Sinistre immagini

di Fabrizio Rinaldi, 15 gennaio 2023

Vagando da un canale all’altro, l’altro giorno mi è apparso Cuperlo su Rete4. Era intervistato non so da chi, perché non frequento quel canale, ma soprattutto non so cosa dicesse (anche se non fatico a immaginarlo), perché la mia attenzione era concentrata su come si presentava ai telespettatori con l’intento di racimolare consensi uno dei candidati più autorevoli alla segreteria del PD. Dietro di lui non c’era l’ormai classica libreria coi libri, i ninnoli e i quadri che strizzano l’occhio allo spettatore, ma faldoni e fascicoli grigi e marrone con scritte a mano (chissà se era a casa sua o in qualche archivio segreto di Andreotti). Indossava una camicia bianca sotto un maglioncino beige pallido pallido e una giacca grigia, pendant con i faldoni sullo sfondo. Ora, va bene esser sobri e pacati, e volersi distinguere da chi indossava il giubbotto in pelle alla Fonzie (Renzi), ma non è il caso di personificare la tristezza più assoluta!

Senato: registrazioni al completo, mancano solo i 26 subentrantiCuperlo avrà detto pure delle cose sensate, ma mi rimane l’immagine di un uomo insipido, sbiadito, senza prospettive per un futuro diverso da quello attuale, senza proposte che vadano oltre la misera quotidianità del decidere se togliere o lasciare le accise sul carburante (che comunque è una scelta che al momento non gli compete). Umanamente potrei anche condividere ciò che pensa, ma mediaticamente è un disastro.

Sinistre immagini 03 BersaniUn’altra immagine della sinistra che mi viene alla mente è quella di Bersani al bar (forse quello di Happy days), dove, invece di confrontarsi con altri su cosa sia esser di sinistra, ha come unico interlocutore un calice di birra. È la perfetta raffigurazione di una dignitosa ritirata umana, che è tale anche politicamente, ma fa comunque tristezza.

È pur vero che c’è chi specula impietosamente, come un avvoltoio sugli animali morenti, nello scovare foto che esprimano al meglio le difficoltà e le debolezze del malcapitato personaggio pubblico, di turno: ma un politico avveduto dovrebbe porre molta più attenzione a come si propone rispetto a ciò che dice. Altrimenti è bene che resti nel privato e non ambisca ad occuparsi della cosa pubblica. Purtroppo è così che va il mondo attuale. “E tu non puoi farci niente! Niente!” (L’ultima minaccia di Richard Brooks). È passato il tempo in cui Moro andava in spiaggia con giacca e cravatta e Berlinguer si fermava a parlare agli operai di un cantiere col trench alla tenente Colombo.

Sinistre immagini 04 Moro    Sinistre immagini 05 Berlinguer

Eppure negli ultimi decenni ci sono state delle immagini iconiche che hanno alluso a un diverso futuro: Prodi in bicicletta, ad esempio, e D’Alema in barca. Lo so, vien da chiedersi come siamo messi, però almeno un tentativo di offrire una “visione” c’era. Il primo, interpretato anche da Guzzanti come il “semaforo fermo e immobile”, sotto l’aspetto sornione sapeva esser risoluto e avere un’idea, giusta o sbagliata che fosse (vedi la rocambolesca entrata dell’Italia nell’area euro). Il secondo era – ed è tuttora, anche se ufficialmente si è ritirato dalle scene, – il “baffo” più odiato dagli italiani, accusato di incoerenza per il fatto di possedere una barca (e non solo quella) nonostante si professasse comunista: ma almeno, anche se più in apparenza che nella realtà, quel baffo pareva essere alternativo all’infoiato, colluso, mediatico e trapiantato Berlusconi.

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Se la sinistra tradizionale vuole avere una qualche futuro e non sparire (è sotto il 15% ed è in discesa, di contro all’oltre 30% di Fratelli d’Italia) deve individuare poche ma chiare idee che la identifichino, diciamo pure dei segni o dei “sogni”, sui quali costruire prospettive differenti da quelle offerte dalla Meloni, ma pure da Draghi, Conte o Renzi.

Ed è necessario che lo faccia immediatamente, per poterne trarre un minimo di indicazioni di principio. Quelle che non verranno certo da un congresso presieduto da fantasmi litigiosi, i quali quasi sicuramente convalideranno un’insipienza congenita. Coloro che si riconoscono (o no) nel PD di oggi (come pure in quello di ieri) vorrebbero vedersi proporre, alle prossime elezioni, un’idea per la quale valga la pena andare a votare per quel partito. Saranno anche solo sogni, illusioni, ma si vive pure di quelli.

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C’è innanzitutto bisogno di chiarirsi su ciò che s’intende oggi per sinistra progressista, su quali obiettivi si possano concretamente perseguire, e di escogitare anche una comunicazione mediatica che sostenga quelle affermazioni. È essenziale tradurre i concetti in immagini, in simboli forti e riconoscibili affinché ci sia una reciprocità fra la parola e la sua raffigurazione. È inutile ostinarsi a credere che la genuinità delle idee sia sufficiente per ottenere consensi. Non piacerà ai talebani della sinistra dura e pura, ma le cose stanno così: serve saper comunicare efficacemente e chiaramente. E spesso non basta neppure quello.

Chi si ostina a pensarsi di sinistra si nutre di sogni che possano narrare una società più equa; di “barbari” che arricchiscano la nostra cultura ferma da decenni; di scelte economiche a lungo termine concretamente praticabili, nella consapevolezza che quelle attuali vanno sempre e comunque a discapito dell’ambiente, e spingono l’umanità verso il suicidio; di recuperare una solidarietà e un interesse comune che offrono l’unica vera via d’uscita. Sono i sogni a mantenere in vita la speranza.

E per cominciare, occorre fare pulizia nel proprio cortile, liberarsi di tutte quelle ipocrisie relative al genere, alla razza, alla pseudo-correttezza politica, che portano a far su alla rinfusa figure come Soumahoro, pur di sventolare una bandierina “progressista”. A riempire il Parlamento o gli uffici di Bruxelles di canaglie o di incompetenti ci pensano già tutti gli altri: almeno in questo la sinistra dovrebbe distinguersi.

Ciò non mi toglie la convinzione che ci siano ancora persone che perseguono delle idee per avere un mondo ben differente da quello attuale, senza però perdere la lucidità di inseguire delle chimere. Basta cercarle e avere il coraggio di offrire loro spazio e dignità, smettendola di tarpare le ali a chi ha ancora l’“intenzione del volo”, per dirla alla Gaber.

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Quel che vale per la politica vale pure per la cultura. E qui vengo al mio disaccordo sull’opinione espressa da Vittorio Righini nel pezzo I libri che non mi sono piaciuti, in cui critica il modo pacatamente ruffiano che ha Cognetti di scrivere i suoi libri.

Sinistre immagini 09 CognettiHo letto quelli precedenti a Le otto montagne e mi sembravano buoni. Un po’ “semplici” e immediati, ma ciò è una colpa? Non saranno capolavori, ma è vero che Cognetti è diventato un riferimento per coloro che si riconoscono in un certo modo di concepire il rapporto con la natura. Io mi sento perfettamente in linea con lui (ricordo un suo pezzo contro l’ennesima pista da sci), e non penso che questo sia cavalcare una moda e sfruttarla a fini utilitaristici. Semmai è un modo per veicolare messaggi un po’ differenti da quelli che vanno per la maggiore. I suoi testi non saranno il massimo di originalità e di profondità, ma, visti i tempi, che vengano pure queste mode i cui riferimenti sono London, Levi, Rigoni Stern, ecc…

Non dobbiamo star sempre lì a cercare il pelo nell’uovo… E che cazzo! Almeno quest’anno al cinema c’è stata la possibilità di vedere Le otto montagne, anziché i soliti cinepanettoni di Boldi, Checco e simili.

In fondo, nella mediocrità culturale attuale, Cognetti spicca per delle iniziative finalizzate a promuovere modi più rispettosi di stare in montagna e ha provato a fare qualcosa di diverso, impiegando i soldi vinti con lo Strega per sistemare un rifugio ad uso di amici e montanari.

Facce come la sua e quella dell’amico illustratore Nicola Magrin rappresentano un’ottima alternativa a quelle dei vari Calenda, Conte e compagnia bella. Dicono che, nonostante tutto, il sogno non “si è rattrappito”.

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Collezione di licheni bottone

Natura e letteratura per cammini di viandanza

Copertina per incontri tematici2di Fabrizio Rinaldi, 10 dicembre 2022

Pubblichiamo la trascrizione di un momento dell’incontro “Natura e letteratura”, nell’ambito della mostra sentieri in utopia.

Ad avvicinare coloro che sarebbero poi diventati i Viandanti delle Nebbie, prima ancora che nascesse l’amicizia, furono le comuni letture di libri nei quali il rapporto con la natura veniva proposto senza eccessive epiche parolaie. È stato quindi decisivo per ciascuno, oltre alla frequentazione di Paolo, individuare le coordinate per le proprie letture in scrittori che avevano messo al centro della narrazione il rapporto con il bosco, la montagna, il mare o semplicemente con la quotidianità contadina, magari con approcci differenti e in tempi non troppo lontani.

