Ritratti di famiglia

La storia è una galleria di quadri,
dove ci sono pochi originali e molte copie.

Ritratti di famiglia copertinaIn concomitanza con la mostra-rassegna delle loro attività (la prima, e con ogni probabilità anche l’unica) i Viandanti delle Nebbie offrono ai “followers” una strenna natalizia. L’idea iniziale prevedeva una plaquette sul modello dei vecchi calendarietti profumati dei barbieri, per i quali proviamo tanta nostalgia (per i libretti, ma anche per i barbieri): poi abbiamo optato per una linea meno frivola.
Distribuiremo quindi cinquanta libretti (il che significa presumere, molto ottimisticamente, un numero di lettori doppio rispetto a quelli del Manzoni) che vogliono suggerire da dove arrivano i Viandanti, chi c’è idealmente alle loro spalle. Certi dell’impunità, perché quasi tutti gli interessati non sono più in vita, ci siamo permessi di vantare nobili ascendenze.
Rispetto a molti dei personaggi evocati i gradi di separazione sono almeno quattro o cinque. Il sesto ci avrebbe portato direttamente a Gesù, e ci pareva un tantino esagerato. E tuttavia …

03 Quadri in mostraL’albero genealogico dei Viandanti è fittissimo e composito. Risalendo di due secoli (non abbiamo voluto andare oltre, era già abbastanza complicato così) si incontrano un po’ tutte le tipologie e le varietà umane: scrittori, artisti, esploratori, viaggiatori, rivoluzionari, filosofi, storici, fumettisti, ecc…). In un modo o nell’altro coloro che abbiamo rintracciato hanno contribuito a indicare percorsi, a suggerire svolte, a portare ristoro e a orientarci nella nebbia. Non sono gli unici, naturalmente, perché la nostra è una famiglia molto allargata. Potremmo citarne almeno altrettanti, e anzi, quella dei gradi meno prossimi di parentela potrebbe già essere un’idea per una strenna futura.

Abbiamo volutamente omesso ogni indicazione biografica o bibliografica relativa ai personaggi presentati. Il bello del gioco sta proprio qui: ciascuno potrà fare eventuali ricerche di approfondimento per conto proprio.
Questo è lo spirito dei Viandanti.

Nella Galleria non hanno trovato posto figure femminili. Chiamatelo maschilismo, se volete, ma di fatto non ci è venuta in mente alcuna protagonista significativa dei nostri percorsi culturali. Questo non significa che non abbiamo incontrato donne eccezionali: significa solo che queste donne non hanno lasciato il segno. Per un difetto nostro di sensibilità, indubbiamente: ma ci sembrava terribilmente ipocrita inserirne qualcuna solo in ossequio al politicamente corretto.01a Tin Tin

P.s: Il fatto che Tintin o Milù compaiano sia in prima che in quarta di copertina non è casuale: sono tra gli antenati più nobili, non potevano mancare all’appello.

04 Bustin in mostra

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

Isaiah Berlin

Camillo Berneri

Renzo Calegari

Albert Camus

Nicola Chiaromonte

Stig Dagermann. 12

Charles Darwin

Franz De Waal

Hans Magnus Enzensberger

Patrick Leith Fermor

Caspar David Friedrich

Piero Gobetti

Knut Hamsun

William Henry Hudson

Alexander von Humboldt 20

Pëtr Kropotkin

Furio Jesi

Toni Judt

Gustav Landauer

Giacomo Leopardi

Primo Levi

Jack London

Herman Melville

Albert Frederic Mummery

George Orwell

Hugo Pratt

Élisée Reclus

Mario Rigoni Stern

Albert Robida

J.D. Salinger

Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

George  Steiner

Robert Louis Stevenson

Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

Alexis De Tocqueville

Sergio Toppi

Alfred Wallace

Charles Waterton

Titn Tin con bandiera dei pirati con sfondo uniforme

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

08 Ken Parker06 Milazzo05 BerardiHo impugnato il fucile per tutta la vita, eppure, il mio popolo è stato distrutto, la mia sposa torturata a morte…
Se mio figlio vivrà dovrà trovare un altro modo di combattere…Addio, “Lungo fucile” …

Isaiah Berlin

12 Isaiah BerlinGarantire la libertà ai lupi significa condannare a morte le pecore.

Non esiste alcuna istanza primaria in base a cui la verità, una volta scoperta, debba per forza essere anche interessante

11 Isaiah Berlin

Camillo Berneri

14 Camillo BerneriL’anarchismo è il viandante che va per le vie della Storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca. Egli si sofferma per adagiarsi all’ombra avvelenata, per dissetarsi alla fontana insidiosa. Egli sa che il destino, che la sua missione è riprendere il cammino, additando alle genti nuove mete.

 

16 Camillo Berneri

Renzo Calegari

17 Renzo CalegariQuesta storia è finita come doveva, con dei vincitori e dei vinti … il mio guaio è che non appartengo né agli uni né agli altri.

19 Renzo Calegari

Albert Camus

21 Albert CamusPerché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Bisogna che si cambi in esempio.


Nicola Chiaromonte

25 Nicola ChiaromonteQuando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distogliere lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per pri-ma ci si articola nella mente è: Che cosa rimane?… Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati “belli”, direbbe Plotino… Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male, e non si può fare che sia diversa-mente (e non si deve fare che appaia diversamente).

24 Nicola Chiaromonte

La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine. 

Stig Dagermann

26 Stig DagermanLe auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà.

  27 Stig Dagerman

L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo sicuramente è vero.

 

Charles Darwin

30 Charles DarwinNella lunga storia del genere umano (e anche del genere animale) hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare ed a improvvisare con più efficacia.

  

 

32 Charles Darwin

Lo stadio più elevato di cultura morale si ha quando riconosciamo che dovremmo controllare i nostri pensieri.

 

Franz De Waal

33 Franz de WaalTutti sanno che gli animali hanno emozioni e sentimenti, e che prendono decisioni simili alle nostre. Gli unici a fare eccezione, sembrerebbe, sono alcuni universitari. 

35 Franz de Waal

Tutto conferma la mia visione della morale “venuta dal basso”. La legge morale non è né imposta dall’alto, né dedotta da principi accuratamente razionalizzati, ma nasce da valori ben radicati, presenti da tempo immemorabile. Il più fondamentale deriva dal valore della vita collettiva per la sopravvivenza. Il desiderio di appartenenza, la voglia di capirsi, di amarsi e di essere amati ci spingono a fare tutto ciò che possiamo per restare nel miglior rapporto possibile con le persone dalle quali dipendiamo.


Hans Magnus Enzensberger

38 Han Magnus EnzesbergerLa televisione è puro terrorismo. La parola scompare, e con la parola ogni possibilità di riflessione.

39 Han Magnus Enzesberger e Umberto Eco

Negli ultimi duecento anni le società più evolute hanno suscitato attese di uguaglianza che non si possono soddisfare; e al contempo hanno fatto sì che ogni giorno per ventiquattro ore la disuguaglianza venga dimostrata su tutti i canali televisivi a tutti gli abitanti del pianeta. Ragione per cui la delusione umana è aumentata con ogni progresso.

Al perdente, per radicalizzarsi, non basta quello che gli altri pensano di lui, siano essi concorrenti o sodali… Egli stesso deve metterci del suo; deve dirsi: io sono un perdente e basta. L’estinzione non solo di altri, ma anche di se stesso, è la sua soddisfazione estrema.

 

Patrick Leith Fermor

44 Patrick Leith FermorUna magica pace vive nelle rovine dei templi greci. Il viaggiatore si adagia tra i capitelli caduti e lascia passare le ore, e l’incantesimo gli vuota la mente di ansie e pensieri molesti e a poco a poco la riempie di un’estasi tranquilla.

45 Patrick Leith FermorNon si parte per andare da nessuna parte senza aver prima di tutto sognato un posto. E viceversa, senza viaggiare prima o poi finiscono tutti i sogni, o si resta bloccati sempre nello stesso sogno.

 

Caspar David Friedrich

47 Caspar David friedrichL’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un’opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio.

 

49 Caspar David friedrichPerché, mi son sovente domandato, scegli sì spesso a oggetto di pittura la morte, la caducità, la tomba? È perché, per vivere in eterno, bisogna spesso abbandonarsi alla morte.


Piero Gobetti

52 Piero GobettiIl fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

51 Piero Gobetti

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

Knut Hamsun

53 Knut HamsunQuando parlo con un uomo, non ho bisogno di guardarlo per seguire esattamente quello che dice; sento subito se egli mi dà a bere qualche cosa o me ne nasconde qualche altra; la voce, credetemi, è un apparecchio pericoloso

54 Knut Hamsun

  “Amo tre cose”, dico allora.
“Amo il sogno d’amore di un tempo, amo te e amo quest’angolo di terra.”
“E cosa ami di più?”
“Il sogno.”

 

William Henry Hudson

57 William Henry HudsonProvo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico,

58 William Henry Hudson


Alexander von Humboldt

61 Alexander von HumboldtCi sono popoli più acculturati, avanzati e nobilitati dall’educazione di altri, ma non esistono razze più valide di altre, perché sono tutte egualmente destinate alla libertà.

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La visione del mondo più pericolosa di tutte è quella di coloro i quali il mondo non l’hanno visto.

 

Pëtr Kropotkin

65 Petr KropotkinL’evoluzione non è lenta e uniforme come si vuol sostenere. Evoluzione e rivoluzione si alternano, e le rivoluzioni – i periodi cioè di evoluzione accelerata – appartengono all’unità della natura esattamente come i periodi in cui l’evoluzione è più lenta.

 

Non appena avrai scorto un’ingiustizia e l’avrai compresa – un’ingiustizia nella vita, una menzogna nella scienzao una sofferenza imposta da altri – ribellati contro di essa!  LottaRendi la vita sempre più intensa!

66 Petr Kropotkin

E così tu avrai vissuto, e poche ore di questa vita valgono molto di più di anni interi passati a vegetare.

 

 Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.

Furio Jesi

67 Furio JesiLa cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche  Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra.

68 Furio Jesi

Toni Judt

71 Toni JudtIl problema è che i socialisti hanno sempre nutrito una fiducia incondizionata nella razionalità degli uomini.

70 Toni Judt

Lo stile materialista ed egoísta della vita contemporánea non è inerente alla condizione umana. Gran parte di quello che a noi pare “naturale” data dalla decade del 1980: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le crescenti differenze tra ricchi e poveri. E, soprattutto, la retorica che li accompagna: un’acrítica ammirazione per i mercati sregolati, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione della crescita infinita.

 

Gustav Landauer

73 Gustav LandauerLo Stato non è qualcosa che si può distruggere con una rivoluzione, dato che esso esprime una condizione, una certa relazione tra gli esseri umani, una modalità del comportamento umano; lo possiamo distruggere solo contraendo altri tipi di relazioni, assumendo altri tipi di comportamento.

 L’anarchia non riguarda il futuro, riguarda il presente; non è questione di ciò che speri, è questione di come vivi.

 


Giacomo Leopardi

74 Giacomo LeopardiPasseggere: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo.

  La ragione è un lumela Natura vuol essere illuminata dalla ragionenon incendiata. 75 Giacomo Leopardi

Primo Levi

153ab Primo LeviPerché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

 

 Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.

 

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.

156 Primo Levi

Jack London

77 Jack LondonNon era della loro tribù, non poteva parlare il loro gergo, non poteva far finta di essere come loro. La maschera sarebbe stata scoperta e, per altro, le mascherate erano estranee alla sua natura.

78 Jack London

Dalla creazione del mondola barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progressoNel corso dei secolil’abbiamo soltanto ricoperta  con una mano di vernice, nient’altro.


Herman Melville

154 Herman MelvilleNoi non possiamo vivere soltanto per noi stessi. Le nostre vite sono connesse da un migliaio di fili invisibili, e lungo queste fibre sensibili, corrono le nostre azioni come cause e ritornano a noi come risultati.  

157 Herman Melville

Io sono tormentato da un’ansia continua per le cose lontane. Mi piace navigare su mari proibiti e scendere su coste barbare.

156 Herman Melville

Dell’amicizia a prima vista, come dell’amore a prima vista, va detto che è la sola vera.

 

Albert Frederic Mummery

81 Albert Frederic MummeryLa via più difficile alle cime più difficili è sempre la cosa giusta da tentare, mentre i pendii di sgradevole pietrisco vanno lasciati agli scienziati. Il Grépon merita di essere salito perché da nessuna altra parte l’alpinista troverà torrioni più arditi, fessure più selvagge, precipizi più spaventosi.
Assolutamente impossibile con mezzi leali.

 

George Orwell

85 George OrwellSapere dove andare e sapere come andarci sono due processi mentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessa personaI pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango.

  

Così come per la religione cristiana, anche per il socialismo la peggior pubblicità sono i suoi seguaci.

86 George Orwell

Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenzaA loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto.

 

 

Hugo Pratt

88 Hugo PrattQuelli che sognano ad occhi aperti sono pericolosi, perché non si rendono conto di quando i sogni finiscono.

89 Hugo Pratt - Corto Maltese

Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…

Élisée Reclus

92 Elisée ReclusL’Anarchia è la più alta espressione dell’ordine. 

93 Elisée Reclus

Se noi dovessimo realizzare la felicità di tutti coloro che  portano una figura umana e destinare alla morte tutti coloro che hanno un muso e che non differiscono da noi che per un angolo facciale meno aperto, noi non avremmo certo realizzato il nostro ideale. Da parte mia, nel mio affetto di solidarietà socialista, io abbraccio anche tutti gli animali.


Mario Rigoni Stern

159 Mario Rigoni SternI ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia. 

 

163 Mario Rigoni SternDomando tante volte alla gente: avete mai assistito a un’alba sulle montagne? Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura.

 

160 Mario Rigoni SternIl tempo, nella vita di un uomo, non si misura con il calendario ma con i fatti che accadono; come la strada che si percorre non è segnata dal contachilometri ma dalla difficoltà del percorso.

 

Albert Robida

96 Albert RobidaMio caro Mandibola – diceva quasi sempre Farandola terminando – abbandono definitivamente ogni idea di riforma sociale, e mi lancio con tutte le vele spiegate, nella più vasta industria. Gli affari, il commercio, ecco ciò che mi occorre; e dal momento che le grandi imprese sono necessarie alla mia salute, avanti con le gigantesche speculazioni commerciali! 

  Il vecchio telegrafo permetteva di comunicare a distanza con un interlocutore. Il telefono permise di sentirlo. Il telefonoscopio superò entrambi rendendo possibile anche vederlo. Che si può volere di più?

99 Albert Robida

J. D. Salinger

100 J D SalingerIo sono una specie di paranoico alla rovescia. Sospetto le persone di complottare per rendermi felice.

 

101 J D Salinger - Il giovane HoldenLa più spiccata differenza tra la felicità e la gioia è che la felicità è un solido e la gioia è un liquido.

 

Camillo Sbarbaro

103 Camillo SbarbaroSe potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.

 

 Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.

 Si comincia a scrivere per essere notati, si seguita perché si è noti.

105 Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

107 Erwin SchrödingerIl mondo è una sintesi delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e dei nostri ricordi. È comodo pensare che esista obiettivamente, di per sé. Ma la sua semplice esistenza non basterebbe, comunque, a spiegare il fatto che esso ci appare.

Se questi dannati salti quantici dovessero esistere, rimpiangerò di essermi occupato di meccanica quantistica.

  106 Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

110 Johann Gottfied SeumeCamminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa. 

113 Johann Gottfied Seume

In tutta la mia vita non mi sono mai abbassato a chiedere qualcosa che non abbia meritato, e nemmeno chiederò mai quel che ho meritato finché esistono in questo mondo tanti mezzi di vivere onestamente: e quando poi anche questi finissero, ne resterebbero alcuni altri per non vivere più.

115 Johann Gottfied Seume

 

George  Steiner

116 George SteinerTutta la metafisica è un ramo della letteratura fantastica.

Un genio degli scacchi è un essere umano che concentra doni mentali ampi e poco compresi, e lavora su un’impresa umana alla fine insignificante.

L’etichetta di homo sapiens, a parte pochi casi, probabilmente è solo un’infondata millanteria.

120 George Steiner

Robert Louis Stevenson

121 Robert Louis StevensonNon chiedo ricchezzené speranze, né amorené un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi.
Io non ho viaggiato per andare da qualche parte, ma per il gusto di viaggiare.
La questione è muoversi.

122 Robert Louis Stevenson

La politica è forse l’unica professione per la quale non viene ritenuta necessaria alcuna preparazione specifica.


Henry David Thoreau

125 Henry David ThoreauNon c’è valore nella vita eccetto ciò che scegli di mettere in essa e nessuna felicità in nessun posto eccetto ciò che gli apporti tu.

126 Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

128 Sebastiano TimpanaroScrivere significa svolgere un ragionamento che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze. Senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali. Seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni. Chi scrive offre al lettore la propria coerenza di ragionamento e lo invita ad analoga coerenza.


Alexis De Tocqueville

135 Alexis De TocquevilleSe cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?

137 Alexis De Tocqueville 

In una rivoluzione, come in un raccontola parte più difficile è quella di inventare un finale.

 

Sergio Toppi

138 Sergio ToppiIo detesto essere chiamato artista: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo.

 

139 Sergio ToppiIl suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai d’imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l’incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri.

 

Alfred Wallace

142 Alfred WallaceQuesta progressione, per piccoli passi, in varie direzioni, ma sempre controllata ed equilibrata dalle condizioni necessarie, soggette alle quali solo l’esistenza può essere preservata, può, si crede, essere seguita in modo da concordare con tutti i fenomeni presentati da esseri organizzati, la loro estinzione e successione nelle epoche passate, e tutte le straordinarie modificazioni di forma, istinto e abitudini che esibiscono.

146 Alfred Wallace

 

Charles Waterton

147 Charles WatertonMentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione.

Tin Tin si avvia

Cari al cielo

di Paolo Repetto, 21 luglio 2022

Muor giovane colui ch’al cielo è caro
(Leopardi, Amore e morte)

Da un vecchio quaderno a copertina nera (di quelli grandi, con le pagine bordate in rosso) sbuca fuori una lunga lista di nomi. Non è un fatto inconsueto: ormai passo la gran parte del tempo a rovistare in cassetti e scartafacci e a spulciare polverosi faldoni, e di questi ritrovamenti ne capitano un sacco. Un tempo ero un compilatore seriale di liste: stilavo elenchi di libri “urgenti” o comunque “indispensabili”, di brani musicali per la colonna sonora dei miei viaggi, o indici per saggi che non ho mai portato a termine o addirittura mai intrapreso a scrivere. Li ho sparsi un po’ dovunque, nelle agende e nei block notes accumulati in quasi tre quarti di secolo (ho cominciato molto presto) o in fogli volanti che non mi decido mai a buttare. E mi compiaccio ogni tanto nel constatare che qualcuno di quei programmi l’ho anche realizzato, che alcune di quelle voci le posso spuntare. Purtroppo però ho smesso di compilare liste ormai da un pezzo, e questo è un segno inequivocabile dell’età: ogni lista era infatti un progetto per il futuro.

Quella rinvenuta nel quadernone mi ha intrigato particolarmente. Non ho un’idea precisa del periodo cui risale. È un elenco di personaggi che avevano suscitato per motivi diversi il mio interesse, e comprende figure eterogenee, alpinisti ed esploratori, militanti anarchici e scienziati, artisti e sportivi, ecc … Sono almeno una cinquantina. Sul retro compare però una seconda lista, più ristretta, che raccoglie dodici nomi scelti tra i precedenti: e questo numero è stato raggiunto attraverso successive cancellature e aggiunte.

Questa seconda lista ha fatto scattare il filo della memoria: non per un qualche collegamento evidente tra le attività svolte dai personaggi prescelti, che anzi, hanno operato tutti in ambiti molto diversi, ma appunto per il numero. Dodici sono infatti i mesi dell’anno (lo sono anche gli apostoli, ma qui non c’entrano), e quell’elenco era finalizzato alla realizzazione di una sorta di almanacco laico, di un calendario che in capo ad ogni mese presentasse un personaggio fortemente simbolico – almeno per me – e consentisse, a partire da quello, di trattare in poche righe i temi più disparati. E fin qui, direi, nulla di particolarmente strano: lo schema forniva un pretesto come un altro per fare quello che ho sempre fatto, ovvero viaggiare a ruota libera, con una parvenza minima di sistematicità.

Occorreva però che tra i vari personaggi corresse un filo. Come dicevo, questo non era rappresentato dal tipo di attività svolta, né da una particolare provenienza, e neppure da esperienze condivise: era invece legato ad un banale (insomma!) dato anagrafico. Tutti coloro che sono inclusi nell’una e nell’altra lista hanno infatti in comune il fatto di essere morti prima dei quarant’anni. Il perché di questo criterio un po’ strambo, e nello specifico dell’assunzione di quel limite, non lo ricordo: la spiegazione più plausibile è che fosse legato alla mia età di allora. Aggiornando Dante alle aspettative di vita attuali potevo considerare i quaranta “il mezzo del cammin di nostra vita”.

Avevo quindi iniziato col compilare una lista di personaggi che a dispetto della scomparsa prematura hanno lasciato una traccia profonda nella storia e nella cultura. Non che intendessi iscrivermi al loro club e mettermi in concorrenza: sono da sempre a mio agio nella vita e ho per fortuna una nitida coscienza dei limiti del mio ingegno, coi quali convivo senza eccessive recriminazioni. Volevo invece proporre degli exempla, che nascevano dalla curiosità e dal desiderio di rendere, nel mio piccolo, giustizia a certi protagonisti sottovalutati della storia. Le precocità eccezionali mi hanno sempre intrigato (e infatti ne ho scritto altrove), ma in questo caso si trattava di andare oltre, presentare esistenze la cui parabola potesse considerarsi in qualche modo compiuta. Col che non intendo “chiusa”, non pensavo che a questi protagonisti non restasse altro da dire o da fare, ma ritenevo che le loro esistenze fossero pur nella loro brevità estremamente significative. Per capirci: uno che a trentanove anni ha alle spalle L’infinito e La ginestra e tutto quello che c’è in mezzo, il suo tempo lo ha impiegato benissimo, e se gliene rimanesse potrebbe viverlo di rendita.

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A questo punto sarà già chiaro che il nome che compare in testa alla lista, anzi, in entrambe le liste, è quello di Leopardi. Accanto c’è un segno di spunta, e credo di sapere cosa significasse. Di Leopardi a quell’epoca avevo già scritto, e più ancora ho scritto dopo, per cui la spunta ci sta tutta. Ma se il progetto di almanacco fosse andato in porto, nella pagina dedicata ai letterati avrei probabilmente scritto di altre parabole esistenziali brevi e compiute, legate ad altri nomi che compaiono nel primo elenco; a quello di Rimbaud, ad esempio, o di Poe, ma soprattutto alla meteora ancora più breve di Stig Dagerman. Dei primi due da qualche parte ho trattato, mentre la pratica Dagerman è rimasta purtroppo inevasa, non posso mettere alcuna spunta, e nemmeno avrà l’opportunità di aprire una prossima lista. Per questo mi ci soffermo.

cari al cielo02 Stig DagermanStig Dagerman potrebbe essere ospitato anche nel mese degli anarchici, ma io l’ho conosciuto prima di tutto come letterato. Ero rimasto folgorato dal suo ultimo libro di racconti, Il Viaggiatore. Folgorato significa in questo caso annichilito, agghiacciato: un simile spietato faccia a faccia con la realtà l’ho ritrovato poi solo nei libri di Thomas Bernhard. La stupefazione non si è ripetuta con i romanzi, perché c’è un limite anche a quanto a lungo uno è disposto a reggere un simile sguardo: ma ho poi letto quel concentrato di disperazione e angoscia, mista alla volontà di sperare, che è Il nostro bisogno di consolazione. Per leggerlo occorrono non più di cinque minuti: il problema è poi digerirlo. Qui ne riporto un paio di citazioni che potrebbero andare in esergo ad un possibile mini-saggio:

Posso camminare sulla spiaggia e all’improvviso sentire la spaventosa sfida dell’eternità alla mia esistenza nell’incessante movimento del mare e nell’inarrestabile fuga del vento. [,,,] Ma può accadere sulla spiaggia che la stessa eternità che ha poco fa suscitato la mia paura sia ora testimone della mia nascita alla libertà. […] Posso riconoscere che il mare e il vento non potranno che sopravvivermi, e che l’eternità non si cura di me. Ma chi mi chiede di curarmi dell’eternità. La mia vita è breve solo se la colloco sul patibolo del calcolo del tempo”.

Ecco, l’almanacco avrebbe dovuto proporre indicazioni di questo tipo, e qualche breve considerazione o citazione in proposito, a partire sempre dai nomi della lista definitiva, ma coinvolgendo poi anche tutti gli altri. Dal momento che ormai ho preso l’avvio, posso farlo in parte adesso, andare sino in fondo e azzardare un abstract di quel che avrebbe potuto ospitare. È un esercizio mentale del tutto gratuito, buono solo per queste interminabili giornate di afa: ma può tornare utile almeno a rinfrescare un po’ la memoria, e non solo la mia.

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cari al cielo03Dunque: inaugurato l’anno con i letterati, febbraio l’avrei potuto riservare agli artisti. Il mese corrisponde bene all’immagine (quasi sempre falsa) di vite povere e disperate, di pasti saltati e di studi gelidi. È un’immagine che va bene per Modigliani, per Van Gogh e per Caravaggio, un po’ meno per Pellizza da Volpedo e per Egon Schiele, per nulla con Raffaello. Tutti sono comunque accomunati da un’attività frenetica. Schiele, ad esempio, che avevo scelto come testimonial ufficiale della categoria e che è morto di spagnola a soli ventotto anni, ha lasciato circa trecentoquaranta dipinti e duemilaottocento tra acquarelli e disegni, mentre Van Gogh fu autore di quasi novecento dipinti e di più di mille disegni. Danno l’idea di una corsa disperata a produrre, quasi presaghi di un tempo limitato a disposizione.

Resta l’interrogativo di quel che avrebbero potuto fare in una seconda parte della loro vita. Non è detto che avrebbero continuato a produrre capolavori. In effetti potevano finire anche come De Chirico o come Picasso, a ripetere sempre più stancamente le stesse cose. Sono pochi gli artisti che abbiano superato nella maturità i risultati ottenuti nella giovinezza. Questo perché “Lo stile può trasformarsi in maniera. Questo avviene quando l’artista diventa consapevole del suo stile e di conseguenza viene meno l’immediatezza che caratterizzava la relazione tra lui e il suo stile. La perdita dello stile è una forma di oggettivazione, alienazione o esteriorizzazione. Gli artisti giungono a vedere il loro proprio stile dal punto di vista esterno della terza persona. Chagall forse aveva uno stile ma ora ha una maniera, e spesso si accusa di essere un auto-plagiario o, per essere generosi, di ripetere se stesso” (Regina Wenninger, Lo stile individuale dopo la fine dell’arte).

Dopo la fine dell’arte, appunto, e dopo il trionfo del mercato.

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Di marzo vi do una peschiera,
[…] con pescatori e navicelle a schiera
e barche, saettie e galeoni
le quai vi portino tutte le stagioni
a qual porto vi piace a la primera.
(Folgore da San Giminiano)

cari al cielo04Marzo sembra un mese adatto ai viaggiatori e agli esploratori. Il nome che compare nella mia lista definitiva è quello di Mungo Park. È probabile lo avessi scelto perché non avevo ancora trovato né una edizione dei suoi scritti né una biografia dedicata. A tutt’oggi i suoi Viaggi all’interno dell’Africa non sono mai stati tradotti in italiano, così come non esistono nella nostra lingua sue biografie. Per averne notizie bisogna ancora rivolgersi alla Treccani. La stessa cosa accade comunque per René Caille, mentre le vicende di Meriwether Lewis e di John Hanning Speke sono abbastanza conosciute, non fosse altro perché sono stata raccontate in un paio di bel film.

Park morì mentre cercava di discendere su una canoa il corso del Niger e tentava di difendersi dai continui attacchi che gli erano portati dagli indigeni. All’epoca della progettazione del calendario non avrei dovuto tenere conto del Black Lives Matter, il movimento che abbatte i monumenti e vuol cancellare la memoria di coloro che a vario titolo sono considerati complici dell’asservimento e dello sfruttamento dei popoli di colore. Non lo faccio nemmeno ora, naturalmente, perché mi sembra uno dei cascami più stupidi della cultura “post-modernista”, ma non posso evitare di sottolineare come al momento in cui il fenomeno è esploso, un paio d’anni fa, ci sia stata la solita corsa dell’intellighentia di sinistra per mettersi al pari, Saviano in testa e gli altri subito dietro. Rendendosi ancora più ridicoli, perché hanno poi dovuto esibirsi in acrobatici distinguo per tenere in piedi il Colosseo o la Colonna Traiana.

Ma al di là di queste patetiche rincorse alle mode d’oltreoceano, il tema serio è quello del prevalere odierno della memoria particolaristica sulla storia. Una umanità senza storia è una umanità senza futuro. E infatti, questo pare il nostro destino.

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cari al cielo05Aprile, “il più crudele dei mesi”, non poteva essere dedicato che agli alpinisti. Sono quelli con le più alte probabilità di uscire prematuramente di scena. La ricerca di nomi da iscrivere nella lista non era stata difficile: ne compaiono addirittura dieci. Si parte da Mummery, che ricompare nell’elenco ristretto, perché in effetti la sua figura mi ha sempre affascinato, e poi vengono nell’ordine Mallory, Comici, Gervasutti, Paul Preuss, Willo Welzenbach, Casarotto, Gian Piero Motti e Andrea Oggioni. Ho poi saldato il mio debito con tutti costoro ne La tentazione dell’inutile, da cui riporto alcune considerazioni maturate nella mia pur limitatissima esperienza alpinistica: che è stata comunque quella della fine di un mondo e di un modo genuino e “divertito” di confrontarsi con la montagna, e dell’ingresso definitivo nella “lotta con l’Alpe” e nella spettacolarizzazione mercificata di quest’ultima. Di qui la simpatia per Mummery, che considero l’ultimo dei puri.

L’alpinismo non scaturisce da una naturale spinta biologica. Questa spinta non esiste in natura perché non risponde ad alcuna strategia di sopravvivenza o riproduttiva. Nessuno stambecco ha mai sentito il bisogno di salire in vetta al Gran Paradiso, pur vivendo appena mille metri più in basso. Il desiderio di scalare una montagna appartiene solo all’uomo: può essere giustificato, a seconda delle epoche, in maniere diverse, con motivazioni politiche, religiose, scientifiche, nazionalistiche, superomistiche, sportive, economiche o legate al successo: ma è comunque frutto di una elaborazione culturale. In due sensi: nel primo perché l’assenza di fini concreti in un’azione che richiede sacrificio, impegno, dispendio energetico, e al limite anche assunzione di rischio, è misura della distanza di questa azione dai dettami dell’istinto. Nel secondo perché penso che l’affermazione vada presa anche alla lettera; non è un caso se la gran parte degli alpinisti ha un livello di cultura superiore, e se un tempo la cosa poteva dipendere dalla diversa disponibilità di tempo e di denaro nelle differenti classi sociali, oggi questo discrimine non esiste più.

L’alpinismo è dunque una forma di cultura, per un verso soggetta al variare dei climi culturali, storicizzata, per l’altro legata ad un modo d’essere “naturalizzato” degli umani, effetto reversivo dell’evoluzione.

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Maggio è invece tutto per gli anarchici, altra categoria ad alto rischio. Lo è perché nel maggio del 1937 veniva ucciso a Barcellona da sicari stalinisti Camillo Berneri, del quale ho poi raccontato ne Le foglie secche dell’utopia, e che per me rappresentava già la figura esemplare per eccellenza. In realtà nella lista grande compaiono meno nomi di militanti dell’anarchismo di quanti avrei potuto aspettarmene. (Gaetano Bresci, Sante Caserio, Michele Schirru) tutti peraltro appartenenti all’ala “bombarola”, alla scuola di Bakunin, nella quale non mi sono mai riconosciuto. È vero che ci sono anche Bartolomeo Sacco e Nicola Vanzetti, anarchici di altra pasta, più vicini alla mia idea della militanza: ma non mi sorprende constatare che i grandi anarchici, quelli che all’azione hanno saputo unire un percorso di pensiero coerente, sono stati capaci di sopravvivere a lungo, a dispetto di vite rocambolesche, senza perdere il loro smalto.

cari al cielo06Il commento lo lascio a uno morto anche lui troppo presto, non tanto però da rientrare nei “cari agli dei”: Gustav Landauer.

Rivoluzione è diventata una parola alla quale ci siamo abituati a tal punto da non potercene staccare, anche se non ci crediamo più. Ci sono bambini che già da tempo sono in grado di bere dalla tazza, come si deve e a modino, ma non vogliono abbandonare il ciuccio.

Nel frattempo, però, coloro che non sono responsabili del fatto che la rinascita profonda e radicale della società tarda a venire, devono continuare a lavorare con energia e coraggio. A noi, che un tempo avevamo la rivoluzione nel cuore, spetta continuare a servire fedelmente l’amata segreta, anche se le dobbiamo attribuire altri nomi: bisogna creare organizzazioni economiche fondate sul mutuo appoggio, contando su tutti coloro che vogliono e possono farlo; educare all’autonomia e all’iniziativa individuale; organizzare la vita in modo indipendente e coraggioso; promuovere la rivolta contro ogni forma di autoritarismo; fare piazza pulita dei cascami e del marciume del passato, che s’insinua nel presente sotto forma d’istituzioni minacciose e ancora potenti. C’è così tanto da lavorare con se stessi e con gli altri che non si deve affatto disperare per il fatto di essere nati per caso in un tempo che mostra un volto diverso da quello che prima pareva ostentare.

Mi dilungo nella citazione di Landauer perché davvero le sue parole mi sembrano uscire dal tempo, e quindi anche dai limiti imposti al mio almanacco.

cari al cielo07È diventato quasi un dogma tra gli anarchici considerare l’uccisione dei capi di Stato, una volta compiuta, come qualcosa di anarchico. Si tenga conto che quasi tutti gli attentatori degli ultimi decenni si sono effettivamente nutriti di principi anarchici. Coincidenza singolare dirà l’ingenuo, perché cosa mai può 90 avere a che fare l’uccisione di altri uomini con l’anarchismo, con la dottrina del raggiungimento di una società senza Stato e senza costrizione autoritaria; cosa c’entra con il movimento contro lo Stato e contro la violenza legalizzata? Proprio niente. Ma gli anarchici si rendono conto che dottrine e proclami non bastano: non si può erigere la nuova società a causa della violenza di coloro che detengono il potere, pertanto – argomentano – accanto alla propaganda svolta con i discorsi e gli scritti e accanto all’opera di costruzione bisogna iniziare anche un’opera di distruzione. Sono troppo deboli per abbattere tutte le barriere, quindi è almeno necessario sollecitare l’azione, e poi con questa fare propaganda. Se i partiti politici fanno attività politica positiva, allora anche gli anarchici, come singoli, devono fare antipolitica positiva, cioè attività politica negativa. Tale ragionamento spiega l’attività politica degli anarchici, la propaganda del fatto, il terrorismo individuale. Non esito a dire con grande nettezza – e so bene che non mi guadagnerò encomi né da una parte né dall’altra – che l’antipolitica degli anarchici muove in parte dal tentativo di un piccolo gruppo di imitare i grandi partiti. Alla base c’è smania di protagonismo. Anche noi facciamo politica, dicono, non siamo inattivi, ed essi devono fare i conti con noi. A me pare che questi anarchici non siano abbastanza anarchici, perché rimangono un partito politico e addirittura portano avanti una primitiva politica riformatrice: uccidere uomini fa parte degli ingenui tentativi di miglioramento dei primitivi.

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Nella lista compaiono diversi altri nomi di libertari e di rivoluzionari, da Felice Orsini a Piero Gobetti, da Pisacane a Matteotti, fino ai fratelli Rosselli e ad Emiliano Zapata. Alcuni di loro non figurano tra gli anarchici solo perché non si sono mai definiti tali, e ciascuno avrebbe potuto degnamente rappresentare nel mese di giugno un più ampio schieramento libertario. Io ho scelto Gobetti, pur essendo molto tentato anche da Pisacane e da Orsini. Come Landauer, Gobetti aveva idee molto chiare sui rischi di una democrazia che non si fondasse in primo luogo su una rivoluzione delle coscienze, e sulle possibili involuzioni totalitarie di una rivoluzione calata dall’alto.

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

cari al cielo08Dove le condizioni obiettive non sono mature per uno sviluppo rigoroso, abbiamo processi patologici che dagli stessi principi conducono a conseguenze contrastanti; il liberismo diventa socialismo di stato, il liberalismo democrazia demagogica o nazionalismo dilettantesco, come in sede culturale la dialettica cede all’eristica e alla retorica.

E aveva anche lucidamente presenti le caratteristiche peculiari del popolo italiano:

In pratica le cose in Italia non cambiano mai, cambiano i nomi e le occasioni della storia, ma, in definitiva, i nostri mali e i nostri vizi rimangono sempre desolatamente uguali.

Il fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali: per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

Il mussolinismo è […] un risultato assai più grave del fascismo stesso, perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza.

Potrebbe scrivere le stesse parole ancora oggi.

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Luglio possiamo riservarlo ai pensatori e ai filosofi, e la scelta del capofila era all’epoca dettata dal mio entusiasta rapporto con l’opera di Furio Jesi e dal fatto di averlo mancato per un soffio di persona. Avremmo dovuto incontrarci un fine settimana, eravamo curiosi l’uno dell’altro, io senz’altro molto più di lui, ma Jesi era morto per un incidente domestico due giorni prima dell’appuntamento. Aveva naturalmente trentanove anni.

cari al cielo09Non mi ero appuntato molti altri nomi: solo Otto Weininger, Carlo Michelstaedter e Claudio Baglietto. I pensatori e gli studiosi sembrano vivere molto a lungo (è scientificamente provato che pensare allunga l’esistenza: immagino sia per questo che l’aspettativa di vita ultimamente si sta abbassando) e comunque, dovessi stilare oggi la lista, non saprei chi aggiungere. Non era solo l’età del decesso ad intrigarmi, ma ciò che l’aveva preceduta. Weininger e Michelstaedter addirittura si erano dati la morte a ventitré anni, ma prima avevano prodotto cose come Sesso e carattere e La Persuasione e la Rettorica. L’una e l’altra opera possono essere discutibili sotto molti aspetti (quella di Weininger praticamente sotto tutti), ma appunto, obbligano alla riflessione, alla discussione, e lasciano intravvedere uno sforzo intellettuale immane. Forse proprio il timore di non poter andare oltre ha determinato le tragiche scelte degli autori. Baglietto era invece allora un filosofo quasi sconosciuto, e lo rimane ancor più oggi. Non ha lasciato opere epocali, ma ha testimoniato la sua tempra etica, di stampo kantiano, rompendo con l’ambiente accademico che gli faceva ponti d’oro (Gentile era un suo sponsor convinto) e scegliendo di contrapporsi al fascismo con l’esilio.

Quanto a Jesi, andrebbe riletto oggi con attenzione, magari anche con atteggiamento critico, per ritrovare i fondamentali della distinzione tra destra e sinistra, quella distinzione che oggi si dichiara scomparsa: “La cultura di destra è quella entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra”.

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Per la seconda metà dell’anno ho faticato un po’ a definire altre categorie. Quelle individuate all’epoca mi sembravano meno rappresentative, senz’altro erano meno rappresentate nelle mie liste. Evidentemente ad un certo punto il gioco, oltre ad essere ozioso, rischiava di diventare anche noioso. Anche ora comincio ad annoiarmi un po’, ho già la mente ad altri intriganti rinvenimenti, per cui cercherò di tirar via il più velocemente possibile. Ma non assicuro di riuscirci.

cari al cielo10Agosto vede comunque protagonisti gli scienziati. Nella lista avevo appuntato un paio di matematici, Evariste Galois, naturalmente, e Niels Abel, e altrettanti fisici, Ettore Majorana e Aldo Pontremoli, accomunati soprattutto dalla tragicità delle loro vicende e in un paio di casi dal mistero che ancora le circonda. Galois è famoso, prima ancora che per il suo contributo alla soluzione delle equazioni algebriche, per l’assurdità delle circostanze della sua morte. Il norvegese invece non lo è, mentre meriterebbe cento volte di esserlo, sia per l’impulso fondamentale dato alla disciplina che a risarcimento della sfortuna che lo accompagnò lungo tutta la sua breve esistenza. Per due volte Abel presentò a università diverse, in Danimarca e a Parigi, delle memorie scientifiche che avrebbero rivoluzionato gli studi matematici, ed entrambe le volte l’ambiente accademico le smarrì. Il che può farci immaginare quanto altro sapere debba essere andato disperso nel confronto con istituzioni culturali come minimo fossilizzate e distratte, e più spesso governate da logiche lobbistiche. È quindi Abel, cui fu recapitata la nomina ad una cattedra all’università di Berlino due giorni dopo che era morto praticamente di stenti, l’uomo di agosto.

Abel scriveva: “Per arrivare ad un risultato specifico, bisogna dare al problema una forma tale in modo che sia sempre possibile risolverlo, cosa che si può sempre fare con qualsiasi problema. Invece di affaticarci intorno ad una soluzione che non sappiamo se esista o no, domandiamoci piuttosto se tale soluzione è possibile… Presentando il problema sotto questa forma, l’enunciato stesso contiene il germe della soluzione e indica la strada che deve essere presa per giungervi, e io credo che vi siano pochi casi in cui non si possa arrivare a risultati più o meno importanti, anche se non si può rispondere completamente al quesito a causa della complessità dei calcoli”.

Si riferiva alla soluzione delle equazioni generali, quelle di grado superiore al quarto. Ma mi sembra che l’indicazione di metodo possa valere per qualunque problema, di qualsiasi tipo: prima di pretendere una soluzione, cerca di capire la vera natura del problema.

Più in generale però gli scienziati confermano quanto dicevo sopra sulla longevità di chi studia e pensa molto. Ho constatato che tendono a campare sino ad età molto avanzate (la Levi Montalcini ne è un esempio recente), e soprattutto ad arrivarci in piena lucidità. E sono la categoria che trae maggior vantaggio da una prolungata esperienza, ovvero che migliora invecchiando.

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Settembre è allietato dai musicisti. Al contrario degli scienziati, i musicisti sembrano però godere di una salute piuttosto cagionevole. Alzando solo di un paio d’anni il limite ne avrei imbarcati parecchi altri. Non so darmene alcuna spiegazione. Anche così comunque la rappresentanza era già notevole. Ci rientravano Mozart, Chopin, Bellini, Schubert, Mendelssohn Bartholdy, Georges Bizet. E mi ero limitato a pescare nell’arco di meno di un secolo, in quello che considero il periodo d’oro della musica.

cari al cielo11Credo che per i musicisti valga almeno in parte quanto ho già detto per i pittori e gli artisti in generale. Il rischio è la ripetitività. E tuttavia la reazione indotta è diversa: un ascoltatore è portato a cercare e ad apprezzare il riconoscimento di una particolare “impronta”. L’ambizione di ogni musicofilo è di riconoscere da quattro note prese a caso qualsiasi sinfonia. Ora, non voglio infilarmi in speculazioni per le quali non ho gli strumenti, ma mi sembra ovvio che nasca tutto dalla diversa modalità della percezione. Nell’ascolto entra in ballo il tempo anziché lo spazio. Mentre i colori e forme sono fissati e immobili, i suoni arrivano in sequenza, viaggiano, e sono resi più significativi proprio dal loro ritorno. Ho trovato qualche giorno fa questa considerazione (di un pittore che ama la musica): “Il brano mi provoca l’emozione in quanto ce l’ho dentro, lo conosco e so che di lì a poco, mentre ascolto il susseguirsi delle note iniziali, sta per arrivare la parte che mi colpisce maggiormente. È come quando aspetti una persona cara alla stazione, e sai che quando il treno si ferma scenderà, a momenti”. Rende bene l’idea. È vero che mi procura emozione anche vedere un dipinto, e che se si tratta di un’opera che amo particolarmente questa emozione si ripete ad ogni nuovo incontro; ma non posso negare che di fronte alla sua “immobilità” si attivi anche la razionalità analitica, che mi spinge di volta in volta a coglierne sempre più i dettagli anziché l’assieme. Questo mi spiega perché, ad esempio, dell’impressionismo apprezzi più l’espressione musicale (Ravel, Debussy, …) che non quella pittorica. E perché all’epoca avessi scelto George Bizet come uomo di settembre.

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cari al cielo12Le due categorie successive risultano in realtà un po’ forzate e non del tutto congruenti con il progetto dell’almanacco. Quella dei personaggi dello sport, ad esempio, per la quale avevo annotato i nomi di Serse Coppi, di Stan Ockers, di Alessandro Fantini e di Tommy Simpson (quest’ultimo poi inserito anche nella lista ristretta), non ha molto senso. È evidente che uno sportivo a quarant’anni deve aver già dato tutto il meglio di sé, sia esso un pugile o un ciclista. A meno di far rientrare nella categoria i giocatori di scacchi, quelli di bocce o quelli di biliardo. Io avevo pescato solo nel mio sport preferito. Ci sarebbe stata anche la boxe, e lì il problema non era certo quello di trovare atleti morti prematuramente: negli ultimi centotrenta anni ne sono deceduti sul ring più di seicento. Era piuttosto di trovare un senso, una giustificazione a queste morti, che infatti non ne hanno. I ciclisti che ho nominato sono scomparsi invece all’apice di sfolgoranti carriere, due di loro erano stati campioni del mondo, tutti avevano vinto grandi classiche. La loro parabola era almeno parzialmente compiuta. Sono rimasti nella storia dello sport come dei vincenti. Tutto sommato è giusto che illustrino il mese di ottobre, quello in cui si chiudono le competizioni su strada e si fanno i bilanci.

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Altrettanto difficile era stato, a giudicare dalla lista, individuare protagonisti fortemente simbolici tra i personaggi dello spettacolo. Scartati i nomi più ovvii, da James Dean a Marylin Monroe, attorno ai quali è scattata l’artificiosa mitologizzazione della società dello spettacolo, avevo finito per annotare il solo John Garfield.

Garfield aveva in effetti tutti i requisiti. Era cresciuto nelle gang di strada, aveva scaricato la sua aggressività nella boxe, per quasi un anno aveva vagabondato per tutto il paese saltando da un treno all’altro come Jack London, si era affermato nel teatro e affiliato a un gruppo di simpatizzanti della sinistra: tutto questo prima dei vent’anni. Poi erano venuti la carriera cinematografica, il successo con Il postino suona sempre due volte, la fondazione di una casa produttrice indipendente, la messa sotto accusa durante la caccia alle streghe scatenata dalla commissione McCarty. Al momento della morte, poco dopo il compimento dei fatidici trentanove anni, la sua parabola era in netto declino.

Una biografia avvincente, sotto ogni aspetto: ma il tratto fondamentale, per quanto mi concerneva, era il legame col mondo della boxe. Garfield non solo l’aveva praticata, e a buon livello, ma l’aveva portata due volte sullo schermo, in Hanno fatto di me un criminale e soprattutto in Anima e corpo, uno dei film più duri e realistici mai girati sul pugilato. Li ho visti entrambi, ad una età nella quale il mio sogno maggiore era la cintura europea dei mediomassimi (non quella mondiale: come ho già detto, avevo una precoce conoscenza dei miei limiti, e a livello mondiale giravano allora personaggi come Cassius Clay e Archie Moore).

I film sul pugilato costituivano un avvenimento. La televisione era di là da venire, almeno a casa mia, e seguivo gli incontri per radio, cercando di immaginare i montanti, gli uppercut, le schivate. Visto sullo schermo tutto questo, per quanto fittizio, era ben altra cosa. Anima e corpo, Stasera ho vinto anch’io, con Robert Ryan e L’uomo di ferro, con Jeff Chandler, erano schizzati in testa al mio indice di gradimento, superavano persino i migliori western. E gli attori che li interpretavano sono rimasti a far parte del mio ristrettissimo pantheon.

Dagli anni Sessanta, dopo che i miei sogni avevano ormai gettata la spugna, di film sul pugilato ne sono stati girati parecchi, un centinaio almeno. Dalla interminabile saga di Rocky a Il campione, da Toro scatenato fino ad Alì e oltre. Ma non è più stata la stessa cosa: il colore, gli effetti speciali, il sangue che schizza sull’obiettivo, tutto questo li rende esasperati e poco credibili.

cari al cielo13L’eroe-simbolo del mese di novembre è dunque Garfield, del quale riporto una battuta tratta da Il postino suona sempre due volte: “È come quando stai aspettando una lettera che non vedi l’ora di ricevere, e tu fai su e giù davanti alla porta per paura di non sentire il postino. Non tieni conto che il postino suona sempre due volte”.

Una lettera, magari col francobollo? Ma in che mondo, in che secolo ho vissuto?

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cari al cielo14Se qualcuno è riuscito a seguirmi sino a questo punto si sarà accorto che non ho ancora citato una sola figura femminile. Nella lista originaria in realtà alcuni nomi di donna c’erano, ma ho preferito raggrupparli in una categoria e in un mese a parte. Senza alcun intento discriminatorio, checché se ne vorrà pensare: se non avessi fatto così avrei rischiato davvero di non citarle o di lasciarle a margine. Nella lista compaiono i nomi di Ada Lovelace, la figlia di Byron, una matematica che già nella prima metà dell’Ottocento aveva contribuito alla realizzazione della prima macchina analitica, un rudimentale computer; di Rosalind Franklin, che scoprì il DNA ma venne vergognosamente esclusa da un Nobel strameritato, di Charlotte Brönte, delle viaggiatrici Isabelle Eberhardt, Annemarie Swarzenbach e Amelia Earhart, e infine quello di Simone Weil, poi transitato nell’elenco ristretto, per la filosofia. Sulla Weil, che era stata oggetto del mio primo (ed unico) corso tenuto all’università, sono tornato a più riprese, anche ultimamente, prendendo a dire il vero una sempre maggiore distanza. Non è dunque lei la regina di dicembre. In un libro letto recentemente[1]. ho invece scoperto che la Franklin era riservata, aspra e diffidente, poco attraente e molto gelosa del proprio lavoro (il suo rivale Watson, quello che le sottrasse il merito della scoperta, la definisce come “la terribile e bisbetica Rosy”). Sarebbe bastato anche meno a rendermela simpatica. Merita di essere il simbolo di questo mese che non cancella il passato ma lo archivia, e apre al futuro.

Dovessi aggiornare ad oggi le liste mi troverei in difficoltà. Le donne hanno la scorza più dura e tagliano più facilmente la boa dei quarant’anni. E fioriscono intellettualmente più tardi. Per un motivo semplice. Una donna deve impiegare metà della sua esistenza a liberarsi degli stereotipi che le hanno inculcato, degli abiti che le hanno cucito addosso, e riesce ad esprimersi compiutamente solo dopo. Questo alla longevità, si guardi ad esempio ad un qualsiasi elenco delle viaggiatrici più famose: a parte le tre che ho citato io, vi figurano una centenaria (Freya Stark) e diverse ultranovantenni: lo stesso vale per le scienziate.

Al di là di questo andrebbe comunque chiarita una volta per tutte l’annosa questione: la scarsa presenza femminile, e non mi riferisco solo alle mie futili liste, ma più in generale ad ogni narrazione storica, è solo frutto di pregiudizi radicati in una cultura e in una società maschiliste, o ha motivazioni oggettive? Non è certo un almanacco semi-serio la sede più adatta per dirimerla, ma penso che almeno un paio di telegrafici spunti di riflessione possano venire anche da queste pagine.

Partiamo dai dati di fatto. Il dimorfismo sessuale esiste in natura, è comune a tutte le specie, ed è particolarmente accentuato proprio tra quelle a noi più prossime, i primati antropomorfi. Negli umani, peraltro, si è di molto ridimensionato, almeno per quanto riguarda peso, altezza, ecc., e questo in conseguenza del carattere reversivo della evoluzione culturale. In altre parole, la progressiva redistribuzione dei ruoli tra i due generi ha favorito la selezione di caratteristiche morfologiche meno distintive. Quindi, non ci piove sulle differenze, tra le quali quella di fondo, e almeno per il momento l’unica ancora incontestabile, rimane la funzione riproduttiva: ma non piove nemmeno sul fatto che le differenze si vadano riducendo.

Ora, io credo che occorra distinguere tra ciò che è una condizione e ciò che rappresenta una situazione. La condizione è un dato di natura, la situazione è un portato storico, cioè culturale. Il dato di natura è che fino ad oggi l’anatomia maschile è risultata più adatta a certe attività, lavorative, militari o ricreative, il portato storico è che queste attività sono state costruite nel tempo su misura dell’anatomia maschile, quello culturale è che tale “superiorità” fisica è stata poi estesa a presunzione di superiorità intellettiva e trasportata in altri ambiti, quali quello politico, quello scientifico e più genericamente tutti quelli delle attività di ingegno.

La polarizzazione dei ruoli ha toccato il suo apice nelle civiltà classiche (in quella greca più che in quella romana), ha cominciato ad essere erosa dal cristianesimo (almeno da quello originario) e nel corso del medioevo, ha retto a stento ai colpi della rivoluzione scientifica e a quella industriale, è stata messa sotto accusa a partire dall’Ottocento. Con la conseguenza che là dove i “limiti” biologici non entravano in gioco, o quelli supposti dalla cristallizzazione dei ruoli erano superati dall’avvento di tipi e modalità diversi di espressione (un esempio potrebbe essere, in letteratura, il passaggio dal poema cavalleresco al romanzo, o più ancora, l’avvento della stampa e quindi di nuove modalità di fruizione della lettura) si sono create situazioni di “pari opportunità”. La Austen, le sorelle Brönte e Virginia Wolf non sarebbero d’accordo, ma nessuna scrittrice contemporanea potrebbe negarne l’esistenza. Lo stesso vale, sia pure con qualche ritardo in più, per la musica e per le arti.

Bene, a questo punto devo allora a maggior ragione spiegare (e quando scrivo spiegare non intendo “giustificare”: l’almanacco è mio e me lo immagino come voglio io) l’esigua presenza di figure femminili nelle mie liste. È presto fatto. Le mie liste riguardavano alcune attività nelle quali i limiti biologici sono prevalenti, e altre nelle quali non erano ancora stati superati i tabù dettati culturalmente. Gli esempi possono essere quelli dell’alpinismo, o delle esplorazioni, per il primo caso, e quello dell’anarchismo per il secondo. Voglio dire con questo che l’alpinismo è un’attività riservata ai maschi, perché hanno fisici più robusti? No, intendo dire che è un’attività prima di tutto “pensata” con mentalità maschile (spirito di conquista e di avventura), che nasce e che si basa su un tipo particolare di consapevolezza fisica. Che venga poi esercitata oggi ad ottimi livelli anche da donne non è una prova di “parità”, e nemmeno, a voler essere sinceri, di “pari opportunità”, perché quelle biologiche non lo sono affatto. Significa solo che anche alcune donne hanno adottato un rapporto “aggressivo” con la montagna, non in competizione, ma ad imitazione dei maschi. Tanto più la cosa vale per altri sport, come il calcio, il rugby o il pugilato. Questi non sono passi avanti, ma denunciano anzi una colonizzazione in profondità della psicologia femminile.

Altro discorso va fatto per la scarsa visibilità delle donne in categorie (anarchici, libertari, ecc…) che sino a ieri sono state appannaggio “culturale” dei maschi. In questo caso l’idea che si tratti di una presenza “gregaria” è frutto del persistere di una deformazione ottica che coglie e privilegia solo attività “muscolari”, perché in realtà ogni momento “rivoluzionario”, dalla nascita del cristianesimo all’esplosione delle eresie, dalla rivoluzione francese alla resistenza al nazifascismo, ha sempre trovato le donne in prima linea. Si pensi ad esempio all’operato di Ada Gobetti o a quello di Giovanna Caleffi e Maria Luisa Berneri, rispettivamente moglie e figlia di Camillo. Eppure le loro figure rimangono nell’ombra dei mariti o dei padri.

Perché non erano “care al cielo”, per loro fortuna, ma soprattutto perché la lista l’ho compilata quarant’anni fa, quando ancora contavo di redigerne un sacco di altre, e magari di riservarne alle donne una specifica, basata su criteri un po’ meno peregrini. Ora il tempo non c’è più, ma almeno un accenno sono riuscito a farlo. Evitando di porgere omaggi, ma riconoscendo loro semplicemente quello che loro spetta.

Alla fine, l’almanacco è praticamente già composto. Non resterebbe che aggiungere qualche immagine, inserire il calendario, reimpostare la grafica e stamparlo. Ma temo che il tempo massimo per gli almanacchi sia scaduto da un bel po’. Persino il passeggere leopardiano tirerebbe dritto senza acquistarlo.

[1] Brenda Maddox, Rosalind Franklin: La donna che scoprì la forma del DNA, Mondadori, 2004

Il giovane Orwell (1° parte)

di Paolo Repetto, 3 luglio 2022

Il giovane Orwell copertinaAvvertenza 2022. Avevo iniziato a scrivere questo mini-saggio circa un anno fa, prima di essere dirottato in un fastidiosissimo tunnel sanitario che si sta rivelando interminabile. All’epoca mi erano chiari gli argomenti da trattare e la modalità nella quale intendevo svilupparli, ma una volta entrato nel balletto delle terapie, delle mezze guarigioni e delle ricadute non ho più trovato la concentrazione per tornarci su e soprattutto la motivazione per portare a termine il mio proposito. È incredibile quanto il crollo della confidenza col tuo stato fisico possa mutare drasticamente l’ordine delle priorità.

Riprendendo oggi in mano, grazie ad una pausa che spero definitiva, le pagine cui avevo già dato una certa sistemazione, mi sembra che in fondo una loro autonomia queste arrivino ad averla, e che il postarle, magari anche solo come bozza di un lavoro destinato ad essere ampliato ed approfondito, possa mettermi in una condizione di debito col lettore: debito al quale, per carattere, sarò poi stimolato ad ottemperare.

Non intendo farla diventare un’abitudine (è vero: ci sono già sul sito altri lavori sospesi): semplicemente, è l’unica proposta che oggi sono in grado di fare.

Quando penso all’antichità, il particolare che più mi spaventa è che quelle centinaia di milioni di schiavi sulle cui schiene poggiò la civiltà, una generazione dopo l’altra, non hanno lasciato di sé traccia alcuna. Non ne conosciamo nemmeno i nomi.
In tutta la storia greca e romana, quanti nomi di schiavi conoscete? Io non so citarne che due o al massimo tre. (George Orwell)

Premessa 2021

Sto rileggendo Nel ventre della balena, di George Orwell, e mi chiedo se la maggior parte delle idee e delle convinzioni che ho l’impressione di portarmi dietro da sempre non arrivino in realtà direttamente da queste pagine. È come le avessi apprese tantissimo tempo fa, e non solo, ma assimilate in vena, fatte mie fino a dimenticarne la provenienza e a riscriverle alla mia maniera. Al tempo stesso però continuo a dubitare di averli già letti tutti, questi saggi, perché di alcuni proprio non ho ricordo, e nemmeno ne trovo traccia quando vado a consultare le vecchie agende nelle quali fino al Duemila, per trent’anni, ho tenuto un diario delle letture.

Non è la prima volta che capita: d’altro canto, alla mia età la smemoratezza è da mettere in conto, e andrà sempre peggio. Solo che mentre in genere riesco poi a rintracciare le fonti dei “deja vu”, scoprendo pagine sottolineate in libri che da decenni avevo dimenticato persino di possedere, in questo caso ho l’impressione che la cosa sia un po’ più complessa, che la consonanza che avverto con l’autore abbia un’altra origine.

Il dubbio si è insinuato già a partire dal piccolo excursus autobiografico che apre la raccolta, intitolato Giorni Felici. Al di là delle ovvie differenze che corrono tra chi cresce in epoche e ambienti totalmente diversi, ho rivissuto attraverso Orwell l’intera gamma delle mie esperienze infantili e adolescenziali, soprattutto di quelle scolastiche, le positive e più ancora le negative. Le sintonie che ho riscontrato non potevano essere frutto solo di una precedente lettura, stavano a monte. Certe emozioni, certe rabbie, aspettative e delusioni già le conoscevo, e mi ci riconoscevo, ben prima di sentirmele raccontare.

È quindi ora che mi chiarisca un po’ le idee, anche per pagare ad Orwell il giusto tributo.

Tributare un Omaggio ad Orwell non significa azzardarne una biografia, come invece ho fatto con altri, sia pure a mio modo. Per più ragioni. Intanto Orwell aveva dettato, tra le sue ultime volontà, “desidero che dopo la mia morte non mi vengano dedicate funzioni commemorative e che di me non sia scritta alcuna biografia”. Le volontà come al solito non sono state rispettate, gli sono stati dedicati un profluvio di studi critici e biografici, oggi è persino protagonista di una grafic novel, per cui è molto noto (anche se questo non significa che sia altrettanto “conosciuto”: è noto, come vedremo, soprattutto per le ragioni sbagliate). Nemmeno intendo poi riassumere o recensire i suoi libri: li do per scontati, penso che tutti dovrebbero averli letti, e quelli che ancora non l’hanno fatto sarà bene si affrettino.

Preferisco invece fare una chiacchierata a ruota libera sul mio particolare rapporto con Orwell, mettere in luce alcuni aspetti particolari della sua vicenda umana e della sua opera (soprattutto della parte più sottovalutata) e sottolineare quei tratti della sua personalità e del suo pensiero che oggi più che mai me lo fanno sentire vicino. Senza trascurare, visto che ne ho l’occasione, di saldare qualche altro debito e di suggerire alcuni possibili apparentamenti. Spero che la cosa non mi prenda la mano, come in realtà accade troppo spesso: ma dovesse succedere, sarebbe un deragliamento annunciato.

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1. La mia conoscenza di Orwell non ha seguito il tracciato canonico, che in genere procede a ritroso, dai capolavori alle opere minori (o si ferma direttamente ai primi). Ho letto Animal farm piuttosto tardi, forse ne ho addirittura visto prima la trasposizione cinematografica a cartoni animati (quella del 1954). È uno di quei libri che dopo un po’ dai per conosciuti, e finisci quindi per scoprirli con enorme ritardo. E neppure di 1984 posso vantare una lettura precoce. È andata pressappoco alla stessa maniera, ho visto prima il film (anche questo del 1954) con Edmond O’Brien nella parte di Winston Smith.

Sono convinto d’altra parte che sia proprio questo il miglior tipo di approccio. Ci sono pagine che messe prematuramente in mano ai ragazzi rischiano di non essere capite, di suscitare un amore o un rifiuto tutti di pancia (ma, soprattutto, di non essere rilette). Conoscendomi, temo che sarebbe andata proprio così. Credo che persino Animal Farm guadagni da una lettura matura e consapevole più di quanto non perda di impatto sull’ immaginario di un ragazzo o di un adolescente. Il discorso vale poi in assoluto per 1984: ho visto troppi studenti abbandonarne la lettura a metà, traditi dall’eccessivo entusiasmo di insegnanti che alle medie non consiglierebbero mai Salgari o Verne. Ora, non nego che da opere particolarmente significative possa essere colto qualche frutto ad ogni età, ma varrebbe la pena lasciare che i frutti fossero maturi.

Ciò che in realtà voglio dire è che i libri (alcuni libri) possono incidere sulla vita in due modi diversi: o perché ti indirizzano, ti indicano un possibile percorso (e questo accade in genere se li leggi nell’adolescenza; ma non solo) o perché ti danno conferme rispetto a percorsi che hai almeno in parte già compiuti (e questo accade, necessariamente, in età più matura). Nel caso del mio rapporto con Orwell la sua opera ha funzionato in entrambe le maniere, ma proprio perché l’ho accostata gradualmente, ogni volta con motivazioni diverse, e ogni volta uscendone diversamente segnato.

Ho frequentato dunque Orwell fin dall’adolescenza, ma per vie traverse. Attorno ai vent’anni conoscevo direttamente (nel senso che li avevo davvero letti) solo Giorni in Birmania, Senza un soldo a Parigi e Londra e, soprattutto, Omaggio alla Catalogna. Col senno di poi posso affermare che i tratti essenziali del carattere e delle idee di Orwell li avevo incontrati già tutti. Devo anche aggiungere che per questa occasione ho rinfrescato la conoscenza, andando a rileggere i libri di cui si parlerà nelle pagine che seguono. Un piacere enorme e una scoperta continua.

Mi ero imbattuto nel primo romanzo seguendo un percorso a zig zag che dal ciclo salgariano della jungla e dai fumetti de Il Cavaliere ideale e de Il Principe del sogno (pubblicati sul L’Intrepido) conduceva ai racconti indiani di Kipling (ma prima ancora agli straordinari film che negli anni cinquanta ne erano stati tratti, come Kim e Gunga Din) e a Lord Jim di Conrad.

L’approdo a Giorni in Birmania ha costituito un bel salto, e soprattutto mi ha impartito una salutare doccia fredda. Il fascino misterioso del paese evocato nel titolo mi aveva spinto a e cercare un supplemento di esotismo, l’anello di congiunzione tra le jungle indiane e quelle malesi: cosa che naturalmente non ho trovato, perché era del tutto estranea agli intenti dell’autore. Ho invece conosciuto l’aspetto più subdolo del colonialismo, forse meno brutale di quello raccontato nei libri sullo schiavismo, ma non meno odioso: quello del degrado morale che infetta tutti coloro che ne sono coinvolti, quale che sia il loro ruolo, passivo o attivo.

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Orwell era un adolescente tutt’altro che sereno, come lui stesso racconta proprio in Giorni felici. Era incline per indole (e certamente anche per il retaggio di una educazione puritana) ai sensi di colpa, e proprio questo lo aveva spinto, dopo il mezzo fallimento negli studi rimediato al college di Eton, a mollare tutto e ad arruolarsi nella polizia coloniale. Non aveva tardato a pentirsene e a maturare un disgusto e un rimorso ancora maggiori per i cinque anni di servizio prestati in Birmania. Il libro che ci svela tutto questo non ha un carattere autobiografico in senso stretto, perché non racconta le vicende vissute dell’autore: ma raffigura impietosamente la protervia presuntuosa e l’avvilente meschinità in mezzo alle quali si è trovato e il crescente disagio da cui si è sentito pervadere. Era la cosa più antieroica che avessi letto sino ad allora: nessuno dei personaggi, coloni o colonizzati che fossero, poteva vantare non dico la statura di un eroe ma nemmeno una dignità morale accettabile. Stranamente però non ne ero rimasto deluso, perché del tutto ingenuo non ero e alcuni tratti di quel volto li avevo già intravvisti persino in Kipling: anche se poi, per capire l’ambiguità del rapporto del poliziotto Blair (ancora non aveva adottato il nom de plume) nei confronti dei colonizzati, ho dovuto attendere la lettura di racconti come Una impiccagione e Sparare all’elefante.

Il giovane Orweell04Orwell è in genere presentato come il contraltare di Kipling; in tutta la sua opera, e non solo in Giorni in Birmania, c’è una indignata condanna del colonialismo e di ogni forma di imperialismo. In tal senso gli autori a lui più prossimi sono senz’altro Multatuli e Conrad (dei quali troverò modo di parlare altrove). Ma al netto delle differenti esperienze – e del fatto che Orwell abbia preso progressivamente le distanze da Kipling, fino a dichiarare senza mezzi termini di odiarlo – sono convinto che i loro atteggiamenti non fossero poi così lontani, se li leggiamo scomodando il parametro del “razzismo”: nel senso che “razzista” non era neppure il secondo, a dispetto delle sue idee sul “fardello dell’uomo bianco”. In fondo, davanti alla cultura indiana Kipling semplicemente sospendeva il giudizio: “Io ho vissuto abbastanza in questa India per sapere che è meglio non sapere nulla, e posso raccontare solo com’è andata[1]. Cosa che puntualmente, ma in termini molto più pessimistici, pensa anche Orwell: per il quale però, a differenza di quanto pensava Kipling, il rapporto coloniale non fa che portare allo scoperto il peggio di entrambe le culture che si confrontano.

Detto in altri termini: Kipling manifestava ammirazione e meraviglia per la cultura indiana, soprattutto per il suo retaggio sapienziale ed esoterico, ma la giudicava poi alla luce dell’evoluzionismo spenceriano. Ovvero, è tutto molto bello, ma è un mondo che non regge il passo dei tempi. Riteneva che quella antichissima civiltà non avesse mai superato lo stadio della stupefazione infantile, ed era convinto che per far uscire le popolazioni indiane dalla condizione di minorità fosse necessario il pungolo duro ma stimolante del dominio inglese. Ma pensava anche che non si può amministrare un paese se non si convive con la sua cultura, le sue tradizioni, le sue religioni, se non si è in grado di parlare con la sua gente. Un esempio limite di questo possibile rapporto lo proponeva nella simbiosi e nel reciproco rispetto tra il giovanissimo Kim e l’anziano lama, nel legame che si crea tra i due, a dispetto delle differenze e, volendo a tutti i costi scorgerla, della “superiorità” del ragazzo anglo-indiano (perché è Kim in fondo a procurare ad entrambi di che vivere e a superare con la sua scaltrezza e la sua conoscenza del territorio gli ostacoli che di volta in volta si frappongono alla loro “ricerca”).

Orwell non era altrettanto entusiasta, perché considerava di quella cultura anche gli aspetti pratici, le ricadute sui rapporti sociali, e ne coglieva quegli stessi esiti di diseguaglianza e di sfruttamento che sono comuni ad ogni forma di dominio. In più riteneva la civiltà orientale totalmente inquinata dal rapporto di sottomissione agli inglesi: i birmani che ci racconta, quale che sia il loro livello economico o di educazione, non sono molto diversi dai poliziotti inglesi che li bastonano e dai funzionari e dai commercianti che li discriminano. “È di dominio comune – scrive ne Il leone e l’unicornoche l’indiano soffre molto più a causa dei suoi concittadini che non per colpa degli inglesi. Il piccolo capitalista indiano sfrutta gli operai nel modo più spietato. Il contadino trascorre la vita, dalla nascita alla morte, tra le grinfie dell’usuraio”. Anche se era perfettamente cosciente che “questo stato di cose è un risultato indiretto del dominio inglese che, coscientemente o no, cerca di mantenere l’India il più possibile in uno stato primitivo” (esattamente il contrario di quanto pensava Kipling).

Meno che mai confidava che il divario, il discrimine tra le due condizioni, sarebbe stato superato in un sincero rapporto d’amicizia. Il suo alter-ego romanzesco, John Flory, è anch’egli attratto dalla cultura orientale e insofferente dei codici di comportamento dei sahib bianchi, ma deve ad un certo punto prendere atto che i suoi interlocutori indigeni quei codici li hanno introiettati, li applicano anche nei loro rapporti orizzontali e non vogliono affatto mutarli o rifiutarli. In definitiva, piuttosto che del destino dell’una o dell’altra cultura gli importa di quello degli esseri umani, e punta il dito sullo stato di degrado cui questi possono essere ridotti. Ma questa situazione, come vedremo, non è precipua del mondo coloniale.

Nell’un caso e nell’altro non parlerei affatto di razzismo. Nessuno dei due romanzieri è motivato da pregiudizi di tipo biologico. Per entrambi le differenze esistono, e in effetti sarebbe un po’ difficile negarle, ma non si iscrivono in una scala valoriale delle diverse etnie. Le differenze riguardano gli individui, non le razze, e sono addirittura più accentuate all’interno delle culture alle quali quegli individui appartengono.

