Uomini e Donne” alle varie isole dei famosi o alle vite in diretta, ma dal fatto che il programma documenta molto meglio dell’Istat – e anche delle trasmissioni “impegnate”, quelle storiche di Paolo Mieli o quelle artistiche della quinta rete – la realtà antropologica e culturale di questo paese. Più precisamente, di quella parte di popolazione che al suono della parola cultura non mette subito la mano alla pistola come faceva Goebbels. Insomma, del livello culturale di una fascia che potremmo classificare già sopra la media. Da ciò si può poi facilmente desumere il livello di chi – la maggioranza – ne sta al di sotto, che solo per il momento la pistola non l’ha ancora e che anziché a concorrere a “l’Eredità” si candida giustamente a ruoli di rappresentanza, amministrativi o di governo. Mentre gli esponenti più significativi della classe politica attuale, i due Mattei, sono stati entrambi portati alla ribalta un quarto di secolo fa da trasmissioni a quiz del modello intermedio, di transizione, tra “Lascia o Raddoppia” e “l’Eredità”, gli esponenti dell’ultima generazione, ad esempio Di Battista, sono stati scartati persino da programmi come “Amici”. Anche quest’altro livello comunque può essere direttamente verificato: basta scegliere in alternativa, nella stessa fascia oraria, i programmi condotti da Bonolis.

Seguire “l’Eredità” consente in definitiva di avere costantemente il polso della situazione, di monitorare in tempo reale la neppur troppo lenta agonia cerebrale di un mondo in trasformazione. È la più attendibile opportunità di verifica della condizione culturale che lasciamo ai nostri eredi. I quali, se ne avessero piena consapevolezza, dovrebbero come minimo disconoscerci.

Al di là della facile (e purtroppo amara) ironia con la quale possiamo condirla, la situazione è sconfortante. Il problema sta nella accezione post-moderna che si vuole imporre del termine “cultura”, quella appunto perfettamente certificata da “l’Eredità”.

Io associo la cultura al caffè: è cultura tutto ciò che mi sveglia il mattino e mi rimette in moto ogni giorno, che mi aiuta a convivere meglio con me stesso e con il mondo, soprattutto ad avvertire la discrepanza tra ciò che è e ciò che dovrebbe o potrebbe essere. E non è vero che disturbi il sonno: anzi, dormo peggio se non prendo un caffè anche dopo cena – e in genere è il quinto o il sesto – o se mi rendo conto di non aver imparato nulla di nuovo nella giornata.

Il contrario della cultura è invece associabile agli alcoolici o agli stupefacenti: a tutto ciò che serve a far dimenticare, a consolare o a vedere una realtà stravolta. Ora, l’idea di cultura che oggi tende a prevalere, con l’imprimatur di fior di filosofi e psicologi da baraccone, si riassume nell’asserzione che è cultura tutto l’esistente, “il mondo com’è”: comprendendo nell’esistente quella dimensione effimera e virtuale che è stata costruita in funzione della società dello spettacolo. Questo produce un effetto, appunto, stupefacente: addormenta, rimbambisce, induce ad accontentarsi di significati della vita prêt à porter, immediati e futili, a nutrirci di effetti speciali privi di ogni sostanza.

Quando si asserisce che in fondo anche conoscere il colore delle mutandine di Rihanna o i nomi dei protagonisti dei serial televisivi è cultura, nel senso che aiuta a capire, a socializzare, a condividere, a spiegare, si dice una castroneria o si mente deliberatamente: aiuta a condividere solo una rappresentazione “mitologica” creata a fini commerciali e consumistici, che con la vita reale ha nulla a che vedere. È vero che noi oggi studiamo la mitologia greca o quella azteca o degli Azande, e che anche queste erano costruzioni “virtuali”: ma non è la stessa cosa, perché quelle mitologie rispecchiavano una concezione della realtà, ne offrivano una possibile interpretazione (e accettazione) in assenza di spiegazioni scientificamente fondate. Dietro Atena che combatte al fianco degli Achei c’era la coscienza nascente della natura duplice e ambigua del nostro carattere, dietro il diluvio universale c’erano i cambiamenti climatici che hanno caratterizzato l’alba della nostra storia: se vogliamo, persino dietro i miracoli di Padre Pio c’è ancora la miseria di gente tenuta lontano dalla cultura e bisognosa di sentirsi miracolata (vedi il caso del nostro attuale premier, devoto del santo, che più miracolato di così davvero non si può). Certo, queste cose venivano poi manipolate a fini politici di dominio o economici di sfruttamento: ma nascevano da moventi seri e in qualche modo, pur con tutti i loro limiti e le possibili strumentalizzazioni, positivi. Ed erano oggetto comunque di una sedimentazione di lunghissimo periodo, che sotto la crosta fossilizzata conservava un minimo degli agenti vitali e genuini originari.

Dietro i fenomeni mediatici costruiti oggi a tavolino e destinati ad un consumo veloce e superficiale c’è invece, già di partenza, soltanto un “calcolo” economico o politico: e il termine non va inteso solo come “progetto”, per metonimia, ma anche, letteralmente, come “procedura di computo”. Siamo nelle mani dell’algoritmo.

Cosa significa? Fino a qualche anno fa pensavo si trattasse solo di un espediente linguistico per confondere le idee, rendere meno comprensibili i meccanismi reali e trasferire a una dimensione indefinita tutte le responsabilità. In fondo la parola si presta bene ad un uso deterrente: evoca per assonanza scompensi cardiaci e farmaci, e appartiene comunque ad un lessico matematico di fronte al quale quasi tutti si sentono sperduti. Ho cominciato invece a capire un po’ meglio come funziona la faccenda dopo che, al compimento del sessantacinquesimo anno, la mia posta elettronica è stata invasa da decine di mail che proponevano apparecchi acustici, montascale e pillole azzurre, e continuo a collezionarne quotidiane conferme nell’attenzione che mi riserva il mercato librario on line, dal quale arrivano proposte mirate sempre più rispondenti ai miei desiderata, al punto persino da anticiparli.

Solo ultimamente ho avuto però sentore di quanto l’algoritmo, oltre che invasivo, possa riuscire subdolo. È accaduto quando ho trovato un mio scritto collegato, per non so quale grado di parentela, al sito di Fratelli d’Italia – per intenderci, al neo-fascismo professo e militante: credo semplicemente perché riportava in positivo alcune citazioni da Ortega y Gasset, ma non voglio indagare ulteriormente, visto che altrove ho citato a più riprese De Maistre, Mircea Eliade e Alain de Benoist. Temo di ritrovarmi pigionante a Casa Pound. L’amico che mi ha segnalato l’apparentamento, e che di queste cose si intende, a una mia richiesta di spiegazione ha risposto: “È l’algoritmo, bellezza!” Che significava: siamo controllati, schedati e orientati da un sistema rigido, in qualche modo elementare, univoco e totalmente predeterminato. Un sistema che non accetta l’imprevedibilità, che esclude la creatività, le sfumature, le ambiguità interpretative. L’esatto contrario insomma di ciò che sostanzia la cultura.

Sul questo tema sono già tornato più volte, e di recente anche sullo specifico della sindrome da algoritmo, buttandola al solito sull’ironia. Nel frattempo credo però di aver capito qualcosa in più. In realtà, ciò che maggiormente mi inquieta di questa buffa storia è il fatto appunto che mi abbia inquietato, e che tanto buffa tutto sommato non mi sia parsa. Se ci rifletto un attimo capisco perché, stanti i sensori che il sistema attiva, i modelli di selezione e di comparazione che applica e gli schemi rigidi entro i quali convoglia i dati, possa uscirne una diagnosi di sospetta deriva reazionaria. Io stesso ci gioco e ci rido sopra, e non faccio certo nulla per allontanare il sospetto. Ma non nego che, messo brutalmente di fronte al giudizio di una intelligenza artificiale, fredda e anaffettiva, mi è sembrato di cogliere l’immagine sconosciuta che rimanda la vetrina nella quale ci riflettiamo di passaggio, ben diversa da quella cui ci ha abituati lo specchio nel corridoio d’ingresso, che ci conosce e ci dà il tempo di aggiustare l’espressione, e dal quale ci torna bene o male l’aspetto che vorremmo. E mi sono chiesto quanto potesse esserci di vero in quella immagine inattesa.

In effetti, in un processo all’americana sarei assolto (in Italia probabilmente no), ma solo per insufficienza di prove. Le intenzionalità non costituiscono un valido argomento di difesa. Se frequenti De Benoist o de Maistre un qualche collegamento con il pensiero della destra, ultrareazionaria o comunitaria che sia, lo mantieni. Ciò è sufficiente ad attribuirti una collocazione a rischio. Ora, non essendo portato per indole alle crisi di identità, anagrafiche, di ruolo, di genere o di qualsiasi altra sorta, non ci ho messo molto a tranquillizzarmi. E tuttavia qualche riflessione l’ho fatta.

Ho pensato ad esempio che l’algoritmo è si stupido, ma di una stupidità talmente logica che per certi versi lo rende inattaccabile (mentre in precedenza pensavo fosse comunque possibile spiazzarlo, adottando comportamenti non prevedibili). In linea di principio il suo funzionamento è semplice. Analizza la sterminata massa di dati che provvediamo noi stessi più o meno consapevolmente a fornirgli (e quando non lo facciamo noi provvedono altri) e li rielabora applicando una logica elementare: due più due fa quattro, se hai superato i settant’anni è più che probabile che stia perdendo la sensibilità uditiva e la capacità motoria, per non parlare dello stimolo e della reattività sessuale: se visiti quotidianamente i siti di Amazon o della Feltrinelli alla ricerca di testi di storia, e se quei testi riguardano un certo periodo, determinati personaggi o eventi, particolari aree del mondo o specifici settori di studio, e infine leggi e citi autori sulla cui appartenenza ideologica non sussistono dubbi, ebbene, il profilo dei tuoi gusti, dei tuoi interessi e delle tue potenzialità di consumo è immediatamente tracciabile, così come facilmente prevedibili saranno non solo le tue scelte future d’acquisto, ma anche le tue simpatie politiche.

Intendiamoci. L’algoritmo non è una formula magica: lavora né più né meno come il nostro cervello, è la trasposizione culturale di un procedimento biologico. Con una differenza: il cervello umano può produrre risposte diverse da quelle che sarebbero più logiche, sotto la pressione di fattori emotivi o per semplice distrazione; l’algoritmo, almeno teoricamente, no. In più, quest’ultimo è ormai arrivato a livelli di potenza della memoria e di velocità neppure paragonabili a quelli della corteccia cerebrale, ciò che gli consente anche una duttilità eccezionale. Ma è pur sempre una duttilità parziale: perché mentre il cervello può errare, cioè prendere letteralmente altre strade, l’algoritmo può muoversi solo all’interno di opzioni logiche predeterminate. Può spingere queste opzioni fino a limiti umanamente impensabili, creando l’impressione di una totale libertà di movimento, ma in realtà opera come un sistema chiuso. Ora, di fatto i passi avanti dell’uomo sono nati spesso proprio dagli errori: Colombo è partito alla scoperta dell’America perché aveva mal calcolato la circonferenza terrestre, Fleming ha scoperto la penicillina perché aveva dimenticato di refrigerare una coltura batterica. Voglio dire che paradossalmente la possibilità di errore può diventare un chance, e questa chance all’algoritmo è negata. Ma non affrettiamoci troppo a sentirci rassicurati.

Fin qui infatti tutto torna: se l’azione dell’algoritmo si fermasse a questo punto, si limitasse ad una funzione operativa, sia pure ben più complessa di quella di regolare i semafori o di programmare le fasi di produzione di un’azienda, si potrebbero ancora ipotizzare contromosse per difenderci dalla sua pervasività. In prospettiva però la situazione appare più inquietante. In primo luogo perché nell’ambito dell’intelligenza artificiale si stanno velocemente sviluppando dei sistemi di autoapprendimento che ne moltiplicheranno ulteriormente, e in maniera esponenziale, le potenzialità, tanto da far ipotizzare un salto di qualità, una “autonomizzazione” della macchina (la rivolta dei robot è stata uno dei temi più ricorrenti della fantascienza, da Azimov a Odissea nello spazio, e attualmente lo è nella letteratura scientifica). Poi perché già oggi le modalità della procedura algoritmica, soprattutto se usata in funzione predittiva, producono effetti tutt’altro che collaterali, anche se meno visibili e meno facilmente decifrabili. L’algoritmo non si limita a registrare i tuoi dati per fornire delle risposte ad personam, ma nel farlo “interpreta” i dati stessi, li riconduce ai propri schemi logici e sul lungo termine determina le tue risposte. Applicato ad esempio in campo medico, sulla scorta di una serie di parametri ti dice come stai, ma va anche oltre, predice come starai tra uno o tra dieci anni, tenendo conto di tutte le variabili (che tu smetta o meno di fumare, ecc …) e ti prospetta un numero limitato di possibilità di scelta. Rendendo difficile, a questo punto, ipotizzarne altre. Insomma, mentre finge di tener dietro le tue scelte, ti prende per mano e ti indirizza su un percorso lineare, controllabile, atrofizzando gradualmente ogni capacità e volontà di scelta autonoma.

Come dicevo a proposito dell’apparentamento che mi è stato attribuito, dopo un veloce esame di coscienza mi sono tranquillizzato: io non sono di destra, non sono un reazionario. Ma per farlo ho dovuto anch’io assumere dei parametri cui rapportarmi. Per convincermi di non essere classificabile da una parte, ho dovuto classificarmi dall’altra, mentre in precedenza la cosa cui ascrivevo il mio essere di sinistra era per l’appunto la capacità di sottrarmi ai parametri e alle classificazioni. L’algoritmo non lascia spazi per le terre di nessuno. Diventando sempre più complesso userà guinzagli sempre più lunghi, ma ci farà passeggiare sempre in aree cintate e attrezzate. Anche se continuerò a citare Ortega e de Gobineau, temo che d’ora innanzi lo farò guardandomi attorno, facendo attenzione a dove va a cadere la mia ombra.

L’algoritmo gioca insomma il ricatto della visibilità. Creando una realtà che dietro la sua apparentemente disordinata complessità è invece tutta sotto controllo, fa terra bruciata attorno ad ogni possibile scelta davvero alternativa di vita e di pensiero. Noi viviamo di rapporti. Il nostro pensiero non regge se costretto in una dimensione autistica. Ma per rapportarci agli altri dobbiamo essere visibili. Il nostro agire deve essere pubblico, il nostro pensare deve trovare punti di contatto con quello altrui. Bene, l’algoritmo sta definendo in maniera sempre più rigida lo spettro della nostra visibilità: e lo fa come se sottraesse i colori all’arcobaleno naturale e li compattasse su una tavola di Mondrian. Via le sfumature, dentro linee di separazione rette e decise, pur mantenendo tra le componenti cromatiche gli equilibri di “peso”, quelli quantitativi, misurabili. Porta a compimento e perfeziona quel processo di omologazione che ha preso avvio con la modernità, con la matematizzazione e la geometrizzazione del mondo, rimuovendo o aggirando anche quegli ostacoli, quei correttivi che per induzione il pensiero moderno aveva prodotto (l’etica kantiana, il diritto, ecc …). Agisce come un tempo le potenze coloniali, che tracciavano linee rette di confine tra stati che esse stesse avevano inventato ex-novo per semplificare il controllo territoriale, ignorando le millenarie differenze e identità tribali improvvisamente costrette all’interno di quelle linee immaginarie, e anzi, sfruttandone e gestendone ai propri fini la conflittualità. Si tratta di un meccanismo che, paradossalmente, tanto più appare complicato nel funzionamento, e quindi indecifrabile, tanto più ottiene risultati di semplificazione gestionale.

Questa semplificazione avviene oggi col consenso di coloro stessi che ne sono vittime, ed è questa la vera novità. L’algoritmo non si limita a interfacciare i dati e ad elaborare risposte sempre più apparentemente personalizzate ai “bisogni”. In base ai dati i bisogni li crea, ma soprattutto, imponendo la logica binaria del si/no, dentro/fuori, vero/falso, ricrea totalmente il mondo a propria immagine, e costringe ad una scelta obbligata, perché l’alternativa è solo l’uscita dal nuovo sistema relazionale, ovvero l’invisibilità. Dobbiamo scegliere tra l’essere indistinguibili nel mondo o invisibili al mondo. Nel primo caso ci è offerto anche lo zuccherino di una apparentemente aumentata libertà di autogestirci, di esprimerci e di “partecipare” (tradotto in polpettine, di essere beatamente ignoranti, di giocare con l’identità sessuale, di tatuarci anche sotto la pianta dei piedi, di cliccare il nostro entusiasmo per ogni stupidaggine che gira in rete o di lanciare noi stessi la stupidaggine, di accedere ai giochi o ai talk televisivi, ecc..: tutte cose che l’algoritmo promuove, pianifica e controlla); nel secondo si è condannati, anche quando la scelta è fondata su una coscienza lucida della situazione, a finire in confusione o in calcificazione mentale per l’assenza di parametri di confronto.

L’omologazione viaggia naturalmente verso il basso (è una legge statistica). Quindi passa innanzitutto per la ridefinizione dello status e del ruolo della cultura, a partire dalla messa sotto accusa delle vecchie “élites culturali”, della loro distanza dal sentire del “popolo”. La distanza non viene colmata offrendo al “popolo” nuove chances di nutrimento culturale (fossero pure le brioches di Maria Antonietta) ma negando semplicemente la fame. Da “la cultura non serve” a “la cultura non esiste” il passo è breve. A che serve conoscere la storia, la geografia, le scienze umane e quelle naturali, ecc, quando è disponibile in tempo reale, con un paio di clik, tutto lo scibile umano, saia pure messo a bollire tutto nello stesso calderone, gli alimenti essenziali, le spezie e, soprattutto, gli ingredienti superflui e la spazzatura? Se tutto è cultura, nulla è cultura. Si liquida così il concetto per cui cultura non è sapere le cose, ma saperle imparare e usare nel modo opportuno, e trarne piacere e gratificazione. Mettere in discussione il concetto di cultura, leggerla come un sapere orizzontale e superficiale anziché come formazione profonda (vedi la difesa del nuovo modello di pensiero fatta da Baricco ne “I barbari” e in “Game”) significa mettere in discussione tutto il nostro passato di umani, tutto il processo evolutivo, tutto il senso dell’esistenza.

E infatti. Questo ci riporta a “l’Eredità”. Lo sciagurato concorrente che si è macchiato di leso Leopardi rappresenta lo stadio preistorico della cultura dell’algoritmo. Ha applicato un procedimento analogico, associando banalmente due nomi propri. Lo stadio successivo, quello digitale, gli avrebbe probabilmente consentito di vincere la finale, incrociando un numero maggiore di dati. In questo caso l’algoritmo sarebbe stato magari propenso a suggerirgli (sbagliando, ma centrando comunque il risultato) che una fanciulla tanto vispa difficilmente muore di consunzione in giovane età. Il concorrente avrebbe continuato a non sapere nulla delle motivazioni, del significato e della struggente bellezza dei versi di Leopardi, ma avrebbe intascato qualche decina di migliaia di euro. La sua ignoranza sarebbe stata premiata, in virtù del principio che non importa sapere, ma partecipare (ai giochi a premi, appunto).

Il modello di pensiero per cui si vive benissimo senza Leopardi, e ciò che conta è semmai comparire per qualche minuto in tivù, magari portandosi via anche un gruzzoletto, è ormai dominante: in fondo l’ultima generazione con l’algoritmo ci è cresciuta, lo ha in vena, non conosce altra realtà. Viene spacciato al dettaglio da guru sempre più giovani, profeti di un mondo pieno di nuove opportunità e testimonial in prima persona del suo già visibile avvento, proprio in virtù dell’enorme potere economico o di condizionamento che ne stanno traendo. In fondo, dal loro punto di vista sono assolutamente convinti di agire nel giusto, e in molti casi le intenzionalità originarie erano tutt’altro che egoistiche, avevano alle spalle una visione. Persino in costoro però, o almeno in quelli più seri, comincia oggi a insinuarsi qualche dubbio: nella ex-gioiosa comunità di Silicon Valley serpeggia la disillusione.