C’era chi si riconosceva nella tendenza di Hemingway a raccontare la lotta con gli elementi e quindi le resistenze, le sconfitte o le pochezze umane. Chi si ritrovava nelle parole di Chatwin, per il quale le descrizioni dello spazio naturale (anche cantato, come per l’Australia) erano l’espediente per indagare la propensione umana all’inquietudine, l’irrequietezza che assale quando si è costretti a sostare in un posto per troppo tempo e a soffocare l’istinto di cercare ciò che sta oltre il conosciuto (magari – come nel suo caso – dormendo a scrocco da amici accondiscendenti). Oppure chi amava i racconti di Conrad e Melville, nei quali le superfici acquee su cui si svolgevano le cacce all’uomo o alla balena permettevano di immergersi nelle linee d’ombra dell’anima. C’era anche chi si immedesimava nel vivere appartato (ma non troppo) di Thoreau, che aveva fatto scuola (wilderness) con la sua propensione a ricaricare i neuroni vivendo nel bosco, eludendo la crescente frenesia della modernità e la compulsione a fagocitare tutto ciò che ci sta attorno, senza badare alle reali necessità.

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I miei occhi sono nuovi.
Tutto quello che vedo è come non veduto mai;
e le cose più vili e consuete,
tutto m’intenerisce e mi dà gioia.

Personalmente a queste vette della letteratura mondiale accosto due autori italiani. Nelle antologie scolastiche Camillo Sbarbaro è inserito tra i poeti del Novecento con una smilza paginetta e con una poesia dedicata al padre, legata ancora a quella metrica classica che appariva superata rispetto al suo contemporaneo Ungaretti. Traduttore dei classici greci, Sbarbaro ha saputo conciliare una vita estremamente ritirata con le intense amicizie che lo legavano a intellettuali come Montale, Campana e Pound; ma soprattutto inviava e riceveva dagli Stati Uniti dei pacchi contenenti croste secche apparentemente insignificanti, con indecifrabili nomi in latino, tanto che venne indagato dalla polizia fascista per atti ostili al regime. Dietro la sua pacatezza nello stare al mondo celava un’immensa conoscenza del mondo dei licheni. Autodidatta, ne divenne uno dei più importati esperti, tanto che la sua collezione è suddivisa oggi tra il museo di Storia Naturale di Genova e altre collezioni sparse nel mondo. Uno così non poteva non entrare nel novero degli ispiratori del nostro pensiero, per la sua propensione verso le cose insignificanti che gli capitavano e che vedeva. Oltretutto, era stato anche un gran camminatore lungo i sentieri liguri, sempre alla ricerca delle sue amate e naturali esistenze in sordina.

  • Il lichene prospera dalla regione delle nubi agli spruzzati dal mare. Scala le vette dove nessun altro vegetale attecchisce. Non lo scoraggia il deserto; non lo sfratta il ghiacciaio; non i tropici o il circolo polare. Sfida il buio della caverna e s’arrischia nel cratere del vulcano. Teme solo la vicinanza dell’uomo. Per questa sua misantropia, la città è la sola barriera che lo arresta. Se lo varca ci rimette i connotati. Il lichene urbano è sterile, tetro, asfittico. Il fiato umano lo inquina.
  • Più tardi, preso a mano dalla mia predilezione per le esistenze in sordina, mi volsi a forme più scartate di vita.
  • Mi ingombra la stanza, la impregna di sottobosco un erbario di licheni. Sotto specie di schegge di legno, di scaglie, di pietra contiene pocomeno un Campionario del Mondo. Perché far raccolta di piante è farla di luoghi.

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Il momento culminante della mia vita non è quando ho vinto premi letterari o scritto libri, ma quando sono partito dal Don con 70 alpini e ho camminato verso occidente per arrivare a casa. Sono riuscito a sganciarmi dal mio caposaldo senza perdere un uomo, riuscire a partire dalla prima linea organizzando lo sganciamento, quello è stato il capolavoro della mia vita.

L’altro mio autore di riferimento è Mario Rigoni Stern. È conosciuto soprattutto per Il sergente nella neve, in cui ha descritto il “capolavoro” della sua vita, l’aver riportato in patria tutti i suoi commilitoni durante la ritirata dalla Russia. Ma al di là di questo ci è affine soprattutto per la denuncia dei dissesti ambientali (quando ancora non era una moda), per le attente descrizioni di ciò che avviene nel bosco, e soprattutto per la corrispondenza fra ciò che scriveva e ciò che faceva: una coerenza esemplare, che quasi metteva soggezione perché presente in ogni suo gesto, a partire da come accatastava la legna o coltivava l’orto.

  • inserto dolomitiCome vivere? Allora questa domanda ce la dobbiamo porre non soltanto alla fine di un millennio, di un secolo, di un anno, ma tutti i giorni, e tutti i giorni svegliandoci, si dovrebbe dire: “Oggi che cosa ci aspetta?”. Allora io considero che si dovrebbero fare le cose bene, perché non c’è maggiore soddisfazione di un lavoro ben fatto. Un lavoro ben fatto, qualsiasi lavoro, fatto dall’uomo che non si prefigge solo il guadagno, ma anche un arricchimento, un lavoro manuale, un lavoro intellettuale che sia, un lavoro ben fatto è quello che appaga l’uomo. Io coltivo l’orto, e qualche volta, quando vedo le aiuole ben tirate con il letame ben sotto, con la terra ben spianata, provo soddisfazione uguale a quella che ho quando ho finito un buon racconto. E allora dico anche questo: una catasta di legna ben fatta, ben allineata, ben in squadra, che non cade, è bella; un lavoro manuale quando non è ripetitivo è sempre un lavoro che va bene, perché è anche creativo: un bravo falegname, un bravo artigiano, un bravo scalpellino, un bravo contadino. E oggi dico sempre quando mi incontro con i ragazzi: voi magari aspirate ad avere un impiego in banca, ma ricordatevi che fare il contadino per bene è più intellettuale che non fare il cassiere di banca, perché un contadino deve sapere di genetica, di meteorologia, di chimica, di astronomia persino. Tutti questi lavori che noi consideriamo magari con un certo disprezzo, sono lavori invece intellettuali.

  • Per diventare amici, prima bisogna annusarsi, come i cani poi, se non ci si è morsi, può nascere l’amicizia.

Con Primo Levi e Nuto Revelli sognava di andare per boschi e montagne, in silenzio. Ecco, credo che non si potrebbe desiderare nulla di meglio che questa visione di sobria eternità: vagare con le persone care facendo esperienze. Era il suo “pensiero anarchico”.

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È questo che – istintivamente e senza una dichiarazione esplicita – ispira l’immagine dei due viandanti nella locandina della mostra sentieri in utopia. L’uno indica all’altro ciò che attrae la sua attenzione: in questo caso una luce conduce fuori dalla nebbia, ma da sempre i Viandanti hanno segnalato ai sodali degli “stupa”, quelle letture che sapevano essere di comune interesse. Non è un semplice consigliare libri, ma il desiderio di condividere un percorso da fare assieme, uno accanto all’altro. Per questo la maggior parte delle pubblicazioni dei Viandanti è accompagnata da una bibliografia, e nella rivista “ufficiale”, sguardistorti, la rubrica finale Punti di vista segnala anche i luoghi per i quali vale la pena mettersi in viaggio.

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Questa carrellata di “maestri” non può concludersi  senza citarne uno di fantasia, il Ken Parker creato da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo. Lui viveva il west che stava ormai scomparendo, cacciando per sopravvivere e rifiutando un progresso di cui intravvedeva le incongruenze. È lui che ci ha accompagnato durante le escursioni e nelle letture, grazie al fatto che i suoi album sono zeppi di allusioni ai classici della letteratura di viaggio. E poi, era l’unico protagonista del west che pensava prima di premere il grilletto e che la sera, davanti al fuoco, leggeva un libro.

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Questi, naturalmente assieme a molti altri, sono stati gli intermediari fra storie personali spesso molto distanti. Senza di loro probabilmente non sarebbe stato intrapreso alcun percorso comune. La loro conoscenza è stata il nostro mezzo per “individuare ciò che non è inferno e dargli spazio”, come direbbe Calvino. E per dare vita a una forma genuina di amicizia.

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Faccio una parentesi di commento sulla mostra. L’altro giorno mi sono concesso il privilegio di guardarmela senza che ci fosse nessuno. A dire il vero la possibilità mi è stata data spesso, perché non l’abbiamo promossa nei canali mediatici, non abbiamo fatto comunicati stampa, non abbiamo invitato le rappresentanze pubbliche, ma abbiamo volutamente diffuso l’evento semplicemente con il passaparola tra amici, conoscenti e simpatizzanti del nostro viatico. Risultato? Non l’hanno vista in molti.

È snobismo, questo? Non credo. È semplicemente coerenza con l’intento di raggiungere solo chi è realmente interessato a visioni del mondo magari divergenti, ma accomunate dalla consapevolezza che viviamo in una realtà complessa. E che quindi il pensiero, per coglierla, non può essere semplicistico e sbrigativo: nessuna delle nostre pubblicazioni si potrebbe liquidare con un twitter.