«Nei riguardi dei “natives” non si nutriva lo stesso sentimento che si nutriva in patria per la ‘gente bassa.’ – confessa Orwell – Il punto essenziale era che gli ‘indigeni’, i birmani, ad ogni modo, non davano l’impressione di essere fisicamente repulsivi […] Sentivo nei riguardi di un birmano quasi quello che sentirei nei riguardi di una donna. Come quasi ogni altra razza, i birmani hanno un odore caratteristico, che non so descrivere: è un odore che ti dà come un formicolio ai denti, ma che non mi ha mai disgustato. (Incidentalmente, gli orientali dicono che ‘noi’ abbiamo odore. I cinesi, credo, dicono che un bianco puzza come un cadavere. I birmani dicono lo stesso, sebbene io non abbia mai trovato un birmano così scortese da dirmelo in faccia.)»

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Piuttosto, sono le convinzioni di fondo da cui i due partono, il diverso rapporto con l’idea di progresso, a segnare in direzioni opposte le loro opere. Orwell, come Conrad e al contrario di Kipling, non crede affatto che gli uomini siano fondamentalmente buoni, e nemmeno crede che con la civilizzazione possano diventarlo. Della marcia del progresso vede soprattutto la parte che rimane in ombra, le scorie e i cadaveri che lascia al bordo della strada, come testimoniano le righe che ho posto in esergo a questo scritto.

Sa anche che l’ottimismo rispetto ad una supposta “natura umana” è alla radice di ogni grande utopia sociale, e Orwell è l’autore distopico per eccellenza. Crede in compenso che tutto ciò che riesce ad assicurare agli individui un maggiore margine di libertà, intesa sia come negativa (la libertà dalle costrizioni, di non fare), sia come positiva (la libertà di pensare e di agire, nella consapevolezza naturalmente del limite, ovvero del diritto altrui alla stessa libertà), valga la pena comunque di essere perseguito. La libertà è condizione irrinunciabile per una esistenza dignitosa. E questo vale per ogni essere umano, a qualsiasi latitudine o longitudine.

Orwell pone quindi già nel suo primo libro il tema dell’illegittimità del dominio coloniale, in un’epoca in cui anche le sinistre, quella inglese principalmente, ma in sostanza tutte le altre europee, lo trovavano compatibile con gli interessi della classe operaia. Lo fa nei termini individuali ed emotivi della reazione disgustata ad uno spettacolo avvilente, ma questo lo porta a prendere le distanze dal compromesso “politico”. Se non si potrà mai realizzare una società perfetta, si dovrà pur sempre aspirare ad una meno ingiusta, partendo dall’eliminazione delle storture più vistose, rispetto alle quali l’unico strumento di riscatto è quello della crescita culturale. E se non si arriverà a migliorare il mondo, si sarà comunque in pace con la propria coscienza, per averci almeno provato. Che è ciò che ho sempre pensato anch’io.

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Penso anche un’altra cosa. Paradossalmente, malgrado il ribaltamento dei rapporti (nel senso che oggi sono gli ex-colonizzati a invadere il mondo occidentale) abbia definitivamente sfatato il mito di una possibile società multiculturale, e malgrado su Kipling sia stato stampigliato il marchio scarlatto dell’imperialismo, la sua posizione sembra preludere alle mode new-age e alla filosofia post-moderna. Persino l’amicizia tra Kim e il vecchio lama, che pure è un rapporto bellissimo e genuino – con buona pace di chi vuole leggervi una strumentalizzazione imperialistica – rischia di essere letta in questa chiave. In qualità di ammiratore precocissimo e tuttora entusiasta di Kipling respingo categoricamente questa interpretazione. Credo invece che l’ulteriore ribaltamento, quello dell’immagine, nasca da una ambiguità che non è affatto di Kipling, la cui posizione (e chiamiamola pure “imperialistica”) è chiara.

L’ambiguità è piuttosto nell’atteggiamento preconcetto di chi lo legge, e si esprime essenzialmente in due modi. Da un lato c’è il lamento vittimistico (mi riferisco alla sua espressione più raffinata, quella resa popolare ad esempio da Edward Said con il suo celebratissimo saggio sull’Orientalismo), per il quale esiste un pregiudizio eurocentrico a tutt’oggi non superato nei confronti delle culture orientali (in particolare nei confronti di quelle arabo-islamiche), nato già con la riscossa medioevale dell’Europa, alimentato nell’Ottocento dalle rappresentazioni romanzesche dei popoli d’Oriente come irrazionali e moralmente corrotti, e supportato da teorie scientifiche che certificavano la loro inferiorità. Tutto vero, fatto salvo un particolare che Said e coloro che si attestano su queste posizioni tendono a trascurare. Il fatto cioè che questa lettura non solo è stata consentita, ma ha ottenuto un vasto consenso, unicamente perché chi l’ha adottata risiedeva e insegnava in Occidente. Un’operazione del genere, la critica radicale della cultura attraverso le cui istituzioni ti esprimi, non sarebbe mai stata possibile né nel vicino né nell’estremo Oriente.

Dall’altro lato c’è quello definito da Pascal Bruckner “il singhiozzo dell’uomo bianco”, che si presenta in apparenza come un doveroso ripensamento sulle storture e le ingiustizie perpetrate nei confronti del resto del mondo in nome di una presunta “missione” occidentale. Anche in questo caso, l’intento è più che positivo: ma quando dal ripensamento si passa al rifiuto in blocco degli esiti del millenario percorso della civiltà occidentale, per cercare altrove significati e valori “autentici”, si scade nella filosofia di comodo. In realtà quei valori e quei significati sono frutto di storie completamente diverse, sono impenetrabili ai nostri occhi, inconciliabili con una sensibilità diversamente educata, sono in disuso persino nei luoghi d’origine, dove continuano ad essere venduti solo sulle bancarelle per turisti, nei pacchetti “tutto compreso” degli ashran. È una filosofia deresponsabilizzante, che induce a cambiare l’arredo e la suppellettile anziché a intervenire decisamente sulle parti strutturali. (Un chiaro esempio di questa interpretazione l’ho poi ritrovato ad esempio, molto più tardi, nella Trilogia Malese di Antony Burgess: ma non mancano anche da noi gli esempi, Terzani in primis)

Quella di Orwell è invece la coscienza lucida che in un mondo governato dalle leggi del mercato non c’è cultura “alternativa” che tenga: non basta fuggirne, bisogna immergercisi per cambiarlo, nei limiti del possibile ma mirando alla sostanza. Come Kipling, che in India aveva trascorso gli anni dell’infanzia, e che da quella suggestione in fondo non era mai uscito, anche Orwell rimpiange lo sguardo del bambino, torna volentieri a rievocare un mondo precedente: ma lo fa nella piena consapevolezza di coltivare un sogno. «Non apro mai uno dei libri di Kipling – scrive – senza pensare: “Mutamento e decadenza in tutto quello che vedo intorno”» Il pensiero immediatamente successivo è però come arginare questa decadenza, senza perdersi nella nostalgia del passato: e questo sarà uno dei temi ricorrenti nella sua narrativa.

2. Da Giorni in Birmania qualcosa della vita di Orwell avevo appreso: ora ero curioso di conoscere il resto. L’occasione è arrivata qualche anno dopo con Senza un soldo a Parigi e Londra, per il quale funzionava ancora una volta la suggestione del titolo. Uscivo infatti dalla lettura di Furore e di Sulla strada, oltre che da un paio di esperienze di brevi espatri a tasche vuote, proprio nelle città cui si riferiva Orwell. Come nel caso precedente, il libro non corrispondeva affatto a ciò che cercavo, ma fotografava perfettamente quel che già avevo trovato in giro, e dava del vagabondaggio un’idea molto meno romantica di quella che Kerouac e la beat generation diffondevano in quegli anni.

Rientrato dalla Birmania, ancora nauseato per quello che aveva visto e di cui era stato anche attore, tormentato come già ho detto dai sensi di colpa, Eric Blair rifiuta di integrarsi attraverso un qualsivoglia impiego e sceglie di vedere il mondo dalla parte degli sconfitti: «Sentivo di dover sottrarmi non soltanto all’imperialismo ma ad ogni forma del dominio dell’uomo sull’uomo. Volevo sommergermi, scendere in mezzo agli oppressi, essere uno di loro e schierarmi al loro fianco contro i loro tiranni. E, soprattutto perché avevo dovuto riflettere e scoprire ogni cosa in solitudine, avevo finito per portare il mio odio dell’oppressione al di là d’ogni limite. In quel periodo, il fallimento mi sembrava essere la sola virtù. Ogni sospetto di carriera, di “successo” nella vita anche nel senso di riuscire a guadagnare qualche centinaio di sterline all’anno, mi pareva spiritualmente turpe, una specie di prepotenza».

È attratto da Parigi, che negli anni venti era la capitale della cultura europea, cosmopolita e liberale. Non ha molto chiaro quel che vuole fare, ma vuole senz’altro sottrarsi all’atmosfera ipocrita e spocchiosa dell’Inghilterra post-vittoriana. Spera che nel clima di creatività e di assoluta libertà di pensiero promesso dalla metropoli francese ci si possa seriamente dedicare alla letteratura. Le cose non sono però così facili. “Nella primavera del 1928 partii per Parigi, dove intendevo vivere con poco mentre scrivevo due romanzi (mi spiace dirlo, mai pubblicati) e magari imparare anche il francese. Nell’estate del 1929 i miei due romanzi erano terminati; ma gli editori non vollero che me ne separassi, e così mi trovai quasi senza un soldo e con un impellente bisogno di lavorare.”

Non entra nel giro che conta, non incontra i protagonisti della vita culturale, letterati e artisti, e nemmeno ha contatti con l’ambiente dei fuorusciti, russi e italiani in testa. Una volta rapidamente esaurito il piccolissimo gruzzolo sul quale faceva conto per i primi tempi, deve ingegnarsi a sbarcare il lunario. “Dici che vuoi scrivere. Scrivere è un’assurdità. C’è un solo modo per far soldi con la penna, ed è quello di sposare la figlia di un editore – gli dice un suo occasionale coinquilino – Ma tu potresti diventare un buon cameriere se ti tagliassi quei baffi.” I baffi non li taglia, e nemmeno riesce a diventare un buon cameriere, ma sopravvive.

Se si confronta la sua esperienza con quanto raccontato da Henry Miller in Parigi 1928 si ha l’impressione che il nostro sia finito in un’altra città. I suoi compagni nell’anno e mezzo di permanenza in Francia sono solo dei falliti che vivono di espedienti, una fauna internazionale sì, ma che si trascina da una occupazione miserabile all’altra, quando la trova. Niente ritrovi di intellettuali o grandi sbornie collettive con risse finali da operetta, non una serata trascorsa nei bistrot del Lungosenna a discutere di letteratura. Solo bevute solitarie per dimenticare la fatica, lavate di testa per il minimo ritardo o errore nel servizio, fregature rimediate da compagni di sventura, dagli strozzini del monte dei pegni o da professionisti dell’arte di arrangiarsi, lunghi periodi di fame nera e ambienti perennemente luridi.

La fatica, il sudiciume, le umiliazioni sono raccontati senza rancore, sono vissuti con passiva rassegnazione, ma costituiscono le uniche costanti di questa esperienza. Dopo aver letto queste pagine e dato uno sguardo a quel che accade oltre le porte delle cucine sarà difficile apprezzare un pranzo in un ristorante parigino o la sosta in un albergo. La cosa più straordinaria è però che tutto questo, in fondo, non ci indigna: come accade per i coevi film di Chaplin, siamo immersi in una vergogna sociale, ma se un riscatto ci attendiamo è solo quello individuale (forse perché sappiamo che il protagonista la sua condizione in qualche modo se l’è scelta). È significativa in proposito la descrizione delle diverse mentalità di chi lavora in questi ambienti:

Il giovane Orweell07«Un albergo va avanti perché chi vi lavora è sinceramente fiero di quello che fa, per quanto possa essere stupido e orribile il suo lavoro. Se uno batte la fiacca, gli altri se ne accorgono subito e cospirano contro di lui per farlo licenziare […] Anche il cameriere è, in certo modo, fiero della propria abilità, che però consiste soprattutto nell’essere servile. Il lavoro gli conferisce l’abito mentale non già dell’operaio, ma dello snob. Vive sempre con gente ricca sotto gli occhi, ne ascolta le conversazioni, sta in piedi accanto al loro tavolo, li adula con sorrisi e piccole facezie discrete. Ha il piacere di spendere denaro per procura.

Per di più ha sempre la possibilità di diventare ricco a sua volta, perché, sebbene la maggioranza dei camerieri muoia povera, ogni tanto godono di lunghi periodi di fortuna. Il risultato è che, a furia di vedere sempre denaro e sperare di farne, il cameriere finisce con l’identificarsi, in un certo senso, col suo datore di lavoro. […] Si adopererà per servire un pranzo con stile, perché sente di partecipare egli stesso a quel pranzo […].

I “plongeurs” (è questo il solo tipo di impiego che Orwell riesce a rimediare), a loro volta, hanno una mentalità diversa. Il loro è un lavoro senza prospettive, è molto gravoso e nello stesso tempo non richiede la minima abilità, così come non presenta il minimo interesse; è il genere di lavoro che solo le donne farebbero, se avessero la forza necessaria. Tutto quello che si chiede loro è di essere sempre in attività, e sopportare un orario gravoso e un’atmosfera soffocante. Non hanno modo di cambiar vita, perché con la loro paga non possono mettere da parte un soldo, e un orario di lavoro che va dalle sessanta alle cento ore settimanali non lascia loro il tempo d’imparare a fare qualcos’altro. Tutt’al più possono sperare di trovare un lavoro un po’ più leggero come guardiano notturno o inserviente ai gabinetti

Per uno che era partito avendo in mente soprattutto di conservare ad ogni costo la propria libertà di pensiero e di movimento non è certo il massimo.

Il giovane Orweell08Rientrato alla fine in patria, cambia scenario, ma non condizione. L’esistenza vagabonda Orwell la conduce per altri tre anni. Finisce persino in carcere, per ubriachezza (sia pure volutamente, per conoscere dall’interno anche quell’ambiente). Si concede delle rare pause quando gli capita qualche offerta per brevi periodi di insegnamento o di collaborazione a piccole riviste, poi torna a peregrinare con gli altri disgraziati seguendo la mappa delle stagioni dei raccolti, del luppolo o delle mele. È talmente impegnato a sopravvivere che non ha molto tempo per pensare. Lo farà solo dopo, al momento di tirare le somme di quell’esperienza: e sarà un bilancio tutt’altro che esaltante.

«Nel complesso il primo contatto con la miseria è un fatto curioso. Ci avete pensato tanto, alla miseria: l’avete temuta tutta la vita, sapevate che prima o poi vi sarebbe piovuta addosso; ma in realtà tutto è totalmente, prosaicamente diverso. V’immaginavate che fosse una cosa semplicissima, e invece è quanto mai complicata. V’immaginavate che sarebbe stata terribile, ma è soltanto squallida e noiosa. Innanzitutto scoprite l’“abiezione” della miseria, gli espedienti ai quali vi costringe, le complicate meschinità, le pitoccherie.

Scoprite il tedio, che è compagno inseparabile della miseria; non avete niente da fare, e siccome siete denutrito non riuscite a interessarvi a niente. Nient’ altro che il cibo potrebbe scuotervi. Scoprite che quando un uomo va avanti una settimana a pane e margarina non è più un uomo; è solo un ventre con qualche organo accessorio

Potevo riconoscermi in qualche modo nella prima parte del libro, quella appunto che si svolge a Parigi, per aver lavorato come lavapiatti su una nave per qualche tempo: capivo dunque di cosa parlava quando raccontava di giornate lavorative da diciotto ore e di settimane da sette giorni senza riposo, e soprattutto conoscevo il disagio di svolgere un lavoro che non ti insegna nulla e ti costringe a prendere ordini da gente per la quale in genere nutri solo disprezzo. Allo stesso modo, in un’altra occasione avevo anche sperimentato cosa significa resistere a Londra senza una lira in tasca, sia pure per un solo mese e mezzo, e come ci si può ingegnare per sopravvivere, passando sopra anche a certi piccoli scrupoli morali.

Senza un soldo mi aveva comunque spiazzato. L’ho letto a vent’anni, col cuore che opponeva qualche resistenza, perché a quell’età per quanto scafati ci si aggrappa ancora ai miraggi di palingenesi: ma nella testa sentivo che era giusto non tacere del degrado morale che si accompagna con la fame e le privazioni a quello fisico, anche a costo di veder svanire quei miraggi. Orwell era il primo autore che riconoscevo totalmente onesto nel raccontare queste vicende e nel descrivere il mondo dei marginali e dei diseredati con i quali aveva convissuto. E, soprattutto, nel valutare lucidamente la parte giocata dal narratore all’interno del quadro: “Sfortunatamente non si risolve il problema classista diventando amici di vagabondi. Al massimo, facendolo, ci si libera di qualche pregiudizio di classe”.

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3. Quanto avevo trovato in Senza un soldo mi è stato confermato qualche anno dopo da La strada di Wigan Pier. Quest’ultimo non è il resoconto di un vagabondaggio, ma un vero e proprio studio sociologico, avvalorato da cifre, dati e statistiche, sulle condizioni in cui vivevano i lavoratori nel nord-ovest industriale dell’Inghilterra, una delle zone più desolate del paese. Il quadro che risulta dalla prima parte dell’indagine è impressionante, sia quando descrive il decadimento fisico e morale degli abitanti dei quartieri poveri che quando racconta il lavoro semischiavile nei pozzi minerari.

Orwell non è affatto un osservatore freddo e distaccato. Anzi: questa sua esperienza diretta la rivendica costantemente, per dire che lo squallore lui l’ha visto da vicino, l’ha addirittura fisicamente vissuto, e proprio per questo può parlarne senza retorica, esponendo le cose così come sono. “Mi sono recato colà un po’ perché volevo vedere che cosa sia la disoccupazione di massa nella sua fase peggiore e un po’ per osservare da vicino la più tipica sezione della classe operaia inglese. Ciò era necessario per me come parte del mio aderire al socialismo. Perché prima di sentirci sicuri di essere genuinamente socialisti si deve decidere se le cose al presente siano tollerabili o non tollerabili e si deve assumere un atteggiamento definito sul problema terribilmente difficile del classismo”.

Nel suo resoconto/racconto c’è un intento fortemente polemico nei confronti della tendenza della sinistra alle costruzioni dottrinarie e puramente teoriche. In virtù di quanto ha potuto conoscere sul campo Orwell si ritiene autorizzato a lanciarsi, nella seconda parte, in un pamplet su ciò che non funziona, non tanto nel socialismo in sé, quanto nel modo in cui viene propagandato e professato. “Per difendere il socialismo occorre cominciare attaccandolo” – scrive, e precisa: “Il socialismo come lo intendo io.” La domanda da cui parte è: “come mai non siamo tutti socialisti, considerata la semplice e palese bontà dell’idea?” La risposta, o meglio, le diverse risposte che si dà mettono impietosamente a nudo le contraddizioni e le ipocrisie della sinistra, e ciò spiega perché il suo editore, un convinto militante, abbia fatto pressioni per pubblicare solo la prima parte. Il libro era stato commissionato infatti dal Left Book Club, e le riflessioni che conteneva non andavano certamente nella direzione attesa. Ma a questo punto Eric Blair era già diventato George Orwell (firma questo libro per la prima volta con lo pseudonimo che lo renderà famoso), e non aveva ceduto. All’editore non era rimasto che cercare di mitigare la deriva “ereticale” con una prefazione “allineata”, che difendeva ad esempio la politica di industrializzazione forzata portata avanti in quegli anni dall’Unione Sovietica, sulla quale invece Orwell picchiava pesante.

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D’altro canto, le ragioni che Orwell adduceva per spiegare la diffidenza della maggioranza degli inglesi, lavoratori compresi, nei confronti del socialismo, rapportate alla sua epoca appaiono perfettamente plausibili (e per certi versi lo sono ancora oggi). Lo erano tanto più proprio perché nascevano dalla personale immersione nell’inferno rivelato dall’indagine. Orwell non si stanca mai di ribadire: “Questa è la realtà dei fatti, così stanno le cose”, e di sottolineare come il socialismo dottrinario quella realtà la ignori, attaccato com’è al dogmatismo dei principi e all’uso di un linguaggio stereotipato, al culto del progresso tecnologico e al pregiudizio di classe esercitato alla rovescia.

«La letteratura socialista – scrive ad esempio a proposito dei modi della comunicazione, del linguaggio della propaganda – anche quando non è apertamente scritta dall’alto in basso, è sempre totalmente estranea alla classe operaia in linguaggio e modo di pensare… È dubbio che qualcosa definibile come letteratura proletaria esista attualmente, ma un buon autore di commedie musicali si avvicina a produrre qualcosa del genere più di qualunque scrittore socialista a cui io possa pensare. Quanto al gergo tecnico dei comunisti, è tanto lontano dal linguaggio comune quanto quello di un manuale di matematica. Ricordo di aver udito il discorso di un oratore comunista a un pubblico operaio. Era un discorso zeppo delle solite cose libresche, tutto frasi lunghissime, parentesi e “ciò non ostante” e “comunque possa essere”, oltre alle consuete espressioni a base di “ideologia”, “solidarietà proletaria”, “coscienza di classe” e così via.»

Il sarcasmo orwelliano tocca però il culmine quando stigmatizza l’ostentazione di anticonvenzionalismo, un atteggiamento che irrita chi ne è spettatore e induce una rancorosa aggressività in chi lo pratica. «Come per il cristianesimo, gli adepti al socialismo sono la sua peggiore pubblicità … c’è l’orribile prevalenza – davvero preoccupante – di eccentrici e di svitati, ovunque si raccolgano dei socialisti. A volte si ha ‘impressione che le sole parole ‘socialismo’ e ‘comunismo’ attraggano a sé con forza magnetica ogni vegetariano, ogni nudista, ogni portatore di sandali, ogni maniaco sessuale, quacchero, guaritore naturista, pacifista e femminista d’Inghilterra.» Può sembrare una notazione molto forzata, ma se traduciamo i termini socialista e comunista, ormai in disuso, con i più vaghi “disobbediente” o “antagonista”, e proiettiamo l’immagine un secolo avanti, magari integrando la galassia degli ‘eccentrici’ con nuove categorie, abbiamo la fotografia della situazione attuale.

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Quanto invece al progresso e alla tecnica, la posizione di Orwell è più articolata: «La specie di individuo che prontamente accetta il socialismo è anche la specie di individuo che guarda al progresso meccanico, “come tale”, con entusiasmo. E ciò è talmente vero che i socialisti sono spesso incapaci di capire che esiste l’opinione opposta. Di norma, l’argomento più persuasivo a cui possano pensare è di dirvi che la presente meccanizzazione del mondo è niente a paragone di ciò che vedremo quando il socialismo si sarà stabilito. Dove oggi c’è un solo aereo, in quei giorni ce ne saranno cinquanta! Tutto il lavoro che è fatto oggi dalla mano sarà allora fornito dalle macchine; tutto ciò che oggi è di cuoio, legno o pietra sarà fatto di gomma, vetro o acciaio; non ci sarà disordine alcuno, non ci sarà incertezza alcuna, non ci saranno distese desertiche, selvagge, non ci saranno belve feroci, male erbe, malattie, non ci sarà né povertà né dolore e così via. Il mondo socialista sarà soprattutto un mondo ‘in ordine’, un mondo efficiente. Ma è precisamente da questa visione del futuro come una specie di scintillante mondo wellsiano che rifuggono le menti sensibili.»

I tre quarti di secolo trascorsi hanno in realtà ribaltato oggi le posizioni della sinistra, almeno di quella più radicale, spingendola su posizioni che un tempo erano proprie del conservatorismo. Orwell fa però riferimento alla forma di pensiero “progressista” dominante nella sua epoca, e la sua originalità sta nel fatto che non si limita a stigmatizzare la mitizzazione della tecnica o l’uso distorto che si ne è fatto, ma ne denuncia la natura già intrinsecamente alienante. Fa parte anche lui delle “menti sensibili”, anche se poi prende atto che un’alternativa credibile al suo utilizzo non c’è. Ma su questo mi riservo di tornare tra poco.

Ciò che più mi aveva colpito in Senza un soldo (e che ho ritrovato in un’altra accezione in Wigan Pier: per questo li accomuno) è la distanza che con disarmante sincerità Orwell confessa di provare nei confronti dei ‘poveri’ ai quali si mescola. “Avevo affetto per loro e spero che essi lo avessero per me; ma mi aggiravo in mezzo a loro come un estraneo, e ne eravamo tutti consapevoli. Da qualunque parte vi volgiate, questa maledizione della differenza di classe vi si para dinanzi come una muraglia. O meglio, non tanto come una muraglia quanto come la parete di vetro di un acquario; è così facile fingere che non ci sia e così impossibile penetrarla.”

Non ha alcuna pretesa di diventare un “proletario ad honorem”: partecipa della miseria, ma non si identifica con i miserabili, Rimane sempre un testimone, ed è aiutato a mantenerne la consapevolezza dal fatto che gli altri avvertono la sua diversa estrazione, vuoi per come muove le mani, vuoi per l’accento o il modo di parlare o di camminare, per l’aspetto nel suo assieme, che a dispetto degli abiti logori mantiene una sua borghese “eleganza”.

Prendiamo me, membro tipico del ceto medio. È facile per me dire che voglio liberarmi delle differenze di classe, ma quasi tutto ciò che penso e faccio è il risultato di differenze di classe. Tutte le mie nozioni – nozioni del bene e del male, del piacevole e dello spiacevole, del buffo e del serio, del bello e del brutto – sono essenzialmente nozioni piccoloborghesi; il mio gusto in fatto di libri, di cibi e di abiti, il mio senso dell’onore, il modo in cui so stare a tavola, il giro delle mie frasi, il mio accento, perfino i movimenti caratteristici del mio corpo, sono i prodotti di un genere particolare di educazione e di una nicchia particolare a mezza via della scala sociale. Quando capisco questo capisco anche che non serve a nulla dare una manata sulle spalle di un proletario, dicendogli che è un uomo bravo quanto me; se voglio avere un autentico rapporto con lui, devo fare uno sforzo per il quale molto probabilmente non sono preparato. Per tirarmi fuori dal brutto affare classista, devo sopprimere non solo il mio snobismo personale, ma anche quasi tutti gli altri miei gusti e pregiudizi. Devo alterare me stesso così completamente che alla fine non sarei più riconoscibile come la stessa persona”.

E allora, per evitare ipocrisie, occorre aver ben chiaro da dove arrivi la distanza, come si è generata. “Ero piccolo, molto piccolo, non avevo più di sei anni, quando mi resi conto per la prima volta delle distinzioni di classe. Prima di quell’età, i miei eroi principali erano stati generalmente operai, perché sembravano sempre intenti a fare cose interessanti come pescare, battere il ferro o costruire case. […]

Ma non passò molto tempo prima che mi si proibisse di giocare coi figli dell’idraulico; erano ‘ordinari’ e mi si disse di stare lontano da loro. Era una cosa un po’ snob, se volete, ma anche necessaria, perché gente del ceto medio non può permettere che i suoi figli imparino a parlare con accento plebeo.”

Arriva ad inserire una considerazione che, malignamente estrapolata, farà gridare allo scandalo i recensori “benpensanti” e i politicamente corretti ante-litteram, e sarà usata per screditarlo, a dispetto della chiarezza e della verità del suo significato: “Ecco che cosa ci insegnavano, che ‘la gente bassa puzza’. E qui, ovviamente, ci troviamo di fronte a una barriera insuperabile. Perché nessun sentimento di simpatia o di antipatia è così fondamentale come un sentimento fisico. L’odio di razza, l’odio di religione, differenze di educazione, di temperamento, d’intelletto, perfino differenze di codice morale, possono essere superate; ma la ripugnanza fisica non si può superare. Potete avere dell’affetto per un assassino o un sodomita, ma non per un uomo dall’alito fetido, abitualmente fetido, intendo. Per quanto bene possiate augurargli, per quanto possiate ammirare il suo carattere e la sua mente, se gli puzza il fiato, è un uomo orribile e, nel più segreto fondo del cuore, lo odiate. Può non avere grande importanza che il borghese medio sia allevato nell’idea che la classe operaia è ignorante, pigra, beona, triviale e disonesta; è quando vi si cresce nell’idea che l’operaio è anche sporco che si fa il guaio. E nella mia infanzia ci crescevano nell’idea che la gente del popolo è sporca. Molto presto nella vita acquisivi il concetto che c’è qualcosa di repulsivo in un corpo d’operaio […].

Il giovane Orweell12Tutto questo non mi indignava e non mi disturbava affatto, anzi: se una cosa non sopporto è proprio l’ipocrisia che sta dietro la mistica del proletariato, la presunzione di saperne cogliere e interpretare le aspettative e le paure, addirittura meglio dei proletari stessi, di esserne insomma la coscienza avanzata. Questa sì, mi è sempre parsa una forma insopportabile di ‘colonialismo sociale’. Persino io, che di quel proletariato facevo parte senza ombra di dubbio, avvertivo una distanza, e non perché fossi stato educato a “percepirne gli odori” (che tra l’altro, l’igienizzazione sempre più diffusa ha cancellati, reali o metaforici che fossero, così come la standardizzazione dell’abbigliamento o la scomparsa dei dialetti ha livellato gli altri indicatori sociali più eclatanti), quanto per il fatto che bene o male avevo potuto accedere a un certo livello d’istruzione e già vedevo la mia condizione da un altro punto di vista. Percepivo (e pativo) la differenza nelle aspettative “di senso”, individuali e sociali, rispetto alla maggior parte dei miei compagni del paese: ma ho patito ancor più quella rispetto ai miei compagni di studi, soprattutto all’università, e di militanza politica successivamente, che si arrogavano l’interpretazione autentica delle “istanze proletarie” e si candidavano ad avanguardie.

In Orwell la consapevolezza di quella distanza non si traduceva in rassegnazione; era il gesto di onestà necessario per cominciare sul serio a parlare di un qualche possibile cambiamento. La confessava senza tanti infingimenti e senza cercare scusanti: le cose stanno così, sembrava dire, ed è inutile e disonesto cercare di raccontarsele in altro modo. Importante è saperlo, e comportarsi di conseguenza.

Per questo, già molto prima di arrivare a quello che sarebbe stato poi giudicato un “tradimento”, non perdeva l’occasione di attaccare i “compagni” borghesi. Ne distingueva diverse tipologie: “gli schiumanti accusatori della borghesia, gli annacquati riformatori… i giovani astutissimi arrampicatori social-letterari che sono oggi i comunisti … e finalmente tutta quella deprimente tribù di donne magnanime, di uomini in sandali e di barbuti bevitori di succhi di frutta”, e di ciascuna denunciava in un aggettivo o in una lapidaria immagine la povertà di spirito, l’ambiguità, la grettezza delle motivazioni. “Un borghese abbraccia il socialismo e forse s’ iscrive addirittura al partito comunista. Ciò, che reale differenza fa? c’è qualche mutamento nei suoi gusti, nelle sue abitudini, nei suoi modi, nella sua mentalità, nella sua ‘ideologia’, per usare il termine dei comunisti? È da notarsi che egli continua a frequentare abitualmente le persone del suo ceto; si sente infinitamente più a suo agio con un membro della sua classe, il quale lo ritiene un pericoloso bolscevico, che con un membro della classe operaia, il quale si suppone condivida le sue idee; i suoi gusti in fatto di cibo, vino, abiti, libri, quadri, musica, balletto sono ancora riconoscibilmente gusti borghesi. I più dei socialisti borghesi, mentre teoricamente aspirano a una società senza classi, restano attaccati come pece ai miserabili frammenti del loro prestigio sociale”.

L’ironia di Owell è incapace di sconti nei confronti di coloro i quali, giocando a identificarsi con il proletariato, lo tradiscono. “Forse, le buone creanze a tavola non sono una cattiva dimostrazione di sincerità. Ho conosciuto molti socialisti borghesi, ho ascoltato per ore la loro tirata contro la loro classe eppure mai, neppure una volta, ne ho incontrato uno che a tavola avesse preso a comportarsi come un proletario – osserva Orwell. – Può essere solo perché in cuor suo sente che le maniere proletarie sono disgustose.

Più tardi, in Fiorirà l’aspidispra, disegnerà la figura di Philip Ravelston, un intellettuale alto borghese che aderisce al marxismo e se ne fa ardente propugnatore, ma che a dispetto degli sforzi per scimmiottare i modi di vita dei proletari non riesce a tagliare i ponti con la classe sociale da cui proviene, e ne conserva inconsciamente gli atteggiamenti e la disposizione mentale. “Gli piaceva pensare alla gente perduta, alla gente del sottosuolo, vagabondi, mendicanti, criminali, prostitute. È un mondo buono quello in cui vivono nelle loro fetide pensioncine equivoche, nelle loro infermerie d’ospizio. Gli piaceva pensare che sotto il mondo del denaro si stendono i vasti bassifondi della sporcizia e della degradazione, dove sconfitta o riuscita non hanno più significato alcuno; una specie di regno di spettri, dove tutti sono uguali.” Ravelston lo pensa però seduto nel proprio salotto, e lo afferma durante le sedute del club di cui è socio. Eppure diventa una figura di riferimento per il protagonista del romanzo, in positivo (lo invidia) e in negativo (si compiace di coglierne le incongruenze). Questi è a sua volta un aspirante intellettuale che della propria frustrazione vuol fare virtù, imponendosi una coerenza esterna estrema nei modi di vivere: ciò che in realtà non lo porta a nulla e non lo rappacifica con se stesso.

***

4. L’idea di Orwell di studiare le classi più povere dall’interno non era così originale. Trent’anni prima Jack London, per scrivere Il popolo degli abissi, aveva vissuto per un mese e mezzo travestito da barbone nell’East End di Londra. Ne ho già parlato altrove (cfr. Tre vagabondi), e quindi non sto a ripetermi. Mi limito a cogliere la sottile differenza sia delle motivazioni che dei modi, ma soprattutto dello spirito, coi quali l’esperienza è stata vissuta dai due.

In entrambi i casi la finalità è quella del reportage giornalistico, ma la destinazione di questo reportage cambia. London intendeva, non senza una punta di sciovinismo, raccontare agli americani il ritardo dell’Inghilterra quanto a progresso sociale. Chiarisce nella nota di presentazione che la sua è una descrizione realistica dell’altra faccia della società inglese, quella che ospita gli sconfitti e gli sfruttati, e che viene sempre celata dietro l’immagine di una crescita economica straordinaria. È una sorta di rivincita nei confronti dello snobismo col quale gli inglesi avevano sempre trattato la cultura e la civiltà americana; nasce come un’indagine sociale, ma alla fine assume il significato di un j’accuse politico.

Il giovane Orweell13Anche London, come Orwell, era un socialista. Sia pure in una maniera tutta sua, molto americana, che combinava Marx con Nietzsche e con Sorel. E anche lui, come Orwell, col socialismo, o meglio, coi socialisti, ebbe un rapporto conflittuale, soprattutto dopo che si rese conto che la gran parte dei suoi consistenti contributi economici alla causa era finita nelle tasche dei capi. Ciò lo aveva indotto, ad un certo punto, a prendere le distanze dal movimento e dalle organizzazioni sindacali, per coltivare un socialismo personalissimo e molto disincantato.

È chiaro che Orwell ha preso a modello il London de Il popolo degli abissi, ed egli stesso non ha esitazioni a confessarlo: così come più tardi riconoscerà, a proposito di 1984, il debito con Il tallone di ferro, tra i primi romanzi distopici del ventesimo secolo.

La disposizione con la quale i due si calano nei bassifondi dell’umanità non è però identica. Intanto, quando aveva deciso di camuffarsi da relitto umano, assumendo le sembianze di un marinaio americano senza un soldo e alla ricerca di un imbarco, London era già uno scrittore ricco, famoso e osannato. Era uscito da una povertà che aveva conosciuto da dentro, senza bisogno di cercarla, e l’impegno di tutta la sua vita fu poi di non ricaderci. Al contrario di Orwell, quindi, arrivava da una educazione tutt’altro che borghese, che non gli aveva trasmesso pregiudizi. In quelle «bande di “cads”, ragazzacci ineducati che ti si buttavano addosso spesso in cinque o dieci contro uno”, che erano il terrore di Orwell bambino, o tra quei “figli della strada londinesi, con la loro voce squillante e la loro mancanza di scrupoli intellettuali, potevano rendere impossibile la vita a coloro che consideravano inferiore alla propria dignità rispondere loro per le rime» London sarebbe stato un capo.

Non stupisce dunque quello gli accade, la sensazione che prova: «Per strada fui ben presto colpito dalla differenza di status causata dal mio abbigliamento. Qualsiasi servilismo era scomparso dall’ atteggiamento della gente comune con cui entravo in contatto. Oplà! Un battito di ciglia, per così dire, ed ero diventato uno di loro. La mia giacca logora, dai gomiti consunti, era il segno e l’attestazione della mia classe, che era anche la loro classe. Mi rendevo simile a loro, e invece dell’attestazione servile e troppo rispettosa che avevo ricevuto fino ad allora, mi trovavo a condividere un certo cameratismo. L’uomo con i calzoni di velluto e la cravatta lercia non mi chiamava più “signore” o “principale”: ero diventato “amico”, adesso, una parola bella e sincera».

Naturalmente la solidarietà cameratesca degli uni ha il suo contraltare nel declassamento da parte degli altri: “Dal mio nuovo abbigliamento discendevano altri mutamenti di condizione. Scoprii che quando attraversavo un incrocio affollato dovevo stare più attento a evitare i veicoli, e mi apparve chiaro che il valore della mia vita era sceso in proporzione a quello dei miei vestiti. Prima, quando chiedevo la strada a un poliziotto, in genere mi domandava: – In bus o in carrozza, signore? – Adesso mi chiedeva: – A piedi? – E nelle stazioni ferroviarie mi davano un biglietto di terza classe, come fosse del tutto ovvio”.

Anche questa era una sensazione che conoscevo: la mia particolare percezione della ‘distanza’, quella di cui parlavo più sopra, l’avevo vissuta anche a parti ribaltate. Ricordo che una notte, nei tardi anni Sessanta, mentre ci aggiravamo per il quartiere di Soho dopo una giornata di digiuno quasi totale e non volontario, il mio compagno di avventura mi chiese: “Ma non dovremmo aver paura?”. Al che risposi: “Guardati attorno: sono loro ad aver paura di noi”.

London la mette giù in maniera più delicata: “E quando finalmente arrivai nell’East End, scoprii con soddisfazione che non avevo paura della folla. Ero entrato a farne parte. Il mare vasto e maleodorante si era richiuso sopra di me, o meglio mi ci ero immerso dolcemente, e non c’era nulla di terribile in questo, fatta eccezione per la maglia da fuochista”.

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Di terribile c’è invece quello che nell’East End London vede, in un’epoca nella quale l’Inghilterra ha ancora un impero, è la maggiore potenza navale del mondo e accumula ricchezze che affluiscono da tutti i continenti. Vede masse enormi di diseredati: quelli che lavorano, retribuiti con salari da fame e strangolati dai debiti, costretti a spaccarsi la schiena per tirare su pochi spiccioli; i disoccupati e i vagabondi che si aggirano pressoché invisibili per le strade, sperando di trovare un qualsiasi momentaneo lavoro, a dispetto magari dell’’età avanzata o della debolezza fisica, raccolgono gli avanzi di cibo nella spazzatura e dormono di notte sulle panchine: gli uni e gli altri impegnati con tutte le loro forze solo a sopravvivere.

In quella che definisce una “voragine umana infernale” London incontra tuttavia anche alcuni personaggi che sono riusciti a dispetto della miseria a conservare la loro dignità e oppongono una resistenza eroica e solitaria alla nullificazione. Ci offre ogni tanto immagini di un socialismo un po’ deamicisiano, che devono qualcosa anche al culto superomistico di origine nietzschiana. Del resto, lui stesso rappresenta l’esempio più clamoroso di chi dalla miseria ha saputo emanciparsi con la sola forza della sua volontà e con una cultura conquistata con i denti. Sono convinto che fosse questo a fargli scorgere la possibilità di risalita dalla voragine: ma anche che figure come quelle che racconta potessero esistere veramente, prima che la burocratizzazione della lotta del proletariato ne decretasse la scomparsa.

In questo differisce da Orwell, che invece non si fa concessioni. Anche nel quadro da lui dipinto alcune figure emergono rispetto allo squallore generalizzato, ma l’impressione è che lo spazio concesso alle individualità sia davvero ridottissimo. C’entra forse il fatto che Orwell descrive la situazione creatasi immediatamente a ridosso della grande crisi del ‘29, ma la convinzione dello scrittore inglese è quella cui ho già accennato: la fame e la misera disumanizzano totalmente. La sua esperienza non dura sei settimane, ma anni, e il contatto prolungato con quella realtà finisce non per renderla normale, ma per farla cogliere al di là dell’eccezionalità e dello scandalo. Inoltre, a differenza di London, Orwell nella povertà ci si imbatte: almeno per quanto concerne le esperienze parigina e londinese non si può dire che la scelga.

Arrivano comunque alla stessa conclusione. Come scrive London: “Non ci si può sbagliare. La civiltà ha centuplicato le capacità produttive dell’uomo e, a causa della cattiva gestione, i suoi uomini vivono peggio delle bestie”. La cattiva gestione, tanto per lui quanto per Orwell, è quella operata dal modo di produzione industriale. Con la differenza che per il primo il fattore più grave è la redistribuzione ineguale delle risorse, mentre per il secondo l’industrialismo non determina soltanto una sopravvivenza fisica sempre più precaria, ma cancella nei lavoratori poveri anche ogni dignità morale, li rende quasi disumani. I personaggi disgustosi “il cui modo di parlare – dice Orwell – ti dà la sensazione che non siano persone vere, ma un tipo di fantasma che ripete in eterno lo stesso discorso senza né capo né coda […] esistono in centinaia di migliaia, e sono i prodotti caratteristici del mondo moderno, di quello che l’industrialismo ha fatto per noi”.

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5. La denuncia della nuova miseria creata dal produttivismo arriva principalmente dagli scrittori inglesi, ed è comprensibile, dal momento che in Inghilterra le prime due fasi della rivoluzione industriale sono già compiute alla fine dell’Ottocento, e i loro risvolti negativi, a livello sia ambientale che sociale, sono ormai evidenti. La povertà narrata dai romanzieri francesi (da Hugo a Zola), da quelli russi (Gorkij) o scandinavi (Hamsun, Martinsson) o italiani (Verga) è ancora legata ad un mondo preindustriale. Orwell è stato invece preceduto anche da diversi connazionali. Dando per scontato Dickens, autore d’obbligo nella formazione culturale vittoriana, che in opere come Tempi difficili o Oliver Twist lancia una indignata protesta sociale (anche se è poi costretto da esigenze di cassetta ad annacquarla con finali dolciastri), dietro l’opera di Orwell si può ad esempio facilmente cogliere l’influsso di quella di George Gissing.

Gissing la povertà non l’aveva cercata, né ci si era imbattuto. C’era proprio cascato dentro, in seguito ad una serie di disavventure sentimentali che ne avevano troncato le aspirazioni di umanista brillante e appassionato. Aveva conosciuto persino il carcere, e si era trovato a condividere la vita degradata e umiliante degli abitanti dei più squallidi bassifondi londinesi. Non gli restava che fare di necessità virtù, denunciando nei suoi primi romanzi la miserabile realtà degli slums londinesi. “L’arte deve essere oggi il portavoce della miseria, perché la miseria è la nota dominante del nostro mondo” – faceva dire ad uno dei suoi protagonisti – “Voglio far capire alla gente le spaventose condizioni (materiali, intellettuali e morali) delle nostre classi povere, per mostrare l’orrenda ingiustizia di tutto il nostro sistema sociale, e illuminare un piano per riformarlo.”

Quella miseria Gissing la conosce meglio degli stessi London e Orwell, perché è costretto ad affrontarla non da più o meno allegro vagabondo, ma avendo sulle spalle la responsabilità di una famiglia. Per questo motivo, e soprattutto per un’attitudine caratteriale decisamente pessimista, nei confronti dell’ambiente che descrive prova soltanto antipatia ed avversione. C’è un divario enorme tra la sua capacità di rappresentare il degrado sociale e l’incapacità di entrare in sintonia con la massa che lo vive, di intenderne e di parlarne il linguaggio. Non ha nemmeno bisogno di confessare apertamente i suoi sentimenti, come farà Orwell; questo rifiuto lo si avverte subito, perché Gissing non si sforza affatto di mantenersi neutrale. Vive tra i poveri, osserva i poveri e si propone, con i suoi libri, di rendere loro un servizio, ma non riesce né ad amarli né a sopportarli, prova quasi un odio fisico, è costantemente irritato dalla loro meschina materialità. Si sente tra loro come un prigioniero, e i soli personaggi che si distinguono positivamente in tanto squallore sono i prigionieri come lui, costretti in un mondo che è loro estraneo e che tarpa l’ingegno e le speranze.

Il giovane Orweell15Malgrado ciò, per molti aspetti Gissing è molto più prossimo ad Orwell di quanto potrebbe sembrare. Nel suo unico libro di viaggi, Sulle rive dello Ionio, scrive ad un certo punto: “Ogni uomo ha un suo anelito intellettuale; io ho quello di sfuggire alla vita che conosco e di tornare, per virtù del sogno, in quell’antico mondo che deliziò la mia immaginazione di fanciullo” (nel suo caso si tratta del mondo greco e romano). Le vestigia di questo mondo le trova ad esempio nel Meridione italiano, e segnatamente nella sua area più arretrata, in Calabria: ne è talmente suggestionato da tollerare la miseria delle popolazioni calabresi, che gli appare comunque solare, mentre considera torbida e insopportabile quella delle masse londinesi. (In questo è simile a molti suoi contemporanei in fuga dalla società vittoriana, ma molto diverso da Dickens, che nel suo resoconto di un viaggio in Italia parla di “Città sporche e tristi, paese decadente, umanità ambigua” e scrive, in una lettera ad un amico: “Se tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l’ingrasso dei pidocchi; viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri!”).

Ora, anche Orwell, come ho già accennato, rimpiange il passato. In effetti moltissime sue pagine appaiono intrise di nostalgia (e questa la fa addirittura da protagonista in Una boccata d’aria). Ma è necessario distinguere tra le possibili disposizioni d’animo con le quali la nostalgia viene vissuta. Nel caso di Orwell la rievocazione nostalgica riguarda un tempo, un mondo, una condizione che ha direttamente conosciuto; per altri, come appunto Gissing, è rivolta invece a mondi solo idealizzati, anche se amati al punto da diventare comunque condizionanti per l’esistenza. In quest’ ultimo caso non è soltanto questione di tornare indietro, ma di andare proprio altrove. In fondo si tratta di utopie personalissime, di nicchie individuali che ci si ritaglia e che paradossalmente possono essere rese concrete, per brevi periodi e in condizioni particolari come quelle che si realizzano per Gissing lungo le rive dello Jonio.

Orwell rimane invece sempre perfettamente consapevole che quel tempo, quel mondo e quella condizione ai quali va con la memoria non possono tornare, e sa benissimo che il ricordo ne ha selezionato solo i lati positivi. “Rassegniamoci al fatto che il ritorno a un modo di vivere più semplice, più libero, meno meccanizzato, per desiderabile che possa essere, non si verificherà. Questo non è fatalismo, è semplice accettazione dei fatti.”

Questo perché: “Nessun essere umano vuol fare checchessia in modo più scomodo di quel che sia necessario. Da qui l’assurdità di quel quadro dei cittadini di Utopia che si salvano l’anima con lavoretti decorativi. In un mondo dove tutto possa essere fatto dalle macchine, tutto sarà fatto dalle macchine. Tornare deliberatamente a metodi primitivi, usare strumenti arcaici, porre piccoli ostacoli idioti sulla propria strada, sarebbe dar prova di dilettantismo, darsi arie da falso artista, rendersi ridicoli. Sarebbe come sedersi solennemente a tavola per far colazione con posate di pietra”.

Usa dunque la memoria solo per trarne una qualche consolazione di fronte ad un presente e a un futuro che non lasciano presagire nulla di buono. Se non altro, essa testimonia il fatto che modi di vita differenti sono stati possibili, e se pure irripetibili, possono fungere da parametro per orientare le nostre scelte future, per non lasciare cadere ogni speranza.

Le città industriali erano lontane, una macchia di fumo e di sofferenza nascosta dalla curvatura della terra. Qui si era ancora nell’Inghilterra che ho conosciuto nella mia infanzia: le scarpate lungo la ferrovia ricoperte di fiori selvatici, i prati dall’erba alta dove grandi cavalli lustri brucano e meditano, i lenti ruscelli in mezzo ai salici, le verdi distese di olmi, la speronella nei giardini delle casette di campagna; e poi il grande deserto tranquillo della periferia londinese, le chiatte sul fiume fangoso, le strade familiari, i manifesti che annunciano gli incontri di cricket e i matrimoni della famiglia reale, i signori in bombetta, i piccioni di Trafalgar Square, gli autobus rossi, i poliziotti in blu – tutti addormentati nel profondo, profondissimo sonno dell’Inghilterra, da cui a volte temo non ci sveglieremo mai finché non ne saremo strappati di colpo dal boato delle bombe.

Quanto a Gissing, Orwell lo stima moltissimo: “Era un uomo intelligente e caritatevole, una persona erudita e raffinata che, dopo aver sperimentato il contatto diretto con i poveri di Londra, arrivò alla seguente conclusione: quella gente è selvaggia, mai e poi mai deve avere accesso al potere politico […] Da questo scrittore, che amava la tragedia greca, odiava la politica e cominciò a scrivere molto prima che Hitler nascesse, si può imparare qualcosa sulle origini del fascismo”.

Sono pienamente d’accordo.

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Il giovane Orweell166. In una delle primissime recensioni italiane ad Orwell, Giuseppe Bonura scrive che aveva la tempra del martire laico. Questa definizione richiama immediatamente il confronto con un’altra esperienza simile e pressoché coeva, quella vissuta da Simone Weil, e raccontata poi dalla filosofa francese ne “La condizione operaia”.

Nel dicembre del 1934 la Weil, che vuole conoscere “dall’interno” le condizioni di lavoro della classe operaia, entra come manovale nelle officine metallurgiche della Renault. È cresciuta in una famiglia alto borghese, ha ricevuto un’istruzione laica e raffinata, è cagionevole di salute ma incredibilmente determinata, sorretta da uno spirito missionario che sconfina nella patologia.

Regge per otto mesi, sufficienti a farle sperimentare lo stato di semi-schiavitù nel quale il lavoro si svolge, i ritmi infernali della catena di montaggio, la prostrazione da fatica, l’annullamento della personalità in una rassegnata obbedienza. Sono le stesse cose raccontate da Orwell, ma sono vissute in maniera diversa. “Per me, personalmente, ecco cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica: ha voluto dire che tutte le ragioni esterne (una volta avevo creduto trattarsi di ragioni interiori) sulle quali si fondavano, per me, la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa sono state radicalmente spezzate in due o tre settimane sotto i colpi di una costruzione brutale e quotidiana […] Mettendosi dinanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima per otto ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto […] Questa situazione fa sì che il pensiero si accartocci, si ritragga, come la carne si contrae davanti a un bisturi. Non si può essere coscienti”.

Quello che la Weil racconta è tutto vero. C’è però un piccolo particolare, tutt’altro che irrilevante. La condizione interiore di cui parla la si vive quando si ha coscienza che ne esistono altre possibili: e diventa tanto più insopportabile quando si sa che è a tempo determinato, che se ne potrà uscire quando lo si vorrà. “Ho creduto di essere minacciata, a causa della prostrazione e dell’aggravarsi del dolore, da una degradazione così spaventosa di tutta l’anima che, per molte settimane, mi sono domandata con angoscia se morire non fosse per me il dovere più imperioso, benché mi sembrasse mostruoso che la mia vita dovesse concludersi nell’orrore.

Ciò che maggiormente preoccupa la Weil è la “degradazione dell’anima”, cosa della quale i suoi compagni di lavoro non hanno affatto modo di rendersi conto, occupati come sono a sopravvivere a quella del corpo. Di fatto, quando non regge più la Weil torna all’insegnamento e alle sue frequentazioni elitarie: è vero che si impone digiuni e ogni tipo di ristrettezza per vivere il più possibile come i poveri, per entrare in “comunione spirituale” con essi: ma è altrettanto vero che può scegliere di farlo o meno.

Intendiamoci: di fronte ad una persona che potrebbe vivere tranquillamente, fregandosene degli orrori e delle ingiustizie che la circondano, e che sceglie invece l’impegno nella sua forma più radicale, ed è coerente con la sua scelta fino ad essere uccisa dai sacrifici che si è autoimposta, non posso che inchinarmi. Ma nemmeno posso impedirmi di pensare che questa scelta sia intrisa di ambiguità, di una esasperazione mistica e religiosa che pare mirata più alla salvezza della propria anima che al miglioramento della condizione altrui. L’altruismo esasperato, quando si traduce in ascesi, mi fa sempre sospettare una forte venatura di egoismo.

Tutto questo in Orwell non c’è. Vive in mezzo ai barboni e ai vagabondi, condivide dormitori pubblici e luride stamberghe, frequenta le povere case e gli infernali luoghi di lavoro dei minatori, ma poi lo racconta rimanendo sempre consapevole della distanza della sua posizione rispetto alla loro. Orwell è un ribelle nell’animo e un riformatore nella testa, la Weill è un’asceta visionaria che anela al martirio, e lo trova.

Ad accomunarli è piuttosto la messa in discussione del progresso, inteso come transizione al modo di produzione industriale. In Simone Weil naturalmente questa opposizione si esprime nella forma più esasperata: “Niente può avere come destinazione qualcosa di diverso dalla sua origine. L’idea opposta, l’idea del progresso, è veleno”.

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In Orwell è più ragionata, anche se non meno radicale. «Noi tutti dipendiamo dalla macchina, e se le macchine cessassero di lavorare la maggioranza di noi morrebbe. Si può detestare la civiltà meccanica, probabilmente avete ragione di detestarla, ma per il momento non si tratta di accettarla o respingerla. La civiltà meccanica è “qui”, onnipresente, e si può soltanto criticarla dall’interno, perché tutti noi ci troviamo nel suo interno. Sono semplicemente degli idioti romantici coloro che si lusingano di essere fuggiti, come il letterato snob nella sua villa in stile Tudor con bagno e acqua calda e fredda, e come il “vero uomo” che se ne va a fare il primitivo nella giungla con un fucile Mannlicher e quattro furgoni carichi di cibarie in scatola. E quasi certamente la civiltà meccanica continuerà a trionfare […]». Però «la tendenza del progresso meccanico, dunque, è di frustrare il bisogno umano di sforzo e di creazione. Esso rende inutili e perfino impossibili le attività dell’occhio e della mano. L’apostolo del “progresso” dirà che ciò non ha importanza, ma potrete metterlo con le spalle al muro facendogli notare a quali estremi orribili può essere portato il processo. Perché, per esempio, usare le mani addirittura, perché usarle anche per soffiarsi il naso o far la punta a una matita?»

Per il resto, ciò che l’una scrive potrebbe essere sottoscritto anche dall’ altro, tranne forse l’ultima considerazione. “Il lavoro di per sé non è opprimente; – scrive la Weil – può certo produrre noia, costrizione, ma non avvilisce. È quanto ad esso si aggiunge nella produzione industriale che opprime: l’idea che il tempo passato lavorando sia perduto per la vita, l’impressione che in nessun momento si produca qualcosa di reale, la cadenza monotona dei gesti, la sottomissione passiva ai capireparto, la schiavitù cui bisogna costringersi da soli, il senso di solitudine pur in mezzo agli altri, l’esperienza dello sradicamento perché si vive in un luogo che non appartiene al lavoratore, la schiavitù che differisce da quella classica perché non consente una libertà interiore come è invece possibile per la figura dello schiavo stoico: meschina consolazione, senza dubbio, ma proibita all’operaio.”

E allora? Da dove può venire la liberazione? Non certo dalle forme di lotta tradizionali: “Gli operai fanno lo sciopero – scrive la Weil – ma lasciano ai militanti il compito di studiare il particolare delle rivendicazioni. L’abitudine della passività contratta quotidianamente nel corso di anni ed anni, non si perde in pochi giorni, anche se così belli”. Neppure da quelle più estreme, come la rivoluzione: “In questa rivolta contro l’ingiustizia sociale l’idea rivoluzionaria è buona e sana. In quanto rivolta contro l’infelicità essenziale inerente alla condizione propria dei lavoratori, è una menzogna. Perché nessuna rivoluzione potrà abolire quell’ infelicità, risolvere i veri problemi dell’uomo che invece trovano radice nel profondo del suo animo […] Infine la rivoluzione è una compensazione dello stesso tipo; è l’ambizione ad un’altra condizione sociale per se stessi o per i propri figli, l’ambizione trasferita nel collettivo, la folle ambizione dell’ascensione di tutti i lavoratori al di sopra della condizione di lavoratori”.

Orwell è decisamente più pratico e concreto: «Compito dell’individuo ragionevole, quindi, non è di respingere il socialismo ma di decidersi a umanizzarlo. Una volta che il socialismo stia in un certo senso per essere, quelli che hanno capito completamente l’inganno del “progresso” si accorgeranno probabilmente di opporgli resistenza. Infatti la loro particolare funzione è di resistergli. Nel mondo delle macchine essi devono rappresentare una specie di opposizione permanente, cosa ben diversa dal fare dell’ostruzionismo o dal tradire. Ma io sto parlando del futuro. Per il momento la sola via possibile aperta a un galantuomo, per quanto anarchico o conservatore possa essere di temperamento, deve lavorare per l’edificazione del socialismo. Nessun’altra cosa può salvarci dalla miseria del presente o dall’incubo del futuro

Entrambe le posizioni, comunque, ci dicono che tra le altre esperienze i due condividono anche il rapporto conflittuale con la sinistra “ortodossa”. Simone Weil non entra mai nei quadri di partito, ma si impegna fortemente nel lavoro sindacale, nella stampa, nell’organizzazione di manifestazioni antifasciste. Arriva ad ospitare in casa propria Trotszkij, col quale litiga immediatamente, e denuncia la politica staliniana già nei primi anni Trenta. Potrebbe riconoscersi perfettamente in questa considerazione di Orwell: “Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere.”

Naturalmente anche la posizione ereticale che parrebbe unirli viene vissuta in maniera differente. Quella della Weil si libra alla fine in una mistica della libertà: “La libertà è una condizione politica ma deve essere inquadrata all’interno di una visione etica: non basta essere liberi, bisogna diventare liberi, cioè bisogna sapere come spendere la propria libertà”, dove l’altro corno della concezione socialista, la giustizia, sembra avere un rilievo molto minore. Quella di Orwell si mantiene invece terra terra, a difesa di un valore etico per lui altrettanto importante e niente affatto disgiunto dalla “libertà”: quella che lui chiamava la “decenza”: «Sarebbe un grandissimo vantaggio se quel continuo, insignificante e meccanico punzecchiare i borghesi, che fa parte di quasi tutta la propaganda socialista, fosse abbandonato per il momento. In tutto il pensiero e gli scritti di sinistra – dagli articoli di fondo del “Daily Worker” alle colonne umoristiche del “New Chronicle” – si perpetua una tradizione anti-cortesia, uno schernire persistente e spesso molto stupido le buone maniere e gli ideali dei ceti evoluti (o, per, usare il gergo comunista, i “valori borghesi”). È in gran parte una impostura, venendo come viene da punzecchiatori della borghesia che sono essi medesimi borghesi, ma fa gran danno, perché lascia che un problema minore ne ostacoli uno maggiore. Storna l’attenzione dal fatto centrale che la povertà è povertà, tanto se il tuo strumento di lavoro è un piccone quanto se è una penna stilografica. Tutto quello che occorre è martellare e ribadire bene nella coscienza pubblica due fatti. Uno, che gli interessi di tutti gli sfruttati sono gli stessi; l’altro che il socialismo e il comune decoro possono andare perfettamente d’accordo».

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7. Con Simone Weil (e con molti altri) Orwell ha infine in comune la partecipazione attiva alla guerra civile spagnola, un’esperienza che per una larghissima parte degli intellettuali formatisi tra le due guerre ha rappresentato un momento di svolta, più ancora del secondo conflitto mondiale.

Il resoconto del suo contributo alla lotta al fascismo si trova in Omaggio alla Catalogna, che ho letto quando già frequentavo l’università. Al liceo naturalmente nessuno mi aveva mai parlato della guerra di Spagna: alla fine del ciclo si approdava si e no alla prima guerra mondiale, e anche i libri di testo vi accennavano appena. Nemmeno era mai stato oggetto di conversazione in famiglia, perché credo che i miei ne sapessero ben poco, o avevo avuto occasione di imbattermi in qualche opera storica sull’ argomento, visto che in Ovada non c’era una biblioteca pubblica. In definitiva tutto ciò che conoscevo di questa vicenda veniva da notizie scarse e contraddittorie raccolte su qualche rivista.

Ad accendere l’interesse era stata però la letteratura, quella frequentata fuori dalle mura scolastiche: l’Hemingway di Per chi suona la campana e il Malraux de La speranza. Di lì a I grandi cimiteri sotto la luna di Bernanos, e finalmente ad Omaggio alla Catalogna, il passaggio era obbligato.

Prima di arrivare a quest’ultimo già sapevo che Orwell aveva militato nelle file del POUM (ma non avevo idea di cosa precisamente fosse il Partido Obrero de Unificaciòn Marxista: d’altro canto, al momento della sua adesione neppure Orwell lo sapeva), che aveva combattuto sul fronte aragonese e che era stato gravemente ferito. Mi intrigava però soprattutto ciò di cui avevo avuto solo sentore, e che sembrava totalmente rimosso dalla memoria ufficiale: le epurazioni degli anarchici e dei trotskisti per mano degli emissari di Mosca (leggi: Togliatti), la sconfortata presa di coscienza degli intellettuali e dei militanti accorsi ad arruolarsi nella Brigata internazionale, l’ambiguità degli atteggiamenti delle potenze “democratiche”. Ho letto quindi la prima volta Omaggio alla Catalogna pieno di aspettative, e queste non sono andate deluse. Ciò che Orwell raccontava costituiva davvero una rivelazione, e ha contribuito in maniera determinante, in un momento di grande confusione (collettiva), a indirizzare le mie scelte di “posizionamento”.

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In Perché scrivo, che fa parte della raccolta che ho tra le mani, Orwell spiega cosa ha ispirato la sua attività di saggista: “La Guerra civile spagnola e altri avvenimenti del 1936-37 hanno contribuito a farmi prendere una decisione, e da allora ho capito da che parte stavo. Ogni riga del lavoro serio che ho prodotto dal 1936 l’ho scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e per il socialismo democratico così come lo intendo io”.

Omaggio alla Catalogna racconta appunto il prima e il dopo di questa decisione. Alla fine del 1936 Orwell arriva in Spagna, nel pieno della guerra civile, nutrito ancora di sogni di rivoluzione e di immagini romantiche della Spagna e degli spagnoli, e accompagnato dalla moglie. Vuole raccontare quello che accade, essere un testimone. Ma si rende conto subito di non poter rimanere neutrale, e diventa protagonista. Si arruola nelle milizie del POUM, non per una scelta meditata ma perché è la prima caserma che trova, e perché ritiene che combattere con l’una o con l’altra formazione non faccia differenza, davanti ad un nemico comune. «Credevo fosse un’idiozia che gente che combatteva per salvarsi la vita dovesse appartenere a partiti diversi; il mio atteggiamento era sempre del tipo: “Perché non la smettiamo con queste sciocchezze politiche e ci concentriamo sulla guerra?”. Naturalmente questo era il corretto atteggiamento “antifascista” che era stato accuratamente diffuso dai giornali inglesi, in gran parte al fine di impedire che la gente comprendesse la vera natura del conflitto. Ma in Spagna, specialmente in Catalogna, era un atteggiamento che non si poteva mantenere a tempo indeterminato e infatti nessuno lo mantenne. Pur se a malincuore, tutti prima o poi si schieravano da una parte o dall’altra».

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Va al fronte, è ferito, dopo un paio di settimane torna a combattere, e quando a maggio del 1937 rientra a Barcellona per un normale avvicendamento si rende conto che è in atto una guerra interna allo stesso schieramento repubblicano in cui milita, anzi, una vera e propria epurazione nei confronti degli anarchici e dei trotskisti, nella quale è direttamente coinvolto. Anche lui è nella lista degli accusati di “tradimento”. A differenza di molti altri (Camillo Berneri, ad esempio, è “giustiziato” per strada in quegli stessi giorni) riesce a scappare per il rotto della cuffia. Appena in tempo per rientrare in Inghilterra e raccontare ciò che ha visto.

Il reportage che scrive a caldo (uscirà nell’ottobre dello stesso anno) si suddivide anch’esso, come Wigan Pier, in due parti. La prima è il resoconto puro e semplice dei fatti bellici, nel quale non nasconde nulla, e va dall’entusiasmo immediato che respira appena giunto a Barcellona («Camerieri e commessi ti guardavano negli occhi e ti trattavano da pari a pari. Le formule d’indirizzo servili o addirittura cerimoniose erano per il momento scomparse. Nessuno più diceva “Señor” o “Don” e neanche “Usted”; tutti si chiamavano “Compagni” e si davano del tu, si salutavano con “Salud!” invece che con “Buenos días” […] si vedevano pochissime persone visibilmente povere e nessun mendicante, tranne gli zingari. Soprattutto c’era fede nella rivoluzione e nel futuro, la sensazione di trovarsi improvvisamente in un’epoca di eguaglianza e di libertà. Gli esseri umani stavano cercando di comportarsi come tali e non come ingranaggi nella macchina capitalista […]») all’insofferenza per l’impreparazione e la disorganizzazione totale che regna nelle fila repubblicane; non parla di atti di eroismo, ma della noia e dei disagi della guerra di posizione (freddo, soprattutto, e poi sporcizia, piattole, indisciplina, ecc…). Nella seconda, che viene sviluppata come una lunga appendice, fa invece un’analisi delle vicende politiche, delle menzogne, degli intrighi internazionali che hanno portato alla disfatta. Orwell vuole raccontare con voce onesta, in base a ciò che visto, i risvolti meno nobili della tragedia spagnola. Partendo dal denunciare che: “Uno degli effetti più terribili di questa guerra è stato apprendere che la stampa di sinistra è falsa e disonesta quanto quella di destra”.

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La motivazione che Orwell dà del suo impegno è chiara, perfettamente in linea con i suoi libri precedenti: «Quando i combattimenti iniziarono il 18 luglio è probabile che ogni antifascista in Europa abbia provato un brivido di speranza. Perché, almeno in apparenza, ecco finalmente una democrazia che resisteva al fascismo. Per anni, in passato, le cosiddette nazioni democratiche avevano ceduto al fascismo a ogni piè sospinto […] e si limitavano a elevare pie proteste “fuori scena”. Ma quando Franco aveva tentato di rovesciare un governo moderatamente di sinistra, il popolo spagnolo, contro le aspettative di tutti, gli si era rivoltato contro».

Lo è anche la disposizione positiva che lo sorreggerà nel primo periodo: l’impressione di combattere a fianco di uomini finalmente all’altezza degli ideali che professano. “Nella caserma Lenin di Barcellona, il giorno prima di arruolarmi nella milizia, ho visto un volontario italiano in piedi davanti al tavolo degli ufficiali. Era un giovanottone dall’aspetto rude di venticinque-ventisei anni, dai capelli biondo-rossicci e un gran paio di spalle. Portava il berretto di cuoio con la visiera minacciosamente inclinato su un occhio. Era di profilo rispetto a me, con il mento sul petto, e scrutava con aria perplessa una cartina che uno degli ufficiali aveva aperto sul tavolo. C’era qualcosa nella sua espressione che mi commosse profondamente. Era l’espressione di un uomo che per un amico avrebbe ammazzato qualcuno e sacrificato la propria vita – l’espressione che ci si sarebbe aspettati di vedere sul volto di un anarchico, anche se con ogni probabilità lui era comunista. C’era un misto di candore e di ferocia in essa, ma anche la patetica riverenza che gli analfabeti mostrano per quelli che ritengono essere i loro superiori. Era chiaro che della cartina non capiva un accidente; che riteneva la capacità di leggere una carta topografica un’impresa intellettuale stupefacente. Non so bene perché, ma mi è capitato raramente di vedere una persona – voglio dire un uomo – che mi abbia ispirato una simpatia così immediata”.

Questa impressione non è destinata a ripetersi. Le differenti motivazioni non tardano a venire a galla, e a creare lo strappo. Tutta la vicenda, alla fine, potrebbe essere riassunta nelle poche righe che descrivono il suo sconcerto al rientro a Barcellona: «C’era lo sconvolgente mutamento nell’ atmosfera sociale – un fenomeno inconcepibile se non lo si è provato di persona. Appena arrivato a Barcellona l’avevo considerata una città in cui quasi non esistevano distinzioni di classe e grandi dislivelli di ricchezza. E senza dubbio l’apparenza era quella. I vestiti “eleganti” erano un’anomalia, nessuno era servile o accettava mance, camerieri, fioraie e lustrascarpe non abbassavano lo sguardo e davano del “compagno” a tutti. Quello che non avevo capito era che tutto questo era un misto di speranza e di mimetizzazione. La classe operaia credeva veramente in una rivoluzione che era iniziata, ma non si era ancora consolidata, mentre i borghesi si erano spaventati e si erano per il momento travestiti da lavoratori. Nei primi mesi della rivoluzione dovevano esserci state molte migliaia di persone che avevano indossato le tute e gridato slogan rivoluzionari solo per salvarsi la pelle. Ora le cose stavano tornando alla normalità».

Lo spettacolo della rivoluzione spontanea è finito. Il finale lo detta una regia remota. Gli attori, quelli stabili e quelli che si sono improvvisati o sentiti per un breve atto protagonisti, le comparse e il coro, dismettono l’abito di scena e tornano ciascuno al ruolo quotidiano. Almeno, quelli sopravvissuti.

«Era strano notare quanto le cose fossero cambiate. Solo sei mesi prima, quando gli anarchici dominavano ancora, si era rispettabili se si aveva l’aspetto di un proletario. Mentre scendevo da Perpignan a Cerbères un commesso viaggiatore francese nel mio scompartimento mi aveva detto tutto serio: “Non deve andare in Spagna con quell’aspetto. Si tolga il colletto e la cravatta. Altrimenti a Barcellona glieli strapperanno di dosso”. Esagerava, ma il suo atteggiamento dimostrava in che considerazione era tenuta la Catalogna. E alla frontiera le guardie anarchiche avevano respinto un francese elegante e sua moglie soltanto perché – secondo me – avevano un aspetto troppo borghese. Adesso era tutto il contrario; assumere un aspetto borghese era l’unica salvezza

***

8. Dopo quella di Orwell ho letto innumerevoli altre testimonianze dirette sulla guerra di Spagna, e ho notato un effetto particolare: a differenza dei testimoni della Resistenza, che al di là dei ruoli, delle opinioni, delle singole vicissitudini, raccontano tutti una vicenda che nei grandi tratti è comune, i reduci dalla guerra civile spagnola narrano la stessa storia con sguardi talmente diversi da renderla quasi irriconoscibile. Ciò vale soprattutto per i testimoni stranieri, naturalmente per gli intellettuali, e segnatamente per coloro che hanno combattuto nello schieramento repubblicano[2]. E si spiega col fatto che ognuno di loro portava con sé in Spagna una sua individualissima e particolare motivazione.

