Andai nei boschi e … inciampai

di Fabrizio Rinaldi, 20 giugno 2021

C’è in tutti noi un limite alla tolleranza, superato il quale c’è chi spara, chi sbraita, chi fa finta di nulla e tira dritto divenendo indifferente: e poi c’è chi scrive. In questo ultimo caso non lo si fa per trovare altri che la pensino al nostro stesso modo, o per convincerli a farlo, ma per non sparare o per non mettersi a urlare. Io il limite l’ho toccato leggendo una frase semplicissima, apparentemente innocente, che recensiva l’ennesimo libro-fotocopia di Tiziano Fratus sugli alberi: “Venite a camminare nei boschi, le foglie vi insegneranno saggezza”. A quanto pare ho soglie di tolleranza basse.

Le foglie vi insegneranno la saggezza! No, non ne posso più dei professionisti della fitness naturistica, di chi celebra le proprietà salvifiche dello stare nei boschi, di chi propina cure antidepressive basate sul vivere nel verde, di chi crede al potere rigenerante dell’abitare nelle campagne, e lo fa dal teleschermo o ingolfando le librerie.

Io in mezzo alla natura ci vivo da sempre. Sono nato e cresciuto fra le colline dell’ovadese, sin da piccolo ho rastrellato campi, zappato l’orto, vendemmiato, sfrondato rami e sistemato balle di fieno nella cascina dei nonni. Divenuto adulto, ho finito per fare altro di mestiere, ma ho perseverato nel vivere in campagna piuttosto che in città, proprio per gli indubbi vantaggi di tranquillità, benessere e, non ultimo, di un costo della vita più vicino alle mie possibilità.

Un po’ dunque la campagna la conosco, e so per esperienza che queste cose sono in parte vere. So anche, questo per un po’ di semplice buon senso, che l’essere umano nella natura ci sta a suo agio da sempre (senza che qualche sapientone glielo spieghi), e so persino che ciò è possibile, tra l’altro, per la presenza nel sottobosco, nell’orto e un po’ ovunque nell’habitat naturale, del batterio Mycobacterium vaccae che, attivando il rilascio di serotonina, riduce l’ansia e favorisce il rafforzamento del sistema immunitario.

Ci vivo, ma non sono più saggio di chi abita nella metropoli solo perché distinguo l’acero dal pino. Le foglie rastrellate in autunno non mi hanno mai svelato il vero significato della nostra effimera esistenza. Sarò insensibile ai poteri sapienziali dell’ambiente naturale (che poi di “naturale” non ha più nulla) ma, pur riconoscendo i privilegi dello stare qui piuttosto che a Marghera o a Rovereto, non ne ignoro i costi in fatica fisica e scomodità.

Quindi mi sento in diritto di dire la mia. Che non è poi solo la mia. Se proviamo a domandare a chiunque viva di prodotti agricoli – ma “viva” davvero di questo e non sia un millantatore –, dirà che sì, vivere nel verde è delizioso, ma anche che “la terra è bassa”. Che cioè per ripagarti con uno stipendio appena appena dignitoso ti chiede una gran fatica. È bello vedere ex-direttori di banca o rampolli di buona famiglia che si reinventano come imprenditori agricoli di successo: sarebbe però interessante anche capire di quali risorse, e relazioni, hanno potuto disporre, e soprattutto se tutto questo ha ancora davvero a che fare col vivere nella natura.

Andai nei boschi e inciampai (3)Perché anche già soltanto a viverci, nella natura, è fatica. Dopo una nevicata, anziché fermarmi a rimirare romanticamente il paesaggio innevato, se voglio raggiungere il posto di lavoro in tempo o accompagnare le bimbe a scuola devo armarmi di pazienza, pala, turbina e … spalare, senza contare troppo su aiuti esterni. Arrivata la primavera è necessario porre rimedio agli effetti di neve, acquazzoni, frane e altre amenità più o meno naturali, andando a tagliare gli alberi stroncati dalle gelate e dal peso dei fiocchi, a liberare i fossi, a ripristinare il muretto di contenimento e così via.