Ebbene, esaminando la mostra mi sono stupito di quanto materiale sia stato prodotto in tutti questi anni. Lo sapevo già, naturalmente, perché ne ho curato la grafica, ma nel vedere esposte tutte assieme le copertine di 79 Quaderni, 31 Album, 30 numeri fra Sottotiro review e sguardistorti, per un totale di oltre 7200 pagine, senza contare un bel po’ di articoli sparsi e i 14 testi della Biblioteca, mi ha impressionato l’incredibile varietà dei temi trattati.

Quella mole di riflessioni e l’idea del tempo che sta alle loro spalle mi ha confermato che i Viandanti hanno occupato una parte importante della nostra vita: di quella di Paolo senz’altro, visto che ha scritto o curato molti di questi testi, ma non solo della sua. Negli anni hanno contribuito in molti, attivamente o come semplici fruitori: e questo ha fatto sì che le nostre pubblicazioni continuino ad essere gratuite e siano stampabili liberamente. Per apprezzarle necessita solo una sufficiente dose di curiosità per ciò che non appare sotto i riflettori dei consueti media.

Si potrà notare che nessuno degli scrittori di cui ho parlato prima è originario dei nostri luoghi: non si tratta di un intenzionale rifiuto del campanilismo. Non ho citato Fenoglio e Pavese, che sono comunque nostri riferimenti imprescindibili, solo perché non volevo farla troppo lunga, e perché in qualche modo li do per scontati, in quanto hanno raccontato colline e storie simili alle nostre. Che è quello che anche i Viandanti hanno cercato di fare, narrando un territorio che viene spesso dimenticato.

Concludo con le parole delle mie figlie che alla domanda su cosa stessimo combinando Paolo ed io nell’altra stanza, risposero: “Stanno facendo la mostra. Si divertono così”. In effetti “divertire” significa volgere altrove, deviare. Ecco, questo facciamo: non marciamo lungo percorsi obbligati, muovendoci in branco verso mete che altri hanno fissato, ma camminiamo di lato, ai margini, pronti a deviare sui sentieri che ci danno maggiore soddisfazione. Quelli anche dell’amicizia, che sono la realizzazione della nostra utopia.

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Hans e l’arte della fuga

di Paolo Repetto, 4 dicembre 2022

La scomparsa di Hans Magnus Enzensberger mi spinge a ripensare finalmente il mio rapporto con lui. È stato uno dei miei autori di culto, per molti versi lo è ancora, tanto che l’ho inserito nel recente album sui Ritratti di famiglia, tra coloro che i Viandanti considerano padri e maestri. Qualcosa però ultimamente si era rotto. Forse tracciare bilanci dei propri debiti intellettuali in occasioni come queste è poco appropriato, soprattutto se i conti non sono affatto chiari: ma credo che malgrado in questa settimana siano stati pubblicati migliaia di coccodrilli enfatici, la riflessione cui sono indotto non vada a mescolarsi di “mille voci al sonito”, perché vorrebbe guardare un po’ oltre la figura e il ruolo dell’estinto.

Il quale, beato lui, aveva raggiunto in fondo un’età ragguardevole, a dispetto della dieta quotidiana da quaranta sigarette, conservandosi perfettamente lucido sino alla fine (questa cosa, e anche la faccenda delle sigarette, mi confortano molto). Penso che onestamente non potesse chiedere di meglio. Ma non sta qui il motivo della mia tiepidezza empatica, perché di norma la perdita di amici o di corrispondenti ideali anche più anziani di lui mi rattrista molto: e nemmeno lo è la svolta “conservatrice” (per alcuni addirittura reazionaria) intrapresa da Enzensberger negli ultimi decenni, che anzi, avrebbe semmai dovuto farmelo sentire più vicino. Ho condiviso infatti sino alla fine le sue critiche, i suoi sarcasmi e anche molto del suo scetticismo, e quando magari non ero del tutto d’accordo con lui non potevo fare a meno di apprezzarne la schiettezza nello schierarsi contro la dittatura ipocrita del politicamente corretto. E poi, soprattutto, continuava ad accomunarci il culto di Alexander von Humboldt, che ha rappresentato per entrambi la passione e l’impegno di studio di una vita (nel rispetto delle proporzioni, naturalmente: lui è riuscito ad editarne l’opera completa, che comprende anche dieci volumi di corrispondenza, io a scriverne una smilza presentazione per i miei studenti), nonché l’ammirazione per Orwell. Avrei dunque dovuto patirne la scomparsa come quella di un fratello maggiore o di un amico fraterno.

Niente di tutto ciò. Il vuoto culturale, questo si, lo avverto: dopo Berlin, dopo Steiner, non erano rimasti molti gli autori dai quali aspettarsi qualcosa capace di spiazzarti e stimolarti assieme. Forse era rimasto proprio solo lui, nato ancora in tempo utile per rientrare di diritto in quella generazione d’anteguerra alla quale mi accorgo di essermi sempre ispirato. Quello che non provo è invece il vuoto emozionale. Mi mancherà un riferimento intellettuale forte, ma non una di quelle “amicizie” extra-corporali ed extra-temporali che ho idealmente stretto con Berneri, con Leopardi, con Camus, con Timpanaro e con pochi altri.

In realtà, non è stato sempre così. Quando ho letto i suoi primi saggi, agli inizi degli anni Settanta, sapevo assai poco della sua militanza politica, anche se mi era chiaro che stava dalla mia stessa parte, e che ci stava in una maniera tutt’altro che dottrinaria e dogmatica: motivo per cui l’ho immediatamente eletto tra i maestri. Per anni ha poi continuato a rappresentare una sicurezza: se volevo trovare conferma a sensazioni che avvertivo confusamente, chiarimenti su processi dei quali non ero in grado di seguire il filo, mi era sufficiente rivolgermi ad Hans Magnus. Aveva già visto e raccontato e spiegato perfettamente quel che mi interessava conoscere, si parlasse di pubblicità, di televisione, di politica, di Europa, ecc. (In proposito mi pare ancora significativo quello che scrivevo trenta o forse quaranta anni fa in Un filo di resistenza).

Più tardi ho cominciato però ad avvertire una progressiva distanza nei confronti della “persona” Enzensberger. Mi è accaduto dopo aver letto quella sorta di autobiografia sottilmente auto-assolutoria che è raccontata in Tumulto, ma la sensazione circolava già prima, era nata da un paio di interviste rilasciate in occasione dei settant’anni, nelle quali tracciava un bilancio piuttosto compiaciuto della sua vita, di quella privata come di quella pubblica. Ora, non ho nulla contro chi legge a ritroso in positivo la propria esistenza, al contrario, semmai non sopporto quelli che trovano solo di che recriminare: ma nel positivo deve rientrare a mio giudizio anche la capacità di prendere atto “seriamente” delle proprie responsabilità, non quella di scrollarsele di dosso. A un certo tipo di errori non si può rimediare, ma ammetterli è già un buon passo avanti e una lezione che si trasmette agli altri. Non è sufficiente dire “ho scherzato col fuoco, ma non ero così stupido da stargli troppo vicino, e quindi non mi sono ustionato”. Soprattutto quando non è stato così per altri partecipanti al gioco. Chi sapeva che il gioco era pericoloso (e riteneva anche fosse stupido) è responsabile non solo di aver partecipato e di aver forse indotto anche altri a farlo, ma del non aver operato per dissuaderli.

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Credo di potermi spiegare meglio riassumendo quello che ho trovato in Tumulto. Prima, durante e anche immediatamente dopo il Sessantotto Enzensberger ha stazionato a margine delle frange più estremiste del movimento di protesta: non nel senso che fosse marginale la sua presenza, tutt’altro, era un leader ed era senza dubbio l’intellettuale di punta della sinistra “rivoluzionaria” tedesca, direttore di una prestigiosa rivista di controcultura, reduce da precocissimi successi letterari, da una docenza negli Usa chiusa polemicamente e da un lungo soggiorno a Cuba altrettanto polemicamente interrotto. “A margine” era invece il suo modo di esserci: da come la racconta parrebbe finito in mezzo al movimento di contestazione quasi per caso, pur essendone stato a tutti gli effetti un capo e un ispiratore. In realtà non sopportava affatto i suoi “compagni di lotta”: né i contestatori “creativi”, come quelli della Kommune 1, un gruppo anarco-situazionista comprendente anche suo fratello e la sua prima moglie, che organizzava azioni di protesta tanto spettacolari quanto patetiche e che Enzesberger stesso a posteriori definisce “una piccola truppa di artisti sbandati” – non li sopportava ma li ospitò nella propria casa per due anni; né i “duri e puri”, che già militavano nella Rote Armee Fracktion, da Andreas Baader a Gudrun Esslin a Ulrike Meinhoff, e che sarebbero poi finiti tragicamente – ma l’ospitalità e il supporto, sia pure di malavoglia, li offrì anche a loro.