In linea di massima la guerra civile spagnola offriva a tutti la possibilità, o se vogliamo, l’illusione, di sottrarsi all’inerzia: di tornare protagonisti attivi in una storia che sembrava invece scorrere sempre più per conto proprio, indifferente alle individualità, agli ideali, ai sogni dei singoli, e che non forniva più stimoli all’azione. Finalmente c’era un nemico ben identificabile contro il quale combattere, in uno scontro almeno sulla carta non totalmente impari, e comunque giustificato, al di là degli esiti possibili, dalla volontà di resistenza finalmente dimostrata da un popolo. “Non fu tanto l’adesione incondizionata ad una causa, quanto piuttosto un atto estremo d’individualismo, una ricerca di conferme, nell’azione, alle proprie concezioni sociali e artistiche.”

Con questi presupposti, la varietà delle percezioni individuali di quella esperienza è più che giustificata. Simone Weil, ad esempio. Ancora lei, e non c’era da dubitarne. È già a Madrid nell’agosto del 1936, a pochi giorni dallo scoppio dell’insurrezione falangista, tra i primi ad accorrere. A dispetto del suo pacifismo è convinta che quando non si può più fare nulla per evitare la guerra l’unica alternativa sia impegnarsi nella lotta. Entra anch’essa col visto da giornalista, ma si arruola immediatamente nelle formazioni anarchiche. Non può accettare di vivere la lotta nelle retrovie. Le mettono in mano un fucile, si rendono conto che potrebbe farsi solo del male e la destinano al servizio in cucina e alle mense. Riesce a farsi del male lo stesso, cacciando un piede in una pentola d’olio bollente. L’ustione è abbastanza seria, e si accompagna ai dubbi velocemente maturati sulla partecipazione alla guerra. Ai primi di settembre Simone viene riaccompagnata a Parigi dai genitori, che conoscendola bene l’avevano seguita in Spagna.

La parentesi spagnola si è rivelata per lei particolarmente deludente, tanto che non ne lascia alcun resoconto: ciò che sappiamo lo si può ricostruire solo attraverso la sua corrispondenza. Intuisce le stesse cose che Orwell vedrà pochi mesi dopo, ma che le inducono un giudizio e una reazione molto diversi. La spiegazione ufficiale che darà del suo disimpegno è che la guerra non era una rivolta dei contadini affamati contro il clero e i latifondisti, ma una questione politica internazionale dietro la quale agivano l’URSS, l’Italia e la Germania nazista. A farle considerare tutti sullo stesso piano sono anche le violenze commesse dai repubblicani, in particolare dagli anarchici, che le sembrano mossi solo da una volontà distruttiva di rivincita, e non da ideali rivoluzionari. Il risultato è che la sua temporanea infatuazione per il marxismo, già messa alla prova dal rapporto con Trotskij, è definitivamente accantonata.

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Altrettanto precoce di quella della Weil è l’adesione al fronte repubblicano da parte di Nicola Chiaromonte. Esule a Parigi, in rotta con Carlo Rosselli e con Giustizia e Libertà, cui aveva inizialmente collaborato, Chiaromonte è in cerca di un ideale chiaro per il quale combattere una buona volta, uscendo dalla palude delle rivalità, dei sospetti e dei distinguo tattici e ideologici che allignano tra i fuorusciti antifascisti. L’occasione gliela offre André Malraux, col quale nel frattempo ha stretto amicizia. Malraux ha messo assieme una squadriglia aerea, raccattando gli scarti dell’aviazione militare francese, e porta con sé in Spagna un gruppo di altri esuli italiani. Come per tutti coloro che vivono questa avventura, anche per Chiaramonte il primo momento è di grande entusiasmo. Lo vive come l’occasione per dare finalmente vita, di fronte all’esigenza dell’azione, ad un fronte unico internazionale contro il fascismo. Immediatamente dopo subentra però la delusione, e anche l’irritazione, sia per la confusione che inevitabilmente si accompagna allo spontaneismo, sia perché vengono subito alla luce le manovre politiche delle diverse forze che si muovono nel campo repubblicano. Non tarda ad essere nauseato dalla strumentalizzazione operata soprattutto dai comunisti staliniani, e a novembre è già di ritorno in Francia, rompendo anche con Malraux.

Malraux invece rimane, e ci mostra anche un’altra faccia di questo variegato schieramento. Lo fa attraverso un romanzo che avrà un grande successo, La speranza, nel quale sono riconoscibilissime le varie figure storiche, dall’autore stesso, sotto le spoglie di Magnin, a Chiaromonte, ma dal quale si ricava anche lo spirito col quale ha affrontato tutta la faccenda. Malraux è un avventuriero di stampo dannunziano, determinato ad essere sempre al centro della scena, si tratti dell’Estremo Oriente, della Spagna, della Resistenza e successivamente anche del governo della Francia. Sta attraversando in quel periodo una fase di avvicinamento al comunismo, proprio mentre molti altri intellettuali se ne stanno allontanando (e alcuni di essi, come Andrè Gide, lo fanno denunciando apertamente la realtà criminale dello stalinismo, guadagnandosi il disprezzo e gli anatemi dei compagni): non è affatto un ingenuo, ma pur non potendo evitare di rendersi conto di quanto sta accadendo si forza a pensare che per fare argine contro i fascismi sia necessario anche ricorrere ai metodi staliniani. Emozionalmente sta magari dalla parte degli anarchici, ma il buon senso pratico, del quale non manca, gli dice che è necessario fare ordine nelle file dei repubblicani e ricondurre i vari gruppi militanti sotto un unico comando. Peccato che si tratti di quello stalinista, e che l’eliminazione dei dissensi interni finisca per prevalere alla fine anche sulla necessità di resistere ai fascisti. Il risultato è che il fronte libertario si sfascia, così come la squadriglia aerea, e l’azione d’ordine si rivela inutile e addirittura controproducente.

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Di una pasta per molti versi simile a quella di Malraux potrebbe sembrare Arthur Koestler, ungherese di origine ma apolide praticamente da sempre. La sua vita è altrettanto avventurosa, ma non per una scelta estetizzante, quanto piuttosto per la condizione di nascita (tra le altre cose, era ebreo) e per un carattere già naturalmente molto forte e consolidato ulteriormente dalle traversie: così che completamente diversa risulta alla fine la sua esperienza. Dopo una giovinezza decisamente movimentata, nei primi anni Trenta Koestler è entrato nel partito comunista tedesco e si è spostato a Parigi in seguito all’avvento del nazismo. Di lì passa nel 1936 come giornalista in Spagna, ufficialmente per seguire gli sviluppi dell’insurrezione falangista come inviato di un’agenzia di stampa, in realtà come agente del Comintern. Finisce per tre volte oltre le linee dei falangisti, la seconda viene riconosciuto da un ex-collega tedesco e denunciato come comunista, ma la sfanga, la terza è catturato dagli uomini di Franco e viene condannato a morte. Per tre mesi attenderà notte dopo notte nel carcere di Siviglia il momento dell’esecuzione, e nel frattempo vedrà sparire ad uno ad uno i suoi compagni di detenzione. La scamperà solo per l’intervento della diplomazia britannica, che organizza uno scambio di prigionieri.

La drammatica esperienza ha comunque lasciato il segno. Esce dal braccio della morte con una consapevolezza politica estremamente lucida. Come scrive Tony Judt, “ciò probabilmente accadde perché era lontano da Parigi, dalla comunità feconda di intellettuali progressisti, isolato da un contesto in cui esistevano molte buone ragioni non tanto per fingere, ma per tacere riguardo ai propri dubbi”. Una volta tornato in Francia, dopo l’ennesimo tradimento rappresentato dal patto Molotov-Von Ribbentrop non solo abbandona il partito, ma ne denuncia i crimini, in un libro che diverrà un classico dell’antistalinismo, Buio a mezzogiorno.

Le sue vicende spagnole sono invece narrate in un’altra opera, Testamento spagnolo, che racconta nella prima parte la resistenza ormai agli sgoccioli delle città assediate, lo scoordinamento evidente nelle fila dei miliziani, le divisioni ideologiche che contrappongono le fazioni diverse, e nella seconda il tran tran di una detenzione che per essere effettuata nel carcere più moderno di Spagna, costruito pochi anni prima secondo un modello liberale, consente un trattamento quotidiano relativamente umano, contraddetto poi drammaticamente dalle angosce della notte.

Orwell scriverà che a quel tempo Koestler era ancora un membro del partito comunista, e la complessa politica della guerra civile rendeva impossibile per ogni comunista scrivere con sincerità della lotta interna al fronte governativo. Lui stesso rivela che “dopo il ritorno dalla Spagna un certo numero di persone mi ha detto con vari gradi di franchezza che non si deve dire la verità su ciò che sta accadendo in Spagna e sul ruolo svolto dal Partito Comunista, perché farlo sarebbe pregiudicare l’opinione pubblica contro il governo spagnolo e così aiutare Franco”. Non ha accettato il ricatto. Ciò è vero solo in parte, ma è comunque significativo della differenza di approccio al tema dell’antitotalitarismo che i due manterranno anche in seguito. Non è un caso, ad esempio, che una bozza di manifesto dei diritti universali dell’uomo redatta nel 1946 da Orwell sia stata rielaborata da Koestler e da Bertrand Russell in senso molto più libertario e molto meno egualitario, e alla fine sia stata sconfessata da Orwell stesso.

Una vicenda non meno avventurosa e controversa di quelle di Malraux e di Koestler vede protagonista Claude Simon. “La prima parte della mia vita è stata piuttosto movimentata: – scrive quest’ultimo nel discorso di ringraziamento per l’ attribuzione del Nobel per la letteratura – sono stato testimone di una rivoluzione, ho combattuto in condizioni particolarmente truculente, sono stato fatto prigioniero, ho conosciuto la fame, la fatica fisica fino allo sfinimento, sono evaso, mi sono gravemente ammalato e sono stato più di una volta vicino alla morte, violenta o naturale, mi sono trovato al fianco di persone di vario genere, preti e incendiari di chiese, tranquilli borghesi e anarchici, filosofi e analfabeti, ho condiviso il pane con mendicanti, infine ho viaggiato un po’ ovunque nel mondo… e tuttavia non ho ancora mai, a settantadue anni, trovato alcun senso in tutto ciò, se non che ‘se il mondo significa qualcosa, è che non significa niente’, tranne che esiste”.

La desolante conclusione di questo abstract autobiografico ci presenta un ulteriore aspetto di questa partecipazione, e lo fa dall’alto di una esperienza durata oltre due anni. La racconta attraverso un romanzo, Le palace (del 1962), scritto in forma sperimentale, secondo i dettami dell’Ecole du regard. L’autore vi appare nei panni dello “studente”, testimone silenzioso delle discussioni tra altri personaggi, tra i quali spiccano “l’americano” (Orwell) e “l’italiano” (un sicario). È un ritorno sul luogo degli avvenimenti vissuti venticinque anni prima, un margine di tempo sufficiente a incrinare le verità del mito e a mettere sotto indagine la Storia ufficiale (che cosa è accaduto veramente?, è la domanda che ricorre) fino a sancire il fallimento di tutte le utopie. Non è un punto di vista, ma la messa in discussione di ogni punto di vista. E non finisce qui.

Un altro quarto di secolo dopo Simon torna sull’argomento con un romanzo-saggio, Les georgiques, nel quale mette nel mirino proprio l’opera di Orwell. A quest’ultimo rinfaccia una doppia contraddizione: da un lato, di non essersi accontentato di riferire le proprie emozioni, e di aver tentato una spiegazione politica e razionale di avvenimenti che non erano in realtà razionalmente inquadrabili (almeno, a caldo); dall’altro di aver dato di questi avvenimenti una versione lacunosa e distorta. Non lo scrive in difesa dell’operato degli stalinisti – lui stesso era finito nelle liste di proscrizione – ma in nome di una particolare (e piuttosto confusa) idea del ruolo della letteratura. Nella sostanza non intacca affatto la credibilità di Orwell. Mette in luce al più la complessità e i pericoli di operazioni letterarie che ambiscano ad andare in direzione della conoscenza e della spiegazione del mondo. Come a dire: o si fa della letteratura o si fa del giornalismo, e gli ibridi rischiano di falsare il vero e di sporcare il bello.

Orwell dal canto suo aveva già preventivamente risposto a questa critica: «Il mio libro sulla guerra civile spagnola è senza dubbio un libro schiettamente politico, ma è per gran parte scritto con un certo distacco e un certo riguardo per la forma. In esso ho cercato con ogni mezzo di dire tutta la verità senza sopraffare i miei istinti letterari. Ma tra le altre cose esso contiene un lungo capitolo, pieno di citazioni giornalistiche e cose simili, teso a difendere i trotzkisti che furono accusati di ordire un complotto con Franco. Chiaramente un capitolo del genere, che dopo un anno o due perderebbe d’interesse per ogni comune lettore, era destinato a rovinare il libro. Un critico che stimo mi fece su questo una ramanzina. “Perché ci hai messo dentro tutta quella roba? Hai trasformato in giornalismo quello che avrebbe potuto essere un buon libro.” Quello che diceva era vero, ma non avrei potuto fare altrimenti. Mi accadde di venire a conoscenza … che degli innocenti erano stati ingiustamente accusati, per cui se non fossi stato indignato non avrei scritto il libro

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9. Penso che alla luce della sua particolare concezione della letteratura Simon abbia invece apprezzato la testimonianza letteraria fornita da un altro militante inglese, Laurie Lee. Nel 1935, a ventun anni, Lee aveva attraversato a piedi in otto mesi tutta la Spagna, per fermarsi poi a svernare in un paesino nei pressi di Malaga. Lì lo aveva raggiunto nell’estate successiva la guerra, ed era stato rimpatriato. Ma ormai la Spagna gli era entrata nel cuore, e l’inverno successivo, alla fine del ‘37, quando quasi tutti coloro di cui ho parlato sinora erano rientrati in patria, aveva rivalicato clandestinamente i Pirenei per andare ad arruolarsi tra i repubblicani.

Cosa ci aveva portati lì, insomma? Le mie ragioni sembravano abbastanza semplici, nonostante una certa confusione: ma erano così quelle della maggioranza degli altri: fallimenti, miseria, debiti, la legge, tradimenti di mogli o amanti, la maggior parte delle motivazioni che spingevano uno a partecipare a guerre straniere. Ma nel nostro caso, credo, condividevamo qualcos’altro, che ritenevamo unico allora: la possibilità di compiere un gesto grandioso e semplice di sacrificio e di fede personali che poteva non presentarsi mai più. Certamente era l’ultima volta nel secolo che una generazione aveva una simile opportunità, prima che si addensasse la nebbia del nazionalismo e degli stermini di massa. […] Per il momento non c’erano mezze verità o esitazioni, avevamo trovato una nuova libertà, quasi una nuova morale, e scoperto un nuovo Satana: il fascismo.”

La vicenda spagnola aveva toccato nel profondo gli animi della gioventù progressista inglese. Come testimonia Eric Hobsbawm, “Chiunque entrasse nelle stanze degli studenti socialisti e comunisti di Cambridge in quei giorni era quasi certo di trovare in esse la fotografia di John Cornford, intellettuale, poeta, leader del Partito Comunista studentesco, caduto in battaglia in Spagna nel giorno del suo ventunesimo compleanno nel dicembre 1936.”

Il racconto che della propria esperienza Lee fa in Un bel mattino d’estate e in Un momento di guerra sarebbe piaciuto a Simon, perché l’autore non tenta di darsi alcuna spiegazione di quanto gli accade, e gliene accadono davvero di ogni colore. Dopo il rientro in Spagna la metà del suo tempo la trascorre in carcere, sospettato a più riprese di essere una spia, un infiltrato, un anticomunista, e rischia costantemente di essere messo al muro. Per il resto, è sballottato lungo il fronte senza mai sapere quale sia la sua destinazione e il suo ruolo, sino a trovarsi in mezzo alla battaglia di Teruel, che vive solo come una serie di scaramucce per salvare la pelle e sganciarsi dal nemico. Credo anch’io che questo racconto sia, tra tutti quelli che ho letto, il più capace di darci una immagine della realtà di cui fu fatta quella guerra: freddo, fame e pidocchi, ma soprattutto un senso di sospetto continuo, di rivalità interne e di assoluta disorganizzazione.

Altri due connazionali di Orwell e di Lee, i poeti Wynstam Auden e Stephen Spender, interpretano ancora diversamente il loro impegno. Sono già famosi, legati a quel circolo sofisticato che i critici più severi, tra cui Orwell stesso, chiamano “la cricca di Bloomsbury”. Arrivano in Spagna poco più tardi di Orwell, ai primi del 1937, mossi da un entusiasmo piuttosto snobistico, dettato da una confusa e superficiale simpatia per il comunismo. A Auden in realtà è stato chiesto di recarsi in Spagna perché il suo nome e la sua partecipazione possono esercitare un certo richiamo propagandistico, e non ha molto chiaro che ruolo può svolgere. Ad un amico scrive: “Probabilmente sarò un maledetto cattivo soldato. Ma come posso parlare per loro senza diventarlo?” I due si arruolano per prestare servizio nella sanità, ma vengono immediatamente spostati alla propaganda. Come scriverà Spender: “Il compito di Auden era di guidare autoambulanze. Mi domando ancora come facesse, perché non sapeva guidare”. Il che la dice lunga sullo spirito col quale l’avventura era stata affrontata.

E infatti, la militanza di Auden dura sette settimane. Dopo aver visto il fronte aragonese, lo stesso sul quale combatte Orwell, scrive di aver scoperto che “una parte di me chiede di vivere disperatamente”, ma è l’altra, quella che scopre le atrocità commesse da ambo le parti e la lotta per la spartizione del potere interna allo schieramento antifascista, ad avere la meglio. Fiaccato anche da condizioni quotidiane di vita cui non è assolutamente abituato, se la fila. Di quella esperienza è rimasto nella sua opera solo un piccolo poema, Spagna, 1937, ispirato proprio dalla visita al fronte, scritto immediatamente dopo il rientro e divenuto subito famoso. Ma Auden lo toglierà pochi anni dopo dalla raccolta poetica nella quale era stato pubblicato, e non tornerà mai più sull’argomento.

Orwell giudicava Spagna 1937 una delle poche cose buone uscite dal conflitto. Ma ad Auden non faceva altre concessioni. Non aveva mai nascosto il suo disprezzo per i “poeti effeminati” (“Volete piantarla di mandarmi queste stronzate? Io non sono uno dei vostri finocchietti alla moda come Auden e Spender… Io so cosa sta succedendo, cioè che il fascismo viene imposto ai lavoratori spagnoli con il pretesto della resistenza al fascismo”, scriveva alla “Left Review”, in risposta a un questionario per intellettuali) ed era rimasto molto urtato da un verso del poema stesso, quello in cui si parla de “[…] La consapevole assunzione di colpa nell’omicidio inevitabile”, nel quale leggeva una legittimazione delle epurazioni “necessarie” operate dagli stalinisti. “Qualcuno nell’Europa dell’Est liquida un trotskista, qualcuno a Bloonsbury ne scrive la giustificazione”. Evidentemente leggeva giusto, se Auden si era poi affrettato a cambiare il verso.

Il giovane Orweell24Le motivazioni che avevano portato Auden e Spender in Spagna sono espresse invece molto chiaramente dal secondo nella sua autobiografia, Un mondo nel mondo: andare a combattere dalla parte comunista in Spagna sembrava il solo modo possibile di essere antifascisti. «Il comunismo “occidentale” – scrive – in quegli anni era una cosa molto diversa. Uscivamo dal disastro del 1929, il capitalismo sembrava un sistema finito, incapace di trovare soluzioni, pareva invece che in Urss avessero la risposta, e la risposta stava in un modello economico e sociale ideale applicabile anche qui […] Eravamo consapevoli dell’abisso ma non vedevamo nuovi valori che potessero sostituire quelli che ci avevano sorretto nel passato. Nel giro di poche settimane, la Spagna divenne un simbolo di speranza per tutti gli antifascisti. Offriva un 1848 al ventesimo secolo».

Spender racconta di essere stato comunista solo per poche settimane. Il suo comunismo, come quello di molti altri suoi amici che con lui andarono a combattere dalla parte comunista in Spagna – tra cui Julian Bell, il nipote di Virginia Woolf, che ci morì – esprimeva in definitiva, a suo parere, il solo modo possibile di essere antifascisti. E giustifica così quel futile entusiasmo: “Bisogna aver vissuto quegli anni per capire cosa significasse. Le cose che si dicevano su Mosca, sui processi staliniani, avrebbero potuto essere, dopo tutto, un grande macchinazione della propaganda di destra”.

Mi sembra peraltro interessante una lettera scritta da Orwell a Spender l’anno successivo il loro rientro in Inghilterra. Interessante perché testimonia della estrema schiettezza del primo, ma al tempo stesso della sua capacità di correggere i propri giudizi quando dal piano politico scende su quello umano, senza tuttavia rinnegare nessuna delle proprie convinzioni. «“Mi chiedi come mai ti abbia attaccato nonostante non ti avessi mai incontrato, e d’altro canto abbia cambiato idea dopo averti incontrato. Non so se si può dire che ti abbia attaccato, ma ho certamente fatto osservazioni offensive sui “chiacchieroni Bolscevichi come Auden e Spender” o qualcosa di simile. Ti ho usato come simbolo del parlatorio Bolshie perché a) il tuo verso, ciò che ho letto di esso, non vuol dire molto per me, b) ti ho preso per una specie di uomo alla moda, di successo, un Comunista o un simpatizzante Comunista, e sono stato piuttosto ostile al Partito Comunista dal 1935, e c) perché non avendoti incontrato ti consideravo un tipo e dunque un’astrazione. Anche se quando ti ho incontrato non è capitato che ti piacessi, avrei dovuto comunque cambiare atteggiamento, perché quando incontri una creatura di carne ti rendi immediatamente conto che è un essere umano e non una specie di caricatura che incarna alcune idee. Anche per questa ragione non frequento i circoli letterati, perché so per esperienza che una volta incontrato e parlato con qualcuno non sarò più in grado di mostrare alcuna brutalità intellettuale nei suoi confronti, anche quando mi sentirei in dovere di farlo, come quelli del Labour Party, che più vengono pigliati a bastonate dai duchi e più si perdono

Non tutti i letterati inglesi hanno però militato nelle file dei repubblicani. Occorre ricordarlo, e non solo per par condicio. Quando scoppia la guerra civile il poeta Roy Campbell si trova già da diversi anni in Spagna. È un personaggio complesso, originario del Sudafrica, dove ha imparato a parlare la lingua zulu e dove sarà sempre poco tollerato per le sue posizioni anti apartheid e per la denuncia delle nefandezze del colonialismo: si era trasferito molto presto in Inghilterra, suscitando entusiasmo per le sue doti poetiche ma attirandosi anche molte antipatie per le critiche sarcastiche rivolte ai circoli “progressisti”, soprattutto al gruppo di Bloomsbury, che non sopporta (definisce Auden e Spender “fanciulli effeminati che suonano il piffero e si scuotono, annoiati” e “intellettuali ma senza intelletto / gente senza un sesso i cui sessi si trovano a metà”; con Spender fa anche a cazzotti). Aveva poi lasciato l’isola per trasferirsi sul continente, come moltissimi altri inglesi, per ragioni economiche. Condivide comunque con Orwell molte idiosincrasie nei confronti dell’establishment culturale.

Il giovane Orweell25In un primo momento Campbell non prende posizione, ma si è da poco convertito al cattolicesimo e le sue simpatie non vanno certo agli anarchici e ai comunisti. Tanto più dopo che assiste all’incendio delle chiese di Toledo, ai roghi di libri e di immagini sacre e alle fucilazioni di frati e suore. A questo punto si arruola nelle truppe carliste (ufficialmente come corrispondente di guerra), e in queste continuo militare sino alla fine del conflitto. Come Auden, non racconta direttamente la sua esperienza, ma la traduce in una serie di poesie, alcune delle quali molto efficaci “I nostri fucili erano troppo caldi per tenerli / La notte era fatta di acciaio lacerante, / E lungo la strada le raffiche rotolarono / Dove come in preghiera i cecchini si inginocchiano.” Nel ‘39, al termine del conflitto, scrive il poema Fucile Fiorente, e questo gli vale la patente definitiva di filo-fascista. In effetti è un’ode a Franco, ma Campbell protesterà sempre di credere non solo nella famiglia e nella religione, ma soprattutto nella tolleranza.

La guerra diventa nella sua poesia lo scenario di una battaglia superiore, apocalittica, tra le forze del bene e quelle del male, tra lo spirito e la materia, tra dio e il nulla, e il poeta si fa testimone delle persecuzioni contro il cristianesimo, i suoi luoghi di culto, i suoi fedeli. “Più persone sono state imprigionate per la Libertà, umiliate e torturate per l’Uguaglianza e massacrate per la Fraternità in questo secolo, che per motivi meno ipocriti, durante il Medioevo.”

A differenza di Auden, che allo scoppio del secondo conflitto mondiale si rifugia in America e si trincera dietro un opportuno e apolitico pacifismo, Campbell si arruola, viene accolto tra i fucilieri reali a dispetto dell’età e di condizioni fisiche precarie e viene inviato nell’Africa orientale britannica, dove si rivela prezioso per le sue conoscenze linguistiche. Non fa tutto questo per riscattarsi, non rinnega nulla della sua esperienza precedente, anche se rispetto al regime di Franco ha cambiato idea (e infatti, ha lasciato la Spagna per trasferirsi in Portogallo, considerato meno fascista).

Mi sembra strano non aver trovato nei saggi e negli articoli di Orwell alcuna menzione di questo personaggio, che pure godeva nell’ambiente letterario di una certa notorietà. Immagino però che non avesse molto da dire in proposito: in fondo Campbell si era schierato e aveva coerentemente combattuto sino alla fine per la parte scelta. Politicamente era stato un avversario, ma non lo aveva combattuto standogli alle spalle, ed eticamente meritava rispetto. O almeno, il silenzio.

Insomma, mi rendo conto che Orwell a questo punto sembra essere diventato solo un pretesto per parlare d’altri. Ma non è così. Credo che il confronto tra le sue esperienze e quelle di chi ne ha vissute di analoghe, o meglio, tra i resoconti che di quelle esperienze sono state date, possa riuscire illuminante per comprendere gli aspetti più particolari della sua mentalità e della sua personalità. Ciò spiega anche perché dalla carrellata sui partecipanti alla guerra di Spagna abbia escluso gli italiani, con l’eccezione di Chiaromonte. Non perché le esperienze di questi ultimi risultino meno significative, ma perché in quel periodo gli italiani, proprio per la loro condizione di esuli che il fascismo lo conoscevano bene, e da anni, avevano una consapevolezza politica diversa. Erano in sostanza molto più “politicizzati” degli altri, e arrivavano da un dibattito ormai più che decennale. Per nessuno di loro la partecipazione fu un’avventura: era in gioco qualcosa di molto più ampio della semplice realizzazione individuale. Non è un caso che una presenza così massiccia non abbia poi prodotto opere particolarmente significative sul piano della memorialista personale, ma solo resoconti di interpretazione o di giustificazione politica.

Lo spirito di quella partecipazione, almeno quello di chi accorse a combattere nelle file repubblicane, era comunque perfettamente espresso nelle famose parole di Aldo Rosselli: “È con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna. Oggi qui, domani in Italia. Ogni sforzo sembra vano contro la massiccia armata dittatoriale. Ma noi non perdiamo la fede. Sappiamo che le dittature passano e che i popoli restano. L’esperienza in corso in Ispagna è di straordinario interesse per tutti. Qui, non dittatura, non economia da caserma, non rinnegamento dei valori culturali dell’Occidente, ma conciliazione delle più ardite riforme sociali con la libertà. Non un solo partito che, pretendendosi infallibile, sequestra la rivoluzione su un programma concreto e realista: anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani collaborano alla direzione della cosa pubblica, al fronte, nella vita sociale. Quale insegnamento per noi italiani!

Lo spirito non era poi in fondo così diverso da quello che animava Orwell. Molto diverso fu invece l’insegnamento che da quella vicenda gli arrivò.

Una bibliografia provvisoria

George Orwell, Un’autobiografia involontaria, Rizzoli, 2021

George Orwell, Nel ventre della balena, Rizzoli, 2013

George Orwell, Giorni in Birmania, Rizzoli, 2013

George Orwell, Senza un soldo a Parigi e a Londra, Mondadori, 1966

George Orwell, La strada di Wigan Pier, Mondadori, 1960

George Orwell, La fattoria degli animali, Rizzoli, 2013

George Orwell, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, 1948

George Orwell, 1984, Rizzoli, 2013

George Orwell, Romanzi e saggi, Mondadori, Meridiani, 2000

George Orwell, Una boccata d’aria, Mondadori, 1966

George Orwell, Fiorirà l’aspidistra, Mondadori, 1960, 2006

George Orwell, Diari di guerra, Mondadori, 2007

AA VV, Orwell e i maiali della libertà, Bevivino editore, 2004

Bernard Crick, George Orwell, Il Mulino, 1991

Christopher Hitchens, La vittoria di Orwell, Scheiwiller, 2008

Filippo La Porta, Maestri irregolari, Bollati Boringhieri, 2007

Ruyard Kipling, Kim, Adelphi, 2000

Ruyard Kipling, Racconti del mistero e dell’orrore, Bompiani, 1990

Ruyard Kipling, Tutte le opere, Mursia, 1964 (4 voll.)

Ruyard Kipling, Qualcosa di me, Einaudi, 1987

Jack London, Il popolo dell’abisso, Mondadori, 2018

George Gissing, Sulla riva dello Ionio. Cappelli, 1957

George Gissing, Il giornale intimo di Henry Ryecroft, Paoline, 1962

Simone Weil, La condizione operaia, Edizioni di Comunità, 1952

Simone Weil, La prima radice. Edizioni di Comunità, 1954

Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933-1943, Pratiche, 1998

André Malraux, La speranza, Bompiani 1986

Nicola Chiaromonte, Il tempo della malafede e altri scritti, Edizioni dell’Asino, 2013

Nicola Chiaromonte, Scritti politici e civili, Bompiani, 1976

Arthur Koestler, Dialogo con la morte, Il Mulino, 1993

Claude Simon, Le Georgiche, Lavieri edizioni, 2012

Claude Simon, Le Palace, Éditions de Minuit, 1962

Laurie Lee, Un momento di guerra, L’Ippocampo, 2007

Laurie Lee, Un bel mattino d’estate, L’Ippocampo, 2008

Wystan Auden, Un altro tempo, Adelphi, 1997

Stephen Spender, Un mondo nel mondo, Barbès, 2009

Roy Campbell, Flowering Rifle, A poem from the battlefield of Spain, Longmans & Company, 1939

Utili e interessanti:

Aldo Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna, Einaudi,1959

Sara Polverini, Letteratura e memoria bellica nella Spagna del xx secolo, Firenze University Press, 2013

(Fine della prima parte)

[1] “A viva voce”, in Racconti del mistero e dell’orrore, Bompiani 1990

[2] La cifra più attendibile per la forza del corpo di volontari stranieri che combatterono per la Repubblica è di circa 35.000. Hugh Thomas, il principale storico della guerra, parla di 40.000.

Il lato sinistro della storia 1

(parte prima)

di Paolo Repetto, 28 gennaio 2022

Per aiutarvi ad ammazzare il tempo, in attesa che la variante omicron ci abbia visitati tutti e che venga eletto un nuovo presidente della repubblica, proponiamo i capitoli iniziali di uno studio in progress (in realtà fermo da un paio d’anni, dall’epoca pre-covid). In tempi di siccità si spremono anche i cactus, ed è quello appunto che stiamo facendo, visto che l’auspicato ricambio generazionale non si lascia scorgere. Dovrebbero seguire ulteriori capitoli, ma non promettiamo nulla. Al momento preferiamo considerarla un’opera aperta, non a una molteplicità di interpretazioni, ma ad integrazioni e sviluppi che arrivino da e si muovano verso ogni possibile direzione.

 

Il mistero esistenziale
segna tutta la mia vita
Sono un uomo o un animale
mi domando ad ogni uscita.[1]

Da piccolo, intendo dire fino attorno ai sette o otto anni, non ero quel che si dice un bambino propriamente sveglio. O almeno: lo ero per certe cose, leggere, scrivere, disegnare, ma sul versante appena appena più pratico ero un vero disastro. Oggi mi certificherebbero subito gravi disturbi dell’attenzione, e potrei tranquillamente fregarmene di studiare, e dedicarmi a tempo pieno ai miei libri, ai miei fumetti, ai miei giochi preferiti. All’epoca però non funzionava così, e per sopravvivere dovevi comunque adeguarti. Io, ad esempio, ho continuato a lungo ad avere dubbi sulla localizzazione della destra e della sinistra: per cui per distinguerle ricorrevo al segno della croce. Essendo naturalmente destrimane la cosa mi aiutava (fossi stato mancino genitori, preti e maestre mi avrebbero “rieducato”, con le buone o con le cattive), e così col tempo la distinzione è diventata automatica, nel senso che non faccio più il segno della croce, ma il riferimento non conscio al braccio persiste.

Qualcosa di quella confusione deve però essermi rimasto in testa, per cui a dispetto dell’automatismo fisico non sono mai riuscito in verità a raccapezzarmi perfettamente nelle lateralizzazioni. Soprattutto poi quando il terreno di gioco è quello della politica.

Avete già capito dove voglio andare a parare. Ci risiamo. Per l’ennesima volta (è l’ultima, lo giuro) torno sul tarlo che da tempo mi rosica, anche perché spesso è stuzzicato dagli amici: ma io, alla fin fine, sono di destra o di sinistra?

So benissimo che è un tormentone insensato e anacronistico, visto che queste appartenenze, già molto confuse di per sé, da quando il “pensiero liquido” ha ufficialmente cancellata ogni distinzione sono concordemente schifate da una parte e dall’altra: e anche perché di una mia eventuale “collocazione” importa poi in realtà a nessuno. Ma tant’è, il rosichìo del tarlo continua, è fastidioso, e a me importa. Perché liquido non lo sono affatto, nelle situazioni di ambiguità mi trovo a disagio e alle differenze ci tengo. Ed è anche significativo della confusione dei tempi il fatto stesso che uno si ponga la domanda. Visto dunque che una qualche risposta vorrei riuscire a darmela, il modo migliore che ho è costringermi a rifletterci su per iscritto, per procedere con un minimo di ordine. Per Roland Barthes scrivere era un verbo intransitivo: per me è un riflessivo.

Confesso subito però che quello dell’appartenenza politica, pur nascendo da un interrogativo reale, è solo un pretesto: un trampolino per tuffarmi un po’ più in profondità. Quando ho iniziato a pensare a questo pezzo ero convinto di cavarmela con quattro paginette, invece la cosa mi ha preso la mano e la curiosità ha alzato l’asticella. Ciò che cerco davvero è infatti una chiave di interpretazione che chiarisca, sia pure molto all’ingrosso, le mie convinzioni e i comportamenti che ne conseguono, non solo nella sfera politica, ma in tutti gli ambiti relazionali. Cerco ciò che mi distingue, per capire se la sempre più ricorrente sensazione di estraneità è frutto solo del trascorrere degli anni o rivela un’anomalia rispetto a una misura universale. È in fondo una curiosità fine a se stessa: voglio semplicemente capire un po’ di più, e non mi aspetto che una maggiore consapevolezza, quale che sia, possa poi influire su quei comportamenti, o addirittura modificarli. Fumo da cinquant’anni, e a dispetto di ogni negativa evidenza non ho mai cercato di smettere. Ma il sapere perché lo faccio mi dà una certa illusione di controllo.

Ora, non essendo appassionato di oroscopi e nutrendo ancor meno fiducia nella psicanalisi, nella ricerca di questa chiave, della mia, ma per forza di cose anche di quella universale, mi affiderò solo al pochissimo che ho appreso dalla biologia, dall’antropologia e dalla storia, saltando da un ambito all’altro, incrociando e collegando, magari del tutto arbitrariamente, ciò che credo di aver capito. Non so se ne verrà fuori un identikit verosimile, ma penso che almeno il percorso possa risultare in qualche misura interessante anche per altri. In fondo, non sono poi così originale. Per questo cercherò di documentarne le tappe.

Con un’avvertenza. Dietro questo scritto non ci sono geniali intuizioni: è tutto molto semplice e scontato. Lo schema suppone un tot di innato, un tot di acquisito e una percentuale di “costruito”. Su un fondo di determinazione genetica, in pratica il corredo che ci trasmettono i genitori, gli errori di replicazione del DNA e le contingenze storico-ambientali hanno sviluppato delle variabili, quelle che danno origine al carattere individuale. È storia comune, nemmeno molto diversa dalla lettura zodiacale che fa il mago Otelma: nasci con un segno (l’influsso astrale, in questo caso quello genetico) e lo declini poi in base alle congiunzioni o alle opposizioni dei pianeti. Ma io, da buon Scorpione[2], tendo a sottrarmi alla regola, e finisco per complicare le cose: mi piacciono i quadri molto mossi. E per sapere quanto lo è il mio devo capire quanto è davvero immobile quello comune.

Il lato sinistro 02

  1. Da che parte sto?

Dunque: sto a destra o a sinistra? Visto che sono partito da questa domanda proseguo per il momento nel gioco, e penso che la mossa più logica d’apertura sia riesaminare i significati originari delle due categorie politiche e seguire, sia pure per sommi capi, i loro aggiustamenti successivi, affrontando poi su questa base la presunta crisi identitaria odierna (e la mia in particolare)[3].

Fino a che il confronto è con Berlin, con Bobbio e con altri filosofi “classici” della politica devo dire che le cose funzionano, nel senso che bene o male è ancora possibile “riconoscersi”. In buona sostanza, come riassume perfettamente Bobbio, “il criterio rilevante per distinguere la destra e la sinistra è il diverso atteggiamento rispetto all’ideale dell’uguaglianza, e il criterio rilevante per distinguere l’ala moderata e quella estremista, tanto nella destra quanto nella sinistra, è il diverso atteggiamento rispetto alla libertà”. Ovvero: stai a destra se poni l’accento sulla libertà (con possibili eccezioni estremistiche, quando quest’ultima viene sacrificata ad una qualsivoglia presunta “identità” tradizionale), stai a sinistra se lo poni sull’uguaglianza, sulla “giustizia sociale” (anche qui, in uno spettro molto vasto di accezioni, che arrivano fino alla sovrapposizione con quelle della destra estremistica). All’interno di questo schema, come si vede, col variare dei rapporti percentuali tra gli elementi in gioco le combinazioni possibili sono infinite, e le appartenenze si sfumano. Oggi più che mai, perché è venuto a mancare, o almeno è diventato meno visibile, per l’una parte e per l’altra, l’antagonista. È difficile quindi definirsi, come si faceva un tempo, semplicemente per contrasto, puntando sul “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Va (andrebbe) chiarito ciò che intendiamo quando parliamo di uguaglianza (o più genericamente di giustizia sociale) e di libertà.

Quanto all’eguaglianza, ad esempio, io la interpreto così: tutti devono poter godere di eguali opportunità, il che significa azzerare (almeno tecnicamente: parlo di condizioni economiche, di opportunità scolastiche) gli svantaggi culturali e compensare quelli naturali: ma una volta realizzate queste condizioni, ciascuno è poi responsabile delle sue ambizioni e delle sue scelte, degli eventuali successi e delle possibili delusioni. L’eguaglianza ha da essere la condizione di partenza, non quella d’arrivo.

Perché qui poi entra in ballo la libertà: che è appunto libertà di fare delle scelte (Berlin la definisce libertà “positiva”, libertà di), purché queste non vadano a ledere la libertà altrui, e quindi di perseguire gli obiettivi e gli stili di vita più diversi. Le scelte sono veramente tali quando non sono condizionate da costrizioni o da forme subdole di persuasione (libertà da, o libertà “negativa”), ma nemmeno dall’invidia per quelle altrui e dalla imitazione puramente competitiva. Quando sono cioè totalmente responsabili e coerenti.

Per essere chiari: se ritengo non valga la pena dannarmi l’anima per possedere una casa al mare o in montagna (ma anche semplicemente per possederne una), e preferisco dare la precedenza ad altri valori o a più immediate soddisfazioni, non devo poi recriminare sul fatto che qualcuno possa permettersela: sempre che mi sia stata data in partenza la stessa possibilità e che quel qualcuno non abbia acquistata la casa coi soldi fatti sulla mia pelle. L’esempio è talmente banale da sembrare persino stupido, ma a mio avviso riassume, sia pure in maniera semplicistica, le dinamiche elementari dei rapporti (e dei conflitti) sociali. In base a questo criterio potrei dire, come Berlin, che “sto nel mezzo: sono all’estrema destra della sinistra e all’estrema sinistra della destra[4].

Questa posizione rientra ancora in una concezione “classica” della sinistra. Persino Berneri e gli anarchici, almeno quelli seri, l’avrebbero sottoscritta: ma non corrisponde, per contro, a quella marxista, o meglio a quella declinazione del marxismo di cui si è fatto monopolista il comunismo novecentesco. Credo si debba assumere un terzo criterio per una definizione corretta dell’essere “a sinistra”: essere consapevoli che non potrà mai esistere una “società giusta” (magari una un po’ più giusta di altre, si), ma essere convinti che possano esistere, ed esistano, uomini giusti. La differenza è netta: io parlo di una “rigenerazione sociale” che deve partire dal basso, dalla presa di coscienza e dall’assunzione di responsabilità da parte dei singoli individui, mentre il marxismo-leninismo parla di una “rivoluzione” calata dall’alto e di individui eteroguidati, “rieducati”. Dal momento che ritengo che la vicenda cambogiana, per citarne una, non costituisca un’aberrazione, ma sia il naturale esito di quell’idea spinta sino alle sue estreme conseguenze, è chiaro che non ho dubbi: io sono “la sinistra”, mentre gli altri sono quando va bene degli illusi, quando va male dei criminali.

Il problema si complica invece, come dicevo, allorché provo a confrontarmi tanto con le declinazioni ultime, post-comuniste, del significato dello “stare a sinistra”(da Toni Negri ai vari neo-populismi e neo-machiavellismi), quanto con i teorizzatori dell’avvenuta dissoluzione delle categorie contrapposte, da Alain de Benoist a Maffesoli e, dalle nostre parti, da Tarchi a Cacciari: un po’ perché ci capisco poco, un po’ perché c’è davvero poco da capire, e comunque, quando accade, non ne trovi due che concordino, dal momento che gli scenari coi quali confrontarsi si sono complicati parecchio. E infine perché, a conti fatti, io stesso non concordo con nessuno, pur riconoscendo che il mio percorso, in questi ultimi quarant’anni, è stato comune a quello di molti altri, a volte solo per alcuni tratti, in qualche caso sino in fondo. Non sempre però lo stesso sentiero, anche quando si snoda attraverso gli stessi panorami, porta a cogliere identici scenari. Ma su questo torneremo.

Quindi: o il problema dell’appartenenza, del posizionamento su una sponda o sull’altra, davvero non ha più senso, oppure va affrontato partendo da molto più lontano (in fondo la valenza politica di “destra” e di “sinistra” ha solo tre secoli). Per esempio, prendendo spunto dalle analisi a vasto raggio delle motivazioni dei comportamenti umani sviluppate da René Girard, che individua nel “desiderio mimetico” e nel risentimento che ne consegue il senso originario dell’ambiguità delle relazioni sociali. Oppure da quelle storico-sociologiche di Alexis de Tocqueville, che scriveva “Ho per le istituzioni democratiche un gusto della mente, ma sono aristocratico per istinto”, riassumendo perfettamente tutto quello che andrò a dire.

Ma anche su questo tornerò. L’ho anticipato solo per dire che per comprendere l’origine delle nostre propensioni, anche di quelle politiche, è necessario andare oltre il lessico politico. Capire cioè se classificazioni come “di destra” e “di sinistra” abbiano un carattere ed una origine puramente convenzionali[5], oppure se ci siano alle loro spalle delle ragioni di ordine “naturalistico”. È opportuno allora ripensare i concetti di “destra” e “sinistra” andando a ritroso nel tempo, partendo da una primordiale connotazione fisiologica. Questo porta a sconfinare dal discorso prettamente “politico” verso ambiti che toccano la linguistica, l’antropologia, la storia naturale, la biologia e la neurofisiologia, per poi rientrare attraverso la sociologia. Il rischio è quello di dar vita aduno sconclusionato helzapoppin, ma potrebbero anche scaturirne elementi di conoscenza curiosi e inattesi.

Il lato sinistro 03

  1. Un tuffo nella linguistica

La risalita a monte ha preso avvio dalla casuale riscoperta di un libro che possedevo da un pezzo e davo per scontato. Si tratta di “La rappresentazione collettiva della morte”, di Robert Hertz, edito da Savelli più di quarant’anni orsono. Oltre al saggio che fornisce il titolo, il volume contiene un breve studio su “La preminenza della mano destra”, che è un capolavoro di intuizione e di sintesi. Quest’ultimo non ricordavo di averlo letto. Probabilmente, a dispetto delle sottolineature che ho riconosciuto per mie, si era trattato di una lettura superficiale, perché la sua ripresa ha costituito un’autentica rivelazione (ma forse nemmeno questo è del tutto vero: forse certe cose avevano continuato a girarmi in testa anche dopo che ne avevo dimenticato la fonte).

Hertz era un brillante studioso tedesco di origine ebraica, cresciuto alla scuola sociologica di Durckheim e morto precocemente combattendo sul fronte francese durante la prima guerra mondiale. Sulle circostanze di questa morte e sul personaggio nel suo assieme varrà senz’altro la pena soffermarci in altra occasione: per il momento mi interessa invece la domanda con la quale si apre il secondo saggio: “La mano destra è il simbolo o modello di ogni aristocrazia, la mano sinistra di tutte le plebi. Quali sono i titoli di nobiltà dell’una, e da dove deriva la servitù dell’altra?”.

Per farla breve riassumo subito la risposta dell’autore. Fermo restando che l’uso prevalente della mano destra – ma in realtà di tutti gli arti e degli organi sensoriali situati nel lato destro del nostro corpo – ha una motivazione prevalentemente fisiologica (come vedremo più oltre), è interessante tutto ciò che ne consegue: l’identificazione cioè della destra con il positivo e la “demonizzazione” della sinistra, quella che potremmo definire l’elaborazione simbolica della differenza, frutto di un lungo lavoro della cultura collettiva. Secondo Hertz questo lavoro è legato al fatto che noi umani tendiamo a leggere il mondo, la realtà che ci circonda, in base a uno schema di polarità contrapposte. Dalla quotidiana alternanza delle esperienze fisiche esterne (luce e buio, caldo e freddo, vita e morte) e di quelle psicologiche interne (gioia e dolore, amore e odio, ecc …) abbiamo desunto la divisione dell’universo in due poli, che nella primitiva interpretazione religiosa rappresentano l’uno il sacro e l’altro il profano. Entro queste polarità si iscrivono rispettivamente tutte le coppie oppositive esistenti: il puro e l’impuro, il bene e il male, la forza e la debolezza, ecc …

Ora, questa lettura del mondo attraverso categorie oppositive ci è necessaria per elaborare un linguaggio della differenza, ai fini pratici immediati della sopravvivenza (commestibile-velenoso, innocuo–pericoloso) e a quelli sociali e identitari di difesa o offesa (amico-nemico). Le polarità originariamente religiose si secolarizzano poco alla volta in polarità sociali, e il funzionamento di ogni comunità finisce per fondarsi su una strutturazione bipolare: dentro-fuori, identità-diversità.

Il lato sinistro 04

Fin qui Hertz. A questo punto, con parecchia presunzione, inserisco una digressione mia, sia pure seguendo la linea da lui tracciata. Mi sposto sull’analisi lessicale, che mi è costata decine di ore di ricerche, ma mi ha regalato grosse sorprese e molte soddisfazioni.

Protagonista principale e al tempo stesso testimone chiave del processo che volevo ricostruire, sin dalle origini più remote cui possiamo risalire, è il linguaggio. Il perché lo vedremo. Per ora ci basti sapere che negli idiomi protoindoeuropei esiste una radice “dek” (presente in “tekh’s”, che indica appunto la mano destra, e più genericamente il lato destro) dalla quale germogliano una serie di voci tutte riferibili a valori positivi: dekos, ad esempio sta per onore, giustizia, bontà, decoro, ordine, misura, gradevolezza. Il lessema dek connota e identifica il campo del positivo, di ciò che è favorevole. E mantiene questa valenza nelle successive derivazioni: nel sanscrito dàkša (idoneo, capace), ad esempio. La discendenza lessicale poi è perfettamente rintracciabile nella lingua greca (dove destro è dexiteron) e in quella latina (dexter), per arrivare infine alle lingue neoromanze, ma anche a quelle germaniche: e assieme al suono si perpetua la valenza simbolica. Ad esempio, in latino c’è un tema verbale cui fanno capo azioni positive: decet, oppure, doceo, o ancora disco. Nell’antico germanico c’è Zeche, ordine, nell’irlandese dess (appropriato) e deis (compagno, amico).

Nella lingua italiana i termini derivati o direttamente apparentati con la destra sono una folla. Addestrare è impartire un buon insegnamento; maldestro è colui che sbaglia; destrezza è al contrario segno di abilità; il destrosio è un energetico, mentre il destriero è un cavallo di razza; avere il destro significa godere di una buona opportunità. Troviamo anche, oltre ai termini strettamente connessi con destra, quelli riferibili al suo equivalente, la “dritta” (che è ancora usato nel linguaggio marinaresco), dal quale abbiamo dritto, diritto, dirittura, ecc … Dritta è probabilmente traslato dal francese droite, che al maschile sta sia per diritto (sostantivo) che per giusto, onesto, dritto (aggettivi). Ha un equivalente nelle lingue celtiche e sassoni: right significa destro e significa anche giusto, regolare. Anche in italiano locuzioni come tenere la schiena dritta, prendere la dritta via, guardare dritto negli occhi, hanno rapporto con un atteggiamento giusto e leale. E anche i gesti della quotidianità sono orientati in tal senso: a destra si dà la precedenza; a destra si avvita per stringere, mentre a sinistra si allenta, ecc …

Non accade la stessa cosa per il concetto di sinistra. Non esiste cioè un radicale originario altrettanto evidente, e già questo è sintomatico. Mentre la radice da cui originano la destra e l’universo di significati positivi ad essa legati è unica, ed ha attraversato tutte le epoche e le culture linguistiche (almeno quelle occidentali), il concetto di sinistra non presenta alcuna stabilità morfologica, e questa assenza di continuità suggerisce di per sé l’idea di disordine. Possiamo risalire solo al latino sinis, che significherebbe “a differenza di”, e che combinato col suffisso -ter (di comparazione e opposizione) dà sinister. Indica ciò che è diverso dalla norma, in particolare “la mano anormale”. Pare che in realtà nel mondo romano il termine non avesse sempre un significato negativo, almeno nei rituali religiosi (i romani officiavano rivolgendosi a sud, e il levante, dal quale provenivano gli auspici positivi, veniva a trovarsi a sinistra): ma nella quotidianità prevaleva senz’altro l’abbinamento con il negativo, la disgrazia, la disonestà, derivante direttamente dalla interpretazione greca (i greci officiavano rivolti a settentrione). Non a caso Catullo quando bacchetta Asinio Marrucino fa riferimento al “cattivo uso della mano sinistra”.

Sinister, tra l’altro, convive nel latino con un termine più antico, laevus, da cui l’inglese attuale left (originariamente debole, inutile): ma in inglese è presente anche sinister, che non indica una condizione fisico-geografica, ma si riferisce solo ai significati negativi e infausti del lessema. E anche lo spagnolo ha una parola derivata dal latino sinistrum: siniestro, i cui significati ricalcano quelli del corrispettivo italiano, compreso l’incidente.

Questo ci riporta all’uso lessicale italiano. Come sostantivo un sinistro è un appunto un incidente, una disgrazia: come aggettivo sta ad indicare sgradevole, sfavorevole, tragico, sciagurato, minaccioso, pauroso, funesto, nefasto, cattivo, maligno, ecc … L’oppositivo di dritta è, guarda caso, manca, che dichiara esplicitamente una condizione imperfetta, di assenza. In francese accade pressappoco la stessa cosa: a droite si oppone gauche, che deriva da gauscir, deformare, alterare, curvare.

Direi che c’è già materia a sufficienza per tirare un po’ di somme. Tutta questa esibizione di competenze filologiche che in realtà non possiedo sta a spiegare come “destra” e “sinistra” diventino, a partire da una tendenza fisiologica e attraverso la mediazione del linguaggio, i simboli e la sintesi di una opposizione ancestrale intrinseca all’universo.

Questo processo lo possiamo constatare già nella Bibbia, dove la “mano destra” viene menzionata molto più spesso della sinistra,e quando si parla della gloria e della potenza di Dio si precisa che “è piena di giustizia la tua mano destra” (Salmo 48,11) e che “il Signore con la mano destra compie prodigi” (Sal 118,15-16), ma anche che “La tua destra, Signore, terribile per la potenza, la tua destra, Signore, annienta il nemico” (Es 15,6. 12). Il riferimento, almeno quando a parlare è il Signore, è sempre ad una sola mano. Dio con essa crea (“Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie” (Is 66,1-2,), si prende cura, sostiene, salva, offre protezione, ma anche giudica, corregge, condanna e punisce. La destra indica la potenza e l’abilità di Dio, la dolcezza e l’elezione, la capacità di uccidere e di guarire. Le stesse attribuzioni, soprattutto quelle connesse alla misericordia, le ritroviamo nel Nuovo Testamento, nel costante richiamo alla mano risanatrice o benedicente di Gesù.

Ma il processo si sviluppa contemporaneamente nel mondo greco. È significativo ad esempio che Pitagora parta dall’opposizione tra i numeri (pari/impari) per dedurne la suddivisione di tutta la realtà in categorie antitetiche, e dunque una visione dualistica del mondo. La sua dottrina individua dieci coppie di contrari, gli “opposti pitagorici”, una delle quali è appunto destra-sinistra. Alla destra corrispondono unità, quiete, retta, luce, bene, maschio, limitato, dispari e quadrato. Alla sinistra molteplicità, movimento, curva, tenebre, male, femmina, illimitato, pari e rettangolo. Insomma, a destra sta la perfezione, perché perfezione nel mondo classico comporta anche il senso del limite (perfectus=compiuto, definito), mentre la sinistra è imperfezione, disordine.

Sia nella cultura classica che in quella giudaico-cristiana, se la destra è associata all’idea del divino la sinistra è invece collegata al magico. Nel mondo pre-cristiano tuttavia non sempre quest’ultimo legame comporta una valenza negativa: a volte l’uso della mano sinistra ha un valore apotropaico. Nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, ad esempio, viene prescritto per le operazioni magico-mediche curative e profilattiche: le piante medicinali vanno raccolte con la mano sinistra. Il cristianesimo medioevale sottolinea invece la distinzione tra magia bianca e magia nera, e naturalmente le due sfere vengono “lateralizzate” secondo il modello oppositivo. Quando poi la sfera del sacro si formalizza in canone (ad esempio con la controriforma) quella magica assume connotati equivoci e torbidi (e scatta la caccia alle streghe).

Il Cristianesimo ribadisce comunque l’opposizione: “dopo il giudizio, i giusti siederanno alla destra del padre, gli empi alla sinistra; i primi erediteranno il regno, i secondi bruceranno tra le fiamme dell’inferno”. (Matteo 25, 31-46). Nella quasi totalità delle raffigurazioni del peccato originale – da Wiligelmo a Michelangelo, a Rubens, ecc … – Eva coglie la mela con la sinistra, e con quella la porge ad Adamo. (Sempre nella cappella Sistina, però, Michelangelo mostra le dita della mano destra di Dio che toccano quelle della sinistra di Adamo. E questa non me la spiego, se non per ragioni di equilibrio della composizione – a meno che non stia a significare che prima del peccato, in un universo non diviso, ai fini della conoscenza destra e sinistra erano equivalenti).

La demonizzazione della sinistra è fatta naturalmente propria anche dall’islam. La tradizione islamica afferma che ogni cattiva azione viene iscritta sul braccio sinistro, mentre le buone azioni vengono iscritte sul braccio destro, e che il Giorno del Giudizio universale ogni uomo che avrà commesso del male tenterà, invano, di tenere il braccio sinistro nascosto dietro la schiena. Allo stesso modo, nel mondo mussulmano durante lo svolgimento dei pasti è obbligo utilizzare la mano destra, perché la sinistra è considerata haram, proibita in quanto impura. Ed è necessario lavarsi le mani cominciando dalla destra.

Bene. Abbiamo visto come la destra diventi in questo modo la depositaria di un comportamento adeguato rispetto ad un ordine stabilito (dalla natura, dagli dei, dagli uomini), mentre la sinistra rimanda alla trasgressione, all’alterazione, all’instabilità e all’inaffidabilità, e suscita sentimenti di inquietudine e di avversione.

Tutto questo trova espressione naturalmente anche nei rapporti tra i generi, e nella considerazione riservata a quello più debole. Accennavo a quel che ne pensava Pitagora, e aggiungo che i suoi connazionali erano tutti perfettamente d’accordo[6]. E non solo loro: troviamo che in epoca storica questa concezione è stata condivisa da tutte le culture e a tutte le latitudini[7]. Anche per le popolazioni più primitive destra è la parte del fegato, e fegato sta per “coraggio”. Una virtù solare, prerogativa, nella dominante concezione maschilista, degli uomini. Sinistra è invece la parte del cuore, quella che governa il lato femminile del sentimento (ciò che viene rimarcato soprattutto dalla cultura medioevale); è la parte sotterranea, satanica, passionale.

Pierre Bourdieu sintetizza in questo modo quanto ho cercato sino ad ora di raccontare: «Dunque, attraverso questi apprendimenti corporei, vengono insegnate delle strutture, delle opposizioni tra l’alto e il basso, tra il diritto e il curvo. Il diritto evidentemente è maschile, tutta la morale dell’onore delle società mediterranee si riassume nella parola “diritto” o “dritto”: “tieniti dritto” vuol dire “sii un uomo d’onore, guarda dritto in faccia, fai fronte, guarda nel viso”. La parola “fronte” è assolutamente centrale, come in “far fronte a”. In altri termini, attraverso delle strutture linguistiche che sono, allo stesso tempo, strutture corporali, si inculcano delle categorie di percezione, di apprezzamento, di valutazione, e allo stesso tempo dei princìpi di azione sui quali si basano le azioni, le ingiunzioni simboliche (le ingiunzioni del sistema di insegnamento, dell’ordine maschile, ecc.). In sintesi, è attraverso una logica disposizionale che l’ordine si impone.»

Il “comportamento adeguato” di cui parlavo sopra è oggetto nel corso del tempo di una codificazione. Si elabora un rituale al quale non è ammesso derogare, che governa gli scambi e le relazioni (con la divinità, o tra gli uomini). Si pensi ad esempio al motivo del duello che crea la fama, sinistra appunto, dell’Innominato: il non voler cedere la destra. Questa ritualizzazione è necessaria per diminuire gli attriti, le incomprensioni, le incertezze. Il comportamento adeguato viene riassunto in formule, e sacralizzato: diventa perciò appannaggio della casta sacerdotale, e successivamente di quella dominante (l’aristocrazia). La cosa si ripete in genere in conseguenza di ogni scossone, di ogni momento di grande trasformazione sociale. Nel rinascimento, ad esempio, quando la vecchia nobiltà di spada cede il passo a quella di roba, e gli assetti sociali vengono sconvolti dall’ingresso di nuovi attori, si moltiplicano i manuali di “comportamento adeguato” (il Galateo, Il Cortegiano, ecc …).

Hertz (e finalmente torniamo a lui) sottolinea però ancora un altro aspetto, quello in fondo più pertinente alla domanda dalla quale siamo partiti. Ritiene che la polarizzazione culturale abbia a sua volta un effetto reversivo, e nel contempo amplificatorio, proprio sulla tendenza fisiologica originaria. In altre parole, il fatto che la maggior parte della popolazione utilizzi la mano destra è almeno in parte imputabile all’essere orientata la nostra società in quella particolare direzione. Il che spiega l’accanimento col quale in passato si perseguitava o si cercava di correggere la “devianza” dei mancini. Ma anche nel presente, malgrado non pesi più su di essi un vero e proprio stigma sociale, è necessario che i mancini imparino, per “destreggiarsi” appunto nei comportamenti quotidiani, a utilizzare la mano destra, mentre i destrorsi non hanno la necessità opposta: per fare qualche esempio, si scrive da destra a sinistra, ciò che complica parecchio la vita ai mancini (tanto più quando devono scrivere sui tavolini reclinabili attaccati al bracciolo destro delle sedie), il cambio della macchina va gestito con la mano destra (tranne in Inghilterra, ma non per una maggiore apertura, piuttosto per spirito di contraddizione[8]), ecc … Sto banalizzando un ragionamento complesso, ma la sostanza è quella.

L’interpretazione di Herzt è senz’altro suggestiva, a patto di non estremizzarla. In effetti la lateralità specifica nell’uso degli arti è condivisa da altri primati, ma in essi non è altrettanto caratterizzante come nell’uomo. In genere usano quasi indifferentemente la destra e la sinistra. E questo parrebbe suffragare l’interpretazione di Hertz. Ma la spiegazione non può essere solo di carattere socio-antropologico. A oltre un secolo dalla formulazione di quella ipotesi, lo sviluppo delle neuroscienze, la conoscenza dei meccanismi cerebrali, le nuove scoperte della paleontologia, ecc … hanno modificato di parecchio l’approccio interpretativo.

Voglio dire che la prevalenza negli umani dell’uso della mano destra, per quanto poi enfatizzata da un accumulo di fattori sociologici e culturali, ha un’origine più complessa. Occorre dunque risalire oltre, fino ad un meccanismo ancora più remoto, quello biologico. Temo che la cosa mi stia prendendo la mano (destra, naturalmente: anche sulla tastiera). In effetti non mi sto più chiedendo se sono di destra o di sinistra, ma quanto l’idea stessa di questa appartenenza sia indotta da fattori culturali e quanto da una eredità biologica. In sostanza, se si sceglie o meno di essere “sinistrorsi” o “destrorsi”. Mi sto addentrando in un territorio pericoloso, pieno di sabbie mobili. (…)

Il lato sinistro 05

Note

[1] Interpolazione da Sandro Penna. L’originale recita così: “Il problema sessuale/ prende tutta la mia vita/ sarà un bene o sarà un male/ mi domando ad ogni uscita”.

[2] Max Jacob nel suo “Specchio di astrologia” associa questo segno all’occulto e al mistero. Mi ci riconosco poco, a meno di voler intendere che si può risultare “misteriosi” anche senza esserlo affatto, solo per motivi caratteriali. Concordo invece sull’idea che sia un segno amante del rischio (Jacob dice: più di tutti gli altri). In effetti spesso il rischio sono andato a cercarlo, ma non per dimostrare di essere il più coraggioso: l’ho fatto in genere quando ero solo, semplicemente perché le situazioni spericolate mi divertivano. Anche sul fatto che sia piuttosto difficile prendere in giro uno Scorpione sono d’accordo, non perché non abbia il senso dell’umorismo, ma perché ne ha sin troppo, e lo esprime attraverso l’ironia e più spesso ancora col sarcasmo. Quest’ultimo può essere anche interpretato come una manifestazione di cattiveria, ma in realtà è una reazione di risposta a sollecitazioni troppo idiote. A volte, ammetto, un po’ sproporzionata.

Jacob sostiene che gli Scorpioni hanno una concezione molto personale dell’equità, nel senso che dettano loro le regole e sono capaci di una discrezione assoluta ma, al contempo, sono capaci di infrangere le regole con una nonchalance impressionante. Qui la cosa va chiarita. Senz’altro amo dettare io le regole, e pretendo siano rispettate, ma sono comunque il primo a rispettarle: e quelle dettate dagli altri le violo solo se mi paiono palesemente inique o stupide, e lo faccio alla luce del sole, assumendomene la responsabilità. Mi piace anche il resto della descrizione, seppure mi corrisponda solo in parte: “Grazie al tagliente senso dell’umorismo, e al velo di mistero che le accompagna, le persone dello Scorpione hanno un fascino superiore a quello della maggior parte degli altri segni. È da tenere però in conto che lo Scorpione può essere difficile da gestire come partner (giustissimo). È da ricordare che l’animale Scorpione è l’unico capace di darsi la morte, con il proprio pungiglione, se si rende conto di non avere scampo”. O magari ne ha solo le scatole piene.

[3] In realtà evito di ripercorrere il cammino delle destre e delle sinistre storiche (per questo rimando a L’ultimo in fondo, a sinistra, in “Critica della ragion pigra“, Viandanti delle Nebbie 2004). Mi limito a ricordare che queste denominazioni sono invalse solo quando i rapporti gerarchici hanno cessato di viaggiare dall’alto al basso, all’interno di un ordine che si voleva i-mutabile e dettato da una sfera superiore, celeste, e ne era lo specchio terreno: cioè dopo la rivoluzione scientifica e quelle industriale e politica che ne sono conseguite.

[4] Mi riconosco nella posizione analoga espressa da Steven Pinker, quando constata di non essere né di destra né di sinistra, ma più vicino al liberalismo che all’autoritarismo. E, almeno in parte, in quella di Cristopher Lasch, che si definisce un “conservatore di sinistra”.

[5] Così potrebbe sembrare se considerassimo casuale il posizionarsi dei rappresentanti del terzo stato a sinistra negli Stati Generali del 1789 (ma già era accaduto nel Parlamento inglese nel 1648). In realtà si posizionarono a sinistra perché i conservatori avevano già saldamente occupati gli scranni di destra, con una precisa motivazione simbolica.

[6] Per i drammatici sviluppi di questa concezione nel mondo greco rimando a “La vera storia del-la guerra di Troia“, Viandanti delle Nebbie, 2014.

[7] La rappresentazione oggi più diffusa, nei testi cartacei e sul web, delle diverse funzioni degli emisferi, elenca come fondamentali caratteristiche del sinistro “analitico/mascolino/ egocentrico” e del destro “intuitivo/femminile/altruista comunitario”. Si tratta evidentemente di una banalizzazione, che ha però un suo fondamento.

[8] Simon Shama fa risalire la scelta inglese di viaggiare a sinistra alla volontà di contrapporsi alla normativa rivoluzionaria francese. In verità, da una serie di schizzi di Jan Bruegel (il vecchio) si evince ad esempio che il traffico dei carri sulle strade fiamminghe si svolgeva già nel 1500 secondo quello che sarà poi il modello anglosassone.

Anarchismo e politica La revisione critica di Camillo Berneri (di Stefano D’Errico)

Anarchismo e politica La revisione critica di Camillo Berneria cura di Paolo Repetto, 3 marzo 2020

Berneri oggi (Premessa)

Berneri in pillole: alcuni cenni biografici

Una grande curiosità intellettuale

Esilio

Lo scontro con il fascismo e la critica del massimalismo e della demagogia “di sinistra”

La politica delle alleanze e la lezione storica dello scontro con i due totalitarismi

Morte di Berneri  (cinque uomini, un unico destino)

La differenza fra gradualismo e riformismo. il “sovietismo” di Berneri

L’anarchismo fra politica ed antipolitica (nessun sogno romantico)

La questione del programma

Contro “l’anarchismo dagli occhiali rosa”

La scelta anarcosindacalista

Contro l’individualismo

Per l’organizzazione politica degli anarchici

Berneri ed Arcinov

Nessuna paura della revisione: giudizi di fatto e giudizi di valore

Contro la religione della scienza

Per la tolleranza

Umanesimo e anarchismo

Il revisionismo marxista

Dovere del lavoro e diritto all’ozio

Contro l’operaiolatria

Il valore della cultura

Per un programma economico aperto

Astensionismo ed anarchismo

Ubi societas, ibi jus: la differenza fra autorevolezza ed autoritarismo

Berneri e Malatesta

Note

Berneri oggi (Premessa)

 

Contro l’autonomia della politica

Berneri è appena conosciuto come “martire” della guerra civile spagnola, assassinato perché si opponeva ai diktat di Mosca che intendeva soffocare il “cattivo esempio” della rivoluzione libertaria (ufficialmente per accontentare la Società delle Nazioni restaurando la “repubblica di tutte le classi”: in realtà Stalin usava la Spagna come pedina di scambio per concludere il patto di non aggressione con la Germania nazista). Scomoda per tutti (fascisti, comunisti, cattolici e “liberali”), la sua opera – pubblicata parzialmente e con gran ritardo – è passata in secondo piano.

Anche una certa “ortodossia anarchica”, anziché lo sperimentalismo antidogmatico di Berneri, ha valorizzato soprattutto le sue critiche ai ministri dell’anarcosindacalista CNT – maggiore sindacato iberico – nel governo repubblicano del ‘36-’39. In realtà, c’è molto di più: un lascito teorico impressionante ancora di grande attualità.

Di fronte alla “crisi della politica” ed alla débacle della sinistra marxista, anche l’area del “socialismo irregolare” – “prossima”, ma non coincidente con l’anarchismo – stenta a trovare risposte adeguate. In Italia, come segretario dell’Unicobas sono indotto da fatti e comportamenti ad affrontare queste tematiche. Da una parte vedo riproporre la prassi “gruppettara” delle conventio ad escludendum, dei servizi d’ordine che impongono alle piazze sempre più anacronistici “leaders” – l’un contro l’altro armato – che fanno e disfano “cartelli” per la lottizzazione e l’egemonia sulle lotte e sui cortei (spesso mere rappresentazioni): coazione a ripetere le tare della vechia-nuova sinistra che, sotto forma di farsa, rigenerano la malattia del leninismo. Dall’altra, i settori più sinceri paiono succubi di un anti-ideologismo di maniera che rigetta e “parifica” tutte le esperienze storiche, compresa la grande tradizione del socialismo libertario. Il rifiuto di un’indagine senza preconcetti sugli errori del passato non porta risposte per il futuro.

La militanza “antagonista”, eco-sociale e libertaria, si trova così divisa verticalmente fra una maggioranza di gruppi e “cani sciolti” che opera sul territorio ed una (ben divisa e strutturata) minoranza d’apparato che si limita a “capitalizzare” – a proprio uso e consumo – il lavoro di base, trasformandolo in elemento di mera “rappresentanza” per una schiera autoreferenziale di “portavoce” mediatici fermi agli anni ‘70. Ma tutto ciò ha origini ben precise e la ricerca della “pietra filosofale” non ha senso: non calerà dal cielo un nuovo Bakunin, tantomeno un nuovo Marx.

Basterebbe invece esaminare la storia per capire che occorre fare quel che non s’è mai fatto: operare una riconversione etica della politica. Il fine non giustifica i mezzi, sono bensì questi ultimi a determinare automaticamente i risultati. Anche se la cosa emerge con fatica, è sempre più netto ed istintivo il rifiuto della autonomia della politica. E’ un concetto che gli anarchici hanno continuamente ripetuto, e non si tratta di una “religione” dell’etica. Semplicemente, una sinistra piegata al conformismo dell’ipse dixit ed alla delega non può sviluppare i germi  dell’autogestione. Eppure, il resto della sinistra – proprio perché condizionata dal lascito di Marx, il “Machiavelli del socialismo” – ha sempre fatto orecchie da mercante.

Ancora scorgiamo il Sisifo del socialismo autoritario ripercorrere pedissequamente le stesse strade, nonostante la storia dimostri senza appello come la dittatura di partito riproduca matematicamente la servitù economica e morale.