Ci sono poi i disagi nei rapporti col “mondo esterno”, quello che sta là fuori. Ad esempio, la reale velocità di internet che posso raggiungere qui: di vedere l’ultima serie su Netflix certamente me lo scordo (non che mi interessi particolarmente, però ogni tanto un film …), ed è già un miracolo che le mie figlie siano riuscite a seguire le lezioni in DAD durante la pandemia, tra continue interruzioni di rete e voli funambolici dalla connessione della saponetta internet di casa all’hotspot del cellulare.

Le distanze per fare acquisti, necessari e superflui che siano, sono oggettivamente irrisorie. Ciò che non trovo qui vicino posso facilmente trovarlo, ordinarlo e averlo in pochissimi giorni attraverso Amazon. Ma se voglio andare oltre il facile acquisto e visitare ad esempio una mostra devo spostarmi di almeno 30-50 km. Per capirci: in questi giorni è uscito un documentario intitolato “Paolo Cognetti. Sogni di grande nord”, che mi intrigava molto: ci ho rinunciato, perché lo proiettavano solamente per pochissimi giorni, e solo in alcuni cinema di Genova e di Cuneo. Non proprio a due passi.

Peccato, perché prometteva bene: l’autore di “Le otto montagne” e il suo amico Nicola Magrin (bravo illustratore dei libri di Rigoni Stern, Levi, Terzani e molti altri) raccontano il loro viaggio a piedi in Alaska, citando la gran parte degli scrittori di viaggi e natura a me cari. Potrà sembrare una piccola rinuncia, ma io ci tenevo molto. Per un motivo molto semplice.

L’aver letto i moltissimi autori che dal Romanticismo in poi hanno trovato negli spazi naturali la loro ispirazione mi aiuta ad accettare i disagi e le fatiche dello stare qui. È confortante sapere che personaggi del calibro di London, Kerouac, Chatwin (beh, lui no: si sa che era refrattario allo sforzo), Thoreau, Emerson, Frost, Krakauer e gli italiani Calvino, Pavese, Rigoni Stern, Camanni, hanno provato la fatica dello stare in natura. A ragion veduta Leopardi scriveva: “O natura, o natura / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?” (da “A Silvia”).

Mentre metto via la legna per l’inverno penso al “vecio” Rigoni intento a fare altrettanto. Quando squarcio la neve per raggiungere l’auto che ho lasciato prudentemente in cima alla salita lo faccio meglio se rivado ad una situazione simile raccontata nei fumetti di Ken Parker. Se grondo sudore a zappare mi viene in mente ciò che fece Thoreau nei primi mesi del suo isolamento: non lesse, ma piantò fagioli.

La cosa funziona: nel senso che se condivisi con i miei eroi anche i gesti più banali, i lavori più ripetitivi, acquistano subito un altro sapore. Ciò non toglie che i gesti occorra compierli e i lavori affrontarli. La saggezza, l’equilibrio, il benessere, vengono da quelli, e non dalle foglie. Quando sai che la terra è bassa ci cammini sopra in un altro modo: meno leggero, magari, ma più consapevole.

Quindi: venite pure a camminare nei boschi, ma assieme alle bibite e ai panini portatevi dietro tanto buon senso. Non sperate di vederlo colare dai rami delle piante. I boschi non insegnano nulla, ci offrono solo l’occasione di concentrarci un po’ di più su noi stessi. Lo dice anche Thoreau in Walden o vita nei boschi: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”.

“Quanto essa, la vita, e non le foglie, aveva da insegnarmi”. È noi che dobbiamo interrogare, e i testi delle domande non ce li devono scrivere i nuovi guru naturisti. E se non siamo in grado di farlo da soli, allora ce li meritiamo.