Molto più ipocrita mi pare invece l’atteggiamento di chi la cultura dovrebbe difenderla, di quella classe intellettuale che il nuovo modello di fatto estromette dal gioco. Da un lato questa estromissione viene in genere orgogliosamente rivendicata, quasi a riprova di una eroica resistenza opposta all’appiattimento istupidente: dall’altro però vengono anche accarezzate le ipotesi di un accomodamento, di un riposizionamento all’interno del modello. E comunque, anche quando assume una posizione critica, questa gente non rinuncia affatto alle gratificazioni materiali o “spirituali” che il gioco può riservare. Mi riferisco a quegli intellettuali che hanno scoperto una variante economicamente molto interessante del loro ruolo, e si prodigano nei festival della scienza, della coscienza e della conoscenza, o nei salotti televisivi a denunciare i rischi dell’omologazione, ma intervenendo rigorosamente a gettone. Che stanno dunque avallando la riduzione della cultura ad una successione di “eventi” spettacolari, spogliandosi dei vecchi paludamenti ma solo per mascherare sotto abiti senza dubbio più pratici e alla moda il loro sfacciato collaborazionismo. In questo senso, almeno, la posizione di Baricco è più onesta: si schiera apertamente, non so con quanta reale convinzione ma senz’altro sciorinando un campionario argomentativo di tutto rispetto, per “il nuovo che avanza”, ne dà una giustificazione storica e antropologica e ipotizza gli strumenti per governarlo, anziché lasciarsene governare. Altri, la maggioranza, recitano invece due parti in commedia. Quella del lacchè è per gli intellettuali una tentazione antica, ma forse mai come oggi, proprio mentre si finge o anche si crede in buona fede di esorcizzarla, è diventata costume corrente.

Per averne conferma è sufficiente invitare un qualsiasi “intellettuale” con un minimo di pedigree e di certificazione (mediatica o accademica, fa lo stesso) a presentare un proprio libro, o a partecipare a un convegno o a un dibattito su temi che sono al centro dei suoi interessi: può essere istruttivo confrontare le tariffe o le richieste di “rimborso spese” avanzate. Il problema vero è però che questo mercimonio culturale è dato ormai per scontato da ambe le parti, col che si realizza un capolavoro di ipocrisia. Si paga qualcuno perché venga a raccontarci quanto è avvilente che tutto, e in primis il pensiero, sia ridotto a merce.

In definitiva, è assai più istruttivo e meno dispendioso (e senz’altro più emozionante) seguire dal divano, all’ora di cena, “l’Eredità” in televisione. E questo vale anche rispetto alle mie riflessioni, perché credo di aver abusato davvero troppo della pazienza di chi mi sta leggendo, se ancora non ha smesso. Come al solito mi sono perso per strada e l’ho tirata per le lunghe.

Non so quanto questo scritto possa contribuire a chiarire la situazione, o se addirittura non l’abbia ulteriormente confusa: ma in entrambi i casi dovrei a questo punto affrontare la domanda cruciale: che fare? Dichiaro il mio scacco: onestamente non ho alcuna soluzione da suggerire, alcun realistico modello alternativo da offrire. Avevo inizialmente pensato ad una “modesta proposta”, la stessa che vado predicando da decenni per tenere in vita attraverso la scuola un livello minimo di “resistenza” culturale, consapevole peraltro di avanzarla solo a futura memoria, perché sono il primo a considerarla ormai inattuabile. La riservo per un’altra occasione. Per il momento mi tengo stretto il mio modello di cultura, cercando di difenderlo nel mio piccolo e sperando che altri facciano altrettanto: ma solo per rallentarne ancora di un poco la scomparsa.


Una raccolta di silenzi

di Paolo Repetto, 2016

Prima di leggere il Disciplinare di Mario Mantelli (Bravomerlo, 2012) dello haiku sapevo poco o nulla (e nemmeno ero curioso di saperne di più). Più che un genere poetico mi sembrava un gioco cervellotico, a livello di settimana enigmistica, e confermava semmai la mia immagine dei giapponesi come gente strana, fanatica dell’autocontrollo e delle costrizioni.

Il Disciplinare mi ha fatto scoprire un modo diverso di guardare il mondo e un’intenzione diversa nel raccontarlo. Questo modo e questa intenzione sono spiegati ora benissimo nella Stenografia Emotiva premessa da Mario a questa raccolta. Potrei quindi godermi in santa pace il piacere di leggere le sue composizioni in un libretto dei Viandanti, e lasciarlo gustare anche agli altri: ma come Wilde non so resistere alle tentazioni, e questa è davvero forte. Anch’io infatti, come i giapponesi, ho bisogno della costrizione della scrittura per mettere a fuoco quello che sento e dare ordine a quello che penso. Ora, gli haiku mi hanno fornito parecchi spunti e soprattutto mi hanno chiarito cose che già mi giravano in testa, ma molto confusamente: e allora ne approfitto per metterle subito in riga, sperando solo di non guastare le gioie che il libretto ha regalato.

Dunque, cominciamo ad allacciare un po’ di fili. Parto dai modi di guardare alle cose. Possono sembrare infiniti, ma nella sostanza poi si riducono a due: da dentro o da fuori. E questo va da sé, con o senza haiku. In realtà, guardare da fuori sarebbe la nostra condizione (per alcuni, la nostra condanna) “esistenziale” unica e assoluta. Siamo impediti all’intimità col mondo da quella consapevolezza che ci ha resi appunto uomini, facendo di noi degli estranei di passaggio. Ma non ci rassegniamo, per cui scegliamo un angolo prospettico che costituisce già di per sé un metro di giudizio e ricostruiamo la realtà, il più possibile a nostra immagine.

Ora, se il mondo vogliamo coglierlo nel suo assieme, e trovare in questo assieme un significato, suo e nostro, e magari anche il modo, oltre che di comprenderlo, per controllarlo o per dominarlo, possiamo posizionarci ad una certa distanza: ma se desideriamo invece “rientrare nel mondo”, sentircene parte integrante, dobbiamo portarci a una distanza minima, facendoci piccoli abbastanza per sgusciare, sia pure per pochi infinitesimali attimi, attraverso le porte spazio-temporali che a volte si aprono. Nel primo caso prevale l’intenzione storico-scientifica, che sfocia in una narrazione del mondo, mentre nel secondo agisce una disposizione “estetica” (forse sarebbe più appropriato “estatica”), che vuole “fissare” in una pagina, sulla tela, o attraverso i suoni, una intuizione, un frammento intravisto, un’illuminazione. Semplificando al massimo, potremmo dire che il primo atteggiamento introduce nella narrazione il tempo, e quindi produce dei film, mentre il secondo il tempo lo vuole fermare, e produce quindi delle fotografie.

Personalmente, credo di essere un cinematografaro. Il mio modello ideale sono quei cartografi raccontati da Borges che realizzarono una mappa dell’impero in scala uno a uno. Ma mi accorgo che la cosa è contradditoria, perché in questo modo si parte guardando il mondo da un’enorme distanza e si finisce per soffermarsi poi su ogni filo d’erba. Si nasce narratori e si finisce esteti. In una certa misura accade persino ai campioni dell’intenzione scientifica, gente come Galilei o Newton, quando individuano una chiave di lettura (in questo caso quella matematica) del mondo e finiscono per far combaciare la serratura con il mondo stesso.

Mi accorgo però che su questa strada rischio di incartarmi, e provo allora a metterla in maniera diversa, con qualche esempio più immediato. Prendiamo Manzoni: inizia il suo racconto con un campo lunghissimo dall’alto, stringendolo poi progressivamente sino al primo piano su don Abbondio. Oppure inquadra un paesaggio di rovine e poco a poco lo popola, avvicinandosi, di volti e di occhi smarriti. Parte cioè presentando un mondo che di lontano appare immobile e sempre uguale a se stesso, per coglierne e narrarne poi invece il movimento. Ma il movimento, diceva già Aristotele, è la condizione che crea il tempo: il tempo è movimento nello spazio. Scegliere di raccontare nel tempo, attraverso il tempo, magari anche per dire che in fondo le cose si ripetono o si somigliano, come fa Manzoni, significa scegliere di raccontare comunque ciò che sta fuori, che rimane in superfice e cambia incessantemente, così come è percepito dagli uomini. E darne una spiegazione, sia essa razionale o meno, nella quale questi ultimi abbiano una parte, possibilmente da protagonisti. Si cerca di leggere il mondo, piuttosto che di viverlo.

Leopardi inizia invece guardando dal basso verso la luna, fa cioè un percorso esattamente inverso: e pone delle domande. Le pone alla luna perché il movimento di questa, infinitamente ripetuto, in fondo è solo apparente. Quindi essa è una possibile depositaria del senso (o, volendo, del non-senso) ultimo. Leopardi però non è alla ricerca di spiegazioni razionali, o compatibili con le nostra modalità di pensiero (tutte le sue domande, a partire dal che fai?, sono puramente retoriche): dice subito, proprio con quelle domande, che spiegazioni non ce ne sono, o se ci sono rischiano di non piacerci affatto, e per questo motivo rinuncia alla narrazione e continua a cercare epifanie, spiragli (le brecce montaliane nel muretto) che consentano di dare comunque un’occhiata all’interno. Quando scrive:

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna

non ha bisogno di darsi o di darci un perché. È l’istantanea di un dato di fatto, colto attraverso il grandangolo della sua sensibilità.

Sono evidentemente due modi diversi di guardare il mondo. Ed entrambi legittimi. Il primo, però, lo sguardo esterno, nasconde un intento aggressivo: svelare strappando il velo. Il secondo, lo sguardo da dentro, il velo non lo strappa, spera che qualche refolo lo scosti. Questa disposizione non rappresenta tuttavia una resa incondizionata alla ineffabilità del mondo, della natura. Anzi, è il contrario. Nemmeno quello di Leopardi è infatti un atteggiamento totalmente disarmato, e il poeta ne è perfettamente consapevole, a differenza di altri, Pascoli ad esempio, che ritengono che per raccontare da dentro sia necessario tornare allo sguardo del fanciullino: vale a dire spogliarci di ogni armamentario culturale e lasciarci risucchiare dal mondo (che è diverso da immergersi). Ora, la cosa è già molto improbabile a livello di percezione, dell’esperienza che si fa del mondo, perché hai voglia a denudarti degli abiti e delle corazze cuciti e forgiati dalla cultura, il nostro modello di percezione circola sottopelle: ma soprattutto si scontra poi, al momento di comunicare ciò che si è esperito – ed è questa da sempre l’aspirazione, se non la funzione, dell’arte – con la necessità di universalizzarlo e condividerlo attraverso segni, suoni e colori, che sono tutte forme di imitazione e ricreazione del mondo. Insomma, quale che sia l’attitudine è necessario ricorrere comunque a convenzioni espressive, strumenti, che non ci adattano al mondo, ma adattano il mondo a noi. E nel farlo, di norma, lo allontanano. Leopardi, ripeto, questo lo sa benissimo, e opera proprio sugli strumenti, usando un doppio segno negativo (quello intrinseco al mezzo e quello impresso dalla poetica dell’indefinito) per ottenere un risultato positivo, di avvicinamento (è ciò che Pascoli dimostra di non aver capito, quando gli rimprovera l’accostamento temporale di rose e viole, ma anche quando si trastulla in onomatopee e bamboleggiamenti)

Questo ci riporta finalmente allo haiku.

La distanza dal mondo si misura appunto, tanto in letteratura come nelle altre arti, in parole, in segni, in note. Non dico che sia direttamente proporzionale alla lunghezza di un testo, all’accuratezza di una immagine o alla complessità di uno spartito, ma in un certo senso è così. Quanto più indulgo in una descrizione, riproduco i singoli peli di un coniglio, accumulo e armonizzo suoni diversi, tanto più mi allontano dalla immediatezza della sensazione o dell’emozione per ricreare un “mio” mondo, pensato a mia immagine o a quella del mio tempo: un mondo che a differenza di quello reale è “interpretabile”, e del quale potrò fare ciò che voglio: dargli un’anima, leggerci foreste di simboli, ecc… Visto che il creato mi esclude, mi erigo a creatore: che è una cosa bellissima, senza dubbio, ma anche parecchio inquietante, perché da subito tende a sforare dalla dimensione narrativa a quella operativa, ad adattare il mondo a noi non solo attraverso le parole, ma anche attraverso i fatti. E nei fatti ormai gli spazi sono parecchio confusi.

Ma qui parliamo di poesia. Qui lo spazio occupato dai segni, nella nostra fattispecie dalle parole, è ancora quello che ci separa dalle cose. E non lo si annulla scombinando semplicemente il tradizionale allineamento dei primi: anzi, le grandi narrazioni a ruota libera, l’Ulisse come Sulla strada, l’arte informale, la musica dodecafonica, sono quelle che meno ci avvicinano all’oggetto, perché ruotano costantemente attorno al soggetto. Quindi non è questione di rompere una consolidata disciplina espressiva: non è questa a raffreddare l’emozione: anzi, la disciplina aiuta semmai a trovare un equivalente narrativo, ad avvicinarci.

Nemmeno è questione di ridurre semplicemente i segni all’osso. Ungaretti riesce ad esprimere uno stato d’animo con meno della metà delle sillabe canoniche di uno haiku, Quasimodo con un paio di più. Ma al centro ci stanno loro, non il mondo. Lo stesso accade per le opere di Fontana o per quelle di John Cage, dietro le quali devi supporre un percorso chilometrico, se vuoi che abbiano un senso. Un percorso faticoso, pesante. Stavo per scrivere “tipicamente occidentale”, ma non è del tutto giusto.

Anche quello dello haiku è infatti un percorso culturale che parte dall’esterno. Ma mi sembra che a differenza di quello occidentale, che mira a narrare e quindi a disciplinare il mondo, tenda invece a disciplinare lo sguardo sul mondo, nel significato scolastico in cui veniva usato un tempo il verbo, di non disturbare, di interferire il meno possibile, di prestare attenzione. Rispecchia un modo d’essere, di muoversi, di pensare, al quale i giapponesi sono stati educati per secoli e che hanno intimamente assimilato. Per questo sino a ieri ho continuato a ritenerlo estraneo alle mie frequenze. I pochi casi di trasposizione occidentale che conoscevo, quelli legati al coté orientaleggiante della controcultura degli anni cinquanta/sessanta (Alan Watts, I vagabondi del Dharma), o peggio, quelli prodotti dalla moda new age degli anni novanta, non facevano che confermare la mia impressione. Quando non erano patetici, perché semplicemente inscatolavano il vuoto, davano l’impressione di serrare i contenuti in una gabbia, anziché aderire loro come un abito. Nell’uno e nell’altro caso il problema nasceva comunque da un uso improprio o gratuito dello strumento. Ma questo l’ho capito solo dopo aver letto le istruzioni e le esemplificazioni prodotte da Mario.

Ho capito ad esempio che lo haiku è riconducibile a quella forma più universale di ascetismo che da sempre ha cercato di minimizzare il vivere per enfatizzare il sentire: il silenzio è una delle vie preferenziali scelte da stiliti, monaci, eremiti anche in occidente per forzare le porte della percezione. Solo che per la cultura occidentale questa è sempre stata una scelta a suo modo clamorosa, mentre in quella orientale è una consuetudine discreta.

Per non tirarla troppo in lungo, lo haiku è un esercizio non di forza, ma di estremo equilibrio. Calvino direbbe di leggerezza. Il che può sembrare paradossale, perché le parole prosciugate acquistano un peso specifico enorme. Ma qui la leggerezza è consentita da ciò che le parole vogliono esprimere: che non è conoscenza del mondo, ma stupore e consonanza col mondo. Lo haiku esprime uno stato d’animo che fa tutt’uno con uno stato della natura, in fondo lo stesso che Leopardi descrive nell’incipit de “La sera del dì di festa” (anche se per Leopardi questo è appunto solo un incipit, e nel prosieguo la sua occidentalità ha la meglio). La leggerezza è data dalla sensazione di essersi fatti così piccoli da poter entrare nel quadro, senza disturbarlo. Come del resto accade per tutta la pittura paesaggistica orientale, nella quale le forme di vita umana sono appena percettibili, nascoste nel paesaggio. Oserei dire che lo haiku realizza addirittura il sogno del doppio sguardo: da fuori, perché passa attraverso un’operazione complessa di pesatura, misurazione, scelta delle parole: da dentro, perché questa chiave consente di entrare per un attimo nella dimensione perduta.

Per come l’ho messa viene a questo punto da chiedersi come mai Mario abbia scelto di praticare un esercizio così lontano dalla nostra tradizione – e perché io abbia così fortemente voluto ripubblicare i suoi haiku nelle edizioni dei Viandanti. Scartato in partenza ogni sospetto di condiscendenza alle mode, o di compiacimento per l’esotismo spirituale, non rimane che la pista della disciplina. Mario è stato conquistato da un esercizio disciplinare che apre ad una eccezionale libertà. Si è accorto che in realtà le diciassette sillabe non costituiscono affatto una limitazione, e che il piacere del risultato, dell’eureka finale, viene già anticipato nell’atto di isolare immagini e di cancellare metri di parole-spazio. Che una volta ripulite e ordinate le sue emozioni conservano la freschezza dell’istantanea. Il resto lo fanno Oviglio e il Monferrato, che offrono stagioni e ritmi come quelli di Kōbe, e il fondale delle Alpi, che non fa rimpiangere il Fuji.

Post scriptum. Rileggendo questi haiku mi è tornato in mente un racconto di Heinrich Böll, La raccolta di silenzi del dottor Murke. Murke non aspira al “grande” silenzio. Raccoglie piccoli scarti di nastro magnetico, i tempi morti silenziosi che vengono eliminati per ottimizzare la programmazione radiofonica, li unisce e li fa scorrere. Quello che ne vien fuori non è un silenzio assoluto, continuativo: è la successione di brevissime pause, che arrivano cariche di tensioni, paure, tristezze, stupori. Nel monotono, leggero fruscio del nastro tutto viene scaricato, mescolato, dimenticato. Non so quale sia il nesso, ma sono certo che c’è.

 

Camus e Leopardi

Camus e Leopardi copertinaa cura di Paolo Repetto, 16 agosto 2016

Irene Baccarini – Leopardi e Camus: il tempo ultimo dell’amicizia. 3

Luigi Capitano – L’assurdo e la rivolta. Camus alla luce di Leopardi 12

Irene Baccarini

Leopardi e Camus:
il tempo ultimo dell’amicizia

Di Leopardi non si trova traccia nei taccuini di Albert Camus, eppure in un’intervista radiofonica a cura di Giovanni Battista Angioletti, per il settimanale RAI «L’Approdo», alla domanda «Quali sono gli autori italiani di ogni tempo con i quali lei ha avuto rapporti particolarmente profittevoli?», Camus rispose: «Quello che io citerò al di sopra di tutti gli altri, perché è quello che ho anzitutto letto di più e meglio, colui col quale mi sento più fraterno, è Leopardi». Il rapporto di fraternità confessato dallo scrittore francese colma il vuoto che il critico nota nei taccuini e conferma la vicinanza di pensiero tra i due scrittori. Una vicinanza, quella con Leopardi, che il lettore di Camus sospetta più volte, ipotizza, anche attraverso ascendenze filosofiche comuni.

Più di uno studioso, seguendo le tracce leopardiane presenti — pur in maniera più nascosta — nell’opera di Camus, si è soffermato sul confronto tra i due autori. Il contributo più recente è sicuramente quello di Luigi Capitano, apparso nel 2010 su questa stessa rivista.1 Molto prima, nel 1972, era apparso lo studio di Norbert Jonard Leopardi et Camus,2 in cui veniva effettuata un’analisi puntuale delle tesi leopardiane, così come emergono nei componimenti poetici e nelle prose filosofiche, e il riscontro che esse trovano in diversi passaggi dell’opera di Camus. Ciò che si nota dal confronto complessivo delle opere dei due autori è la somiglianza delle loro posizioni di fronte all’impossibilità di dare un senso al male, alla sofferenza e alla morte; in altre parole la reazione dei due scrittori all’assurdità dell’esistenza. Reazione di rivolta, in entrambi i casi, che porta tanto Leopardi quanto Camus ad un faccia a faccia con la terribile verità con cui l’uomo spesso rifiuta di confrontarsi, l’«arido vero» appunto.