Di più, quella “sinistra” è giunta sino alla mutazione genetica: abbiamo visto i postcomunisti attraversare il guado dal bolscevismo al neo-darwinismo sociale in stile liberista. Nulla di strano: lo strumento-guida di questa transizione è la ragion di stato. Scrisse Berneri: “La formula leninista ‘i marxisti vogliono preparare il proletariato alla rivoluzione mettendo a profitto lo Stato moderno’ è alla base del giacobinismo leninista come del parlamentarismo e del ministerialismo social-riformista”.

Ma non è tutto. Pur esistendo nel mondo una – più o meno consapevole – “domandadi anarchismo, a questa non corrisponde “offerta” adeguata. Quel che resta del movimento libertario non riesce da tempo ad esser presente a se stesso a causa della marginalizzazione indotta da un dottrinarismo ossificato. In poche parole, non si può combattere l’autonomia  del politico con lo scetticismo elevato a sistema e con l’indifferentismo rispetto alla politica. In primis, occorre un programma, perché per vincere bisogna saper convincere. Inoltre, se la politica deve venir subordinata all’etica, è un richiamo etico pur quello relativo alla responsabilità che chi fa politica deve prendere immancabilmente su di sé. Una responsabilità rispetto alle conseguenze del suo agire sugli altri e sul mondo e non solo riguardo alla propria coscienza. Ergo, il parametro etico di riferimento dovrà veramente essere messo alla prova, riattualizzato, con una rielaborazione il più plurale possibile, oltre gli steccati ed ogni fondamentalismo. Se l’anarchismo è uno strumento di emancipazione, per dimostrare di essere valido non può arroccarsi nei suoi valori in una sorta di autocompiacimento nullista e narcisista. Tutt’altro: non solo deve dimostrare di aver ragione in modo concreto hic et nunc, ma essere anche capace di lavorare per creare le condizioni di una vittoria nello scontro sociale. Non bastano quindi la “buona volontà”, la determinazione del singolo o di piccoli gruppi più o meno “coordinati”. Nello specifico anarchico occorrerebbe un vero soggetto organizzativo di livello internazionale, con un forte senso d’appartenenza però aperto ed orizzontale: un sistema complesso votato a studio, discussione e sperimentazione pratica, che sviluppi relazioni con l’eterogeneo mondo dell’associazionismo e valorizzi le differenze, per creare una vera prospettiva generale. Sarebbe l’ora di una nuova, inclusiva, costituente libertaria.

Riassumendo: la politica è l’arte del possibile e se per i libertari il fine non giustifica i mezzi, essi hanno comunque il dovere di sapersi destreggiare in politica, cosa da non delegare a (presunti) “specialisti”. Ed è qui che interviene Berneri: “Essere col popolo è facile se si tratta di gridare: Viva! Abbasso! Avanti! Viva la rivoluzione! – o se si tratta semplicemente di battersi. Ma arriva il momento in cui tutti domandano: Cosa facciamo? Bisogna avere una risposta. Non per far da capi, ma perché la folla non se li crei”. Ecco perché il movimento d’emancipazione ha un grande bisogno della riflessione berneriana. Essa avversa quel comunismo da caserma trasformatosi poi in capitalismo di stato e quindi di nuovo in liberismo, ma non fa sconti a nessuno, neppure all’ortodossia anarcoide. Berneri rincorre, “stana” e svela le fobie di quel “ritualismo” che ha reso quasi impotente un movimento altrimenti portatore dei più adeguati “anticorpi” prodotti dall’umanità per contrastare il dominio in tutte le sue forme.

L’anarchia non è semplicemente il “non-stato”

Per Berneri, l’anarchia: “non è semplicemente il non-Stato, bensì un sistema politico a-statale, ossia un insieme di autonomie federate”. Egli precisa: “Un organismo qual è lo Stato odierno può essere demolito, ma alla sua ossatura fa riscontro tutto quel sistema di fasci muscolari e nervosi, che sono i servizi pubblici. (…) Le società primitive, le città dell’epoca dei Comuni, il villaggio contadino, la cittadina di provincia della Spagna, possono realizzare delle forme più o meno integrali di quell’anarchismo solidarista, extra-giuridico a-statale caro al Kropotkin, ma la metropoli odierna, ma la nazione che ha un ritmo di vita economica internazionale debbono affrettarsi a saldare le fratture prodotte dalla fase insurrezionale, perché la vita non si arresti; come il chirurgo deve affrettarsi a passare dal bisturi all’ago, quando si accorge che il cuore del paziente rallenta il proprio ritmo”. E già nel 1926, afferma: “i nostri migliori, da Malatesta a Fabbri, non riescono a risolvere i quesiti che ci poniamo, offrendo soluzioni che siano politiche. La politica è calcolo e creazione di forze realizzanti un approssimarsi della realtà al sistema ideale, mediante formule di agitazione, di polarizzazione e di sistemazione, atte ad essere agitanti, polarizzanti e sistematizzanti in un dato momento sociale e politico. Un anarchismo attualista, consapevole delle proprie forze di combattività e di costruzione e delle forze avverse, romantico col cuore e realista col cervello, pieno di entusiasmo e capace di temporeggiare, generoso e abile nel condizionare il proprio appoggio, capace, insomma, di un’economia delle proprie forze: ecco il mio sogno. E spero di non essere solo”.

Ha scritto Pier Carlo Masini che Berneri: “(…) trasferiva la tematica federalista all’interno del movimento operaio, fino ad allora egemonizzato dal centralismo di marca germanicosocialdemocratica e di marca russo-bolscevica”. Il lodigiano scrisse: “io sono semplicemente autonomista-federalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal Sovietismo)”. Quello di Berneri, era un sovietismo sociale, molto critico rispetto all’anarchismo “dagli occhiali rosa” di kropotkiniana memoria. I corporativismi locali e la “giustizia popolare” sono rischi che non si possono correre. La libertà non è quindi mai assoluta, perché deve contemperare il rispetto di precisi doveri verso gli altri. A tal fine la collettività esprime una sua autorevolezza che è altra cosa rispetto all’autoritarismo: “All’autorità formale del grado e del titolo anteponiamo l’autorità reale del valore e della preparazione individuali. Questo senza cadere in una dialettica fusione, o confusione, dei contrari. La libertà non è nulla, se non finalizzata, e non è possibile una eguaglianza generale fra gli esseri umani raggiunta per diktat ideologico. Occorre ripartire dall’impegno su valori condivisi e dall’impiego degli stessi come metro comune. Berneri ribadisce: “Qualunque società non può soddisfare interamente i bisogni di libertà dei singoli. La volontà delle maggioranze non è sempre conciliabile con quella delle minoranze. Qualunque forma politica presuppone la subordinazione delle minoranze. Quindi autorità. Sfuggire l’autorità vale fuggire la società. Nella botte di Diogene può stare il singolo, un popolo ha bisogno della città”.

Berneri non crede alla giustizia sommaria delle masse, né alla società “trasparente” impaludata su se stessa senza istituzioni. La società libertaria si deve creare intorno alla responsabilità e quindi anche con l’accettazione di regole, condivise ma cogenti: “(…) un minimo di diritto penale è necessario come un minimo di autorità (…) credo che l’idea di giustizia sia nel

popolo, ma non credo alla giustizia popolare, intesa come giustizia di folle”. La massa non è composta né da libertari nati, né da cherubini. Chi lo afferma è un illuso ed un semplicista: “La negazione a priori dell’autorità si risolve in un angelicarsi degli uomini ed in uno sviluppo irrompente di un genio collettivo, quasi immanente alla rivoluzione, che si chiama iniziativa popolare”.

Il lodigiano non si fermò certo a vaghi proclami “millenaristi” relativi ad automatiche “palingenesi sociali”: indagò sulla diversità strutturale che intercorre fra le istituzioni proprie della società civile e le categorie imposte dallo stato, ipotizzando la leva del contrasto fra le prime e le seconde al fine di una strategia di liberazione e di ricostruzione rivoluzionaria. Questa è una lezione anche per i nostri giorni. Origina una riflessione sulle istituzioni delle quali la società civile dovrà dotarsi, le regole che verranno, la struttura economica che si darà e principalmente i meccanismi decisionali atti a definire il tutto. Ciò comporta necessariamente il riconoscimento di una differenza radicale fra istituzioni e stato, nell’ambito della realizzazione dell’autonomia della società civile federalista rispetto ad ogni entità centralistica. In poche parole, per essere credibile, la lotta contro lo stato deve essere animata da una prospettiva di organizzazione futura capace già di mettere in crisi l’entità statuale oggi per abolirla domani. La scuola, ad esempio, è una istituzione che va diretta e gestita dalla società civile, come “sfera pubblica non statale”, in alternativa al privato, ma anche alla “ragion di stato” (si pensi, ad esempio, alla redazione dei programmi di storia in ordine a libertà d’insegnamento e d’apprendimento). Così le mille altre realtà, secondo un sistema che si organizza dal semplice al complesso, esistendo altresì una naturale differenza, sia di livello che organizzativa e giuridica, fra istituzioni e servizi.

Elemento centrale è il decentramento amministrativo, che ha nei comuni i principali punti di riferimento, così come, tramite l’anarcosindacalismo, lo sono i comitati di gestione della produzione e dei servizi espressi dal mondo del lavoro. In ordine a tali questioni eminentemente pratiche, aventi a che fare con la vita di tutti giorni e con la rifondazione di un senso e di una codifica del diritto atti a gestire la convivenza, gli scambi e la produzione, occorre per Berneri disperdere definitivamente l’ombra dello stato. Ma non sarà impugnando le armi spuntate fornite dalle astrazioni ideologiche  che si abbatterà la centralizzazione, si porrà fine allo sfruttamento e si scongiurerà il capitalismo, “tradizionale” o di stato.

Per la definizione di un progetto politico libertario

Per tutti questi motivi Berneri rifiuta e combatte il diktat ideologico che vieta agli anarchici l’elaborazione di un progetto ed impedisce loro di agire anche sul piano tattico: “Mezzo: l’agitazione su basi realistiche, con l’enunciazione di programmi minimi”. Inoltre, la storia costringe a dare risposte e l’assenza di programma condanna l’anarchismo ad agire di rimessa rispetto alle condizioni determinate dagli avvenimenti e soprattutto “in coda” alle altre entità politiche: senza un progetto, anziché indipendenza, si mostra sudditanza.

L’antipatia per il programma non dovrebbe contraddistinguere i rivoluzionari, è invece tipica di chi non vuole realmente cambiare lo stato delle cose: “Il gradualismo del socialismo legalitario e statolatra è parallelo all’antipatia, evidentissima nel Kautsky, per qualsiasi piano di ricostruzione economica in senso socialista. Che l’ingranaggio sociale sia così complicato che nessun pensatore possa indagarne tutti i mali e prevederne tutte le possibilità, è evidente; ma (…) ciò non toglie che sia necessario al socialista poggiare su di un programma pratico, sì come allo scienziato è necessaria la luce di un’ipotesi”. Non si tratta quindi di mero “progettismo”: “Ma occorre distinguere: vi sono programmi che sembrano voler dare la sintesi del domani storico come deterministico calcolo di quel che sarà quel domani e questi sono i programmi detti realistici mentre non sono che deterministici; mentre vi sono programmi che pur calcolando grosso modo il gioco delle forze statiche e di quelle dinamiche non dimenticano che la probabilità di certe risultanti è tanto più alta quanto più la volontà di rinnovamento ha forzato i limiti progressivi”.

La prima cosa che Berneri fa capire è che non bisogna confondere giudizi di fatto e giudizi di valore. Per questo “osa” mettere in discussione anche la pratica astensionista. Pure Bakunin ammoniva di non confondere tattica e strategia, perciò: “Il non distinguere la prima dalla seconda conduce al cretinismo astensionista non meno infantile del cretinismo parlamentarista”. E ancora: “Il cretinismo astensionista è quella superstizione politica che considera l’atto di votare come una menomazione della dignità umana  o che valuta una situazione politico-sociale dal numero degli astenuti delle elezioni, quando non abbina l’uno e l’altro infantilismo”.

La strada da seguire è quella del comunalismo: “Ecco, invece, un tema di studio: lo Stato nel suo funzionamento amministrativo. Ecco un tema di propaganda: la critica sistematica allo Stato come organo amministrativo accentrato, quindi incompetente ed irresponsabile. (…) Una sistematica campagna di questo genere potrebbe attirare su di noi l’attenzione di molti che non si scomporrebbero affatto leggendo Dio e lo Stato (di Bakunin)”. Con ciò, il lodigiano mostra la “freschezza” della propria interpretazione della realtà, ancora adeguata rispetto al mondo odierno.

E’ oggi evidente l’assoluta lontananza dei cittadini dagli istituti dello stato, ma ciò non trova adeguata capacità di contrasto nella critica “rivoluzionaria”, di sovente ferma alla propaganda ideologica e poco attenta alle contraddizioni del quotidiano, largamente sperimentate dalla “gente comune”. In differenti occasioni Berneri afferma che una prassi radicata ab origine nel rifiuto della truffa di una democrazia rappresentativa senza controllo e mandato – un palliativo concesso come diritto solo per una piccola parte della popolazione da monarchi che conservavano nomina e gestione del parlamento, – nasce come risposta, non come principio e non può rimanere sempre e comunque inamovibile dettame dottrinario incurante delle situazioni particolari da affrontare nel corso della storia. La propaganda astensionista è “reazione contro la rappresentanza generica”.

l pensiero del lodigiano diviene chiarissimo laddove coniuga la questione del voto con quello che per lui dovrebbe essere il progetto libertario in divenire: “Vi sono, secondo me, quattro sistemi politici possibili: l’amministrazione diretta, la rappresentanza generica o autoritaria, la democrazia propriamente detta e l’anarchia. L’amministrazione diretta è un sistema politico nel quale il popolo in massa delibera volta a volta sulle varie questioni d’interesse generale, e provvede all’esecuzione delle proprie deliberazioni. La rappresentanza generica o autoritaria è un sistema nel quale il popolo delega la propria sovranità ad un certo numero di persone da lui scelte e lascia a quelle il potere deliberativo ed esecutivo. L’astensionismo politico è una reazione contro la rappresentanza generica, reazione salutare, ma non ha più ragione di permanere di fronte alla democrazia propriamente detta, sistema nel quale il popolo delega le varie faccende di interesse generale a dei tecnici, riservandosi di approvarne gli atti, controllando il loro operato, riservandosi di destituirli e destituendoli quando ciò occorra. Gli anarchici hanno ragione di continuare in seno alla democrazia la loro opposizione correttiva e la loro propaganda educativa al fine di permettere il passaggio dalla democrazia all’anarchia, sistema nel quale l’amministrazione diretta e la democrazia si integrano, sopprimendo qualunque residuo della rappresentanza autoritaria”.

La presenza al voto diviene quindi persino uno strumento di “medio termine”, pienamente utilizzabile, se le condizioni del progresso sociale sulla strada della realizzazione pratica della società libertaria sono abbastanza avanzate ed adeguate.

Anarchismo & Anarchia

La polemica contro l’astensionismo, il nostro la affronta peraltro dopo la vittoria elettorale del Fronte Popolare in Spagna nel 1936, alla quale concorsero in modo determinante gli anarcosindacalisti della CNT, che per la prima volta non si abbandonarono ad una posizione intransigente, venendo per questo fatti oggetto di un fuoco di fila di critiche impietose piovute dal di fuori della penisola iberica. Ma senza quella vittoria, sostenne il lodigiano, non vi sarebbero state neanche le successive conquiste rivoluzionarie che la CNT stessa seppe mettere in atto dal basso. La sconfitta avrebbe significato una condizione pratica (ed anche psicologica) ben diversa per il movimento dei lavoratori e per questo sarebbe stata assurda in quella situazione una campagna astensionista: le tattiche della politica vanno giudicate mirando ai risultati e non in modo ideologico-aprioristico.

Così pose la questione Berneri: “Il problema, insomma, è questo: l’astensionismo è un dogma tattico che esclude qualsiasi eccezione strategica?

Per Berneri, il voto è uno strumento utile anche all’interno del mondo libertario e, come già visto, il lodigiano definisce più volte, senza pietà, “cretinismo astensionista” la demonizzazione senza deroghe di tale meccanismo decisionale, a maggior ragione se questo rifiuto è esteso persino

all’interno dell’organizzazione specifica. Un rifiuto invalso spesso nelle strutture anarchiche non perché il voto fosse incongruo alla tradizione, bensì per una sorta di “moda” che ha sclerotizzato la militanza. Berneri discrimina poi chiaramente fra voto e voto. Nel caso di liste locali, ed ancor più di plebisciti e referendum, non vede per gli anarchici alcun motivo di possibile avversione: “Se domani si presentasse il caso di un plebiscito (disarmo o difesa nazionale armata, autonomia degli allogeni, abbandono o conservazione delle colonie, ecc.) si troverebbero ancora degli anarchici fossilizzati che crederebbero doveroso astenersi”.

Berneri, a proposito della dimensione politica dell’anarchismo, la nobilita senza remore e preferisce certo chi si batte per il successo dell’impostazione libertaria nella storia a quanti, astraendosi dalla politica, riducono il libertarismo ad una mera, sofistica, professione di fede. Il

purismo” mostra tutta la sua inutilità, ed è anzi sinonimo di disimpegno ed autoreferenziale narcisismo: “Chi crede alla possibilità dell’anarchia come sistema politico è anarchico, qualunque siano le sue vedute strategiche, qualunque siano le sue riserve sulle realizzazioni massime della

società futura. Ed è anarchico anche se scomunicato dai dottrinari sofistici, ed è anarchico anche se gli si oppone con il termine generico di principi le vedute di questa o di quella scuola, le opinioni di questo o di quel maestro, le abilità polemiche di questo o di quel giornalista autorevole nonché le scandalizzate proteste dei pensanti con la testa altrui”.

Ma come si fa se gli anarchici per primi, immobilizzati dal fondamentalismo, non credono nell’anarchismo politico? La mancanza di sperimentazione è infatti sinonimo di sfiducia nei propri mezzi ed ancor più nelle possibilità interne alla prospettiva libertaria: “La storia è opposizione e sintesi. L’anarchismo, se vuole agire nella storia e diventare un grande fattore di storia, deve aver fede nell’anarchia, come una possibilità sociale che si realizza nelle sue approssimazioni progressive. L’anarchia come sistema religioso (ogni sistema etico è di sua natura religioso) è una ‘verità’ di fede, quindi per propria natura, evidente soltanto a chi la può vedere. L’anarchismo è più vivo, più vasto, più dinamico. Egli è un compromesso tra l’Idea e il fatto, tra il domani e l’oggi.

L’anarchismo procede in modo polimorfo, perché è nella vita. E le sue deviazioni stesse sono la ricerca di una rotta migliore”. Berneri è quindi “un anarchico che crede all’anarchia e, ancor più, all’anarchismo”. Berneri è un gradualista rivoluzionario perché è ben conscio della futilità del tutto e subito o del “tanto peggio-tanto meglio”, così come dell’irraggiungibilità della perfezione, e tiene distinti l’anarchia (“religione”) e l’anarchismo (l’anarchia nella storia): “l’anarchico comprende che nella storia si agisce sapendo essere popolo per quel tanto che permette di essere compresi e di agire, additando mete immediate, interpretando reali e generali bisogni, rispondendo a sentimenti vivi e comuni”. Berneri non fu mai un massimalista: “A mio parere, il non esercitare un diritto perché è concesso dallo Stato, non creare una situazione migliore dell’attuale perché se ne vorrebbe una migliore di quella conseguibile, vale fossilizzare la nostra azione politica”. Ancora oggi la sinistra “radicale” non sa distinguere fra riformismo e gradualismo.

Nel corso della rivoluzione spagnola, pur essendo intransigentemente schierato per la difesa e lo sviluppo delle conquiste popolari, delle collettivizzazioni agrarie e della socializzazione delle industrie, il lodigiano seppe comprendere i tentativi della dirigenza cenetista di destreggiarsi nella situazione. Naturalmente questa posizione Berneri la tenne solo fino a quando la CNT dell’epoca seppe conservare la propria autonomia e rimase all’offensiva. Alle prime avvisaglie del precipitare della situazione, egli divenne un critico feroce rispetto ai cedimenti determinati  dall’incapacità di fronte alle esigenze della politica.

Berneri era un fautore non già della mediazione, bensì della sperimentazione pragmatica, e ben sapeva che i limiti maggiori dell’anarchismo non stavano in presunte mancanze di serietà o d’onestà dei “leaders”, quanto invece nell’impreparazione assoluta di tutto un corpo militante abituato a pensarsi unico padrone del campo di fronte alla rivoluzione: viceversa, in un panorama necessariamente plurale, il progetto comunista libertario va difeso anche con le armi della politica.

Così com’era convinto che per il tramite dell’organizzazione anarcosindacalista, proprio ovviando a quest’impreparazione (obiettivo per il quale aveva lavorato tutta la vita), si sarebbe invece potuta restituire a chi di dovere quella famosa, proudhoniana, capacità politica delle classi operaie, sviluppare la quale è la prima ragione della tradizione libertaria.

Fu anche contro il sindacato unico, indicando agli anarchici l’intervento e la creazione di strutture anarcosindacaliste come elemento prioritario, diversamente rispetto a Malatesta e Fabbri, che propugnavano un’indifferenziata presenza nelle strutture di massa “unitarie”, alla fine sempre guidate da segreterie nazionali socialriformiste o comuniste.

 

 

La questione sindacale

L’anarcosindacalismo deve avere una propria ben definita autonomia, anche dal movimento specifico. L’anarchismo ha contato di più ove ha assunto una fisionomia anarcosindacalista. L’anarcosindacalismo è una struttura organizzata, prima di tutto composta da lavoratori e ad essi rispondente, con i loro tempi e bisogni. Altrimenti si rischia di rimanere vittime degli stessi mali del movimento, che è il “partito” degli anarchici. Parallelamente, la realtà sindacale libertaria è più “politica” di un movimento che, in assenza di un proprio riferimento di massa, tende fatalmente ad estraniarsi dal mondo reale ed a divenire marginale e rivolto su se stesso. L’anarcosindacalismo, leale interprete dello spirito della Prima Internazionale, deve riportare il sindacato alle sue origini: una struttura indipendente da qualsiasi partito (anche dal movimento libertario in quanto tale), ma non estranea alla politica, dove l’agire politico è fissato nell’alterità della prassi democratica ed orizzontale. In sintesi, il tutto s’incardina nella capacità dei lavoratori in quanto tali, senza “mediazioni” e direttive provenienti da “élites” e guide esterne. Altrimenti non si sarebbe superato il limite naturale del sindacalismo burocratico e “dipendente”: quello della soggezione a forze politiche sedimentate in campo esterno. Il sindacato di partito viene costretto all’inazione e posto a guardia della pace sociale quando la sua forza parlamentare di riferimento ha conquistato il potere e “scatenato” nella “lotta” solo quando questa è all’opposizione. Di contro, la “esternità” delle leve della politica al mondo del lavoro, rappresenta, peraltro, una concezione inaccettabile in campo libertario: l’esistenza di un “limbo” separato ove si maturano le idee-guida, una sorta di piano astratto dove il mondo del lavoro non è vivo e pulsante, ma solo “rappresentato” sul palcoscenico del teatrino della politica (prevalentemente – ma non unicamente – parlamentare). Una deviazione tipica della Seconda Internazionale socialdemocratica e della Terza Internazionale bolscevica, che destina alla forza politica – partito, poi identificato con lo stato – il piano del progetto, lasciando al sindacato al massimo la mera “vertenza” e facendolo succube di strategie maturate esternamente ad esso, così espropriando il mondo del lavoro della propria titolarità politica soprattutto in termini progettuali.

Il primato dell’etica, diviene quindi preminenza della democrazia di base (prassi organizzativa).

Il  mito della mera “emergenza del sociale”

Va sfatata la leggenda che alla politica si possa sostituire la mera emergenza del sociale, il cui inseguimento ha comunque ricadute politiche (anche se ci si muove in nome e per conto del “ribellismo” e della cosiddetta “antipolitica”). Negli ultimi anni ‘70, ad inquinare oltremodo il panorama della militanza libertaria, ha contribuito il mito della cosiddetta “autonomia proletaria”, di provenienza italiana ma invalsa per molti anni in tutta Europa. L’ennesimo “succedaneo” venne, ancora una volta (e contro-natura), ben accolto dagli anarchici massimalisti, con tutti i suoi cascami di estremismo, avventurismo e violentismo. La spessa coltre dell’intransigenza “rivoluzionaria” mascherava l’operazione mimetica. Contrabbandando se stessa come “radicale” (solo perché votata ad uno scontro di piazza autoreferenziale) e “libertaria”, l’area dell’ autonomia, ha invece introdotto un’impostazione del tutto autoritaria. L’apparente assemblearismo nascondeva gruppi di “professionisti”, determinati a decidere sempre e comunque il corso degli avvenimenti senza cura per le dinamiche espresse dai movimenti, la foglia di fico dietro la quale celare la fruizione di una delega in bianco. Fu il trionfo di una prassi del lavoro politico volta a denunciare strumentalmente l’inutilità delle organizzazioni specifiche, al fine di realizzare strutture “unitarie” legate a doppio filo a sovrastrutture più o meno nascoste impegnate ad impostarne la linea. Secondo la prassi più dozzinale, la critica dello ideologismo fuorviante e totalizzante si fece critica delle idee e strozzatura della discussione collettiva. Venne riportata in auge la condanna delle diversità a favore dell’uniformità e dell’appiattimento, perseguendo metodi dettati dall’insofferenza verso ogni particolarità. Nel nome di una malintesa “coscienza proletaria”, pretesa come avulsa dal dibattito sulle metodologie e sull’etica della libertà, s’impose l’ennesima riproposizione della autonomia della politica. L’antitesi autoritarismo-libertarismo veniva quindi ancora una volta derubricata. Un vero e proprio ricatto ideologico in omaggio agli stilemi del controllo e della presa del potere nel micro-sistema “antagonista”, della preminenza dell’economico e del “militare”, nonché di una presunta “linea di condotta comunista”, sul gradualismo, sulla rivendicazione e sul bisogno. Da questo, l’attivismo totalizzante, per lo più finalizzato ad un impegno acritico eterodiretto spinto sino ad estreme conseguenze, estraneo ad ogni forma non velleitaria di ripensamento suscettibile di mettere in forse un dominio da esercitarsi in ogni caso sul sociale per mezzo delle continue forzature operate da un gruppo omogeneo selezionato, dirigente di fatto.

L’ultima nota di colore riguarda, al momento, le frange dell’estremismo anarchico fondamentalista, convinte di cogliere l’occasione della storia nel cercare di prendere il posto dell’autonomia in divisa da black-block, come se la mistica dello scontro rituale di piazza non fosse colto, oggi come ieri, soltanto come un’utile pretesto per rinverdire le politiche repressive degli stati al fine di una criminalizzazione tout court di qualcosa che è molto più complesso, articolato ed assai meno povero di contenuti: l’intero progetto e la prassi del socialismo libertario.

Berneri invece indicava la necessità di un movimento con un’identità precisa, capace anche di battaglie d’opinione, adatto a lasciare il segno nella storia, in una complessità poliedrica che lo veda strumento primario per la riconquista insieme della soggettività politica delle masse sfruttate e dell’umanesimo il più avanzato. Tale è il senso del “sovietismo” di Berneri: non un’arronzata “scopiazzatura” consigliarista di derivazione pannekoekiana o luxemburghiana, bensì la ricollocazione dell’anarchismo in quanto tale nella sua propria dimensione. Preminente è perciò il protagonismo del movimento anarchico con la sua identità, in “prima persona”, senza remore e paure; in totale autonomia e come forza politica: “Se il movimento anarchico non acquisterà il coraggio di considerarsi isolato, spiritualmente, non imparerà ad agire da iniziatore e da propulsore. Se non acquisterà l’intelligenza politica, che nasce da un razionale e sereno pessimismo (ché è, di fatto, senso della realtà) e dall’attento e chiaro esame dei problemi, non saprà moltiplicare le sue forze, trovando consensi e cooperazione nelle masse” .

 

L’identità dell’anarchismo, unica alternativa ai totalitarismi

Però l’identità non ha nulla a che fare con la ricerca autistica di uno “splendido isolamento”. Ancora da Fallimento o crisi?, leggiamo: “Chiuso nell’intransigenza assoluta di fronte alla vita politica, l’anarchismo puro è fuori del tempo e dello spazio, ideologia categorica, religione e setta. Fuori dalla vita parlamentare, fuori da quella delle amministrazioni comunali e provinciali, non ha saputo e voluto condurre delle battaglie di dettaglio, suscitanti, volta a volta, consensi; non ha saputo agitare problemi interessanti grande parte dei cittadini. (…) Da un’infinità di battaglie il movimento anarchico si è avulso, sempre allucinato dalla visione della Città del Sole, sempre perso nella ripetizione dei suoi dogmi, sempre chiuso nella sua propaganda strettamente ideologica”.

Da qui la sua critica all’impostazione “frontista” (a senso unico) che ha reso il movimento libertario succube del bolscevismo. Berneri indicherà all’anarchismo il rifiuto dell’omologazione “frontista” come una delle medicine necessarie a ridare autonomia al movimento: “Fra queste esperienze, vi è quella delle insufficienze tattiche del movimento anarchico, troppo fiducioso nei fronti unici, troppo poco autonomo (…)”.

Tantomeno fu fautore in politica della demagogia del “più uno”: “Per la smania di essere più a sinistra di tutti non dobbiamo assecondare il Partito Comunista nei suoi errori estremisti, oltre che per il nostro principio di non volere imporre il comunismo, anche perché mentre il Partito Comunista farebbe macchina indietro sul terreno economico, si gioverebbe della nostra collaborazione insurrezionale ed espropriatrice per costruire e rinsaldare la propria dittatura

Senza però indulgere mai nell’integralismo e rifuggendo il settarismo. Sarà anzi l’anarchico italiano che più cercherà di favorire e porre in essere un’adeguata politica delle alleanze, rivalutando, a suo tempo, repubblicani di sinistra e liberal-socialisti come Gobetti e gli antifascisti federalisti-autonomisti (anti-sovietici) di Giustizia e Libertà: Salvemini e i fratelli Rosselli.

La scelta di un’alleanza “strategica” con i fautori di un “socialismo federalista liberale” era legata alla contingenza ed alla politica, non rappresentava una deroga rispetto all’opzione del socialismo libertario. In altre parole, l’obiettivo rimaneva lo stesso. Anzi, si affinava, ma veniva delineata da Berneri soprattutto una tattica per la presenza ed il protagonismo dell’anarchismo.

Cionondimeno Berneri riteneva che l’anarchismo avrebbe dovuto stringere patti d’unità d’azione unicamente con entità federaliste ed equitarie, ma per definizione contrarie ad ogni totalitarismo.

 

L’Anarchismo e i “movimenti”

Berneri insegna ad accettare da subito (e veramente) la necessità di una sinistra (e di una società) aperta, come elemento non mediabile e non rinunciabile di arricchimento e revisione rispetto ad un passato (anche recentissimo) di macerie. Viceversa, le realtà “antagoniste” (costruite ancora “contro” più che “per”) non sanno fissare davvero per il futuro, programmaticamente, l’ineliminabilità del pluralismo e del pensiero divergente. Tale elemento, centrale per una vera rivoluzione, è affatto scontato. Porsi questo problema è difficile per quanti identificano nella rivoluzione solo il superamento dell’esistente e rimandano fideisticamente al “dopo” la discussione sui nuovi parametri della democrazia. Del resto, sbaglierebbe i suoi conti chi pensasse che è solo la radicalità degli slogan e dei comportamenti esteriori (nella quale sconfitti ed orfani cercano l’ultima spiaggia dell’identità) il veicolo della ripresa di protagonismo: all’alba del Terzo Millennio contano finalmente molto di più la genuina radicalità delle idee e del progetto. Soprattutto nei paesi del “primo mondo”, la politica dello scontro per lo scontro è una deviazione involutiva e del tutto simbolica dell’immaginario e della (molto più complessa) realtà del conflitto sociale.

Essere rivoluzionari è elemento d’identità, ma soprattutto nella proposta. Per due motivi. In primis perché per affermare la necessità del cambiamento bisogna saper dimostrare di poter e saper ottenere dei risultati. Secondariamente perché c’è bisogno di un’inversione della prassi.

L’antipolitica non è una novità: negare l’autonomia della politica lo è, ovvero dimostrare di saper davvero subordinare la politica all’etica. La qual cosa prevede anche delle capacità di studio ed osservazione che non stanno certo nella semplice negazione del ragionamento politico. Occorre la

capacità di mettere in atto il gradualismo rivoluzionario, proporre sistemi di riorganizzazione ed aggregazione, di autogestione e prima liberazione (anche culturale), immediatamente praticabili dalla (e nella) società civile. L’anarchismo deve imparare ad “uscire dal guscio” per capire che

l’egemonia delle idee non è egemonia politica nel senso negativo del termine – ovvero l’imposizione di eterodirezioni che sono solo una variabile del potere – ed occorre saperla praticare.

Allo stesso modo, non è l’egemonia dei fatti da criticare, vanno bensì esclusi quegli atti che tendono solo a stabilire l’egemonia di un qualche gruppo dirigente in quanto tale (prassi leninista).

La radicalità non è dunque elemento meramente formale, bensì questione di sostanza e non può prescindere dalla volontà (chiaramente espressa e comprensibile) di farsi intendere e capire, nell’auspicato (e finalmente salutare) sacrificio dell’autocompiacimento (autoreferenziale ed elitario) del ghetto ideologico e/o impolitico. E’ il coraggio di proporre elementi nuovi e sperimentali, elementi non graditi dagli schemi di qualunque ortodossia. E’ necessario unire protesta e proposta, promuovere un agire condiviso e plurale, capace di conquistare spazi, dosare e calibrare l’azione perché sia condivisa e condivisibile: non per “adattamento”, ma per preparare elementi più forti e decisivi di cambiamento. La radicalità non è nella rottura estemporanea, nella marginalità, nell’autocompiacimento dell’appartenenza ad una specie “altra” serrata in un recinto, ma nella determinazione (e quindi nella preparazione) di un cambiamento qualitativamente alto (etico): radicale, appunto.

Viceversa, nei “movimenti”, spesso l’assenza di un evidente progetto libertario si sposa con l’incapacità di coniugare strutturalmente la libertà con la democrazia economica, e questo spiana la strada al liberismo arrembante, i cui fautori hanno buon gioco nel “parificare” ogni movimento solidarista ed egualitario ai rottami del comunismo dittatoriale statolatra. Il cortocircuito è dato sempre dallo stesso elemento: un progetto sociale chiuso, autoritario ed economicista, che ancora contempla l’uso a tempo indeterminato dello stato (per di più totalitario) e contiene quindi in nuce i germi del fallimento e del recupero in una (già ben sperimentata) spirale dalla quale il determinismo del “programma comunista” impedisce l’uscita, trascinando con sé nel baratro l’intero movimento d’emancipazione.

Natura e funzione dello stato: il marxismo come ideologia dell’intellighènzia tecnoburocratica

La questione dello stato resta centrale. Elementi ormai acclarati, come il fatto che fu lo stato a dare origine alle classi (e non viceversa, come pretendeva Marx), non sono ancora per nulla patrimonio della sinistra. Il sociologo Luciano Gallino accredita oggi le tesi di Gumplowicz (1905), Oppenheimer (1928), Darlington (1969), secondo le quali le classi sociali hanno origine alla “conquista violenta di un paese da parte di un popolo straniero, o alla costituzione forzata di un’organizzazione statale. (…) In molti paesi all’origine della divisione in classi sociali v’è un’espansione di tipo coloniale, da parte non soltanto della razza bianca ma anche dei cinesi, degli indiani, dei malesi, degli arabi e di varie stirpi africane, a spese di locali popoli primitivi”. Berneri, confortato dalla posizione anarchica, era della stessa idea: “Gli anarchici si differenziano dai  marxisti nel considerare lo Stato non come un organo interclassista bensì come un organo di classe. Secondo Marx-Engels, lo Stato sarebbe sorto quando già si erano formate le classi. Questa  concezione, che costituisce un ritorno alla filosofia del diritto naturale di Hobbes, è respinta dagli anarchici, che considerano il potere politico come il generatore principale delle classi, e da questa concezione storica inducono che la distruzione dello Stato è la conditio sine qua non dell’estinzione del capitalismo”. Il lodigiano segnalava – citandolo – che persino secondo il socialista Labriola, lo studio scientifico della genesi del capitalismo: “conferisce un carattere di realismo veramente insospettato alle tesi anarchistiche sull’abolizione dello Stato. Sembra infatti assai più probabile l’estinzione del capitalismo per effetto dell’estinzione dello Stato, che non l’estinzione dello Stato per effetto dell’estinzione del capitalismo”.

Berneri non contesta tanto l’analisi economica di Marx, quanto quella politica, denunciandone l’astrattezza idealistica che fa da brodo di coltura per la creazione di nuove forme di dominio, perché lo stato, come già affermava Bakunin, è un apparato che non può smentire se stesso. La vera “utopia” negativa sta quindi nella convinzione che la statualità possa essere utilizzata per poi praticamente “estinguersi motu proprio” ed il vero “revisionismo” (presente in nuce nel marxismo) sta nell’affermare tale possibilità. La sinistra tardo-comunista guarda invece ancora attonita il capitalismo di stato cinese e – dopo analoga fine per tutto il restante socialismo “surreale” – non sa far altro che balbettare giaculatorie sul presunto “tradimento” degli ideali di Mao (quindi non muove una paglia per il Tibet ed il Darfur: eppure già la crisi del sistema sovietico avrebbe dovuto insegnare che lo statalismo è parente strettissimo dell’imperialismo e dell’etnocentrismo).

Berneri anticipa la denuncia di un vero e proprio collettivismo burocratico, sul tipo di quello analizzato a cominciare dal 1937 da Bruno Rizzi, quando le dinamiche del sistema bolscevico erano già ben evidenti. L’ancora ignoto Rizzi – transfuga della IV Internazionale in polemica diretta con Trotskij che non gli perdonava la definizione di capitalismo di stato per il regime sovietico – è l’unico in campo marxista ad aver identificato la vera natura dell’URSS. Si parla di quella tecnoburocrazia poi chiaramente identificata in campo anarchico con lo studio degli anni ‘70 sui nuovi padroni (intellighènzia dell’apparato statale e di partito ed aristocrazia operaia).

Nessuna scuola che si richiami al marxismo – neanche quelle più critiche verso il “socialismo reale” – ha mai riconosciuto l’esistenza del capitalismo di stato: una bestemmia per i seguaci dell’autore de Il capitale. Ma questa chiusura ideologica impedisce, ad esempio, di capire le dinamiche delle grandi privatizzazioni. Ad Ovest, la guerra fredda aveva favorito il welfare e riforme di struttura che hanno consentito lo sviluppo del potere dei boiardi di stato, ceto moltiplicato peraltro dallo statalismo fascista e delle socialdemocrazie. Caduto il muro e scongiurato il “pericolo comunista”, la marcia è stata invertita facendo rotta sul liberismo totale e la cosa pubblica è diventata business, con un occhio di riguardo per i burocrati che la gestivano.

Esattamente come ad Est, ove le strutture economiche e di servizio di quelli che furono “stati socialisti” sono oggi proprietà dei “camaleonti” che già le dirigevano e le sfruttavano “in nome e per conto di tutti”.

 

L’etnocentrismo marxista

Marx credette che il raggiungimento di un’organizzazione statuale fosse sinonimo di sviluppo e relegò – nella fase dell’etnocentrismo occidentale cresciuta all’ombra dell’industrialismo – le cosiddette realtà “tribali” ad un ruolo secondario ed arcaico, intanto perché solo con lo stato si produrrebbe oltre la quota determinata dai bisogni primari. Ma, discutibilità del dato a parte – le popolazioni “primitive” producono anche beni per soddisfare le pulsioni ludiche e lo scambio – è nella diversa cultura e qualità della vita che va ricercato il loro “topos” sociale: nel collettivismo, nella gestione comunitaria e nella riduzione del potere dei “capi” al solo momento della difesa. L’etnologia libertaria è di tutto rispetto, ma quanti conoscono La società contro lo stato (Feltrinelli, 1977) di Pierre Clastres? Eppure la concezione etnocentrica deriva da quella antropocentrica. Oggi denunciamo, con Bookchin, il presunto diritto al dominio totale dell’essere umano sulla natura come retaggio della concezione aristotelica e della Bibbia (o, se si preferisce, della sua “vulgata”). Tale autorità assoluta è affatto scontata nella filosofia dell’uomo in natura e certamente prelude al dominio di gruppi umani su propri pari, giustificandone la reificazione, per analogia, al ruolo dell’animale, considerato, più ancora che subordinato, quale “cosa” senza spirito senziente.

In sostanza, la subordinazione assoluta della natura incardina un precedente, dal quale, gradualmente, si passa con facilità all’etnocentrismo, allo schiavismo, al razzismo. A tali conclusioni era già giunto, peraltro, e nell’800, Elisée Reclus: “C’è tanta differenza fra il cadavere di un bue e quello di un uomo? L’abbattimento del primo facilita la distruzione del secondo”. Oggi possiamo affermare a ragion veduta, con Adorno, che: “Dire: «Tanto è solo un cane»“, non è che il primo passo per dire: “«Tanto è solo un ebreo»“. D’altronde, Reclus può ben dirsi un precursore del pensiero ecologico, avendo affermato per primo che: “L’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa”.

Non può sfuggire come lo sfruttamento smisurato delle materie prime e delle risorse (rinnovabili e non), nonché il quasi totale disinteresse per le leggi di natura – una congiuntura che sta portando il pianeta al collasso – abbiano molto a che fare con tale arroganza antropocentrica. La ricerca di Marx, indirizzata prevalentemente verso la “struttura” economica produttiva, intesa quale volano di sviluppo del proletariato (la futura “classe egemone”), ha lasciato in ombra elementi fondamentali e di cultura, a torto ritenuti “sovrastrutturali”, facendo del marxismo un’ideologia collaterale e del tutto compatibile con lo sviluppo (ed il sottosviluppo) capitalistico e industrialista.

La deviazione ha poi raggiunto il suo apice nell’operaiolatria (ben denunciata da Berneri) e nel culto del produttivismo (stakanovismo). La sinistra ha così accumulato anni luce di ritardo in un campo strategico dell’analisi sociale. Un ritardo da recuperare in fretta, se si vuole che i movimenti di liberazione espressi dal Terzo Mondo – laddove non siano segnati da tendenze retrive e passatiste come l’integralismo islamico – vengano valorizzati per il contenuto di “novità” ecologica ed ecosociale che rappresentano, anziché spinti a terminare il loro percorso ancora una volta nell’imbuto del neo-stalinismo marxista leninista dal quale sono sempre corteggiati ed infiltrati. Anche rispetto alla questione degli immigrati, non esiste solo l’arrogante pretesa a matrice liberista di un’assoluta “integrazione” delle culture altre, bensì pure il rischio di una semplicistica omologazione agli

stereotipi marxiani.

Contro il dogmatismo positivista

Poi sopravvive un dogmatismo positivista. Berneri insegna a diffidare del conformismo di sinistra e della politica del ghetto: occorre invece una concezione etica del pensiero. La coerenza con la propria coscienza è tutt’uno con il dovere di sperimentare in pratica la giustezza e l’applicabilità dei postulati di principio. Quello che conta non è l’omologazione al “branco”

(foss’anche quello dell’ “élite” del politically correct), bensì l’attitudine all’indipendenza ed alla libertà: “Non è dunque la cosa che si pensa che costituisce la libertà, ma il modo con il quale la si pensa”. Tutti gli integralismi sono un pericolo, e così anche le “religioni” della ratio e della scienza.

Perciò Berneri, prima di Feyerabend, lavorò ad una nuova epistemologia anarchica, affermando: “Essere irrazionalista (…) non vuol dire essere un sostenitore dell’irrazionale bensì essere un diffidente nei riguardi delle verità di ragione”. La stessa posizione la ebbe rispetto al rapporto fra politica, scienza e religione: “L’anticlericalismo assume troppo spesso il carattere di Inquisizione… razionalista. Un anticlericalismo illiberale, qualunque sia la colorazione avanguardista, è fascista. (…) Il sovversivismo e il razionalismo demomassonico furono in Italia clericalmente anticlericali”.

Quanto alla liceità dei culti, per l’appunto autodefinendosi agnostico, si espresse chiaramente a favore della totale libertà religiosa, come diritto da garantire e non da sopportare.

Contro lo scetticismo

Berneri escluse dall’anarchismo lo scetticismo e l’indifferentismo: “Credere di possedere la verità o considerarla come inaccessibile è un bivio che non può esistere per l’anarchico irrazionalista. (…) Lo scettico non è che la caricatura o il cadavere vivente dell’irrazionalista. (…) Ogni volta che lo scettico vuole illustrare lo scetticismo diventa un razionalista sentenzioso, sillogistico, aprioristico”. E giunse all’aperta denuncia dell’estremismo esibizionista e massimalista: “I fascisti che bruciano i giornali di opposizione sono, per lo più, quegli stessi sovversivi che non leggevano che i giornali del proprio partito e ci giuravano sopra. I fascisti che fanno a pezzi le bandiere rosse sono, per lo più, quelli che non volevano che i preti sonassero le campane, che disturbavano le processioni, che offendevano gli ufficiali, ecc. Là dove l’ineducazione sovversiva era maggiore il fascismo s’è sviluppato prima e più largamente. Perché l’intolleranza della violenza spicciola è il portato della miseria e della grettezza intellettuale e di una scarsa e deviata sensibilità morale. (…) Anche riguardo alla tolleranza il giusto morale e l’utile politico concordano. (…) L’anarchia è la filosofia della tolleranza”. Con una precisazione: “La tolleranza, del resto, non implica scettica valutazione della vita; dubbio sui fini e sui metodi. E non giustifica il ritrarsi egoistico dall’opera comune. Né implica tolstoiana rinuncia alla violenza”.

L’ignoranza di una certa sinistra

E’ sempre l’ignoranza il male peggiore. Ma ciò non vale solo quando ci s’accorge che per questo le destre (Berlusconi docet!) divengono maggioritarie: ci si dovrebbe preoccupare anche di una sinistra divenuta orfana di se stessa a forza di usare stereotipi oltremodo sconfitti dalla storia. Il fatto che Berneri per la stragrande maggioranza della sinistra sia quasi sconosciuto nonostante abbia lo stesso spessore di Gramsci, spiega molto in proposito. Stesso dicasi per la rivoluzione iberica, il fenomeno d’autogestione di massa più interessante del ‘900, già poco studiato in Spagna e quasi per nulla all’estero.

Oggi si parla tanto di Zapatero ma, come al solito, nessuno indaga sul pregresso. Nel ‘36 i veri “riformisti” erano i rivoluzionari. Nonostante tutto, i libertari hanno segnato la storia senza mai venir meno al pluralismo politico ed alla democrazia sostanziale, ancorché nel mezzo di una guerra civile e di un forte scontro interno. Con ben quattro dicasteri ricoperti dagli anarchici furono possibili: la prima donna al mondo divenuta ministro (Federica Montseny); la prima legge in assoluto sull’aborto, da lei promulgata dal ministero della Sanità e Assistenza Sociale vent’anni dopo la rivoluzione d’Ottobre; la completa parità fra i generi proprio con un decreto  dell’anarchico García Oliver, ministro di Grazia e Giustizia (quando nella stragrande maggioranza delle rinomate “democrazie compiute”, le suffragette non avevano ancora ottenuto neppure il diritto di voto); il riconoscimento legale della socializzazione di fabbriche e campagne. E poi una piena riforma sanitaria, la parificazione/integrazione fra lavoro manuale ed intellettuale, la speciale attenzione all’educazione integrale, laica e non direttiva.

Il socialismo riprenderà forza e valore solo quando saprà tornare alle proprie radici che, soprattutto nei paesi latini, sono umanitarie e libertarie. Il pozzo non cala e non cresce e lo schema è sempre lo stesso.

L’eguaglianza senza la libertà non è possibile: verrà automaticamente negata anche (e soprattutto) fosse “ottenuta” tramite la dittatura. La strutturazione autoritaria porta alla creazione di una nuova classe di sfruttatori che possiede gli strumenti culturali – affatto “sovrastrutturali” e la cui “nazionalizzazione” non è possibile – atti a gestire ad usum delphini il “bene comune”, e quelli coercitivi forniti dalla dittatura del partito unico (indiscutibile casta dominante). All’equità non si potrà mai pervenire se non con un processo unitario, complesso e paritetico fra diritti civili e diritti sociali.

La libertà senza l’eguaglianza non esiste, perché le condizioni economiche fra gli uomini sono dispari. Non può esistere libertà nella miseria: le condizioni – di partenza e permanenti – avvantaggiano l’uno e condannano l’altro. Non si può giocare una partita di libertà con i dadi truccati del liberismo economico, delle sole leggi di mercato deificate e deregolamentate.

L’anarchismo è per l’eguaglianza nella libertà, senza sconti, veramente senza se e senza ma o inutili e controproducenti machiavellismi. La sua alterità – si sarebbe tentati di dire, in burla del marxismo, già “scientificamente provata” alla luce degli esiti catastrofici che il potere bolscevico aveva immediatamente prodotto ancora nel 1921 – è soprattutto etica. Però, perché l’etica domini la politica, occorre realizzare ciò che Berneri tentò senza riuscirvi: un vero rinnovamento (plurale ed inclusivo) del movimento libertario, ovvero la (ri)nascita di un anarchismo politico. Per dirla precisamente con lui: “L’anarchismo deve essere vasto nelle sue concezioni, audace, incontentabile. Se vuol vivere, adempiendo la sua missione d’avanguardia, deve differenziarsi e conservare alta la sua bandiera anche se questo può isolarlo nella ristretta cerchia dei suoi”.

 

Berneri in pillole: alcuni cenni biografici

 

Berneri è uno degli elementi principali del nuovo socialismo italiano dei primi del ‘900 (nasce nell’897). Fa quindi parte della medesima generazione di Gobetti, dei fratelli Rosselli, di E. Rossi, di A. Gramsci (maggiore di circa 6 anni) e di tutti questi fu stimato interlocutore. La sua produzione intellettuale non ha certo nulla da invidiare agli altri. Solo Gramsci sviluppa la propria produzione su di un orizzonte che, se è altrettanto vasto, ha – soprattutto a causa della lunga prigionia – occasione di ordinare con maggiore sistematicità. Berneri interloquisce inoltre con giovani (come Tasca, Pertini, Bordiga) e “vecchi” del socialismo, quali Malatesta, Salvemini, Turati, Fabbri.

Eppure è quasi sconosciuto ai più, complice il mondo accademico ed in primis la storiografia di sinistra. Non ha neppure una strada che lo ricordi. Con un’emblematica eccezione. Si legga Gianni Furlotti (1) (ogni commento è superfluo): “Appena fuori Reggio, sulla via Emilia che porta a Parma, il Rio Modolena è poco più di un fosso. La sua riva sinistra che parte dalla grande strada è un argine in terra battuta dai bordi erbosi che s’inoltra sinuoso nella campagna. E’ un sentiero che porta in nessun posto, e il Comune di Reggio una ventina d’anni or sono, l’ ha intitolato a Camillo Berneri. Due cose furono sùbito chiare: quell’argine non sarebbe mai assunto

a dignità di strada, e che sarebbe stata l’ultima tappa dell’esilio di Camillo. L’antifascista anarchico più estradato d’Europa”.

Berneri nasce a Lodi, ma sviluppa l’adolescenza fra Reggio Emilia, Arezzo e Firenze. Gira molto l’Italia sia per la sua professione d’insegnante di scuola superiore, che per l’impegno sociale che lo attrae sin da giovanissimo.

Viene alla politica quindicenne, aderendo al socialismo umanitario di Camillo Prampolini. E’ l’unico studente di Reggio Emilia nel socialismo ed uno dei pochissimi nel Paese. Collabora immediatamente a molte testate del partito: da “L’Avanguardia”, di Roma, organo della Federazione Giovanile Socialista Italiana, all’emiliana “La Giustizia” (domenicale), diretta dallo stesso leader reggiano, a “L’Università Popolare” di Luigi Molinari e “La Folla” di Milano, al foglio razionalista “La Luce” di Novara. Diviene segretario provinciale e membro del Comitato Centrale della Federazione Giovanile Socialista Italiana. Svolge soprattutto propaganda antiinterventista e subisce le prime aggressioni. Conosce un’altra grande figura, Torquato Gobbi (2), e – giudicando inadeguata di fronte alla guerra la politica del “non aderire e non sabotare” – passa nel 1916 all’anarchismo.

Berneri segna la svolta con una toccante lettera aperta (3) rivolta ai giovani socialisti. A testimonianza di un clima di grande correttezza che, a dispetto di tutto, pur dopo la rottura assicurò rispetto e stima reciproci – nonché dell’alto senso democratico che pervadeva la Federazione Socialista di Reggio Emilia – sarà utile riportare le seguenti considerazioni di Berneri: “Poiché vi era la consuetudine di leggere all’assemblea le lettere di dimissioni pensai di farne una che servisse alla propaganda. La spedii un venerdì, e la sera di poi mentre passeggiavo sotto i portici della Via Emilia i socialisti del circolo mi richiamarono che era l’ora della riunione (ci riunivamo ogni sabato). Io dissi fra me e me: Non hanno ricevuto le mie dimissioni. E risposi loro, non senza un po’ di batticuore: ‘Ma non avete avuta la mia lettera?’. ‘Si, mi risposero, l’abbiamo avuta, ma vieni lo stesso’. Allora andai. Ed ebbi una delle più vive emozioni della mia vita: quella di essere chiamato a presiedere l’ultima riunione alla quale partecipavo. Fu un gesto di simpatia del quale soltanto più tardi vidi l’enorme valore di educazione politica” (4).

Anche l’atteggiamento di Prampolini fu correttissimo: “ ‘Dunque, ci lasci’ egli disse al dimissionario, con tristezza; e dopo una pausa, soggiunse: ‘Ma resta sempre nel socialismo’ “ (5).

Ma Berneri non vede nell’anarchismo solo il veicolo per una lotta più determinata, bensì un movimento che in potenza può fornire risposte politiche maggiormente appropriate per un cambiamento del mondo qui ed ora.

E’ così, dopo esser stato cacciato per “idee sovversive” ed insofferenza verso il militarismo dall’Accademia allievi ufficiali di Modena e spedito al fronte nel 1918 sotto scorta dei carabinieri, che Berneri inizia la sua “dissacrante” riflessione libertaria.

Nel frattempo, viene deferito due volte al Tribunale di guerra, anche perché arrestato alla Casa del Popolo di Sestri Ponente durante lo stato d’assedio proclamato per i moti di Torino. Nel 1919, ancora sotto le armi, è inviato al confino a Pianosa in occasione dello sciopero generale del mese di luglio. Liberato, però ancora coscritto, continua il lavoro. Racconta Luce Fabbri: “Nel 1920, erano le dieci di sera, e parecchi compagni erano riuniti da me, quando sentimmo bussare alla porta ed una voce che mi chiamava che era affatto sconosciuta. Era lui. (…) Berneri passava la giornata alla caserma e la notte a lavorare con la penna, studiando e scrivendo per ‘Umanità Nova’” (6). Partecipa direttamente all’occupazione delle fabbriche, ai moti antifascisti e s’impegna nella preparazione armata delle squadre operaie, quale membro di una speciale commissione.

Berneri è presente da subito nei momenti topici del Movimento, dal Congresso di fondazione della Unione Anarchica Italiana (Ancona, aprile 1919), alla creazione del suo organo più importante, il quotidiano “Umanità Nova” (1920). S’impegna sin dal primo numero (Roma, 1.1.1924), con Errico Malatesta (7), Luigi Fabbri (8), Carlo Molaschi e Carlo Frigerio, nella principale rivista teorica libertaria: “Pensiero e Volontà”. Cionondimeno allarga sempre i propri orizzonti, continuando a partecipare al dibattito pubblico sui giornali socialisti e spaziando ovunque. Berneri presta la sua penna anche a “Conscientia” (9), rivista protestante, nonché ad altri periodicidichiaratamente non anarchici come “Pagine Libere” di Pistoia, “Humanitas” di Bari, “I nostri quaderni”, di Lanciano, l’ “Avanti!” di Milano e “La Critica Politica” di Roma. Studente universitario a Firenze, frequenta i più significativi gruppi intellettuali della città.

E’ influenzato da “La Voce”-”Lacerba” di Prezzolini-Papini (10). Per i rapporti con il primo, rimane il ricordo (molto postumo) dedicato a Berneri all’interno di Prezzolini alla finestra: “(…) appariva nella conversazione di una cultura non comune, come poi mi son accorto dalle sue citazioni negli scritti che ho letto di lui” (11).

Però Berneri è attratto soprattutto da “L’Unità” (Firenze-Roma 1911-20), settimanale creato da Salvemini (uno dei “padri nobili” del liberalsocialismo italiano, nel 1929 fondatore con i fratelli Rosselli, Lussu, Nitti ed altri, della formazione politica Giustizia e Libertà). Con questi stabilirà, come vedremo, una relazione stretta e duratura (sarà il docente più apprezzato e più vicino negli studi accademici). E’ proprio Salvemini a testimoniare che: “Quando Carlo e Nello Rosselli ed Ernesto Rossi fondarono un gruppo di studi sociali, Berneri fu uno degli assidui” (12).

Berneri collaborerà quindi al “forum” antifascista raccolto intorno ad uno dei primissimi fogli clandestini italiani, il “Non mollare” (1925). Parallela all’impegno culturale, la sua attività militante non subisce mai pause, è anzi sempre più febbrile. Come scrive lui stesso: “In quel tempo ero membro del Consiglio Nazionale dell’Unione Anarchica Italiana e della Federazione Giovanile Rivoluzionaria. Ebbi qualche influenza, pur non essendo nei quadri, nel campo degli Arditi del Popolo, ed entrai nell’ ‘Italia Libera’ (sezione fiorentina) partecipando alla sua attività clandestina. Dal 1924 al 1926 lavorai illegalmente (diffusione stampa antifascista, ecc.), partecipando nell’inverno ‘26 al convegno anarchico delle Marche, del quale fui delegato al convegno nazionale dell’Unione Anarchica Italiana” (13).

Una grande curiosità intellettuale

La curiosità intellettuale del lodigiano non ha praticamente confine. Per questo, di lui si potrà dire: “Contenuta nell’arco temporale di un ventennio, la vicenda politica e intellettuale di Camillo Berneri si rivela, in misura in cui viene recuperata negli archivi, prodigiosa di opere. E’ impressionante la mole e la varietà degli scritti; vasto il solco aperto nella problematica ideale e politica di quel periodo; unica e pressoché isolata figura nel grande affresco che raffigura la battaglia libertaria nell’Europa dell’interguerra” (14).

Persino in campo psicanalitico, singolarmente, produsse almeno due opere molto significative per l’epoca: “A Firenze, oltre che con Salvemini, Berneri aveva lavorato con Enzo Bonaventura, autore di un manuale divulgativo sul pensiero freudiano. Ebreo (…), Bonaventura tenne a Firenze, nel primo dopoguerra, un corso sulla psicanalisi che vide Berneri tra i più (…) attenti ascoltatori. E’ mescolando il ricordo delle conversazioni con Bonaventura, insieme alla lettura folgorante dell’edizione francese, curata da Marie Bonaparte, del Ricordo d’infanzia di Leonardo Da Vinci, che l’anarchico inizia a riflettere sull’opera freudiana, sulla libido e sul réfoulement. (…) Ai ricordi d’infanzia di Leonardo è dedicato un apposito studio. Per tutte queste ragioni Le Juif antisémite (15) va inserito nel dossier di Michel David, su La psicoanalisi nella cultura italiana: la figura di Berneri costituisce un capitolo importante nella storia della prima, travagliata penetrazione di  Freud in Italia”. Così Roberto Cavaglion, autore di studi molto felici su Berneri ed il mondo ebraico (16). Per lui: “…Berneri (va) considerato oggi un intellettuale del nostro Novecento tra i più attenti al problema ebraico, ipersensibile dinnanzi ai segni premonitori di una campagna razziale imminente, ma da nessuno, escluso appunto lui, avvertita come tale. (…) Ma è comunque un dato ancora sconosciuto ai più. Nessun minimo cenno a Berneri, e al suo libro uscito in edizione francese presso una casa editrice assai nota nel mondo del fuoruscitismo (17), ritroviamo in alcuna opera dedicata alla storia degli ebrei; né è mai stata fatta, in sede di ricerca storiografica, una indagine a tappeto sulla stampa periodica anarchica italiana, da sempre sensibile alla questione. Né infine Le Juif antisémite è ricordato se non di sfuggita nella memorialistica dell’antifascismo in Francia. Qualche significativo cenno a Berneri come figura dell’anarchismo troviamo adesso nel volume collettivo AAVV, P. Gobetti e la Francia, a cura del Centro Studi Piero Gobetti di Torino, Milano, F. Angeli, 1985, pp. 43 e 53. Sulle ragioni del silenzio che avvolge (…) questo libro (…) meriterebbe fare un discorso a parte” (18). Cavaglion cita la (tuttora) validissima ultima esortazione contenuta ne L’ebreo antisemita: “A noi rimane il piacere di poter rileggere di tanto in tanto il suo appello finale, rimeditando sul suo estremo ‘Ascolta, Israele!’ di sapore bebeliano (l’antisemitismo come socialismo degli imbecilli) (…)” (19).

Stesso silenzio sulla berneriana, brillantissima “psicologia di un dittatore” (20), intitolata Mussolini grande attore (21). Va segnalato, in proposito, quanto ha scoperto Pier Carlo Masini: “(…) fu sulla base dell’indirizzo  iennese di S. Freud, trovato da un informatore nella sua agenda, che la polizia fascista condusse l’inchiesta sulla Scuola psico-analitica e sulle sue propaggini in Italia. Quando saranno aperti gli archivi di Freud, probabilmente ne uscirà fuori anche la lettera con cui Berneri accompagnava l’invio dell’opuscolo Le Juif antisémite al fondatore della psico-analisi (…)” (22).

Berneri, con questo libro, ci ha regalato un testo politico redatto con un tempismo storico che non ha pari. Solo un ebreo tedesco, Theodor Lessing, aveva appena scritto un pamphlet (23) simile, cosa che pagò con la vita, nel 1933, raggiunto dai sicari dei servizi segreti nazisti fino a Marienbad, a dimostrazione della particolare sensibilità di Hitler sull’argomento (si ricordi il contenzioso aperto sulle voci relative ad una possibile ascendenza “non ariana” del “fuhrer”).

Già dalle prime battute ci si accorge che Berneri non è un personaggio “qualunque”. Eppure è rimasto particolarmente sconosciuto al “grande pubblico”. La verità è che a Berneri è stata destinata la sorte da sempre riservata all’anarchismo, contro il quale la congiura del silenzio ha operato ad ogni “latitudine politica” o “longitudine storica”. Una vergogna che, già prima dell’esperienza spagnola (peraltro senza citare neppure Messico, Italia, Francia, Portogallo, Argentina, Brasile, Svezia, Cina, Giappone, Corea…), denunciò chiaramente anche il lodigiano stesso: “Il ruolo degli anarchici nella rivoluzione russa, in quella germanica e in quella ungherese è materia, quando lo è, di paragrafo, mentre lo sarebbe per più di un capitolo: superficialità e tendenziosità che si rivelano in tutta la storiografia contemporanea più in voga (…)” (24).

Gaetano Salvemini testimoniò il seguente ricordo di Berneri (che con lui si laureò): “Aveva il gusto dei fatti precisi. In lui l’immaginazione, disciolta da ogni legame col presente, in fatto di possibilità sociali, si associava a una cura meticolosa per i particolari immediati nello studio e nella pratica di ogni giorno. Si interessava di tutto con avidità insaziabile. Mentre molti anarchici sono come le case le cui finestre sulla strada sono tutte murate (a dire il vero non sono i soli!) lui teneva aperte tutte le finestre” (25).

Berneri si laureò in filosofia il 27 novembre 1922, con tesi ad indirizzo pedagogico (sulle riforme scolastiche in Piemonte intorno al 1848) (26).

Negatagli per veto prefettizio nell’autunno 1925, avendo rifiutato di giurare fedeltà al regime (27), la cattedra di Liceo cui – dopo aver abitato ad Arezzo (città nella quale nel ‘18 nacque la primogenita Maria Luisa) ed ancora a Firenze (ove l’anno dopo vide la luce l’altra figlia, Giliana); dopo aver insegnato anche a Montepulciano, Cortona, Bellagio, Milano e Macerata – aveva diritto, ottenne infine solo un incarico meno remunerato presso l’Istituto Tecnico di Camerino. Ormai era chiaro che non lo avrebbero lasciato più vivere.

Esilio

Sempre segnalato e seguito dalla polizia, aggredito dai picchiatori in orbace, Berneri e famiglia (28) ripararono in Francia nell’aprile 1926. Qui il nostro attraversò periodi di vera e propria indigenza e non esitò a guadagnarsi da vivere esercitando qualsiasi lavoro, anche quello dell’edile.

Comincia così, dopo un breve periodo di clandestinità, il suo “esilio senza requie” (29), durante il quale gli affibbiano il (ben meritato) titolo di “italiano più espulso d’Europa” (30). Partecipa in prima persona  all’antifascismo d’oltralpe e si fa promotore di iniziative ove mette a rischio la propria vita ed è fra gli “osservati speciali” dell’OVRA. La tentacolare polizia segreta del regime, che imbastisce a suo danno più d’una montatura, facendolo sbattere in galera ed espellere anche oltralpe. E’ quindi al centro di una grande campagna per la riammissione dal Belgio e dal Lussemburgo in Francia. Viene braccato anche in Svizzera, Olanda e Germania, sempre

combattendo, con la critica e con i fatti, il tiepidume dell’ “ufficialità” del “fuoruscitismo” antifascista, il presenzialismo, l’attendismo ed il compromesso. Intanto colleziona condanne contumaci e nuove denunce ed istruttorie in Italia.

Berneri spazia, è presente e considerato in tutti i dibattiti, anche se questo nel mondo anarchico è poco recepito ed ancor meno compreso: “Per conto mio, ho collaborato alla stampa socialista, a quella repubblicana, a quella protestante così come ho sempre accettato di parlare per invito di partiti avversari, a condizione di esser del tutto libero di scrivere o di parlare. Questo mio modo di vedere ha creato leggende, delle quali non mi sono mai curato” (31).

All’interno del movimento libertario, articoli e saggi del lodigiano sono conosciuti in Europa e nelle due Americhe già dal 1926 al 1932, ben prima del suo arrivo in Spagna. Collabora a “Il Monito”, “La Lotta Umana” e “La Revue Anarchiste” di Parigi, a “L’en dehors” di Orleans, a “Le Reveil” di Ginevra e “Vogliamo” di Lugano, a “Guerra di Classe” di Bruxelles, a “La Revista Blanca” di Barcellona e ad “Estudios” di Valencia, ad “Arbetaren” di Stoccolma, a “Der Syndikalist” di Berlino, così come a “Studi Sociali” di Montevideo; “L’Adunata dei Refrattari”, New York; “Germinal”, Chicago (Illinois); “Il Pensiero”, “Antorcha”, “Niervo”, “La Protesta” e relativo supplemento, di Buenos Aires.

Lo scontro con il fascismo e la critica del massimalismo e della demagogia “di sinistra”

L’amicizia con Carlo Rosselli è stata determinante per Berneri. Come detto, i due s’erano legati dal tempo della condivisa esperienza di studio all’Università di Firenze presso la cattedra di Gaetano Salvemini, nel corso della quale avevano maturato un’intransigente avversione per ogni totalitarismo ed uno smisurato amore per la giustizia sociale.

Entrambi combatterono il fascismo con tutte le loro forze, ma parimenti non furono certo teneri nel giudizio sulla follia di massa che aveva sconvolto l’Italia, segnalando le responsabilità del Paese reale.

Rosselli nel 1930 ebbe modo di scrivere: “In una certa misura il fascismo è stato l’autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto della unanimità, che fugge l’eresia, che sogna il trionfo del facile, della fiducia, dell’entusiasmo. Lottare contro il fascismo non significa dunque lottare solo contro una reazione di classe feroce e cieca, ma anche contro una certa mentalità, una sensibilità, contro delle tradizioni che sono patrimonio, purtroppo inconsapevole, di larghe correnti popolari” (32).

Berneri, intorno alla metà dello stesso decennio, aggiunse: “Quando un avventuriero come Mussolini può giungere al potere, vuol dire che il paese non è né sano né maturo. Bisogna che gli italiani si sbarazzino di Mussolini, ma bisogna anche che si sbarazzino dei difetti che hanno permesso la vittoria del fascismo” (33). Oppure: “Bisogna abbattere il regime fascista, ma bisogna sanare l’Italia della mistica fascista, che non è che una manifestazione patogena della sifilide politica degli italiani: il facilonismo retorico” (34). Ma già nel 1929 aveva formulato un vero e proprio “vaticinio” sul rapporto fra i connazionali ed il regime, preconizzando le condizioni della

caduta dello stesso, cosa che avverrà solo a causa dei rovesci della guerra nel 1943: “Il popolo italiano non è ancora un branco di schiavi, non è materia morta. Ma non è neppure un popolo uso a libertà e di libertà geloso. Non è l’asino paziente, ma non è il leone incatenato. La rivolta non sarà morale. Sarà lo scoppio di un generale malcontento egoistico, di  una esasperazione di ventri vuoti” (35).

Il lodigiano non ha mai amato la demagogia: “Una bella rivelazione fu per me una conferenza di Angelo Tasca, che illustrò la questione della guerra di Libia con il manuale di statistica del Colajanni alla mano. Parlare in un comizio con tanto di manuale statistico alla mano era trasferire alla piazza la serietà della scuola” (36). Per questo non lesinò critiche anche alla sinistra: “Oggi è costume ridere della retorica fascista. Ma siamo delle scimmie che ridono davanti ad uno specchio” (37).

La politica delle alleanze e la lezione storica dello scontro con i due totalitarismi

Ha scritto Pier Carlo Masini che Berneri: “(…) si sentiva vicino ai repubblicani di Critica politica, (…) trasferiva la tematica federalista all’interno del movimento operaio, fino ad allora egemonizzato dal centralismo di marca germanico-socialdemocratica e di marca russo-bolscevica

Il liberalismo di Gobetti era considerato compatibile per un’alleanza con l’anarchismo, perché “richiama a Pareto, a Einaudi, ecc. ben più che ai liberali inglesi” (40).

Carlo Rosselli, autore durante il confino nell’isola di Lipari e prima di riparare in Francia, dell’opera Socialismo liberale, fu il principale animatore di un’organizzazione politica sincretista, federalista e liberal-socialista che, soprattutto attraverso Berneri, dialogò molto con gli anarchici.

Questo portò alla realizzazione – tra alterne vicende – di una colonna mista che, inquadrata fra le forze della CNT, ebbe in Rosselli il comandante (41) ed in Berneri il commissario politico e che raggruppò, oltre ai volontari di Giustizia e Libertà, parte significativa dei duemila anarchici italiani accorsi in Spagna per combattere a fianco della Repubblica nella guerra rivoluzionaria che seguì il colpo di stato fascista del 17 luglio 1936. Va segnalato che questa milizia precorse di molto le (oggi) più famose “Brigate Internazionali” di matrice comunista. Intellettuali militanti, Berneri e Rosselli combatterono in prima linea sul fronte di Huesca. Il lodigiano venne ferito nella battaglia per la conquista di Monte Pelato (42).