Non li sopportava perché la sua superiorità intellettuale (indubbia) gli faceva scorgere quanto velleitario fosse il “vogliamo tutto” e quali insidie nascondesse quel tipo di rivolta. Quindi si teneva sempre sufficientemente discosto dalla “prassi rivoluzionaria”. La sua critica nei confronti del capitalismo, dell’imperialismo, della cultura consumistica, del perbenismo piccolo-borghese rimaneva lucida e violenta, ma proprio in Tumulto racconta che lui stesso era spaventato a volte dall’effetto incendiario che le sue parole avevano nell’animo dei suoi ascoltatori o lettori. “È stato terribile. Non sono un grande oratore, ma ho notato come si può infinocchiare una folla infiammata, se si adotta il timbro giusto, che può giungere fino all’istigazione. D’un tratto ci si trasforma in un propagandista. E anche se si ha ragione nello specifico, è qualcosa di fatale.

La sua posizione è rimasta quindi per tutto quel periodo, come lui stesso scrive, quella di un “osservatore che partecipa”, ma già in partenza disincantato: di uno che “mangia con gli autoctoni, danza e va a letto con loro”, ma è ben consapevole dei loro limiti, e di quelli della causa stessa per cui credono di combattere: di chi vede insomma il male prima e meglio degli altri, e lo denuncia, ma non è poi così ingenuo da pensare che si potrà spazzarlo via sotto le risate o con qualche pallottola. Era il giocatore che non si assume responsabilità, nel senso che pur partecipandovi non prende sul serio il gioco, e al quale la posta in fondo neppure interessa, perché troppo impegnato a soddisfare la propria sete di novità (politiche ma anche sentimentali), a camminare sempre in avanscoperta. Il che non gli consente di fermarsi a considerare chi, avendo invece nel gioco creduto troppo, cade o si perde lungo la strada, non solo per insufficienze proprie ma anche per aver ricevuto indicazioni ambigue.

Scrive ad un certo punto: “Inizialmente me ne volevo solo andare via velocemente. Non volevo davvero finire in prigione. Semplicemente non sono adatto a fare l’eroe”. Di qui la pulsione sempre più urgente a chiamarsi fuori: e il suo modo di ritrarsi non era il taglio netto, ma la latitanza: spingersi talmente avanti e scartare tante volte di lato da essere perso di vista da chi lo seguiva. Negli anni caldi del terrorismo tedesco è rimasto quasi sempre fuori dalla Germania, praticamente in fuga, non dalla polizia, ma da ogni possibile coinvolgimento, da ogni coazione a schierarsi. Ha viaggiato per mezzo mondo rimbalzando qua e là come una pallina da flipper, e spiazzando sia gli amici che gli avversari con continui cambi di posizione. Nel frattempo ha maturato il distacco dal marxismo, ed a metà degli anni Settanta era ormai out tanto per la sinistra che per la destra, mentre per contro il suo peso di intellettuale anticonformista si andava consolidando ad ogni uscita di una sua nuova opera di poesia o di saggistica. Quando io ho cominciato a leggerlo esercitava già il ruolo del battitore libero, equamente e acutamente critico nei confronti tanto delle ipocrisie democratiche occidentali quanto dei socialismi reali e delle utopie movimentiste. Ha continuato a farlo, a modo suo, fino all’ultimo.

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Perché allora è uscito ad un certo punto dal mio Pantheon? Forse, messa così, come l’ho forzatamente sintetizzata, può sembrare che Enzensberger abbia voluto raccontare senza farsi sconti una progressiva presa di coscienza dell’ambiguità del proprio ruolo, e offrire una lettura del fenomeno della contestazione che in linea di massima è condivisibile (almeno, io lo condivido). Ma in realtà la sua narrazione è all’insegna di un sarcasmo scanzonato che alla lunga suona presuntuoso, che investe tutto e tutti e giustifica la ritrosia a impegnarsi a fianco degli altri, mentre al contempo rivendica un personalissimo diritto all’irriverenza. L’anticonformismo sembra essersi involuto in lui da una vocazione in una professione: e questo lo ha costretto a riposizionarsi costantemente, senz’altro per continuare ad essere un testimone credibile e un accusatore non incline ai patteggiamenti, ma anche per corrispondere, ad un certo punto, al ruolo che lo stesso sistema da lui messo sotto accusa gli aveva ritagliato.

Insomma, non so quanto sia riuscito a spiegarmi. Spero sia chiaro che non sto parlando di uno spacciatore di anticonformismo da salotto, ma di una intelligenza eccezionale, per la quale nutro un reverenziale rispetto. Il che non mi impedisce tuttavia di pensare che si tratti di una intelligenza “fredda”, acuta e senz’altro accattivante, ma in realtà egoistica e poco disponibile ad ascoltare e considerare le ragioni altrui. Da tutta questa vicenda vien fuori a mio giudizio la figura di un uomo del quale in definitiva non mi fiderei, molto diversa da quella che mi ero costruito leggendo La breve estate dell’anarchia o Mausoleum: e alla nuova luce ho dovuto ripensare anche quelle opere.

Per meritare la fiducia non c’entra avere o meno l’animo dell’eroe (che in questo caso non è una giustificazione alla don Abbondio, che arrivava dal basso di una condizione di estrema fragilità, ma suona un po’ presuntuosamente come un diritto accampato dall’alto, un “Io me lo posso permettere”). E neppure c’è l’obbligo di essere sempre coerenti, se non nei confronti dei valori fondamentali. C’entra invece una particolare disposizione, che io ritengo innata, verso gli uomini e verso le idee. In sostanza, io non credo che Enzensberger abbia mai davvero amato gli uomini, o per lo meno li abbia amati per quel che sono: ha coltivato per qualche tempo una sua idea di come gli uomini dovrebbero essere (e fin qui ci sta, lo facciamo tutti) ma stabilendo da subito dei parametri che non consentivano compromessi con la realtà della natura umana. Una volta verificato come questi parametri fossero inapplicabili (e lo ha fatto girando non solo in Russia o a Cuba o nella Germania dell’Est, ma per tutti i “socialismi reali” che all’epoca fiorivano) e quanto poco in definitiva gli importava lo fossero, non ha abbassato l’asticella ma si è dedicato ad uno sport a lui più congeniale.

Volendo trovare una vicenda analoga alla sua qui da noi, l’accostamento che mi viene più spontaneo è con Pasolini. Non solo per il ruolo di grillo parlante recitato da entrambi, quanto proprio per il tipo di rapporto che questo ruolo creava con gli altri. La differenza tra i due sta nel fatto che in Pasolini il rapporto era più sofferto, perché da un lato desiderava superare la distanza, essere accettato nella sua diversità, e non tollerato, ma dall’altro di questa diversità faceva in fondo un’arma, il lasciapassare per potersi permettere ciò che agli altri non era consentito; mentre Enzensberger la distanza se la creava, e il suo proposito era semmai quello di riconfermare in ogni occasione la propria irriverente autonomia nei confronti di ogni autorità intellettuale e politica. L’esito finale è comunque lo stesso. Naturale o culturalmente indotta che sia, la distanza nei confronti degli altri rimane. E l’uno e l’altro, tutto sommato, la vivessero con sensi di colpa o con disincantata ironia, in questa condizione di eccentricità deresponsabilizzante hanno trovato un loro ruolo e un loro modo di essere.

Molto diversa è invece è la posizione di Enzensberger da quella di Orwell, che pure era un suo pallino e al quale avrebbe voluto senz’altro somigliare (come del resto lo avrei voluto io). Orwell non era un anticonformista, anzi, per molti aspetti era un conservatore, che ha trascorso però più di metà della sua vita remando controcorrente. Ma remando sempre nella stessa direzione. “Ogni riga del lavoro serio che ho prodotto dal 1936 l’ho scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e per il socialismo democratico così come lo intendo io”. A differenza di Enzensberger aveva un’idea chiara non solo di chi fossero gli avversari da combattere, ma anche in nome di cosa bisognava combatterli. Il suo concetto un po’ antiquato di decency gli offriva dei punti fermi di approdo: e malgrado arrivasse anch’egli da una serie di disillusioni continuava a pensare che valesse la pena lottare con gli altri e per gli altri. Non si poneva il problema di essere o meno adatto a fare l’eroe: si rimboccava le maniche e faceva quello che riteneva giusto per rispettarsi come uomo.

Intendiamoci, non sto insinuando che Enzensberger non sia rimasto sempre attento e partecipe alle sorti del mondo: per tornare al tema iniziale, sto dicendo che col tempo l’ho scoperto un intellettuale molto più attento alle idee che agli uomini: uno che ironicamente con le idee ci scherzava e col sarcasmo magari le demoliva, mentre gli uomini per le idee o per colpa delle idee ci muoiono.