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Thoreau descrive nel suo libro una esperienza di vita appartata, lontano dai rumori e gli odori delle città, ma non al punto da impedirgli di incontrare ogni tanto qualcuno con cui dialogare. Credo che questa sia la condizione che ho cercato anch’io nel luogo dove abito. Pur ammettendo una certa affinità con Dinamite Bla che, nei fumetti Disney, dal suo Cucuzzolo del Misantropo, caccia i seccatori con l’archibugio caricato a sale, mi reputo una persona accogliente, propensa all’ascolto e ad imparare dagli altri quando hanno qualcosa da insegnargli. In me convivono la propensione a un pensiero non conformista e una sensibilità ai temi ambientali, ma ritengo che questi debbano essere vissuti nel quotidiano, in un rapporto concreto, e quindi non idealizzato, con il luogo dove vivo: solo su questa base si possono fare scelte, personali e/o politiche, fondate e non velleitarie, per non divenire preda di inciviltà. In tal caso, dietro la porta non ho il fucile, ma – a ragion veduta – l’arco e le frecce. Non si sa mai.

Andai nei boschi e inciampai (2)

Tutto sommato sono ottimista. C’è una qualche speranza di essere per il futuro in buona compagnia: negli ultimi anni è comparsa un’innegabile attenzione per i cambiamenti climatici, una consapevolezza che non esisteva negli anni del dopoguerra e del boom economico. Per i più questa consapevolezza si ferma all’acquisto di prodotti bio o alla raccolta differenziata, ma certamente ci sono anche molti che provano davvero ad attuare scelte di minor consumo, magari non acquistando l’ultimo libro che parla delle interazioni bioenergetiche fra gli alberi, bensì provando a piantar pomodori invece che comprarli.

È una scelta complessa, e sicuramente elitaria, poiché non è concepibile una popolazione intera che viva in modalità “minimalista” (non in “decrescita felice” perché – a parer mio – i termini sono incompatibili), e spersa nelle campagne e sulle montagne perché in antitesi con un’economia basata sull’acquisto di scempiaggini.

Il vero salto di qualità comporterebbe divenire parte integrante della classe politica ed imprenditoriale, per incoraggiare dall’interno queste diversità: ma temo che per questo, sempre che sia poi realisticamente possibile, ci vorrà ancora qualche scossone.

La natura i suoi avvertimenti li dà, e da un bel pezzo. Sta a noi finalmente svegliarci dal torpore del “benessere” a buon mercato, e coglierli. Ma dobbiamo farlo con la nostra testa, senza abbracciare nuovi credi e religioni. I credi e le religioni nascono tutti con buonissimi intenti, ma finiscono poi inevitabilmente per creare delle chiese, un clero, dei dogmi, e per riaddormentare le coscienze. Qui si tratta invece, ad esempio, di volere e realizzare (in qualche caso, perché no, anche imporre) delle scelte di presidio “vero” del territorio, che non può essere demandato – e lo vediamo benissimo tutti i giorni –alle istituzioni, ai carrozzoni delle protezioni civili o alle giornate di pulizia dei fiumi o dei boschi, ma va gestito direttamente (e quindi, in qualche forma non assistenzialistica) proprio dalle comunità appartate territorialmente: questo non solo per garantire la cura costante di luoghi che oggi corrono verso lo sfacelo idrogeologico, con contraccolpi anche nelle città (vedi le inondazioni che immancabilmente avvengono alla prima pisciata del cielo), ma anche per innescare fiducia in un modello di convivenza differente e possibile.

Insomma, dobbiamo finirla di guardare alle scelte di vita appartate e rurali come ad esperienze “strane”, eccezionali, buone per i servizi televisivi dei programmi “verdi”, chiuse in se stesse e riservate a pochi eletti, o ad originali e un po’ strambi con l’archibugio sempre a portata di mano, che sopravvivono grazie alle melanzane coltivate nell’orto. La valorizzazione realistica e concreta (e non la spettacolarizzazione) delle micro-economie ancora esistenti o di quelle che stanno rinascendo e delle esperienze sociali a queste connesse può offrire grossi spunti di riflessione per ragionare su un’economia fondata su differenti paradigmi e su modi diversi di stare al mondo. Leggere la diversità sociale come un gesto artistico è né più né meno come marginalizzarla. Leggerla come una possibilità concreta, diffusa, terra terra, è un antidoto alla monocultura consumistica.