Morte di Berneri
(cinque uomini, un unico destino)

L’esistenza di Berneri, Gobetti e Rosselli venne segnata da un feroce destino comune, dettato proprio dall’impatto con l’intolleranza espressa dagli assolutismi ideologici del “secolo breve”. Non uno di loro ebbe vita facile: oltre che con gli avversari, dovettero scontrarsi anche con molti “compagni di strada”. Come Berneri, pure Rosselli non era molto amato da una certa “sinistra”. Il lodigiano ne prese le difese: “ (…) sono curiosamente e cordialmente attento all’attività dei giellisti che conosco: quelli di Parigi. Io mi rifiuto di considerare «diciannovisti ritardatari» dei giovani intelligenti, colti e di animo generoso nei quali non riesco a scorgere una forma mentis mussoliniana ma nei quali vedo, invece, una ferma volontà di formazione politica, il disgusto per l’improvvisazione programmatica e per la demagogia, un’appassionata ricerca di colmare le proprie lacune di cultura e di esperienza nello studio e nel contatto con elementi dei vari partiti e movimenti dell’emigrazione antifascista” (43). A nessuno di loro – con Antonio Gramsci (che ne condivise la sorte), i maggiori intellettuali  dello antifascismo italiano di nuova generazione – venne consentito di invecchiare.

Il primo segnale fu la prematura scomparsa di Gobetti, non ancora venticinquenne, avvenuta il 15 febbraio 1926 a Parigi, dove era riparato da soli nove giorni onde ricoverarsi in clinica per i postumi del brutale pestaggio (che gli fu fatale) subito in Italia dai fascisti due anni prima (44). Rosselli (con il fratello Nello) (45) venne poi eliminato in Francia dai sicari di Mussolini il 9 giugno 1937. Con poco anticipo, nello stesso anno, Berneri – come Rosselli non ancora quarantenne – venne prelevato da casa ed assassinato a sangue freddo, nel corso delle giornate di maggio a Barcellona, da agenti staliniani sguinzagliatigli contro da Palmiro Togliatti. Com’è noto, questi era segretario in esilio del Partito Comunista d’Italia e plenipotenziario nella penisola iberica di quel Komintern del quale, con coraggio, il lodigiano aveva resi pubblici nel 1933 i vergognosi compromessi e cedimenti verso il nazismo ingiunti al Partito Comunista tedesco, indotto a tempestare “col calcio del fucile il sistema di Weimar” (46).

Erano i prodromi della campagna contro il “socialfascismo”, orchestrata da Stalin a scapito di tutti i gruppi di sinistra che non fossero direttamente controllati da Mosca. Berneri aveva denunciato che la Spagna era “posta tra due fuochi: Burgos e Mosca” (47), accomunando i totalitarismi rappresentati dalla capitale-fantoccio di Franco e da quella dell’URSS. Aveva infine “osato” difendere il POUM, piccolo ma combattivo partito comunista dissidente (spesso oggi impropriamente definito come “trotskista”), vergognosamente denigrato dagli stalinisti, alleato politico del movimento libertario.

L’altro grande giovane intellettuale italiano dell’epoca, la vera mente del comunismo marxista in questo Paese – peraltro affatto gradito a Stalin – era deceduto appena nove giorni prima a Roma solo quarantaseienne, dopo undici anni di carcere fascista e confino in Sardegna nel corso dei quali non aveva praticamente ricevuto alcuna cura. Nonostante fosse ammalato di tubercolosi e “soggetto a svenimenti prolungati e febbri altissime”, come scrisse lo stesso lodigiano nel Discorso in morte di Antonio Gramsci (48), l’ultimo che Berneri pronunciò dalla radio CNT-FAI di Catalogna, la sera del 3 maggio, solo quarantotto ore prima di venire rapito.

Fra Berneri e Gramsci esisteva un rapporto di comune, reciproco, rispetto. Il lodigiano aveva scritto interventi anche per “L’Ordine Nuovo, diretto dall’intellettuale comunista, foglio che ammirava e che teneva come esempio, unitamente a “L’Unitàdi Salvemini, per un suo progetto di rivista che non riuscì mai a realizzare.

Con Gramsci polemizzò, si scontrò sul bolscevismo e sulla concezione del primato operaio: “In Italia, la mistica industrialista di quelli dell’Ordine Nuovo mi appariva (…) come un fenomeno di reazione analogo a quello del futurismo” (49). Ma ne ebbe sempre quella grande considerazione che testimoniano i contenuti dell’elogio funebre per il “sardo tenace” (letto appunto a Radio Barcellona il giorno prima della morte): “Gramsci era un intellettuale nel senso intero della parola, troppo sovente usata abusivamente per indicare chiunque abbia fatto gli studi” (50).

Per ironia della sorte, quando venne sequestrato per essere ucciso, sul suo tavolo stava l’appello all’unità contro il franchismo che il nostro stava scrivendo onde scongiurare la guerra civile nella guerra civile, nei giorni dell’assalto dei comunisti alla centrale telefonica della capitale catalana. Centrale che dal 19 luglio ‘36 era controllata dalle milizie anarcosindacaliste, cioè da quando esse avevano inchiodato nelle caserme e costretto alla resa i militari golpisti nei due terzi della Spagna.

L’assassinio brutale ed a sangue freddo suscitò grande indignazione. Peraltro aveva fatto molto felici le spie dell’OVRA che euforicamente comunicarono a Roma che la “Ceka del partito comunista” s’era sbarazzata del più pericoloso avversario in Spagna fra le fila repubblicane.

Nenni, nel discorso d’apertura del 3° congresso del Partito Socialista in esilio denunciò con forza le responsabilità dei  comunisti staliniani: “Berneri è stato assassinato e noi dobbiamo dirlo” (Parigi, resoconto del 28 giugno 1937). Lo stesso aveva già fatto Angelica Balabanoff (51) dalle colonne del “Nuovo Avanti” del 6 giugno 1937: “E’ caduto assassinato vilmente, freddamente dalla Ceka controrivoluzionaria. Il PSI saluta il nuovo martire della rivoluzione spagnola, ripetendo più forte che mai le sue ultime parole: ‘La rivoluzione deve vincere su due fronti e vincerà’”. Altrettanto determinate furono ovviamente le denunce di Carlo Rosselli, Ernesto Rossi e tantissimi altri. Sul “Grido del Popolo” del 20 maggio 1937, organo del Fronte Unico controllato dai comunisti italiani, Togliatti, senza scomporsi e dopo aver attaccato giellini e socialisti deplorando cinicamente “le tradizioni di un passato prefascista, quando gli avversari politici potevano essere

nello stesso tempo amici personali”, rivendicò invece direttamente l’eliminazione di Camillo Berneri, “giustiziato dalla Rivoluzione democratica, a cui nessun antifascista può negare il diritto di legittima difesa”.

Ma fu una mossa molto avventata. Nel volgere di poco, sommerso dall’ondata di sdegno, cambiò tesi, negando ogni responsabilità e addebitando alla malasorte ed alle pallottole vaganti la morte del lodigiano. Sino a giungere persino, in una polemica aperta da Gaetano Salvemini, a tessere le lodi di Berneri, questa volta qualificato come elemento serio  dell’anarchismo, “che si stava avvicinando ai socialisti unificati” (cioè ai comunisti), addirittura nemico degli ‘anarchici cattivi’, definiti “incontrollati” (“Rinascita”, marzo 1950).

Su tutto ciò non v’è davvero bisogno di commento.

La differenza fra gradualismo e riformismo. il “sovietismo” di Berneri

 

Berneri additò compiutamente la differenza, non solo tattica, fra gradualismo intransigente e riformismo concertativo: “Vi è un possibilismo ingenuo come vi è un estremismo ingenuo. Tutto sta non nell’essere possibilisti od estremisti bensì nell’essere rivoluzionari intelligenti” (52). A sinistra,

l’errore sta nello statalismo marxista, vera e propria forma di revisionismo negativo, incline al compromesso nella socialdemocrazia e nel leninismo alla riedificazione autoritaria (e per questo socialmente e moralmente iniquo): “L’ibrido connubio del rivoluzionarismo apocalittico e del gradualismo determinista che era in Marx si perpetuò nella socialdemocrazia. Dal primo derivò la trascuratezza verso i problemi dell’economia di transizione, dal secondo il riformismo” (53).

Berneri tenne in Spagna una posizione pragmatica. Non criticò i leaders della CNT dell’epoca perché “ministri”. Li criticò quando non seppero decidersi a fare quello che andava fatto. Per questo appoggiò il piano elaborato da Pierre Besnard, segretario dell’Internazionale anarcosindacalista (al tempo AIT). Significava assumersi delle precise responsabilità di fronte alla storia. Rendere innocuo il poco esteso partito comunista di stretta osservanza moscovita, al quale venivano rimessi gli approvvigionamenti sovietici, rendendo di pubblico dominio la vergognosa manovra di accantonare le armi nelle retrovie in funzione della già prevista repressione antianarchica. Dichiarare indipendenti le ex colonie (ove avevano base le truppe golpiste) e riconoscerne la legittima rappresentanza autoctona. Liberare Abdel Krim, capo rivoluzionario marocchino, per scatenare la guerriglia alle spalle di Franco, anche se questi era prigioniero dei tiepidi “alleati” francesi (governo di “Fronte Popolare” social-comunista) che più del fascismo temevano egoisticamente un “contagio” indipendentista verso l’Algeria. Intensificare una guerra di resistenza “mordi e fuggi” nei territori iberici controllati dai fascisti e fomentare rivolte in Portogallo contro il regime di Salazar. Confiscare l’oro della Banca di Spagna per acquistare liberamente le armi necessarie e sopperire così alle carenze tattiche e strategiche dovute alle continue forniture italiane e tedesche alle truppe di Franco. Disgraziatamente il piano, al quale erano favorevoli Buenaventura Durruti ed altri, fu bloccato all’ultimo momento da Federica Montseny e da una parte dei leaders cenetisti. Così, quindici giorni dopo, il tesoro nazionale finì in URSS e non venne restituito nemmeno alla caduta di Franco, perché introitato – complice parte del governo – come smisurato pagamento delle armi “generosamente” inviate alla Repubblica. Per liberarsi dello stato occorreva avere una precisa autonomia politica in grado di esautorare il sistema, svuotandolo con la difesa e l’estensione delle conquiste popolari ed al tempo stesso di combattere efficacemente il fascismo internazionale e la quinta colonna legata a Mosca.

La posizione del lodigiano è pragmatica, ma non deroga dai binari  dell’anarchismo, così come quando aveva difeso il “sovietismo” dai “puristi” che lo rifiutavano a priori: “Recisamente contrari al sovietismo, noi? Noi che nelle autonomie locali avremmo la migliore trincea per sbarrare la strada allo Stato? Noi che non possiamo sognare di veder realizzata l’anarchia se non dopo la più lunga e la più profonda esperienza di auto-democrazia, nel campo dell’amministrazione cooperativa e comunale?

(54). Vedeva nel protagonismo del movimento anarchico in quanto tale lo strumento per utilizzare l’impianto comunalista della rete dei soviet (letteralmente “comune”), non l’occasione per ritrarsi dallo scontro con i bolscevichi in nome di forme stereotipe di “autismo ideologico”. Ma al tempo stesso non cadde mai nell’errore di voler “copiare” i bolscevichi o abbandonarsi, immoti ed abbacinati, alla loro guida: “Il sovietismo è il sistema di auto-amministrazione popolare e risponde ai bisogni fondamentali della popolazione, rimasta priva degli organi amministrativi statali. Questo sistema può permettere la ripresa della vita economica, compromessa dal caos insurrezionale e può servire di base alla formazione di un nuovo ordine sociale, costituendo inoltre una proficua palestra di auto-amministrazione preparante il popolo a sistemi di maggiore autonomia. E’ compito degli anarchici in seno al sovietismo di cercare di conservare ad esso il suo carattere spontaneo, autonomo, extra-statale: di cercare che

esso sia un sistema essenzialmente amministrativo e non diventi un organismo politico, destinato, in tal caso, a partorire uno stato accentrato e la dittatura del partito prevalente; di lottare contro le tendenze burocratiche e poliziesche, cercando anche di circoscrivere la sua azione legislativa ai regolamenti rispondenti all’utilità generale” (55). Anche il sovietismo non è che un mezzo: la meta è più alta. Perciò è transitorio: “Resta inteso che gli anarchici considerano il sovietismo come un sistema transitorio e superabile, e che non esiteranno a porsi contro di esso quando lo vedessero degenerare in istrumento di dittatura ed accentramento” (56).

Il fatto che Camillo Berneri, un instancabile costruttore di progetti ed un intransigente organizzatore, sia stato poi curato e ricordato da morto (ed i suoi scritti così spesso ospitati in vita), soprattutto da anarchici dichiaratamente antiorganizzatori o intransigenti (come nel caso della redazione de “L’Adunata dei Refrattari” o di Aurelio Chessa, fondatore in Italia dell’ “Archivio Famiglia Berneri”) (57), è un (apparente) paradosso che conferma la tesi. Anche la dirigenza cenetista fu, davvero, quantomeno improvvida nel non preoccuparsi di fornire a Berneri adeguata protezione, nonostante egli fosse uno dei più esposti alle rappresaglie degli agenti del Komintern nel pieno dello scontro fra anarchici e “cekisti”.

Troppo spesso si ricorda la figura di Berneri solo come quella di uno dei “santi degli ultimi giorni” che si opposero strenuamente alla degenerazione della rivoluzione spagnola. Il suo testo più diffuso a livello internazionale è la “Lettera aperta alla compagna Federica Montseny” (58), del 14 aprile 1937, con la quale metteva in guardia contro gli arretramenti della rivoluzione e la compiacenza verso i comunisti, con la famosa frase: “E’ l’ora di rendersi conto se gli anarchici stanno al governo per fare da vestali ad un fuoco che sta per spegnersi o vi stanno ormai soltanto per far da berretto frigio a politicanti trescanti con il nemico o con le forze della restaurazione della ‘repubblica di tutte le classi’”. La stessa lettera nella quale il lodigiano ricordava come, nonostante il 17 dicembre 1936 la “Pravda” avesse già proclamato: “In quanto alla Catalogna è cominciata la pulizia degli elementi trotskisti e anarco-sindacalisti, opera che sarà condotta con la stessa energia con la quale la si condusse nell’URSS”, proprio la Montseny aveva, più recentemente, rilasciato in un’intervista la seguente, grottesca dichiarazione: “…non fu Lenin il vero costruttore della Russia, bensì Stalin, spirito realizzatore…”.

Eppure Berneri non era stato fra quelli che s’erano stracciate le vesti di fronte alla nomina dei ministri anarchici. Per lui il problema non era l’utilizzazione (peraltro incidentale) delle istituzioni. Aveva difeso le scelte della dirigenza cenetista, collaborato con essa e scritto cose molto apprezzate per un lungo elenco di giornali libertari spagnoli (la “Revista Blanca”, “Mas Lejos”, “Tierra y Libertad”, “Tiempos Nuevos”, “Estudios”, il quotidiano “Solidaridad Obrera”), dai quali il suo apporto era richiesto e sollecitato (59).

Si preoccupava bensì dell’assenza di un progetto volto a privilegiare ed estendere, coscientemente ed in modo organico, le conquiste rivoluzionarie ottenute sul campo e le molteplici strutture autogestionarie e federaliste che l’anarcosindacalismo aveva comunque dimostrato di saper creare, dando libero sfogo ad un’esperienza accumulata in decenni e decenni di lotte. Se vi fosse stata abitudine alla politica, le istituzioni sarebbero state svuotate, non dall’interno ma “dall’esterno”, della presenza dello stato.

Egli vide bene l’originalità della “Spagna lavoratrice” (60), che: “…coordina, potenziandole vieppiù, le proprie forze ricostruttive; e questo su schemi propri e non scimmiottando questa o quella rivoluzione” (61). Seppe riconoscere davvero la trasformazione avanzatissima della società spagnola, gli elementi d’inaudita potenza che s’erano sviluppati, come l’abolizione del denaro in grandi territori rurali, la socializzazione delle fabbriche, delle campagne, dei servizi ed il doppio miracolo di una tenuta della funzionalità e dell’aumento della produzione. Era il tipo di prassi rivoluzionaria alla quale aveva sempre creduto, capace di coniugare elementi forti dal punto di vista economico con successi altrettanto importanti sul piano delle libertà e dei diritti civili. Senza mai venir meno al pluralismo politico ed alla  democrazia sostanziale, ancorché nel mezzo di una guerra civile e di un forte scontro interno con chi – comunisti in testa – intendeva “gestire” opportunisticamente la guerra ed abbandonare la rivoluzione, in un patto scellerato che contemplava la restituzione delle terre e delle industrie.

Esattamente a partire da quelle realizzazioni, che comunque restano agli atti come le più importanti nell’ambito di una rivoluzione, e dall’esame delle cause della sconfitta, assume maggior valore il monito di Berneri. Ma davvero pochi ne hanno, ancor oggi, compreso il messaggio, in primo luogo per quanto attiene alla necessità impellente di una revisione profonda nel campo socialista libertario, arato male e senza sistema.

L’anarchismo fra politica ed antipolitica (nessun sogno romantico)

A quasi vent’anni dalla caduta del muro di Berlino e dalla tragicomica fine del socialismo “surreale”, l’opera di questo intellettuale militante, più unico che raro nel panorama libertario “classico” per le sue prese di posizione insieme eterodosse ed illuminanti, assume una valenza universale, utile non solo agli anarchici, bensì a tutti quanti abbiano finalmente chiaro che il rinnovamento della sinistra non può essere mera riedificazione di facciata, pena la definitiva scomparsa del complessivo movimento d’emancipazione dalla scena del panorama politico.

Ed è proprio dalla “crisi della politica” che deriva l’attualità del pensiero di Camillo Berneri. Da quella richiesta forte, e sempre meno eludibile, di una trasformazione della mistificazione della delega assoluta di potere in partecipazione cosciente ed attiva, in decentramento federalista ed in democrazia diretta. Dalla spinta ad invertire l’incipit fondamentale dell’organizzazione umana, nel passaggio dei modi della rappresentanza, per dirla con Berneri, dal “sono governati” al “si governano” (62).

In verità, in politica egli concesse ben poco al romanticismo: “Il romantico ama i tempi remoti perché può metterli in cornice. Il nuovo gli sfugge e gli fa paura. Così il romantico ama gli eroi, perché può idealizzarli a suo piacimento” (63). Il romanticismo vive una contraddizione insanabile con l’anarchismo: “Il romanticismo è la statuaria della letteratura, della storiografia e della filosofia della storia. Il romanticismo confonde facilmente la grandezza con la fama, l’eroismo con il successo. E’ storicista” (64). Infine, il segno tradizionale e distintivo del romanticismo “classico” inclina pericolosamente a destra: “E il romanticismo reazionario accettò il prete ed elogiò il boia: perché riconducevano il popolaccio dietro le quinte della storia. Il popolo fa troppo fracasso e mette in subbuglio lo spirito. (…) Il romanticismo era contemplazione più che azione, mollezza più che volontà, egoismo più che generosità. E il suo sogno fu quello reazionario”(65).

 

La questione del programma

 

Berneri è soprattutto un “animale politico”, abituato a filtrare ogni cosa alla luce di una enorme capacità critica.

Ma sbaglierebbe chi pensasse a Berneri semplicemente come ad un “dissacratore” della tradizione anarchica. Il suo approccio è semmai contrario ed inverso e denota l’impegno consapevole di operare uno screening fra ciò che di vivo, vitale ed “immortale” è in essa contenuto e quanto invece, da elemento secondario, congiunturale e tattico è, per un gioco “inerziale”, assurto impropriamente al rango di principio. Per lui, i principi non escludono la politica: sono semmai quanti negano la politica a confondere gli elementi tattici con le questioni di principio. Berneri vuole: “un anarchismo idealista ed insieme realista, un anarchismo, insomma, che innesta verità nuove al tronco delle sue verità fondamentali, sapendo potare i suoi vecchi rami. Non opera di facile demolizione, di nullismo ipercritico, ma rinnovamento che arricchisce il patrimonio originale” (66). Di concerto ritenne perciò necessario combattere i “tabù” dei dottrinari, la fobia e l’ideologismo della “degenerazione”: “(…) e non pianteremo più meli perché molte mele hanno il baco? Ogni cosa che è nel mondo ha il proprio baco. Tutto sta nel saperlo levare. Preoccuparsi eccessivamente delle degenerazioni possibili, conduce ad un errore comune a molti tra noi: alla negazione assoluta” (67).

La generalizzazione negativa è un arbitrio logico” (68).

Il compito che coscientemente s’impose fu quello di demolire le costruzioni incerte edificate sotto l’influenza di pratiche “rituali”. Per questo, la lettura di Berneri è più che propedeutica al ritrovamento di un anarchismo in grado di agire a tutto campo, orgoglioso delle proprie radici ed altamente “competitivo” rispetto agli avversari, “conservatori” o “progressisti”. Berneri lavora affinché l’azione ed il pensiero libertario vengano restituiti alla propria dimensione naturale: per un anarchismo sempre pronto a mettersi in discussione, mai chiuso rispetto alla verifica della prassi, aperto a previsione e revisione. Capace quindi di rispondere alle sfide, di reinventarsi e soprattutto di esprimere progettualità.

 

 

 

Contro “l’anarchismo dagli occhiali rosa”

 

Il nostro ingaggerà dunque una lotta – rispettosa ma senza quartiere – contro l’ubriacatura positivista, il semplicismo, l’ottimismo spontaneista e l’ “anarchismo dagli occhiali rosa” (69) di kropotkiniana memoria, presenti anche in altro filone dell’anarchismo: quello comunista. Fra le varie, dichiarerà: “Respinto da Bakunin il Rousseau arcadico e contrattualista, l’ideologia kropotkiniana ci ha riportati all’ottimismo e all’evoluzionismo solidarista. Sul terreno dell’ottimismo antropologico, l’individualismo ha perpetuato il processo negativo dell’ideologia anarchica, conciliando arbitrariamente la libertà del singolo con le necessità sociali, confondendo l’associazione con la società, romanticizzando il dualismo libertà ed autorità in uno statico ed assoluto antagonismo. Il solidarismo kropotkiniano, sviluppatosi sul terreno naturalistico ed etnografico, confuse l’armonia di necessità biologica delle api con quella discordia discors e quella concordia concors propria dell’aggregato sociale (…)” (70).

Berneri lavora alla costruzione di un progetto politico che sappia raccogliere le caratteristiche migliori del pensiero antiautoritario ed egualitario: “Dal 1919 in poi non mi sono stancato di agitare in seno al movimento anarchico il problema di conciliare l’integralismo educativo e il possibilismo politico, osando sostenere polemiche e contraddittori con i più autorevoli rappresentanti dell’anarchismo italiano” (71). Per lui saranno soprattutto il federalismo ed il comunalismo gli strumenti atti alla riappropriazione ed all’autodeterminazione, mentre l’anarcosindacalismo rappresenterà il metodo organizzativo ed agitatorio in grado di dare al movimento libertario capacità di penetrazione, onde sviluppare la necessaria “egemonia” nel mondo del lavoro atta a far maturare e mutare i rapporti di forza. Strumento utile anche a combattere la scarsa propensione all’autodisciplina dello “specifico” anarchico ed a far da cemento per il senso di appartenenza che deve legare le strutture militanti.

 

 

La scelta anarcosindacalista

 

Recupererà quindi di Kropotkin il rigore scientifico, gli studi sulle dinamiche della rivoluzione francese, le intuizioni sulla fine del bolscevismo, la questione della parificazione fra lavoro manuale ed intellettuale, la propensione federalista (che arricchirà grazie alla profonda conoscenza di Cattaneo acquisita negli studi con Salvemini), lo spirito organizzativo e la comprensione dell’importanza del nascente anarcosindacalismo. Ecco, sintetizzato, il suo Commiato (72), redatto in morte del grande vecchio: “(…) al di sopra delle riserve, delle incertezze contingenti il suo sovietismo sindacalista-comunista brillava di coerenza logica e di audacia costruttiva”.

Che Berneri vedesse in Kropotkin un fautore dell’anarcosindacalismo è testimoniato anche da quest’altro estratto: “Il partito anarchico sognato dal Kropotkin sarebbe stato, anche se non ne avesse portato il nome, un partito anarco-sindacalista. Narra lo Schapiro: ‘E quando la discussione era sulla questione sindacale ripeteva sempre che in realtà, il sindacalismo rivoluzionario così come si sviluppava in Europa si trovava già interamente nelle idee propagate da Bakunin nella Prima Internazionale, in questa Associazione Internazionale dei lavoratori che egli amava dare come esempio di organizzazione operaia. Egli si interessava sempre più dello sviluppo del sindacalismo rivoluzionario e dei tentativi degli anarco-sindacalisti russi di partecipare al movimento sindacale ed alla ricostruzione industriale del paese’” (73).

Come Kropotkin, Berneri identificava nell’anarcosindacalismo la continuazione ideale della Prima Internazionale. Precisamente: “La ricostruzione sociale anti-statale non può essere, quindi, secondo il Kropotkine, che un nuovo ordine basato su un sistema di rappresentanze e di direzioni del quale partecipi tutta la massa lavoratrice. E tanto più questa massa dispone di uno strumento proprio per sostituire al regime capitalistico  l’organizzazione economica comunista, e tale istrumento non può che essere il sindacato, tanto più è possibile che la federazione comunalista possa subentrare allo Stato” (74).

Berneri, che nell’esilio scelse di rivitalizzare e dirigere la rivista di lingua italiana “Guerra di Classe” – prima del fascismo organo dell’Unione Sindacale e col quale aveva già collaborato in Italia dal 1917 – fu molto chiaro in merito: “Il campo sindacale è diventato l’unico campo che permette  un’attività concreta. (…) La stampa anarco-sindacalista ha un riflesso costante dei bisogni, delle aspirazioni, delle lotte delle masse proletarie (…) ma quella anarchica, pura, salvo qualche rara eccezione, è generica, cioè sorda e cieca alle realtà particolari dell’ambiente sociale in cui essa vive. Il giornale di Parigi potrebbe essere fatto a New York, e quasi in nulla muterebbe. In questo fenomeno sta uno dei massimi indici della crisi dell’anarchismo puro” (75).

Il suo è un anarcosindacalismo di progetto, volano di un nuovo programma: “La maggior parte degli anarco-sindacalisti è costituita da anarchici che sono sindacalisti in quanto vedono nel sindacato un ambiente di agitazione e di propaganda più che di organizzazione classista. E ben pochi anarco-sindacalisti si sono, quindi, posti i problemi inerenti al sindacato quale cellula ricostruttiva, quale base di produzione e di amministrazione comuniste. Ancor meno numerosi sono coloro che si sono posti il problema dei rapporti fra i sindacati e i Comuni. Ancor oggi siamo al bivio, fra l’insidia del sovietismo bolscevico e l’insidia unitaria accentratrice del confederalismo socialdemocratico” (76). Un programma insieme economico e politico, nonché mirato alle diverse realtà nazionali: “Se il movimento anarchico non si decide a limitare il proprio comunismo a pura e semplice tendenzialità, a formulare un programma italiano, spagnolo, russo, ecc. a basi comunaliste e sindacaliste; a crearsi una tattica rispondente alla complessità e variabilità dei momenti politici e sociali; a sbarazzarsi, insomma, di tutti i suoi gravami dogmatici, di tutte le sue abitudini stilistiche, di tutte le sue fobie, il movimento anarchico non attirerà più la gioventù intelligente e colta, non saprà combattere efficacemente la statolatria comunista, non potrà per lungo tempo uscire dal marasma. La crisi dell’anarco-sindacalismo è la crisi dell’anarchismo. Ed io ho fede che nella corrente anarco-sindacalista più che in ogni altra è possibile trovare le possibilità di una rielaborazione ideologica e tattica dell’anarchismo” (77).

Nel proprio iter il lodigiano esprimerà il suo punto di vista praticamente su tutte le questioni dibattute nel movimento libertario internazionale.

Contro l’individualismo

 

L’individualismo nichilista verrà combattuto da Berneri con grande determinazione, in particolare nelle sue accezioni nietzschiane e superuomistiche: “Una vita di quotidiani sforzi di volontà e di quotidiane esperienze di dolore e di amore vale certo più dei sogni infingardi dei Super-uomini, che si credono tali solo perché non sanno, non vogliono essere ‘uomini’” (78).

Significativa in proposito anche l’interpretazione critica che Berneri ci fornisce del Carlyle: geni ed eroi sono il prodotto di moltitudini, eventi e tempi dai vasti e spesso anonimi confini. Non esiste alcuna giustificazione per le concezioni elitarie: i pochi sono il prodotto, la voce dei tanti che si sommano fra passato e presente. Cionondimeno, il lodigiano non sottovalutò mai la forza dell’idea e la positività del mito: “Lo studioso dall’abito di considerare la storia, è condotto ad una particolare forma di irrealismo: quella che consiste nel non vedere la funzione del mito, delle tendenze estreme, dell’assoluto” (79). Purché l’ideologia non venisse considerata sacra e intoccabile e di contro la storia non dimenticasse ugualmente il determinante apporto dei semplici ed il sacrificio della miriade degli anonimi militanti: “Il socialismo deve uscire dall’infantilismo rivoluzionario che vede posizioni nette là dove sono problemi complessi, e da quello riformista, che non capisce la funzione storica dei programmi massimi e degli imperativi spirituali. E deve convincersi delle necessità di abbinare, nella propaganda, il fascino del mito con l’evidenza della necessità, in un’armonica conciliazione di valori ideali e di interessi utilitari” (80).

 

 

Per l’organizzazione politica degli anarchici

 

Per ovvi motivi, Berneri contrastò gli antiorganizzatori. Egli era per un anarchismo capace di dotarsi di strutture forti, di metodo e di senso d’appartenenza: “Che cosa intendo per coscienza di partito? Intendo qualche cosa di più del lievito passionale di un’idea, della generica esaltazione di ideali. Intendo il contenuto specifico di un programma di parte” (81).

Io non vedo i pericoli dell’accentramento, dell’autoritarismo che molti vedono nell’organizzazione sempre più salda e coordinata dei nostri gruppi, delle nostre unioni provinciali, delle nostre federazioni regionali. L’atomismo individuale e dei gruppi ha mostrato di essere utile? Il nostro movimento non è per sua natura e per definizione refrattario ai cattivi influssi di una disciplina di partito male intesa? Per quali ragioni un movimento libertario può cristallizzarsi divenendo un partito e può degenerare in tutte quelle forme di autoritarismo accentratore che alcuni paventano e profetizzano?” (82).

Eppure dovette constatare che il fenomeno, apparentemente marginale, aveva – eccezion fatta forse per la Spagna – conquistato molto più spazio di quello relativo ai singoli gruppi che esprimevano un palese rifiuto teorico dell’organizzazione: “Se me la piglio con l’individualismo è perché, se la corrente individualista ha poca importanza numerica, è riuscita ad influenzare quasi tutto il movimento” (83). Berneri scorgeva nel ripudio del lavoro sindacale, nella demonizzazione della discussione finalizzata al progetto e nell’indisponibilità ad impegnarsi sul piano di una politica del quotidiano, la determinante influenza dell’individualismo: “Quasi tutti gli anarchici, ai miei occhi, sono individualisti, ottimisti e dottrinari” (84).

Va da sé che gli strali di Berneri fossero diretti contemporaneamente contro la politica del “tanto peggio, tanto meglio”, (alla quale bisogna sostituire il detto: “meglio il male attuale che uno peggiore”) (85), quanto contro ogni tentazione di defilarsi dal contatto con le masse e di allontanarsi, con pericolose “fughe in avanti”, dalla comprensione dell’uomo comune.

E’ forse solo con Camillo Berneri che si può cominciare a parlare di un esplicito spirito autocritico nella storia del Movimento Anarchico militante. Se non si fosse colta la cosa sino ad ora, si avrà certo modo di ricredersi presto. L’orizzonte critico del lodigiano scava così in profondità nel paradigma libertario, tocca così tanti argomenti, da potersi definire davvero il tentativo di rivederlo globalmente, a tratti nella ricerca di una riattualizzazione, altrove cercando di “ripulirne” l’ideologia dalle scorie sedimentate di differente provenienza, e non di rado assistiamo ad una vera e propria opera di riforma.

Se in ogni occasione siamo di fronte ad un linguaggio privo di tatticismi, davvero sempre mirato senza mezzi termini all’obiettivo (ed anche in ciò sta la grandezza e la singolarità del “caso Berneri”), dinanzi agli interrogativi ed alle questioni relative all’organizzazione abbiamo l’argomentare più diretto e meno mediato in assoluto. Il testo più emblematico in materia ha un titolo assai significativo: Il cretinismo anarchico (86), del 1935. Vi si lancia una sfida senza esclusione di colpi alle deficienze croniche  dell’anarchismo “fossile”, vale a dire a prassi ed atteggiamenti invalsi da una acquisizione superficiale dei “sacri” principi: ciò che viene colpito è

quell’insieme di rituali senza senso che caratterizzavano – ed in molte occasioni caratterizzano ancora – un certo modo di vivere il momento collettivo nello specifico anarchico. Il malinteso di una mancanza assoluta di regole, un “democraticismo” autistico e paranoide che scambia il rispetto per forzatura autoritaria, e tanto d’altro: tutti elementi che impediscono il corretto funzionamento di un’organizzazione, ne nullificano l’esistenza.

Invece, il problema del funzionamento dell’organizzazione sta molto a cuore a Berneri. Per lui la struttura non deve servire al piccolo protagonismo dei partecipanti ad un’assemblea, bensì allo  scopo per la quale esiste in ogni consesso umano ed in particolare in politica: costruire ed affinare

l’impianto onde rendere incisiva la prassi del movimento. Leggiamo questo testo: “Benché urti associare le due parole, bisogna riconoscere che esiste un cretinismo anarchico. Ne sono esponenti non soltanto dei cretini che  non hanno capito un’acca dell’anarchia e dell’anarchismo, ma anche dei compagni autentici che in esso sono irretiti non per miseria di sostanza grigia bensì per certe bizzarrie di conformazione cerebrale. Questi cretini dell’anarchismo hanno la fobia del voto anche se si tratti di approvare o disapprovare una decisione strettamente circoscritta e connessa alle cose del nostro movimento, hanno la fobia del presidente di assemblea anche se sia reso necessario dal cattivo funzionamento dei freni inibitori degli individui liberi che di quell’assemblea costituiscono l’urlante maggioranza, ed hanno altre fobie che meriterebbero un lungo discorso, se non fosse,  quest’argomento, troppo scottante di umiliazione. Il problema della libertà, che dovrebbe essere sviscerato da ogni anarchico essendo il problema basilare della nostra impostazione spirituale della questione sociale, non è stato sufficientemente impostato e delucidato. Quando, in una riunione, mi capita di trovare il tipo che vuole fumare anche se l’ambiente è angusto e senza ventilazione, infischiandosene delle compagne presenti o dei deboli di bronchi che sembrano in preda alla tosse canina, e quando questo tipo alle osservazioni, anche se cordiali, risponde rivendicando la ‘libertà dell’io’, ebbene, io che sono fumatore e per giunta un poco tolstoiano per carattere, vorrei avere i muscoli di un boxeur nero per far volare l’unico in questione fuori dal locale o la pazienza di Giobbe per spiegargli che è un cafone cretino. Se la libertà anarchica è la libertà che non viola quella altrui, il parlare due ore di seguito per dire delle fesserie costituisce una violazione della libertà del pubblico di non perdere il proprio tempo e di annoiarsi mortalmente. Nelle nostre riunioni bisognerebbe stabilire la regola della condizionale libertà di parola: rinnovabile ogni dieci minuti. In dieci minuti, a meno che non si voglia spiegare i rapporti tra le macchie solari e la necessità dei sindacati o quella tra la monere haeckeliana e la filosofia di Max Stirner, si può, a meno che si voglia far sfoggio di erudizione o di eloquenza, esporre la propria opinione su una questione relativa al movimento, quando questa questione non sia di … importanza capitale. Il guaio è che molti vogliono cercare le molte, numerose, svariate, molteplici, innumerevoli ragioni, come diceva uno di questi oratori a lungo metraggio, invece di cercare e di esporre quelle poche e comprensibili ragioni che trova e sa comunicare chiunque abbia l’abito a pensare prima di parlare. Disgraziatamente accade che siano necessarie delle riunioni di ore ed ore per risolvere questioni che con un po’ di riflessione e di semplicità di spirito si risolverebbero in mezz’ora. E se qualcuno propone, estremo rimedio alla babele vociferante, un presidente, in quel regolatore della riunione che ha ancor minore autorità di quello che abbia l’arbitro in una partita di foot-ball, certe vestali dell’Anarchia vedono… un duce. Per chi questo discorso? I compagni della regione parigina che hanno, recentemente, affrontato la spesa e la fatica di recarsi ad una riunione da non vicine località per assistere allo spettacolo di gente che urlava contemporaneamente intrecciando dialoghi che diventavano monologhi per la confusione imperante e delirante, si sono trovati, ritornando mogi mogi verso le loro case, concordi nel pensare che la gabbia dei pappagalli dello zoo parigino è uno spettacolo più interessante. Quando degli anarchici non riescono ad organizzare quel problema meno difficile di quello della quadratura del circolo, di esporre a turno il proprio pensiero, un regolatore diventa indispensabile.

Questa è quella che io chiamo l’auto-critica. Ed è diretta a tutti coloro che rendono necessario un regolatore di riunioni anarchiche. Cosa che è ancora più buffa di quello che pensino coloro che se ne scandalizzano. Molto buffa e molto grave. E grave perché resa, molte volte, necessaria proprio là dove dovrebbe essere superflua”.

Il ruolo dell’organizzazione specifica è ben preciso per Berneri. Nel testo Risposta ad una consultazione sui compiti immediati e futuri dell’anarchismo (87), egli accenna a critiche e suggerimenti: “L’organizzazione (l’Unione Anarchica Italiana) ha vissuto poco, ma qualche anno di vita sarebbe bastato, se fosse esistita tra noi una costante ed intelligente volontà rivoluzionaria, a fare di essa un organismo di combattimento capace di agire con coordinazione e simultaneità, anche fuori dei quadri sindacali ed indipendentemente dai fronti unici, che si risolsero in bluff. Si consumarono energie insurrezionali in sporadiche azioni e si perdettero ottime occasioni (…) le esperienze del passato non vanno dimenticate. E la diagnosi dei nostri mali e delle nostre deficienze va accompagnata alla ferma volontà di un rinnovamento”.

E’ un altro, ancor più forte, richiamo all’organizzazione come veicolo della politica, capace di concentrare ed applicare le forze ed al tempo stesso di rigenerarsi e rielaborare: un vero e proprio laboratorio di idee, capace di essere al tempo stesso fabbrica e motore di esperienze.

Berneri è molto infastidito dai continui attacchi alla logica organizzativa. Già nell’agosto del 1922 interviene nel dibattito, molto contrariato dalle invettive strumentali lanciate contro l’appena nata Unione Anarchica Italiana: “(…) Vediamo, piuttosto, se ha ragione lo Cizeta a scrivere che gli anarchici italiani ‘costituendosi in partito e centralizzandosi negli organi e nelle commissioni di corrispondenza dell’Unione Anarchica Italiana, si sono allontanati dalle folle’. (…) Dov’è la centralizzazione? Forse nella Commissione di Corrispondenza? Essa è una Commissione (in cui v’è un solo indennizzato) incaricata dai singoli gruppi, di prendere iniziative di carattere generale: come manifesti nazionali, partecipazione a convegni con altri partiti di sinistra, ecc. La sua opera si limita a ricevere e trasmettere comunicati, somme di denaro, ecc. quando i gruppi abbiano bisogno, per questo, di lei. Altrimenti tutta la vita del movimento si svolge senza che sia avvertita l’esistenza di questa Commissione che ha tanto impressionato alcuni fegatosi critici per scopi personali e voi che, vivendo lontano non sapete come stanno le cose. Non vi avrei scritto se non credessi dannosi al nostro movimento questi contrasti che sono creati artificiosamente e non hanno alcuna ragione di esistere.

Piuttosto che sprecare lo spazio dei nostri giornali a fare critiche che non hanno base seria, intensifichiamo la nostra propaganda al di fuori ed al di sopra delle piccole sfumature di tendenza. Avrei preferito scrivere sul vostro giornale di altri argomenti, ma ho creduto necessario chiarire un equivoco che minaccia di prolungarsi, tutto a scapito del movimento nostro” (88).

In Considerazioni sul nostro movimento (89), Berneri non disdegna di usare il termine “partito”. La cosa è significativa, anche se si tratta della medesima accezione usata talvolta pure da Malatesta. La questione di una unione precisa dell’anarchismo organizzatore, sebbene all’epoca più sentita all’interno della tendenza maggioritaria, era comunque affatto scontata: “(…) Sul tappeto della discussione rimane la questione della costituzione del nostro movimento a partito. Occorre, per questa come per tutte le altre questioni, stabilire il valore delle parole, dando loro un significato ben definito, per evitare le eterne ed inutili discussioni pro e contro. Si può ripetere oggi quello che Epicuro – mi si conceda una citazione che puzza d’antico – diceva in una sua epistola ad Erodoto: «Convien rendersi conto del significato fondamentale delle parole, per poterci ad esse riferire come criterio nei giudizi o nelle indagini o nei casi dubbi: se no, senza criterio procederemo all’infinito nelle dichiarazioni o useremo parole vuote di senso». Che cosa intendiamo per partito? Qual è il calore, quali i limiti, quale la missione? (…) Io credo alla necessità di consolidare le nostre forze, associandole e coordinandole, ma riconosco che molte e contrastanti correnti scorrono in seno al nostro movimento riguardo a questa questione (…)”.

In un altro testo, Anarchismo e federalismo – Il pensiero di Camillo Berneri (90), il lodigiano aggredisce il problema con ancor maggiore veemenza: “(…) Siamo immaturi. Lo dimostra il fatto che s’è discussa l’Unione Anarchica sottilizzando sulle parole partito, movimento, senza capire che la questione non era di forma, ma di sostanza, e che quello che ci manca non è l’esteriorità del partito, ma la coscienza del partito (…)”. Berneri ci dice subito a cosa si riferisca: “Che cosa intendo per coscienza di partito? Intendo qualche cosa di più del lievito passionale di un’idea, della generica esaltazione di ideali. Intendo il contenuto specifico di un programma di parte” (91).

Sta evidentemente parlando di un’unità teorica e strategica, nonché di un necessario “senso di appartenenza”. Due cose che difettano molto nel movimento anarchico: la prima per carenza di programma, soprattutto in ambito strategico e tattico, la seconda per un malinteso senso di assoluta indipendenza individuale di fronte all’organizzazione. Questa è sicuramente un corpo collettivo, ed in quanto tale ogni suo membro, pur libero in coscienza, ne è parte, e deve ugualmente sentirsi interno ad un’entità plurima e plurale che unifica. Altrimenti non avrebbe senso parlare di organizzazione. La libertà individuale è quindi libertà di dissenso, ma mai senso di nonappartenenza. La differenza fra le due cose non è secondaria. La libertà di dissenso è garantita dalle regole, ma le regole sono di tutti e per tutti. Non sono valide a seconda della “giornata e dell’umore”. Una decisione può essere contrastata, ma deve, comunque, venire riconosciuta come la decisione della maggioranza, perché questa è la regola di ogni associazione umana. L’anarchismo non sfugge quindi alla democrazia: deve semmai essere democratico sino all’estremo limite, ma questo non può significare mettere in discussione la democrazia stessa. Si può arrivare all’estrema ratio di non rendere obbligatoria l’applicazione delle decisioni per chi non ha contribuito a prenderle, ma mai si può negare l’obbligo, almeno d’onore, di accettarle come scelte della maggioranza e quindi dell’organizzazione o quello di rimanere leale alla stessa.

 

 

Berneri ed Arcinov

 

Il dibattito sull’organizzazione diverrà assai attuale fra gli anarchici negli anni ‘20, dopo la deriva autoritaria della rivoluzione russa e la marginalizzazione del movimento libertario in quel paese, dovuta anche a deficit organizzativi palesi denunciati dalla maggioranza degli anarchici ucraini che avevano resistito militarmente all’armata rossa dopo che da questa erano stati abbandonati, traditi ed attaccati alle spalle durante le invasioni dei reazionari bianchi e dopo che la rivoluzione in Ucraina era stata assolutamente opera loro. Questi, data vita al gruppo “Dielo Truda”, proposero una Piattaforma per la ricostituzione dell’anarchismo organizzato che propugnava la cosiddetta “responsabilità collettiva” e l’unità tattica e teorica per una rifondazione dell’organizzazione libertaria.

Anche Berneri esprime critiche alle insufficienze di struttura dell’anarchismo russo (92): “Un altro errore è quello di non aver tenuto conto del fatto che tra lo scoppio della rivoluzione (…)” e la presa del potere da parte dei bolscevichi c’è stato un significativo lasso di tempo con “(…) libero gioco fra i partiti” durante il quale il movimento anarchico “(…) s’è esaurito e i partiti di sinistra hanno dimostrato di non essere all’altezza della situazione”. Nello stesso articolo, il lodigiano riconosce che, nonostante: “Criticare i criteri ed i metodi del partito comunista russo, illustrare gli errori e gli orrori del governo bolscevico”, fosse per gli anarchici un preciso “(…) dovere ed un diritto, poiché nel fallimento del bolscevismo statolatra vediamo la migliore conferma delle nostre teorie libertarie”, di fatto inizialmente vi fu il silenzio a causa del “(…) fascino rivoluzionario” (93) esercitato dalla Russia. Ed ammette che la denuncia cominciò per contrastare “(…) lo scimmiottamento di tutti i criteri tattici e la pedissequa imitazione di tutti i punti programmatici di Lenin e compagni” (94), aggiungendo: “Ci trovammo nella necessità di non più tacere ciò che era ormai rivelato dalla stampa socialista e nella necessità di opporci a quella propaganda giacobina che dilagava tra le masse, pregiudicando quello che noi riteniamo il giusto indirizzo rivoluzionario. A tutto questo si aggiunse la reazione anti-anarchica del governo di Mosca e la convinzione che la politica dei bolscevichi russi portasse ad un ripiegamento rivoluzionario in Russia e nell’Occidente” (95).

È evidente il senso di una riflessione amara, che denuncia col senno di poi i guasti prodotti dall’appiattimento di molti anarchici nella prima fase dell’affermarsi del potere sovietico, un favore che i bolscevichi ricambiarono con una spietata repressione.

Il motivo del contendere, a proposito della piattaforma del gruppo Dielo Truda, era relativo sia alla prassi organizzativa che a quella politica. E Berneri è sempre stato schierato per una più seria ricostruzione di entrambi gli elementi. Ci saranno però due cose che ad un certo punto lo faranno sobbalzare.

In primis, l’eccesso di zelo di uno dei massimi esponenti del gruppo “revisionista” russo: quel Pietro Arcinov che era stato il braccio destro di Nestor Mackhno, il principale fautore della rivoluzione anarchica in Ucraina. Arcinov, contrariamente a quanto avvenuto per gli altri, deciderà nel giugno del 1935 di tornare in Russia dall’esilio francese al quale era stato costretto come tutti per le persecuzioni dell’armata rossa e di aderire, nel pieno dello stalinismo, al partito comunista sovietico. A quel punto, in una lettera aperta del 5.10.1935, Due parole a Pietro Arcinov (96), Berneri stigmatizzerà brutalmente la posizione del russo: “(…) se ero preparato all’abiura, non ero preparato – nonostante non vi abbia mai considerato, come oggi vi presenta la stampa bolscevica, «uno dei più notevoli ideologi dell’anarchismo» – alla miseria delle giustificazioni, alla tendenziosità delle critiche, alla volgare demagogia delle sconfessioni dei vostri giudizi di un passato non ancora remoto. (…) Mentre, in nome del fallimento della dittatura proletaria nell’URSS, dei bolscevichi hanno dato e danno la libertà o la vita, voi, neobolscevico, vi affrettate ad agitare il turibolo di fronte allo Czar Stalin, e proprio in un momento politico in cui il possibilismo bolscevico sta degenerando nell’opportunismo il più governamentale e il più nazionalista.

Quando Francesco Saverio Merlino si allontanò dall’anarchismo, credette giustamente che fosse dovere di dignità di pensatore e di scrittore giustificare seriamente il suo nuovo atteggiamento. Quello che voi scrivete a giustificazione vostra e ad incitamento agli anarchici a seguirvi è di una povertà pietosa e di una volgarità disgustevole.

La vostra Piattaforma del 1926 ha contribuito a scindere il movimento anarchico polacco e quello bulgaro, e tanto in Polonia che in Bulgaria i secessionisti piattaformisti sono finiti in grembo al bolscevismo o alla socialdemocrazia. (…) Lo stesso Mackhno che agli estranei del movimento anarchico ucraino pareva essere unito a voi da una profonda comunità di idee, vedeva nel vostro piattaformismo una deviazione bolscevizzante. Mackhno era anarchico; ed è per questo che, non sperando adescarlo e sapendolo tenacemente coerente nemico, la stampa bolscevica lo ha sistematicamente diffamato in Russia e fuori di Russia.

Voi siete, inserito nel regime bolscevico, un suicida. Non avete altro ruolo che non sia quello dell’anarchico ricreduto. Quando attaccherete noi, tutte le Pravda e tutte le Isvestia vi saranno aperte. Ma se un po’ del lievito rivoluzionario, anche un minimo residuo, è restato nel vostro cervello e vorrete esprimere opinioni non consone a quelle del dittature e dei suoi luogotenenti, finirete come Sandomirsky. Il bivio aperto dinanzi a voi è questo: o insignificante inserito, destinato a confondersi nel grigio totalitario del regime o oppositore ben presto costretto a meditare su quanto e su come il regime bolscevico sia una dittatura proletaria. Questa seconda strada vi salverebbe dal fallimento della vostra personalità. (…) Eravate al di sopra della vostra abiura, Arcinov. Vi è modo e modo di andarsene dalla nostra casa. Voi ne siete uscito sbattendone le porte e vociferando come un ubriaco. E questo modo di uscire porta disgrazia, perché è di per sé un segno di decadenza intellettuale e morale”.

Purtroppo per Arcinov, il nostro fu buon profeta: il russo, dopo essere stato spremuto come un limone a fini propagandistici, verrà, di lì a poco, spietatamente epurato dal regime sovietico.

Arcinov era caduto nel versante opposto della critica che aveva espresso: avviando con altri una comprensibile critica all’anarchismo rispetto all’ambito organizzativo, era scivolato tragicamente nell’imitazione dell’avversario politico, quel bolscevismo che una ristrutturazione seria dell’anarchismo avrebbe messo in grande difficoltà. Questo, perché succube del plagio dei “vincitori”, cosa che gli aveva fatto dimenticare le ragioni dell’anarchismo. Ma succube anche del mito frontista, contrastato da Berneri in Spagna (e non solo) (97), nonché del politicismo senza scrupoli, tipico del bolscevismo. Peraltro, questo malinteso spirito d’unità, pure in campo sindacale (ove la scelta di formare un’organizzazione libertaria verrà sacrificata spesso alla militanza nel sindacato comunista) e filo-consiliarista, divenuto paradossalmente un indistinto, spontaneo embrasson nous (concepito fra mitiche “basi” popolari “autonome”), risulterà anche successivamente un difetto dei cosiddetti “arcinovisti” (di quanti cioè continuarono a seguire le

indicazioni della Piattaforma dopo la morte di Arcinov).

Infine, la seconda questione: la Piattaforma non poteva essere accettabile laddove portava – appunto copiando l’opportunismo marxista in politica – verso l’assurdo della cosiddetta “dittatura antistatale del proletariato”. Una sorta di periodo “transitorio” utilizzante ovviamente l’apparato statuale in termini totalitari: una sorta di pre-anarchismo negante la radice dell’anarchismo. Questo era inusitato, soprattutto per Berneri, che vedeva nella concezione antistatale l’elemento discriminante prioritario dell’anarchismo politico. Anche se per il lodigiano si tratta di un antistatalismo mai immotivato o dottrinario, bensì riconosciuto come base ineludibile per costruire una società di liberi ed eguali, proprio tramite la crescita e la vittoria della società civile a scapito delle impalcature autoritarie costruite per mantenere o ricreare il dominio di classe. Lo scontro fra il lodigiano ed i cosiddetti piattaformisti non è quindi ascrivibile alla questione organizzativa relativa al movimento specifico, rispetto alla quale moltissime sono le prese di posizione a favore di una maggiore strutturazione del movimento libertario negli scritti che abbiamo analizzato.

Non è certo la questione della “responsabilità collettiva”, la “pietra dello scandalo”. Berneri ha addirittura una concezione “etica”   della organizzazione, e in nome dell’integrità della struttura diviene a volte durissimo (98). Semmai, il nostro, rimprovera ai piattaformisti un inalterato eccesso di ingenuità dovuto, ancora una volta, all’idealizzazione delle masse. Vediamo, in proposito, il testo In margine alla piattaforma (99): “(…) nell’azione popolare insurrezionale vedo più «effetti» anarchici che «intenti» anarchici; non credo che la funzione degli anarchici nella rivoluzione debba limitarsi «a sopprimere gli ostacoli» che si oppongono alla manifestazione della volontà delle masse; vedo gravi pericoli e non poche difficoltà negli egoismi municipalisti e corporativi”.

Ed ecco di nuovo la critica del “semplicismo” di Kropotkin, inaccettabile per Berneri e da lui chiamato ancora in causa a proposito di un’ennesima, malintesa “santificazione” dell’azione popolare: “Il «Mir» con i suoi anacronismi, il Comune medioevale autoritario nella sua intima struttura, l’anarchismo comunalista delle masse popolari della Rivoluzione francese, gli apparivano, giustamente, forze innovatrici libertarie, moderne, in funzione storica di anti-Stato. Ma quando si trasportò sul terreno politico e guardò all’avvenire, Kropotkin sublimò le masse. Crollato lo stato, ci vuole una potenza ricostruttrice che ne riprenda e ne perfezioni le funzioni vitali, pubbliche. Kropotkin (la) sostituì (con): l’iniziativa popolare. Questo genio collettivo, questa volontà proteiforme ed armonica insieme, non ha soste e ricorsi. È satura di anarchismo. Gli anarchici posson confondersi in essa, che non fa che moltiplicare i loro sforzi, non fa che attuare le loro idee. Tutt’al più non c’è che da levare in alto una bandiera, da additare qualche ostacolo o lanciare una idea. Tutt’al più non c’è che da respingere il tentativo dei giacobini di pilotare l’azione popolare” (100).

Berneri vuole un progetto chiaro, capace di indicare concretamente la strada dell’organizzazione sociale dopo la rivoluzione, mentre i piattaformisti continuano ad affidarsi al cosiddetto “spirito costruttivo delle masse”. Queste sono paradossali analogie con l’impostazione kropotkiniana. Ma, meglio ancora sarebbe il dire che si tratta di indubbie influenze consigliariste (marxiste nella forma e populiste nella sostanza): “Kropotkin, storiografo ed etnologo, vide, in potenza, l’anarchismo integrale nell’anarchismo relativo delle masse in rivolta o nelle masse viventi fuori dell’orbita statale. Con ingenuo ottimismo proiettò il secondo nella rivoluzione sociale avvenire, e credette che tutto dovesse svolgersi non per una serie di esperienze, più o meno fortunate, ma per un «fiat»“ (101).

In ultima analisi, la necessità di un’organizzazione strutturata viene vista da Berneri come ineludibile, ma a patto che sia utile all’elaborazione di un progetto serio, non l’ennesimo appiattimento strategico di natura ideologica, che non è capace di differenziare la tattica relativamente alle esigenze. Il lodigiano vuole di più di un organismo strutturato, vuole che la capacità di intervenire in modo sincronico derivi da elaborazioni ed acquisizioni convinte, non da un semplice ed inutile conformismo di partito fine a se stesso. Per questo, nel piattaformismo, critica la “tattica unica”: “(…) Bisogna uscire dal romanticismo. Vedere le masse in modo, direi, prospettico. Non c’è il popolo, omogeneo, ma folle varie, categorie. Non c’è la volontà rivoluzionaria delle masse, ma momenti rivoluzionari, nei quali le masse sono enormi leve. (…) «Tattica unica» vuol dire tattica uniforme e continua. Alla «tattica unica» la «Piattaforma» è portata dalla semplificazione del problema dell’azione anarchica in seno alla rivoluzione. Se vogliamo arrivare ad una revisione potenziatrice della nostra non piccola forza rivoluzionaria, bisogna che sbarazziamo il terreno dagli apriorismi ideologici e dal comodo rimandare al domani l’impostazione dei problemi tattici e ricostruttivi. Dico ricostruttivi perché è nelle tendenze conservatrici delle masse il pericolo maggiore dell’arresto e delle deviazioni della rivoluzione” (102).

Se vi fossero ancor dubbi, va detto che è semmai proprio rispetto al profilo organizzativo che Berneri non usa mai mezzi termini. Contrariato dal timore reverenziale di tanti anarchici, avversi per partito preso alla strutturazione del movimento, la ritiene, al contrario, del tutto necessaria.

Nessuna paura della revisione: giudizi di fatto e giudizi di valore

 

Per inseguire e determinare un progetto anarchico capace di affermarsi sul piano politico, Berneri non esitò neanche di fronte alla solitudine: “(…) solissimo arrabbiandomi per far sì che gli anarchici siano qualche cosa di meglio degli eterni chiacchieroni ipercritici ed utopisti (…)” (103). “Chi dice chiaramente il proprio pensiero senza cercare applausi e senza temere le collere è l’uomo della rivoluzione” (104).

Lo confortava una frase di Malatesta, il cui ritaglio (sistema di raccolta e catalogazione molto usato da Berneri), conservava gelosamente: “Chi non si sente più anarchico si ritira da sé, in maniera più o meno franca ed elegante; e chi si sente anarchico resta tale anche se nell’interpretazione tattica dell’anarchismo fosse il solo della sua opinione” (105).

Il lodigiano nobilita il “revisionismo” in campo anarchico: “Non temiamo quella parola revisionismo, che ci viene gettata contro dalla scandalizzata ortodossia, ché il verbo dei maestri è da conoscersi e da intendersi. Ma troppo rispettiamo i nostri maggiori, per porre costoro a Cerberi ringhiosi delle proprie teorie, quasi come ad arche sante, quasi come ai dogmi. L’autoritarismo ideologico dell’ ipse dixit non lo riconosciamo che come canovaccio di comuni motivi ideali, non come schema da svilupparsi in pure e semplici volgarizzazioni” (106).

E’ ancora la figlia di Luigi Fabbri a scrivere: “(…) caratteristica principale che si libera chiaramente da tutti i suoi scritti: l’indipendenza di giudizio di fronte ai ‘Padri della Chiesa’, sarebbe a dire ai pensatori consacrati. Egli aveva in orrore il termine ‘ortodossia’” (107).

Sua convinzione basilare è non avere principi inamovibili: “Lo confermo: a me il richiamo ai principi non fa né caldo né freddo, perché so che sotto quel nome vanno delle opinioni. (…) Io ho dei principi e tra questi vi è quello di non mai lasciarmi impressionare dal richiamo ai principi. (…) L’uomo che ‘parte da principii’ adotta il ragionamento deduttivo, il più infecondo e il più pericoloso. L’uomo che parte dall’esame dei fatti per giungere alla formulazione di principii adotta il ragionamento induttivo: che è l’unico veramente razionale” (108).

Berneri contrasta con vigore: “(…) la gretta e pigra mentalità di molti compagni che trovano più comodo ruminare il verbo dei maestri che affrontare i problemi vasti e complessi della questione sociale quale si presenta oggi” (109).

Contro la religione della scienza

Berneri critica il positivismo, come rivela questa frase contenuta in un intervento di natura filosofica che esprime anche personali tensioni emotive: “respingerò, dunque, qualsiasi verità sulla materia. E fino a quando la materia rimarrà per me un mistero, in quel mistero vi è posto per Dio”.

Ma la valenza politica dello stesso, già dal titolo, non lascia alcun dubbio: “Irrazionalismo e anarchismo”. Si tratta di un testo molto importante, nato come risposta nel mezzo di un dibattito nel corso del quale Berneri fu critico sull’ateismo: “Tutti i ragionamenti dell’ateismo sono di una presunzione enorme e mi sembrano altrettanto assurdi dei ragionamenti del teismo. Irrazionalista, l’anarchico non sarebbe ateo bensì agnostico. E sarebbe il solo modo di essere razionale. Diffidenza verso il si sa dello scienziato; nessuna concezione universale del mondo, agnosticismo di fronte al problema religioso” (110).

Lo aveva già detto, usando delle citazioni, in termini ugualmente efficaci ma forse più “morbidi” ed allusivi, in un altro intervento (111): “Henri Poincaré ha potuto scrivere che «il mondo, che due secoli or sono si credeva relativamente semplice, diventa sempre più oscuro ed indecifrabile» proprio perché viveva in un’era di grande sviluppo scientifico. Ed il Pasteur diceva in un suo discorso: «Colui che proclama l’esistenza dell’infinito – e nessuno vi può sfuggire – accumula in questa affermazione più di soprannaturale di quel che ve ne sia in tutti i miracoli di tutte le religioni»“.

Ma il contributo sull’Irrazionalismo, come ben si può capire, non riguardava certo solo questo punto: “Il razionalismo conduce all’utopismo autoritario, al giacobinismo, alla mistica industrialista. Chi parla di verità proprie e di pregiudizi altrui è incline a sopprimere con la forza le ‘ragioni’ divergenti. (…) La pretesa di possedere la verità conduce a tutti gli eccessi autoritari. (…) La Città del sole dei filantropi autoritari è una specie di enorme gabbia dorata nella quale questi maniaci vorrebbero far entrare l’intera umanità” (112). Viene quindi posta in discussione qualsiasi presunzione dottrinaria basata sic et simpliciter sul raziocinio positivista, sullo scientismo manicheo e materialista che s’era fatto ideologia ed aveva arruolato anche gli anarchici, per analoghi ed altri versi già vittime di un altrettanto pericoloso semplicismo.

A dimostrazione delle difficoltà che il lodigiano aveva rispetto all’ambiente libertario, va detto che il testo rimase inedito, rifiutato dal giornale per il quale era concepito: “L’Adunata dei Refrattari”, di New York. Uscì postumo ed incompleto su “Volontà” solo nel 1952.

Per la tolleranza

 

Contro la violenza dei totalitarismi ed a favore della tolleranza come dato distintivo dell’anarchismo, Berneri ha scritto passi memorabili: “La tolleranza ha, dunque, due piani di possibilità: quello intellettuale e quello morale. Quanto al primo è tollerante colui che conoscendo il valore dello scambio di idee, della loro fusione o contrasto, non respinge aprioristicamente le ideologie altrui, ma si accosta ad esse e tenta penetrarle; per trarne ciò che vi è di buono (…). Quanto al secondo è tollerante colui che, pur avendo fede in un gruppo di principi e sentendo profondamente la passione di parte, comprende che altri, per il loro carattere, per l’ambiente in cui vivono, per l’educazione ricevuta ecc., non partecipa alla sua fede e alla sua passione. La distinzione tra il male e il malvagio, tra la tirannide e gli oppressori è scolastica, e chi concepisce la vita come lotta per il bene e per la libertà deve combattere coloro che intralciano la sua opera di redenzione. Ma il suo spirito, pur negando come formalistica la distinzione sopraccennata nei riguardi del problema morale dell’azione, giunge a combattere senza l’odio bruto che non sa la pietà (…). E a svolgere quest’azione di tolleranza, con la propaganda e con la forza, dobbiamo essere noi. I comunisti hanno una mentalità domenicano-giacobina, i socialisti riformisti sono dei De Amicis che si perdono in un impotente sentimentalismo. Noi possiamo abbinare la violenza e la pietà, in quell’amore per la libertà che ci caratterizza politicamente ed individualmente. La tolleranza è un concetto squisitamente nostro, quando non si intenda con questo termine  il menefreghismo (113).

Umanesimo e anarchismo

 

Alla tolleranza va avvicinato l’umanesimo profondo “ereditato” da Malatesta: “Malatesta è stato sempre profondamente umano, anche verso i poliziotti che lo sorvegliavano. Una notte fredda e piovosa, in Ancona, egli sapeva che un questurino era là alla porta, ad inzupparsi e a battere i denti per adempiere il proprio compito. Andare a letto compiacendosi di sapere il segugio nelle peste sarebbe stato naturale, ma non per Malatesta, che  scese alla porta ad invitare il questurino a scaldarsi un po’ e a bere un caffè. Passarono gli anni, tanti anni. Una mattina, in piazza della Signoria, a Firenze, Malatesta riceve un buon giorno, signor Errico’ da un vecchio spazzino municipale. (…) Gli domanda chi sia e quegli gli dice: ‘Sono passati tanti anni. Si ricorda quella notte che io ero alla sua porta…’. Era quel questurino, che serbava in cuore il ricordo di quella gentilezza come si conserva tra le pagine di un libro il fiore colto in un giorno soleggiato dalla gioia di vivere. Malatesta, nel raccontare quell’incontro, aveva un sorriso di dolce compiacenza, quello stesso sorriso con cui Gori respingeva l’insistente offerta di portargli la valigia, pesante di lastre da proiezione, dei poliziotti che, nel corso delle sue tournées di conferenze, lo attendevano alla stazione. (…) Soltanto chi vede in ogni uomo l’uomo, soltanto costui è umanista. L’industriale cupido che nell’operaio non vede che l’operaio, l’economista che nel produttore non vede che il produttore, il politico che nel cittadino non vede che l’elettore: ecco dei tipi umani che sono lontani da una concezione umanista della vita sociale. Egualmente lontani da quella concezione sono quei rivoluzionari che sul piano classista riproducono le generalizzazioni arbitrarie che nel campo nazionalista hanno nome xenofobia. Il rivoluzionario umanista è consapevole della funzione evolutiva del proletariato, è con il proletariato perché questa classe è oppressa, sfruttata ed avvilita ma non cade nell’ingenuità populista di attribuire al proletariato tutte le virtù e alla borghesia tutti i vizi e la stessa borghesia egli comprende nel suo sogno di umana emancipazione” . (…) Niente dittature, né del cervello sui calli, né dei calli sul cervello, ché ogni uomo ha un cervello e il pensiero non sta nei calli”. (…) Dittatura del proletariato è concetto e formula d’imperialismo classista, equivoca ed assurda. Il proletariato deve sparire, non governare (…). Che cosa permane allo sparire delle classi? Rimangono le categorie umane: intelligenti e stupidi, colti e semi-incolti, sani e malati, onesti e disonesti, belli e brutti, ecc.. (…) La rivoluzione sociale, classista nella sua genesi, è umanista nei suoi processi evolutivi. Chi non capisce questa verità è un idiota. Chi la nega è un aspirante dittatore” (114).

La verve antidottrinaria di Berneri, quindi, non fu certo rivolta solo contro i “dogmi” dei “maestri” dell’anarchia, per i quali, peraltro, conservò sempre, pur nella polemica, profonda considerazione, bensì contro tutti i luoghi comuni della “vulgata” di una certa sinistra.

 

Il revisionismo marxista

 

Berneri sviluppa un’altra delle vecchie questioni indicate da Bakunin. Puntando tutto sull’economico e considerando la cultura come “sovrastrutturale”, il potere sarà ancora una volta nelle mani di epigoni borghesi, naturali detentori degli arnesi del sapere atti a gestire la cosa pubblica, o dell’aristocrazia operaia, patrimonio quindi di un nuovo ceto tecnoburocratico giunto a dominare grazie all’infingimento della dittatura “proletaria”. In sostanza, non basta abolire la proprietà privata, se si crea una nuova struttura di dominio (connaturata allo stato), perché, tramite il monopolio del sapere, rimarrà il monopolio della conduzione del bene pubblico, amministrato da pochi sebbene nel nome di tutti. Evidentemente, il monopolio, anche economico, nelle mani dello stato, e la dittatura del partito unico rendono impossibile lo sviluppo della società in senso autogestionario: “Egualmente formalista è l’affermazione della necessità di un massimo concentramento del potere economico e politico dello Stato, come se il massimo concentramento avesse di per se stesso potere regolatore, virtù d’innovazione positiva, e non fosse, invece, il massimo accentramento statale passibile di dare una progressione geometrica agli errori dei governanti” (115).

Per Berneri, che lo stato sia la causa scatenante delle classi: “appare evidente dagli studi degli stessi marxisti quando siano degli studi seri, come quello di Paul Louis su Le travail dans le monde romain (Parigi 1912). Da questo libro risulta chiaramente che il ceto capitalista romano si è formato come parassita dello Stato. Dai generali predoni ai governatori, dagli agenti delle imposte alle famiglie degli argentari, dagli impiegati della dogana ai fornitori dell’esercito, la borghesia romana si creò mediante la guerra, l’intervenzionismo statale nell’economia, il fiscalismo statale, ecc., ben più che altrimenti. E se esaminiamo l’interdipendenza tra lo Stato e il capitalismo, vediamo che il secondo ha largamente profittato del primo per interessi statali e non nettamente capitalistici. Tanto è vero questo, che lo sviluppo dello Stato precede lo sviluppo del capitalismo. L’Impero Romano era già un organismo vastissimo e complesso quando il capitalismo romano era ancora alla gestione familiare. Paul Louis, non esita a proclamare: ‘Il capitalismo antico è nato dalla guerra’. I primi capitalisti furono, infatti, i generali ed i pubblicani. Tutta la storia della formazione delle fortune è storia nella quale è presente lo Stato. E’ da questa convinzione che lo Stato è stato ed è il padre del capitalismo e non soltanto il suo alleato naturale che noi deriviamo la convinzione che la distruzione dello Stato è la conditio sine qua non della disparizione delle classi e della non-rinascita di esse” (116).

Il lodigiano si scontra violentemente con il bolscevismo, considerando insieme impropri e mortali per il movimento socialista l’eliminazione del pluralismo ed il dominio del partito unico. Cosa che non perdona a Lenin e a Stalin, ma neppure a Trotskij, condannandone l’involuzione militarista e la disinvoltura politica: “Trotsky in atteggiamento di san Giorgio in lotta con il drago stalinista non può fare dimenticare il Trotsky di Kronstadt” (117).

Berneri svela inesorabilmente il legame profondo fra i dettami del marxismo ed i suoi epigoni, nessuno escluso, neppure quelli che denunciano la “burocratizzazione” del sistema sovietico. Infatti l’errore sta all’origine: “(…) se la diagnosi opposizionale è quasi sempre esatta, l’etiologia opposizionale è quasi sempre insufficiente. (…) Scagliarsi contro gli effetti senza risalire alle cause, al peccato originale del bolscevismo (dittatura burocratica in funzione di dittatura del partito) vale semplificare arbitrariamente la catena causale che dalla dittatura di Lenin giunge a quella di Stalin, senza profonde soluzioni di continuità” (118).

I marxisti sono i giacobini del socialismo e se Stalin è Napoleone, Lenin è Robespierre: “Chi dice «Stato proletario» dice «capitalismo di Stato»; chi dice «dittatura del proletariato» dice «dittatura del Partito Comunista»; che dice «governo forte» dice «oligarchia zarista» di politicanti. Leninisti, trotskisti, bordighisti, centristi non sono divisi che da diverse concezioni tattiche. Tutti i bolscevichi, a qualunque corrente o frazione essi appartengano, sono dei fautori della dittatura politica e del socialismo di Stato. Tutti sono uniti dalla formula: «dittatura del proletariato», equivoca formula corrispondente al «popolo sovrano» del giacobinismo. Qualunque sia il giacobinismo, esso è destinato a deviare la rivoluzione sociale. E quando questa devia, si profila l’ombra di un Bonaparte. Bisogna essere ciechi per non vedere che il bonapartismo stalinista non è che l’ombra fattasi vivente del dittatorialismo leninista” (119).