Come sottolinea giustamente Capitano, la posizione leopardiana può essere ricondotta a quella che Camus definisce «rivolta metafisica». Leopardi, scrive Capitano,

ha avvertito per primo l’urto e la dissonanza fra la «domanda fondamentale» e il silenzio del mondo. […] la lucida coscienza dell’assurdo conduce invece ad un’inevitabile «rivolta metafisica» nel senso di Camus, ossia ad una «sfida» aperta contro il nonsenso del mondo. La rivolta metafisica di Leopardi rimanda a quella dimensione dell’assurdo che sola consente di misurare la distanza fra il nichilismo contemporaneo e le sue più o meno remote condizioni storico-genealogiche. Primo fra tutti i pensatori dell’Occidente, Leopardi ha illuminato la soglia dell’assurdo e al tempo stesso ha trovato il coraggio invincibile di venire, per dirla con Michelstaedter, ai «ferri corti» con la propria vita e con l’arcano dell’esistenza universale, al punto di sognare di poter stringere attorno alla «nobil natura» del genio poetico l’intero genere umano che «a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato…» (Giacomo Leopardi, La ginestra, vv. 111-113). Leopardi ha già compiuto il passo fatale dall’esperienza solitaria dell’assurdo a quella rivolta comune contro il male metafisico che finisce col dare un barlume di senso alla nostra vita.3

La rivolta diviene dunque comune: la protesta leopardiana presuppone la costruzione della «social catena», in nome della quale gli uomini possono ritrovarsi uniti contro il nemico della Natura. A questa stessa prospettiva di solidarietà umana arriva anche Camus, come si vede sia da L’uomo in rivolta sia dal romanzo La peste. «“Noi siamo” davanti alla storia, e la storia deve fare i conti con questo “Noi siamo” che, a sua volta, deve mantenersi nella storia. Io ho bisogno degli altri, che hanno bisogno di me e di ciascuno», afferma Camus con convinzione in nome di una «lotta», che è anche, soprattutto, «fiera compassione».4 Nel romanzo la peste diviene metafora di un male non solo storico, un male più grande, che è in ognuno di noi e che può tornare a colpire in qualunque momento. Come afferma Sergio Givone nel suo libro Metafisica della peste, in Camus l’epidemia diventa

l’occasione di un esperimento cruciale: dove si tratta di misurare la tenuta di una parola di verità, parola ferma, non controvertibile, nell’orizzonte in cui della verità sembra non essere rimasto più nulla. Tale sarebbe, ad esempio, una parola che osasse porre l’alternativa fra un dovere assoluto (il dovere dell’aiuto e della condivisione) e un assoluto oscuramento di ogni senso (l’assurdo).5

Questo «esperimento cruciale» consente a Camus, secondo Givone, di fare un passo in avanti: dall’etica dell’assurdo (Il mito di Sisifo) e dall’etica della rivolta (L’uomo in rivolta), si passa qui all’etica della resistenza al male. È su questa base che l’ateo dottor Rieux può trovarsi vicino al Padre Paneloux: «Noi lavoriamo insieme per qualcosa che riunisce oltre le bestemmie e le preghiere. Questo solo è importante»,6 risponde Rieux al prete, che riconosce nel medico la mancanza di una prospettiva di grazia. La lotta comune che i due devono affrontare, dunque, non è una rivolta, ma una prova di resistenza per sconfiggere il male, una prova che impone di salvare prima di tutto l’altro, come se la misura della vittoria sul male possa darsi da ciò che si riesce a fare non contro il male stesso ma per gli altri. Non si lotta più contro qualcosa, si resiste piuttosto, e si lotta per qualcuno. È questa la dimensione della solidarietà, che si rivela nella concretezza dell’urgenza.

Non è forse un caso che Givone, nella sua ricognizione delle forme e dei significati della peste, presenti anche Leopardi. Il critico riporta una lettera del 30 ottobre 1836, nella quale il poeta scrive a suo padre di non aver saputo in tempo della diffusione della peste fino ad Ancona e conclude: «Se lo avessi saputo nessuna forza avrebbe potuto impedirmi di non venire, anche a piedi, a dividere il loro pericolo».7 Questa affermazione, rileva Givone, «farebbe sorridere di tenerezza, se il pensiero non corrispondesse al pensiero più autenticamente leopardiano».8 In effetti, il desiderio di condivisione esplicitato del poeta, anche in questo caso originato da una situazione di pericolo, commuove il lettore e, al tempo stesso, gli permette di comprendere le ragioni che stanno alla base della posizione che Leopardi raggiunge ne La ginestra. In qualche modo, l’uomo che scrive la lettera è anche il poeta «progressivo» del grande componimento: questa relazione mostra tutti gli aspetti e la complessità di un sentimento poetico. Sentimento che non si riduce alla sola prospettiva della solidarietà, ma che possiamo riportare nella sfera dell’amicizia, in base ai diversi significati che questa assume in Leopardi.

In un bel saggio Alberto Folin ha messo in luce i diversi momenti della riflessione leopardiana sull’amicizia. Un primo momento da considerare è quello che «riguarda l’opposizione homònoia / philìa […] e cioè quella che separa l’amicizia intesa come concordia tra i cittadini della polis — virtù, per così dire politica — dall’amicizia intesa propriamente come philìa e concepita come rapporto interpersonale tra individui, e quindi tra singolarità finite».9 In tale direzione vi è una differenza tra gli antichi e i moderni. «Dopo che l’eroismo è sparito dal mondo — annota Leopardi nello Zibaldone –, e in vece v’è entrato l’universale egoismo, amicizia vera e capace di far sacrificare l’un amico all’altro, in persone che ancora abbiano interessi e desideri, è ben difficilissima».10 L’egoismo dei moderni è il risultato di una degenerazione dell’amor proprio, che ha portato gli uomini ad un eccessivo individualismo. Proprio ne La ginestra, invece, Leopardi torna a ipotizzare un legame che unisca il genere umano oltre l’egoismo, oltre la chiusa e sterile prospettiva individualistica. Folin sottolinea come ciò che il poeta esprime in questo componimento non possa essere ricondotto soltanto alla «guerra comune», ma abbia in realtà sfumature molto più sottili:

La comunità sembrerebbe fondarsi su un lavoro di «guerra comune» (v. 35) contro un nemico. Ma il legame, questa volta, non si costituisce nell’odio contro uno straniero «storico» e politicamente definito come diverso nel tempo e nello spazio, ma contro l’estraneità stessa avvertita nella sua essenza metafisica e in temporale. […] Questo legame comunitario, che prospetta un’amicizia sul confine tra essere e nulla, nella precarietà e fragilità degli enti, è tuttavia solo apparentemente simile a quell’homonònoia antica che Leopardi aveva nostalgicamente rimpianto negli anni giovanili. Qui il legame che viene auspicato unisce entità creaturali che hanno in comune un’identica «madre», e dunque sono associati da un rapporto in qualche modo «fraterno». Fratelli nel dolore, figli di un dio senza volto e senza nome, gli uomini potranno trovare una nuova solidarietà e una nuova philìa nell’accettazione della morte e della perdita, cioè nel fatto di essere tutti figli del nulla.11

Attraverso itinerari concettuali diversi, quindi, Leopardi e Camus suggeriscono una prospettiva che va oltre, che non si ferma a quella della rivolta, ma che piuttosto si fonda su un riscoperto legame tra gli uomini, capace di opporsi anche alla forza ignota del nulla, capace di resistere.

Ne La peste di Camus troviamo personaggi che incarnano questo sentimento, mostrando la difficoltà e la complessità di una determinata prospettiva esistenziale. Si è parlato prima del dottor Rieux e di Padre Paneloux, che divisi da «fedi» diverse, si trovano a combattere insieme la sofferenza inutile e ingiusta degli innocenti colpiti dal morbo. Tuttavia, il senso di quel sentimento fraterno di cui si parlava a proposito di Leopardi, l’importanza dell’amicizia come presupposto per qualsiasi lotta, per qualsiasi resistenza, si trova espresso ancora meglio nel dialogo tra Tarrou e il dottor Rieux. Si tratta di uno dei passi più significativi all’interno de La peste, che in qualche modo suggerisce la chiave di lettura dell’intero romanzo. È proprio il personaggio di Tarrou, infatti, che, raccontando la sua storia e la sua lotta personale contro la peste, arriva a denunciare il male che si insidia in ogni individuo:

Ho capito questo, che tutti eravamo nella peste; e ho perduto la pace. […] So soltanto che bisogna fare quello che occorre per non esser più un appestato, e che questo soltanto ci può far sperare nella pace, o, al suo posto, in una buona morte. Questo può dare sollievo agli uomini e, se non salvarli, almeno fargli il minor male possibile e persino, talvolta, in po’ di bene.

[…] Per questo ho deciso di mettermi dalla parte delle vittime, in ogni occasione, per limitare il male. In mezzo a loro, posso almeno cercare come si giunga alla terza categoria, ossia alla pace.12

A questo punto Rieux chiede a Tarrou se abbia qualche idea sulla strada da prendere per raggiungere la pace: «Sì», risponde l’amico, «la simpatia».13 Qui il termine è naturalmente usato nel suo senso più profondo; e che cos’è la simpatia se non il fondamento dell’amicizia? Tarrou, infatti, poco dopo dice al dottore:

«Sa cosa dovremmo fare per l’amicizia?» disse. «Quello che lei vuole», disse Rieux. «Un bagno in mare […]». «Sì» disse Rieux, «andiamo». […] Poco prima di giungervi, l’odore dello jodio e delle alghe annunciò il mare; poi lo sentirono. […] Rivolto verso Tarrou, egli indovinò sul viso calmo e grave dell’amico la stessa gioia che non dimenticava nulla, neanche l’assassinio. […] Rivestiti, andarono via senza aver pronunciato una parola; ma avevano lo stesso cuore, e il ricordo di quella notte gli era dolce. Quando scorsero da lontano la sentinella della peste, Rieux sapeva che Tarrou si era detto, come lui, che la malattia li aveva dimenticati per un po’, che questo era un bene, ma che adesso bisognava ricominciare.14

Il bagno in mare, che sembra benedire la loro amicizia, concede ai due una tregua: è la peste a dimenticarsi di loro, non il contrario, come se nell’attimo stesso in cui si riconoscono amici, Rieux e Tarrou vivessero uno stato di grazia. Si sa quanto Camus stesso amasse il mare,15 questo passaggio è quindi esemplificativo: l’amicizia non rappresenta una sospensione dalla tragicità della situazione, ma è piuttosto un momento necessario per tornare ancora più uniti a combattere la malattia.

Queste sono pagine veramente poetiche, in cui Camus è riuscito a rendere tutta la dolorosa bellezza della verità; tutta la sua vita è stata una battaglia per l’amore, contro il male, e qui emerge la difficile ambiguità di tale prospettiva: bisogna credere più nell’amore per il quale si combatte o nel male al quale si è chiamati a resistere?

Vorrei ora soffermarmi su alcune pagine leopardiane, in cui il sentimento dell’amicizia mi sembra sia espresso con tono altrettanto poetico: mi riferisco al Dialogo di Plotino e Porfirio. In questa operetta viene «messo in scena» il dialogo che tra Porfirio, il quale vorrebbe suicidarsi, e Plotino, che con varie motivazioni cerca di distogliere l’amico da tale proposito.

L’inizio rivela subito il tono generale del dialogo: «Porfirio», dice in apertura Plotino, «tu sai ch’io ti sono amico […] e non ti dei meravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa curiosità; perché nasce da questo, che tu mi stai sul cuore».16 Porfirio confida allora all’amico il suo «fastidio della vita», la noia, e dunque il desiderio di morire. Plotino cerca prima di replicare all’amico seguendo il filo «ragionevole» delle sue considerazioni, ma poi va oltre: il suicidio potrebbe essere anche comprensibile, analizzando razionalmente lo stato di infelicità a cui sono condannati gli uomini, ma c’è qualcosa che spinge ad andare al di là di questa ragionevolezza. Ecco le parole di Plotino, alla cui voce Leopardi, emblematicamente, dà il compito di concludere il dialogo:

Sia ragionevole l’uccidersi […] E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto, di esser secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anco non vorremo noi aver considerazione degli amici; […] delle persone famigliari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere gran tempo; che, morendo, bisogna lasciar per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione […]? […] Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non voler esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. […] Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. […] E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.17

La grandezza e la profondità del discorso di Plotino stanno nel fatto che il filosofo concorda con l’amico, da un punto di vista razionale, sull’infelicità dell’esistenza umana, ma nel tempo ultimo, estremo, della separazione dalla vita, un pensiero mette in discussione ogni convinzione razionale: il pensiero delle persone che ci sono accanto, con le quali dobbiamo «portare quella parte che il destino ci ha stabilita». Anche in questo caso, lungi dal trovare una risposta al male, si può decidere di accettarlo, di resistergli; e dunque, anche qui, non più la rivolta, ma l’umile battaglia dei compagni, degli amici.

Ciò che mi sembra significativo nel confronto tra il dialogo leopardiano e il passo di Camus è proprio la misura intima e piena di calore. Nel passo dell’operetta appena citato troviamo una dimensione che non è quella “sociale”, nel senso etimologico, de La ginestra: si tratta veramente di due amici che parlano, che arrivano a conoscere l’uno le ragioni del cuore dell’altro, così come accade nel passo de La peste. «Tu mi stai sul cuore», dice Plotino a Porfirio, e di Tarrou e Rieux ci viene detto che «avevano lo stesso cuore»; leggere affermazioni del genere da due autori che hanno guardato in faccia il male, fa capire quanto la loro considerazione dell’uomo fosse incommensurabile. L’estrema ragione porta ad essere un mostro, afferma Plotino, verità che Camus sperimentò sulla propria pelle, quando, nel corso della sua vita, ribellandosi alla rigida ragione delle ideologie, fu accusato da tutti i fronti. Meglio allora cercare di essere uomini, umile ambizione confessata anche da Rieux; o forse provare ad essere santi senza Dio, come Tarrou. L’unica cosa che conta è non perdere mai la misura dell’uomo, lo sguardo dell’altro che viene a darci misura di noi stessi. Lo stesso Camus nel pensiero meridiano parla di rivolta e misura: «Se il limite scoperto della rivolta trasfigura tutto; se ogni pensiero, ogni atto che oltrepassi un certo punto nega se stesso, c’è infatti una misura delle cose e dell’uomo».18

Come esempio contrastivo di ciò che si è mostrato nel confronto tra l’operetta morale di Leopardi e il dialogo tra Rieux e Tarrou ne La peste, si può analizzare un passo di un altro romanzo di Camus, La caduta, opera controversa, in cui, a differenza de La peste, sembra proprio che la razionalità arrivi ad essere talmente estrema da diventare delirio. Nessuno è innocente, questa la conclusione a cui sembra giungere Camus nel romanzo, e allora meglio continuare a stare dalla parte dei giudici. Il protagonista, che ha usato gli altri per nutrire il proprio io — un degenerato amor proprio, direbbe Leopardi — quando scopre la realtà di ciò che è stato, non può che prenderne atto, accettando con lucidità feroce la sete di giudizio e potere che è insita in ognuno. Ne La caduta, quindi, la prospettiva è opposta; se ne La peste l’obiettivo era quello di fare il meno male possibile all’altro, cercando semmai di fargli un po’ di bene, qui, dal momento che nessuno è innocente, non c’è possibilità né di salvarsi né di salvare gli altri. Ecco la tragica confessione del protagonista:

Non ho più amici, ho solo complici. In compenso ne è cresciuto il numero, sono diventati il genere umano. […] Come so che non ho amici? È semplicissimo. L’ho scoperto il giorno in cui ho pensato di uccidermi per giocar loro un bello scherzo, per punirli, in certo modo. Ma punire chi? Qualcuno si sarebbe meravigliato, nessuno si sarebbe sentito punito. Ho capito che non avevo amici.19

La situazione del dialogo leopardiano è rovesciata: l’amicizia non svela il suo senso nel tempo ultimo di chi si trova a tu per tu con la morte, piuttosto viene negata all’estremo, perché la vita non è che un processo generale, in cui ognuno giudica l’altro.20 Il fine non è più il bene dell’altro, neppure nella tiepida speranza di sentire per un attimo la sua vicinanza in un bagno in mare; il fine è la sua condanna.

Ma ecco che proprio il verdetto pronunciato dal protagonista, terribile e «mostruoso» nella sua lucidità, suggerisce nuovi interrogativi:

Creda a me, le religioni sbagliano a partire dall’istante in cui fanno la morale e scagliano comandamenti. Dio non è necessario per creare la colpevolezza degli uomini, né per punire. Bastano i nostri simili, aiutati da noi. Lei accennava al giudizio universale. Mi permetta di ridere rispettosamente. Io l’aspetto a piè fermo: ho conosciuto il peggio, il giudizio degli uomini. […] E allora? Allora, la sola utilità di Dio consisterebbe nel garantire l’innocenza, e io la religione la vedrei piuttosto come una grande impresa di lavatura cosa che del resto è stata, ma per breve tempo, esattamente tre anni, e non si chiamava religione.21

Tre anni, il tempo in cui tutti poterono credere di essere innocenti, liberati da un giudizio di condanna definitiva. Tre anni, il tempo in cui un uomo, perché questo fu Gesù, poté pronunciare parole di perdono verso altri uomini. Quel tempo è durato solo tre anni, dopodiché la religione non ha fatto altro che codificare altri comandamenti, formalizzando giudizi e condanne. L’interpretazione di queste considerazioni di Camus è molto complessa, ma occorre continuare a leggere:

Ciò non toglie che lui, il censurato, non abbia avuto la forza di continuare. […] in certi casi continuare, nient’altro che continuare, è uno sforzo sovrumano, può credermi. E lui non era sovrumano, può credermi. Ha gridato la propria agonia, e perciò l’amo, quest’amico morto senza sapere. […] Oh l’ingiustizia che gli han fatta e che mi stringe il cuore.22

Era un uomo anche lui, un uomo condannato ingiustamente: dopo di lui non si può neanche più tentare di essere innocenti; dopo di lui non si può che portare avanti l’esercizio legittimo di condanna gli uni verso gli altri.

Il verdetto è terribile, l’abisso diventa più fondo, un interrogativo sempre più grande sale alla coscienza: che cos’è l’altro per me? Quello che resta è l’ultimo atto della fede, umanissima, di Camus, la fede in questo «amico», che non fu sovrumano, ma che poté portare una speranza di innocenza. La stessa fede umana che traspare dal testamento leopardiano de La ginestra.

«L’inferno è qui, da vivere. Gli sfuggono solo quelli che si estraniano dalla vita», scrive Camus in un appunto del 1952, e subito dopo si legge quest’altro appunto: «Chi testimonierà per noi? Le nostre opere. Ahimé! Chi allora? Nessuno, nessuno tranne quei nostri amici che ci hanno visto in quell’attimo del dono in cui il cuore si consacrava interamente a un altro. Insomma quelli che ci amano. Ma l’amore è silenzio: Ogni uomo muore sconosciuto».23

Nello stesso silenzio rimane Porfirio, eppure anche a lui Plotino aveva garantito il ricordo degli amici, la testimonianza di un legame che resta. Vengono in mente le parole di Gesù ai discepoli prima dell’addio, riportate dal Vangelo di Giovanni: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i proprio amici. […] Non vi chiamo più servi […] ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv. 15,12-15). Anche in questo caso l’amicizia ha un tempo ultimo, si rivela nel momento estremo prima della separazione: una speranza viene lasciata in eredità ai discepoli, la speranza di rivedere quell’«amico».