Con tutto ciò, perché ho allora inserito Enzensberger nell’Album degli antenati e dei maestri dei Viandanti? Perché tale è stato e tale rimarrà a tutti gli effetti, indipendentemente dai miei mal di pancia: e i suoi libri continueranno ad occupare nella mia libreria uno scaffale di centro. E anche perché, alla sua maniera maliziosa, Hans Magnus aveva già preventivamente risposto agli appunti che gli ho mosso. L’ultima sua opera pubblicata in Italia, proprio quest’anno, si intitola Artisti della sopravvivenza. Raccoglie sessanta brevi ritratti di intellettuali e artisti vissuti nel XX secolo e sopravvissuti alle repressioni e alle epurazioni praticate non solo negli stati totalitari. Ciò che importava ad Enzensberger era mostrare attraverso queste minibiografie in quanti modi e a quali prezzi un uomo può sopravvivere al carcere e in qualche caso scampare all’esecuzione. Viene in mente subito che altri, e mi riferisco naturalmente ad un sopravvissuto vero, Primo Levi, si è interrogato sul perché alcuni si siano salvati e altri no. Ma qui si tratta di una cosa diversa (e trattata in maniera decisamente più superficiale).

Enzensberger ha pescato trasversalmente a destra e a sinistra, tra le vittime dei fascismi come tra i reietti della bonifica post-bellica. Non è un libro di riabilitazioni, ma di pacificazione. Considerandosi evidentemente anch’egli un sopravvissuto, e anticipando quello che magari prevedeva sarebbe stato il giudizio su di sé, Enzensberger riconduce tutte le strategie di sopravvivenza a quell’invisibile vantaggio che l’intelligenza creativa offre nei confronti dei persecutori e dei carcerieri. Ognuno a modo suo, ciascuno dei suoi personaggi ha saputo aggrapparsi alla fune di solidarietà diacronica gettata dalla cultura. Come a dire: ciò che resta è la cultura, sono le opere prodotte da queste persone, e allora giudichiamo queste ultime per ciò che hanno lasciato, non per come hanno vissuto.

Non credo di essere del tutto d’accordo, e questo stesso scritto lo dimostra, ma quando la domanda, inespressa ma chiaramente avvertibile, è: cosa ne sai tu, cosa ne sappiamo noi per giudicare una vita, delle circostanze, delle condizioni, delle mentalità correnti all’epoca, beh, allora devo convenire che qualche riflessione me la impongo. E così Hans Magnus ha colpito ancora, mi ha suscitato un dubbio, fa vacillare una mia convinzione.

Questo, appunto, è il compito di un vero maestro.

Hans e l'arte della fuga 04 Enzensberger

Ritratti di famiglia

La storia è una galleria di quadri,
dove ci sono pochi originali e molte copie.

Ritratti di famiglia copertinaIn concomitanza con la mostra-rassegna delle loro attività (la prima, e con ogni probabilità anche l’unica) i Viandanti delle Nebbie offrono ai “followers” una strenna natalizia. L’idea iniziale prevedeva una plaquette sul modello dei vecchi calendarietti profumati dei barbieri, per i quali proviamo tanta nostalgia (per i libretti, ma anche per i barbieri): poi abbiamo optato per una linea meno frivola.
Distribuiremo quindi cinquanta libretti (il che significa presumere, molto ottimisticamente, un numero di lettori doppio rispetto a quelli del Manzoni) che vogliono suggerire da dove arrivano i Viandanti, chi c’è idealmente alle loro spalle. Certi dell’impunità, perché quasi tutti gli interessati non sono più in vita, ci siamo permessi di vantare nobili ascendenze.
Rispetto a molti dei personaggi evocati i gradi di separazione sono almeno quattro o cinque. Il sesto ci avrebbe portato direttamente a Gesù, e ci pareva un tantino esagerato. E tuttavia …

03 Quadri in mostraL’albero genealogico dei Viandanti è fittissimo e composito. Risalendo di due secoli (non abbiamo voluto andare oltre, era già abbastanza complicato così) si incontrano un po’ tutte le tipologie e le varietà umane: scrittori, artisti, esploratori, viaggiatori, rivoluzionari, filosofi, storici, fumettisti, ecc…). In un modo o nell’altro coloro che abbiamo rintracciato hanno contribuito a indicare percorsi, a suggerire svolte, a portare ristoro e a orientarci nella nebbia. Non sono gli unici, naturalmente, perché la nostra è una famiglia molto allargata. Potremmo citarne almeno altrettanti, e anzi, quella dei gradi meno prossimi di parentela potrebbe già essere un’idea per una strenna futura.

Abbiamo volutamente omesso ogni indicazione biografica o bibliografica relativa ai personaggi presentati. Il bello del gioco sta proprio qui: ciascuno potrà fare eventuali ricerche di approfondimento per conto proprio.
Questo è lo spirito dei Viandanti.

Nella Galleria non hanno trovato posto figure femminili. Chiamatelo maschilismo, se volete, ma di fatto non ci è venuta in mente alcuna protagonista significativa dei nostri percorsi culturali. Questo non significa che non abbiamo incontrato donne eccezionali: significa solo che queste donne non hanno lasciato il segno. Per un difetto nostro di sensibilità, indubbiamente: ma ci sembrava terribilmente ipocrita inserirne qualcuna solo in ossequio al politicamente corretto.01a Tin Tin

P.s: Il fatto che Tintin o Milù compaiano sia in prima che in quarta di copertina non è casuale: sono tra gli antenati più nobili, non potevano mancare all’appello.

04 Bustin in mostra

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

Isaiah Berlin

Camillo Berneri

Renzo Calegari

Albert Camus

Nicola Chiaromonte

Stig Dagermann. 12

Charles Darwin

Franz De Waal

Hans Magnus Enzensberger

Patrick Leith Fermor

Caspar David Friedrich

Piero Gobetti

Knut Hamsun

William Henry Hudson

Alexander von Humboldt 20

Pëtr Kropotkin

Furio Jesi

Toni Judt

Gustav Landauer

Giacomo Leopardi

Primo Levi

Jack London

Herman Melville

Albert Frederic Mummery

George Orwell

Hugo Pratt

Élisée Reclus

Mario Rigoni Stern

Albert Robida

J.D. Salinger

Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

George  Steiner

Robert Louis Stevenson

Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

Alexis De Tocqueville

Sergio Toppi

Alfred Wallace

Charles Waterton

Titn Tin con bandiera dei pirati con sfondo uniforme

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

08 Ken Parker06 Milazzo05 BerardiHo impugnato il fucile per tutta la vita, eppure, il mio popolo è stato distrutto, la mia sposa torturata a morte…
Se mio figlio vivrà dovrà trovare un altro modo di combattere…Addio, “Lungo fucile” …

Isaiah Berlin

12 Isaiah BerlinGarantire la libertà ai lupi significa condannare a morte le pecore.

Non esiste alcuna istanza primaria in base a cui la verità, una volta scoperta, debba per forza essere anche interessante

11 Isaiah Berlin

Camillo Berneri

14 Camillo BerneriL’anarchismo è il viandante che va per le vie della Storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca. Egli si sofferma per adagiarsi all’ombra avvelenata, per dissetarsi alla fontana insidiosa. Egli sa che il destino, che la sua missione è riprendere il cammino, additando alle genti nuove mete.

 

16 Camillo Berneri

Renzo Calegari

17 Renzo CalegariQuesta storia è finita come doveva, con dei vincitori e dei vinti … il mio guaio è che non appartengo né agli uni né agli altri.

19 Renzo Calegari

Albert Camus

21 Albert CamusPerché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Bisogna che si cambi in esempio.


Nicola Chiaromonte

25 Nicola ChiaromonteQuando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distogliere lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per pri-ma ci si articola nella mente è: Che cosa rimane?… Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati “belli”, direbbe Plotino… Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male, e non si può fare che sia diversa-mente (e non si deve fare che appaia diversamente).

24 Nicola Chiaromonte

La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine. 

Stig Dagermann

26 Stig DagermanLe auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà.

  27 Stig Dagerman

L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo sicuramente è vero.

 

Charles Darwin

30 Charles DarwinNella lunga storia del genere umano (e anche del genere animale) hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare ed a improvvisare con più efficacia.

  

 

32 Charles Darwin

Lo stadio più elevato di cultura morale si ha quando riconosciamo che dovremmo controllare i nostri pensieri.

 

Franz De Waal

33 Franz de WaalTutti sanno che gli animali hanno emozioni e sentimenti, e che prendono decisioni simili alle nostre. Gli unici a fare eccezione, sembrerebbe, sono alcuni universitari. 

35 Franz de Waal

Tutto conferma la mia visione della morale “venuta dal basso”. La legge morale non è né imposta dall’alto, né dedotta da principi accuratamente razionalizzati, ma nasce da valori ben radicati, presenti da tempo immemorabile. Il più fondamentale deriva dal valore della vita collettiva per la sopravvivenza. Il desiderio di appartenenza, la voglia di capirsi, di amarsi e di essere amati ci spingono a fare tutto ciò che possiamo per restare nel miglior rapporto possibile con le persone dalle quali dipendiamo.


Hans Magnus Enzensberger

38 Han Magnus EnzesbergerLa televisione è puro terrorismo. La parola scompare, e con la parola ogni possibilità di riflessione.

39 Han Magnus Enzesberger e Umberto Eco

Negli ultimi duecento anni le società più evolute hanno suscitato attese di uguaglianza che non si possono soddisfare; e al contempo hanno fatto sì che ogni giorno per ventiquattro ore la disuguaglianza venga dimostrata su tutti i canali televisivi a tutti gli abitanti del pianeta. Ragione per cui la delusione umana è aumentata con ogni progresso.