Nell’illusoria “scientificità” del meccanicismo economicista, nella subordinazione di ciò che è affatto “sovrastrutturale”, nel machiavellismo spregiudicato sempre pronto alla “conversione” dei principi a seconda della convenienza del momento, nella riduzione della libertà a “concetto borghese”, il marxismo teorizzato ed applicato tradisce tutti i suoi vizi.

Berneri denuncia di concerto la discriminazione del “popolo non operaio” ed all’interno di questo verso le masse contadine, peraltro a volte più combattive di quelle industriali: “Durante la settimana Rossa i centri industriali si mantennero fermi. Durante l’agitazione interventista, i centri industriali furono al di sotto delle campagne nelle manifestazioni antiguerresche. Durante le agitazioni del dopo-guerra i centri industriali furono i più lenti a rispondere. Contro il fascismo nessun centro industriale insorse come Parma, come Firenze e come Ancona, e la massa operaia non ha dato alcun episodio collettivo di tenacia e di spirito di sacrificio che eguagli quello di Molinella. Gli scioperi agrari del modenese e del parmense rimangono, nella storia della guerra di classe italiana, le sole pagine epiche. E le figure più generose di organizzatori operai le hanno date le Puglie. Ma tutto questo è misconosciuto. Si scrive e si parla dell’occupazione delle fabbriche, e quella delle terre, ben più grandiosa come importanza, è quasi dimenticata. Si esalta il proletariato industriale, mentre ognuno di noi, se ha vissuto e lottato nelle regioni eminentemente agricole, sa che le campagne hanno sempre alimentato le agitazioni politiche d’avanguardia delle città e hanno sempre dato prova, nel campo sindacale in ispecie, di generosa combattività” (120).

Per il lodigiano, sono sbagliate ed ingiuste le discriminazioni aprioristiche anche contro il ceto medio e medio-basso: “(…) La realtà è la classe sfaccettata in ceti, la classe eterogenea socialmente e psicologicamente” (121).

Tutti gli uomini hanno bisogno di essere redenti da altri e da se stessi. Il proletariato è stato, è e sarà più che mai il fattore storico di questa universale emancipazione. Ma lo sarà tanto più quanto meno sarà fuorviato dalla demagogia che lo indora e ne diffida, che lo dice Dio per trattarlo da pecora, che gli pone sul capo una corona di cartapesta e lo lusinga perfidiosamente per conservare, o per conquistare, su di lui il dominio” (122).

Per il lodigiano, il marxismo diviene parodia di se stesso quando, con presunta “scientificità”, condiziona lo sviluppo umano allo sviluppo dell’industrialesimo: “(…) la teoria della concentrazione del capitale si ridurrebbe ad un errore teorico che non intaccherebbe la solidità del marxismo se non avesse assunto, nella forma rivoluzionaria, il valore della previsione: separazione profonda tra le classi e conseguente cozzo finale (…); nella forma social-democratica, della previsione: conquista completa dello Stato da parte del proletariato per mezzo del parlamento. Quest’ultima revisione da tempo non ha ripercussione politica notevole, ma la prima si è trasformata in quella idolatria della grande industria come condizione necessaria del socialismo” (123).

Tale convinzione, che ha fatto del marxismo una “energia collaterale” nell’opera di spoliazione delle società cosiddette “primitive” (e non statali) e nella devastazione dell’ambiente, ha esportato anche a sinistra il mito del produttivismo, finendo, col bolscevismo e lo stalinismo, alla

ben nota farsa consistita nell’esaltazione dello stakanovismo.

Dovere del lavoro e diritto all’ozio

Berneri, pur fautore di una “rivoluzione culturale” ed economica in grado di eliminare l’anomia indotta dalla ruolizzazione del lavoro e dai miti del produttivismo acquisiti anche nel campo socialista (124), si preoccupò di ragionare sul modo affinché in una società liberata il lavoro venisse accettato come un dovere di tutti: “Un grande numero di anarchici oscilla tra il diritto all’ozio e l’obbligo del lavoro per tutti, non riuscendo a concepire una formula intermedia, che mi pare potrebbe essere questa: nessun obbligo di lavorare, ma nessun dovere verso chi non voglia lavorare” (125).

Cionondimeno, l’operaismo è per il lodigiano una deviazione ipocrita e pericolosa, dietro la quale spesso si celano anche forme di corporativismo invalse in un certo mediocre sindacalismo, incline a “lottare”, ad esempio, per l’aumento delle commesse militari nelle fabbriche d’armi.

Stesso dicasi per certe antieconomiche forme di protezionismo, destinate ad impoverire i consumatori ed a creare disoccupazione per favorire mere rendite di categoria: “Nel 1914, gli operai dell’industria zuccheriera che erano 4.500, cioè una piccolissima categoria, venivano protetti dai socialisti riformisti, che chiedevano al governo la protezione doganale dello zucchero, senza curarsi dell’industria danneggiata dall’alto prezzo della materia prima. Tale richiesta veniva a danneggiare tutti i consumatori italiani, costretti a pagare a prezzo più alto non solo lo zucchero, ma anche le confetture e le marmellate. Non solo; essa limitava il consumo interno delle seconde, ne impediva la esportazione, quindi diminuiva il lavoro degli operai di queste industrie. Gli operai degli zuccherifici avrebbero, quindi, dovuto: o richiedere la protezione per tutte e due le industrie o richiedere il libero scambio per lo zucchero, potendo essi essere assorbiti dallo sviluppo dell’industria delle confetture e della marmellata. Questo nell’interesse generale. Ma come pretendere che gli operai degli zuccherifici che guadagnavano «salari elevati, ignoti ad altre categorie di lavoratori» (Avanti!, 10 marzo 1910) rinunziassero alla loro posizione privilegiata?”(126).

Contro l’operaiolatria

 

L’operaismo sviluppa, per Berneri, un’inaccettabile iconografia. Scrisse: “Fu a Le Pecq, mentre in costume e in fatica da manovale muratore mi aveva sorpreso uno dei ‘responsabili’ comunisti. ‘Ora la puoi conoscere, Berneri, l’anima proletaria!’. Così mi aveva apostrofato. Tra una stacciatura di sabbia e due secchi di ‘grossa’ riflettei (…). I primi contatti con il proletariato: era lì che cercavo la materia della definizione. Ritrovai i miei primi compagni (…). E dopo allora, quanti operai, nella mia vita quotidiana! Ma se nell’uno trovavo l’esca che faceva scintilla nel mio pensiero, se nell’altro scoprivo affinità elettive, se nell’altro ancora mi aprivo con fraterna intimità, quanti altri aridi ne incontravo, quanti mi urtavano con la loro boriosa vuotaggine, quanti mi nauseavano con il loro cinismo! (…) E gli amici e i compagni operai più intelligenti e più spontanei mai mi parlavano di ‘anima proletaria’. Sapevo proprio da loro, quanto lente a progredire fossero la propaganda e l’organizzazione socialiste. Poi (…) vidi il proletariato, che mi parve, nel suo complesso, quello che ancor oggi mi pare, un’enorme forza che si ignora; che cura, e non intelligentemente, il proprio utile; che si batte difficilmente per motivi ideali, o per scopi non immediati, che è pesante di infiniti pregiudizi, di grossolane ignoranze, d’infantili illusioni. (…) Il giochetto di chiamare ‘proletariato’ i nuclei di avanguardia e le élites operaie è un giochetto da mettere in soffitta. (…) Una ‘civiltà operaia’, una ‘società proletaria’, una ‘dittatura del proletariato’: ecco delle formule che dovrebbero sparire. Non esiste una ‘coscienza operaia’ come tipico carattere psichico di un’intera classe; non vi è una radicale opposizione tra ‘coscienza operaia’ e ‘coscienza borghese’” (127).

 

 

Il valore della cultura

 

La cultura, peraltro, ha per lui un valore quasi assoluto. Ma non certo in quanto mero esercizio di enciclopedismo elitario e dimostrativo fine a se stesso, la qual cosa Berneri rifugge a tal punto da farne oggetto di analisi impietose e persino inutilmente autocritiche (sorta di “esorcismi” volti a definire prioritariamente un ruolo militante che prevale nettamente sul suo essere intellettuale). La sua preoccupazione è quella di differenziarsi dallo stile del “pensatore solitario” chiuso in una torre d’avorio che, con una critica speciosa ed onnicomprensiva, naufraga infine nel puro scetticismo.

Cultura e pratica d’analisi sono per Berneri indispensabili alla maturazione della coscienza e della capacità dell’organizzazione libertaria, ed è per questo che mostra di aborrire l’ideologismo, statico e immutabile: “Un anarchico non può che detestare i sistemi ideologici chiusi (teorie che si chiamano dottrina) e non può dare ai principi che un valore relativo” (128). Il lodigiano non sopporta la superficialità raffazzonata ed invasata dei neofiti e la sicumera di alcuni dottrinari dell’anarchismo: “Noi siamo sprovvisti di coscienza politica nel senso che non abbiamo consapevolezza dei problemi attuali e continuiamo a diluire soluzioni acquisite dalla nostra letteratura di propaganda. Siamo avveniristi, e basta. Il fatto che ci sono editori nostri che continuano a ristampare gli scritti dei maestri senza mai aggiornarli con note critiche, dimostra che la nostra cultura e la nostra propaganda sono in mano a gente che mira a tenere in piedi la propria azienda, invece che a spingere il movimento ad uscire dal già pensato per sforzarsi nella critica, cioè nel pensabile. Il fatto che vi sono dei polemisti che cercano di imbottigliare l’avversario invece di cercare la verità, dimostra che fra noi ci sono dei massoni, in senso intellettuale. Aggiungiamo i grafomani pei quali l’articolo è uno sfogo o una vanità ed avremo un complesso di elementi che intralciano il lavorio di rinnovamento iniziato da un pugno di indipendenti che danno a sperar bene. (…) E’ l’ora di finirla coi farmacisti dalle formulette complicate, che non vedono più in là dei loro barattoli pieni di fumo; è l’ora di finirla coi chiacchieroni che ubriacano il pubblico di belle frasi risonanti; è l’ora di finirla con i semplicisti, che hanno tre o quattro idee inchiodate nella testa e fanno da vestali al fuoco fatuo dell’Ideale distribuendo scomuniche” (129).

Anche fra noi vi è il volgo, difficile a fare orecchio nuovo a musica nuova, che ad impostazioni di problemi e a soluzioni oppone vaghi disegni utopistici e grossolane invettive demagogiche. Ché quelle quattro ideuzze, racimolate in opuscoletti didascalici o in grossi libri incompresi, nel cervelluccio inoperoso si sono accucciate e se ne stan lì, al calduccio di una facile retorica che pretende essere forza solare di una fede intera, mentre non è che focherello fumoso”(130).

Il suo sforzo per la costruzione di un progetto politicamente fruibile per l’anarchismo è assai complesso e variegato, come dimostra l’organicità della Costituzione della Federazione Italiana Comuni Socialisti (FICS) (131), sortita a latere del Convegno d’intesa degli anarchici italiani esuli in Francia tenutosi a Parigi nel 1935, ove è ben riconoscibile un preciso organigramma collettivistasindacalista-comunalista. Anche se si tratta di un progetto di “secondo livello” per l’anarchismo, utile, come ha avuto modo di sostenere Max Sartin, principalmente ad una mediazione per l’alleanza con Giustizia e Libertà, vi si trovano elementi tipici della posizione berneriana. Oltre al piano di una strutturazione orizzontale tramite il quale la società civile esautora lo stato, v’è ad esempio una particolare attenzione nella salvaguardia dell’autonomia e delle specifiche competenze delle professioni. Un elemento che richiama il periodo contiguo agli studi universitari, quando il nostro si prese una “reprimenda” da Salvemini appunto per aver innalzato l’insegnamento alla stregua di una professione: “…occorre sopprimere ciò che non si riferisce strettamente al tema. Il libero esercizio delle professioni ha niente da vedere con la libertà d’insegnamento. (…) le due questioni sono del tutto distinte: e formano argomenti di studi diversi. (…) Comprendere insieme le due discussioni non è né logicamente corretto, né utile al lavoro. (…) Sono incantato di aiutarti coi miei consigli; (…) è il mio dovere di insegnante” (132). Ricordiamo che Berneri ha esercitato il lavoro di cattedra. Alla luce degli sviluppi della funzione docente, ridotta ormai a rango di livello impiegatizio, chi può dire quale dei due avesse ragione?

Per un programma economico aperto

 

Berneri, se è intransigente in politica (per lui l’anarchismo coincide prioritariamente col rifiuto dello stato), non lo è in campo economico. Il ruolo dell’individuo deve venire recuperato in una struttura sociale che ne favorisca le inclinazioni e, pur nella necessaria strategia volta alla democrazia economica, occorre tener conto del valore e dell’iniziativa dei singoli.

Egli propende quindi per un sistema collettivista di tipo bakuniniano, con il rispetto della piccola proprietà (anche agraria), contemperata dalla eliminazione del lavoro salariato e da “inserti” di comunismo non coatto, proposti soprattutto a mo’ d’esempio e per realizzare, in itinere, il necessario incontro con i “compagni di strada” liberalsocialisti: “Le mie simpatie per i repubblicani revisionisti in senso socialista e autonomista risalgono al 1918 e le ho più volte manifestate, giungendo a polemizzare con Malatesta, che insistiva sull’individualismo repubblicano in contrasto con il comunismo nostro, (e le ho più volte manifestate) a favore di questa tesi: il collettivismo, inteso (…) come adattamento delle premesse comuniste alla realtà economica e psicologica dell’Italia, può diventare il terreno d’incontro e di collaborazione tra noi e i repubblicani” (133).

Avoca ai comuni ed alle entità federali la gestione generale delle terre e delle istituzioni pubbliche, ma intende premiare la capacità produttiva per il tramite di cooperative ed associazioni. Affida le grandi imprese alle assemblee operaie.

La sua è, anche in economia, un forma complessa di socialismo libertario (“socialista libertario come lo sono io”) (134), che parte dal piano più semplice per giungere ad una realtà più ramificata (ma mai piramidale), più “equitaria” che pianificatoria. Parlando della Prima Internazionale in Italia, ed usando la cosa per chiarire il suo pensiero, Berneri scrive: “ <<Il socialismo non ha ancora detto la sua ultima parola; ma esso non nega ogni proprietà individuale. Come lo potrebbe, se combatte la proprietà individuale (leggi: capitalista) del suolo, per la necessità che ogni individuo abbia un diritto assoluto di proprietà su ciò che ha prodotto? Come lo potrebbe se l’assioma ‘chi lavora ha diritto ai frutti del suo lavoro’, costituisce una delle basi fondamentali delle nuove teorie sociali?’>> (…) In questa risposta del Friscia è netta l’opposizione della proprietà per tutti alla proprietà monopolistica di alcuni; il principio dell’eguaglianza relativa (economica); ed infine il principio dello stimolo al lavoro rappresentato dalla ricompensa proporzionata, automaticamente, alle opere” (135). L’accento è posto sia su una democrazia diretta da realizzarsi prioritariamente in sede locale (pur contemperata dall’opera di salvaguardia solidaristica e di controllo di altre entità di tipo regionale e nazionale), che sull’attenzione allo sviluppo autonomo dei membri della collettività (cosa determinante per la stessa).

Il lodigiano coglie con preveggenza il problema e la sfida che rappresenta per il movimento rivoluzionario l’imporsi di una società complessa con un’enorme moltiplicazione dei beni, ove la questione di una nuova qualità della vita non può venire affrontata deterministicamente con un sistema chiuso. Egli considera “utopistica ogni pretesa di ridurre la produzione ad una sola forma”, individuale od associata (136). I meccanismi della partecipazione, l’organizzazione del lavoro, come già la diffusione della cultura, sono prioritari nella sua riflessione, in un interrogarsi che non ammette deroghe inclini al “sic et simpliciter” e ad assolutizzazioni ideologiche. Una

riflessione che non dà mai nulla per scontato.

In sostanza, Berneri indaga a tutto campo e “senza rete”, mettendo in crisi tutti i dogmi del socialismo. Di se stesso scrive: “Ho abbandonato il movimento socialista perché continuamente mi sentivo dare dell’anarchico; entrato nel movimento anarchico mi sono fatto la fama di repubblicano federalista. Quello che è certo è che sono un anarchico sui generis, tollerato dai compagni per la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi. I dissensi vertono su questi punti: la generalità degli anarchici è atea ed io sono agnostico; è comunista ed io sono liberista (cioè sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali); è anti-autoritaria in modo individualista ed io sono semplicemente autonomistafederalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal Sovietismo)” (137). “In sede politica, il federalismo repubblicano di Cattaneo e del Ferrari mi pareva, fin dal 1918, passibile d’integrarsi col comunalismo libertario propugnato dalla 1.a Internazionale e con il Soviettismo, quale esperienza genuina, cioè prima che diventasse strumento della dittatura bolscevica” (138).

Nondimeno Berneri resterà sempre e comunque un socialista libertario ed i tentativi (anche postumi) di guadagnarlo al liberalismo rimarranno sempre frustrati.

Astensionismo ed anarchismo

 

Berneri arriva a mettere in discussione anche la pratica astensionista. Parte dall’assunto che la critica antiparlamentare debba nutrirsi di esempi pratici, in grado di rendere chiaramente comprensibile alla gente comune sia le lacune del burocratismo dovute alla delega priva di controllo che la sostituibilità del sistema secondo un progetto orizzontale. Perciò la propaganda non dovrà essere astrusa e dozzinale, dovendosi invece nutrire del quotidiano, ed il progetto dovrà essere meditato, pratico e comprensibile: “Federalismo! E’ una parola. E’ una formula senza contenuto positivo. Che cosa ci danno i maestri? Il presupposto del federalismo: la concezione antistatale, concezione politica e non impostazione tecnica, paura dell’accentramento e non progetti di decentramento” (139).

Berneri si scaglia quindi contro la reiterazione senza soluzione di continuità che l’anarchismo fa dell’astensionismo: “Come constato l’assoluta deficienza della critica antiparlamentare della nostra stampa, lacuna che mi pare gravissima, così non sono astensionista nel senso che non credo, e non ho mai creduto, all’utilità della propaganda astensionista in periodo di elezioni” (140). La propaganda astensionista va usata cum grano salis: è da adottarsi solo se utile tatticamente. Precisamente: “Ora, vorrei poter proporre a Malatesta questo quesito: se un trionfo elettorale dei partiti di sinistra fosse un tonico rialzante il morale abbattuto della classe operaia, se quel trionfo permettesse il discredito degli esponenti di quei partiti e avvilisse al tempo stesso le forze fasciste, se quel trionfo fosse una conditio sine qua non degli sviluppi possibili di una rivoluzione sociale, come un anarchico dovrebbe comportarsi? (…) Che quell’anarchico possa errare nella valutazione del momento politico è possibile, ma il problema è: se giudicando così un momento politico ed agendo di conseguenza egli cessa di essere anarchico (141).

Berneri, in realtà, si chiede che tipo di democrazia debba costruire l’anarchismo e non tralascia d’interrogarsi anche sul diritto (“ubi societas ibi jus”) (142).

Ubi societas, ibi jus: la differenza fra autorevolezza ed autoritarismo

 

Berneri ci lascia in merito un’ultima riflessione importante per l’anarchismo: “L’autorità è libertà quando l’autorità sia mezzo di liberazione, ma lo sforzo anti-autoritario è necessario come processo di autonomia. Autorità e libertà sono termini di un rapporto antitetico che si risolve in sintesi, tanto più la antitesi è sentita e voluta” (143). E’ l’autorevolezza che sta nelle cose, presente in natura, ad esempio, nelle regole non scritte che soprassiedono allo scambio di esperienze fr esseri umani e ai meccanismi dell’apprendimento, o al rapporto con i figli: “Ed è, d’altra parte, l’eteronomia dell’autorità, quando non mi ha soffocato od offuscato lo spirito, che ha permesso la mia autonomia, cioè la mia libertà” (144). Il concetto ha un valore notevole e si avvicina molto ad una dichiarazione programmatica, sempre presente nei testi di Berneri.

Quella del lodigiano è una concezione dinamica, pragmatica e affatto demagogica, per una nuova pedagogia sociale rivoluzionaria: “L’anarchia mi pare risulti dall’approssimarsi, identificarsi mai, ché sarebbe la stasi, della libertà e dell’autorità. Come principi. Come fatti, libertà e autorità stanno tra loro come verità ed errore; come enti che differenziano e si identificano, nel divenire storico” (145).

 

Berneri e Malatesta

 

Chiuderemo questo excursus berneriano cercando di tracciare – a mo’ di sintesi e chiosa – la differenza fra l’opzione malatestiana (un “classico” dell’anarchismo) e quella del nostro. Meglio sarebbe dire che si proverà a definire per sommi capi il percorso evolutivo che stacca Berneri da Malatesta, ma che pure mantiene i due in relazione. E’ vero infatti che se l’attualismo del lodigiano supera il volontarismo, dallo stesso volontarismo Berneri non prescinde completamente. Semplicemente lo sublima politicamente.

A prescindere da Malatesta, per Berneri, anziché parlare sempre e solo dei massimi sistemi, in un crescendo millenaristico che verrà riconosciuto al massimo come utopia positiva, irrealizzabile o molto “aldilà” da venire, la propaganda anarchica deve calarsi nella realtà, deve prendere corpo nell’azione quotidiana. In sostanza, non deve affidarsi al semplice volontarismo, deve divenire induttiva. L’anarchismo deve essere levatore di se stesso partendo dal capo e non dalla coda della problematica sociale. Per vincere, deve convincere la società civile che si può fare a meno dello stato, che ci si può organizzare su basi differenti, e che tutto ciò è assolutamente pratico e utile.

D’altro canto è evidente la necessità immediata di uscire dalle vuote formule cui il dottrinarismo ha costretto la ricerca sociale ed economica del movimento. Un movimento al quale – banalizzando – è stato predicato che prima avviene la rottura rivoluzionaria e poi la costruzione, che i due momenti sono privi di continuità e religiosamente separati, quasi nell’attesa di una sorta di palingenesi “mistica”, tanto timoroso di sbagliare da esser certo che si sbagli non appena ci si cali nell’opera di preconizzazione del futuro.

Questo è il segno dell’influenza giacobina sul movimento libertario, sia perché dal giacobinismo mutua la sciocca certezza che, mutatis mutandis, un “partito” d’avanguardia possa comunque forzare e predeterminare il futuro con la semplice azione o il gioco d’azzardo dei propri quadri (concezione che può bastare solo ad organizzazioni che abbiano come fine ultimo la realizzazione di un mero colpo di stato), sia perché esigenze dovute alle incombenze immediate della lotta politica e della storia costringono giocoforza l’anarchismo (privato della riflessione e del “sistemismo” che invece i vari giacobini praticano) a seguire pedissequamente “in coda” il bolscevismo in tutte le sue varianti.

Anche questo viene capito dal Berneri che comunque, sia detto per inciso, è un intellettuale d’azione. Egli afferma: “Io ho sempre vissuto, idealmente, accanto ai giganti dell’azione. Non ho idolatrie, ma tutti coloro che gettarono la vita, la libertà, la salute nel turbine luminoso della lotta per la Causa mi sembrano fratelli” (146).

Il lodigiano non disdegna per nulla l’opera di traino dei militanti rivoluzionari. Per lui occorrono l’uno e l’altro: un progetto che sfugga all’arroganza dei sistemismi e degli scientismi, nonché l’azione. Un progetto chiaro e comprensibile, ma sempre in divenire e soprattutto sempre aperto davanti agli insegnamenti pratici e teorici che si determineranno nel corso del suo inverarsi. Un’azione senza compromessi sul piano etico, ma pragmatica soprattutto nella capacità attrattiva che deve svolgere verso le masse. Infine, è per lui necessaria una revisione epistemologica, filosofica e sistemica dell’anarchismo. Paradossalmente, nonostante le critiche che riceve, Berneri è molto più “libertario” dei suoi detrattori o di quanti sono portati ad esprimersi polemicamente nei suoi confronti. Berneri, proprio nel momento in cui ritiene sia più necessario di qualsiasi altra cosa elaborare un programma, è totalmente convinto dell’impossibilità di una realizzazione, totale e radicale, del programma stesso.

Per gli stessi motivi, Berneri sa bene quanto poco possa essere auspicabile la credenza palingenetica nella totale trasformazione sociale dovuta alla rottura rivoluzionaria e persino, altrettanto naturalmente, aborre il retaggio di un’idea di perfezione. Proprio il pragmatismo varrebbe infatti a spingere il movimento anarchico, che dovrebbe essere il meno dottrinario per definizione, ad una prassi di continuo confronto senza rete con la realtà e con il progetto.

Tutto ciò è tanto importante da spingere il lodigiano a mettere nel conto che sarà meno grave un isolamento interno dell’anarchismo innovatore, dovuto all’incomprensione dell’ortodossia libertaria, che un isolamento dell’intero movimento rispetto al resto della società a causa dell’incapacità di rinnovarsi. Tuttavia non esiste il “sofisma” della “verità”. Se occorre riflettere a trecentosessanta gradi e darsi una rotta, non bisogna neppure dimenticare l’aderenza alla questione fondamentale: il moto di sdegno contro l’ingiustizia. Da ciò, il richiamo al sentimento, all’impeto, alla “bellezza” intrinseca allo spirito rivoluzionario.

Quali sono dunque le differenze fra il classico volontarismo malatestiano e l’attualismo berneriano?

Entrambi combattono contro il rivoluzionarismo “general generico”. L’alterità etica vale in entrambi i casi. Ma per il lodigiano il primo richiamo è verso la capacità d’incidere nel mondo e d’essere all’altezza delle situazioni, nonché dell’inevitabile assunzione di responsabilità che questo comporta, onde piegare la politica all’etica. Tutti e due lottano contro il nichilismo e le correnti disgregatrici, tutti e due promuovono un forte senso d’appartenenza, ma in Berneri tale sentimento è “più politico”. Per Malatesta conta maggiormente l’autonomia assoluta dell’etica di fronte alla politica. Tanto che, come avvenuto soprattutto dopo la scomparsa del “grande vecchio” (la cui mera presenza di grande organizzatore, unitamente ad un intuito innato avevano sempre funzionato da “collante”), l’anarchismo corre il pericolo di dirigersi semplicemente “contro la storia”.

Ma a ben vedere il volontarismo malatestiano rischia di divenire molto più “politico” di quanto non sembri, o addirittura involontariamente politicista. Se estremizzato (nel modo secondo il quale se ne sono appropriati molti epigoni), vi si può riscontrare la pericolosa tendenza a vedere il sociale quale mera risultante della volontà. Quindi volontà politica, se vogliamo, degli “uomini d’azione”, una variante “romantica” del partito di quadri (la “minoranza agente”).

Parliamo naturalmente della propensione a pensare di poter sovradeterminare la realtà per il tramite preponderante della volontà. La realtà è però molto più complessa, e l’evoluzione sociale, soprattutto se la si vuole libertaria, necessita per forza di cose un’attenzione particolarissima al livello di consapevolezza del corpo sociale (ed alla crescita dello stesso). Il volontarismo ha quindi senso solo se diviene volontà d’ascolto, capacità di relazione, sintonizzazione sulla lunghezza d’onda delle “masse”, stimolo alla crescita. La mera volontà, altrimenti intesa, può servire unicamente ad un colpo di mano più o meno autoreferenziale che (se riuscito) necessita poi di un’altra iniezione di “volontà”: quella dei vincitori (che diviene imposizione). L’approdo di un tale “volontarismo”, ben lungi dai desideri di Malatesta (il cui impianto teorico era poi tutto volto alla tolleranza), può divenire una variante di quella che oggi viene chiamata “società trasparente”, nell’accezione di una realtà subordinata agli imperativi di qualche “metafisica” volontà, che controlla l’intera vita di relazione. E’ per questo che – come dice Giampietro Berti (anche se all’interno di un discorso d’altro tipo) – per Berneri: “All’idea di un assetto ideale sotteso da una tensione utopica, è preferibile pensare l’anarchia in termini ‘liberali’, cioè non come: ‘la società dell’armonia assoluta, ma solo come la società della tolleranza’” (147).

Il progetto che si basa sull’indeterminata “volontà”, anche se non scritto (o forse a maggior ragione per questo), diviene in tal caso legittimazione del controllo, e il tutto (paradossalmente) si aggrava se alla base viene posta una totale fiducia nella spontaneità delle “masse”. La cosa non cambia qualora vi si sostituisca la fede nella capacità, presupposta come “innata” (conculcata sino alla rivoluzione, ma pronta a “riemergere”), di esprimere rispetto reciproco e civile coesistenza da parte degli “individui”. Qualora invece si prospetti una rivolta delle istituzioni contro lo stato, mirante a sopprimere l’identità del dominio, ma non a sovradeterminare il corpo sociale, la situazione è di molto diversa. Cambiano sia il concetto di “rivolta”, che quelli relativi a “massa” ed individuo. Carlo De Maria (148) conduce riflessioni interessanti in proposito: “(…) notiamo come l’importanza del gruppo familiare – vale a dire dell’ammaestramento dei genitori, della fedeltà a certe persone, della ricchezza di una tradizione ereditata, della continuità tra le generazioni – fosse parte in Berneri della centralità del ‘mondo dell’associazione involontaria’ (…). Potremmo dire che esse costituiscono il dato sul quale si fonda (si radica) l’ individuo, divenendo persona (con i suoi legami sociali, culturali ed economici) (149). Ai fini del nostro discorso, risulta particolarmente efficace la definizione di ‘persona’ che è stata data da Alessandro Ferrara: ‘Individuo <<preso con tutta la zolla>>, considerato cioè in congiunzione con quel nesso di relazioni di riconoscimento reciproco che lo fanno essere quel <<chi>> unico e irripetibile che è’ (150). Le seguenti parole di Lelio Basso – che corrispondevano, nel 1933, a un questionario di Giustizia e Libertà – forniscono, poi, una periodizzazione estremamente significativa: Abbandonare definitivamente il concetto dell’individuo così come è stato elaborato dal pensiero settecentesco e dalla rivoluzione francese, per sostituirvi quello più concreto e completo di personalità, ciascuna diversa e distinta e ciascuna centro di confluenza di rapporti sociali economici spirituali, è, se non m’inganno, un bisogno largamente diffuso fra le giovani generazioni’ (151). La sensibilità per le modalità della finitudine richiama (e sostanzia) l’opposizione ai regimi totalitari e al volontarismo politico – inteso come onnipotenza verso il dato – che li caratterizza (152). (…) Diviene, allora, possibile individuare con estrema chiarezza i temi della critica sociale di Berneri. Al totalitarismo, egli oppose, da una parte le associazioni involontarie e, dall’altra, l’autonomismo e il federalismo (…). La riflessione di Berneri ebbe al suo centro l’individuo immerso (come produttore e cittadino) nella società e nei suoi corpi intermedi, territoriali e non territoriali (famiglia, Comune, sindacato ecc.). Individuo radicato (153) in antagonismo con la società, piuttosto che individuo assoluto – ‘eroe liberale’ (e anarchico) – ‘preso’ e contrapposto allo Stato. La riflessione sull’individuo radicato in società conduce a una dimensione giuridica (di ‘diritti e responsabilità’) (…) avendo in mente ‘la società, con tutte le sue istituzioni: familiari, economiche, religiose, politiche, ecc.’ (154) e ‘intendendo le leggi come le norme morali e civili che sono più universalmente accettate come base di un’ordinata convivenza, e come quelle necessarie costrizioni della libertà individuale che sono la condizione necessaria della sicurezza e libertà individuali e collettive’ (155). (…) Proprio la coscienza dell’importanza del diritto si configura come antidoto alla presa esercitata dalle ideologie (156).  (…) Di fronte al totalitarismo, Ortega y Gasset, come Berneri, dava risalto al fenomeno giuridico (157). Rispetto a questa affinità, la lontananza politica tra i due passa – ai nostri occhi – in secondo piano (…). Con consonanza sorprendente, Ortega y Gasset e Berneri rifiutarono il contrattualismo moderno. Secondo le parole del primo (maggio 937): ‘Uno degli errori più grandi del pensiero ‘moderno’, di cui sentiamo ancora gli ultimi riverberi, è stato quello di confondere la società con l’associazione, che è più o meno il suo contrario. Una società non si costituisce per un accordo delle volontà. Al contrario, ogni accordo di volontà presuppone l’esistenza di una società, di gente che convive, e l’accordo non può consistere che nel precisare questa o quella forma di tale convivenza, di tale società preesistente’ (158).

L’errore contrattualista – aveva scritto Berneri – consiste nel confondere l’associazione con la società. Il contratto sociale non fu la base di alcuna società, di alcuno Stato; né lo può essere. Il contratto sociale è lo stabilirsi di una forma politica basata sulla libera volontà dei consociati. E’ la società che si uniforma nel volere, la società che da natura e storia si fa filosofia. E’ società utopica che si fa associazione ideale’ (159).

Potremmo dire che alla volontà del contrattualismo moderno i due autori contrapposero una fatalità del radicamento (della tradizione). La società, secondo le parole di Berneri, è ‘una cosa che si trova’. Essa comprende un insieme di unioni involontarie: ‘la società sono i genitori, il paese di nascita’… In questo, ‘non si può cambiare’ (160). (E le unioni involontarie, è bene ripeterlo, richiamano un sistema di valori comuni). A sua volta, Ortega scriveva: ‘La vita non sceglie il suo mondo, ma vivere vuol dire trovarsi immediatamente in un mondo determinato e incommutabile: questo mondo. Il nostro mondo è la dimensione di fatalità che integra la nostra vita’ (161).

Quanto abbiamo appena letto, pone un primo discrimine fra volontarismo malatestiano ed impostazione berneriana.

Al lume della conoscenza che abbiamo acquisito di lui, potremmo però affermare che il lodigiano si sforza di portare la politica ad “influire sulla fatalità”, ma in realtà egli semmai inaugura la strada per un tentativo di risocializzazione della società – dalla quale non è dato prescindere – atto a far “scorrere” la “fatalità”, sapendo che non può sovradeterminarla volontaristicamente. E tali, probabilmente, sono anche le basi del suo “irrazionalismo”. Ma tutto questo non è, come qualcuno tacitamente immagina (l’ortodossia libertaria), o apertamente tenta di dimostrare (qualche liberalsocialista), un allontanamento di Berneri dall’anarchismo, bensì una precisazione dello stesso: una “teoria politica” per il movimento autogestionario. Teoria politica con preminenza etica, ma pur sempre teoria politica. Sono le apparenti contraddizioni del lodigiano: non crede nel volontarismo, eppure è un uomo d’azione; vuole costruire un progetto, ma pretende che “l’anarchia” (il progetto stesso) sia nelle cose: nella società più che nell’associazione.

Per Berneri l’anarchismo è realtà politica (ché l’ “utopia perfetta” e totale è giudicata non solo irraggiungibile, ma anche pericolosa), e si costruisce nella storia e con la storia.

Da Malatesta la partita con la politica viene affrontata in modo molto diverso (o non viene giocata affatto, dandola per “persa” sin dall’inizio): se ne tiene conto solo se non se ne può “fare a meno”. Da qui anche il relativo interesse (se non meramente contingente e “strumentale”) per le alleanze. Lo stesso dicasi per l’anarcosindacalismo (giudicato “spurio”), per  l’associazionismo autonomo, per l’ambito normativo, per le battaglie d’opinione ed, in ultima analisi, anche per un progetto definito di federalismo sociale. Un’attenzione diminuita quindi, non tanto per il federalismo in sé, quanto per la accettazione dello stesso quale strumento, quale canale di connessione atto alla crescita graduale dell’anarchismo “possibile”.

In Malatesta, il federalismo è prima di tutto un fine. E’ vero che viene da lui visto anche come un metodo organizzativo: è intrinseco però  all’organizzazione specifica, polo intorno al quale ruota tutta l’azione degli anarchici. Per Berneri è in primis uno strumento che ha sia valenza strategica che tattica, un mezzo da utilizzarsi per estendere il protagonismo dei soggetti sociali che hanno cittadinanza al di fuori del movimento specifico, per sollevare, da subito, le contraddizioni fra società civile e stato, per far crescere la prima a detrimento del secondo. Poi è naturalmente un punto d’arrivo, ma il raggiungimento della tappa finale dipende dal percorso.

Questa è l’applicazione berneriana del gradualismo malatestiano, in uno sforzo programmatico, se possibile, molto più compiuto, che cerca ovunque adesioni e conferme quotidiane, che al tempo stesso è utilizzato per mettere in pratica e verificare costantemente un progetto politico preciso e riconoscibile, organizzato per fasi successive.

Il compito dichiarato della struttura specifica è quello di elaborare una prassi evolutiva (ed esserne garante), rivoluzionaria e non riformista, ma di lungo periodo. Non necessariamente da subito funzionale alla rottura rivoluzionaria, che semini invece il germe del divenire per essere modificazione qui ed ora, non solo per preparare lo scontro decisivo: una modificazione dell’oggi che è già parte dello scontro decisivo di domani, senza la necessità impellente di essere immediatamente strumentale allo stesso.

L’impegno volontaristico, eliminata ogni tentazione autoreferenziale, viene trasferito soprattutto nella militanza, sia nel profondo rispetto degli uomini d’azione (per i quali il riconoscimento di una valenza trainante non viene certo meno in Berneri), sia nella capacità di garantire un’autodisciplina capace di assicurare la costruttività dell’azione e l’elaborazione costante di una linea d’intervento, nella quale però le battaglie d’opinione hanno rilevanza quasi assoluta.

Un’organizzazione prima di tutto idonea a sedimentare sinergie con il corpo sociale, indipendentemente dall’adesione dello stesso agli ideali anarchici, indicando obiettivi e conquiste immediatamente praticabili, ma anche in grado di elaborare ed aver ben chiaro un progetto strategico che sappia sia promuovere una cultura del cambiamento, dell’autonomia e della libertà, che identificare le necessarie alleanze con quelle altre forze politiche che vengano ritenute utili per aumentare la possibilità di raggiungere tali obiettivi. Forme d’alleanza stabili che richiedono un’approfondita riflessione politica, l’identificazione di una linea di demarcazione (quella rispetto ai totalitarismi), in grado di garantire l’identificazione di obiettivi strategici a medio e lungo termine (come il comunalismo), e quindi non unicamente episodiche e contingenti come sono le alleanze nelle fasi di tensione ed insorgenza sociale. Un’organizzazione non ecumenica, ma decisamente orientata, parallelamente capace però di aprire le porte all’innovazione ed alla sperimentazione pragmatica e di circoscrivere le tendenze fondamentaliste. Nella quale la discriminante ideologica principale viene identificata nell’eliminazione finale dello stato, più che in disegni di trasformazione immediata rigidamente di stampo comunista (l’economia è un campo nel quale il lodigiano è molto più possibilista). Berneri rimprovera a Malatesta la contraddittorietà di un programma molto ideologico ed altrettanto parco nell’approfondimento del peculiare carattere politico (discussione di previsione sulle fasi, sulle tattiche, sulle strutture della società liberata, rimando generalizzato alla “onnicomprensività” della rivoluzione, anche in ambito normativo, sottovalutazione di una politica delle alleanze), ma molto rigido in economia. Tanto rigido da rischiare (nella pratica politica) di esporre il movimento ad opzioni codiste di fronte all’iniziativa di marca giacobina, nella quale la trasformazione economica e del potere prescindono da quella libertaria.

L’anarcosindacalismo è per Berneri un elemento di riconoscibilità dell’anarchismo, di sperimentazione della prassi della democrazia diretta, già nel quotidiano della prima fase di costruzione del tessuto connettivo del cambiamento, esattamente come gli altri strumenti per la propaganda specifica, ma con maggiori possibilità d’incidere a partire dall’impatto aggregativo delle vertenze e dalla pratica dei bisogni. Con una strutturazione organizzativa assai più forte, perché più forti sono il legame e la motivazione se non discendono unicamente da elementi di carattere ideologico. Soprattutto grazie alla consapevolezza di divenire gradualmente la base strutturale della riorganizzazione futura. Uno strumento per l’esercizio di un’egemonia reale del mondo del lavoro sui partiti e tutte le nomenclature della politica, operante a mezzo di un’autonomia decisiva anche dallo specifico anarchico (e dalle sue carenze organizzative e chiusure dottrinarie). Cionondimeno, espressione di un socialismo umanista, questo si, di chiaro stampo malatestiano. Nell’ambito di un “sovietismo sociale” capace di nutrirsi non solo dell’apporto dell’associazionismo indipendente, bensì anche delle istituzioni espresse – principalmente sul piano decentrato (ma non solo) – ancora una volta da quella società civile che per il lodigiano va stimolata dall’insieme dell’intervento politico dell’anarchismo nella capacità di darsi strumenti, anche normativi, per un autogoverno che dovrà basarsi su di una prassi libertaria, ma essere politicamente pluralista. La militanza libertaria organizzata, la cui presenza è fondamentale in quanto garante (oggi e domani) della democrazia diretta, non è perciò indirizzata senza consegne tattiche nelle organizzazioni di massa (ovvero con l’unica raccomandazione “frontista” di agire da stimolo per l’azione diretta), bensì deve lavorare alla costruzione di un sindacato autogestionario ben riconoscibile e strutturato.

In quanto all’empiriocriticismo, esiste invece un rapporto stretto con Malatesta, anche se Berneri porterà più avanti il discorso, fino alle estreme conseguenze, e con evidenti e ben diverse ricadute – come abbiamo già visto – sulla questione della politica. Scrive in proposito Pietro Adamo: “E’ il radicamento delle elaborazioni politiche nella sfera dell’epistemologia a costituire uno degli elementi dell’originalità berneriana, con una riflessione che (…) muove direttamente dai problemi posti dalla nuova fisica e dalla nuova filosofia della scienza. (…) Prendere atto dell’impossibilità di giungere a ‘verità’ definite conduce ovviamente alla valorizzazione della tolleranza, della controversia e del dibattito, come vie per evitare le cadute nel dogmatismo e nell’assolutezza dottrinaria e per progredire lungo la strada della conoscenza. Ed è proprio a partire da questa prospettiva che Berneri tenterà di concettualizzare la sua ‘rivisitazione’ dell’anarchismo, caratterizzandolo come la filosofia politica più adeguata a esprimere le ragioni e le suggestioni che emergevano dalla scienza (…)” (162).

Ed ecco, a seguire, il legame epistemologico con Malatesta. Questi, infatti, non solo consentì ed incoraggiò la sperimentazione berneriana perché – nonostante l’intransigenza “anti-politica” – era nel profondo intrinsecamente tollerante e “fidente” nel valore positivo  della controversia e del dibattito, ma soprattutto perché lui stesso aveva iniziato dapprima un percorso epistemologico parallelo (che, pur giunto infine all’importante istanza gradualista, non riuscirà a concludersi con i risultati d’impatto politico prodotti da Berneri): “La riflessione di Berneri si situa in un momento storico (gli anni Venti e Trenta del Novecento) in cui gli argomenti degli empiristi radicali e degli empiriocriticisti sono divenuti uno dei principali strumenti dell’attacco alla concezione positivistica della scienza ma anche della politica. La critica dello ‘scientificismo’, elaborata e divulgata in Italia soprattutto dai pensatori idealisti (Croce primo fra tutti), viene ripresa anche da parte dell’intellighenzia anarchica, in particolare da Malatesta. Quest’ultimo ammette di esser stato in gioventù ‘sotto l’influenza dell’allora prevalente filosofia positivista’ e di esser caduto, per questo motivo, ‘nella contraddizione in cui si dibattono tutti i cosiddetti deterministi’, accettando in particolare una visione organicistica del corpo sociale e la fede in una ‘legge sociale’ analoga, per sua natura, alle leggi naturali. Sottrattosi poi al nefasto ascendente ‘dei sociologi organicisti e dei pregiudizi scientificisti’, Malatesta giunge a una posizione che, di fatto, è assimilabile non tanto – e non solo – alla posizione idealista, quanto piuttosto alle versioni critiche del valore della scienza a suo tempo proposte da un matematico-scienziato come Jules-Henri Poincaré, e poi riprese e sviluppate nell’ambito del cosiddetto Circolo di Vienna, per non dire delle considerazioni sulla natura fallibile della scienza articolate nel corso degli anni Trenta da Karl Popper in confronto critico, se non in aperto scontro, con gli stessi positivisti logici e con l’impostazione convenzionalistica” (163).

Infine, quale fu il rapporto fra diretto fra Malatesta e Berneri? Le posizioni del lodigiano non hanno mai portato ad uno “scontro” aperto con Malatesta, che pare invece aver sempre avuto grande considerazione ed affetto per il giovane, indubbiamente considerato più che una promessa per il movimento. E la grande stima era certo ricambiata. Non è mai stata esercitata alcuna “censura” verso Berneri fino a che l’anarchico di Santa Maria Capua Vetere e Luigi Fabbri sono stati in vita.

 

 

Note

1 Gianni Furlotti, Le radici e gli ideali educativi dell’infanzia di Camillo Berneri, in Memoria antologica. Saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986.

2 Ne L’operaiolatria, Berneri scrisse: “Torquato Gobbi mi fu maestro (…). Lui era legatore di libri, io studentello di liceo, ancora <<figlio di papà>> dunque, e ignaro di quella grande e vera Università che è la vita”. Vd. C. Berneri, L’operaiolatria, pubblicato in opuscolo, Gruppo d’edizioni libertarie, a Brest nel 1934, poi in P. C. Masini e A. Sorti, Scritti scelti di Camillo Berneri. Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, Sugar Editore, Varese 1964, p. 145. Sulla figura di Gobbi vd. il libro indicato nella nota a seguire.

3 Berneri, quando decide di passare al movimento anarchico scrive, usando lo pseudonimo “Camillo da Lodi”, la ben nota Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico, che viene pubblicata nel 1916 sul giornale pisano “L’Avvenire Anarchico”. La lettera verrà poi ripresa (parzialmente) in Pensieri e battaglie, edito a cura del Comitato Camillo Berneri, Parigi 5.5.1938. Oggi in Francisco Madrid Santos, Camillo Berneri. Un anarchico italiano (1897- 1937). Rivoluzione e controrivoluzione in Europa (1917-1937), Edizioni dell’Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1985.

4 Commento di Berneri a ricordo della “Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico”, op. cit., pubblicato in premessa alla stessa su C. Berneri, “Pensieri e battaglie”, op. cit., espresso in una lettera alla figlia Maria Luisa.

5 Adalgisa Fochi, In difesa di Camillo Berneri, Cooperativa Industrie Grafiche, Forlì 1951, p. 16.

6 Luce Fabbri, Prefazione a C. Berneri, Guerre de classe en Espagne, Edition Les Humbles, Parigi, luglio 1938 (la traduzione è mia).

7 Su Errico Malatesta vd. Luigi Fabbri, Malatesta, l’uomo e il pensiero, Edizioni Anarchismo, Catania, 1979; Giampietro Berti, Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale 1872-1932, Franco Angeli Editore, Milano, 2003.

8 Su Luigi Fabbri vd. Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, Biblioteca Franco Serantini Edizioni, Pisa,1996.

9 “Conscientia”, [1922] – 1925, rivista diretta da Piero Chiminelli e Giuseppe Gangale.

10 Raccogliamo queste informazioni da P. C. Masini in La formazione intellettuale di Camillo Berneri, pubblicato in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri. Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979.

11 G. Prezzolini, Ricordo di Camillo Berneri, da “Il Resto del Carlino”, Bologna 1962, poi in Prezzolini alla finestra, Pan Editrice, Milano 1977. Citato da Alberto Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico filosemita, in Memoria antologica. Saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986. Lo stralcio citato del giudizio di Prezzolini su Berneri è ricordato da C. De Maria, nel suo Camillo Berneri tra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli Editore, Milano 2004, p. 42.

12 Gaetano Salvemini, Donati e Berneri, da “Il mondo”, Roma 3.5.1952. Va ricordato che al nominato Circolo di Cultura o “Gruppo di cultura politica” – sorto con sede in Piazza S. Trinità nel gennaio 1921 e bruciato dai fascisti nel ‘25 – collaboravano anche Piero Calamandrei, Alfredo e Nello Riccoli, Piero Jahier e naturalmente lo stesso Salvemini, che ne fu il principale ispiratore.

13 C. Berneri, Ricordi, appunti manoscritti non datati, conservati presso ABC, Reggio Emilia, cassetta XII.4.Ricordi.

14 Gianni Furlotti, Le radici e gli ideali educativi dell’infanzia di Camillo Berneri, in Memoria antologica. Saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986.

15 C. Berneri, Le Juif antisémite, Edition Vita, Parigi 1935. Oggi vd. C. Berneri, L’ebreo antisemita, Carucci Editore, Roma 1984.

16 Alberto Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico filosemita, op. cit.

17 Edition Vita, Parigi, per i tipi della quale venne appunto pubblicato, nel 1935, di C. Berneri, Le Juif antisémite.

18 Alberto Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico filosemita, op. cit.

19 Ibid.

20 Il libro è stato pubblicato anche con questo titolo.

21 C. Berneri, Mussolini grande attore. Pubblicato per la prima volta in Spagna, Mussolini gran actor, Valencia Collecion Manana, 1934, Impresos Costa, Nueva de la Rambla, 45 Barcelona. In Italia, C. Berneri, Mussolini grande attore, Edizioni dell’Archivio Famiglia Berneri, Comune di Pistoia 1983. Viene trattato nel presente libro nel capitolo: Contro il fascismo e…. (nda).

22 P. C. Masini, La formazione intellettuale di Camillo Berneri, in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri.

Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979.

23 Theodor Lessing, Judischer Selbsthass – in italiano vd.: T. L., L’odio di sé ebraico (a cura di Ubaldo Fadini), Mimesis, Milano 1995. Segnala Cavaglion: “ (…) (un libro che ebbe diffusione maggiore di Le Juif antisémite), se soltanto qualcuno avesse avuto l’opportunità di segnalarlo alla sua curiosità onnivora – ma nemmeno Spire, che dopo il 1935 fu amico di Berneri, conosceva Lessing” (Alberto Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico filosemita, op. cit.).

24 C. Berneri, Gli anarchici e G.L., da “Giustizia e Libertà”, Parigi 6.12.1935. Ora in P. C. Masini, P. C. Masini, A.Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., ivi pubblicato sotto il titolo La polemica con Carlo Rosselli.

25 Gaetano Salvemini, Donati e Berneri, da “Il mondo”, Roma 3.5.1952, op. cit.

26 Il titolo esatto della tesi fu: La campagna dei clericali piemontesi per la libertà della scuola in rapporto alla campagna clericale in Francia (1831 – 1852), citato in C. Berneri (a cura di P. Feri e L. Di Lembo), Epistolario inedito, vol. II, ed. AFB, Pistoia, 1984, p. 18.

27 La stessa cosa la fece Luigi Fabbri: anch’egli insegnante, perse la cattedra quando si trattò di dover giurare fedeltà al fascismo ed infine riparò in Uruguay. E così molti altri. Ma la lotta contro l’imposizione del giuramento ha sempre appassionato gli anarchici, che hanno dimostrato di saper condurre (e vincere) anche battaglie d’opinione, alle quali poi lo stesso movimento libertario, sottovalutandole, ha dato e dà poco lustro. Per un insegnante, dover aderire alle leggi dello stato – di qualunque stato – è in sé un’imposizione assolutamente inaccettabile. Si tratta infatti di dare un placet in toto alle leggi e piegarsi ad esse ed alla ragion di stato (pensiamo ad esempio ai diktat sulla storia), ad onta della libertà d’insegnamento e di coscienza. Lo comprese bene l’insegnante e militante anarchico Sandro Galli, di Bologna, che nel 1982, con un durissimo sciopero della fame, costrinse gli organi preposti ad esonerare i docenti (unici, da allora, fra i dipendenti pubblici italiani) dal dovere di sottostare a tale pratica.

28 E’ doverosa una nota sulle donne della famiglia di Camillo Berneri. Tutte hanno dato un loro diretto contributo al movimento anarchico. La moglie, Giovanna Caleffi in Berneri (4.5.1897), presa su di sé l’attività politica del marito, con l’occupazione nazista viene detenuta per 3 mesi alla Santé di Parigi alla fine del 1941 e poi deportata in Germania, ove rimane in prigione altri 5 mesi. Consegnata alle autorità italiane, è rinchiusa nel carcere di Reggio Emilia e quindi condannata ad un anno di confino. Liberata, si dà alla latitanza e nel 1943 si unisce a Cesare Zaccaria, col quale pubblica il giornale clandestino “La rivoluzione libertaria”. Sempre con Zaccaria, dopo la liberazione, sarà la (ri)fondatrice in Italia della rivista “Volontà”, erede della storica testata teorica di Fabbri e Malatesta, che avrà come collaboratori Silone, Camus, Salvemini e diversi altri tra i migliori intellettuali del momento. Gestirà anche una casa editrice libertaria. Nel 1948 edita l’opuscolo Il controllo delle nascite, subito sequestrato: lei e Zaccaria subiscono un processo per propaganda contro la procreazione, dal quale usciranno assolti solo dopo due anni di battaglie su quello che fu il primo caso di denuncia civile dell’ignoranza in materia, imposta in Italia dal mondo politico clerico-fascista. Nello stesso anno, darà vita ad una sorta di Colonia estiva per bambini e ragazzi delle famiglie di anarchici, in particolare del Meridione, ospitati da compagni del Nord, esperimento che si ripeterà anche nel ‘49. Nell’estate del 1951, grazie ad una proprietà sita a Piano di Sorrento, messa a disposizione da Zaccaria, la Comunità è stabilmente inaugurata e raccoglie i giovani ospiti per due mesi d’estate, informandosi unicamente a principi di solidarietà e pedagogia libertaria. Verrà intitolata alla figlia Maria Luisa (scomparsa prematuramente a soli 31 anni), e procederà sino al 1957. Con la chiusura del rapporto con Zaccaria, dopo un periodo d’intervallo, altri proseguiranno il lavoro, sino agli anni ‘60, in località Ronchi, a 700 metri dal mare in provincia di Massa. Giovanna muore il 14 marzo 1962.

La primogenita, Maria Luisa (Arezzo, 1.3.1918), dopo aver condiviso il lavoro del padre a Parigi e Barcellona, con Vernon Richards darà vita a Londra al giornale “Spain and the word” combattendo dal 1939 al 1945 una difficilissima battaglia contro la guerra tramite le pagine dell’unica rivista antimilitarista presente in una nazione direttamente impegnata nel conflitto. Animerà l’editrice “Freedom Press” e darà un contributo importante all’anarchismo britannico. Come il padre, s’interessa alla psicologia ed è fra i primi a diffondere nel Regno Unito le opere di Wilhelm Reich.

Morirà per un’infezione virale quattro mesi dopo un parto andato male conclusosi con la morte della nascitura, il 13.4.1949 a Londra. Cionondimeno lascerà molti scritti, fra i quali il bellissimo libro Viaggio attraverso utopia

(Edizione a cura del Movimento Anarchico Italiano-Archivio Famiglia Berneri di Pistoia, Carrara, 1981).

L’altra figlia, Giliana (Firenze, 3.10.1919), laureata in medicina, opererà a lungo nel movimento anarchico francese dopo la liberazione. E’ morta il 19.7.1998 a Montreuil-sous-Bois. In quanto alla madre, Adalgisa Fochi Berneri, coinvolta direttamente nella vicenda politica del figlio, esule ella stessa, dopo l’assassinio lavorò assiduamente per tenerne alta e viva la memoria.

29 C. Berneri, Esilio, inedito, originale incompiuto custodito da AFB, Reggio Emilia. Si tratta di un libro autobiografico che Berneri iniziò a scrivere ma non riuscì mai a portare a termine.

30 Si veda in proposito: Vittorio Emiliani, Camillo Berneri: l’anarchico più espulso d’Europa, in V. Emiliani, Gli anarchici. Vite di Cafiero, Costa, Malatesta, Cipriani, Gori, Berneri, Borghi, Bompiani Editore, Milano 1973.

31 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 4.4.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società…, op. cit.

(38). La sua attenzione sarà volta in particolare verso “Rivoluzione Liberale” e “Giustizia e Libertà”, organi di stampa omonimi dei relativi movimenti politici (embrionale il primo, definito il secondo), guidati rispettivamente da Piero Gobetti e Carlo Rosselli. Fu nel corso di uno dei primi dibattiti affrontati su quei giornali, proprio confrontandosi con Gobetti nell’aprile del ‘23, che Berneri sostenne essere gli anarchici “i liberali del socialismo” (39). 32 Carlo Rosselli, Socialisme libéral, Paris 1930, frase riportata da C. Berneri in Mussolini grande attore (Conclusioni), op. cit.

33 C. Berneri, Mussolini grande attore (Conclusioni), pubblicato per la prima volta in Spagna, Mussolini gran actor, Valencia Collecion Manana, 1934, Impresos Costa, Nueva de la Rambla, 45 Barcelona. In Italia, Mussolini grande attore, Edizioni dell’Archivio Famiglia Berneri, Comune di Pistoia 1983.

34 C. Berneri, Della demagogia oratoria (III), da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 28.3.1936. Pubblicato fra i testi di complemento nell’edizione italiana curata da P. C. Masini di Mussolini grande attore, op. cit.

35 C. Berneri, Scuotiamoci dal tedio di una attesa imbelle, indegna di noi. Appello agli anarchici, da “Il Martello”, New York 8.6.1929.

36 C. Berneri, Della demagogia oratoria (II), da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 7.3.1936, riportato fra i testi di complemento nell’edizione curata da P. C. Masini di C. Berneri, Mussolini grande attore, Ed. dell’Archivio Famiglia Berneri, Comune di Pistoia, 1983.

37 Ibid.

38 P. C. Masini, La formazione intellettuale di Camillo Berneri, in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri. Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979.

39 C. Berneri, Il liberismo nell’Internazionale, da “Rivoluzione liberale”, Torino 24.4.1923, poi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

40 C. Berneri, Il mio nazional-anarchismo, manoscritto inedito conservato presso Archivio

Famiglia Berneri-Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia, cassetta IV – opere di carattere politico, citato da P. C. Masini, in La formazione intellettuale di Camillo Berneri, op. cit. Il manoscritto non è datato, ma per le citazioni che vi appaiono risulta sicuramente successivo a C. Berneri, Costituzione della Federazione Italiana Comuni Socialisti (FICS), probabilmente elaborata nel corso del Convegno d’Intesa degli anarchici italiani emigrati in Europa o a margine dello stesso, Parigi, ottobre /novembre 1935. Lo scritto è anche indubitabilmente successivo alla Riforma Gentile (divenuta legge nel 1923).

41 Incarico assunto dopo la morte di Mario Angeloni, repubblicano, caduto il 19 agosto del 1936 nella battaglia di Monte Pelato (come l’Angeloni stesso aveva soprannominato una parte d’importanza strategica che venne conquistata sull’altipiano della Galocha). Angeloni morì in circostanze eroiche: “Angeloni era alla testa di un plotone di una quarantina di miliziani italiani, a pochi Km. da Huesca. Mentre Angeloni, con i suoi uomini, marciava sulla strada carrozzabile in direzione appunto di Huesca, un’auto blindata occupata da nazionalisti, improvvisamente è sbucata di fronte alla piccola colonna. Naturalmente una scarica di mitragliatrice ne uccise otto o nove; gli altri, gettandosi a terra a lato della strada, e fuggendo, riuscirono a salvarsi. (…) Al momento di morire, l’Angeloni lanciava una bomba a mano contro l’auto blindata (…)” (Divisione Affari Generali e Riservati, Nota n.° 441/038065, copia appunto n.° 500/27108, datata 17.9.1936, conservata presso ABC-Reggio Emilia, posizione CPC ACS, CB, documento n.° 104).

42 Lo testimonia una nota informativa sui partecipanti ai funerali di Mario Angeloni, tenutosi a Barcellona. Si tratta della Nota della Divisione Generale Affari Riservati n.° 441/038065, copia appunto n.° 500/27108, datata 17.9.1936 (documento n.° 104, conservato presso CPC ACS, CB, ABC-Reggio Emilia), e vi si legge: “(…) I funerali ebbero luogo il 1° corrente (…) Seguivano il corteo anche Rendani, l’anarchico Berneri, con la testa bendata e il braccio al collo, essendo anch’egli stato ferito in combattimento”.

43 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, op. cit.

44 Su Gobetti, dopo la sua morte, Berneri scrisse ampiamente recensendo Risorgimento senza eroi in “Veglia” (Parigi) del novembre 1926. Segnalato da P. C. Masini, La formazione intellettuale di Camillo Berneri, in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri. Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979. Su Berneri collaboratore di “Rivoluzione liberale” lo stesso Masini ha scritto un saggio su “Volontà”, Napoli 1.6.1947.

45 Sabatino (Nello) Rosselli, fratello di Carlo, pubblicò nel 1927 l’opera Mazzini e Bakunin in Italia, lavoro considerato oggi come il primo a porre sul piano scientifico l’intervento storico sul movimento operaio nella penisola. Oggi vd. Einaudi, Torino 1982. Berneri scrisse: “La lotta fra Mazzini e Bakunin, così ben illustrata da Nello Rosselli e da Max Nettlau, fu in grande parte lotta tra l’astratto ideale di Mazzini e il concretismo sociale” (C. Berneri, Il mio nazionalanarchismo, op. cit.).

46 C. Berneri, Cielo tre quarti coperto, da “La protestation”, Puteaux 28.3.1933. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

47 C. Berneri, Guerra e rivoluzione, in “Guerra di Classe”, Barcellona 21.4.1937. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

48 C. Berneri, Discorso in morte di Antonio Gramsci. Ricostruito e pubblicato da Alberto Sorti, Pier Carlo Masini in Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, Sugar Editore, Varese 1964.

49 C. Berneri, L’operaiolatria, pubblicato in opuscolo, Gruppo d’edizioni libertarie, a Brest nel 1934, poi in P. C. Masini e A. Sorti, Scritti scelti di Camillo Berneri. Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, Sugar Editore, Varese 1964.

50 C. Berneri, Discorso in morte di Antonio Gramsci, op. cit. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

51 Angelica Balabanoff. Esponente storico del movimento operaio, russa, nata nel 1869 a Černigov e morta a Roma nel 1965. Di famiglia benestante, laureatasi a Bruxelles, fu in Italia dal 1897. Della scuola di A. Labriola, aderì nel 1900 al Partito Socialista Italiano. Svolse lavoro politico in Svizzera con gli immigrati italiani. Sino alla prima deflagrazione mondiale fu vicina a Mussolini ed al suo massimalismo e “codiresse” con lui l’organo del PSI, il quotidiano “Avanti!”. Rientrata in Russia nel 1917, le vennero affidate da Lenin responsabilità di governo. Divenne segretaria dell’Internazionale Comunista, ma nel 1922 rifiutò i metodi dei bolscevichi ed, entrata fra l’altro in forte contrasto con Zinoviev, uscì dal Komintern e lasciò l’URSS, stabilendosi a Vienna ed in seguito a Parigi. Qui fu vicina a Turati e diresse l’ “Avanti!”. Fu anche negli USA. Di ritorno in Italia con la liberazione, aderì al nuovo PSLI e rimase nell’area socialista sino alla morte. Tra l’altro, ha scritto: Ricordi di una socialista (1946) e Lenin visto da vicino (1959). Angelica Balabanoff, nel protestare per l’assassinio di Berneri, riconobbe in lui l’erede della migliore tradizione dell’anarchismo: “Dopo la scomparsa di Malatesta e di Fabbri, egli era certamente la mente più elevata del movimento libertario italiano” (da l’ “Avanti!”, Parigi 6.6.1937).

52 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, op. cit.

53 C. Berneri, La socializzazione, op. cit.

54 C. Berneri, Sovietismo, anarchismo e anarchia, op. cit.

55 Ibid.

56 Ibid.

57 Su Aurelio Chessa è appena uscita una biografia curata dalla figlia Fiamma, che attualmente gestisce l’Archivio Famiglia Berneri, oggi intitolato anche a nome del padre. Dell’Archivio Famiglia Berneri, Chessa è stato per decenni l’animatore. Senza l’impegno, le doti e la tenacia di questo vecchio militante, qualsiasi studio sul lodigiano, qualsiasi ricerca o anche il semplice reperimento di molti dei testi (anche fra i più significativi), sarebbe oggi estremamente difficile. Egli è riuscito a raccogliere, catalogare e conservare un insieme incredibile di reperti, significativamente incrementati pure rispetto a quanto ebbe dalla moglie di Berneri, Giovanna. Un’opera continuata da Fiamma con analoga abnegazione, arguzia e competenza.

Aurelio Chessa (Putifigari-SS, 30.10.1913 – Rapallo, 26.10.1996), si avvicina all’anarchismo dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale. Con Franco Leggio, risulta tra i fondatori del gruppo “Genova Centro” e nel 1948 conosce Giovanna Caleffi (vedova Berneri), fornendole aiuto per la Colonia estiva libertaria che ella costituisce su di una proprietà di Cesare Zaccaria nella zona di Sorrento. Alla scomparsa della primogenita di Berneri, Maria Luisa, Chessa s’impegna nel supporto della Comunità che le viene intitolata e nella gestione della segreteria della rivista “Volontà”. Nel frattempo viene processato per istigazione alla disobbedienza civile a seguito di una campagna astensionista. Ferroviere, è molto attivo nelle iniziative popolari che hanno l’epicentro proprio in Genova durante il luglio 1960 e la parte datoriale lo ammonisce per la partecipazione a scioperi e manifestazioni politiche, imputandogli l’inosservanza “degli obblighi di servizio”. Nel 1962, alla morte di Giovanna, l’ultima figlia di Berneri, Giliana, gli passa l’archivio di famiglia che assumerà poi l’attuale denominazione. Chessa, intrattenendo costanti rapporti con la vecchia militanza anarchica in Italia ed all’estero, incrementa il materiale, assumendo varie importanti donazioni. Parallelamente, egli dà vita alle editrici “Vallera” e “Porro”, curando la stampa di varie opere di Berneri. “Galleanista”, con la scissione della FAI intervenuta nel 1965, è fra i promotori dei Gruppi d’Iniziativa Anarchica costituitisi il 4.11.1966. A quel punto, con ventidue anni d’anzianità, lascia il lavoro per dedicarsi interamente al movimento, impegnandosi, anche economicamente, oltre che per l’Archivio, nella cura del “Notiziario dei GIA” e del giornale “L’Internazionale”, nonché nella promozione di convegni ed iniziative a carattere nazionale (notizie da AA.VV., Dizionario biografico degli

anarchici italiani (2 volumi), Biblioteca Franco Serantini Edizioni, Pisa-Città di Castello, 2004).

58 C. Berneri, Lettera a Federica Montseny. Pubblicata postuma in Pensieri e battaglie, Parigi 5.5.1938. Oggi vd. in C. Berneri, Il federalismo libertario (a cura di Patrizio Mauti), Ed. La Fiaccola, Catania 1992.

59 La redazione di “Tiempos Nuevos” a Camillo Berneri – Barcellona, 3.9.1936: “Caro compagno, colla presente vogliamo chiederti un articolo di collaborazione per la nostra rivista <<Tiempos Nuevos>> su temi teorici di

orientamento e di ricostruzione sociale. Occorre che tu metta il necessario impegno nel sostenere, col tuo apporto intellettuale il nostro sforzo economico, in modo che noi si riesca a superare tutte le difficoltà del momento attuale, che assorbe in molteplici incarichi ed attività i compagni del corpo redazionale. Poiché la nostra Rivista, a livello nazionale come internazionale, è una pubblicazione unica nel suo genere come tribuna di propaganda libertaria, di grande prestigio, e indiscutibile importanza; vogliamo che rifletta nelle sue pagine i numerosi problemi di ricostruzione che gli anarchici devono affrontare nel momento attuale e il tuo apporto e le tue opinioni non devono mancare nelle sue pagine contribuendo così al chiarimento delle idee e delle tattiche del movimento libertario. Tenendo presente che il tempo preme, ti chiediamo che tu ci invii il tuo scritto colla massima urgenza, in modo che

possa uscire tra il 1° ed il 15 di questo mese. Sperando che tu risponderai alla nostra richiesta, ti salutiamo cordialmente. Redazione e Amministrazione” Il giornale chiedeva che Berneri inviasse il suo saggio su Lo Stato e le classi, già uscito in lingua madre sulla testata diretta dall’italiano (C. Berneri, Lo Stato e le classi, in “Guerra di Classe”, Barcellona, 17.10.1936, riportato in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.).

Ma è interessante anche la seguente comunicazione di “Solidaridad Obrera”, quotidiano, principale organo dell’anarchismo catalano (ed iberico). Chi la scrive, esponente della FAI, è il direttore del giornale (che sostituì De Santillán). Jacinto Toryho da parte di “Solidaridad Obrera” a Camillo Berneri (Barcellona, 10.11.1936): “Compagno Berneri, Salud! L’organizzazione mi ha appena incaricato della direzione del nostro giornale <<Solidaridad Obrera>>. Ho accettato ben sapendo l’enorme responsabilità che mi assumo, responsabilità che mi sarà alleviata se potrò contare sulla tua collaborazione, cosa che sollecito attraverso queste brevi righe. Ti sarei grato se mi inviassi un articolo settimanale sulla attività che realizzi, e ti esprimo il desiderio che lo scritto in questione non abbia una lunghezza superiore a tre cartelle senza interlinea. Senza altro se non il mio saluto, rimango fraternamente tuo. Toryho”. Entrambe le lettere sono tratte da C. Berneri, Epistolario inedito, Vol. II – a c. di Paola Feri, Luigi Di Lembo. Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1984, pp. 171-199.

60 C. Berneri, Levando l’ancora, da “Guerra di Classe”, Barcellona, n.° 4, 9.10.1936. Anche in Entre la revolution y las trincheras-Recompilacion de nueve articulos de Camilo Berneri (Guerra di Classe, Barcelona, 1936-1937), Rennes,

  1. Poi in Guerra di Classe in Spagna (1936-1937), Edizioni RL, Pistoia, 1971. 61 Ibid.

62 C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, inedito incompiuto del 1926, conservato presso Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia, pubblicato per la prima volta da Pietro Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano 2001.

63 C. Berneri, Carlyle. Oggi in Interpretazione di contemporanei, Ed. RL, Pistoia 1972.

64 Ibid.

65 C. Berneri, Il romanticismo sanfedista, da “Pensiero e Volontà”, Roma, 15.6.1924.

66 C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero di Camillo Berneri, da “Pagine libertarie”, Milano 20.11.1922. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

67 C. Berneri, Sovietismo, anarchismo e anarchia, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 15.10.1932. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., ivi pubblicato con il titolo Il Soviet e l’Anarchia.

68 C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, op. cit.

69 C. Berneri, L’operaiolatria, op. cit.

70 C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, op. cit.

71 C. Berneri, Gli anarchici e G.L., da “Giustizia e Libertà”, Parigi 6.12.1935. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti,”Pietrogrado 1917…”, op. cit., ivi pubblicato sotto il titolo La polemica con Carlo Rosselli.

72 C. Berneri, Il federalismo di Pietro Kropotkin, su “Fede!”, Roma 1925. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit. Riprendiamo il testo riportato da Masini nell’opera citata, ove però (come chiarisce P. Adamo nel suo Anarchia e società aperta, op. cit., pp. 258-259), va segnalata l’integrazione di C. Berneri, Pietro Kropotkin e l’anarcosindacalismo, “Guerra di Classe”, Bruxelles febbraio 1931.

73 Ibid.

74 C. Berneri, Pietro Kropotkin e l’anarco-sindacalismo, da Guerra di Classe, Bruxelles, febbraio 1931 (incluso da P. C. Masini nel testo precedente: C. Berneri, Il federalismo di Pietro Kropotkin).