Per Leopardi e Camus tale speranza è negata; resta la fede silenziosa in un amore tra gli uomini, in un’amicizia che nasce sul finire, che, proprio nel momento in cui unisce, si oppone alla separazione, alla forza disgregatrice della morte. Restano le pagine, che continuano a testimoniare la necessità della vicinanza umana. Tanto Camus quanto Leopardi, nella loro visione dell’esistenza, ci insegnano che la vera amicizia si rivela sempre in un tempo ultimo, estremo, sul confine tra l’essere e il non essere: i veri amici testimonieranno per noi quando non ci saremo più; ma i veri amici, soprattutto, sanno restare e sanno farci restare, dandoci la forza per resistere un attimo di più. In ogni caso è una vittoria, benché umile, della vita sulla morte.

 

Note

  1. Luigi Capitano, «L’assurdo e la rivolta. Camus alla luce di Leopardi», http://mondodomani.org/dialegesthai/lca01.htm.
  2. Norbert Jonard, «Leopardi et Camus», Revue de littérature comparée, 1972, pp. 233-247.
  3. Luigi Capitano, «L’assurdo e la rivolta. Camus alla luce di Leopardi», cit.
  4. Albert Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, a cura e con introduzione di Roger Grenier, Apparati di Maria Teresa Giavieri e Roger Grenier, Bompiani, Milano 2000, p. 942.
  5. Sergio Givone, Metafisica della peste. Colpa e destino, Einaudi, Torino 2012, p. 20.
  6. Albert Camus, La peste, Bompiani, Milano 2002, p. 169.
  7. Giacomo Leopardi, Lettere, in Tutte le opere, con introduzione e a cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Sansoni, Firenze 1969, vol. I, p. 1414.
  8. Sergio Givone, Metafisica della peste. Colpa e destino, cit., p. 115.
  9. Alberto Folin, Leopardi: l’amicizia che resta, in Il volto dello straniero da Leopardi a Jabès, a cura di A. Marsilio, Marsilio, Venezia 2003, p. 136.
  10. Giacomo Leopardi, Zibaldone, 104.
  11. Alberto Folin, Leopardi: l’amicizia che resta, cit.pp. 135-146: 145-146.
  12. Albert Camus, La peste, cit. pp. 196-197.
  13. Ivi, pp. 197-199.
  14. Tra le molte considerazioni di Camus sul suo rapporto col mare cfr. la seguente, che sembra riflettersi nell’azione e nelle parole dei due protagonisti de La peste: «In mare. Il mare sotto la luna, le sue distese silenziose. Sì, è qui che mi sento in diritto di morire tranquillo, è qui che posso dire: “Ero debole, e tuttavia ho fatto ciò che ho potuto”». Albert Camus, Taccuini 1951-1959, Bompiani, Milano 2004, p. 67.
  15. Giacomo Leopardi, Operette morali, a cura di Giorgio Ficara, Mondadori, Milano 1988, p. 236.
  16. Ivi, pp. 250-251.
  17. Albert Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 939.
  18. Albert Camus, La caduta, in Opere, cit., p. 1063.
  19. Sul tema della giustizia in questo e in altre opere di Camus rimando alle interessanti pagini di Fabio Pierangeli, Indagini e sospetti. Pirandello Camus Dürrenmatt Sciascia Betti, L’Epos, Palermo 2004. In particolare su La caduta si legge: «Schegge di pazzia, profonde verità, in questo personaggio eccentrico, seduto a cavalcioni tra il desiderio della gratificazione mondana e la dimissione definitiva dalle ambizioni personali. Il romanzo ha tuttavia offerto riflessioni sul tema dell’amministrazione della giustizia. Oscillanti e contradditorie, profonde» (p. 122).
  20. Albert Camus, La caduta, in Opere, cit., pp. 1083-1084.
  21. Ivi, pp. 1085-1086.
  22. Albert Camus, Taccuini 1951-1959, cit., p. 60.

 

Luigi Capitano

L’assurdo e la rivolta.
Camus alla luce di Leopardi

L’uomo in rivolta non chiede la vita, ma le ragioni della vita.

Camus

1. Il titanismo leopardiano e i suoi precursori

Rivisitare le categorie squisitamente camusiane di «assurdo» e di «rivolta metafisica» alla luce di un precedente rimosso quale Leopardi1 può risultare alquanto istruttivo, specie se si riesce a scorgere nel pensatore italiano non già un semplice anticipatore di Camus, bensì l’inauguratore di quell’orizzonte nichilista e assurdista con il quale Camus cercherà di confrontarsi nelle sue opere di maggior impegno filosofico.

Per quanto l’atteggiamento di Leopardi oscilli spesso fra rassegnazione e protesta, la sua rivolta contro l’assurdo non rinuncia mai reclamare il senso ultimo dell’esistenza. Come ha notato anche Walter Benjamin, «la presa di posizione spirituale verso il corso naturale del mondo in Leopardi assume sempre più la forma di una ribellione».2 Non per nulla si è potuto parlare di uno spirito ribelle che è stato definito, di volta in volta, «titanico», «eroico», «combattivo».3 Né è privo di significato il fatto che Leopardi si riconosca nella figura di Bruto, confessando di abbracciare per intero la sua «filosofia disperata» e i suoi sentimenti avversi al destino.4 Si tratta di una posizione di disprezzo per ogni facile consolazione che sarà rilanciata nella figura di Tristano posta da Leopardi a suggello delle Operette morali. Un simile atteggiamento è quello che Camus avrebbe definito «rivolta metafisica», ovvero «il movimento per il quale un uomo si erge contro la propria condizione contro l’intera creazione».5 La «rivolta metafisica»6 di Leopardi sembrerebbe aver conosciuto i suoi più lontani precedenti in Epicuro, Lucrezio, Giobbe; il più recente in Voltaire.7

Secondo Lucrezio, Epicuro fu «il primo uomo di Grecia» che «osò alzare» eroicamente «gli occhi mortali» contro la Religione opprimente, il «primo ad ergersi contro» il cielo con vittoriosa e «vivida forza dell’animo».8 Dopo aver cercato invano di addolcire «col miele delle Muse» la verità del divino maestro Epicuro, Lucrezio lasciò interrotta la sua opera sulla scena impressionante della peste che infuriava ad Atene e sulla vanità degli umani affanni di fronte alla malattia e alla morte. Camus osserverà che «non è un caso se il poema di Lucrezio si chiude su di una prodigiosa immagine di santuari divini gonfi di cadaveri accusatori delle peste».9 E mentre per lui «Epicuro, nell’epopea di Lucrezio, fu il magnifico ribelle che non era».10 con Lucrezio comincerebbe a serpeggiare l’idea di un «dio personale» «sordo»11 e «assassino» contro cui si renderebbe finalmente possibile una «rivolta metafisica». La tesi di Camus è nota: «la storia della rivolta nel mondo occidentale è inseparabile da quella del cristianesimo. Bisogna attendere infatti gli ultimi momenti del pensiero antico perché la rivolta cominci a trovare un suo linguaggio, in alcuni personaggi di transizione, e in nessuno più profondamente che in Epicuro e Lucrezio».12

Dai versi di Lucrezio traspare la polemica contro l’ottimismo e il provvidenzialismo degli stoici piuttosto che contro la natura noverca e matrigna,13 anche se non mancano in lui accenti che possono apparire sorprendentemente leopardiani, specie se riletti in una luce retrospettiva. Per Lucrezio, come già per Stratone di Lampsaco14 (l’autore immaginario del Frammento apocrifo), esiste nella natura una forza arcana che sorregge tutte le cose, giocando col mondo proprio come il «fanciullo invitto» di Leopardi. È tale forza che sembra beffarsi degli uomini quando fa tremare la terra e quando, a causa dei suoi scuotimenti, «cadono le città». La natura si mostra «nemica al genere umano»: con fatica è il nascimento ai viventi, e solo con lo sforzo del lavoro la terra concede i suoi frutti. Lucrezio dipinge lo sgomento di fronte alla furia degli elementi, alla crudeltà della natura, ai morbi e alla morte acerba che si aggirano per il mondo. Tali motivi,15 insieme all’apparente rivolta contro la natura avversa, anticipano con forza il tema leopardiano della natura matrigna.

2. Al di qua della «rivolta metafisica»

Secondo Camus la «rivolta metafisica»16 è un parto relativamente recente nella storia delle idee che non può, a rigore, essere fatta risalire a «prima della fine del Settecento».17 Egli pensa al marchese De Sade quale capostipite di quella galleria di ribelli metafisici che prosegue con i nichilisti dostojesvskijani, Stirner, Nietzsche, Lautréamont, Rimbaud, Breton, ecc. Al contrario, i Greci e gli antichi in generale non poterono accedere a una vera e propria «rivolta metafisica», dal momento che quest’ultima presuppone «una visione semplificata della creazione».18 E tuttavia, con Epicuro e Lucrezio anche a Camus pare che qualcosa cominci a muoversi in questa direzione; qualcosa di ignoto agli eroi tragici (si pensi a un Prometeo). Neanche il più ribelle fra i Greci avrebbe mai osato insorgere contro la natura o il cosmo, contro quello che ancora non poteva chiamarsi «creato». Ma rimane da chiedersi: ciò che ricade al di qua del creazionismo moderno-cristiano19 è fatalmente condannato a sfuggire al pensiero moderno della rivolta, oppure quelle condizioni di possibilità rimaste inavvertite nel passato possono emergere solo a posteriori?

Pensiamo a Giobbe. Fra i precursori più o meno problematici della «rivolta metafisica» è d’obbligo soffermarsi un attimo a riflettere anche su questa figura del tardo giudaismo che mise in questione la stessa teodicea, in un tempo in cui non esisteva la necessità (e nemmeno la possibilità) di alcuna teodicea. La sua denuncia dell’incomprensibilità del male e della vanità del tutto, ossessivamente presenti nel Libro di Giobbe e nell’Ecclesiaste, rimangono i motivi che hanno fatto vibrare in Leopardi le due più irriducibili corde dello scandalo biblico. Se Qohélet rimane l’emblema della vanità universale, ad uno sguardo ex post Giobbe assurge quasi a simbolo della lotta metafisica contro l’assurdo. Nel Canto del pastore errante, ad esempio, la domanda eterna e senza risposta di Giobbe («perché la luce è data a chi pena?») 20 si ripropone insieme a quella sul senso del dolore e della stessa esistenza:

Ma perchè dare al sole

Perchè reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura

Perchè da noi si dura?21

Leopardi osserva come «Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita, ec.»,22 mentre «gli amici e la moglie di Giobbe lo stimarono uno scellerato, com’ei lo videro percosso da tante disgrazie».23 Lo spirito della lamentazione e dell’interrogazione jobica si trova diffuso in tutto Leopardi, e il pensiero corre subito alle figure dell’Islandese o a quella del pastore errante. V’è in Giobbe un’inesauribile e inappagata sete di senso che si infrange contro il misterioso silenzio di un Dio nascosto24 e lontano.25 Giobbe non si stanca di cercare le ragioni delle afflizioni che lo provano con furia tanto incomprensibile quanto ingiustificata. L’accusa di Giobbe e la sua rivolta contro l’assurdo26 sembrano precorrere da lontano la protesta di Leopardi,27 per non dire quella di Camus.

Si è ritenuto di poter ravvisare una vena d’assurdismo anche nell’Ecclesiaste28 laddove si legge che ogni occupazione dell’uomo è come un «pascersi di vento», un «inseguire il vento», testualmente: re’ut ruah, come dire un agire insensato e un vano agitarsi.29 Sennonché, il mondo dell’insensato e dell’invano non può ancora propriamente dirsi il mondo dell’assurdo, almeno finché vi sia un Dio che rimanga il garante del senso ultimo del Tutto e finché non si sia levato alcun lamento sulle rovine del senso. Pur non raggiungendo il grado di una coscienza pienamente nichilistica, la sapienza qohéletica contribuisce a porre una delle più remote premesse del nichilismo europeo. La persuasione della vanità/nullità del tutto rimane, infatti, il teorema fondante del nichilismo. A questo teorema la sapienza negativa di Giobbe avrebbe impresso, almeno secondo alcune interpretazioni, un’intonazione di segno assurdista. Ma la dimensione dell’assurdo evocata da Giobbe viene alla fine riassorbita dal mistero divino,30 né riesce a dissipare la struttura della provvidenza e della teodicea, pur mettendola coraggiosamente in discussione. Come si vede, la rivolta metafisica non scivola necessariamente verso il nichilismo più estremo. Per Leopardi piuttosto che un eroe nichilista, Giobbe rimane un ribelle metafisico e una figura sublime del titanismo antico. Gli antichi, infatti, nella loro eroica grandezza, arrivavano ad imprecare e perfino a rivoltarsi contro quelle divinità con le quali continuavano ad intrattenere un intimo legame religioso. Appena prima di nominare Giobbe Leopardi aveva accennato ai casi di Giuliano l’Apostata31 e di Niobe.32 Secondo la leggenda l’imperatore romano avrebbe scagliato contro il cielo il proprio sangue nel momento della sconfitta, maledicendo — pur ferito a morte — la vittoria del «Galileo». Il mito di Niobe è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio.33 Niobe, che fino a poco tempo prima aveva osato allontanare i fedeli dall’altare di Latona (madre di Apollo e Diana), vantandosi con troppa audacia contro la dea della propria prolificità, è quindi costretta a compiangere, impietrita dal dolore, i suoi quattordici figli spietatamente colpiti a morte dalla punizione divina. Ma si può interpretare un atto di vana superbia quale quello di Niobe come un atto di rivolta contro il volere degli dèi? «Si professava vinta ma non cedente»,34 «si racconta, se non fallo». Così Leopardi.

Secondo Leopardi, una volta tramontato l’età eroica del mito, l’individuo si ritrovò da solo, e pertanto non potè rivolgere la propria protesta che contro se stesso, essendo svanite le figure estranee all’uomo personificanti il fato. Mentre uno spirito religioso come Giobbe, oltre a maledire se stesso, poteva ancora scagliare contro il cielo il suo lamento tanto più alto quanto più forte era rimasta la sua fede e nobile e alta la sua illusione.

Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto di Giuliano moribondo, non so se sia storia o favola. Di Niobe, dopo la sua sventura, si racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente. […] . Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l’eccesso dell’infelicità indipendente dagli uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta all’odio e alle bestemmie degli enti invisibili e superiori: e questo, tanto più quanto più l’uomo […] è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec.35

Da notare l’espressione: «eccesso dell’infelicità indipendente dagli uomini», che esprime nel modo più chiaro l’essenza del male del mondo, l’irreparabile condizione metafisica dell’uomo. Nel «Preambolo» al Manuale di Epitteto (1825) Leopardi porterà ancora un altro esempio di rivolta contro il fato e di volontà di «far guerra feroce e mortale al destino»: i Sette a Tebe di Eschilo. Qui infatti la partita non è solo contro gli uomini che hanno usurpato il potere, ma contro il destino che ha decretato fin dall’inizio la sconfitta degli eroi. Già nell’agosto del 1820 Leopardi aveva scoperto il pessimismo greco «della forza» tramite l’opera di Barthelemy Voyage du jeune Anacharsis en Grèce36. A proposito di Eschilo, poi, annota:

Ses héros aiment mieux être écrasés par la foudre que de faire une bassesse, et leur courage est plus inflexible que la loi fatale de la nécessité.37

Il coraggio degli eroi, più forte della stessa legge di Ananke, è ciò che affascina Leopardi, quel loro titanismo «inflessibile», che Nietzsche chiamerà «pessimismo della forza». Camus potrà dire analogamente, con lo sguardo rivolto al suo eroe assurdo: «non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo».38

Il «Preambolo» al Manuale di Epitteto chiarisce le due posizioni paradigmatiche — la ribelle e la rinunciataria — che rappresentano secondo Leopardi la grande alternativa fra «gli spiriti grandi e forti» dell’antichità e «gli animi di natura o d’abito non eroici» caratteristici, invece, della modernità.

L’uomo non può nella sua vita per modo alcuno né conseguir la beatitudine né schivare una continua infelicità. Che se a lui fosse possibile di pervenire a questi fini, certo non sarebbe utile, nè anco ragionevole, di astenersi dal procacciarli. Ora non potendogli ottenere, è proprio degli spiriti grandi e forti l’ostinarsi nientedimeno in desiderarli e cercarli ansiosamente, il contrastare, almeno dentro se medesimi, alla necessità, e far guerra feroce e mortale al destino, come i Sette a Tebe di Eschilo, e come altri magnanimi degli antichi tempi.39

La morale di Epitteto, con la sua esaltazione dell’indifferenza tranquillizzante e anestetizzante si attaglierebbe dunque più ai tempi moderni che a quelli antichi. Le pagine 503-507 dello Zibaldone testimoniano l’oscillazione irrisolta nell’anima di Leopardi fra titanismo e rassegnazione,40 eroismo e rinuncia, un’indecisione destinata a trascinarsi fino al cosiddetto ‘ciclo di Aspasia’. Nei suoi momenti peggiori Leopardi non trova la forza per opporsi al destino, ma non sa neppure rinunciare alla lotta. Neanche quando in lui il tono pessimista si fa più disperato, egli riesce ad abbandonare ogni speranza: «La disperazione medesima non esisterebbe senza la speranza».41 È quella «disperata speranza»42 che risuonerà anche nell’opera acerba del maggiore spirito leopardiano del primo Novecento: Carlo Michelstaedter. Cadono più che mai a proposito le parole di Walter Benjamin: «solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza».43

3. Due anelli mancanti: Voltaire e Leopardi

Nella ricostruzione camusiana della «rivolta metafisica» si avverte l’assenza di Leopardi come quella di Voltaire. Dietro il leopardiano Dialogo della Natura e di un Islandese si cela infatti l’atteggiamento pessimisticamente vitale di quel Voltaire che Thomas Mann non avrà difficoltà a riconoscere come un ribelle metafisico:

Voltaire si ribellò […]. Sì, ebbe un moto di rivolta contro il fatto e fato brutale, rifiutò di abdicare [“davanti alla potenza stupida, ossia alla natura”44] . Protestò in nome dello spirito e della ragione contro quello scandaloso eccesso della natura, del quale caddero vittime tre quarti di una città fiorente e migliaia di vite umane. […] questa è l’ostilità dello spirito contro la natura, la sua superba diffidenza contro di essa, la sua magnanima insistenza sul diritto di criticarla insieme con la sua maligna e irragionevole potenza.45

Voltaire […] in nome della ragione aveva protestato contro lo scandaloso terremoto di Lisbona. Assurdo? Anche questo era assurdo, ma, tutto ben considerato, si poteva benissimo […] vedere nell’assurdo l’aspetto spiritualmente onorevole.46

Nel Poema sul disastro di Lisbona, non riuscendo ad accettare la crudeltà e l’assurdità del fato, Voltaire vi si sarebbe rivoltato contro. Ma c’è da osservare come per Voltaire l’assurdo non consista tanto nel semplice silenzio della natura, quanto nel fatto che l’uomo continui ad interrogarla invano: «la natura è muta, vanamente l’interroghiamo».47 La protesta voltairiana risuonerà anche nel Dialogo tra il filosofo e la Natura (1771), in particolare là dove viene sollevata, accanto alla «domanda fondamentale della metafisica», la vecchia sapienza silenica e la denuncia della natura che divora ferocemente se stessa.48 Quello della natura carnefice di se stessa è un topos alquanto diffuso nel Sette-Ottocento: lo si ritrova in Hume,49 in Barthelemy,50 in Goethe,51 in Foscolo,52 nonché in Leopardi,53 Fichte54 e Schopenhauer. Quest’ultimo vedeva notoriamente il mondo come «un’arena di creature […] che esistono solo a condizione di divorarsi a vicenda».55 Nel citato dialogo voltairiano il filosofo si rivolge alla Natura con queste domande:

Mia cara madre, dimmi un po’perché esisti, perché esiste qualcosa? […] Il niente varrebbe meglio di questa molteplicità di esistenze fatte per essere continuamente dissolte, di questa moltitudine di animali nati e riproducentisi per divorarne altri ed essere a loro volta divorati, di questa folla di esseri senzienti formati per provare tante sensazioni dolorose e questa folla di intelligenze che così di rado intendon ragione? A che pro tutto questo, Natura?56

La Natura risponderà al filosofo che ella non ne sa nulla, e che tanto varrebbe rivolgere la domanda più in alto: «Interroga chi mi ha fatta».57 Che abbia un senso interrogare anziché no, sembra rimanere in tal modo garantito da Dio.