Al perdente, per radicalizzarsi, non basta quello che gli altri pensano di lui, siano essi concorrenti o sodali… Egli stesso deve metterci del suo; deve dirsi: io sono un perdente e basta. L’estinzione non solo di altri, ma anche di se stesso, è la sua soddisfazione estrema.

 

Patrick Leith Fermor

44 Patrick Leith FermorUna magica pace vive nelle rovine dei templi greci. Il viaggiatore si adagia tra i capitelli caduti e lascia passare le ore, e l’incantesimo gli vuota la mente di ansie e pensieri molesti e a poco a poco la riempie di un’estasi tranquilla.

45 Patrick Leith FermorNon si parte per andare da nessuna parte senza aver prima di tutto sognato un posto. E viceversa, senza viaggiare prima o poi finiscono tutti i sogni, o si resta bloccati sempre nello stesso sogno.

 

Caspar David Friedrich

47 Caspar David friedrichL’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un’opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio.

 

49 Caspar David friedrichPerché, mi son sovente domandato, scegli sì spesso a oggetto di pittura la morte, la caducità, la tomba? È perché, per vivere in eterno, bisogna spesso abbandonarsi alla morte.


Piero Gobetti

52 Piero GobettiIl fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

51 Piero Gobetti

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

Knut Hamsun

53 Knut HamsunQuando parlo con un uomo, non ho bisogno di guardarlo per seguire esattamente quello che dice; sento subito se egli mi dà a bere qualche cosa o me ne nasconde qualche altra; la voce, credetemi, è un apparecchio pericoloso

54 Knut Hamsun

  “Amo tre cose”, dico allora.
“Amo il sogno d’amore di un tempo, amo te e amo quest’angolo di terra.”
“E cosa ami di più?”
“Il sogno.”

 

William Henry Hudson

57 William Henry HudsonProvo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico,

58 William Henry Hudson


Alexander von Humboldt

61 Alexander von HumboldtCi sono popoli più acculturati, avanzati e nobilitati dall’educazione di altri, ma non esistono razze più valide di altre, perché sono tutte egualmente destinate alla libertà.

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La visione del mondo più pericolosa di tutte è quella di coloro i quali il mondo non l’hanno visto.

 

Pëtr Kropotkin

65 Petr KropotkinL’evoluzione non è lenta e uniforme come si vuol sostenere. Evoluzione e rivoluzione si alternano, e le rivoluzioni – i periodi cioè di evoluzione accelerata – appartengono all’unità della natura esattamente come i periodi in cui l’evoluzione è più lenta.

 

Non appena avrai scorto un’ingiustizia e l’avrai compresa – un’ingiustizia nella vita, una menzogna nella scienzao una sofferenza imposta da altri – ribellati contro di essa!  LottaRendi la vita sempre più intensa!

66 Petr Kropotkin

E così tu avrai vissuto, e poche ore di questa vita valgono molto di più di anni interi passati a vegetare.

 

 Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.

Furio Jesi

67 Furio JesiLa cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche  Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra.

68 Furio Jesi

Toni Judt

71 Toni JudtIl problema è che i socialisti hanno sempre nutrito una fiducia incondizionata nella razionalità degli uomini.

70 Toni Judt

Lo stile materialista ed egoísta della vita contemporánea non è inerente alla condizione umana. Gran parte di quello che a noi pare “naturale” data dalla decade del 1980: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le crescenti differenze tra ricchi e poveri. E, soprattutto, la retorica che li accompagna: un’acrítica ammirazione per i mercati sregolati, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione della crescita infinita.

 

Gustav Landauer

73 Gustav LandauerLo Stato non è qualcosa che si può distruggere con una rivoluzione, dato che esso esprime una condizione, una certa relazione tra gli esseri umani, una modalità del comportamento umano; lo possiamo distruggere solo contraendo altri tipi di relazioni, assumendo altri tipi di comportamento.

 L’anarchia non riguarda il futuro, riguarda il presente; non è questione di ciò che speri, è questione di come vivi.

 


Giacomo Leopardi

74 Giacomo LeopardiPasseggere: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo.

  La ragione è un lumela Natura vuol essere illuminata dalla ragionenon incendiata. 75 Giacomo Leopardi

Primo Levi

153ab Primo LeviPerché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

 

 Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.

 

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.

156 Primo Levi

Jack London

77 Jack LondonNon era della loro tribù, non poteva parlare il loro gergo, non poteva far finta di essere come loro. La maschera sarebbe stata scoperta e, per altro, le mascherate erano estranee alla sua natura.

78 Jack London

Dalla creazione del mondola barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progressoNel corso dei secolil’abbiamo soltanto ricoperta  con una mano di vernice, nient’altro.


Herman Melville

154 Herman MelvilleNoi non possiamo vivere soltanto per noi stessi. Le nostre vite sono connesse da un migliaio di fili invisibili, e lungo queste fibre sensibili, corrono le nostre azioni come cause e ritornano a noi come risultati.  

157 Herman Melville

Io sono tormentato da un’ansia continua per le cose lontane. Mi piace navigare su mari proibiti e scendere su coste barbare.

156 Herman Melville

Dell’amicizia a prima vista, come dell’amore a prima vista, va detto che è la sola vera.

 

Albert Frederic Mummery

81 Albert Frederic MummeryLa via più difficile alle cime più difficili è sempre la cosa giusta da tentare, mentre i pendii di sgradevole pietrisco vanno lasciati agli scienziati. Il Grépon merita di essere salito perché da nessuna altra parte l’alpinista troverà torrioni più arditi, fessure più selvagge, precipizi più spaventosi.
Assolutamente impossibile con mezzi leali.

 

George Orwell

85 George OrwellSapere dove andare e sapere come andarci sono due processi mentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessa personaI pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango.

  

Così come per la religione cristiana, anche per il socialismo la peggior pubblicità sono i suoi seguaci.

86 George Orwell

Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenzaA loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto.

 

 

Hugo Pratt

88 Hugo PrattQuelli che sognano ad occhi aperti sono pericolosi, perché non si rendono conto di quando i sogni finiscono.

89 Hugo Pratt - Corto Maltese

Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…

Élisée Reclus

92 Elisée ReclusL’Anarchia è la più alta espressione dell’ordine. 

93 Elisée Reclus

Se noi dovessimo realizzare la felicità di tutti coloro che  portano una figura umana e destinare alla morte tutti coloro che hanno un muso e che non differiscono da noi che per un angolo facciale meno aperto, noi non avremmo certo realizzato il nostro ideale. Da parte mia, nel mio affetto di solidarietà socialista, io abbraccio anche tutti gli animali.


Mario Rigoni Stern

159 Mario Rigoni SternI ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia. 

 

163 Mario Rigoni SternDomando tante volte alla gente: avete mai assistito a un’alba sulle montagne? Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura.

 

160 Mario Rigoni SternIl tempo, nella vita di un uomo, non si misura con il calendario ma con i fatti che accadono; come la strada che si percorre non è segnata dal contachilometri ma dalla difficoltà del percorso.

 

Albert Robida

96 Albert RobidaMio caro Mandibola – diceva quasi sempre Farandola terminando – abbandono definitivamente ogni idea di riforma sociale, e mi lancio con tutte le vele spiegate, nella più vasta industria. Gli affari, il commercio, ecco ciò che mi occorre; e dal momento che le grandi imprese sono necessarie alla mia salute, avanti con le gigantesche speculazioni commerciali! 

  Il vecchio telegrafo permetteva di comunicare a distanza con un interlocutore. Il telefono permise di sentirlo. Il telefonoscopio superò entrambi rendendo possibile anche vederlo. Che si può volere di più?

99 Albert Robida

J. D. Salinger

100 J D SalingerIo sono una specie di paranoico alla rovescia. Sospetto le persone di complottare per rendermi felice.

 

101 J D Salinger - Il giovane HoldenLa più spiccata differenza tra la felicità e la gioia è che la felicità è un solido e la gioia è un liquido.

 

Camillo Sbarbaro

103 Camillo SbarbaroSe potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.

 

 Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.

 Si comincia a scrivere per essere notati, si seguita perché si è noti.

105 Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

107 Erwin SchrödingerIl mondo è una sintesi delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e dei nostri ricordi. È comodo pensare che esista obiettivamente, di per sé. Ma la sua semplice esistenza non basterebbe, comunque, a spiegare il fatto che esso ci appare.

Se questi dannati salti quantici dovessero esistere, rimpiangerò di essermi occupato di meccanica quantistica.

  106 Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

110 Johann Gottfied SeumeCamminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa. 

113 Johann Gottfied Seume

In tutta la mia vita non mi sono mai abbassato a chiedere qualcosa che non abbia meritato, e nemmeno chiederò mai quel che ho meritato finché esistono in questo mondo tanti mezzi di vivere onestamente: e quando poi anche questi finissero, ne resterebbero alcuni altri per non vivere più.