75 C. Berneri, Fallimento o crisi?, in “Guerra di Classe”, Parigi 1930. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

76 C. Berneri, L’ora dell’anarco-sindacalismo, da “Guerra di Classe”, Parigi settembre 1930. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., ivi pubblicato sotto il titolo Anarco-sindacalismo, oggi e domani.

77 Ibid.

78 C. Berneri, Nietzsche e l’anarchismo, oggi in Quaderni liberi: C. Berneri, Interpretazione di contemporanei, op. cit.

79 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, op. cit.

80 C. Berneri, La socializzazione, op. cit.

81 C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero di Camillo Berneri, op. cit.

82 C. Berneri, Considerazioni sul nostro movimento, firmato con lo pseudonimo “Camillo da Lodi”, in “Libero accordo”, Roma luglio 1926. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., pubblicato sotto il titolo Il movimento anarchico.

83 C. Berneri, Lettera a Luigi Fabbri, fra dicembre 1930 e gennaio 1931, pubblicata poi in Pensieri e battaglie. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano 2001.

84 Ibid.

85 C. Berneri, Per finire, op. cit.

86 C. Berneri, Il cretinismo anarchico, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 12.10.1935. Oggi in P. Adamo, Anarchia esocietà aperta, op. cit.

87 C. Berneri, Risposta ad una consultazione sui compiti immediati e futuri dell’anarchismo, da “La Revue Internationale Anarchiste” (sezione italiana), Parigi, 15.1.1925. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op.cit.

88 C. Berneri, A proposito dell’Unione Anarchica Italiana da “L’Adunata dei Refrattari”, New York, 30.8.1922.

89 C. Berneri (firmato con lo pseudonimo “Camillo da Lodi”), Considerazioni sul nostro movimento, da “Libero accordo”, Roma 1920. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., ivi pubblicato con il titolo Il movimento anarchico.

90 C. Berneri, Anarchismo e federalismo – Il pensiero di Camillo Berneri, da “Pagine libertarie”, Milano 20.11.1922.Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, op. cit.

91 Ibid.

92 C. Berneri, A proposito delle nostre critiche al bolscevismo, quotidiano “Umanità Nova”, 4.6.1922. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

93 Ibid.

94 Ibid.

95 Ibid.

96 C. Berneri, Due parole a Pietro Arcinov, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 5.10.1935. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

97 Si veda in proposito il duro attacco di Berneri all’Unione Comunista Anarchica che, appena abbracciata la teoria arcinovista, sollecitata dai socialisti massimalisti, progettava l’ingresso in un fronte unico con questi e con i comunisti (“L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 10.6.1933).

98 Basta dare uno sguardo a quanto scrisse (e fece) in Spagna, quando ad esempio fu promotore dell’espulsione di un militante di nome Girelli. Da C. Berneri, Un indegno, su “Guerra di Classe” (Barcellona) del 16.12.1936, si legge: “Comunico ai compagni tutti di aver richiesta l’espulsione dalla Spagna di Giuseppe Girelli, che iscritto alla milizia della CNT e della FAI, si è ripetutamente sottratto alle partenze per il fronte per abbandonarsi alle più indegne gozzoviglie. In Spagna un anarchico non viene che per combattere e per lavorare e non per sciupare tempo, energie, e soldi nelle bettole e nei postriboli. (…) Chi manca alla disciplina morale della milizia antifascista, come vi è mancato il Girelli, non è che un sedicente anarchico ed un pseudo rivoluzionario. Ed è doveroso sbarazzare il campo da questa gramigna”.

99 C. Berneri, In margine alla piattaforma, da “Lotta umana”, nella serie “Discussioni anarchiche”, Parigi 3.12.1927. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

100 Ibid.

101 Ibid.

102 Ibid.

103 C. Berneri, Lettera a S. Spada, Versailles, 15.11.1929, copia manoscritta da una spia fascista, Archivio Centrale dello Stato, riportata da Carlo De Maria in Camillo Berneri tra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli Editore, Milano 2004.

104 C. Berneri, Umanesimo e anarchismo, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 22 / 29.8.1936. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, “Pietrogrado 1917…”, op. cit.

105 Frammento presente nella “Raccolta di articoli sul pensiero degli anarchici classici”, presso l’Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia.

106 C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, op. cit.

107 Luce Fabbri, Prefazione a C. Berneri, Guerre de classe en Espagne, Edition Les Humbles, Parigi, luglio 1938 (la traduzione è mia).

108 C. Berneri, I principii, da “L’Adunata dei Refrattari”, New York 13.6.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

109 C. Berneri, Anarchismo e federalismo – Il pensiero di Camillo Berneri, op. cit.

110 C. Berneri, Irrazionalismo e anarchismo, interno ad un dibattito, ma non pubblicato da “L’Adunata dei Refrattari”, uscito postumo ed incompleto su “Volontà” (Napoli) nel 1952, testo custodito dall’Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia. Oggi in P.Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano 2001.

111 C. Berneri, Anarchismo e anticlericalismo, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 18.1.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

112 C. Berneri, Irrazionalismo e anarchismo, op. cit.

113 C. Berneri, Della tolleranza, da “Fede!”, Roma 20.4.1924. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

114 C. Berneri, Umanesimo e anarchismo, op. cit.

115 C. Berneri, Sullo Stato proletario. Manoscritto del 1936 per il “Nuovo Avanti”, censurato dalla redazione, raccolto nel fondo V. Richards, ora depositato presso AFB, Reggio Emilia e pubblicato da P. Adamo in Anarchia e società aperta, M&B, Milano 2001.

116 C. Berneri, Il marxismo e l’estinzione dello Stato, in “Guerra di Classe”, Barcellona 9.10.1936. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

117 C. Berneri, Lo Stato e le classi, da “Guerra di Classe”, Barcellona 17.10.1936. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917..., op. cit.

118 Ibid.

119 C. Berneri, Abolizione ed estinzione dello Stato, da “Guerra di Classe”, Barcellona 24.10.1936. Oggi in P. C. Masini e A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

120 C. Berneri, L’operaiolatria, op. cit.

121 C. Berneri, Sulla difesa della rivoluzione. Per impedire la formazione di un’armata bianca, del 1929, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 21 / 29.5.1937. Citato da C. De Maria, Camillo Berneri fra anarchismo e liberalismo, op. cit.

122 C. Berneri, Umanesimo e anarchismo, op. cit.

123 C. Berneri, A proposito di revisionismo marxista, in “Pensiero e Volontà”, Roma 1.4.1924. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917..., op. cit.

124 Berneri scrisse infatti: “L’uomo dell’avvenire sarà un miliardario delle idee, un re dello spirito, (…). L’uomo di domani sarà semplice. I suoi piaceri saranno intimi (la lettura dei filosofi e i giuochi erotici) o collettivi (il concerto con 100.000 uditori), piaceri che costano poco e sono inesauribili. (…). Il regime socialista è un sistema epicureo, non utilitarista borghese”. C. Berneri, La ricchezza che è in noi, in “L’Adunata dei Refrattari”, New York 17.6.1933. Citato da Gianni Furlotti, Le radici e gli ideali educativi dell’infanzia di Camillo Berneri, in Memoria antologica. Saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986.

125 C. Berneri, Il lavoro attraente, da “L’Adunata dei Refrattari” N. Y., vari numeri dal settembre al novembre 1936. Pubblicato in Spagna: C. Berneri, El trabajo atrayente, Ediciones “Tierra y Libertad”, Barcelona, 1937. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

126 C. Berneri, L’operaiolatria, op. cit.

132 Frammento di lettera di Salvemini a Berneri, Firenze 9.1.1924, conservato presso Archivio Famiglia Berneri –Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia. Oggi in Camillo Berneri. Epistolario inedito, Vol. I, a cura di Aurelio Chessa /

Pier Carlo Masini, Archivio Famiglia Berneri Edizioni, Pistoia 1980. Citato anche da Carlo De Maria, “Camillo Berneri tra anarchismo e liberalismo”, Franco Angeli Editore, Milano 2004.

127 Ibid.

128 C. Berneri, Astensionismo e anarchismo, da “L’Adunata dei Refrattari”, N.Y. 25.4.1936. Oggi in P. Adamo,Anarchia e società aperta, op. cit.

129 C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero…, op. cit.

130 C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, op. cit.

131 C. Berneri, Costituzione della Federazione Italiana Comuni Socialisti (FICS), op. cit.

133 C. Berneri, Del diritto alla critica, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 2.7.1932. Citato in C. De Maria, Camillo Berneri fra anarchismo e liberalismo, op. cit.

134 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, op. cit.

135 C. Berneri, Il liberismo nell’Internazionale, op. cit. Oggi in Pier Carlo Masini, Alberto Sorti, Pietrogrado 1917 Barcellona 1937. Scritti scelti di Camillo Berneri, op. cit., qui pubblicata sotto il titolo Una lettera a Pietro Gobetti. Berneri si riferisce (testualmente) a: Risposta di un internazionalista a Mazzini “(pubblicata sopra il giornale bakuninista <<L’Eguaglianza>> di Girgenti, e ripubblicata da Guillaume, che la trova superba e l’approva toto corde [cfr. Oeuvres, VI, pagine 137-140])”. Aggiunge (in nota) Masini: “Successive ricerche hanno accertato che l’autore dell’articolo L’Internazionale e Mazzini (e non Risposta di un internazionalista a Mazzini) apparso su “L’Eguaglianza” di Girgenti, fu non Saverio Friscia ma Antonino Riggio, direttore di quel giornale”.

Per quanto riguarda il testo citato, vd. James Guillaume, L’Internationale. Documents et souvernirs (1864-1878). Oggi vd. James Guillaume, L’Internazionale. Documenti e ricordi (1864-1878), (4 volumi), Edizioni Centro Studi Libertari Camillo Di Sciullo, Chieti 2004 (nda).136 C. Berneri, I problemi della produzione comunista, in “Volontà”, Ancona 1.7.1920. Oggi in P. Adamo, Camillo Berneri…, op. cit.

137 C. Berneri, Lettera a Libero Battistelli, Versailles 7.12.1929, copia dattiloscritta da una spia fascista, Archivio Centrale dello Stato, riprodotta in Camillo Berneri. Epistolario inedito, Vol. I, a cura di Aurelio Chessa / Pier Carlo Masini, Archivio Famiglia Berneri Edizioni, Pistoia 1980. Riportata anche da C. De Maria, Camillo Berneri…, op. cit.

138 C. Berneri, Del diritto alla critica, op. cit.

139 C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero…, op. cit.

140 C. Berneri, La questione elettorale. Il cretinismo astensionista, in Compiti nuovi dell’anarchismo, su “L’impulso”,Livorno 1955, già apparso come Astensionismo e anarchismo, ne “L’Adunata dei Refrattari”, N.Y. 25.4.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia…, op. cit.

141 C. Berneri; Astensionismo e anarchismo, op. cit.

142 C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, op. cit.

143 Ibid.

144 Ibid.

145 C. Berneri, Libertà ed autorità, op. cit

146 C. Berneri, Lettera a Manlio Bonaccioli, Reggio Emilia, settembre 1918, originale in Archivio Feltrinelli, Milano.Pubblicata in appendice a C. Berneri, Epistolario inedito, Vol. I, a cura di Aurelio Chessa / Pier Carlo Masini. Ed.Archivio Famiglia Berneri, Pistoia (Carrara) 1980, p. 154.

147 Giampietro Berti, Il “revisionismo” di Berneri nella storia dell’anarchismo italiano, in Camillo Berneri singolare/plurale. Atti della giornata di studi. Reggio Emilia, 28 maggio 2005, Biblioteca Panizzi. Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa, Reggio Emilia 2007, p. 22. Berti riporta una frase tratta da C. Berneri, Della tolleranza, da “Fede!”, Roma 20.4.1924. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

148 Carlo De Maria, Camillo Berneri fra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli Editore, Milano 2004.

149 Segnala De Maria: “Il ‘mondo dell’associazione involontaria’ ricorda, decisamente, la ‘radice’ di cui scrisse Simone Weil (nel 1942-43): la ‘partecipazione naturale’ – ‘cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente’ – alla vita di una collettività (cfr. Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, trad. di F. Fortini, SE, 150 Segnala De Maria: “A. Ferrara, Presentazione del fascicolo di ‘Parolechiave’, 1996, n.° 10/11, dedicato al termine ‘persona’ (pp. 9-12, p. 9)”.

151 Segnala De Maria: “Citate in M. Salvati, Lelio Basso protagonista e interprete della Costituzione, in G. Monina (a c. di), La via alla politica…, cit., pp. 33-50, p. 41. Basso è del 1903: di appena sei anni più giovane di Berneri. E’ da notare che entrambi ebbero interesse per la dimensione religiosa dell’uomo. Più in particolare, verso la metà degli anni venti, sia Berneri che Basso si avvicinarono alla rivista neo-protestante ‘Conscientia’ di Roma (Berneri vi collaborò nel periodo 1924-1926, con una decina di articoli). Più tardi, poi, Basso fu influenzato dal personalismo di Emmanuel Mounier. Berneri conosceva la figura dell’autore cattolico francese: lo nominò in un articolo (…); in più fra le sue carte vi è il ritaglio di un articolo di Mounier (cfr. Raccolta di articoli sul tema della ‘Intolleranza religiosa in Spagna’, in Afb, cassetta X). Per quanto detto su Basso, cfr. anche G. Monina, Basso, La Malfa e Ruini: considerazioni sul percorso formativo, in id. (a c. di), La via alla politica…, cit., pp. 11-29, pp. 12-15”.

152 Segnala De Maria: “Cfr. A. Finkielkraut, L’humanité perdue, Seuil, Paris 1998 (1° ed. 1996), pp. 80-81. Dedica attenzione a questo testo Mariuccia Salvati, Il Novecento. Interpretazioni e bilanci, Laterza, Roma-Bari 2001 (cfr. p. 101). Una precisa definizione di volontarismo politico la ricaviamo dalle pagine sul Novecento di François Furet: la tendenza a immaginare il sociale come un puro prodotto della volontà politica (cfr. F. Furet, op. cit., pp. 93, 187)”.

153 Segnala De Maria: “Usiamo questa formula poiché Berneri non usò il termine ‘persona’”.

154 Segnala De Maria: “C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, cc. 2 + cc. 4 con numerazione separata, in Afb, cit., cc. 2”.

155 C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, inedito del 1926, conservato presso Archivio Famiglia Berneri–Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia. Oggi in Pietro Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano

  1. Citato in questo caso da De Maria.

156 Segnala De Maria: “Cfr. M. Salvati, Hannah Arendt e la storia del Novecento, in M. Flores (a c. di), Nazismo,fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, Mondadori, Milano, 1998, pp. 219-257 (p. 249); M. Salvati, Lelio Basso protagonista e interprete della Costituzione, cit., p. 33”.

Milano 1990, p. 49)”.

157 Segnala De Maria: “Simone Weil andò oltre. Nel 1942-43, la nozione di ‘diritto’ non le sembrava più sufficiente.Preferì quella di ‘obbligo’. L’obbligo al ‘rispetto’ dell’essere umano in quanto tale. Mentre ‘i diritti appaiono sempre legati a date condizioni’, ‘quest’obbligo è incondizionato’: ‘in esso nessun cambiamento nella volontà degli uomini può nulla modificare’. Dal rispetto per l’essere umano deriva il rispetto per ogni collettività (…)”.

158 Segnala De Maria: “Cfr. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., pp. 31-32”.

159 Segnala De Maria: “C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, (…)”, (op. cit. – nda).

160 Segnala De Maria: “Nell’intento di delineare una netta contrapposizione tra società e associazione, Berneri scrisse:’La società è per propria natura giuridica. L’associazione è essenzialmente contrattuale. (…) L’associazione è l’amante,la moglie, il partito: una cosa che si sceglie. La società sono i genitori, il paese di nascita: una cosa che si trova, che non si può cambiare’ (ivi, c. 4 di cc. 4)”. Il riferimento è sempre a La concezione anarchica dello Stato, op. cit.

161 Segnala De Maria: “J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 80”.

162 P. Adamo, Per una fondazione epistemologica dell’anarchismo: Camillo Berneri e l’empiriocriticismo, in Camillo Berneri singolare/plurale. Atti della giornata di studi. Reggio Emilia, 28 maggio 2005, Biblioteca Panizzi. Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa, Reggio Emilia 2007, p. 112-113.

163 Ibid., p. 106.

Anarchismo e geografia

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018Anarchismo e Geografia

Kant geografo della ragione

Kant grande geografo

La nascita della geografia moderna  attraverso il pensiero di Alexander von Humboldt e Carl Ritter

Lezione (hegeliana) di geografia

Geografia e filosofia. Materiali di lavoro

Spazio e geografia in Hegel:  la dialettica terra-mare

Geografia

Il pensiero anarchico

I principali pensatori anarchici

Simon Springer

Anarchismo!  quello che dovrebbe essere la geografia

Kant geografo della ragione *

Hansmichael Hohenegger

How absolute the knave is! we must speak by

the card, or equivocation will undo us.

(Hamlet, V, 1, 132)

Nel breve scritto in cui annuncia il corso di geografia fisica del semestre estivo del 1757, Kant dichiara che il suo insegnamento non mira alla precisione e alla completezza filosofica che sono richiesti dalla fisica e dalla descrizione della natura, ma segue piuttosto il filo conduttore della «curiosità razionale del viaggiatore».1 Certo, Kant è stato un viaggiatore davvero sui generis, non essendosi mai allontanato dalla sua città natale se non di poche miglia,2 ma la sua curiosità è fuori questione: basta pensare alle testimonianze dei suoi biografi e alle sue estesissime letture di manuali di geografia e di resoconti di viaggi.3 L’attenzione alla geografia dipende forse dal fatto che Kant ha insegnato per più di quarant’anni geografia fisica (dal 1755 al 1796), ma l’intensità e l’estrema articolazione di livelli della sua conoscenza fa supporre che alla base di tutto il suo  modo di pensare ci sia una dialettica più profonda tra un’istanza spaziale di ordine e una passione avventurosa per la scoperta e il viaggio. Pur giustificato dai dati biografici, il cliché del geografo da poltrona ha impedito di valutare proprio questo contrasto tra la sua Reiselust e la sua articolata e profonda idea della spazialità.4 A partire da questi due fattori si vuole fornire qualche nuovo elemento per ulteriori indagini riguardo alla genesi dell’architettonica filosofica di Kant.

Il primo passo potrebbe essere quello di notare come la stessa idea di viaggio (il contrario della nostalgia; Fernweh, diranno poi i romantici) sia alla base del suo impulso metafisico. In una nota manoscritta del decennio di preparazione alla Critica della ragione pura, Kant considera la stessa filosofia critica un viaggio:

“La critica della ragione pura è una misura di prevenzione contro una malattia della ragione, che ha il suo germe nella nostra natura. Essa è il contrario dell’inclinazione che ci incatena alla nostra patria (nostalgia, Heimweh). È il desiderio di perderci al di fuori delle nostre cerchie e di rivolgerci ad altri mondi.” 5

Già qualche anno prima, nella Dissertatio (1770), Kant aveva usato la metafora del viaggio quando aveva scritto di aver osato un passo oltre i confini della certezza apodittica (ultra terminos certitudinis apodicticae). Si era chiesto infatti quali fossero le «cause dell’intuizione sensibile». La sorprendente risposta di Kant non è lontana, per sua stessa ammissione, dal «nos omnia intueri in Deo» di Malebranche, ma già la domanda aveva i tratti dell’avventura in alto mare (in altum): nell’oceano delle «indagationes mysticae». Nel 1770 l’impulso metafisico è così manifesto perché è ancora alimentato dalla speranza di risultati positivi derivanti dall’uso reale dell’intelletto; la cautela critica è, però, ben presente: conscio dell’incerto mare delle conoscenze riguardanti le cause dei fenomeni, Kant dichiara infatti che è più raccomandabile (consultius) navigare lungo la costa (littus legere).6

Nel famoso passo dei Paralogismi della prima edizione della Critica della ragione pura, Kant sembra aver preso definitivamente partito per la «sobrietà di una severa, ma giusta critica» che sia in grado di tracciare «sicuri limiti in base a principi» e scriva con la massima sicurezza il nihil ulterius sulle colonne d’Ercole, che la natura stessa ha eretto, affinché il viaggio della nostra ragione continui solo fin dove si estendono le coste ininterrotte dell’esperienza.7

Il viaggio per l’oceano senza rive (uferloser Ocean) deve essere abbandonato perché, secondo questa radicalizzazione quasi empiristica, non rimangono speranze di espandere le conoscenze della ragione. Da allora, l’immagine del costeggiare, del prudente rimanere dentro i confini dell’esperienza, accompagna da sempre la filosofia trascendentale anch’essa come un cliché che, in quanto tale, è vero, ma solo parzialmente. Infatti, l’autentico simbolo (Sinnbild) della filosofia critica, come è espresso icasticamente nei Prolegomeni, non è il limite, ma la «conoscenza del limite»,8 la quale è possibile solo se si riesce a pensare il limite insieme all’impulso a fare un passo oltre di esso. In una delle più famose metafore geografiche di Kant, quella dell’isola della verità, la necessità della navigazione (sia pure di quella non errabonda, herumschwärmende 9) ha lo stesso peso dell’istanza, se si vuol dire così, agrimensoria:

“Noi abbiamo fin qui non solo percorso il paese dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte; ma lo abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma questo paese è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È il paese della verità (nome seducente), circondata da un vasto oceano tempestoso, la vera e propria sede della parvenza, dove qualche banco di nebbia e qualche ghiacciaio, pronto a liquefarsi, fingono nuovi paesi, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo (herumschwärmende) in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo. Ma, prima di arrischiarci in questo mare, per indagarlo in tutta la sua distesa, e assicurarci se mai qualche cosa vi sia da sperare, sarà utile che prima diamo ancora uno sguardo alla carta del paese, che vogliamo abbandonare, e chiederci anzi tutto se non possiamo in ogni caso star contenti con ciò che esso contiene; o, anche, se non dobbiamo accontentarcene per necessità, nel caso che altrove non ci fosse assolutamente un terreno, sul quale poterci fabbricare una casa; e in secondo luogo, a qual titolo noi possediamo questo stesso paese, e come possiamo assicurarlo contro ogni pretesa nemica.” 10

Questo passo si trova proprio all’inizio del capitolo «Sul fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in genere in phaenomena e noumena», che funge da vera e propria cerniera tra l’analitica e la dialettica trascendentale. Kant vuole mettere sotto gli occhi, come su una carta nautica, la regione dove l’intelletto ha un suo dominio (ditio) e quindi dov’è possibile la conoscenza (territorium), rispetto a quella in cui i concetti della facoltà conoscitiva fanno solo riferimento alla facoltà stessa e quindi possono solo avere un campo (Feld 11). In questo capitolo, Kant ha bisogno di distinguere tra uso empirico e significato trascendentale delle categorie 12 per permettere la navigazione nell’oceano della parvenza dialettica, cioè per esplorare il campo dei concetti dell’intelletto oltre il loro uso empirico: per esempio la categoria di causa-effetto come causalità libera nella terza antinomia della ragione pura. Prima di aprire questa indagine sulla parvenza dialettica, in cui la ragione dovrà disegnare da sé i limiti del proprio dominio legittimo (sia esso dei concetti della natura sia esso di quello della libertà), Kant propone una ricognizione del dominio in cui l’intelletto con i suoi principi è legislativo.

Kant e Bacon

Un confronto tra Kant e Bacon può aiutare a chiarire la natura di questa metafora geografica. 13  Anche in Bacon si può trovare un’articolazione della filosofia in una parte in cui si critica la parvenza e gli errori e una parte positiva in cui vengono stabilite le verità. La bella immagine dell’isola della verità, d’altronde, Kant la prende proprio da Bacon. 14  Infatti la causa dell’errore è dovuta anche per lui al fatto che l’insula veritatis è «circondata da un oceano immenso cui si aggiungono anche straordinari danni e dispersioni prodotte dai venti degli idoli (Immensum enim pelagus veritatis insulam circumluit; et supersunt adhuc novae ventorum idolorum injuriae et disjectiones)». 15 Anche per Bacon inoltre la peragratio è dannosa se non è guidata da quella scienza che è «ex naturae lumine petenda, non ex antiquitatis obscuritate repetenda». 16 Le conoscenze degli antichi sono repertori di errori e tradizioni che avrebbero potuto essere ancora più vari e numerosi se le circostanze politiche e la provvidenza non avessero impedito tali peregrinationes ingeniorum. Inoltre, se per Kant alla logica della verità come analitica trascendentale corrisponde la logica della parvenza trascendentale insita nelle stesse idee della ragione o dialettica trascendentale, per Bacon alla scientia ex lumine naturae con il suo organon fa da pendant il falso sapere, frutto degli idola, in particolare degli idola theatri, o idola scenae, effetto dell’accettazione cieca delle opinioni incontrollate che ci vengono dalla tradizione filosofica.

Il Temporis partus masculus è, sì, un’opera appena abbozzata in età relativamente giovanile in cui, almeno nella presentazione retorica, prevale lo spirito polemico e distruttivo. Anche in questo contesto, però, Bacon dichiara che per distruggere la falsa scienza bisogna comunque proporre una nuova scienza.17

Nell’opera più matura De dignitate et augmentis scientiarum (1623), Bacon è molto più moderato e scrive che è utile studiare le varie opinioni dei filosofi, che sono «veluti diversas Naturae glossas», 18 ma non rapsodicamente, debbono essere presentate come un tutto compiuto e continuo: «Philosophia integra seipsam sustentat, atque dogmata ejus sibi mutuo lumen et robur adjiciunt». Quando si traggono citazioni a caso o si estrapola da un contesto che non si conosce più, le singole affermazioni «portenta quaedam videntur et plane incredibilia». 19 Se si confronta questo passo con la chiusura della prefazione della seconda edizione della Critica della ragione pura, in cui si dice che chi padroneggia l’Idee im Ganzen di un’opera non si lascia fuorviare da apparenti contraddizioni che sorgono quando da un discorso continuo sono stati tolti singoli passi dal loro contesto, si dovrà ammettere che le somiglianze non sono solo linguistiche. 20 Kant può aver apprezzato in Bacon proprio questo metodo inteso in senso architettonico. Sempre nel De augmentis, Bacon sembra di nuovo anticipare il Kant del capitolo sull’Architettonica della Critica della ragione pura. Bacon scrive: «Methodus vero veluti scientiarum Architectura est». 21

Un tema fondamentale della Dottrina del metodo nella Critica della ragione pura è infatti proprio quello  dell’unità sistematica delle conoscenze sotto un’idea, ovvero sotto il concetto razionale «della forma di un tutto nella misura in cui mediante esso determina a priori sia la sfera [Umfang] del molteplice sia la posizione reciproca della parti». 22

Sia la singola scienza sia le scienze tutte debbono fare riferimento a questa possibile unità sistematica che ne fa un totum delimitato e organico.

Un elemento essenziale del progetto baconiano è quello di disegnare i confini delle scienze: già nel Temporis partus masculus Bacon vuole spingere il dominio dell’uomo sull’universo ad datos fines. 23 Questa nozione di sistematicità e di delimitazione delle scienze, sembra però in contrasto con l’altrettanto potente spinta al progresso delle conoscenze. Il motto di Bacon è, infatti, il colombiano «plus ultra» come efficacemente rappresentato nel frontespizio dell’Instauratio magna che mostra una nave che passa le colonne d’Ercole.

Spingere le conoscenze oltre i limiti dettati dalla tradizione ha, tuttavia, proprio lo scopo di stabilire limiti certi della scienza. Come si è visto nell’allegoria del viaggio oltre l’isola della verità, anche in Kant da un lato c’è la pulsione al viaggio avventuroso, dall’altro l’esigenza di disegnare i limiti della scienza. Perfino in alcuni aspetti metodologici il progetto di Bacon e quello di Kant coincidono. Per Bacon sono necessari all’impresa scientifica nuovi strumenti (per la navigazione mediterranea bastavano le stelle, per quella oceanica sarà necessario usum acus nauticae 24) e la collaborazione di molti (il motto del frontespizio è multi pertransibunt et augebitur scientia).

Kant sottoscrive l’esigenza baconiana della dimensione pubblica e collaborativa nella costruzione della scienza, come risulta dall’exergo nella seconda edizione della Critica della ragione pura tratto dalla prefazione alla Instauratio magna: «Chiediamo poi che gli uomini secondo il loro stesso interesse […] – prendendo consiglio in comune (in commune consulant) – […] partecipino all’opera». 25 La dimensione pubblica e storica della divisione del sapere è un tema centrale per Kant: gli scienziati e il governo politico debbono cooperare per costituire un’enciclopedia delle scienze (orbis scientiarum) in modo tale da organizzarle non solo in un tutto secondo principi oggettivi, ma anche organizzarle soggettivamente riguardo a coloro che le indagano e insegnano. Questa dimensione soggettiva delle scienze rimanda all’esigenza di organizzare in un corpo comune i docenti: un compito della ragione che deve indagare l’«Idee von einer Universität überhaupt» sulla base della quale debbono essere misurati statuti e piani delle università esistenti. 26 La dimensione pubblica della ragione è intrinsecamente storica, ma ciò non impedisce che abbia anche, laddove l’universale ragione umana è come una repubblica in cui «ognuno ha il suo voto»,27 una valenza trascendentale. In entrambi i casi, la dimensione repubblicana è essenziale all’impresa, solamente è diversa la qualità del sapere a cui si fa riferimento.

Dove si tratta dell’enciclopedia del sapere l’orizzonte è quello del singolo individuo che può e deve allargarlo, riassumere le conoscenze apprese da altri e renderle a sua volta disponibili, mentre dove è in gioco l’architettonica si tratta di un’istanza oggettiva che appartiene all’orizzonte degli uomini in generale. Naturalmente, in quanto entrambe queste due istanze fanno riferimento a una possibile unificazione e sistematicità delle conoscenze, esse debbono essere pensate come convergenti.28

Per Kant l’esigenza di un sapere organizzato sistematicamente, i cui limiti siano stabiliti non arbitrariamente, è essenziale per lo sviluppo delle scienze, come si vede fin nell’Opus postumum,29 ma è innanzitutto un compito filosofico che precede ogni scienza in quanto sua condizione. Per Bacon, invece, la filosofia non è nettamente separata dalla scienza, il suo progetto è enciclopedico e mira a una descriptio globi intellectualis (così si intitola un suo libro scritto nel 1612 e pubblicato nel 1653 30), ma non prevede una scienza specifica che determini l’orizzonte della stessa ragione.

Kant è consapevole della novità della scienza che propone: nei Prolegomeni dice esplicitamente che nessuno aveva mai avuto l’idea di questa scienza, quel che è stato pensato prima di essa non poteva essere utilizzato per costruirla: unica eccezione è rappresentata dalla indicazione che poteva essere data dal dubbio di Hume; neanche lui ebbe il presentimento di una tale possibile scienza formale, anzi trasse sulla spiaggia (dello scetticismo) la sua nave per metterla al sicuro, dove poteva stare e marcire; mentre a me importa fornirgli un pilota che, seguendo i principi sicuri dell’arte nautica derivati dalla conoscenza del globo, munito di una carta nautica completa e di un compasso, possa portare con sicurezza la nave dove gli paia giusto. 31

 

Kant e Hume

Le somiglianze anche strutturali tra Kant e Bacon sono certo significative per quanto riguarda la rappresentazione spaziale della sistematicità e del progresso delle conoscenze, ma, se si vuole esaminare nella sua massima generalità il ruolo della spazialità nella concezione della filosofia trascendentale, è il ruolo che ha avuto Hume a essere essenziale, e non solo perché è Kant a attribuirglielo. 32 Non è qui, in ogni caso, questione della maggiore o minore importanza di un autore, ma è rilevante, al di là della questione della filiazione di metafore spaziali,33 il diverso valore che queste metafore hanno a livelli diversi dell’architettonica kantiana: l’organizzazione soggettiva delle conoscenze (la carta nautica usata, ma anche aggiornata, dai navigatori), l’organizzazione oggettiva delle scienze (la carta nautica per come deve essere approntata) e, infine,  quello che si potrebbe chiamare il livello trascendentale, la stessa possibilità della carta nautica, le sue condizioni di possibilità.

Cassirer aveva scritto che, già nel periodo precritico, Kant era passato dalla determinazione del cosmo spaziale alla determinazione del cosmo intellettuale, «da geografo empirico Kant diviene “geografo della ragione” in quanto intraprende a misurare tutta l’ampiezza della sua facoltà secondo principi determinati».34 In realtà Kant non ha mai detto di se stesso di essere un geografo della ragione, ma di Hume che era uno di questi geografi della ragione, che credeva aver fatto abbastanza per sbarazzarsi di tutti quei problemi con il relegarli al di fuori dell’orizzonte della ragione, orizzonte che però non poteva determinare.35

Potrebbe sembrare che Kant usi questa caratterizzazione per evidenziare la disposizione solo empirica di Hume a descrivere la ragione umana senza riferimento ad alcun principio, appunto secondo una scienza come la geografia che è eminentemente empirica. Il contesto sembra suggerirlo, si tratta infatti del capitolo Dell’impossibilità di un appagamento scettico di una ragione pura che sia in dissidio con se stessa, in cui Kant distingue due tipi di ignoranza, quella accidentale che riguarda le cose e quella «della determinazione e dei limiti della mia conoscenza». Nel primo caso si è autorizzati a indagare dogmaticamente, mentre nel secondo si deve indagare criticamente.36 Se l’ignoranza è assolutamente necessaria (schlechthin nothwendig) ci si può astenere dalla ricerca, ma, in effetti, è esclusa solo l’indagine empirica in quanto sarebbe insensata, mentre quella critica è possibile «mediante l’indagine delle ragioni (Ergründung) delle prime fonti della nostra conoscenza». In questo caso posso sperare, procedendo con argomenti a priori, di determinare i limiti (Grenzen) del conoscibile. Quando, invece, si tratta di limitazioni (Einschränkungen) poste alla nostra ragione, la conoscenza della ignoranza può essere determinata solo a posteriori perché se pure si riesce a sapere qualcosa, sappiamo che ci resta ancora dell’altro da sapere e quindi essa rimane complessivamente indeterminata. Dei limiti, quindi, si può dare scienza, delle limitazioni no, solo percezione (Wahrnehmung).37

Per chiarire questo punto Kant espone la distinzione, già spaziale, della differenza tra Grenzen e Schranken (Einschränkungen) con un’immagine spaziale.38

Chi trovandosi sulla superficie terrestre se la rappresenta, secondo una percezione dei sensi, come un piatto, non sa quanto essa si estenda; procedendo nell’esplorazione conoscerà sempre porzioni di questa superficie, saprà di non averle prima conosciute, conoscerà, quindi, le limitazioni (Schranken) della geografia (Erdkunde) di questa superficie, ma, appunto, non i limiti (Grenzen) di ogni possibile descrizione della terra. Se, invece, si è arrivati a sapere (wissen) che la terra è una sfera, si può conoscere in modo determinato e secondo principi, anche da una piccola sua porzione, per esempio quella di un grado, il suo diametro e così anche la compiuta delimitazione della terra, cioè la sua superficie. Potrò essere ignorante riguardo agli oggetti che si trovano su questa superficie, ma non riguardo all’estensione che li contiene, alle sue delimitazioni e alla sua grandezza.39 Se quindi Hume è un «geografo della ragione» per il fatto di essersi sbarazzato dei problemi filosofici relegandoli «al di fuori dell’orizzonte della ragione», è però, pur sempre, un geografo empirico che in quanto tale non può determinare questo stesso orizzonte e quindi nessuna fondata indagine critica sulle fonti della conoscenza.40

Questa considerazione contrasta, però, con il passo già citato dei Prolegomeni in cui Kant sostiene che Hume è l’unico ad aver dato almeno un’indicazione sulla possibilità della filosofia critica come nuova scienza formale: il suo contributo a questa nuova scienza non può consistere solo nella censura empiristica del dogmatismo. Descrivere Hume come semplice geografo empirico-percettivo non dà conto in modo accurato della sua filosofia.

Già il fatto che sia Hume stesso a caratterizzare la sua indagine come mental geography suggerisce che Kant non faccia un uso polemico dell’idea di una geografia empirica della ragione, soprattutto se si considera che Hume introduce questa espressione proprio per dimostrare la necessità della filosofia:

And if we can go no farther than this mental geography, or delineation of the distinct parts and powers of the mind, it is at least a satisfaction to go so far; and the more obvious this science may appear (and it is by no means obvious) the more contemptible still must the ignorance of it be esteemed, in all pretenders to learning and philosophy.41

In questo contesto Hume non sostiene una tesi scettica, il tono è semmai quello di un dogmatico in quanto nutre la speranza (there is no reasonto despair) che questo tipo di ricerche possa permettere anche di «discover, at least in some degree, the secret springs and principles, by which the human mind is actuated in its operations»; 42 Hume pensa, infatti, che si possa passare dalla descrizione delle facoltà alla loro spiegazione come mental powers and oeconomy. Poco dopo Hume si spinge a dire che, poiché un’operazione e un principio della mente sono dipendenti da un’altra operazione e un altro principio, questa «may be resolved into one more general and universal». Non è dunque il mancato riferimento ai principi quel che Kant critica a Hume, ma il fatto che Hume non sappia determinare esattamente fin dove possano arrivare queste indagini. Hume stesso lo dice: «how far these researches may possibly be carried, it will be difficult for us, before, or even after, a careful trial, exactly to determine». Hume ha dunque avuto l’idea di un careful trial che preceda o segua queste indagini e quindi stabilisca la filosofia come un sapere che si sappia autodelimitare, ma ne ha dichiarato l’inutilità. L’idea di completezza della filosofia che si può trovare in Hume è quella dell’unione di concretezza a rigore dei saperi filosofici: «Happy, if we can unite the boundaries of the different species of philosophy, by reconciling profound enquiry with clearness, and truth with novelty!».43 Intenzione e auspicio questo che non va oltre l’enunciazione, appartenente anche al razionalismo, del connubium rationis et experientiae, o, baconianamente, inter mentem et naturam, e si colloca semmai come ideale regolativo della ragione, non come descrizione della stessa ragione, come vuole Kant. Sia lo scettico sia il dogmatico concepiscono la ragione come un piano in cui l’indagine prosegue indeterminatamente in quanto considerano le cose come cose in sé e «l’insieme di tutti gli oggetti possibili della nostra conoscenza » come una «totalità incondizionata».44 La differenza sta nel fatto che lo scettico ritiene che, negando la necessità di un concetto a priori, che sia al di fuori dell’orizzonte di conoscibilità o che appartenga alla linea di confine (Grenzlinie), si possa escludere la possibilità di qualsiasi concetto di quel tipo, mentre il dogmatico conserva la fiducia, perfezionandosi la conoscenza, di poter possedere concetti a priori. Sia quella non completamente provata sfiducia, sia questa eccessiva fiducia si contrappongono in un conflitto inconcludente. L’unico modo di porvi termine è un esame preliminare che la ragione riesce a fare di se stessa, disegnando, nello stesso tempo, i limiti dell’esperienza possibile:

La nostra ragione non è, per così dire, un piano di estensione indeterminabile, le cui limitazioni siano in genere conosciute solo in questo modo, deve piuttosto essere paragonata a una sfera [Sphäre] il cui raggio può essere determinato dalla curvatura di un arco della sua superficie (dalla natura delle proposizioni sintetiche a priori), in modo tale però che sia possibile da ciò stabilire con sicurezza volume e delimitazione di questa sfera.45

Anche se Hume non è citato esplicitamente, è chiaro dall’ inciso riguardante le proposizioni sintetiche a priori che il contributo determinante di Hume in questa geografia della ragione è quello di aver sollevato un dubbio sulla necessità del legame causale. È questo dubbio che, oltre a rappresentare una censura difficilmente eludibile di ogni dogmatismo rispetto all’uso trascendente di concetti a priori, impone di indagare la stessa ragione. La censura humiana colpisce, sì, il dogmatico che è messo in difficoltà dal non riuscire a ribattere sia pure a un solo dubbio scettico, ma il merito principale di Hume rispetto a Kant è quello di aver posto la domanda su come siano possibili i giudizi sintetici a priori. Il suo contributo a questa scienza del tutto nuova della critica della ragione pura non va, però, oltre questo, perché il geografo della ragione Hume proponeva solo la cartografia di un’ignoranza locale. Per passare dal metodo scettico a quello critico è necessario descrivere con completezza l’orizzonte della ragione, e cioè, appunto, l’«ignoranza riguardo a tutte le questioni possibili di una data specie».46

Secondo Kant, Hume è destinato inevitabilmente a confusioni, proprio perché non si pone il problema di «abbracciare con lo sguardo a priori e sistematicamente tutti i tipi di sintesi dell’intelletto»,47 e non può quindi porre Grenzen alla conoscenza, ma unicamente Schranken, che, certo, sono d’impaccio per il dogmatico, ma solo provvisoriamente. Per far tacere il dogmatico nelle sue pretese smisurate, bisogna potergli mostrare «l’ignoranza per noi inevitabile» 48 nella sua intera estensione.

Hume non si è impegnato in una rassegna di tutte le antitetiche, di tutte le sintesi della ragione in quanto sistema delle idee e quindi non ha potuto porsi criticamente la domanda sulla possibilità dei giudizi sintetici a priori. Negando la validità dei giudizi sintetici a priori «non ha infatti posto la distinzione tra le fondate pretese dell’intelletto e le presunzioni dialettiche della ragione».49 Questa distinzione l’ha però fatta Kant a partire proprio da Hume, cosicché quando nei Prolegomeni afferma che è stato Hume – con le sue obiezioni alla necessità del legame causale – a svegliarlo dal sonno dogmatico, e in un’altra parte della stessa opera dice che a svegliarlo sono state le antinomie,50 tra le due affermazioni non c’è vera contraddizione. La causalità e le antinomie hanno infatti un elemento in comune: in entrambi i casi sono in gioco giudizi e inferenze sintetiche a priori che costituiscono rispettivamente due sistemi completi, quello delle categorie e quello delle idee, che sono strettamente interdipendenti e insieme costituiscono la sfera della ragione.51 La conoscenza del limite è proprio la capacità di tracciare questa distinzione, cioè di descrivere, per quanto ciò possa essere paradossale,52 dall’interno dell’esperienza i limiti di quest’ultima, e di conseguenza dar conto del sapere che permette di disegnare dall’interno i limiti della ragione. Questo sapere è il sapere architettonico nella sua forma più universale. In una Reflexion risalente all’epoca di preparazione della Critica della ragione pura dedicata all’architettonica, dopo aver dato la classica definizione della ragione architettonica in quanto «critica tutte le conoscenze e progetta un canone», Kant ne coglie anche l’istanza trascendentale: la ragione architettonica è «la facoltà di descrivere la sua propria sfera».53 Si può chiudere questa nota sull’importanza del pensiero della spazialità nella costruzione del sistema critico citando una Reflexion che deve essere stata scritta quando il pensiero della Critica della ragione pura era in statu nascendi, e che proprio per questo potrebbe farne apprezzare il valore euristico:

Della metafisica come di un paese sconosciuto, di cui intendevamo appropriarci, abbiamo indagato attentamente per prima cosa la posizione e le vie di accesso. (Giace nella [regione] semisfera della pura ragione); abbiamo tracciato perfino il contorno di dove quest’isola della conoscenza è connessa mediante ponti con il paese dell’esperienza o dove essa ne è separata da un mare profondo; ne abbiamo perfino disegnato il contorno e ne conosciamo per così dire la geografia (icnografia); non sappiamo ancora cosa si possa trovare in questo paese, che da alcuni è ritenuto non abitabile da uomini, da altri è considerato la loro vera sede. Dopo la geografia universale di questo paese della ragione, vogliamo prendere in considerazione la storia universale della ragione.54

In questa allegoria sembra che la metafisica sia ancora un’isola vera e propria, non solo una parvenza di isola («banchi di nebbia e ghiacciai pronti a liquefarsi»), che, insomma, all’epoca in cui Kant scriveva essa aveva una dimensione geograficamente più concreta, v’erano, infatti, ancora accessi, ponti, e essa non era circondata solo da un mare profondo. L’unica cosa che non si sapeva era se fosse abitabile. Non è chiaro cosa rappresenti l’emisfero della ragione pura: forse è il mundus intelligibilis che, in parte, è occupato da idee della ragione e in parte da concetti dell’intelletto. In questo caso, l’altro emisfero sarebbe ancora – se è plausibile la datazione della Reflexion intorno al 1772, pochi anni dopo la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis del 1770 – il mundus sensibilis che certo è antipodale alla metafisica. In questo caso Kant potrebbe voler dire che l’emisfero della ragione pura è ancora non illuminato, come se la sfera di cui è parte fosse divisa a metà dall’orizzonte in una parte illuminata e in una oscura, il mondo fenomenico e quello noumenico. In questo caso riprenderebbe in qualche modo l’idea lockiana di delimitazione della ragione come di un orizzonte che «sets the bounds between the enlightened and dark parts of things, between what is and what is not comprehensible by us».55

L’elemento di novità in questa nota manoscritta è che, oltre alla spazialità – qui al servizio di un’allegoria della sistematicità della ragione (la rappresentazione delle connessioni tra regioni che insieme costituiscono un tutto organizzato) –, si considera la possibilità di rappresentare temporalmente la ragione. Forse Kant aveva già in mente una storia della ragione come sarà sviluppata nell’ultimo capitolo della Critica della ragione pura, dal titolo, appunto, di «Storia della ragione».56 L’importanza sistematica di questo capitolo è stata spesso ignorata forse anche per via della sua estrema brevità, ma la brevità è inversamente proporzionale alla sua importanza: «sta qui solo per indicare un posto rimasto vuoto nel sistema, e che dovrà essere riempito in futuro».57 Kant enuncia appena le tappe del processo del divenire adulta della ragione come il sorgere del metodo critico dall’opposizione di metodo scettico e metodo dogmatico, ma, ancora più originariamente, a partire dalla dialettica tra metodo naturalistico e metodo scientifico, tra sapere naturale della ragione comune e sapere sistematico in base a principi della ragione pura. Quest’ultima opposizione permette di stabilire un utile parallelismo tra il modello spaziale e il modello temporale della ragione in quanto il suo tema centrale è l’ignoranza. Nel caso della spazialità si è visto che è l’«ignoranza per noi inevitabile» che permette di disegnare estensione e figura della sfera della ragione (anche grazie al dubbio di Hume), mentre nel secondo caso l’ignoranza in gioco è quella della misologia, che non è tanto disprezzo della scienza, quanto dubbio rispetto al valore pratico della ragione intesa esclusivamente come scienza (Wissenschaft). La misologia in senso positivo non è disprezzo di quel che non si sa, ma insoddisfazione di fronte alle scienze che si ritengono autosufficienti, è saggezza (Weisheit), ovvero un’istanza critica che valuta ogni sapere rispetto agli scopi ultimi dell’umanità che non possono appartenere se non alla ragione pratica.

La storia della ragione come teleologia humanae rationis è costituita essenzialmente da questa tensione ineliminabile tra scienza (Wissenschaft) e saggezza (Weisheit). Il risultato critico è che l’unità della ragione teoretica e pratica può essere pensata solo storicamente.58

Da un punto di vista più generale e architettonico, ci si potrebbe domandare, in conclusione, quali prospettive ermeneutiche possa aprire  l’esame sistematico dell’istanza humiana insieme a quella rousseauviana. Il dubbio humiano e la misologia rousseauviana hanno in comune di essere filosofie dell’ignoranza,59 e, come si è visto, sono momenti essenziali dell’indagine della ragione, la prima di quella spaziale e la seconda di quella temporale.

Queste due modalità di autocomprensione della ragione non possono essere, però, né tenute insieme né separate in modo assoluto. La conseguenza di ciò è che non è la storicità a tenere aperto un sistema della ragione (se lo fa è quaestio facti), ma de iure è la tensione ineliminabile tra la sistematicità e la processualità della stessa ragione a tenere aperto ogni sistema della ragione.60

* L e opere di I. Kant pubblicate in vita sono citate da Werke in zehn Bänden, a cura di W. Weischedel, Darmstadt, 1981 (19561), con  ’indicazione dove possibile della paginazione originale.

‘A’ indica la prima e ‘B’ la seconda edizione. Le opere non pubblicate in vita e le trascrizioni di lezioni sono citate da Kant’s gesammelte Schriften, a cura della Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften (e successori), Berlin, 1900- (d’ora in avanti KGS). In numeri romani si

indica il volume, in numeri arabi la pagina; delle Reflexionen si indica anche il numero progressivo e tra parentesi la datazione, in forma semplificata, proposta dal curatore E. Adickes. Le modifiche apportate alle traduzioni dei testi citati non sono segnalate.

 

NOTE

1 I. Kant, Entwurf und Ankündigung eines Collegii der physischen Geographie (1757), KGS II, p. 3; cit. in W. Stark, Einleitung a Vorlesungen über physische Geographie, Berlin, 2009, KGS XXVI, 1, p. vi. Kant esclude per esempio la geografia matematica e quella storica dalle sue lezioni (cfr. W. Stark, Einleitung cit., p. vi), mentre include considerazioni che oggi diremmo etnografiche, almeno fino a quando, nel 1772, non inizierà a tenere le lezioni di antropologia.

2 Per avere un quadro completo e preciso dei viaggi di Kant, cfr. W. Stark, http://web.unimarburg.de/kant//webseitn/bio_reis.htm#Wohnsdorf.

3 R iguardo a quest’ultimo punto vedi la bibliografia raccolta da Werner Stark alla fine del primo tomo dedicato alle Vorlesungen über physische Geographie cit., KGS XXVI, 1, pp. 321-363. Riguardo alle testimonianze biografiche, oltre ai vari aneddoti su conversazioni con stranieri nelle quali Kant dimostra una conoscenza di luoghi in cui non è mai stato superiore a quella di chi vi ha abitato per anni, si può ricordare quel che racconta Wasianski, dell’intenso desiderio di viaggiare che Kant ha avuto nell’ultimo anno della sua vita. In inverno, attendendo l’estate per poter realizzare questo suo desiderio, Kant pensava dapprima a «gite, poi a viaggi nel paese e infine a lunghi viaggi». E. A. Ch. Wasianski, Immanuel Kant in seinen letzten Lebensjahren, Königsberg, 1804, in Immanuel Kant. Sein Leben in Darstellungen von Zeitgenossen, a cura di F. Gross, Darmstadt, 1993, p. 238. Arrivata l’estate non smetteva di pensare a quei «lunghi viaggi progettati nel paese e all’estero», p. 242. Il suo medico e biografo Wasianski, per evitare strapazi al vecchio e malato Kant, propose allora una gita nella casa di campagna dove Kant era già stato in passato: «Bene, basta che il viaggio sia lungo», fu la risposta, p. 243. Naturalmente le condizioni di salute e l’assoluta mancanza di abitudine al viaggiare resero breve e faticoso il viaggio, ma, anche dopo l’esperienza penosa, Kant continuò a parlare «con entusiasmo rinnovato di viaggi, lunghi viaggi, viaggi all’estero», ibid.

4 Kant non si è interessato solo alla geografia fisica, che ha insegnato così a lungo, ma, naturalmente, anche alla geografia astronomica. Basta pensare ai due saggi sulle variazioni del moto rotatorio della terra e sull’invecchiamento della terra (entrambi del 1754), oppure alla sua Teoria del cielo (1755). Naturalmente, anche in questo caso, sono molte e importanti le metafore spaziali a partire dall’astronomia che sono disseminate nei suoi scritti. Solo a titolo d’esempio, Kant usa l’immagine dell’errore di parallasse (lo spostamento dell’oggetto rispetto allo sfondo se considerato da punti di vista diversi) per illustrare l’errore connaturato all’universale intelletto umano, in quanto, per essere esaminato, deve potersi valutare sia «dal punto di vista del mio intelletto » sia «dal punto di vista di una ragione estranea e esterna». Sogni di un visionario, A 74; trad. it. in Scritti precritici, a cura di P. Carabellese, successive aggiunte e correzioni di R. Assunto, R. Hohenemser e A. Pupi, Roma-Bari, 19823, pp. 380-381. Questa teoria dell’errore anche in KGS XVIII, pp. 79-80; Refl. 5073 (1777). È chiaro che la metafora più nota e studiata è quella per cui la filosofia critica opera una «rivoluzione copernicana», KrV B XVI; trad. it., p. 24. Ancora, ma in ambito di filosofia delle storia: per giudicare del progresso dell’umanità si deve tenere conto del fatto che la direzione dell’umanità può sembrare come il moto apparente dei pianeti, ovvero retrogrado (epiciclo), se non la si considera dal punto di vista del sole, ovvero, fuori dalla metafora, dal punto di vista della ragione. Cfr. Il conflitto delle facoltà, A 140; trad. it. in Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Roma-Bari, 1995, p. 227.

5 KGS XVIII, pp. 79-80; Refl. 5073 (1777).

6 De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis A 28; trad. it. in Scritti precritici cit., p. 450.

7 Cfr. Critica della ragione pura (d’ora in avanti KrV) A 395-396; trad. it. a cura di G. Colli, Milano, 1976 (Torino 19571), pp. 457-458.

8 Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, § 59, A 182; trad. it. di P. Carabellese, rev. e intr. di H. Hohenegger, Roma-Bari, 1996, p. 247.

9 Non si perda, nella scelta della parola, il riferimento allusivo allo sciamare disordinato (schwärmen) dei fanatici (Schwärmer). In questa parola risuona notoriamente il disordinato sciamare delle api, il vagabondaggio senza meta dei ragazzi o dei soldati senza patria, e, con coloritura religiosa, di chi abbandona rumorosamente l’ortodossia e segue una setta: «fanaticum esse, in globo errantium hominum esse, segreges coetus instituere». J. Grimm e W. Grimm, Deutsches Wörterbuch,33 voll., München, 1984, s.v. «Schwärmen». La citazione in latino è dal dizionario tedesco-latino: J. L. Frisch, Teutsch-lateinisches Wörter-Buch, Berlin, 1741, II, p. 243a.

10 KrV B 294-295/A 236-237; trad. it., p. 311.

11 Questa terminologia giuridico-geografica è tratta dalla Critica della facoltà di giudizio, § II,

B XVI-XVII, trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Torino, 1999, p. 10.

12 Cfr. KrV B 305/A 248; trad. it., p. 321.

13 L’utilità di un confronto tra Bacon e Kant era già stata sostenuta da Salomon Maimon, uno dei più acuti interpreti di Kant tra i suoi contemporanei. Proprio per il fatto che essi «sono per un verso assai simili e per l’altro così diversi, credo che il loro essere messi a confronto permetta di gettare su entrambi una nuova luce» (S. Maimon, Baco und Kant, in «Berlinisches Journal für Aufklärung» 1790 VII/2, http://www.ub.uni-bielefeld.de/diglib/aufkl/berlaufk/berlaufk.htm. Cfr. anche l’edizione in S. Maimon, Gesammelte Werke, a cura di V. Verra, vol. II, Hildesheim, 1965, pp. 499-522, p. 102). In comune hanno l’essersi proposti «una compiuta [völligen] riforma della filosofia (e di conseguenza di tutte le scienze nella misura in cui esse traggono i loro principi dalla filosofia)», ivi, p. 103. Mentre Kant, però, si sarebbe concentrato sul «provare la possibilità dell’applicazione delle forme logiche agli oggetti reali della natura, in quanto quelle sono date a priori e questi a posteriori», Bacon, non prendendo in considerazione questo problema, si sarebbe preoccupato di trovare «il vero metodo di questo uso [delle forme logiche applicate agli oggetti] in casi particolari», ivi, p. 104. È notevole che Maimon scelga di chiarire il punto prendendo come esempio il concetto di causa: Bacon, secondo lui, «non si preoccup di spiegare come siamo arrivati al concetto di causa, a priori o a posteriori (come vuole che sia D. Hume), né della spiegazione della possibilità dell’uso di questo concetto, che se è a priori lo è di oggetti a posteriori; a lui basta che il factum sia al di là del dubbio, che cioè noi lo usiamo», ivi, pp. 104-105. Anche se Bacon ha di mira un sistema delle scienze, secondo Maimon, se non si pone il problema critico del rapporto tra forme del pensiero a priori e oggetti a posteriori, non riuscirà con l’induzione ad attingere a un sistema come quello kantiano in cui «forme e principi possono essere completi (vollzählig)», ma potrà solo approssimarsi regolativamente ad esso come a un’idea (p. 119). Naturalmente Maimon dice anche dei vantaggi di questo empirismo baconiano, e del possibile superamento di questa opposizione in un leibnizismo perfezionato che è poi la proposta della sua filosofia.

14 Neanche Hans Vaihinger nota questa possibile fonte di Kant e, per la metafora dell’oceano, rimanda sì a Bacon, ma a un altro pur importantissimo passo del De dignitate et augmentis scientiarum, lib. IX, § 1 (Cfr. H. Vaihinger, Commentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, 2 voll. [Stuttgart, 1881-1892 ed. orig.], a cura di R. Schmidt, Stuttgart, 1922, p. 40), nel quale Bacon, dopo aver detto che fino a quel punto si è trattato di navigare lungo la costa del vecchio e del nuovo mondo delle scienze (orbis scientiarum), si deve abbandonare la navicula rationis humanae per passare all’ecclesiae navis, cioè dalla scienza alla teologia, per affrontare i temi della re ligione. È anche interessante che questo libro si chiuda con la dichiarazione di aver per quanto possibile esaurito, completato con le parti mancanti, il piccolo continente (mondo) dell’orbe intellettuale (globum exiguum Orbis Intellectualis); resterà ai posteri il compito non solo di giudicare questo suo lavoro, ma anche di accrescerlo ulteriormente. F. Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum, in The Works of Francis Bacon, 14 voll., a cura di J. Spedding, R. L. Ellis, D. D. Heath, London, 1857-1874, rist. anast., Stuttgart, 1989, vol. I, pp. 836-837; trad. it. in Opere, a cura di E. De Mas, 2 voll., Bari, 1965, vol. II, pp. 518-519. D’altronde non si trova un riferimento a questa plausibile fonte di Kant neanche nel recente libro, pur ambizioso e ricco di spunti, di Shi-Hyong Kim, Bacon und Kant. Ein erkenntnistheoretischer Vergleich zwischen dem ‘Novum Organum’ und der ‘Kritik der reinen Vernunft’, Kantstudien Ergänzungshefte, Berlin-New York, 2008. Certo, la metafora è davvero diffusa e quando se ne indaga la Quellengeschichte, la prova di una derivazione è sempre assai difficile, perché chi la usa, più essa è diffusa, più non sente il bisogno di citare la propria fonte. Come esempio si può considerare, un autore ben presente a Kant, Johann Nicolas Tetens, il quale cita da una poesia in cui un saggio in cerca della verità «lontano da concetti terreni / osa veleggiare sul vasto oceano della divinità» («von irdischen Begriffen / im weiten Ocean der Gottheit wagt zu schiffen»; A. von Haller, Gedanken über Vernunft, Aberglauben und Unglauben, 1729). Sulle fonti possibili di questo verso (famoso, tanto che Tetens non ne cita l’autore) già varrebbe la pena indagare (Comenius, Locke, Leibniz?). A partire da questa suggestione, Tetens stabilisce un’analogia tra come procede l’intelletto nella scienza e la navigazione, e anche in questo caso non cita alcun autore (è Bacon?). Come il navigante si tiene alla costa, così il filosofo si tiene all’esperienza, ma «la metafisica è un viaggio intorno al mondo, sull’oceano, dove solo di quando in  quando si incontrano isole e sponde in alcuni principi universali dell’esperienza, da cui si può apprendere quale sia la direzione che si è presa. Le passioni sono le tempeste, i pregiudizi gli scogli che respingono o fanno naufragare la ragione». J. N. Tetens, Über die allgemeine speculativistische Philosophie (Bützow e Wismar, 1775), stampato insieme al primo vol. dei Philosophische Versuche über die menschliche Natur und ihre Entwicklung (1777), a cura di W. Uebele, Berlin, 1913, vol. I, p. 15 (ed. orig. p. 20). La natura assai produttiva della metafora fa sì che non sia impossibile collegare la circolarità del sapere sia con la sfera sia con l’oceano. Bacon vede nella sapienza di Salomone (1Re 4:29-34), vasta come la sabbia che circonda universas orbis oras, la sapienza che abbraccia ogni sapere umano e divino. De dignitate et augmentis scientiarum cit., vol. I, p. 750; trad. it., vol. II, pp. 418-419.

15 F. Bacon, Temporis partus masculus, in The Works of Francis Bacon cit., vol. III, p. 536.

16 F. Bacon, Temporis partus masculus, cit, p. 535.

17 F. Bacon, Temporis partus masculus cit., vol. III, p. 539; trad. it. p. 52.

18 F. Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum cit., III, 4; vol. I, p. 563; trad. it., vol. II, p. 175.

19 F. Bacon, De augmentis scientiarum cit., p. 564; trad. it., pp. 175-176.

20 Cfr. KrV B XLIV; trad. it., p. 43: «Auch scheinbare Widersprüche lassen sich, wenn man einzelne Stellen, aus ihrem Zusammenhange gerissen, gegen einander vergleicht, in jeder, vornehmlich als freie Rede fortgehenden, Schrift ausklauben, die in den Augen dessen, der sich auf fremde Beurteilung verlässt, ein nachteiliges Licht auf diese werfen, demjenigen aber, der sich der Idee im Ganzen bemächtigt hat, sehr leicht aufzulösen sind».

21 F. Bacon, De augmentis scientiarum cit., VI, 2, vol. I, p. 668; trad. it., vol. II, p. 305.

22 KrV B 860/A 832; trad. it., p. 806.

23 F. Bacon, Temporis partus masculus cit., vol. III, p. 528, p. 38.

24 Praefatio generalis, Instauratio magna, in The Works of Francis Bacon cit., vol. I, p. 130; trad. it., vol. I, p. 225.

25 KrV B II. F. Bacon, Instauratio magna cit. p. 132.

26 KGS XXIII, Vorarbeiten zum Streit der Fakultäten, p. 430. Per la questione della divisione del lavoro e quindi della dimensione pubblica e storica dell’architettonica delle scienze rimando alle citazioni che si trovano in H. Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla «Critica della facoltà di giudizio», Macerata, 2004, pp. 37-64.

27 KrV B 780/A 752; trad. it., p. 745.

28 Sulla questione del rapporto tra enciclopedia e architettonica cfr. M. Capozzi, Kant e la logica, Napoli, 2002, pp. 413-418. In generale sulla nozione di orizzonte e in particolare sull’importanza di Georg F. Meier per l’elaborazione kantiana di questa nozione, cfr. R. Pozzo, Prejudices and Horizons: G. F. Meier’s Vernunftlehre and its Relation to Kant, «Journal of the History of Philosophy», 43, n. 2, 2005, pp. 185-202. Per un rapido elenco della pluralità degli orizzonti, dall’universale orizzonte dell’intelletto umano in genere, a quello, pratico, pragmatico, estetico, del sesso, del censo, dell’età, oppure riguardo alle regole per determinare il proprio orizzonte, cfr. Logik Busolt, KGS XXIV, pp. 623-625. La determinazione dell’orizzonte e la divisione del lavoro è chiaramente in rapporto alla «Encyclopaedia vniversalis. Vniversalcharte (g Mappemonde delle scienze)». KGS XVI, Refl. 1998 (1780-89), p. 189.

29 Riguardo alle scienze, la filosofia deve «fin dove è possibile, misurare, tenendosi all’interno dei limiti di ciò che è conoscibile a priori, il campo di questo conoscibile e rappresentarlo in un cerchio (orbis) che sia semplice e unito, cioè in un sistema non escogitato arbitrariamente, ma prescritto dalla ragione pura, la qual cosa non potrebbe accadere con la raccolta di elementi empirici della conoscenza, in quanto, messi insieme frammentariamente, non farebbero sperare in nessuna convinzione di completezza». KGS XXI, p. 524. Ricorre spesso nell’Opus postumum l’espressione orbis scientiae con funzione schematica, di mediazione tra sapere filosofic e empirico, ovvero l’esigenza di completezza, sempre rappresentata dalla tavola delle categorie.

30 F. Bacon, Descriptio globi intellectualis, in The Works of Francis Bacon cit., vol. IV, pp.

31 Prolegomeni A 17; trad. it. p. 17.

32 Al posto di una rassegna dei numerosi passi in cui Kant si richiama a Hume si può citare,  per la sua efficace brevità, l’affermazione che si trova nella trascrizione di una lezione di metafisica: c’è «in David Hume», afferma Kant, «qualcosa di simile alla Critica della ragione pura». Metaphysik Mrongovius (1782-1783), KGS XXIX, p. 781.

33 Un’indagine sulle metafore geografiche sarebbe assai desiderabile, e almeno per l’ambito della filosofia inglese, dovrebbe valutare anche l’importanza di Locke nel suo ruolo di mediazione tra Bacon e Hume. Un testo da prendere in considerazione sarebbe sicuramente quello, già citato da Vaihinger come possibile fonte kantiana (Commentar cit., p. 40), ovvero il capitolo introduttivo del Saggio sull’intelletto umano in cui Locke considera la necessità di un «survey of our own understandings», senza «let loose our thoughts into the vast ocean of being» o «letting their thoughts wander into those depths where they can find no sure footing». Il risultato di questo vagabondare non può essere che il perfect skepticism: «Whereas were the capacities of our understanding well considered, the extent of our knowledge once discovered, and the horizon found, which sets the boundary between the enlightened and the dark parts of things; between what is and what is not comprehensible by us, men would perhaps with less scruple acquiesce in the avow’d ignorance of the one; and employ their thoughts and discourse, with more advantage and satisfaction in the other». J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, I, 1, § 7; The Works of John Locke, 10 voll., London, 1823, I, pp. 5-6.

34 E. Cassirer, Kants Leben und Lehre, Berlin, 1921, p. 44; Vita e dottrina di Kant, trad. it. a cura di G. A. De Toni, Firenze, 1977, p. 52.

35 KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

36 KrV B 786/A 758; trad. it., p. 749.

37 KrV B 787/A 759; trad. it., p. 750.

38 Coglie un’importante caratteristica della spazialità filosofica l’ osservazione di Giorgio Stabile riguardo al fatto che esiste una differenza tra le filosofie che possono essere rappresentate figuratamente come un puzzle, che si costruisce sempre a cominciare dai suoi limiti, cioè, anticipando la totalità, e il caso opposto, quello del meccano o del lego, in cui si procede come su un piano infinito in cui non c’è differenza tra porre i limiti e costruire. G. Stabile, La categoria dell’ubi e le sue implicazioni per il concetto di spazio nell’antichità, in Aa.Vv., Metafisica, Logica, Filosofia della natura. I termini delle categorie aristoteliche dal mondo antico all’età moderna, Atti del seminario dell’ILIESI, Roma gennaio-maggio 2003, a cura di E. Canone, La Spezia, 2004, pp. 1-11, pp. 4-5. Cfr. H. Hohenegger, Kant filosofo dell’architettonica cit., p. 92.

39 KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

40 KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

41 D. Hume, An Enquiry Concerning Human Understanding 1.13 (1748), in Essays Moral, Political, and Literary, a cura di T. H. Green e T. H. Grose, 2 voll., London, 1889, vol. II, p. 10; Ricerche sull’intelletto e sui principi della morale, trad. it. a cura di M. Dal Pra, Roma-Bari, 1978, p. 13.

42 D. Hume, An Enquiry cit., p. 11; trad. it., p. 15.

43 D. Hume, An Enquiry cit., pp. 12-13; trad. it., p. 18.

44 Cfr. KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

45 KrV B 790/A 762; trad. it. 752.

46 KrV B 789/A 761; trad. it., p. 752, c.vo mio.

47 KrV B 795/A 767; trad. it. 756, c.vo mio.

48 KrV B 795/A 767; trad. it. 756.

49 KrV B 791/A 761; trad. it., p. 757.

50 Prolegomeni A 12; trad. it., p. 13 e § 50, A 142; trad. it., p. 193.

51 N el De dignitate et augmentis scientiarum Bacon fa un’interessante apologia di Platone: «in sua de Ideis doctrina Formas esse verum scientiae objectum», De augmentis, vol. I, p. 565; trad. it., p. 177. Il modello della conoscenza è la grammatica (Filebo 18 B-D) che impedisce la confusione dell’infinità della compositione et transpositione literarum. Per Bacon è necessario, come per Platone, cercare gli elementi che per essere non molti possono stare alla base delle «Essentias et Formas omnium substantiarum» ivi, p. 566; trad. it., p. 178. Questa esigenza di una collezione completa di elementi che forniscano le regole per l’unificazione intelligibile del sapere ricorda il kantiano Buchstabieren secondo il sistema completo delle categorie e poi sotto la funzione unificante delle idee. Si potrebbe pensare che questa istanza di completezza delle regole corrisponda all’esigenza di una sfera della ragione, ma può essere al servizio di metafisiche assai diverse, e in effetti potrebbe essere alla base anche della characteristica universalis di Leibniz.

52 «Se voglio capire qualcosa della natura, allora con la mia spiegazione non debbo uscire dalla natura. Se voglio capire la natura nel suo complesso allora debbo essere al di fuori dei suoi limiti [Grenzen]». KGS XVII, p. 375; Refl. 3980 (1769). Oppure, più in generale: «Cerco in un intelletto, che ha bisogno di regole, la conoscenza di queste stesse regole: questo è paradossale». KGS XVI, p. 28; Refl. 1592 (1764-1777).

53 KGS XV, p. 186; Refl. 451 (1772-1778).

54 KGS XVII, p. 559; R 4458 (1772). «Wir haben von der metaphysik als von einem unbekannten Lande, auf dessen Besitz wir bedacht sind, zuerst die (g Lage und) Zugänge fleißig Untersucht. (Es liegt in der (g Gegend) Halbkugel der reinen Vernunft😉 wir haben so gar den Umris davon gezogen, wo diese Insel der [Erkennt] von Erkenntnis [an das] mit dem Lande der Erfahrung durch Brücken zusammenhangt, oder wo sie durch ein tiefes Meer davon abgesondert ist; wir haben so gar den Umris davon gezeichnet und kennen gleichsam die geographie (g ichnographie) desselben, wissen aber noch nicht, was in diesem Lande, welches einige vor unbewohnbar vor menschen gehalten, andre als ihre wirkliche Niederlassung angesehen haben, angetroffen werden möge. Nach dieser allgemeinen Geographie dieses Vernunftlandes wollen wir die allgemeine Geschichte desselben in Erwegung ziehen».

55 Cfr. la citazione data per esteso supra nota n. 35. J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, I, 1, § 7; The Works cit., vol. I, p. 6.

56 KrV B 880-884/A 852-856; trad. it., pp. 821-824.

57 KrV B 880/A 853; trad. it., p. 821.

58 La famosa dichiarazione del debito di Kant verso Rousseau non serve solo a stabilire temporalmente quando Kant ha scoperto cosa voglia dire per lui essere filosofo, ma anche il valore del ruolo architettonico della ragione pratica, che ha la dimensione essenzialmente storica di una scoperta che l’umanità deve fare: «Io stesso sono per inclinazione un indagatore. Sento tutta la sete di conoscenza e l’avida inquietudine di progredire in essa, ma anche l’appagamento per ogni conquista. C’era un tempo in cui credevo che ciò potesse da solo costituire l’onore dell’umanità e disprezzavo il volgo che nulla sa. Rousseau mi ha messo a posto. Questo primato abbagliante scompare, imparo a onorare gli uomini e mi riterrei più inutile di un comune lavoratore se non credessi che questa considerazione possa dare a tutte le altre un valore, e realizzare i diritti dell’umanità». KGS XX, p. 44; trad it. in Bemerkungen. Note per un diario filosofico, a cura di K. Tenenbaum,Roma, 2001, p. 85. Per l’importanza architettonica della misologia roussoviana, pari solo a quella del dubbio humiano, cfr. H. Hohenegger, Kant filosofo dell’architettonica cit., p. 39 ss.