Un altro importante archetipo letterario che viene tenuto presente da Leopardi nel Dialogo della Natura e di un Islandese è quel Voyage du jeune Anacharsis en Grèce (1788) di quel Barthélemy che lo aveva riaccostato al pessimismo e al «nichilismo» silenico dei Greci:

Ma da dove viene ciò che esiste? da dove viene ciò che perisce, questi esseri? Che significano questi cambiamenti periodici che si succedono eternamente sul teatro del mondo? A chi è destinato uno spettacolo così terribile? forse agli dei, che non ne hanno alcun bisogno? forse agli uomini che ne sono le vittime? Ed io stesso, su questo teatro, perché mi hanno forzato a prendere un ruolo? perché trarmi dal nulla senza il mio consenso, e rendermi infelice senza chiedermi se consentivo ad essere? Io interrogo i cieli, la terra, l’universo intero. Cosa possono rispondere? eseguono in silenzio gli ordini di cui ignorano i motivi.58

Questo brano sembra ispirato al barone D’Holbach, che considerava gli uomini sventurati per essere stati jetés dans le monde sans leur aveu, «gettati in questo mondo senza il loro consenso».59

Nell’Uomo in rivolta Camus ha dipinto una variegata quanto memorabile galleria dei ribelli metafisici. Peccato non potervi incontrare figure come Voltaire e Leopardi. Per quanto riguarda gli eroi della mitologia classica, Camus ricorda Prometeo solo per avvertirci di non cadere nell’errore di scorgere in lui un eroe della rivolta metafisica: la teodicea tragica (sempre conciliante e comunque estranea all’idea della creazione da parte di un Dio personale) impedisce una simile interpretazione. Intanto la questione che Camus mi sembra lasciare in sospeso è un’altra: possiamo mettere sullo stesso piano tutti i personaggi della (vera o presunta) rivolta metafisica?

Il Dialogo della Natura e di un Islandese è l’operetta che per molti versi segna la svolta al cosiddetto ‘pessimismo cosmico’. L’Islandese è un viaggiatore errante come il pastore asiatico, poco meditativo e perseguitato dalla natura60 come il Candido di Voltaire dalla sfortuna Come Achille fra le ombre dell’Ade, o come l’Odisseo platonico nostalgico della sorte più trascurabile. Come Giobbe «colpevole […] di qualche ingiuria»61 a lui stesso ignota. Straniero al mondo come un’anima gnostica.62 Con l’Islandese Leopardi torna a protestare insieme all’Anima (del Dialogo della Natura e di un’Anima): che colpa ho commesso per venire «abbandonato dalla natura al caso»,63 in questo luogo inospitale ed ostico? Ma ora non c’è più la promessa insostenibile da parte della Natura di conferire col destino per riuscire ad ottenere una risposta. La Natura non ha più l’alibi di un fato che la sovrasta e può finalmente essere messa alle strette. Nell’omonima operetta l’Islandese appare perseguitato a partire dal Nord più glaciale del mondo abitato fino all’Africa subequatoriale più desertica come se fosse «colpevole» di qualcosa.64

La sfingea Natura, dalla «forma smisurata di donna»,65 romperà il silenzio solo per dire che lei non si avvede «se non rarissime volte»66 dell’infelicità da lei procurata ai viventi. Ma perché così raramente? Perché l’Islandese tocca qui inavvertitamente la Natura nel suo punto più nevralgico: la coscienza umana. L’uomo è divorato o avvolto definitivamente dal mistero sublime della Natura nel momento stesso in cui scopre di essere lui stesso Natura. Questa quasi umanizzazione di una natura mostruosamente indifferente alla felicità dei viventi è ciò che rende questo monologo dell’Anima con se stessa apparentemente tragico, poiché di un monologo inespresso si tratta, e soprattutto di un dialogo impossibile fra il tragico e l’assurdo, oltre che fra il drammatico interrogare dell’uomo e l’assurdo silenzio dell’Essere. Ma a sdrammatizzare l’aria da tragedia che pure sembra spirare nell’operetta rimane la sorte caricaturalmente e iperbolicamente antiprovvidenziale dell’Islandese e il finale scopertamente umoristico67 che lascia lo spazio a un sorriso tutto metafisico.

Lontana dal molesto consesso degli uomini, l’Anima dialoga con la Natura estranea per riuscire a scoprire la radice del dolore, nella vana speranza di poterla estirpare. L’Anima ha già disimparato a reclamare una «vita vitale», una «vera vita». Chiede solo, a costo di ridurre la propria vita al grado zero («non godendo non patire», quasi una degradazione dello stoico resistere astenendosi) di poter svelare il mistero del male nel mondo. Non pretende di essere «grande e infelice» (come avrebbe detto D’Alembert),68 ma come l’Achille omerico e l’Odisseo platonico reclama anzi una vita umile e priva di inutili inquietudini: «una vita oscura e solitaria» (per dirla con le parole dell’Ottonieri).69 In fuga da un mondo pessimisticamente percepito come «lega di birbanti»,70 l’Islandese si accontenterebbe di poter raggiungere, stoicamente, la «tranquillità della vita».71 Ma la Natura non gli dà tregua e lo incalza ad ogni piè sospinto. Inizia così la protesta dello spirito più rinunciatario, antieroico e disperato al mondo. Una denuncia resa ancora più drammatica e paradossale dal tono confidenziale che si deve ad una madre pure così algida: «tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia…»;72 «tu sei nemica73 scoperta degli uomini»; «sei carnefice della tua propria famiglia».74 La requisitoria ha il tono di una dolente lamentazione, ma anche quello di una ferma e virile protesta: le continue calamità e l’impossibilità di sfuggire alla furia della natura negano il fine naturale dell’uomo, il suo diritto alla felicità. La natura appare gnosticamente simile ad una prigione squallida e inospitale: «una cella tutta lacune e rovinosa».75 Di analogo tenore appaiono i versi della Quiete dopo la tempesta: «O natura cortese/ sono questi i tuoi doni?» o quelli di A Silvia: «O natura, o natura, / Perché non rendi poi/ Quel che prometti allor? Perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?». Ma si può pure pensare ai versi della prima canzone sepolcrale: «Se danno è del mortale/ Immaturo perir, come il consenti/ […]?».76 Senza dimenticare quelli accorati dell’inno ad Arimane: «Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? L’amore? … per travagliarci col desiderio, col confronto degli altri, e del tempo nostro passato, ec. / Mai io non mi rassegnerò ec.». La risposta della Natura è sconcertante quanto disarmante: «Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte».77 La Natura rimane ovunque «ignara»,78 indifferente e insensibile fuorché in un solo punto: l’uomo, «piccola parte» della Natura, come dice Voltaire nel Dialogo tra il filosofo e la Natura (che fa da sfondo all’analoga operetta leopardiana, in cui la parte del filosofo è svolta dall’Islandese). Come nel finale del Cantico del gallo silvestre il mondo si dissolve in un sublime silenzio prima che l’«arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale»79 venga inteso da alcuno, così pure la vita dell’Islandese si dissolve nel mistero: forse divorata da due macilenti animali feroci, due leoni (epilogo tragico) o forse coperta dalla sabbia del deserto (finale assurdo). Ad uccidere l’Islandese, al di là del finale umoristico che non riesce ad allentare la tensione tragica, è la stessa atmosfera dell’assurdo che si è ormai creata; è la fame del deserto, è il deserto stesso. Ad uccidere l’Islandese è il deserto del senso, la caduta di ogni teodicea e di ogni teleologia incentrate sull’uomo. Con la comparsa dell’assurdo scompare il senso del tragico.80 L’Islandese non è un eroe nichilista, ma è un’Anima disperata e rinunciataria che, quasi fosse stata istruita su un manuale stoico di vita,81 sarebbe ben disposta a venire a patti con la Natura pur di ottenerne in cambio la garanzia del quieto vivere. Al contrario, scopre che la sua è la tragedia di un mondo da cui è scomparso il tragico e che perciò si è tramutato in assurdo. A tale assurdo non si può sopravvivere quando si sia avuto l’ardire di guardarlo in faccia «nulla al ver detraendo». L’Islandese è l’anima antieroica del mondo nichilistico nel quale abbiamo fatto ingresso allorquando abbiamo scoperto che non esiste più il fato ed è dileguato il senso del tutto. La legge bronzea della natura parla di sé come di un meccanismo cieco: un cortocircuito di produzione e distruzione senza fine né meta. La richiesta di senso del viaggiatore metafisico cade dunque nel vuoto di fronte al silenzio della Natura. L’uomo solo, in fuga dall’infelicità, si trova alla resa dei conti con l’enigma ultimo del mondo; un enigma di cui, come dirà Nietzsche in Verità e menzogna, «la natura ha gettato via la chiave».82 Nietzsche ha di fatto esplicitato il senso della rivolta metafisica leopardiana quando ha scritto (a proposito del nichilista ingenuo e insoddisfatto): «non dovrebbe darsi un essere privo di senso e vano».83 Questa protesta rappresenta benissimo l’«iperbolica ingenuità» (ancora parole di Nietzsche), il candore dell’Islandese. È l’iperbolico candore di Leopardi (quello stesso che Bontempelli ritroverà in Pirandello), il suo inguaribile umanesimo antropocentrico a spingere l’Islandese ad intentare un vero e proprio «processo alla natura».84

Nell’interrogazione spasmodica e disperata dell’Islandese risuona non solo la protesta di Giobbe sul senso del dolore e della colpa, ma si annuncia anche quella «rivolta metafisica» che solo larvatamente aveva trovato in Lucrezio e in Voltaire dei pallidi quanto improbabili precursori. Ma laddove in Giobbe il male si traduceva in nonsenso (infine dissolto e riassorbito nel mistero divino), in Leopardi è il nonsenso che si risolve in irriducibile e inesplicabile male metafisico, e quindi in assurdo. Nietzsche dirà: «Il nichilismo appare ora non perché il dolore dell’esistenza sia maggiore di prima, ma perché si trova diffidenza a vedere un ‘senso’nel male della stessa esistenza».85

A dispetto dell’immagine spiritualizzante offertane da Mann, Voltaire non era certo quel titano della rivolta metafisica da lui dipinto, ma solo uno che si sarebbe accontentato di poter coltivare, metaforicamente parlando, l’utopia possibile del «giardino» della finitezza. Bisognava, insomma, poter immaginare Candido felice. Leopardi si associa bensì alla critica voltairiana dei filosofi ottimisti alla Leibniz, ma si discosta dall’illuminista francese allorché quest’ultimo lascia uno spiraglio aperto all’utopia del principio di speranza: «Un giorno tutto sarà bene, ecco la nostra speranza;/ Tutto è bene oggi, ecco l’illusione».86 L’antiprovvidenzialismo di Leopardi appare inoltre decisamente più spinto e di quello voltairiano, scevro com’è da ogni ipoteca divina. E tuttavia Leopardi rimane d’accordo con Voltaire almeno su un punto: dalla somma di tanti mali non potrà mai risultare un «bene generale». E soprattutto il Recanatese condivide la diagnosi pessimistica di Voltaire: «Bisogna ammetterlo, il male è sulla terra»;87 «il male esiste».88 Contro Rousseau, per Leopardi come per Voltaire, non esiste un Dio di bontà. Si tenga presente che il dilemma (o tetralemma) di Epicuro era stato a suo modo risolto da Voltaire (come gli avrebbe rimproverato Rousseau) 89 a danno della bontà e provvidenza di Dio: «perché voler giustificare la sua potenza a scapito della sua bontà?»90 Resta tuttavia la grande differenza di fondo: laddove Voltaire contesta la teodicea leibniziana, Leopardi la capovolge. Per lui «tutto è male».91 La filosofia della catastrofe si rovescia in una catastrofe della filosofia. Siamo al collasso dell’ontoteologia e all’aperta crisi della fiducia metafisica nel finalismo antropologico e cosmologico. Non solo la vita manca del suo fine, ma ovunque il fine dilegua. Se «il terremoto di Lisbona fu sufficiente per guarire Voltaire dalla teodicea leibniziana»,92 esso bastò a trasformare il giardino di Voltaire, per non dire quello della Bibbia, in un universo malato.

Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo (e quindi è ben difficile il supporre ch’ella non sia un male p. [er] l’universo intero, e ancora più difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, De malheurs de chaque être un bonheur général. Voltaire, épître sur le désastre de Lisbonne […] . Non si comprende come dal male di tutti gl’individui senza eccezione, possa risultare il bene dell’universalità; come dalla riunione e dal complesso di molti mali e non d’altro, possa risultare un bene.93

Dopo Leopardi, e sulla sua scia, Schopenhauer prenderà una netta posizione contro l’ingiustificato «ottimismo» che impronta di sé il pensiero di Leibniz come quello di Rousseau,94 schierandosi nel dibattito sorto dal Poema sul disastro di Lisbona a favore di Voltaire.95 Di lì a poche pagine si trova la menzione di Leopardi che suggella la catena dei grandi pessimisti di tutti i tempi.

Se alcune condizioni del nichilismo possono essere ravvisate nel pensiero di Pascal (con la sua ipotesi di un mondo senza Dio) 96 e di Voltaire (con la sua denuncia della teodicea più ottimistica), l’orizzonte nichilista emerge solo grazie a Leopardi con un’evidenza senza precedenti. Leopardi, infatti, ha scoperto per la prima volta nella storia del pensiero occidentale che il mondo non è semplicemente irrazionale o infondato (in quanto privo di una ragione sufficiente, diceva anche Schopenhauer), ma che esso è, a rigor di termini, assurdo. Si tratta di una scoperta inaudita e di una tale portata da stentare ancora ad essere compresa. Leopardi ha scoperto non già l’insensatezza del mondo, bensì la sua assurdità, ossia la sua sordità rispetto ad ogni umano appello dei senso. Egli ha avvertito per primo l’urto e la dissonanza fra la «domanda fondamentale» e il silenzio del mondo. Laddove la semplice constatazione dell’insensatezza poteva portare alla «rassegnazione» quale «sola redenzione del mondo»,97 la lucida coscienza dell’assurdo conduce invece ad un’inevitabile «rivolta metafisica» nel senso di Camus, ossia ad una «sfida» aperta contro il nonsenso del mondo. Al contrario di Schopenhauer, Leopardi non si rassegnò mai, novello Bruto che «gl’infausti giorni/ virile alma ricusa».98 Protestò anche contro l’imperio di Arimane — in cui Dio, Natura e Fato si fondevano in una sola figura — contro cui scagliò parole veementi e titaniche: «Pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà […] Mai io non mi rassegnerò».99 Non si deve dire a questo punto che Leopardi ha svelto ben prima di Camus le radici dell’assurdo? Se sì, vediamo in che modo.

 

4. Alle radici dell’assurdo

Leopardi ha spesso utilizzato il termine «assurdo», pur limitandosi ad intenderlo in modo alquanto tradizionale, cioè senza distinguerlo bene dal controsenso, dal contraddittorio, dal paradossale. Intorno al 1820 egli poteva scrivere, ad esempio: «Pare un assurdo,100 e pure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni».101 Quando poi nello stesso anno scriveva che «il sistema della natura e delle cose è totalmente assurdo» si trattava solo di un’ipotesi ‘assurda’,102 ma questa volta in un altro senso della parola. Il giovane Leopardi non aveva ancora avvertito la crisi del sistema della natura, anzi si trascina ancora dietro l’illusione di una natura benefica corrotta dalla ragione così come l’illusione di una religione quale unico rimedio contro le assurdità di una vita destinata all’infelicità e tentata perciò dalla razionalità del suicidio. L’assurdo si affaccia così per la prima volta come un’ipotesi paradossale, quasi come una mostruosità da rimuovere. Il punto di svolta è rappresentato dalle Operette morali, in cui Leopardi progettava di illustrare «gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia».103 L’idea dell’assurdo in Leopardi si insinua soprattutto in un periodo compreso fra il 1823 e il 1825, attraverso tutta una terminologia e un fraseggiare vagamente pascaliano come: «vastità incomprensibile dell’esistenza»,104 «orribile mistero delle cose»,105 «contraddizione spaventevole»,106 «misterio grande da non potersi mai spiegare»,107 «mostruosità»,108 «arcano mirabile e spaventoso»,109 «arcana malvagità»110 del mondo. Absurdus vuol dire, alla lettera, «sordo», «dissonante», «stonato». Nei suoi versi Leopardi non avrebbe potuto essere più chiaro: «Dalle mie vaghe immagini/ So bene ch’ella discorda: / So che natura è sorda».111 Lo spirito umano erra «per mar delizioso, arcano»,112 finché un «discorde accento»113 non lo ferisce d’improvviso, ricacciando nel «nulla» quel «paradiso» che si era immaginato. Anche nello Zibaldone viene ben presto in chiaro il rapporto fra l’uomo e la natura: «Ella è cieca e sorda verso te, e tu verso lei»,114 a «ragione» del suo «gioco reo» rimane «chiusa» al «mortale».115

A proposito dell’antropomorfismo dettato dalla religione Leopardi nota che «l’assurdo si misura dalla dissonanza col nostro modo di ragionare».116 Tale osservazione può essere generalizzata. Quando, infatti, Leopardi parla del «nostro modo di ragionare», o anche delle «nostre idee»,117 si riferisce al senso comune o anche alla metafisica ricevuta, rispetto ai quali il suo «sistema» si pone in urto stridente e paradossale:

Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello di Leibnitz, del Pope, che tutto è bene.118

«Assurdo», come dice lo stesso Leopardi, è ciò che «noi» «giudichiam» «fuor dell’uso»,119 ovvero ciò che esorbita in modo stridente e improvviso («tosto in effetto») 120 dalla nostra capacità usuale di giudizio e di pensiero.

Se con Leopardi una radicale meditazione sull’assurdo era già sorta all’alba del nichilismo contemporaneo, per una prima rigorizzazione della «filosofia dell’assurdo»121 si dovrà attendere ancora un secolo. Essa sarà affidata al leopardiano Giuseppe Rensi:

che cosa significa tale pungente e dolorosa sensazione che le cose avrebbero potuto andare altrimenti? Significa che il come sono andate, sotto il dominio di quei casi futili e ciechi, urta il nostro spirito, contraddice la nostra mente. Significa che per questa esse dovevano andare altrimenti. Ossia significa che quel procedere casuale e cieco è per noi sinonimo di assurdo.122

Nella prefazione al Mito di Sisifo, Camus annuncia che il suo libro — che non per nulla reca come sottotitolo: Essai sur l’absurde — parlerà di «una sensibilità assurda, che possiamo trovare diffusa nel nostro secolo, e non di una filosofia assurda (sic! ) che il nostro tempo, per dirla schietta, non ha conosciuta». Pare tuttavia che Jean Grenier avesse a suo tempo invitato il giovane Camus alla lettura di Rensi.123 Ad ogni modo, da un punto di vista genealogico nulla impediva a Camus di attingere alle stesse fonti di Leopardi, fra le quali spiccano Pascal (e più in generale i moralisti francesi) e Voltaire. Da Pascal Camus ha ripreso soprattutto l’atteggiamento di dignità e di superiorità della coscienza rispetto alla vastità incomprensibile del tutto: l’uomo è grande perché ha coscienza di essere piccolo (Pascal); può essere immaginato felice in virtù della lucida consapevolezza di trovarsi in un condizione assurda (Camus). Pascal non rimane forse il modello ideale di ogni «salto» nella fede o «suicidio filosofico» della ragione che sarà compiuto dai vari cavalieri dell’esistenzialismo: Kierkegaaard, Chestov, Jaspers? Non è stato Pascal a parlare (in anticipo su Leopardi) di una “infelicità naturale della nostra condizione”,124 di una «condizione dell’uomo» segnata dal divorzio tragico tra il suo bisogno di chiarezza e la possibilità di raggiungerla?125 E non è Camus stesso a spendere espressioni dal sapore pascaliano come «scommessa assurda»126 e «condizione ingiusta e incomprensibile»?127 Infine, non era il nietzscheano «movimento di Pascal»128 destinato a ricadere, insieme all’adempimento della profezia assurda di un mondo sdivinizzato, anche su Leopardi e Camus?