Non abbiamo bisogno di nuovi evangelisti. Sono sufficienti onesti divulgatori, che non traducono il linguaggio delle foglie, ma sanno fare quattro conti su costi e ricavi “globali” dei diversi tipi di rapporto con la terra, e sanno che la terra è bassa. Alla Carlo Petrini, per intenderci.

Andai nei boschi e inciampai (4)Collezione di licheni bottone

L’accelerato per Busto Arsizio

Prospettive e retrospettive
Dialoghi a distanza con Edoardo Ferrarese

di Paolo Repetto, 2017

Caro Dario, vedi un po’ come l’età ti cambia la percezione della vita (e del trasporto su rotaia). Sai che domanda mi è venuta spontanea vedendo il fotogramma col tizio che corre dietro il treno? Ho pensato: ma il biglietto, lo avrà? No, perché poi c’è anche il rischio che il treno lo prendi, ma ti buttano fuori alla prima fermata (nel film siamo in India, mica in Italia). Non dirmi che è una visione troppo prosaica, lo so benissimo da solo. È una mia debolezza, ho due maledette manie: l’ordine e il senso. Sarà che non raggiungo mai né l’uno né l’altro, e allora me li tengo cari almeno come aspirazioni.

Ho notato naturalmente anche le valige. Assolutamente anacronistiche, nell’era del trolley, così come anacronistico (nel senso che ci sbalza fuori dal tempo) è un po’ tutto l’assieme, dall’abbigliamento del ritardatario alla piattaforma terminale del vagone e al passeggero indifferente che ci sta sopra (si vede che è abituato a queste scene). Credo sia questo a creare la magia dell’immagine, un po’ come accade per le operette morali di Leopardi. Uno in corsa con il tempo in una dimensione senza tempo. Ma anche qui, secondo pensiero: quando (e se) riuscirà a salire sarà tutto sudato. Non c’è verso. Sono vecchio. Se mi appendo a un sogno non mi lascio trascinare in alto, ma lo zavorro subito a terra. Il terzo pensiero non mi è stato suggerito dall’immagine, ma dalla lettura che Edoardo ne ha dato. Nel suo testo c’è una frase che mi pare, questa si, davvero emblematica: uno può anche partire zaino in spalla e sogni in testa, ma se lo fa alla volta di Busto Arsizio rischia di non essere preso troppo sul serio. E quindi? Quindi l’India. Ho pensato che se tutti avessero sogni in testa Busto Arsizio nel giro di vent’anni finirebbe spopolata. L’India è invece già sovrappopolata di suo. Tra l’altro, ci hanno anche trasferito le industrie che prima erano a Busto.

Ma è stato solo un attimo. Il quarto pensiero infatti si è imposto subito. È giusto che Edoardo la pensi così. La mia è solo malinconia, forse anche un po’ invidia. Cinquant’anni fa avrei scritto esattamente le stesse cose, senz’altro non così bene, magari con qualche illusione o qualche falsa certezza in più. Magari avrei inseguito la nave per Cuba (a nuoto). No, è giusto che tutto sommato si riservi la libertà di scegliere o di cambiare durante il viaggio e non si ponga il problema della stazione in cui scendere: per ora l’importante è davvero salire su quel treno.