115 Johann Gottfied Seume

 

George  Steiner

116 George SteinerTutta la metafisica è un ramo della letteratura fantastica.

Un genio degli scacchi è un essere umano che concentra doni mentali ampi e poco compresi, e lavora su un’impresa umana alla fine insignificante.

L’etichetta di homo sapiens, a parte pochi casi, probabilmente è solo un’infondata millanteria.

120 George Steiner

Robert Louis Stevenson

121 Robert Louis StevensonNon chiedo ricchezzené speranze, né amorené un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi.
Io non ho viaggiato per andare da qualche parte, ma per il gusto di viaggiare.
La questione è muoversi.

122 Robert Louis Stevenson

La politica è forse l’unica professione per la quale non viene ritenuta necessaria alcuna preparazione specifica.


Henry David Thoreau

125 Henry David ThoreauNon c’è valore nella vita eccetto ciò che scegli di mettere in essa e nessuna felicità in nessun posto eccetto ciò che gli apporti tu.

126 Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

128 Sebastiano TimpanaroScrivere significa svolgere un ragionamento che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze. Senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali. Seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni. Chi scrive offre al lettore la propria coerenza di ragionamento e lo invita ad analoga coerenza.


Alexis De Tocqueville

135 Alexis De TocquevilleSe cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?

137 Alexis De Tocqueville 

In una rivoluzione, come in un raccontola parte più difficile è quella di inventare un finale.

 

Sergio Toppi

138 Sergio ToppiIo detesto essere chiamato artista: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo.

 

139 Sergio ToppiIl suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai d’imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l’incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri.

 

Alfred Wallace

142 Alfred WallaceQuesta progressione, per piccoli passi, in varie direzioni, ma sempre controllata ed equilibrata dalle condizioni necessarie, soggette alle quali solo l’esistenza può essere preservata, può, si crede, essere seguita in modo da concordare con tutti i fenomeni presentati da esseri organizzati, la loro estinzione e successione nelle epoche passate, e tutte le straordinarie modificazioni di forma, istinto e abitudini che esibiscono.

146 Alfred Wallace

 

Charles Waterton

147 Charles WatertonMentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione.

Tin Tin si avvia

Andai nei boschi e … inciampai

di Fabrizio Rinaldi, 20 giugno 2021

C’è in tutti noi un limite alla tolleranza, superato il quale c’è chi spara, chi sbraita, chi fa finta di nulla e tira dritto divenendo indifferente: e poi c’è chi scrive. In questo ultimo caso non lo si fa per trovare altri che la pensino al nostro stesso modo, o per convincerli a farlo, ma per non sparare o per non mettersi a urlare. Io il limite l’ho toccato leggendo una frase semplicissima, apparentemente innocente, che recensiva l’ennesimo libro-fotocopia di Tiziano Fratus sugli alberi: “Venite a camminare nei boschi, le foglie vi insegneranno saggezza”. A quanto pare ho soglie di tolleranza basse.

Le foglie vi insegneranno la saggezza! No, non ne posso più dei professionisti della fitness naturistica, di chi celebra le proprietà salvifiche dello stare nei boschi, di chi propina cure antidepressive basate sul vivere nel verde, di chi crede al potere rigenerante dell’abitare nelle campagne, e lo fa dal teleschermo o ingolfando le librerie.

Io in mezzo alla natura ci vivo da sempre. Sono nato e cresciuto fra le colline dell’ovadese, sin da piccolo ho rastrellato campi, zappato l’orto, vendemmiato, sfrondato rami e sistemato balle di fieno nella cascina dei nonni. Divenuto adulto, ho finito per fare altro di mestiere, ma ho perseverato nel vivere in campagna piuttosto che in città, proprio per gli indubbi vantaggi di tranquillità, benessere e, non ultimo, di un costo della vita più vicino alle mie possibilità.

Un po’ dunque la campagna la conosco, e so per esperienza che queste cose sono in parte vere. So anche, questo per un po’ di semplice buon senso, che l’essere umano nella natura ci sta a suo agio da sempre (senza che qualche sapientone glielo spieghi), e so persino che ciò è possibile, tra l’altro, per la presenza nel sottobosco, nell’orto e un po’ ovunque nell’habitat naturale, del batterio Mycobacterium vaccae che, attivando il rilascio di serotonina, riduce l’ansia e favorisce il rafforzamento del sistema immunitario.

Ci vivo, ma non sono più saggio di chi abita nella metropoli solo perché distinguo l’acero dal pino. Le foglie rastrellate in autunno non mi hanno mai svelato il vero significato della nostra effimera esistenza. Sarò insensibile ai poteri sapienziali dell’ambiente naturale (che poi di “naturale” non ha più nulla) ma, pur riconoscendo i privilegi dello stare qui piuttosto che a Marghera o a Rovereto, non ne ignoro i costi in fatica fisica e scomodità.

Quindi mi sento in diritto di dire la mia. Che non è poi solo la mia. Se proviamo a domandare a chiunque viva di prodotti agricoli – ma “viva” davvero di questo e non sia un millantatore –, dirà che sì, vivere nel verde è delizioso, ma anche che “la terra è bassa”. Che cioè per ripagarti con uno stipendio appena appena dignitoso ti chiede una gran fatica. È bello vedere ex-direttori di banca o rampolli di buona famiglia che si reinventano come imprenditori agricoli di successo: sarebbe però interessante anche capire di quali risorse, e relazioni, hanno potuto disporre, e soprattutto se tutto questo ha ancora davvero a che fare col vivere nella natura.

Andai nei boschi e inciampai (3)Perché anche già soltanto a viverci, nella natura, è fatica. Dopo una nevicata, anziché fermarmi a rimirare romanticamente il paesaggio innevato, se voglio raggiungere il posto di lavoro in tempo o accompagnare le bimbe a scuola devo armarmi di pazienza, pala, turbina e … spalare, senza contare troppo su aiuti esterni. Arrivata la primavera è necessario porre rimedio agli effetti di neve, acquazzoni, frane e altre amenità più o meno naturali, andando a tagliare gli alberi stroncati dalle gelate e dal peso dei fiocchi, a liberare i fossi, a ripristinare il muretto di contenimento e così via.

Ci sono poi i disagi nei rapporti col “mondo esterno”, quello che sta là fuori. Ad esempio, la reale velocità di internet che posso raggiungere qui: di vedere l’ultima serie su Netflix certamente me lo scordo (non che mi interessi particolarmente, però ogni tanto un film …), ed è già un miracolo che le mie figlie siano riuscite a seguire le lezioni in DAD durante la pandemia, tra continue interruzioni di rete e voli funambolici dalla connessione della saponetta internet di casa all’hotspot del cellulare.

Le distanze per fare acquisti, necessari e superflui che siano, sono oggettivamente irrisorie. Ciò che non trovo qui vicino posso facilmente trovarlo, ordinarlo e averlo in pochissimi giorni attraverso Amazon. Ma se voglio andare oltre il facile acquisto e visitare ad esempio una mostra devo spostarmi di almeno 30-50 km. Per capirci: in questi giorni è uscito un documentario intitolato “Paolo Cognetti. Sogni di grande nord”, che mi intrigava molto: ci ho rinunciato, perché lo proiettavano solamente per pochissimi giorni, e solo in alcuni cinema di Genova e di Cuneo. Non proprio a due passi.

Peccato, perché prometteva bene: l’autore di “Le otto montagne” e il suo amico Nicola Magrin (bravo illustratore dei libri di Rigoni Stern, Levi, Terzani e molti altri) raccontano il loro viaggio a piedi in Alaska, citando la gran parte degli scrittori di viaggi e natura a me cari. Potrà sembrare una piccola rinuncia, ma io ci tenevo molto. Per un motivo molto semplice.

L’aver letto i moltissimi autori che dal Romanticismo in poi hanno trovato negli spazi naturali la loro ispirazione mi aiuta ad accettare i disagi e le fatiche dello stare qui. È confortante sapere che personaggi del calibro di London, Kerouac, Chatwin (beh, lui no: si sa che era refrattario allo sforzo), Thoreau, Emerson, Frost, Krakauer e gli italiani Calvino, Pavese, Rigoni Stern, Camanni, hanno provato la fatica dello stare in natura. A ragion veduta Leopardi scriveva: “O natura, o natura / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?” (da “A Silvia”).

Mentre metto via la legna per l’inverno penso al “vecio” Rigoni intento a fare altrettanto. Quando squarcio la neve per raggiungere l’auto che ho lasciato prudentemente in cima alla salita lo faccio meglio se rivado ad una situazione simile raccontata nei fumetti di Ken Parker. Se grondo sudore a zappare mi viene in mente ciò che fece Thoreau nei primi mesi del suo isolamento: non lesse, ma piantò fagioli.

La cosa funziona: nel senso che se condivisi con i miei eroi anche i gesti più banali, i lavori più ripetitivi, acquistano subito un altro sapore. Ciò non toglie che i gesti occorra compierli e i lavori affrontarli. La saggezza, l’equilibrio, il benessere, vengono da quelli, e non dalle foglie. Quando sai che la terra è bassa ci cammini sopra in un altro modo: meno leggero, magari, ma più consapevole.