È rimarchevole come Voltaire nei Taccuini di Camus possa fare capolino quasi come un maestro del sospetto: “Voltaire ha sospettato quasi tutto. Ha affermato pochissime cose ma bene”.129 Non so se Camus conoscesse il voltairiano Dialogo tra il filosofo e la Natura, ma difficilmente poteva disconoscere il Poema sul disastro di Lisbona. Quand’anche, come pare, si fosse concesso il lusso di ignorare in buona fede un grande precedente come Leopardi, la letteratura francese dell’età illuministica e romantica, che di certo Camus ha ben presente, non era avara di poeti dalla sensibilità non tanto lontana da quella del poeta italiano: basti pensare alla triade Chamford, Vigny, Senancour.

Per venire a fonti più sicure, nel Mito di Sisifo Camus attinge agli archetipi classici dell’assurdo: da Sofocle130 a Kierkegaard e Dostoevskij, ai maestri dell’esistenzialismo. Contro ogni «salto» o «evasione» nella fede, si tratta per Camus di “vivere entro lo stato di assurdo”,131 senza sottrarsi a questa «evidenza»132 né alle sue conseguenze: prima fra tutte quella «privazione della speranza»133 che nella «rivolta» ci rende liberi da ogni «consolazione»;134 liberi perfino dalla disperazione, procurando all’«uomo assurdo» la pura gioia di essere cosciente.135 È notevole con quanta chiarezza una simile posizione sia stata raggiunta dall’ultimo Leopardi: «rifiuto ogni consolazione […] e ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita».136

Accanto alle tracce di una posizione scetticheggiante,137 si incontra nel pensatore francese un’importante «nozione» dell’assurdo dall’intonazione vagamente rensiana, e quindi leopardiana: «Il mondo, in sé, non è ragionevole: è tutto quello che si può dire. Ma l’assurdo vero e proprio è solo nel confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza, il cui richiamo risuona dal più profondo dell’uomo»;138 «l’assurdo nasce dal confronto fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo»;139 «è il divorzio fra lo spirito che desidera e il mondo che delude».140 Camus vorrebbe distinguere da un lato il «senso dell’assurdo» dalla sua «nozione»,141 così come tiene dall’altro a che l’evidenza quasi cartesiana e solitaria dell’assurdo e della rivolta si completi nella «coscienza collettiva» capace di diventare «costante presenza dell’uomo a se stesso».142 È rimasta celebre la riformulazione camusiana del cogito: «mi rivolto dunque sono»; o anche: «mi rivolto, dunque siamo». Come si vede nel Mito di Sisifo e una volta di più nell’Uomo in rivolta, non c’è posizione assurdista che non postuli una «rivolta metafisica», e tuttavia una semplice «rivolta metafisica» non basta da sola ad assicurare una «filosofia dell’assurdo». Gli esempi di Giobbe, Lucrezio, Voltaire valgano per tutti. Nessuno di tali personaggi ha avuto accesso ad una vera e propria esperienza dell’assurdo e ad una conseguente «rivolta metafisica». Analogamente, non c’è assurdismo che non sia nichilismo, ma il nichilismo non si esaurisce certo nell’assurdismo. L’assurdismo, anzi, è la versione che il nichilismo assume alle soglie della nostra epoca proprio a partire da Leopardi. Esso consiste, come si è detto, nell’affermare che il mondo è non semplicemente insensato ma appunto anche assurdo, cioè sordo alle più profonde domande di senso sollevate dall’uomo. Dal canto suo, Camus terrà a precisare che ad essere assurdo non è il mondo come tale, ma appunto “il confronto disperato tra l’interrogazione umana e il silenzio del mondo”.143 Come abbiamo visto, questa rigorosa nozione di assurdo era già ben presente nella mente e nell’opera di Leopardi, e ancor più rigorosamente in quella di Rensi.

La rivolta metafisica di Leopardi rimanda a quella dimensione dell’assurdo che sola consente di misurare la distanza fra il nichilismo contemporaneo e le sue più o meno remote condizioni storico-genealogiche. Primo fra tutti i pensatori dell’Occidente, Leopardi ha illuminato la soglia dell’assurdo e al tempo stesso ha trovato il coraggio invincibile di venire, per dirla con Michelstaedter, ai «ferri corti» con la propria vita e con l’arcano dell’esistenza universale, al punto di sognare di poter stringere attorno alla «nobil natura» del genio poetico l’intero genere umano che «a sollevar s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/ al comun fato…».144 Leopardi ha già compiuto il passo fatale dall’esperienza solitaria dell’assurdo a quella rivolta comune contro il male metafisico che finisce col dare un barlume di senso alla nostra vita.

Camus sembra accettare in un primo momento il destino assurdo di Sisifo con la saggezza meridiana e quasi nietzscheana di chi dice di sì alla vita, accettando la propria condizione e proclamandosi superiore al proprio destino. Ma alla fine, il solitaire solidaire perviene anch’egli, come il magnanimo «malpensante» nella Ginestra, ad un ethos della solidarietà umana capace di sorreggere nella «coscienza collettiva» quell’assurdo che resta la tenace «oscurità» sfidata dal sole,145 «l’ombra che misura la grandezza del piacere che ci è rifiutato», la «peste» che «non muore né scompare».146

 

Note

  1. Lo Zibaldone e le Operette morali di Leopardi verranno rispettivamente citate secondo le seguenti abbreviazioni: Z (seguita dal numero di pagina dell’autografo) = Zibaldone, 3 voll., edizione critica rivista da R. Damiani, Zibaldone, Mondadori, Milano 1997-20033; OM = G. Leopardi, Operette morali, a cura di C. Galimberti, Guida, Napoli 1998. I Frammenti postumi di Nietzsche (nell’edizione critica Adelphi) verranno abbreviati con la sigla FP. Il presente articolo riprende e sviluppa in una prospettiva nuova un paragrafo della mia tesi di dottorato: Leopardi e la genealogia del nichilismo (Palermo 2010).
  2. Benjamin, Ombre corte. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino 1993, p. 109.
  3. Basti ricordare qui la triade di critici: Umberto Bosco, Walter Binni, Sebastiano Timpanaro. Nella ricostruzione di Bosco (Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze 1957) la rivolta contro il «fato indegno» e la «legge arcana» del Bruto Minore prelude già allo «specifico titanismo leopardiano» (ivi, p. 13). Il titano del pensiero non si ribellerebbe più contro gli uomini vili del suo tempo né cercherebbe di scuoterli dalla loro inerzia, ma si rivolterebbe contro il destino. Il «non domato nemico della fortuna» (ad Angelo Mai) cederebbe il passo alla «guerra mortale, eterna» al «fato indegno» con cui «il prode guerreggia» (Bruto Minore, vv. 38-39). Ma il titanismo si trasferisce «dall’azione al pensiero». Le Operette Morali (specie le prime venti) rappresenterebbero la piena espressione di questo «titanismo del pensiero» (Bosco, cit., p. 13), che affronta a viso aperto l’orrido vero. Il Preambolo al volgarizzamento del Manuale di Epitteto (1825) chiarisce le due posizioni — quella rinunciataria e quella ribelle — che rappresentano a suo avviso la grande alternativa fra «gli spiriti grandi e forti» tipici dell’antichità e «gli animi di natura o d’abito non eroici» caratteristici invece della modernità. La morale di Epitteto, con la sua esaltazione dell’indifferenza tranquillizzante e anestetizzante si attaglierebbe dunque ai tempi moderni piuttosto che agli antichi. Nei suoi momenti più bui Leopardi non riesce a ribellarsi al destino, ma non si abbandona neppure alla rassegnazione e alla disperazione. Da questo stato d’animo ambivalente il suo spirito cercherà di reagire e di risorgere nel biennio dei grandi Idilli (1828-’29). Così, il «pastore errante» non combatte «ma neppure accetta il destino», «riaffermando sbigottito e sconsolato l’incomprensibilità della legge di dolore che governa la vita» (Bosco, op. cit., p. 17). La filosofia di Tristano rappresenta per Bosco — e siamo d’accordo con lui — la forma più matura e definitiva del titanismo leopardiano, giacché affronta «la crudeltà del destino umano» (OM 497) «nulla al ver detraendo» (La ginestra, v. 115), compiacendosi della propria capacità di non venire «a patti» col destino e di non piegare il capo di fronte ad esso. Un simile titanismo trova la sua espressione più tipica nel ciclo di Aspasia. Nella «notte senza stelle» (Aspasia, v. 108) il poeta, sdraiato sull’erba, sorride quasi a volersi vendicare del mutevole spettacolo della natura. In Amore e morte si dichiara «renitente al fato», mentre nella Ginestra risuonano i famosi versi: «nobile natura e quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato». Questa è anche l’ultima parola di Leopardi: «non renitente» eppure «non piegato» al volere del fato. Timpanaro dal canto suo ha osservato come nel Bruto minore il «titanismo storico» si tramuti in «titanismo cosmico» (S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa, 1969, pp. 148-149). Quello di Leopardi si configura come un pessimismo senza conciliazione in una superiore sintesi, un pessimismo irriducibilmente non dialettico, ma lucidamente e agonisticamente aperto alla lotta dell’uomo contro il comune nemico: la natura o il fato (ivi, p. 174; p. 182). Se già De Sanctis aveva considerato la morale eroica «la parte più poetica del pensiero leopardiano», Walter Binni esalterà la poesia eroica assumendo la categoria dell’eroismo come la più adatta a caratterizzare l’atteggiamento protestatario del Recanatese.
  4. Leopardi, lettera a de Sinner, 24 maggio 1832.
  5. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 31.
  6. Prendiamo chiaramente a prestito tale espressione dal cap. II de L’uomo in rivolta di Albert Camus. L’immagine della «rivolta metafisica», anche senza alcun riferimento (esplicito) a Camus, è stata abbastanza sfruttata dalla critica leopardiana. Cfr. W. Binni, La protesta di Leopardi, Sansoni, Firenze 1989. p. 84; p. 126; p. 135; p. 218; p. 220; p. 224; pp. 228-229 e passim. Binni ha decifrato la posizione leopardiana come una «polemica metafisica» (p. 228) e una «protesta contro la realtà sbagliata» (pp. 84-85). È risaputo che già per Luporini il nichilismo attivo di Leopardi implica un momento di «ribellione» contro il fato (C. Luporini, Leopardi progressivo, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 120; Id., Decifrare Leopardi, Gaetano Macchiaroli editore, Napoli 1998, p. 245; p. 269). Si vedano pure G. Casoli, Dio in Leopardi, Città Nuova Editrice, Roma 1985, p. 138; B. Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Einaudi, Torino 1997, p. 127; p. 145; p. 151. Sul versante filosofico o religioso, l’idea della «rivolta ontologica» è ben presente in A. Caracciolo (Leopardi e il nichilismo, Bompiani, Bologna, 1994, p. 38; pp. 114-115; Id., Nichilismo ed etica, Il melangolo, Genova 2002, p. 72), ma anche in S. Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il Saggiatore, Torino 1988, p. 161), in Roberto Garaventa, che ha parlato anche lui di una «rivolta ontologica» (Il suicidio nell’età del nichilismo. Goethe, Leopardi, Dostoevskij, Franco Angeli, Milano 1994, p. 158; Id., La noia, Bulzoni, Roma 1997, p. 244). L’atteggiamento di “rivolta” o di “ribellione” di Leopardi era già stato avvertito bene da D. Barsotti, La religione di Giacomo Leopardi, San Paolo, Milano 2008, p. 73; p. 79; p. 221 e passim. Il recente saggio di F. Cassano Oltre il nulla (Laterza, Roma-Bari 2003) ispirato all’idea camusiana di una rivolta metafisica e solidale (cfr. Id. Il pensiero meridiano, cit., pp. 85-88).
  7. Basti pensare al Poema sul disastro di Lisbona.
  8. Lucrezio, De rerum natura, I, vv. 62-79. È stato già notato il debito di alcuni versi della Ginestra (vv. 111-114) nei confronti di questo «elogio di Epicuro» (S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, cit., p. 419 postilla alla p. 223 e n. 86). Sul pessimismo di Lucrezio vedi anche H. Bergson, Extraits de Lucrèce avec commentaire, études et notes, Delagrave, Paris, 1883; tr. it. Lucrezio, Medusa, Milano 2001, pp. 32-33. Per Epicuro il mondo è assolutamente privo di finalità: «nec ratione ulla nec arte (…) instructum» (apud Lattanzio). Cfr. E. Bignone, Lucrezio come interprete della filosofia di Epicuro, in Id., L’Aristotele perduto, Bompiani, Milano 2007, p. 1050.
  9. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 41.
  10. Ivi, p. 40.
  11. Ivi, p. 39.
  12. Ivi, p. 37.
  13. E. Andreoni Fontecedro, Natura di voler matrigna. Saggio sul Leopardi e su natura noverca, Kepos, Edizioni, Roma 1993, pp. 35 ss. L’autrice nota come la formula natura noverca non derivi a Leopardi direttamente da Lucrezio (in cui essa è, in effetti, assente), bensì ad altri autori latini (come Cicerone e Plinio) nei cui vetusta placita risuonano gli antichi adagi del pessimismo greco, che giungono a Leopardi mediante Lattanzio e Angelo Mai (scopritore del De re publica di Cicerone).
  14. Stratone parla di una vis divina (Cicerone, De natura deorum, I, 35).
  15. Ivi, vv. 195 ss.
  16. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 35.
  17. Modernità e cristianesimo sono parte di un unico movimento epocale: Benjamin Constant docet (I Padri della Chiesa, lo “Spettatore”, IX, Milano, 1817, pp. 559-564. L’articolo era già apparso sul “Mercure de France”). E si tratta di un autore noto a Leopardi come a Camus.
  18. Libro di Giobbe, 3, 20.
  19. Leopardi, Canto del pastore errante, vv. 52-56.
  20. Z 507.
  21. Z 3342-3343.
  22. La figura del Deus absconditus è comune tanto al Libro di Giobbe (13, 14; 23, 8-9) quanto all’Ecclesiaste. Cfr. Isaia, 45, 15; Salmi, 27, 8-9; 88, 47.
  23. Il Dio dei patriarchi, il Dio del patto e dell’alleanza si è eclissato. Il Dio di Giobbe, come il Dio del Qohélet, come in parte quello già annunciato dai profeti (per es. Geremia, 23, 23), è un Dio lontano, un Dio divenuto misterioso e incomprensibile. Tale sarà anche il Dio di Pascal.
  24. Libro di Giobbe, 40, 2; 13, 3; 23, 2.
  25. E. Niccoli – B. Salvarani, In difesa di Giobbe e Salomon. Leopardi e la Bibbia, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1998, p. 144; L. Marcon, Giobbe e Leopardi. La notte oscura dell’anima, Guida, Napoli 2005, p. 63. E. Bloch in Ateismo nel cristianesimo (Feltrinelli, Milano 2005, pp. 156-157) parla con simpatia di Giobbe come di un «Prometeo ebraico» in rivolta titanica contro il vecchio e inumano Dio dell’«oblio dell’etica» (ivi, p. 157) e della natura mostruosa.
  26. Ecclesiaste, 1-2.
  27. Analogamente, nel mito orientale di Gilgames è detto che «I giorni dell’uomo sono contati, qualunque cosa egli faccia non è altro che vento» (Tavoletta di Yale, 141-142).
  28. S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 2002, p. 305: «L’esperienza del dolore che nel Libro di Giobbe tocca il limite del non senso è però collocata nuovamente in un orizzonte di comprensibilità, trova una sua giustificazione, almeno in linea di principio, nell’imperscrutabile disegno di Dio. Il misterium Dei restituisce, sia pure per via mediata, senso al dolore».
  29. Secondo una leggenda cristiana risalente a Teodoreto, l’imperatore Giuliano l’Apostata prima di morire sconfitto dai Parti, avrebbe scagliato al cielo il proprio sangue, esclamando: «Hai vinto, o Galileo».
  30. Una possibile fonte è la Corinne (cap. VIII) di M.me De Stäel (cfr. C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 269 n. 19).
  31. Ovidio, Metamorfosi,VI, vv. 273-312.
  32. Z 505.
  33. Z 504-507.
  34. Leopardi cita dall’antologia: Leçons de littérature et de morale di Noël-Delaplace, vol. I, p. 488.
  35. Z 222.
  36. Camus, Il mito di Sisifo, p. 119.
  37. Leopardi, Poesie e prose, vol. II, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 1988, p. 1046.
  38. Si tratta di quelle che S. Timpanaro ha chiamato le «due facce del pessimismo» leopardiano: «la rassegnata e la combattiva» (La filologia di Giacomo Leopardi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 110).
  39. Z 1546.
  40. Z 1865. Sul topos letterario della «disperata speranza», si veda L. Sozzi, Il paese delle chimere, Sellerio, Palermo 2007, pp. 321-349.
  41. Benjamin, Le affinità elettive, in Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 243.
  42. T. Mann, La montagna incantata, Corbaccio, Milano 1994, p. 369.
  43. Ivi, p. 232.
  44. Ivi, p. 368.
  45. Voltaire, Poema sul disastro di Lisbona, 163.
  46. Voltaire, Dialogo tra il filosofo e la Natura, in Scritti filosofici, vol. II, UTET, Torino 1971, p. 628. Cfr. Id., Poema sul disastro di Lisbona, v. 118: «Nati per i tormenti, muoiono ciascuno a causa dell’altro».
  47. D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 87: «una guerra perpetua divampa fra tutte le creature viventi».
  48. -J. Barthélemy, Voyage du jeune Anacharsis en Grèce, cit., cap. XXVIII, p. 425.
  49. Goethe, I dolori del giovane Werther, 18 agosto, in Id., Romanzi, a cura di Caruzzi, Prefazione di C. Magris, Mondadori, Milano 1979, pp. 59-61.
  50. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Bompiani, Milano 1988, p. 108: «Ho già sentito tutta a tua bellezza […] Ma nella mia disperazione ti ho poi veduta con le mani grondanti di sangue; la fragranza dei tuoi fiori mi fu pregna di veleno, amari i tuoi frutti; e mi apparivi divoratrice de’ tuoi figliuoli adescandoli con la tua bellezza e co’ tuoi doni al dolore».
  51. Z 4258; Z 4485-4486; Z 4462; Z 4511; Dialogo della Natura e di un Islandese, OM 243; Paralipomeni, IV, 12, vv. 7-8. Per quanto riguarda la concezione pessimistica e autodistruttice della natura nella ‘triade’ Goethe, Foscolo, Leopardi, si veda G. Manacorda, Materialismo e masochismo. Il «Werther», Foscolo e Leopardi, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 135-145.
  52. G. Fichte, La missione dell’uomo, in Id. La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Laterza, Roma-Bari 1970, p. 51 n.132.
  53. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1999, p. 1497.
  54. Voltaire, Natura. Dialogo tra il filosofo e la Natura, cit., p. 628.
  55. Barthélemy, cit., cap. XXVIII, p. 427 (tr. mia).
  56. D’Holbach, Il buon senso, Garzanti, Milano 2005, p. 79.
  57. G. Leopardi, OM 241-242. L’immagine della natura persecutrice rimarrà, d’ora in poi, un punto di non ritorno, come conferma, ad esempio il Dialogo di Plotino: «la natura, il fato e la fortuna ci flagellano di continuo» (OM 465), alcuni versi di Al conte Carlo Pepoli (vv. 78-84), e un pensiero del 1829 in cui la natura è chiamata «persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni gen. E specie, ch’ella dà in luce» (Z 4486).
  58. Leopardi, OM 242.
  59. Anche in Camus, come in Leopardi e Rensi, sono presenti tracce di un certo gnosticismo, a partire da titoli di per sé eloquenti come: Lo straniero, La caduta, L’esilio e il regno. Cfr. F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 126.
  60. Z 1611. Cfr. G. Leopardi, Sopra un bassorilievo, vv. 77-78: «a tutti noi che senza colpa, ignari,/ né volontari al viver abbandoni».
  61. Leopardi, OM 242.
  62. Leopardi, OM 322. Forse una reminiscenza di Jean Paul (letto da Leopardi in De l’Allemagne di M.me de Stäel): «Davanti a lui sta immobile il mondo intero, come la grande sfinge egizia di pietra semisdraiata sulla sabbia» (Jean Paul, Discorso del Cristo morto, in Id., Scritti sul nichilismo, Morcelliana, Brescia 1997, p. 24).
  63. Leopardi, OM 244.
  64. Non si può dimenticare che Luigi Pirandello chiude la prima parte del suo saggio sull’Umorismo proprio evocando “quei certi dialoghi e quelle certe prosette del Leopardi” non tenute nel dovuto conto dall’Arcoleo. Si può anzi legittimamente sospettare un influsso delle Operette morali sulla teoria pirandelliana dell’umorismo.
  65. Sul «detto di D’Alembert», citato di seconda mano da Leopardi, cfr. le puntualizzazioni filologiche di E. Peruzzi, «L’edizione fotografica dello Zibaldone», in AA. VV., Lo Zibaldone cento anni dopo, Olschki, Firenze 2001, t. I, pp. 378-379.
  66. Leopardi, OM 335.
  67. Leopardi, Pensieri, I.
  68. Leopardi, OM 238; OM 241.
  69. Leopardi, OM 241.
  70. Leopardi, Paralipomeni alla Bratracomiomachia , IV, 12, 8.
  71. Leopardi, OM 243.
  72. Leopardi, OM 145.
  73. Leopardi, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, vv. 48-49.
  74. Leopardi, OM 244. Per illuminare il senso di quel «rarissime volte» si può ricorrere a Dostoevskij, laddove descrive il «suicidio logico» di un materialista annoiato della vita: «la natura non soltanto non mi riconosce il diritto di domandarle conto, ma non mi risponde per nulla, e non perché non voglia, ma perché non può rispondere; poiché mi sono convinto che la natura, per rispondere alle domande, ha destinato (inconsciamente) me stesso e mi risponde con la mia coscienza» di «querelante e querelato» (Diario di uno scrittore, Bompiani, Milano 2007, p. 609). Il ragionamento del suicida si spinge fino all’aperta «rivolta metafisica»: «condanno questa natura — che senza tante cerimonie mi ha creato per la sofferenza — a essere distrutta insieme a me» (ivi). Si tratta di un passo significativamente ripreso da Camus nel Mito di Sisifo, cit., pp. 101-102.
  75. Si pensi a G. Leopardi, La ginestra («dell’uom ignara»), nonché all’Inno ai Patriarchi («Di colpe ignara e di lugubri eventi»).
  76. Leopardi, OM 401.
  77. Il tragico muore a vantaggio dell’assurdo, mentre il senso non conciliato cede il passo al deserto del senso. L’esistenza del senso tragico della vita postula infatti l’esistenza di un Fato e di un Senso indecifrabile che il mondo secolarizzato non ammette più. Sul tema dell’impossibilità del tragico, che merita un discorso a parte, si vedano utili spunti in: P. Szondi, Teorie del dramma moderno, Einaudi, Torino 2002, p. 110; S. Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il Saggiatore, Torino 1988, p. 144; G. Anders, L’uomo è antiquato, I, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 231; Id., L’uomo è antiquato, II, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 378; E. Niccoli – B. Salvarani, cit., p. 134; p. 148; p. 150; G. Garelli, Filosofie del tragico, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 67-69; p. 87; p. 89; pp. 111-112; M. Cacciari, Dallo Steinhof, Adelphi, Milano 2005, pp. 59-60; S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 2006, pp. 191-192; S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 2002, p. 206; p. 358; Id., La salvezza senza fede, Feltrinelli, Milano 2008, p. 98; U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, p. 686.
  78. Alludo al Manuale di Epitteto, che nelle intenzioni di Leopardi avrebbe dovuto costituire il punto di partenza per il suo progettato Manuale di filosofia pratica. Cfr. E. Bigi, Dalle «Operette morali» ai «Grandi Idilli», «Belfagor», XVIII, n. 2, 31 marzo 1963, p. 136 e n. 14. Sul rapporto critico di Leopardi con il pensiero stoico, cfr. V. Steinkamp, La filosofia pratica di Giacomo Leopardi, in AA. VV., Leopardi poeta e pensatore, Guida, Napoli 1997, pp. 148-153; S. Mainberger, Felicità come indifferenza: Leopardi, Melville, Beckett, in AA. VV., Leopardi poeta e pensatore, cit., pp. 451-457.
  79. La frase si trova già in incunabolo di questo scritto, apparso l’anno precedente col titolo Sul pathos della verità (1872), dove si sottolinea la tendenza nichilistica della conoscenza (che, separata dall’arte, conduce inevitabilmente verso la «disperazione» e l’«annientamento») di contro alla funzione occultante della natura, che «nasconde la maggior parte delle cose».
  80. Nietzsche, FP 1887-1888, 11[97].
  81. Campailla, La vocazione di Tristano, cit., pp. 145-174.
  82. Nietzsche, FP 1886-1887, 5 [71], 4.
  83. Voltaire, Poema sul disastro di Lisbona, vv. 219-220.
  84. Ivi, v. 126.
  85. Ivi, v. 139. Si tratta di quel malum mundi ammessa, in un’ottica cristiana, da Alberto Caracciolo come pure da Luigi Pareyson.
  86. Voltaire-Rousseau-Kant, Sulla catastrofe. L’illuminismo e la filosofia del disastro, a cura di A. Tagliapietra, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. XXIV-XXV; pp. 20-21 n. 47, n. 57; p. 24; p. 37 n. 10.
  87. Ivi, p. 24.
  88. Moneta, L’officina delle aporie. Leopardi e la riflessione sul male negli anni dello Zibaldone, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 210-222.
  89. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 326. Cfr. Id., Metafisica. Concetto e problemi, Einaudi, Torino 2006, p. 126.
  90. Z 4175.
  91. Schopenhauer cita la Professione di fede del Vicario Savoiardo (Emilio), ma anche la Lettera sulla Provvidenza indirizzata a Voltaire. Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 1502-1503.
  92. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 1499-1503. Leopardi è ivi citato a p. 1507.
  93. Dedico un intero capitolo della mia tesi di dottorato al «movimento di Pascal» (come lo chiamava Nietzsche).
  94. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 27, tr. P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo. L’edizione Mondadori, dalla quale citiamo, traduce, invece: «vera liberazione del mondo» (p. 232).
  95. Leopardi, Bruto minore, vv. 58-59.
  96. Leopardi, Ad Arimane.
  97. L’assurdo in Leopardi si affaccerà altre volte timidamente quale eccezione al «sistema della natura», fino a quando esso non verrà drammaticamente denunciato come la regola, inaccettabile da parte dell’uomo.
  98. Z 99.
  99. Z 364.
  100. Z 1393. Vedi la lettera a Giordani del 4 settembre 1820: «Consoliamoci della indegnità della fortuna. I questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtù, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche».
  101. Z 3171.
  102. Z 4099.
  103. Z 4129.
  104. Z 4174.
  105. Leopardi, Cantico del gallo silvestre, OM 401.
  106. Leopardi, Ad Arimane.
  107. Leopardi, Il risorgimento, vv. 117-119.
  108. Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna, v. 43.
  109. Ivi, v. 47.
  110. Z 2432.
  111. Leopardi, Palinodia, vv. 166-167.
  112. Z 1470.
  113. Z 4174.
  114. Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia, IV, 20.
  115. Ivi (sott. mia).
  116. Va precisato che l’espressione «filosofia dell’assurdo» era già stata utilizzata in funzione polemica contro l’epigono di Schopenhauer Bahnsen (G. Invernizzi, Il pessimismo tedesco dell’Ottocento. Schopenhauer, Hartmann, Bahnsen e Mainländer e i loro avversari, La Nuova Italia editrice, Firenze 1994, p. 235).
  117. Rensi, La filosofia dellassurdo, Adelphi, Milano 1991, p. 197.
  118. Camus ebbe al liceo come insegnante di filosofia Jean Grenier (poi divenuto suo maestro e amico), che nel 1926 aveva già scritto in francese un saggio sullo scetticismo di Rensi nel contesto dei Trois penseurs italiens: Aliotta, Rensi, Manacorda («Revue philosophique de la France et de l’Étranger», LI, 1926, nn. 5-6, pp. 361-389). Lo scritto di Grenier si trova ora riproposto col titolo Giuseppe Rensi, le scepticisme come prefazione della Philosophie de l’absurde di Rensi, Allia, Paris 1996 (la postfazione Giuseppe Rensi et le miroir du nihilisme è di Nicola Emery). Secondo Nicola Emery (Giuseppe Rensi. L’eloquenza del nichilismo, Formello (RM) 2001, p. 99; p. 148), Grenier avrebbe consigliato a Camus la lettura di Rensi, finendo così con l’influenzare l’idea camusiana dell’assurdo. A parte il fatto che una reminiscenza adolescenziale (l’aver sentito parlare di Rensi da parte del suo primo maestro di filosofia) può avere giocato un suo segreto ruolo, resta il fatto che per varie vie — in primis Kierkegaard, Dostoevskij e Kafka — Camus aveva attinto ad una diffusa «sensibilità» già circolante sul tema, ignorando di fatto che una «filosofia dell’assurdo» era nata con Rensi a cento anni esatti dalla morte di Leopardi. Alle affinità fra Rensi e Camus ha accennato anche Sergio Givone, in una sua recensione del già citato volume di Emery: Rensi prima di Adorno e Camus. La via italiana al pensiero negativo, «L’Unità», 9 luglio 1997).
  119. È stato Sartre a notarlo (Spiegazione dell’«Étranger» di Camus, in Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 208). Nel volume citato si trovano sparse alcune considerazioni sull’assurdo in Camus (ivi, pp. 207-212; p. 252). Il modo in cui l’assurdo è rappresentato al termine della Nausea segna tutta la distanza da Camus: per Sartre l’assurdo nasce dalla superfluità e gratuità del contingente e della fatticità, non già, come in Camus (ma, si badi, già in Leopardi e Rensi!), dal dissidio avvertito fra senso (preteso dall’uomo) e non senso (del mondo).
  120. Pascal, Pensées, 437 Brunschvicg. Cfr. G. Leopardi, Z 4099-4100; Z 4129 ss.
  121. Camus, Il mito di Sisifo, cit. p. 8.
  122. Ivi, p. 12.
  123. Nietzsche, FP 1887, 9 [182].
  124. Camus, Taccuini 1942-1951, Bompiani, Milano 1992, p. 271.
  125. Il poeta tragico è espicitamente nominato nella pagina conclusiva del Mito di Sisifo. Dal canto suo, un grande studioso della tragedia, Mario Untersteiner, attento lettore di Rensi, potrà dedicare una omonima monografia a Sofocle, leggendolo proprio alla luce della categoria dell’assurdo (Sofocle, Lampugnani Nigri, Milano 1974).
  126. Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 39.
  127. Ivi, p. 46.
  128. Ivi, p. 51.
  129. Ivi, p. 55.
  130. Ivi, p. 58.
  131. Leopardi, OM 497.
  132. Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 48: «Non so se il mondo abbia un senso che lo trascenda; ma so che io non conosco questo senso e che, per il momento, mi è impossibile conoscerlo. Che valore ha per me un significato al di fuori della mia condizione?». L’atteggiamento scettico di Camus è ribadito anche più avanti (ivi, p. 50; p. 52). Ma l’apparente rigidità di una «metafisica scettica» si allenta ben presto in una specie di scetticismo metodico che nell’Uomo in rivolta sarà destinato a mettere capo a un superamento del nichilismo posto sotto il segno del «pensiero meridiano» e della «misura». Intanto, ammesso che niente abbia un senso, la coscienza di questo stesso e la conseguente rivolta dovrebbero bastare, secondo Camus, ad assicurare un senso alla nostra vita (cfr. ivi, pp. 50-51). Analogamente, l’«assurdo» verrà presentato come «l’equivalente, sul piano dell’esistenza, del dubbio metodico di Cartesio» (L’uomo in rivolta, cit. p. 10). Infatti, «grido che a nulla credo e che tutto è assurdo, ma non posso dubitare del mio grido e devo almeno credere alla mia protesta» (ivi, p. 12). Da un simile «ragionamento» riemerge inoltre il valore, il senso della vita: «il ragionamento assurdo ammette la vita come solo bene necessario, in quanto essa ammette appunto il confronto: senza la vita, la scommessa assurda non avrebbe più appoggio alcuno. Per dire che la vita è assurda, bisogna che la coscienza sia viva» (ivi, p. 8).
  133. Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 23.
  134. Ivi, p. 28.
  135. Ivi, p. 46.
  136. Ivi, p. 29. Per la verità, il tentativo di tenere distinti il sentimento o l’emozione dal concetto, l’esperienza o l’atteggiamento dall’analisi e dal ragionamento dell’assurdo non appare sempre così riuscito, specie nell’«Introduzione» all’Uomo in rivolta.
  137. Ivi, p. 51.
  138. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 8. Eppure, ciò non impedisce a Camus di continuare a parlare di un “mondo assurdo” o “irrazionale” o simili, specie nel Mito di Sisifo (cit., p. 23; p. 28; p. 40; p. 43; p. 49; p. 65; p. 91; p. 106).
  139. Leopardi, La ginestra, vv. 111-113.
  140. Non può sfuggire l’altra profonda affinità che lega segretamente Camus a Leopardi: il tema camusiano della «solarità» corrispondente a quel genio meridiano e immaginativo che accompagna Leopardi senza ripensamenti in tutto l’arco del suo pensiero. Si tratta del polo positivo del nichilismo leopardiano: il solo in grado di assicurare una direzione e un senso alla sua rivolta metafisica.
  141. Camus, La peste, Bompiani, Milano 1980, p. 235.