Ma questo ci riporta all’inizio, e al biglietto. Quella del biglietto è una mia personalissima ossessione. Penso che un treno nella vita passi per tutti, e che occorra essere pronti a prenderlo. Per questo bisogna aver comprato il biglietto (oggi anche averlo “obliterato”): e il biglietto sono le competenze e le conoscenze (si sente, vero, che arrivo dalla scuola?), ma soprattutto la consapevolezza. Vale per ogni tipo di opportunità: ad esempio, per chi vive in una democrazia, per quella di esercitare i propri diritti. Chi vuol salire sul treno della democrazia, e non è che ne circolino tanti, siamo tra i pochi nella storia del mondo a vederlo passare, deve essere poi in grado di esibire il suo documento di viaggio. È questa la condizione: avere conoscenza di ciò su cui si è chiamati ad esprimerci, essere capaci di decidere e di scegliere con la nostra testa, ma soprattutto essere consapevoli che un biglietto ci vuole, che un viaggio, che la vita, hanno dei costi. Fossi un controllore farei davvero scendere alla prima fermata tutti coloro che credono che salire su un treno sia un diritto acquisito, piovuto dal cielo o ereditato dal passato senza imposta di successione. Non è così che funziona.

Prima ancora di prendere il biglietto, però, un’altra cosa bisogna fare. Bisogna scegliere, almeno in linea di massima, in che direzione andare. I treni hanno la prerogativa di viaggiare sempre e solo in due direzioni diametralmente opposte: non è che facendo un giro più largo ti portano comunque dove vorresti andare. Se vuoi arrivare da qualche parte, una qualche direzione già all’inizio devi averla in mente.

La direzione è il senso che intendi dare alla tua esistenza. Perché, sia chiaro, sarai tu a doverglielo dare. Non è già intrinseco al fatto di esserci, o di essere in attesa alla stazione. Puoi anche decidere di non darglielo, o di affidarti al caso. C’è gente che ha saltato per tutta la vita da un treno all’altro, senza pagare il biglietto. C’è nata una leggenda, quella degli hobo, e c’è fiorita sopra tutta una letteratura, da London in avanti: ma non sarebbe male ricordarsi che gli hobo di treni non ne hanno mai costruito, hanno viaggiato su quelli costruiti da altri. Non decidere allora non è una scelta, è una resa. Se ad esempio si pensa, come molti pensano, che i treni, e tutta la cultura e la civiltà che simboleggiano, corrono su binari bagnati da sudore e lacrime e su massicciate impastate di sangue, la coerenza vorrebbe che uno non li prendesse, neppure a sbafo, e camminasse a piedi.

Se invece si ritiene che Krakauer abbia voluto raccontare non la splendida vita quanto piuttosto l’assurda morte di Christopher McCandless, allora si passi alla biglietteria. Magari cercando di arrivare puntuali.

 

Il treno di Darjeeling

Prospettive e retrospettive
Dialoghi a distanza con Edoardo Ferrarese

di Edmondo Ferrarese (dal sito luomoconlavaligia.it), 22 marzo 2017

Esiste immagine più emblematica? Esiste un fotogramma così caoticamente perfetto per indicare tutto il microcosmo del viaggiare? Se ne trovate un altro fatemi un fischio.

Oppure fatelo a Wes Anderson, il regista che ha creato questa splendida sintesi di cosa significhi prendere in mano una valigia e partire.

C’è tutto. Ma proprio tutto, fateci attenzione.

Si inizia con la valigia vera e propria, quel bagaglio così squisitamente retrò che catalizza subito il tuo sguardo. Sporca, forse rovinata, anche un po’ kitsch, ma capace di fissarti gli occhi lungo tutti quei piccoli dettagli che la rendono unica nel suo genere. Come le iniziali incise sopra. Grandi, sontuose, importanti. Così com’è l’attaccamento del possessore alla sua valigia, che diventa quasi un’estensione del proprio braccio, il primo vero compagno di viaggio, quello senza cui la partenza non sarebbe nemmeno concepibile.

E qui la partenza è tutto. Si parte per ritrovare sé stessi, grazie al Darjeeling Limited, il treno che Adrien Brody cerca disperatamente di raggiungere. Si parte perché lui e i suoi due fratelli possano ricongiungersi, anche forzatamente, ma con l’obbiettivo comune di ricreare un nido familiare di pascoliana memoria. Ma ovviamente le cose non vanno quasi mai come pianificato, e quindi ecco che negli imprevisti appaiono le vere epifanie.