Quindi: venite pure a camminare nei boschi, ma assieme alle bibite e ai panini portatevi dietro tanto buon senso. Non sperate di vederlo colare dai rami delle piante. I boschi non insegnano nulla, ci offrono solo l’occasione di concentrarci un po’ di più su noi stessi. Lo dice anche Thoreau in Walden o vita nei boschi: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”.

“Quanto essa, la vita, e non le foglie, aveva da insegnarmi”. È noi che dobbiamo interrogare, e i testi delle domande non ce li devono scrivere i nuovi guru naturisti. E se non siamo in grado di farlo da soli, allora ce li meritiamo.

Andai nei boschi e inciampai (5)

Thoreau descrive nel suo libro una esperienza di vita appartata, lontano dai rumori e gli odori delle città, ma non al punto da impedirgli di incontrare ogni tanto qualcuno con cui dialogare. Credo che questa sia la condizione che ho cercato anch’io nel luogo dove abito. Pur ammettendo una certa affinità con Dinamite Bla che, nei fumetti Disney, dal suo Cucuzzolo del Misantropo, caccia i seccatori con l’archibugio caricato a sale, mi reputo una persona accogliente, propensa all’ascolto e ad imparare dagli altri quando hanno qualcosa da insegnargli. In me convivono la propensione a un pensiero non conformista e una sensibilità ai temi ambientali, ma ritengo che questi debbano essere vissuti nel quotidiano, in un rapporto concreto, e quindi non idealizzato, con il luogo dove vivo: solo su questa base si possono fare scelte, personali e/o politiche, fondate e non velleitarie, per non divenire preda di inciviltà. In tal caso, dietro la porta non ho il fucile, ma – a ragion veduta – l’arco e le frecce. Non si sa mai.

Andai nei boschi e inciampai (2)

Tutto sommato sono ottimista. C’è una qualche speranza di essere per il futuro in buona compagnia: negli ultimi anni è comparsa un’innegabile attenzione per i cambiamenti climatici, una consapevolezza che non esisteva negli anni del dopoguerra e del boom economico. Per i più questa consapevolezza si ferma all’acquisto di prodotti bio o alla raccolta differenziata, ma certamente ci sono anche molti che provano davvero ad attuare scelte di minor consumo, magari non acquistando l’ultimo libro che parla delle interazioni bioenergetiche fra gli alberi, bensì provando a piantar pomodori invece che comprarli.

È una scelta complessa, e sicuramente elitaria, poiché non è concepibile una popolazione intera che viva in modalità “minimalista” (non in “decrescita felice” perché – a parer mio – i termini sono incompatibili), e spersa nelle campagne e sulle montagne perché in antitesi con un’economia basata sull’acquisto di scempiaggini.

Il vero salto di qualità comporterebbe divenire parte integrante della classe politica ed imprenditoriale, per incoraggiare dall’interno queste diversità: ma temo che per questo, sempre che sia poi realisticamente possibile, ci vorrà ancora qualche scossone.

La natura i suoi avvertimenti li dà, e da un bel pezzo. Sta a noi finalmente svegliarci dal torpore del “benessere” a buon mercato, e coglierli. Ma dobbiamo farlo con la nostra testa, senza abbracciare nuovi credi e religioni. I credi e le religioni nascono tutti con buonissimi intenti, ma finiscono poi inevitabilmente per creare delle chiese, un clero, dei dogmi, e per riaddormentare le coscienze. Qui si tratta invece, ad esempio, di volere e realizzare (in qualche caso, perché no, anche imporre) delle scelte di presidio “vero” del territorio, che non può essere demandato – e lo vediamo benissimo tutti i giorni –alle istituzioni, ai carrozzoni delle protezioni civili o alle giornate di pulizia dei fiumi o dei boschi, ma va gestito direttamente (e quindi, in qualche forma non assistenzialistica) proprio dalle comunità appartate territorialmente: questo non solo per garantire la cura costante di luoghi che oggi corrono verso lo sfacelo idrogeologico, con contraccolpi anche nelle città (vedi le inondazioni che immancabilmente avvengono alla prima pisciata del cielo), ma anche per innescare fiducia in un modello di convivenza differente e possibile.

Insomma, dobbiamo finirla di guardare alle scelte di vita appartate e rurali come ad esperienze “strane”, eccezionali, buone per i servizi televisivi dei programmi “verdi”, chiuse in se stesse e riservate a pochi eletti, o ad originali e un po’ strambi con l’archibugio sempre a portata di mano, che sopravvivono grazie alle melanzane coltivate nell’orto. La valorizzazione realistica e concreta (e non la spettacolarizzazione) delle micro-economie ancora esistenti o di quelle che stanno rinascendo e delle esperienze sociali a queste connesse può offrire grossi spunti di riflessione per ragionare su un’economia fondata su differenti paradigmi e su modi diversi di stare al mondo. Leggere la diversità sociale come un gesto artistico è né più né meno come marginalizzarla. Leggerla come una possibilità concreta, diffusa, terra terra, è un antidoto alla monocultura consumistica.

Non abbiamo bisogno di nuovi evangelisti. Sono sufficienti onesti divulgatori, che non traducono il linguaggio delle foglie, ma sanno fare quattro conti su costi e ricavi “globali” dei diversi tipi di rapporto con la terra, e sanno che la terra è bassa. Alla Carlo Petrini, per intenderci.

Andai nei boschi e inciampai (4)Collezione di licheni bottone

​Ariette 3.0

di Maurizio Castellaro, 30 maggio 2021

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso».

​L’unico vizio

Ariette 3bAnche nel post-cristianesimo può essere utile riflettere sui vizi capitali, perché i Padri della Chiesa che li codificarono sapevano bene cosa era l’uomo. Rivediamoli al volo, si sono quasi tutti trasformati in virtù. La gola è il presupposto della cultura dominante del buon cibo, la lussuria virtuale governa la maggior parte del traffico in rete, la superbia è il pregio degli infiniti capetti in circolazione, l’avarizia è nobilitata a sano individualismo, l’accidia è convertita in uno sguardo realistico su un mondo senza più futuro, l’ira è derubricata a semplice mancanza di cultura. Da questa trasvalutazione di valori resta fuori l’invidia, e non é un caso che non sia stato possibile disinnescarla. Perché l’invidia è il rimosso di cui non si parla, ed è sempre con noi come l’aria che respiriamo. L’invidia è uno dei principali carburanti che alimenta il motore della gran macchina del capitalismo globale. Il vizio capitale, la gran madre dei peccati del mondo.

​Inferni e Oltre

L’Inferno non è tema da Ariette, ma azzardo salendo sulle spalle di qualche gigante, perché il bello dell’Arte è che ci rende un poco geniali consentendoci di ripensare i pensieri dei Geni. L’Inferno di Dante lo ritrovo ad esempio nel Lager nazista, grazie al “Canto di Ulisse” che Primo Levi traduce al compagno polacco in francese, mentre insieme portano la marmitta della zuppa ai compagni del Kommando, zuppa di cavoli e rape, “Infin che il mar fu sopra noi rinchiuso”. E a farmi sentire più vicino l’Inferno di Virgilio mi aiuta Ceronetti sulla riva del Mincio (“Albergo Italia”). Narcotizzato dal verso virgiliano il visionario Guido trasfigura il fiume mantovano nel Flegetonte, e il petrolchimico che si scorge all’orizzonte nella città di Dite: “Già al tempo in cui Virgilio contemplava queste acque e niente di emerso dal sottosuolo che sempre brucia dilaniava la pace dell’occhio, Montedison e Total erano là … però non visibili, non udibili …”. Va bene, la Storia è l’inferno, la Tecnica è l’Inferno. Prendo atto, è il lascito del Novecento, ma sento che tanta polvere si è già posata su queste rispettabili idee. Per fortuna mi soccorre Calasso, che nelle “Nozze di Cadmo e Armonia” ricorda l’incontro nell’Ade tra Ulisse e l’ombra di Achille. Ulisse prova a indorargli la pillola, ma Achille lo inchioda: «Non truccarmi la morte, nobile Odisseo. Preferirei vivere come guardiano di buoi, al servizio di un povero contadino, dalla tavola neppure abbondante, piuttosto che regnare su tutti questi morti consunti”. Achille ha scelto una vita breve e splendida, proprio perché irrecuperabile e irripetibile, e conosce bene la differenza che c’è tra Oltretomba e Vita. Più o meno negli anni di Omero gli etruschi a Tarquinia preparavano il viaggio nell’Aldilà dei loro cari con le immagini di ciò che di meglio la Vita ci offre: amore, amicizia, convivi, danze, musica, gioco. Incapacità di pensare il Trascendente o intuizione che il meglio dell’Aldilà coincide con il meglio dell’Aldiquà? Lascio la domanda aperta, e per me scelgo la tomba del Tuffatore, un’immagine un po’ greca e un po’ etrusca dipinta per l’ultimo eterno sguardo di un giovane morto circa 2500 anni fa dalle parti di Paestum. Un tuffo in un mare di mistero, da fare ad occhi aperti, col sorriso sulle labbra.

Ariette 3c