Leopardi raccontato a mio nipote

di Paolo Repetto, 30 aprile 2014

È vero: avevo promesso di rispondere con la lotta armata a qualsiasi film o sceneggiato televisivo su Leopardi. Non ho registrato il messaggio come i kamikaze islamici, ma la dichiarazione è stata fatta in pubblico, di fronte agli amici. Per questo mi sento in obbligo, dopo l’uscita de “Il giovane favoloso”, di spiegare loro perché non mi sono ancora immolato in un cinema di provincia e come mai, malgrado ciò, non mi consideri uno spergiuro.

Non mi sono fatto esplodere e non ho mitragliato gli spettatori perché il film non è né blasfemo né orribile: è solo totalmente inutile, e inutile sarebbe stato immolarsi. In realtà lo sarebbe stato anche se il film fosse decisamente brutto o menzognero, o se ad interpretare Monaldo avessero chiamato Lino Banfi. Ma Il giovane favoloso non è nulla di tutto questo: anzi, è pieno di buona volontà e tenta persino, senza peraltro riuscirci, di essere filologicamente corretto nella storia, negli ambienti, nel linguaggio. L’attore che impersona Giacomo accuserà danni permanenti alla colonna vertebrale, tanto si è immedesimato. Alla fine però il racconto risulta soltanto noioso e, appunto, inutile. Dice nulla a chi Leopardi non l’ha mai amato (non posso dire non l’ha mai letto, o addirittura mai conosciuto, visto che a scuola sin dalle elementari qualcosa a tradimento te lo ammanniscono), perché ripropone in fondo lo stereotipo del gobbetto che sfoga le sue magagne parlando con la luna; e dice ancor meno a chi lo ha conosciuto un po’ più in profondità, magari complice qualche insegnante particolarmente illuminato o sensibile. In questo caso ad essere confermato è un altro stereotipo, di livello leggermente più raffinato, ma sempre del tutto inadeguato a percepire la vera grandezza del pensiero di Leopardi (è il livello di chi di Leopardi ama la “struggente poesia”). Ciò che viene offerto sono una serie di cartoline illustrate, immagini vagamente ispirate a Friedrich e a Carus, col protagonista di spalle a contemplare una natura, quella sì, favolosa, o lune di dimensioni equatoriali.

Non credo che chi ha visto questo film andrà a rivederlo, e nemmeno sarà indotto a leggere qualcosa di Leopardi, o a rileggerlo con occhi nuovi. Martone non ha creato alcun presupposto per una futura curiosità, per un ripensamento. Sembra piuttosto aver voluto chiudere una pratica rimasta sinora inevasa: non si poteva lasciare inutilizzata una biografia potenzialmente “cinematografica” come quella di Leopardi, e così, come già è stato fatto con Pavese o con Pasolini, il cinema ha voluto porgere il suo omaggio (avendo anche in mente, come vedremo, una favorevole congiuntura sul mercato anglosassone). Pratica chiusa, quindi (almeno, si spera), e tutto sommato ce la siamo cavata con un danno modesto. Poteva persino andar peggio.

Il film, come detto, si adagia sulla lettura corrente del personaggio, quella che ne è stata data per tutto l’Ottocento (con la parziale eccezione del buon De Sanctis) e che è stata trasmessa al secolo scorso dal pontefice Croce: Leopardi grande poeta, maestro delle immagini che toccano le corde del cuore, debolissimo o quasi inesistente pensatore. È l’accusa che dall’inizio alla fine del polpettone viene rivolta al povero Giacomo da amici e nemici, senza che mai da quest’ultimo arrivi una risposta, e se dovessimo giudicare da quel che Martone ci mostra parrebbe assolutamente fondata (uno dei tonfi di stile più significativi è la scena del dialogo con la natura, quest’ultima conciata come una lottatrice nel fango, di quelle che piacciono agli americani). Non c’è il minimo accenno al fondamento razionale, spietatamente razionale, delle convinzioni leopardiane sull’uomo, sulla natura, sul mondo; al fatto che a indurre il poeta a parlare con la luna non sia la disperazione, ma una superiore consapevolezza: al coraggio col quale affronta non una vita da menomato, ma una precocissima e raggelante lucidità. Senza tuttavia mai smettere, quella vita, di amarla.

È d’altro canto la stessa immagine riproposta, ormai sempre più stancamente, dalla scuola, purtroppo anche dagli insegnanti di buona volontà. Quella che passa per Il sabato del villaggio in quinta elementare (una volta almeno la si mandava a memoria), per A Silvia in terza media, sino a L’infinito e a La Ginestra in quinta superiore. Una sorta di mitridatizzazione, che stempera i possibili effetti del veleno attraverso una assunzione progressivamente dosata. Sufficiente a non farlo odiare come Manzoni (che viene iniettato direttamente in vena appena si sale il primo gradino delle superiori), ma anche a far sospirare, al terzo o al quarto incontro: “che palle, ‘sto pessimismo”.

La “normalizzazione” di Leopardi si effettua in questo modo. Dopo si può essere leopardiani allo stesso modo in cui si può essere interisti, per un sottile masochismo, per un’adesione non critica e meditata, sapendo che si godranno brevi momenti esaltanti e lunghe pause malinconiche. Di ciò che Leopardi davvero voleva dirci non rimane traccia.

Senz’altro non ne rimane nei manuali scolastici, anche nei più recenti, di storia della filosofia. Provate a cercare un capitolo, o almeno una finestra, dedicati al pensiero di Leopardi. Non ce n’è uno. Quando va bene viene citato per le intuizioni precorritrici rispetto a Schopenhauer, o perché Nietzsche ne aveva riconosciuta la straordinaria modernità, ma nulla che aiuti anche solo a sospettarne l’eccezionalità. Tutto questo mentre la traduzione dello Zibaldone in lingua inglese – dello Zibaldone, non del Passero Solitario – ha fatto esplodere una vera leopardimania, con gli anglosassoni letteralmente stupefatti per quanto riesce attuale il suo pensiero. Ora, anche dando per scontato che nessuno è profeta in patria, dietro questo secolare misconoscimento devono esserci ragioni più profonde. Cerco di riassumerle.