Wes Anderson non fa altro che mettere ordine con i suoi movimenti di macchina lineari in un mondo, da lui creato, così stupendamente caotico. Il regista statunitense non tradisce mai la sua poetica, persino in questo fotogramma si nota gran parte delle palette dei suoi colori, talmente pastello da risultare fanciullesca, quasi fiabesca. E proprio in questo mondo così mentalmente giovane c’è tutto, tutte le turbolenze familiari, tutti i problemi adulti, ogni singolo aspetto della vita filtrato dal caleidoscopio di colori che è la mente di un bambino.

E poi? Poi si passa al vuoto. Il vuoto reale tra Adrien Brody e il treno, a simboleggiare quel senso di pauroso mistero che ci accompagna tutte le volte che viaggiamo. Noi corriamo, ci lanciamo verso un ignoto che potrebbe inghiottirci, verso quel vuoto che, forse, non riusciremo a riempire. Ma lo facciamo lo stesso, con il fiato corto e le gambe che bruciano, perché in quel grado di separazione c’è tutto quello che vogliamo trovare.

Ma ad aspettarci cosa c’è? Il treno in questo caso. Che, ironia della sorte, non aspetta proprio nessuno. Il cavallo d’acciaio è spietato nei suoi orari, e ci costringe a rincorrerlo sperando di saltare su al volo, racchiudendo in sé la nostra prima sfida, l’incipit della storia, quel racconto intessuto nei nostri pensieri che vorremmo sfilacciare nella realtà.

La tensione emotiva è tutta lì: nello spasmo verso l’oltre, nel voler ghermire con la punta delle dita qualcosa che, forse, non possiamo nemmeno sfiorare. Eppure quanto è più bello correre verso l’ignoto? Wes Anderson lo sa bene che dal caos nasce l’ordine. Oppure che l’ordine è contenitore del caos. Dipende come volete guardarla. Lui suggerisce quel brivido, il brivido del non farcela, del rischio di rimanere a terra, del vedere quel serpente metallico farsi sempre più lontano.

Ecco perché la concezione romantica del viaggio, dell’essere senziente con una valigia, è proprio questa: partire con un bagaglio a mano e pregare l’ignoto in tutte le sue manifestazioni. Che poi io non sono qui ad insegnarvi nulla, c’è già tutto nel romanzo di John Krakauer sulla splendida vita di Christopher McCandless a spiegarvi il concetto. Se siete di fretta potete sopperire con il film omonimo di Sean Penn, lo stupendo Into the Wild.

Cosa manca? Vediamo … ah, ovvio, il fascino dell’esotico. Perché uno può anche partire zaino in spalla e sogni in testa, ma se lo fa alla volta di Busto Arsizio rischia di non essere preso troppo sul serio. E quindi? Quindi l’India. Che forse è proprio l’emblema di questo concetto, del mondo così lontano dalla percezione occidentale e quindi così intrigante nel suo mistero. È sempre quella leggera componente di rischio ad accarezzarci, sussurrandoci che più è lontana da casa la destinazione più il senso del viaggio può sublimarsi.

Ed è lo stesso concetto su cui ragiona il personaggio di Owen Wilson (uno dei tre fratelli): bisogna scegliere l’India per la sua spiritualità innata e perché lì, solo lì, qualcosa di mistico li potrà riunire. Avrà ragione o si troverà sullo stesso binario del fratello, ad inseguire proprio quel treno che li deve trascinare verso questa presunta epifania?

Perché alla fine siamo stati tutti un po’ Adrien Brody, a rincorrere un’idea, un concetto, un’effimera speranza di evasione. Fare quel passo verso l’ignoto, che diventa corsa e taglia il fiato, prima o poi capita. Ma la domanda, in fin dei conti, resta solo una: quanto è importante per voi salire su quel treno?