Per cominciare, c’è un problema di forma: e per forma intendo tanto il lessico che la confezione. Partiamo dal lessico, perché indubbiamente è uno dei fattori che generano maggiore ambiguità. Il linguaggio leopardiano è apparentemente semplice. Il fatto poi di trovare Il sabato del villaggio e La quiete dopo la tempesta serviti già alla mensa delle elementari induce a pensare che sia anche di facile assimilazione. In effetti è vero, è una forma più che commestibile. Per quanto ricordo, a dispetto del crine, della novella piova e dell’andamento discorsivo, in versi liberi e senza l’ausilio di rime baciate, le poesie erano poi facili sia da capire che da mandare a memoria. Ma non è detto fossero altrettanto digeribili: la comprensione del testo non implica automaticamente la percezione del significato. E c’è il rischio che quell’assaggio, una volta archiviato nella memoria, inibisca poi per sempre la curiosità di tornarci su per scoprire anche i retrogusti (il che non significa che le canzoni leopardiane debbano essere eliminate dalla dieta dei fanciulli: anzi, sono essenziali per l’educazione del gusto. Soltanto, andrebbero accompagnata da adeguate – e quasi mai presenti – istruzioni per l’uso, che aiutassero a tenerle distinte da … e lieve lieve / cade la neve / sull’alta pieve / di Pontassieve – peraltro bellissima). Le scelte linguistiche di Leopardi sono infatti tutt’altro che “popolari”: non mirano ad appagare il palato del pubblico, ma sono dettate dalla materia stessa, sono implicite nella natura del pensiero (quello che Antonio Prete ha definito “pensiero poetante”). L’apparente facilità è una conquista espressiva laboriosissima: ventotto diverse redazioni de L’infinito testimoniano un lavoro di scalpello sul conglomerato di conoscenze e di sensazioni del poeta che nemmeno Michelangelo!

Con Leopardi dobbiamo dunque sgombrare il terreno dallo stereotipo romantico della poesia che sgorga da un animo o da una mente surriscaldati. La sua poesia nasce dalla decantazione a freddo di materiali pazientemente accumulati (nello Zibaldone troviamo tutti i temi poi sviluppati nei Canti, e le immagini stesse attraverso le quali verranno proposti). È un procedimento alchemico di trasmutazione. La ragione raccoglie la materia, la sensibilità la filtra, il genio la anima. Una volta depurato, il magma del pensiero lascia sul fondo le manifestazioni più semplici e quotidiane della realtà, e il poeta può rappresentare le cose, l’uomo, il cosmo, la natura, nella loro primordiale essenza. Ma non lo fa fingendo di regredire allo stupore ingenuo del fanciullino o a quello superstizioso del primitivo: al contrario. L’essenzialità non la intuisce, ma la riconquista, arrivandoci dopo aver compiuto il giro più largo, che passa per un precocissimo e impressionante accumulo di conoscenze, di illuminazioni, di speranze e di disillusioni. La riconquista e la trasferisce nella lingua. Il lessico di Leopardi è infatti “primordiale”, il che spiega l’apparente facilità di comprensione (e di memorizzazione), e “anacronistico”, ciò che induce invece la sensazione di straniamento, di essere trasportati in una dimensione che sta allo stesso momento fuori e dentro il mondo e il tempo. È “primordiale” perché a significare cose o azioni Leopardi impiega i termini più prossimi alle radici classiche, quindi quelli temporalmente più lontani, ma semanticamente più ricchi, proprio per la loro indeterminatezza: ed è “anacronistico” non per l’impiego di lemmi e costrutti arcaici o obsoleti, ma perché quella terminologia e quella struttura del discorso sono davvero “classiche”, nel senso che si pongono al di fuori e al di sopra di ogni contingenza culturale, non pagano alcun tributo alle evoluzioni o involuzioni linguistiche e al trascorrere delle mode. Insomma, Leopardi distilla le parole, e le immagini, fino a renderle aeree, e crea con esse un mondo che somiglia come una goccia a questo, ma che a differenza di questo sembra immoto nel tempo. Solo in questo modo si può parlare della realtà assoluta, raccontarla al di là delle sue molteplici determinazioni. Non ci troviamo quindi, ad esempio, di fronte alla montagna ardua del linguaggio foscoliano, irta di concetti che si concatenano, perché Foscolo ci narra una realtà in divenire, mentre Leopardi ci mostra il suo persistere immobile. Ovvero, tornando alla metafora della scultura, Foscolo guardando allo Spirito ci scolpisce una Colonna Traiana, un divenire storico che con un movimento vichiano a spirale punta verso l’alto, mentre Leopardi di fronte all’impenetrabilità e all’indifferenza della materia si limita a sbozzare qualche immagine, e la sua Pietà è quella “non finita” (o indefinita) di palazzo Rondanini.

In sostanza: se il divenire è complesso e sfuggente, ma può comunque essere rappresentato (almeno, a condizione di essere Foscolo), l’essere è semplice e fermo, ma non può essere rappresentato: può al più essere evocato. La “semplificazione” leopardiana ha quindi alle spalle una navigazione tempestosa e conduce ad un paradossale approdo: la verità è accessibile attraverso quello che abbiamo quotidianamente di fronte, e che magari diamo per scontato e non notiamo.

Conseguentemente, e questo ci porta alla “confezione”, Leopardi non ha mai organizzato in una esposizione sistematica il suo pensiero. Non ha scritto una Critica della ragion pura, per intenderci, che preludesse a quella della ragion pratica, non si è interrogato sull’Ontologia, sulla Logica o sull’Etica, o sull’Etica che consegue logicamente all’Ontologia. Ha affidato il suo pensiero a stupende poesie, a un libretto di dialoghi e ad una raccolta di pensieri sparsi. Si potrebbe dire che se l’è voluta, perché la consorteria filosofica occidentale, da Platone in poi, considera solo le espressioni di pensiero formulate all’interno di uno schema canonico, che impone regole vincolanti e un particolare linguaggio. Quindi Leopardi si è autoescluso dal club. E io sostengo che lo ha fatto scientemente, e che non avrebbe potuto fare altrimenti. Non certo perché non fosse capace di sistematicità: a quattordici anni aveva già scritto una storia dell’astronomia classica, e negli intenti, almeno inizialmente, lo stesso Zibaldone era una raccolta di materiali, di appunti, che avrebbero dovuto essere sviluppati e ordinati. Soltanto, mentre per vent’anni va accumulando materiale, Leopardi si rende conto che non è necessaria né possibile alcuna sistematizzazione. La verità è li davanti, l’abbiamo di fronte tutti, talmente evidente ed immediata che ogni spiegazione non può che risolversi in un tentativo di depistaggio.

Perché il problema vero è quello di sostanza. Il pensiero di Leopardi è, nei suoi aspetti essenziali, un pensiero definitivo. Di quelli che non piacciono a Popper, che non consentono falsificazione. Se si accetta di dibattere sul suo piano, la discussione si chiude subito. E dopo c’è il nulla. O meglio, dopo c’è quello che saremo in grado di metterci noi. Ora, la filosofia è nata per indagare il senso, ed è andata avanti per due millenni e mezzo a proporre interpretazioni diverse di questo senso, grosso modo riconducibili a due scuole di pensiero, quella che lo cercava sulla terra e quella che lo cercava altrove: nella presunzione comunque che questo senso da qualche parte ci fosse, e nella convinzione che magari non lo si sarebbe mai trovato, ma che la ricerca già di per sé ne avrebbe prodotto almeno un surrogato. Bene, nel momento in cui arriva uno a dire che questo senso proprio non c’è, né qui ora né domani altrove, il tizio si pone al di fuori della filosofia, o almeno della sua interpretazione classica. Sta dicendo che è inutile procedere in questa direzione, che occorre prendere atto, azzerare tutto e non riformulare in altro modo le domande, ma cambiarle proprio. Per questo è giusto che Leopardi non compaia nei testi di Storia della Filosofia, e che abbia fatto nulla per entrarci. Con quella storia non c’entra, se non in quanto la conosce benissimo e trova che non porta a niente.

Ma a proposito di sostanza, cosa dice in definitiva Leopardi? Dice cose semplicissime, e le dice in maniera estremamente chiara. Primo: non c’è un disegno intrinseco alla vita. Tutta la realtà è frutto del caso, nasce dal nulla e torna al nulla, e noi facciamo parte di questa realtà e siamo frutto di questa insensatezza. Quindi, secondo: non c’è nulla oltre la vita. Né premi né punizioni. Non c’è un progetto divino che giustifichi la nostra esistenza, e al quale dobbiamo rispondere, e nemmeno uno storico o naturale. La somma delle insignificanze individuali è l’insignificanza della specie stessa, e della vita, e della materia tutta. Terzo: la conoscenza vera è la consapevolezza di questa “infinita vanità del tutto”. La storia dell’uomo, della sua cultura, è la storia del tentativo di sottrarsi con la cultura appunto alla consapevolezza. Quarto, e sono già troppi, la consapevolezza è il punto di partenza della nostra particolare storia, quella che ci fa “umani” e ci caratterizza come tali, ma ne è anche il punto di arrivo, perché la cultura ha il veleno nella coda, e quando alla fine ci conduce alla conoscenza vera ci riporta sull’orlo dell’abisso orrido, immenso, ove precipitando chiudiamo la ricerca.

Non è così complicata, la faccenda. Certo, non è un rospo facile da digerire. Ci vuole stomaco, e Leopardi è il primo a sapere che questo stomaco non tutti ce l’hanno, anzi, quasi nessuno, e nemmeno si può pretendere lo abbiano. Non propugna una dottrina della doppia verità. Si limita a constatare che gli altri animali sono “beatamente” inconsapevoli (il gregge), che anticamente il rapporto più stretto con la natura creava possibilità di consolazione e di giustificazione del dolore (le favole antiche), che da Copernico in poi anche questa possibilità è caduta, per cui non riusciamo più a nasconderci dietro il velo del mito e siamo diventati più irrequieti, e che le dottrine che predicano “magnifiche sorti e progressive” sono un sostituto meno innocente di quelle favole, sono un vile autoinganno, perché adesso non abbiamo più alibi.

La complicazione nasce come dicevo dalla forma in cui queste verità sono espresse. Nasce dalla poesia. Non che Leopardi usi la poesia per inzuccherare il bordo del bicchiere e aiutarci a trangugiare la medicina. Ciò che dice non è una medicina, può anzi avere un effetto tossico letale, e Leopardi lo sa benissimo. Ma sa anche che non può esprimerlo altrimenti, che il linguaggio razionale non sa raccontare l’angoscia. Ora, di ciò di cui non si può parlare è bene tacere, affermava Wittgenstein (in un senso meno lapalissiano di quanto sembri): ma questo vale per la scienza, e anche per la filosofia. Se sei in cerca della verità, non devi farti fuorviare da ciò che è dubbio. Ma se la verità l’hai già trovata, suggerisce Leopardi, e quella verità è il nulla, non puoi tacerne. E dato che il nulla per la scienza e la filosofia non esiste, puoi parlarne solo in termini poetici: anzi, è proprio la lancinante consapevolezza dell’assenza ad imporre una apprensione e una comunicazione poetiche.

Quindi cosa fa Leopardi? prende il più semplice dei diagrammi cartesiani, con lo spazio in ascisse e il tempo in ordinate, traccia dei confini spaziali e temporali (la siepe, lo stormir delle foglie), li valica e ci porta al cospetto de L’Infinito. Dove è chiarissimo ciò che accade: quel punto di intersecazione che ciascuno di noi rappresenta diventa sempre più insignificante mano a mano che da esso ci allontaniamo; ma è anche difficile non perdersi nella suggestione di quegli interminati spazi e infiniti silenzi e di quella profondissima quiete. Lo stesso vale per le notti in cui la luna stende la sua luce lattea sui tetti del villaggio o sulle steppe asiatiche, o quando “su la mesta landa/ in purissimo azzurro / veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,/ cui di lontan fa specchio/ il mare, e tutto di scintille in giro/ per lo voto seren brillare il mondo”. Nulla ci è più lontano di quegli astri freddi e indifferenti, che non ci accarezzano con il loro calore, non ci ustionano, non fecondano la terra: ma proprio per la distanza che avvertiamo, nulla può riuscire più struggente dello spettacolo di immensità e bellezza che ci offrono.

È evidente che un tale sentimento non sopporta le spiegazioni e le analisi. Il nulla dal quale tutto proviene non è ontologico, ma gnoseologico. Non sappiamo, e mai saremo in grado di sapere, cosa c’era prima e cosa ci sarà dopo, e questo appunto equivale al nulla. Ciò che sappiamo, che constatiamo quotidianamente, è che siamo dentro questo meccanismo, ma ce ne sentiamo fuori. Questo spiega il rapporto di Leopardi con la natura. A più riprese la chiama “matrigna”, e l’accusa di ingannare i suoi figli, di illuderli e di perseguitarli (e mi risolvo a conchiudere – dice l’islandese – che tu sei nemica degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue). Ma in verità sin dalle prime canzoni gli è chiaro che facciamo tutto da soli. Interpretiamo il mondo, lo rimodelliamo a nostra immagine, creiamo aspettative e cominciamo a pretendere. Finché la risposta la dà direttamente la natura: ma tu, chi sei? Cosa vuoi? Immaginavi che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ovvero: Leopardi non può certo fingere che la natura non sia meravigliosa, che non ci ispiri speranze e struggimenti: ma gli è ben chiaro che questo è un problema nostro, non della natura. Ripeto, un problema, non una colpa.

Dunque, riassumendo. Leopardi esamina le risposte date ai nostri interrogativi fondamentali dalla scienza e dalla filosofia, e le smonta sulla base dell’evidenza. Noi ci raccontiamo delle storie, perché non siamo capaci di guardare in faccia la verità. È necessario un pensiero che “a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato”. Un pensiero lucido e coraggioso, a dirci che possiamo girarla come vogliamo, ma il comun fato è il nulla.

Ora, il nulla, se assunto come prospettiva, certamente non è il massimo. Ma se provassimo invece – dice Leopardi – a leggerlo come condizione di partenza, a mettercelo alle spalle, anziché davanti? A dire: va bene, quello è il fato, e non dipende da me; ma per quanto dipende da me, da noi, non è proprio possibile fare qualcosa? Qui viene fuori la sua vera grandezza: perché invece di concludere: rassegnati, e spera che la vita, cioè il dolore, ti sia breve, chiede uno scatto di orgoglio, di dignità. E chiama gli uomini ad essere, se non felici, almeno solidali, ad assumersi la responsabilità di dare loro stessi alla vita un senso che sfugga all’abbraccio del nulla indifferente e indifferenziato. Li chiama ad un impegno etico assoluto, che non è alla fin fine molto diverso da quello di Kant, ma consegue da premesse opposte. Alla borsa del tempo le nostre esistenze nemmeno sono quotate, ma se le viviamo in un coerente impegno di reciproca solidarietà, che poi si chiama amicizia, rispetto, stima, tolleranza, siamo noi stessi a creare il sistema di valori che riconosce loro peso, gusto e consistenza.

Beh, no, si dirà, così è troppo riduttivo, troppo facile, addirittura semplicistico. Infatti. La verità è sempre semplice: siamo noi a complicarla, proprio per non vederla. Quanto al facile, proprio non direi, visto che quasi nessuno di questa responsabilità, quella di dare autonomamente senso alla propria vita, sembra volersi fare carico. È tutt’altro che facile accettare l’idea che ad ogni nostra azione positiva, ad ogni nostro sacrificio non corrisponda una qualche ricompensa, che ogni nostra sofferenza non venga riscattata da un Dio o dalla storia. Leopardi ci chiede di agire senza attendere alcuna ricompensa, di non considerare sacrificio ciò che facciamo per il bene comune, di aiutarci reciprocamente ad alleviare la sofferenza, e di riscattare quest’ultima, almeno per quanto possibile, con la solidarietà. Può darsi sia semplicistico, ma se cominciassimo a crederci un po’ di più forse sarebbe sufficiente.

Devo fare una precisazione. Non è esatto pensare che nessuno in Italia abbia riconosciuto l’eccezionalità del pensiero di Leopardi. A partire dal secondo dopoguerra se ne sono resi conto in parecchi. Ma, e questo ha finito per vanificare la riscoperta, piegando Leopardi ad una lettura “progressista”, che in realtà quel pensiero lo stravolgeva. Soltanto Sebastiano Timpanaro, negli anni sessanta, aveva correttamente interpretato la posizione leopardiana, ma la sua era rimasta una voce isolata. Poi, verso la fine del secolo, è arrivato Emanuele Severino. Severino non ha dubbi: Leopardi è il più importante filosofo occidentale degli ultimi due secoli, e per dimostrarlo gli dedica due volumi che assommano a quasi mille pagine. Uno direbbe: allora è fatta. Invece no. Non è fatta perché Severino a sua volta dà di Leopardi una lettura “nichilista”, e lo ritiene il più grande filosofo occidentale non perché schiuda finalmente le porte alla verità, ma perché conduce sino in fondo, sino all’aporia insanabile, le conseguenze dell’impostazione del pensiero occidentale di due millenni. In pratica, dice Severino, Leopardi ha avuto il coraggio di guardare negli occhi non la verità, ma l’errore (o l’orrore) al quale ci trascina l’hybris tecnologico. Le porte alla verità, dopo la tabula rasa fatta da Leopardi, dovrebbe schiuderle semmai Severino stesso. Peccato che le mille pagine di strada per raggiungerle siano talmente disseminate di reticolati lessicali e di mine concettuali da riuscire impercorribili.

Leonardo ha sette anni. È un bambino sveglio, che sembra sgusciarti da ogni parte ma in realtà assorbe come una spugna. Mi chiedo come la prenderebbe se provassi a spiegargli Leopardi, ben immaginando che verosimilmente non gliene potrebbe fregare di meno. Ma mettiamo che lo faccia, e che lui mi ascolti. Mi chiedo se sarebbe una crudeltà da parte mia, visto che persino il poeta gli dice “godi fanciullo mio / stato soave / stagion lieta è codesta”. Se è un mio diritto, o addirittura un dovere, e se non avrebbe poi lui il diritto di odiarmi per tutta vita. Ma alla fine mi ritrovo a pensare che questo vuoto, questo abisso orrido e immenso lui lo ha già davanti, senza nemmeno aver iniziato il percorso del vecchierel bianco e infermo. Cosa potrei dirgli che non gli sia già stato detto da tutto ciò che lo circonda: che il futuro è un’illusione, che non avrà risposte alle sue domande, quando comincerà a porsele? Il futuro suo e della sua generazione è già stato tranquillamente azzerato in un eterno presente, e le domande ha già imparato a non farle nemmeno, visto che sono sistematicamente anticipate dalle risposte. Si sta abituando a ricevere senza neanche dover chiedere, ma sono altri a scegliere per lui, perché non gli è consentito desiderare in proprio. Se gli chiedessi a bruciapelo cosa desidera sarebbe in imbarazzo, e non nell’imbarazzo della scelta, come avrebbe potuto capitare a me, ma in quello dell’indifferenza, quello che si riassume in un: booh!

Mio nipote rischia di non conoscere l’attesa del sabato. Rischia molto altro, con i tempi che corrono: ma crescere senza un’attesa, senza il sottile piacere che danno le cose lungamente desiderate e faticosamente conquistate, è uno svuotamento che non lascia spazio nemmeno alla delusione, e alla conseguente comprensione del mondo e del suo nulla, e quindi alla volontà di riempire questo nulla. No, perdio! Questo non lo posso permettere. Non gli farò vedere Il giovane favoloso” ma gli parlerò di Leopardi, cominciando proprio dal Sabato. Sono sicuro che prima che arrivi in quinta glielo rifilano, almeno nella versione non vietata ai minori; e quella può essere l’occasione giusta per trafugare le reliquie del poeta alla scuola e richiamarlo in vita attraverso la magia delle sue stesse parole. Sarà un segreto tra noi: cosa ha detto veramente Leopardi. Potremmo persino fondare una setta, quella dei sublimi maestri leopardiani.

E adesso mi aspetto solo un film su Camus. Ma stavolta, lo giuro, sparo sul serio.