59 «La filosofia dell’ignoranza è molto utile, ma anche difficile perché deve andare fino alle fonti della conoscenza». KGS XVIII, p. 36; Refl. 4940 (1778).

60 Si comprenderà, a questo punto, che le metafore spaziali e temporali sono state qui prese in considerazione in quanto non sono pure metafore. Infatti, l’istanza sistematica (coerenza, compiutezza e interdipendenza delle parti) che è espressa sia dal mappamondo delle scienze sia dalla sfera della ragione sembra essere legata alla spazialità in modo non accidentale. Mentre l’istanza della progresso nelle conoscenze e la storicità della stessa ragione fanno riferimento alla processualità e contingenza temporale, di ciò che ha inizio e fine. Rimando alla nozione esplicitata nella voce Spazialità che Emilio Garroni ha scritto per l’Enciclopedia Einaudi (Enciclopedia, 14 voll.,Torino, 1977-1981, vol. XIII, Torino, 1981, pp. 244-272), ripresa poi nel saggio Comprendere e narrare, in E. Garroni, L’arte e l’altro dall’arte, Roma-Bari, 2003. In quest’ultimo saggio spazialità e temporalità sono opposte come condizioni formali del linguaggio, una del comprendere e l’altra del narrare. Questa distinzione non serve a classificare i testi in filosofici (o critici) e narrativi, ma a cogliere le condizioni formali sia della comprensione dell’unità di senso di un testo (e dell’esperienza correlata) sia della temporalità che, pur non essendo già contraddizione, contiene però la possibilità del non senso (non essere già da sempre, poter non essere); ovvero contiene il dover essere del senso che, in Kant, contraddistingue l’elemento noumenico, anche del sistema filosofico, come o orizzonte di senso o Aufgabe.

 

 

Lorenzo Scillitani

Spazio geografico e antropologia filosofico-sociale.
Riflessioni a partire da Kant

  1. La Geografia di Kant

Immanuel Kant è noto per essere stato un grande filosofo. È meno noto per essere stato uno studioso, e un docente, di geografia, all’ insegnamento della quale Kant dedicò un numero di corsi (49) maggiore di quelli dedicati all’etica (46), all’antropologia (28), alla fisica teorica (24), alla matematica (20), al diritto (16), e minore soltanto rispetto a quelli dedicati alla logica e alla metafisica (54). Dal 1756 al 1796 il pensatore di Königsberg «perse il suo tempo» (come si poté leggere nella pagina culturale di uno dei principali quotidiani italiani di qualche anno fa, che registrava con malcelato disappunto l’iniziativa editoriale di tradurre la Geografia fisica kantiana in francese)1 a insegnare una disciplina che, nelle sue dichiarate intenzioni, doveva costituire una propedeutica alla conoscenza del mondo2. Risale al 1811 l’unica traduzione italiana delle lezioni che furono raccolte dagli allievi di Kant in circa 40 anni. Oltre due secoli più tardi, è stata riproposta, in una nuova versione, sollecitata dall’edizione francese del 1999, e verificata sulla base del testo originale dell’edizione critica del 19683, l’Introduzione alla Geografia, redatta nel 1776, e autorizzata dallo stesso Kant nel 1802 (a cura di Rink)4. L’interesse a sottoporla nuovamente all’attenzione del lettore italiano è stato motivato non tanto da una mera curiosità storico-filologica quanto dall’attualità di una urgenza scientifico-culturale e insieme formativa, che merita di trovare appropriati canali e modalità di espressione. Si tratta infatti di riscoprire la portata innovativa della lettura kantiana della geografia, a livello sia speculativo sia didattico.

A livello conoscitivo, il contributo della geografia nell’istruire la ragione è dettato dalla sua capacità di attingere dall’esperienza gli elementi che formano le fonti della conoscenza del mondo, come Kant ha cura di rilevare proprio nella sua Introduzione, di carattere propedeutico piuttosto che enciclopedico. Questa attitudine, che la geografia condivide con l’antropologia5, impegnata a elaborare la conoscenza degli uomini, alimenta per Kant la vera filosofia, la quale «consiste nel seguire la diversità e la varietà di una cosa attraverso tutte le epoche» 6. Diversità e varietà sono le caratteristiche di prima evidenza, e di prima approssimazione, che la moderna antropologia culturale coglie nei fenomeni dei quali si occupa. Il Kant professore di geografia, e geo-filosofo7 ante litteram, ritiene di poter individuare nella geografia (intesa nella sua valenza descrittiva e rappresentativa di luoghi, terre e mari, e dei loro confini, proiettati in uno scritto) un fattore decisivo di identificazione di elementi conoscitivi che si mostrano già carichi di significati filosofici.

A livello pedagogico, Kant si fa consapevole promotore, oltre che originale interprete, di una disciplina destinata ad attivare negli allievi l’interesse a formarsi una idea di prima approssimazione di che cos’è e di come è fatto realmente il mondo nel quale vivono: a titolo fortemente esemplificativo, la lettura dei giornali implica, secondo Kant, una nozione estesa della superficie terrestre, alla quale soltanto la geografia può dare forma e rilievo specifici. La globalizzazione, prefigurata dal pensatore tedesco nei termini di un cosmopolitismo8 al quale l’umanità tenderebbe per il semplice fatto di abitare un pianeta di forma sferica che avvicina gli uomini tra di loro, è un fenomeno che presuppone l’acquisizione di dimensioni eminentemente geografiche dello spazio9, e come tale si connota intensamente per i suoi aspetti geo-politici e geo-economici. In tal senso, quando Kant riconosce che è la geografia a fondare la storia, «poiché gli avvenimenti debbono pure rapportarsi a qualcosa»10, evoca il potenziale esplicativo, e insieme educativo, di un primato – o comunque di una specificità – della geografia, in quanto scienza a un tempo fisica, matematica, morale (declinata in un linguaggio dell’epoca che recepiva l’istanza di una sorta di geografia dei costumi, oggi declinabile magari in antropologia geografica11, o in geografia culturale), politica, economica, letteraria, religiosa: ovvero scienza della natura e al contempo, in senso prettamente umanistico, scienza della cultura, della società, del diritto. Occidente, Oriente, Nord, Sud, Europa, prima di essere categorie politico-culturali storicamente determinate, corrispondono a espressioni specificamente geografiche, legate a coordinate e a conformazioni ambientali che in quanto tali vanno studiate e pensate, nel presupposto che lo stesso pensiero, filosofico e scientifico, è portatore di una esigenza di orientamento che lo stesso Kant ha avuto cura di evidenziare12.

Orientarsi nell’estensione, e nella profondità, geospaziale del paesaggio umano è il compito che l’Introduzione alla geografia di Kant si è assunto, e che vale la pena riprendere, nella prospettiva di una più articolata rivitalizzazione, come di una più efficace ricollocazione, di una disciplina ingiustamente negletta, che oggi più che mai si impone come necessaria e imprescindibile, e quindi in tutti i sensi utile, per un sapere umanistico e scientifico integrato nei suoi molteplici aspetti epistemologici e metodologici. 224

  1. Fattori geografici e dimensioni storiche di una antropologia giuridico-politica filosoficamente orientata

Dalla ripresa del Kant speculativamente (a torto) considerato “minore”, ma a pieno titolo (almeno pedagogicamente) “maggiore”, delle lezioni sulla geografia si può essere autorizzati a trarre alcune deduzioni, relativamente all’elaborazione delle linee di una antropologia sociale filosoficamente impostata, e orientata in senso giuridico e politico.

Ogni pensiero filosofico, in quanto storicamente e culturalmente determinato, è anzitutto geograficamente collocato: geo- linguisticamente localizzato, dimensionato e condizionato. Il pensiero greco, ad esempio, veicolato dalla lingua greca, corrisponde a una latitudine prossima al pensiero degli statisti e giuristi romani (per riprendere una sintetica definizione di Jaspers), veicolato dalla lingua latina, ma ne resta, in via più o meno accentuata, distinto. Esso resta greco anche quando, a tratti, riappaia in pensatori che greci in senso anagrafico non sono, come per esempio Heidegger. Analoga impronta non sembra, a livello filosofico, essere ravvisabile in autori cronogeograficamente riconducibili all’ epoca in cui Roma ha dettato la sua legge al mondo euro-mediterraneo. Di nessun pensatore si dice che sia espressione di un modo filosoficamente latino di pensare13. Il pensiero canonizzato come occidentale è, a sua volta, per definizione ambientato in un contesto  che lo qualifica in base ad una determinazione geografica, quali sono i punti cardinali. Ma altrettale discorso può farsi per il pensiero europeo in generale 14?

L’incertezza nell’individuare fonti geografiche del filosofare, come nel caso della Magna Graecia, geograficamente situata nell’Italia meridionale costiera, potrebbe peraltro far propendere – come in effetti è troppo spesso accaduto – per un sottodimensionamento dell’elemento geografico, anticamera di una sua sottovalutazione. Ma la problematicità legata all’enucleazione delle coordinate geografiche del formarsi di una civiltà, anche in senso filosofico, lungi dall’essere di ostacolo all’approfondimento del tema in discussione, potrebbe rivelarsi una insospettata risorsa. Si è dovuto aspettare che non un filosofo dichiarato ma un antropologo, come Claude Lévi-Strauss, distribuisse i libri della sua biblioteca personale sulla base dell’ appartenenza dei loro autori, o dei temi trattativi, alle varie zone geografiche della Terra, perché ci si rendesse conto della portata decisiva che il punto di riferimento spazialmente individuato sviluppa accanto ai consueti punti di riferimento storico-evolutivi, largamente prevalenti nell’organizzazione delle enciclopedie piuttosto che nelle  trattazioni sistematiche di carattere umanistico o scientifico. Il tentativo di riprodurre in un microcosmo domestico il macrocosmo terrestre delle culture umane riflette la struttura stessa dell’universo delle civiltà, dei popoli, delle lingue, che si dà come un universo geografico.

Certo, la geografia non è solo cartografia. Per estensione, non abusiva, dei significati connessi al termine qui in esame, tutto ciò che è mappatura (si pensi alla mappatura del genoma) procede da un modo di immaginare, percepire, pensare la realtà su di una superficie abitata da significati rappresentabili secondo dimensioni di estensione, e di profondità, e di relative angolature, che non si risolvono in determinanti storico-temporali. La chiave di lettura geografica dei fenomeni culturali consente di attivare la percezione delle loro costanti, trans-storiche e trans-culturali, che un’ottica puntata sulla Storia tende fatalmente a eludere. Ciò sembrerebbe possibile in virtù della peculiare attitudine della geografia, che è scienza dell’uomo e al tempo stesso della natura, a fornire una descrizione di fenomeni naturali suscettibili di essere letti alla luce di leggi fisiche, matematiche. La sovradeterminazione (para) storicistica dei fenomeni culturali ha oscurato le caratteristiche e le risorse di questa attitudine, che mette in condizione di legare la particolarità di un fenomeno a leggi generali.

L’esperienza giuridica, a questo riguardo, offre un interessante piano di riscontro: nei limiti in cui registra e realizza un accesso al mondo degli oggetti – per esempio i beni, oggetto di possesso o di proprietà – che corrispondono a dati di fatto in una certa misura incontrovertibili (quel suolo, come pure quella cosa mobile), essa condivide con la geografia il rispetto dell’elemento naturale nella sua particolarità, generalizzata sotto forma di legge. La stessa esperienza politica, nei termini in cui comporta una qualche sia pur approssimativa corrispondenza tra grandezze di ordine fisico (isole, penisole, spazi delimitati da corsi d’acqua o da barriere naturali), è indice di elementi non interamente storicizzabili: una nazione procede da un atto di nascita certificabile in riferimento a una localizzabilità più o meno precisa, spesso di ascendenza ancestrale. I popoli nomadi, semi-nomadi o stanziali sono qualificati come tali sulla base di un riferimento, meno o più definito, allo spazio geografico nel quale si muovono, o viceversa si radicano. Un’entità etnica non può inventarsi per un atto arbitrario, perché non può prescindere dalle pianure, dalle foreste, dai monti nei quali si è forgiato il suo primo prender forma. Non si sottrae a questa valenza in qualche maniera nomo-grafica della geografia neppure l’esperienza economica, a misura che procede dalla raccolta e dalla selezione di materiali relativi a risorse del suolo, o del sottosuolo, che costituiscono la materia della gestione e dello sviluppo stesso dell’economia.

Qualcosa come una statica sociale15, risultando intrinseca al complesso dell’esperienza sociale umana in generale, almeno nelle sue declinazioni giuridica, politica, economica (per tacere della sacrale-religiosa), si mostra quindi caratterizzata dall’incidere essenziale di fattori non riducibili alla storicità dei fenomeni culturali. Nella prospettiva di una statica sociale ampiamente documentata dalle ricerche antropologico-culturali, può articolarsi una fenomenologia di tutti quegli aspetti della socialità umana che non si risolvono in sequenze di eventi o di epoche. Tutto ciò che è rito, costume, uso, tradizione introduce una dimensione ciclico-ripetitiva nel flusso temporale, determinando una scansione degli avvenimenti che rispecchia il succedersi delle stagioni. Lì dove la Storia concentra, fino al dettaglio, bruciando le possibilità che non si dischiusero nell’episodicità di un evento, la geografia dilata, perché custodisce la necessità sulla base della quale nuovi mondi e nuove forme di vita possono emergere: sulla superficie terrestre può costruirsi una civiltà, che poi decade fino a ridursi in macerie, ma il fondo tellurico che l’ha vista sorgere, crescere e infine declinare resta. E le radici di quell’albero penetrano in inesplorate profondità, che forse solo una geografia dell’inconscio potrebbe sondare.

In quanto stratigrafia, la geografia sta lì a ricordare, a significare, che il volere e il potere umani incontrano un limite: in questo senso, la geografia dà una costante lezione di realismo. Il viaggio che essa apre è un percorso attraverso luoghi, della natura e dello spirito, che, nella loro costitutiva dimensione di realtà, impediscono all’esistenza umana storica – quale viaggio nel tempo – di percepirsi come un fluttuare abbandonato al caso. In quest’ottica, la geografia ridà senso e significato a un Paese che sia anche, o meglio in primo luogo, una patria rispetto alla quale anche il senza patria trovi posto, ovvero ritrovi la sua dignità, e le sue prerogative, di cittadino. Un non-luogo16, in tal senso, restando una pura ipotesi, si annuncia come il prodotto di una pretesa storicistica assoluta di prescindere dal dato di fatto geografico, nella supposizione, tutta da verificare, che l’uomo sia in ultima analisi cultura, e non anche natura. Invero, nella misura in cui la geografia umana reca le tracce, talora monumentali, di passaggi al limite, non solo tra natura e cultura, ma anche tra queste e la sopranatura, non si dà genuina geografia fisica che non si atteggi, in qualche modo, a geografia metafisica, ipotizzabile ove si consideri che l’anima di certi luoghi fa da punto di orientamento di culti, scelte, decisioni, talora di forte valenza politica (si pensi alle “terre sante”, o promesse, per le quali, talvolta metro dopo metro, ancor oggi si lotta senza tregua).

L’abitare stesso (in senso heideggeriano), del resto, è sempre stato – come dimorare – un fenomeno strettamente legato ad aspetti sia materiali sia immateriali, o spirituali in senso lato: la sacralità di una sorgente, o di una montagna, rende l’idea di una geo-metafisica nella quale il pensiero umano si trova impegnato fin dai primordi. I riti di sepoltura simboleggiano, in particolare, la riassunzione nel grembo materno ctonio di un essere che pure se ne è staccato per vincere, quando non per tentare di annullare le stesse distanze spaziali (come nell’esperienza della ipertelecomunicazione odierna). A questa postura metafisica della geografia non è estranea la stessa categoria estetica di bellezza, che ritrae proprio dal naturale (bellezza naturale) la fecondità di canoni consacrati nella grande arte, in particolare quella figurativa.

Una antropologia filosofica non può pertanto evitare di considerare l’uomo come ente che descrive la terra, che scrive sulla terra, e con la terra, ma con ec-centramento dalla terra che lo rende ultimamente sovraterrestre nelle sue conclamate manifestazioni di ordine spirituale. Non sarebbe attestazione dell’umano una geografia che non fosse capace di ricomprendere nel suo ambito la posizione singolarmente eccezionale dell’uomo: anzi, che si dia qualcosa come una geografia sta ad indicare che vi è all’opera un soggetto di pensieri e di atti che ha bisogno, per ri-trovarsi, proprio del dimensionamento e della strutturazione geografici, quali ad esempio si evidenziano nella matrice geo-mitica dell’identità dei popoli senza scrittura17.

L’integrazione dell’antropologia con la geografia rende possibile la formulazione di un sapere che metta a tema le componenti naturali (biologiche e geografiche) dell’umano, rinviandole a un livello nel quale si produce una pre-comprensione di strutture portanti dei processi culturali e sociali, ivi compresi quelli attinenti all’etica, al diritto, alla politica, all’economia, alla religione. Se è vero che l’uomo è un ente storico, nel senso che la sua esistenza si concepisce come eminentemente storico-culturale, in divenire, è altrettanto vero che è inseparabile dall’autorappresentazione individuale e collettiva dell’uomo la dimensione geo-naturale, che attesta il suo essere-nel-mondo come essere in un mondo, sotto quel cielo.

Una antropologia filosofico-sociale (nel senso, comprensivo, di filosofico-giuridica e filosofico-politica) è tanto più avvertita di questa necessaria integrazione quanto più assume a tema delle sue analisi e delle sue interpretazioni l’insieme del fenomeno sociale umano: sia come storia sia come geografia del sociale. Le conoscenze che l’antropologia culturale, con la paleontologia, ha acquisito ci mettono in condizione di confrontarci con una durata della specie umana rispetto alla quale la fase assunta come storica corrisponde a un lasso di tempo minimo, estremamente significativo per i contemporanei, ma trascurabile se rapportato all’intero arco temporale dell’esistenza del genere umano sulla faccia della terra. Il complesso della vicenda umana richiede un approccio geo-sociale di portata esplicativa almeno pari a quella tradizionalmente sviluppata dall’approccio storico-sociale. Ne va della possibilità stessa di intendere umanisticamente il fenomeno umano, superando l’equivoco di scambiare la Storia per una scienza. Se proprio di scienza umana deve trattarsi, questa deve farsi carico di tutti gli elementi fondamentali che richiedono di essere conosciuti, e valutati. La temporalizzazione dell’elemento umano non può fare a meno di reagire sul piano nel quale, prima di qualsiasi “progetto” o di qualsiasi “costruzione”, l’uomo si dà a conoscere: come un essere-nello-spazio18.

La rappresentazione della socialità umana di base come una rete di relazioni che si inscrivono in filiazioni (livello giuridico-familiare) e in alleanze (livello politico) richiede, per essere elaborata filosoficamente, una lettura antropologico-sociale che filtra una vera e propria geografia sociale, non metaforica ma reale come possono essere reali i simboli che la esprimono, su di un piano mitico-fondativo che l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss ha tradotto in formule di precisione geometrica. La rappresentazione del sociale, presso l’umanità di tutte le latitudini geoculturali, ha preso inizialmente la forma di una planimetria, ovvero di un disegno dello spazio relazionale (tra individui e tra gruppi) che ha preceduto qualsiasi progetto di edificazione puntato su traguardi storici. In questo senso – nella ricostruzione di un percorso, e con un filo logico, che da Kant giunge a Lévi-Strauss – la geografia ha preceduto e fondato la Storia, costituendo la pre-condizione di qualsiasi formazione storico-umana. Se dunque di un primato si tratta, questo primato è documentabile antropologicamente, prima di potere, e di dovere, essere filosoficamente argomentabile.

Una prima implicazione del primato quanto meno fenomenologico (se non proprio ipotizzabile come onto-fenomenologico) dell’elemento geo-umano sta nell’ipotizzare la preesistenza della geo-strutturazione delle forme associative umane rispetto all’articolazione dialettica che mette in moto i processi registrabili come storici. Una seconda implicazione sta nel congetturare che la geostrutturazione del tessuto socio-umano di base precorre, prefigura e preforma il cristallizzarsi di determinati processi in istituzioni, le quali si danno già come stabilizzazione, più o meno duratura, di una dinamica sociale19. La stessa tendenza inerziale delle istituzioni umane a durare nel tempo, malgrado contraddizioni e contestazioni di vario genere, riflette un ancoraggio meta-storico, che ritrae dalla geografia, lato sensu intesa, cioè terrestre, ctonia, cosmica, le immagini che veicolano i significati di saldezza, sicurezza, perennità. È vero che l’orografia e la stessa topografia sono soggette a mutamenti, ma generalmente nel lungo, anzi lunghissimo periodo: la persistenza dei caratteri salienti della conformazione di un territorio, della dolcezza o della durezza delle sue condizioni climatiche, offrono la prima modalità di espressione di un’invarianza categoriale, la quale si traduce in strutture fondamentali che, resistendo al mutamento, rendono al tempo stesso possibile la tensione dialettica da cui si sprigionano le forze che portano a superare, in parte o in tutto, le forme istituzionali consolidate. Il conflitto, da interpretare, in questa prospettiva, quale espressione più intensa del dinamismo sociale, generatore di Storia, deve il suo sorgere alla solida resistenza che gli oppone la spessa coltre del suolo che esige di essere curato, conservato e perpetuato, prima di essere magari sfruttato.

Il substrato geo-socio-grafico della statica sociale, che si annuncia quale fattore di comunicazione e di coordinazione tra individui, maschili e femminili, e tra gruppi di individui, corrisponde alla spazializzazione di questi rapporti, traducendosi in geografia giuridica delle parentele e delle filiazioni, e in geografia politica delle alleanze. La pre-incidenza dell’elemento geografico così declinato, sul piano giuridico-e-politico, relativizza il dato storico a punti di riferimento, a veri e propri assi cardinali non suscettibili di ulteriore dialettizzazione: i rilievi possono essere spianati, i passi possono essere attraversati, le rive dei fiumi possono essere collegate da ponti, uomini e donne possono simbolizzare in molteplici maniere le loro differenze, fin quasi a sovvertirle, ma il cambiamento di una situazione geografica, o di una geo-istituzionale, sarà sempre relativo a una permanenza, comunque percepita o elaborata, o anche semplicemente sottintesa. La dis-continuità del mondo umano storico rispetto a quello naturale non è assoluta proprio perché quel mondo resta mondo, cioè uno spazio che dipende da un orizzonte non ulteriormente superabile, anche quando venga proiettato nella dimensione ultra-mondana della sopranatura.

Le nominazioni di parentela, inquadrate nei sei sistemi di parentela a tutt’oggi noti20, formano l’atlante geografico dei sistemi sociali di base, che a loro volta costituiscono l’ordito attorno al quale vengono a strutturarsi gli insiemi sociali degli altri aggregati umani rilevanti sui piani geografico (dal villaggio ai nuclei abitativi più complessi), geo-sociologico (dalla famiglia al clan alla tribù), geo-antropologico (gruppi umani etnicamente o linguisticamente identificabili). Al pari di un atlante storico, che ripercorre le diverse fasi di sviluppo delle civiltà umane, la carta geografica delle nomenclature di parentela offre un quadro sufficientemente illustrativo di che cosa significa una statica sociale, tema di una scienza antropologica piuttosto che di una storia sociale, impegnata con la storia della famiglia, e delle unità sociali più estese, con specifico riguardo ai rapporti di sovraordinazione/subordinazione che innescano la dinamica sociale dei rapporti di forza e di potere.

Il punto è che, finora, la fenomenologia filosofica dei principi di messa in forma dell’archeo-socialità umana è stata pressoché interamente assorbita dalla rappresentazione storico-dialettica delle dinamiche, evitando di sostare nel riconoscimento che i principi di organizzazione della socialità umana dipendono da assi geo-antropologicamente pre-ordinati: sistemi elementari socio-familiari-parentali strutturati già attorno a categorie giuridiche. Una presa d’atto, e di coscienza, di segno filosofico dovrebbe partire dall’acquisizione che, se il politico vanta sicuramente un primato a livello storico-storiografico, il giuridico può vantare un primato a livello antropo-geografico. Una geografia filosofica, anche nelle sue declinazioni filosofico-giuridica e filosofico-politica, capace di restituire allo spazio tutto lo spessore ermeneutico che il primato attribuito al tempo storico gli ha sottratto, potrebbe in tal senso offrire un utile contributo introduttivo all’elaborazione di una complessiva antropologia filosofica della socialità umana.

Con la globalizzazione21, inaugurata da tesi sulla fine della Storia che, attualizzando la lezione hegeliana22, sembravano aver “fermato” il tempo, lo spazio annunciava di essersi ripreso le sue prerogative: la controtendenza storico-politologica alla focalizzazione degli scontri di civiltà23, pur rimettendo in gioco una filosofia della cultura imperniata su categorie temporali ben definite, ha peraltro mostrato che, al di là di geo-localismi più o meno accentuati, mai come oggi la politica dipende dalla geografia, della terra ma, forse oggi più che mai, anche del mare24. Perché, in una certa misura, è la stessa Storia a dipendere dalla geografia, sia questa intesa in senso strettamente scientifico, sia questa reinterpretata come geografia filosofico-sociale, indice di un significativo nesso di dipendenza della stessa geopolitica da un geo-diritto25 tutto da indagare, e da interrogare e approfondire nelle sue possibili valenze teoretiche.

 

Note

1 I. KANT, Géographie, trad. fr. a cura di M. Cohen-Halimi, M. Marcuzzi e V. Seroussi, Aubier, Paris 1999. Per una prima presa di contatto con questa edizione francese si rinvia alla lettura di I. LABOULAIS-LESAGE, La Géographie de Kant, in “Revue d’Histoire des Sciences Humaines”, 2 (1/2000), pp. 147-153.

2 A Kant (il quale dimostrava in tal modo quanto prendesse sul serio l’ampliamento del proprio modo di pensare; cfr. H. ARENDT, Teoria del giudizio politico, trad. it. P.P. Portinaro, il Melangolo, Genova 2005, p. 70) si deve di essere stato il primo filosofo a impartire corsi universitari di geografia, ancor prima dell’assegnazione della prima cattedra di geografia a Carl Ritter (Berlino, 1820; cfr. M. MARCUZZI, Introduction a I. KANT, Géographie, ed. cit., p. 11). Sulla geografia kantianamente intesa quale propedeutica alla scienza e alla vita si rinvia in particolare a A.-L. SANGUIN, Redécouvrir la pensée géographique de Kant, in “Annales de Géographie”, 576 (1994), p. 144. 222

3 Il Corso di Physische Geographie è stato pubblicato nel 1902 dall’Accademia prussiana delle Scienze, ed editato nel tomo IX, pp. 151-436, dei Kants Werke. Logik, Physische Geographie, Pädagogik (de Gruyter, Berlin 1968).

4 La versione italiana della Einleitung kantiana della quale trattasi, curata da L. Scillitani con la collaborazione di S. Nienhaus, è stata pubblicata, col titolo Geografia fisica, in A. LANDOLFI (a cura di), Geografia: dalla ricerca alla didattica. Due autori a confronto, Università degli Studi del Molise, Campobasso 2013, pp. 21-30.

5 Cfr. I. KANT, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, F. Nicolovius, Königsberg 1798; trad. it. G. Vidari e A. Guerra, Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari 1985. Se la conoscenza del mondo «ha lo stesso significato di antropologia pragmatica (conoscenza degli uomini)» (M. HEIDEGGER, Vom Wesen des Grundes, Klostermann, Frankfurt a.M. 1955, p. 31; trad. it. P. Chiodi, L’essenza del fondamento, in ID., Essere e tempo – L’essenza del fondamento, Utet, Torino 1978, p. 655), proprio dalla conoscenza del mondo che si esprime nella geografia fisica «sorgeranno quegli interrogativi che spingeranno Kant ad impostare un autonomo corso di antropologia, dopo aver preparato un testo (Urtext) nel 1759 di geografia ed aver ampliato il campo di indagine della geografia stessa, che dev’essere anche morale e politica oltre che fisica» (I.F. BALDO, Kant e la ricerca antropologica, in AA.VV., Il problema dell’antropologia, Editrice Gregoriana, Padova 1980, p. 75).

6 I. KANT, Geografia fisica, ed. cit., p. 27.

7 La geofilosofia alla Deleuze o alla Cacciari non ha tuttavia a che vedere con l’orizzonte al quale l’approccio kantiano rinvia. Piuttosto valgono, in questa sede, le riflessioni di O. DEKENS, D’un point de vue géographique sur la philosophie kantienne, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 2 (1998), pp. 269-272. In ogni caso, per un ampliamento geofilosofico della tematica qui trattata si rinvia, oltre che ai testi consultabili nel sito http://www.geofilosofia.it, a L. BONESIO-C. RESTA, Intervista sulla Geofilosofia, a cura di R. Gardenal, Diabasis, Reggio Emilia 2010; L. BONESIO, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 20012; ID., Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna, Casalecchio 2002; ID., Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, Reggio Emilia 2007; A. BERQUE, Médiance de milieux en paysages, Belin, Paris 1990; ID., Être humains sur la Terre, Gallimard, Paris 1996; I., Ecoumène: introduction à l’étude des milieux humains, Belin, Paris 2009; F. FARINELLI, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003; ID., La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009; ID., L’invenzione della Terra, Sellerio, Palermo 2007.

8 Attirano l’attenzione sul nesso essenziale tra geografia e cosmopolitismo in Kant le considerazioni di J.-M. BESSE, La philosophie et la géographie, in Encyclopédie Philosophique Universelle, diretta da J.-F. Mattéi, PUF, Paris 1998, p. 2553.

9 Su di una prima configurazione del tema dello spazio in Kant si veda, di questo, Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Raume, in “Königsberger Trag- und Anzeigungsnachrichten”, 6-8 (1768); trad. it. R. Assunto, R. Hohenemser e A. Pupi, Sul primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, in ID., Scritti precritici, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 409-418.

10 I. KANT, Geografia fisica, ed. cit., p. 27.

11 Sulla natura pragmatica della geografia kantiana attira l’attenzione M. TANCA, Geografia e filosofia, Franco Angeli, Milano 2012, p. 40.

12 Cfr. I. KANT, Was heisst sich im Denken orienieren?, in ID., Gesammelte Schriften, de Gruyter, Berlin-Leipzig 1902; trad. it. P. Dal Santo, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1996.

13 Per una diversa lettura del tema cfr. però S. MASO, Filosofia a Roma. Dalla riflessione sui principi all’arte della vita, Carocci, Roma 2012.

14 Cfr. R.B. ONIANS, Le origini del pensiero europeo, trad. it. P. Zaninoni, a cura di L. Perilli, Adelphi, Milano 1998.

15 Per quanto desueta nell’omologo significato di “sociologia statica” (cfr. L. GALLINO, Statica sociale, in Dizionario di sociologia, Istituto Geografico De Agostini, Novara 2006, vol. 2, pp. 476-478), questa espressione meriterebbe di essere rivisitata, al di là di riduzionismi sociologici, in sede specificamente antropologico-filosofica. 226

16 Cfr. M. AUGÉ, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. D. Rolland e C. Milani, Elèuthera, Milano 2009.

17 Circa gli itinerari del sogno presso gli Aborigeni australiani studiati da Freud, sulla base delle ricerche di James Frazer, cfr. B. GLOWCZEWSKI, Du rêve à la loi chez les Aborigènes, PUF, Paris 1991.

18 A una meditazione complessiva, in chiave fenomenologica, sulle componenti simboliche di questo dimensionamento antropo-geografico rimanda la lettura di E. DARDEL, L’uomo e la terra. Natura della realtà geografica, trad. it. C. Copeta, Unicopli, Milano 1986, sul quale vedasi C. COPETA, Il mio incontro con Dardel (ovvero perché sono geografa!), in E. DARDEL, L’uomo e la terra, ed. cit., pp. 201-223. Più in generale, sul tema della spazialità, si rinvia alla omonima voce dell’Enciclopedia Einaudi (Torino 1981, vol. 13, pp. 244-272), redatta da E. GARRONI.

19 Per la dinamica sociale, o sociologia dinamica, vale quanto detto supra, nella n. 14, a proposito della statica sociale (cfr. L. GALLINO, Dinamica sociale, in Dizionario di sociologia, ed. cit., vol. 1, pp. 414-417).

20 L’elenco formato dagli etnologi annovera i seguenti sei sistemi: eschimese, hawaiiano, irochese, crow, omaha, sudanese. Su questo impianto le società umane strutturano il loro assetto in quanto reti di parentele.

21 Sulla difficoltà di definire i processi di globalizzazione nella prospettiva della de-territorializzazione, cfr. in particolare S. SASSEN, Né globale, né nazionale; la terza dimensione dello spazio nel mondo contemporaneo, in “il Mulino”, 6 (2008), pp. 969-979.

22 Cfr. F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it. D. Ceni, Rizzoli, Milano 1992. Più in generale sui rapporti fra geografia e Storia in Hegel si rinvia a P. ROSSI, Storia universale e geografia in Hegel, Sansoni, Firenze 1975. Peraltro, nella misura in cui i Fukuyama o gli Huntington continuano, insieme con molti altri, a porsi il problema della definizione del ruolo dello spazio e dei fattori geografici nella Storia mondiale nei termini delle forme di vita politica che coincidono con Stati, si è portati, almeno in questo senso, ad essere ancora hegeliani (cfr. M. TANCA, Geografia e filosofia, ed. cit., pp. 74-75).

23 Cfr. S.P. HUNTINGTON, Lo scontro di civiltà?, trad. it. S. Pighini, in ID., Ordine politico e scontro di civiltà, a cura di G. Pasquino, il Mulino, Bologna 2013, pp. 273-301.

24 F. ROSENZWEIG, Globus. Studien zur weltgeschichtlichen Raumlehre, in ID., Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, vol. III: Zweistromland. Kleinere Schriften zu Glauben und Denken, Martinus Nijhoff, Dordrecht-Boston-Lancaster 1984, p. 348; trad. it. S. Carretti, Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio, a cura di F.P. Ciglia, Marietti 1820, Genova-Milano 2007, p. 83. Sulle “vendette” che la geografia, ogni tanto, si prende sulla politica – da Napoleone a Hitler, fino ai nostri giorni –, può essere illuminante la lettura di R. KAPLAN, The Revenge of Geography, in “Foreign Policy”, maggio/giugno 2009.

25 Sui significati e sull’uso di questo neologismo si rinvia agli esordi sull’argomento in N. IRTI, Geo-diritto, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, 1 (2005), pp. 21-37.

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Kant grande geografo

La traduzione della Geografia fisica di Kant impegnò August Eckerlin a lungo: i sei volumi vennero pubblicati in successione tra il 1807 e il 1811.

Come apparve subito chiaro, si trattava di un lavoro importante, ma privo di uno sforzo di sistematizzazione che avrebbe potuto e dovuto facilitarne la lettura e la consultazione. Questo è poi il motivo principale per il quale all’edizione Vollmer (su cui si basò Eckerlin per la traduzione italiana) si è sempre poi preferita in seguito quella, più snella, curata da Theodor Rink. Per tutte le questioni annesse alla vicenda editoriale si può ora vedere il vol. 26.1 delle Kant’s gesammelte Schriften che contiene le lezioni sulla geografia fisica curate da Werner Stark in collaborazione con Reinhard Brandt (Berlin-New York, de Gruyter, 2009).

Nel 1816 Lorenzo Nesi, abate toscano all’epoca impegnato a Milano in attività di insegnamento, pubblica una Storia fisica della terra espressamente compilata «sulle tracce della Geografia fisica di Kant», con l’intento dichiarato di procedere a una riorganizzazione delle sparse osservazioni ricavate dagli appunti degli studenti proposte nell’edizione Vollmer.

Il più conosciuto fra i moderni, che siasi esclusivamente occupato di questa scienza importante, è stato il Sig. Kant, Professore celeberrimo dell’Università di Koënisberga, che tanto onore ha procurato al Secolo XVIII, alla repubblica letteraria, ed alla dotta sua patria. Se in quest’opera fosse egli stato meno ambizioso d’originalità, e più ordinato nella distribuzione delle materie, potrebbe questa a ragione riguardarsi come l’unica classica in questo genere, poichè nè i Malthebrun, nè i Pinkerton, nè i Guthrie hanno avuto campo di dare nelle loro Geografie Universali un competente sviluppo a questa parte, che di tutte è forse la più interessante, come la più dilettevole (vol. I, p. 6).

Lo scopo di Nesi è quello di liberare l’opera di Kant delle cose superflue, delle ipotesi azzardate, di accorciarla e armonizzarne le parti.

L’opera di Nesi venne pubblicata in due volumi: il primo nel 1816 presso l’editore Baret di Milano, il secondo nel 1817 presso l’editore Buccinelli, sempre di Milano.

Di questo curioso tentativo di rimaneggiamento della traduzione della Geografia fisica non v’è traccia in nessuna delle discussioni sul tema che da noi conosciute, né ci sembra sia mai citato (anche soltanto come curiosità) nelle bibliografie specialistiche.

Pertanto, se non andiamo errati, questa è la prima volta che si fa menzione di questo testo, la cui articolazione ricorda certamente la Geografia fisica di Kant, in rapporto alla storia della fortuna testuale di Kant in Italia.

Geografia e antropologia

Nel 1843, cioè trentasei anni dopo l’uscita del primo volume della Geografia fisica, l’editore milanese Giovanni Silvestri dà alle stampe un ausilio all’opera di Kant che Augusto Eckerlin aveva tradotto e pubblicato per lui tra il 1807 e il 1881 in sei volumi.

Si tratta di un dizionario che ordina alfabeticamente una serie di voci tratte dall’opera maggiore di Kant e che sostituisce l’indice analitico che Eckerlin non aveva accompagnato alla sua edizione e che molti avevano lamentato come mancanza grave. In effetti, la mole della Geografia fisica e, soprattutto, la vastità delle materie esposte richiedevano uno strumento di guida che consentisse di orientarsi in quella selva di dati e di notizie.

La geografia per Kant non si limitava alla fisica in quanto tale, benché tutte le cognizioni note sulla formazione della terra, dei mari, dei ghiacci e via dicendo fossero presentate in maniera più o meno sistematica. La geografia è, per Kant, principalmente una forma di conoscenza del mondo umano, un criterio di ordinamento delle caratteristiche antropologiche che devono poter essere descritte per ottenere un’immagine effettivamente cosmopolitica dell’uomo e del suo ambiente.

Questa prospettiva pragmatica era stata anche considerata negativamente da qualche recensore italiano, che riteneva del tutto improprio parlare delle situazioni concrete dei commerci, degli assetti politici e via dicendo all’interno di un trattato di geografia. Ma è invece proprio questa la caratteristica essenziale e, in qualche modo, innovativa dell’opera di Kant. La quale, in ogni caso, venendo diffusa in Italia in un’epoca fortemente segnata da trasformazioni politiche, poteva soccorrere la necessaria spinta propulsiva in avanti delle cognizioni tecniche. Non è un caso che, già a partire dalla stagione delle riforme settecentesche, in campo editoriale si facessero diversi sforzi per proporre un ampliamento della conoscenza della geografia, sforzi che vennero poi crescendo in età napoleonica e poi nella prima metà dell’Ottocento. La letteratura e la manualistica di settore in quest’epoca cresce in modo progressivo e porta alla traduzioni in italiano di altri manuali tedeschi di questo genere.

Quello kantiano è caratteristico e risulta ancora oggi un apax nell’attività dei filosofi, che caso mai tra fine Settecento e inizio Ottocento preferiscono indugiare sulla storia, attraverso prospettive universalistiche o sistematiche (da Herder a Hegel, per intendersi).

Il Manuale di geografia fisica è un altro esempio della particolare direzione che assume in Italia l’irradiazione di Kant, la cui attività antropologica è vista con molto interesse e talvolta con quel favore che non si poteva concedere al suo criticismo. Basti pensare che la cosiddetta macrobiotica di Kant, vale a dire le regole per il controllo spirituale degli stati patologici del corpo (il terzo saggio che compone il Conflitto delle facoltà) venne tradotto in italiano sia nella prima parte dell’Ottocento, sia nel clima positivistico di fine secolo.

Tra storia naturale e etnografia. La geografia kantiana

Kant tenne lezioni sulla Geografia fisica fino al Sommerse-mester del 1796: aveva cominciato quarant’anni prima, nel 1756. Il corso non era basato su un manuale, come richiesto poi dai regolamenti universitari, ma elaborato personalmente. E questo, come opportunamente fa notare Werner Stark nella prefazione al primo volume delle Vorlesungen über Physische Geographie apparso nel 2009 nell’ambito dell’edizione dell’ Accademia, vuol dire che il programma delle lezioni preparate da Kant, può essere considerato, entro certi limiti, opera autonoma. I limiti, peraltro, sono costituiti dal fatto che le lezioni così come ci sono rimaste, entrano nel patrimonio di studio di studenti e uditori, a volte eccellenti (come dimostra il caso di Herder).

La caratteristica essenziale  delle tre parti in cui si divideva l’insegnamento della Geografia fisica, è che la prima è dedicata alla descrizione fisica, la seconda alla storia naturale e la terza all’etnografia.  Kant raccoglie una grande quantità di materiali tratti da diari di viaggio, riviste, manuali che organizza poi in modo autonomo.  L’esposizione in aula non può certo entrare nei particolari, dice Kant presentando il corso del 1757, ma cercare ciò che desta meraviglia dappertutto e la bellezza con la curiosità razionale di un viaggiatore.

Su manoscritti di uditori di Kant si fonda l’edizione Vollmer (1801-1805), sebbene non si sappia nulla di questa fonte diretta. Come giustamente nota Stark, l’edizione Vollmer si presenta come un progetto editoriale autonomi rispetto alle lezioni kantiane. Infatti, vi si trovano assemblate informazioni che risalgono anche a periodo successivi il ritiro di Kant dall’Università e rimontano fino ai primi anni dell’Ottocento, quando ormai Kant (che muore nel 1804) non ha certo modo e tempo di dedicarsi ad aggiornamenti simili.

Vollmer ebbe a che fare con Theodor Rink a proposito di questa voluminosa edizione (in quattro volumi e sette tomi), ritenuta da Rink una contraffazione e oggetto di una disputa in tribunale che trascinò anche il vecchio Kant, il quale dettò una sua dichiarazione contro Vollmer e a favore di Rink, al quale aveva affidato il materiale per la pubblicazione delle lezioni di geografia fisica.

La polemica si protrasse per un certo tempo, ma lasciò il segno: nella seconda edizione, infatti, Vollmer presenta l’opera come propria trattazione ricavata dalle idee di Kant («nach kantischen Ideen») e, soprattutto, il curatore esce dall’anonimato e si fa riconoscere come Johann Jakob Wilhelm Vollmer «direttore, primo professore e bibliotecario del ginnasio dell’Accademia, ispettore delle scuole cittadine, predicatore della cattedrale di Thorn» (l’attuale Torun in Polonia). Per lo stesso curatore, quindi, l’opera non è di Kant, ma risulta una compilazione di materiali di varia natura, molti dei quali tratti da importanti manuali dell’epoca, comela Erdbeschreibung  di Anton Friedrich Büsching.

Non abbiamo una conoscenza precisa di Vollmer: Il Gelehrte Teutschland di HambergerMeusel (vol. VI, p. 113) ne riporta poche notizie, senza nemmeno indicare la data e il luogo di nascita, ma sappiamo che nacque a Thorn, ricordando che è stato l’editore della geografia kantiana e l’autore di un Kritisches Handbuch der Geschichte für die Jugend, eine Revision alles dessen, was wir mit Sicherheit in der Geschichte wissen (Hamburg 1805) – Manuale critico di storia per la gioventù, una revisione di tutto ciò che della storia sappiano con certezza.

Un altro cenno a Vollmer, non elogiativo, si trova in una storia della  città di Thorn del 1842: Jiulius Emil WernickeGeschichte Thorns aus Urkunden, Dokumente und Handschriften, Thorn 1842, vol. I, p. 580, in cui si dice che Vollmer, nominato nel 1803 direttore del Ginnasio, ne disperse lo splendore cui l’aveva portato il suo predecessore.

La Geografia fisica proposta da Rink si presenta come corrispondente a quella Vollmer soltanto per la parte introduttiva (le prenozioni matematiche), mentre per il resto i due volumi che compongono l’opera differiscono per l’ampiezza di sguardo, più che per i temi. L’ultima sezione, la sommaria considerazione delle più notevoli meraviglie naturale  di tutti i paesi in ordine geografico, risulta un anello di congiunzione con l’antropologia pragmatica, in particolare con la caratteristica, ossia l’osservazione del mondo esterno per comprendere il lato interno dell’uomo.

La Geografia fisica tradotta in italiano non presenta questo elemento etnografico, poiché il «cittadino Vollmer» (così si firma Johann Jakob Wilhelm Vollmer, da non confondere con l’editore dell’opera che si chiamava Gottfried Vollmer) l’aveva escluso dalla sua edizione, che è alla base della traduzione italiana di August Eckerlin. La conseguenza della scelta di quest’ultimo, che non riteneva opportuno tradurre la Geografia fisica di Rink – senza peraltro darne una motivazione –, è stata che del Kant antropologo e cosmopolita in Italia non si è saputo per un periodo piuttosto lungo. Qualche acuta osservazione di Bertrando Spaventa a metà secolo ha poi consentito di avere, effettiva, sebbene fugace, visione del pensiero antropologico kantiano.

La nascita della geografia moderna
attraverso il pensiero di Alexander von Humboldt e Carl Ritter

 

Wolfgang Francesco Pili

L’interesse per lo studio geografico sin dai tempi antichi non è mai mancato. Anzi, questo si è dimostrato un elemento unificante fra tutte le varie nazioni europee e mondiali che rivaleggiavano fra di loro per accaparrarsi il maggior numero di scoperte, ma che cercavano sempre di unire il sapere affinché tutti potessero usufruirne e poterne sfruttare al massimo i risultati. Fra il settecento e l’ottocento nuovi studi più approfonditi e dotati di una loro metodologia scientifica vengono intrapresi ed è così che emergono due importanti figure: Alexander von Humboldt e Carl Ritter.

Alexander von Humboldt è stato un uomo poliedrico e dagli interessi multiformi che dedicò la sua vita per intero allo studio e alla conoscenza geografica. Nato nel 1769 egli fu prima di tutto un naturalista, specializzato in botanica e in mineralogia, e alacre viaggiatore: infatti è proprio nei suoi numerosi viaggi che von Humboldt, attraverso le sue osservazioni e rilevamenti, si presenta come un grande geografo, tanto da essere considerato il fondatore vero e proprio della geografia moderna. Laureatosi nel 1790 in biologia all’università di Gottinga, nel biennio successivo studiò nell’accademia mineraria di Freiberg. Non è un caso che poco dopo fu nominato direttore dell’area mineraria della Franconia. Effettuò diversi viaggi nella sua giovinezza, specialmente in Europa e, in particolare, in Italia: dopo la morte della madre eredita una grande somma, poté organizzare una grande spedizione verso i tropici nelle colonie spagnole americane fra il 1799 e il 1804 con l’ausilio del botanico Aimè Bonpland (La Rochelle, 1773 – Restauraciòn, 1858). In questo viaggio ebbe modo di approntare molte ricerche sulla botanica: provò la scalata del Chimoborazo (un monte ecuadoregno) senza raggiungerne la vetta e scoprì un collegamento fra i bacini dell’Orinoco e del Rio delle Amazzoni, attraverso il fiume Casiquiare. Esplorò inoltre l’isola di Cuba, il Messico e il Perù facendo a volte anche studi di tipo etnologico e linguistico. Stabilitosi nuovamente in Europa, a Parigi per i successivi vent’anni, ebbe modo di scrivere la monumentale opera intitolata Voyage auc règions èquinoxiales du Nouveau Continent: questo fu il primo trattato di geografia socioeconomica del vicereame della Nuova Spagna, esteso dall’America istmica alla California e al Texas. Fondata a Berlino la Società Geografica tedesca nel 1828, nel 1829 invitato dallo zar Nicola I, effettuò un viaggio scientifico nella Russia orientale e in Asia centrale. Questo viaggio gli permetterà di dedicarsi alla sua opera magistrale intitolata Kosmos, redatta da cinque volumi, in cui von Humboldt tratta dei diversi aspetti geografici, con particolare riguardo alla fisica, all’astronomia e alle scienze naturali. Ad Alexander von Humboldt si deve l’inserimento negli studi geografici delle isoterme, ovvero la correlazione fra la diminuzione della temperatura e il crescere dell’altezza; inoltre fu proprio il geografo tedesco a valorizzare l’uso del barometro per misurare l’altitudine. Scoprì ancora le variazioni d’intensità del campo magnetico terrestre con la latitudine e viene considerato, fra gli altri, anche il fondatore della geografia botanica. La grande differenza fra Humboldt e i precedenti geografi consiste nel fatto che fu in grado di correlare i diversi fenomeni e argomenti geografici ad altre discipline come la fisica o la sociologia e questo è un aspetto tutt’ora fondamentale per un buono studio accademico geografico. Alexander von Humboldt morì a Berlino nel 1859 all’età di 89, proprio mentre si apprestava a scrivere l’ultimo tomo del Kosmos, che verrà completato e redatto grazie alle sue accurate note bibliografiche. Humboldt fu anche un insigne linguista.

Carl Ritter è stato uno studioso di geografia totalmente diverso dal suo contemporaneo Humboldt: infatti pur avendo anch’egli effettuato numerosi viaggi specialmente in Italia e sulle Alpi, fu un geografo che si dedicò più alla teoria che alla pratica. È’ per questo che la produzione libraria enciclopedica di Ritter è stata molto più prolifica rispetto a quella del suo collega Humboldt. Egli diede alla propria ricerca uno stampo fortemente umanistico. Fu il primo studioso geografo a diventare professore di un corso di Geografia all’università di Berlino nel 1820 e dal 1821 fu direttore della Società geografica berlinese di cui era cofondatore. Le sue opere principali sono due: Die Erdkunde im Verhaltniss zur Natur und zur Geschichte des Menschen e la Erkunde (geografia). Quest’ultima opera fu quella che determinò un profondo mutamento a livello enciclopedico anche se la sua opera rimase incompiuta: era infatti un’opera monumentale (19 volumi con 21 tomi e più di 30.000 pagine) pubblicata a Berlino dal 1822 fino al 1859 dove descrisse minuziosamente l’Asia e l’Africa. Quest’opera ritteriana è tutt’oggi molto poco conosciuta al di fuori delle ristrette cerchie tedesche in quanto è stata tradotta in poche lingue e con poche edizioni (mai in italiano) e appare di difficile lettura e spesso oscura; senz’altro Ritter fu influenzato dal pensiero storicista di Herder, dalla pedagogia di Johann H. Pestalozzi e dai principi generali del luteranesimo. Quest’ultimo punto porterà Ritter a parlare della teleologia o principio di finalità, che Ritter intravedeva nella predestinazione dei popoli e dei paesi. Ritter nell’opera intitolata Vorlesungen über allgemeine Erdkunde (1852), afferma che la teleologia cerca di rispondere all’esigenza di studiare la saggezza del creatore nelle opere della natura e di comprendere lo scopo finale della creazione: lo studio della Terra in ciò è importante perché non è solo il luogo in cui la divina natura si manifesta, ma anche perché è il luogo dove dimora il genere umano. Carl Ritter si definisce uno dei fondatori della geografia scientifica vista intesa come lo studio teorico e filosofico fra natura e uomo: infatti, afferma nell’introduzione alla Erdkunde, che l’influenza della natura sui popoli è maggiore di quella degli singoli uomini, perché si tratta di una massa che agisce su un’altra massa. Tuttavia la natura, al contrario del popolo, agisce in maniera progressiva e la sua influenza in genere è più profonda di quanto sembri. È dunque Ritter un geografo filosofo e storico? Potremmo rispondere affermativamente a questa domanda. Egli studia come detto in modo analitico e teorico tutte le cause della natura e di come essa agisce sull’uomo. Affermerà Ritter che l’influenza della natura sullo sviluppo dei popoli diminuisce di pari passo con l’evoluzione della civiltà, per cui i rapporti di stampo deterministico (vedi bibliografia essenziale) non rimangono uguali nel tempo. Ritter fu un geografo dunque che a differenza di Humboldt riuscì a sottolineare in maniera più compiuta l’eterogeneità dei fenomeni di cui si interessa la geografia e, tuttavia, come ci dice la critica successiva, la sua descrizione dell’Asia e dell’Africa appare arida e noiosa. D’altronde Ritter nei due continenti non ebbe modo (o probabilmente interesse) di andarci: questo rende la sua opera principale, l’Erdkunde, non così importante come potrebbe sembrare, e fornisce anche una ragione anche perché non sia stata tradotta nei vari stati europei.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Bartaletti F., Geografia Teoria e prassi, Bollati Beringhieri, Torino, 2006

http://it.wikipedia.org/wiki/Aim%C3%A9_Bonpland

http://www.openfisica.com/fisica_ipertesto/openfisica4/principio_isoterme.php

http://geography.about.com/od/historyofgeography/a/vonhumboldt.htm

http://www.treccani.it/enciclopedia/carl-ritter/

http://geography.about.com/od/historyofgeography/a/carlritter.htm

http://www.vialattea.net/esperti/php/risposta.php?num=13271 riguardo la teleologia

http://www.sapere.it/enciclopedia/determinismo.html per quanto concerne il determinismo geografico

 

 

Lezione (hegeliana) di geografia

Quando mi misi a pensare all’argomento per la tesi di laurea – prima di focalizzare la mia attenzione su Rousseau, i selvaggi e l’antropologia – sottoposi a un docente germanofilo della cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea dell’Università Statale di Milano, l’idea di vederci chiaro sul rapporto tra geografia e storia nella filosofia hegeliana. Un argomento non semplice, poco studiato in Italia, e che dunque avrebbe richiesto una buona conoscenza della lingua tedesca, ostacolo per me all’epoca insormontabile. Tra l’altro avrei dovuto leggermi alcuni saggi di geografi e storici tedeschi a cavallo tra ‘700 e ‘800 (tra cui quelli di un certo Ritter, geografo spesso citato da Hegel), che se andava bene erano stati tradotti in francese. Mi sarebbe poi piaciuto tirar dentro Johann Gottfried Herder, che aveva scritto due opere splendide dedicate alla filosofia della storia. Ma poiché ero già abbondantemente fuori corso, finii per lasciar perdere. (Forse giocava anche un riflesso condizionato della mia passione di bambino per tutto ciò che aveva a che fare con la geografia e, soprattutto, con le carte geografiche; senza ancora sospettare che la cartografia – e la crisi della ragione cartografica di cui parla ad esempio il geografo Franco Farinelli –  è cosa serissima, tanto più in epoca globale).

Hegel, nella sua filosofia della storia, aveva costruito una vera e propria cartografia e mappa dello sviluppo spirituale, generalmente semplificato nell’arco che da Oriente va ad Occidente – l’alba e il tramonto-compimento dello spirito, in chiave chiaramente eurocentrica. Anche se poi tale spirito finiva per sostare un po’ troppo nelle terre germaniche e prussiane, prima di (forse e comunque con poco entusiasmo da parte del filosofo tedesco) intraprendere la traversata dell’oceano e migrare in terra americana. Pur trincerandosi dietro la frase che “il filosofo non s’intende di profezie”, Hegel deve comunque ammettere a denti stretti che l’America sarà il paese dell’avvenire. Non so che cosa avrebbe obiettato se gli si fosse fatto presente che, proprio perché la filosofia non produce profezie, non si poteva escludere che la circolarità dello spirito avrebbe finito per doppiare lo stretto di Bering e ripartire così dal suo luminoso inizio – e che dopo il secolo americano ci sarebbe stato il secolo cinese, ad onta del fatto che per i cinesi “il mare è solo il cessare della terra”.

Ad ogni modo lo spirito – la cultura umana – ha sempre una precisa collocazione geografica: Hegel la definisce nelle sue Lezioni “situazione di natura, ossia la base geografica della storia del mondo”. I popoli, per esser tali, devono avere una loro “configurazione naturale […] da cui si sprigiona lo spirito”. Questo, dunque, si impasta con il clima e si innesta sul materico-naturale, anche se suo compito essenziale è di elevarsi da questa sua naturalità e fisicità, per riconoscersi in qualità di libero spirito.

Ciò non toglie nulla alla sua valenza fortemente geografica (e dunque storica): Hegel riconosce ad esempio, sulla scorta degli studi settecenteschi, in particolare di Montesquieu, che il clima è un elemento determinante. In particolare, solo la zona temperata può essere a suo giudizio il vero teatro della storia del mondo; mentre il mare ricopre una funzione essenziale in termini di superamento del limite, pericolosità, coraggio, scoperta, astuzia: “nel mare è implicita quella specialissima tendenza verso l’esterno, che manca alla vita asiatica: il procedere della vita oltre sé medesima”. Insomma, non c’è in Hegel una filosofia della storia che non sia contemporaneamente una filosofia della geografia, una geofilosofia o una geopolitica.(Oggi, a distanza di ben due secoli, si tratta di una branca nuova ed interessante della filosofia: per averne un’idea basta consultare il Sito italiano di Geofilosofia o dare un’occhiata alle 10 tesi di Geofilosofia di Caterina Resta)..

Questa lunga (e forse poco interessante) premessa, per dire che la lezione di geografia è essenziale, e che forse bisognerebbe tornare a studiarla con più attenzione, a prescindere dalla facilità con cui wikipedia o google map ci fiondano sul globo in un batter di clic.

La geografia è cosa serissima; i numeri della demografia sono pesantissimi; lo spazio, anche se apparentemente annullato dai media e dalla rete, è un’estensione imprescindibile; i colori delle mappe geografiche, gli istogrammi e i dati statistici nascondono sotto la loro patina brillante guerre e conflitti, corpi e macerie, lavoro e fatica, vita e speranze insieme ad un bel po’ di promesse tradite.

Faccio solo tre esempi, cercando di applicare quanto ho detto finora a quel che va accadendo in questi mesi in giro per il pianeta:
a) sui numeri, mi pare che la prussiana (e forse un po’ hegeliana) Angela Merkel abbia detto una cosa geofilosofica ovvia, su cui però non molti stanno ragionando: l’Unione europea incide in termini demografici solo per il 7% della popolazione mondiale (il 10% se allarghiamo all’intera Europa), mentre l’Italia non arriva nemmeno all’1%. Quando si usa la categoria di potenza mondiale non possiamo non ragionare anche su questi dati;
b) che cosa vuol dire oggi essere europei od occidentali? perché mai dovrei sentirmi più europeo di quanto non mi senta mediterraneo o ugrofinnico o micronesiano? E poi: insulare  – continentale – fluviale – lacustre – marino – montano – campagnolo – metropolitano – centrale – periferico – nomade – migrante… potrei continuare a lungo con questa cartografia geoantropologica che nasconde e svela ad un tempo il destino di miriadi di esseri umani, insieme alle loro collocazioni biografiche ed esistenziali, difficilmente rappresentabili e riducibili a quelle mappe e a quei numeri;
c) ma la lezione più drammatica ed istantanea di geografia, di geofilosofia e di geopolitica, ce la dà – tanto per fare un esempio paradigmatico – la Siria di quest’ultimo anno: gli abitanti di quella nazione, con quei confini, quella densità, quella superficie, quella conformazione orografica ed idrografica, quel clima e quel fuso orario, quelle religioni e lingue ed etnie – e con quelle risorse (o non risorse) – ebbene loro sì che stanno scrivendo la lezione di geografia con il proprio sangue.

  1. Ogni cultura umana è legata alla terra, alla natura in cui si sviluppa, sembra essere vero, se pensiamo anche soltanto all’influenza sulla costituzione culturale non solo del clima, ma anche del cibo autoctono e delle abitudini, degli usi e costumi ad esso connesse. Anche se ormai mangiamo cibi esotici, e persino il grano proviene in gran parte da paesi d’oltremare. E senza contare l’oggetto di fede che è ormai diventata la fede universale, il danaro e i flussi del capitale finanziario, quanto mai liquido, per il quale non si danno confini.

In“Terra e il Mare” Carl Schmitt, sosteneva che la supremazia europea era sulla via del tramonto, e con essa il diritto e lo statalismo europeo. la storia del mondo è la storia delle potenze marittime contro le potenze terrestri, e viceversa.

Per Schmitt: “Il Mare è innanzitutto la negazione della differenza, conosce solo l’uniformità, mentre nella Terra si dà sempre la variazione, la difformità. Il Mare non ha confini se non le masse continentali ai suoi estremi. La Terra è sempre solcata dai confini tracciati dall’uomo, oltre alle barriere naturali. Il Mare è mobilità permanente, flusso privo di un centro stabile. È caos e dissoluzione. La Terra è costanza, stabilità, gravità. È gerarchia e ordine. Il Mare è il Capitale, la Terra è il Lavoro. Eccetera.

Allo stesso modo la fluida uniformità marittima genera il dio-denaro, ciò tramite cui ogni merce può essere scambiata ma che non è a sua volta una merce. L’era moderna in effetti è l’era dei flussi: flussi di informazioni, flussi di capitali, flussi di merci, flussi di individui. Il monoteismo del mercato (capitalistico e finanziario) nasce dal Mare.

Concretamente e storicamente, il Mare sarebbe incarnato dalle talassocrazie anglosassoni, la Terra dalla tellurocrazia continentale eurasiatica.
E l’America sarebbe in tutto e per tutto l’erede geopolitico e geofilosofico dell’Inghilterra. In essa lo spirito mercantile, l’istinto predatorio e l’individualismo borghese raggiungono livelli deliranti. Il titanismo predatore, piratesco, mercantile tipico delle talassocrazie è animato da una brama di dominio inestinguibile che non può essere limitata da alcuna regola.

L’istinto di predone dei mari che caratterizza il popolo insulare (Inghilterra e America) intende in modo tutto diverso la vita economica. Qui si tratta di lotta e di bottino, anziché di politica, come sulla terra.Nell’isola, quindi, il capitalista sostituisce il politico ed il corsaro prende il posto del soldato; solo sulla Terra l’esistenza dell’uomo è immediatamente politica.”

Comunque ormai anche la Cina ha “attraversato la grande acqua”, ed è un oceano, a confronto del piccolo stagno che è l’Europa.

 

Geografia e filosofia. Materiali di lavoro

 

di Marcello Tanca         Franco Angeli, 2013

Nei nostri ricordi scolastici geografia e filosofia rappresentano mondi separati e lontani, che poco o nulla hanno a che fare l’uno con l’altro. Questa spartizione ha dietro di sé una lunga storia – che se non è lunghissima, è ancora viva e presente nella cultura contemporanea. Nonostante lo “spatial turn” registratosi nelle scienze sociali negli ultimi anni, la storia dei prestiti e delle contaminazioni tra discorso filosofico e discorso geografico attende ancora, in larga parte, di essere scritta. Questo lavoro parte da una precisa ipotesi interpretativa: l’esplorazione conoscitiva e materiale della Terra, il tratto che più di ogni altro caratterizza l’epoca moderna e senza il quale non si darebbe globalizzazione, sarebbe stata impensabile senza le molteplici connessioni, interferenze e sovrapposizioni tra geografia e filosofia. Si tratta allora di ripensare il rapporto tra quelli che sono a tutti gli effetti dei dispositivi di produzione di immagini del mondo e di riportare alla luce alcune delle tappe più significative di un percorso comune così poco conosciuto: da Kant a Foucault, passando per Hegel, Marx e Heidegger.

Recensione (di Dino Gavinelli):

Geografia e Filosofia, due discipline ben delineate nell’immaginario collettivo come distanti e ben separate tra loro e che invece Marcello Tanca riavvicina per evidenziarne codici, discorsi, linguaggi, saperi, percorsi e evoluzioni di volta in volta vicini, mescolati, complementari. La sua analisi si inserisce dunque sul solco dei non numerosi lavori che hanno indagato sugli incontri, gli scontri, le mediazioni, le sovrapposizioni e le interferenze tra geografia e filosofia. Nel lavoro monografico si spazia da quell’Illuminismo settecentesco, tutto teso a trasporre l’ordine razionale della scienza sul piano della storia e della geografia, alla filosofia novecentesca di Foucault che, con la sua microfisica del potere e le sue frequenti preoccupazioni per la dimensione spaziale, non lascia certamente indifferenti i geografi contemporanei. Tra questi estremi temporali Marcello Tanca si muove agevolmente per raccogliere, ordinare e presentarci i suoi “materiali di lavoro”: Kant e la “geografia fisica” (capitolo 1); Hegel e la “geografia dello spirito” (capitolo 2); Marx e la geografia (capitolo 3); il paesaggio come categoria logica della descrizione geografica e della riflessione filosofica (capitolo 4); abitare il mondo: Heidegger, Dardel, Le Lannou (capitolo 5); Foucault: per una geografia del potere (capitolo 6). Tra questi materiali ritroviamo anche testi che, in alcuni casi, sono tradotti per la prima volta in italiano per recuperare, come ben dice l’autore nella sua Introduzione, la dimensione storica del sapere geografico e risalire, con metodo filologico, alle origini di modelli ontologici e di precise figure teoriche e geografiche (il paesaggio, l’abitare).

Nel primo capitolo, dedicato a Kant e alla sua geografia fisica, l’autore ci porta al centro delle riflessioni del filosofo di Königsberg sulla storia umana, sull’operatività dei gruppi sociali sulla scena del mondo con il fine di creare un ordinamento cosmopolitico, tipicamente settecentesco. In tale contesto la geografia fisica e quella umana acquisiscono una loro grande utilità perché svolgono un’importante funzione pratica, popolare e di orientamento. Attraverso la geografia gli individui sono in grado di avere non solo uno sguardo regionale ma anche uno d’insieme sul pianeta per poter così indagare e conoscere i suoi molteplici paesaggi.

Nel secondo capitolo domina la figura di Hegel che, nel suo sistema filosofico tutto teso a riconoscere il presente (quello tra la fine del Settecento egli inizi dell’Ottocento) nella sua positività e a contrastare il moralismo di chi contrappone l’ideale astratto al reale, lascia un certo spazio alla geografia. La filosofia della storia di Hegel ci presenta infatti il grande scenario della vita degli stati,  espressione dello spirito di quei popoli che, nelle diverse epoche, hanno non solo rappresentato un momento significativo del progresso complessivo dello spirito umano ma disegnato anche luoghi specifici. La dimensione evolutiva è dunque selettiva non solo nel tempo ma anche nello spazio, come il nostro autore ben evidenzia in diversi punti della sua lettura geografica dell’opera hegeliana.

Nel terzo capitolo viene proposta una rilettura del pensiero di Karl Marx in chiave geografica. Questa rilettura consente di richiamare succintamente le tappe principale del rapporto tra il filosofo tedesco e la geografia. All’interno del suo complesso impianto speculativo e espositivo, conosciuto ai più per i suoi aspetti filosofici, politici ed economici perché incentrato sull’unità del processo di produzione e di circolazione del capitale, Marx ha inserito infatti ampie parti documentarie, storiche, ecologiche e geografiche. La sua teoria critica della globalizzazione, che Tanca interpreta giustamente come evidente superamento dell’influsso hegeliano, è molto utile al geografo alla ricerca di “preziosi strumenti di lettura dei meccanismi di esclusione sociospaziale e delle contraddizioni ecologiche e territoriali del sistema-globo”. L’attualità del pensiero di Marx rispetto alla presente globalizzazione capitalistica che plasma ambienti, culture, economie, società, territori e paesaggi è sorprendente.

Nel quarto capitolo è il paesaggio, come categoria logica della descrizione geografica e della riflessione filosofica, a imporsi all’attenzione del lettore. Il concetto polisemico di paesaggio, elemento paradigmatico della complessità attuale del mondo, con i suoi molti valori estetici, romantici, patrimoniali, scientifici, soggettivi, per citarne solo alcuni, consente di richiamare termini quali “mimesis”, “graphikos”, “pictura”, di ricordare Humboldt e i suoi schemi progettuali di acuto geografo, di inquadrare i termini di un Vidal de la Blache ermeneuta e di riflettere su ricchi e variegati percorsi geofilosofici ottocenteschi e novecenteschi. Con queste analisi il paesaggio si dimostra in tutta la sua “plasticità” e offre numerosi spunti all’autore che, a ragione, avversa l’idea dell’immutabilità dei caratteri naturali, culturali e paesaggistici. Proprio i paesaggi della contemporaneità, trattati nell’ultimo paragrafo del capitolo, ci ricordano che il discorso rimane aperto e in divenire.

Nel quinto capitolo è il popolamento del pianeta e le modalità dell’abitare ad essere trattato da tre punti di vista filosofici e geografici di spessore: Heidegger, Dardel e Le Lannou. Il percorso speculativo di Heidegger, che nel problema dell’essere ha posto la sua maggiore attenzione, non si limita agli aspetti metafisici ma implica anche una dimensione spaziale polisemica nella quale i luoghi e gli ambienti sono intimamente legati alle grandi questioni filosofiche e si prestano agli  approfondimenti delle successive correnti fenomenologiche, umanistiche e esistenziali presenti in filosofia e in geografia. Anche Dardel indaga discretamente sulla natura della realtà geografica, e in particolare dell’abitare, nel suo ormai celebre “L’uomo e la terra” così ricco di richiami a Heidegger e, più in generale, alla filosofia. Negli stessi anni anche Le Lannou si interessa alla geografia come scienza dell’uomo-abitante e anticipa la sua riflessione critica sulla pianificazione territoriale che troverà ampio spazio nel dibattito culturale francese  degli ultimi decenni del XX secolo. I tre punti di vista, pur tra loro diversi, mettono in campo metodi e strumenti della filosofia e della geografia per sottolineare che l’azione dell’abitare è sempre complessa, si presta a tante letture ed è una questione che riguarda tutti noi.

Nel sesto capitolo l’analisi dell’opera del filosofo e saggista francese Foucault consente al nostro autore di rimettere in questione la centralità del soggetto, della storia e dello spazio intesi come esito positivo della progettualità umana secondo un tragitto lineare e continuo. Al contrario, il divenire storico e geografico passano attraverso brusche fratture, tra loro spesso contraddittorie o eterotopiche, che possono essere descritte e registrate ma non spiegate. In questo senso Foucault fornisce un contributo notevole alla geografia postmoderna pur non avendo elaborato un’organica teoria generale dello spazio. Ma è soprattutto nell’analisi dei rapporti di potere che egli influenza il pensiero geografico sul presente e alimenta decise opposizioni al suo punto di vista critico. Il potere è infatti inteso non come istanza centralizzante e gerarchizzante ma piuttosto come insieme plurimo, reticolare e circolare di relazioni. Verso di esso possono strutturarsi forme di resistenza che rimettono in causa le pratiche discorsive e le strategie dominanti e alimentano gli studi di geopolitica.

Il testo, denso nei contenuti e foriero di stimoli, è arricchito da una Prefazione di Franco Farinelli. In essa si ricorda il lungo cammino compiuto dalla geografia e si sottolinea come questa disciplina abbia preso ampio spunto dapprima dalla filosofia greca delle origini. Le successive analisi filosofiche hanno poi consentito, più o meno direttamente, alla geografia di rendersi maggiormente articolata, variegata e complessa a riprova dei proficui contatti tra le due discipline.

L’esplorazione conoscitiva e materiale della Terra, il tratto che più caratterizza l’epoca moderna e senza il quale non si darebbe globalizzazione, sarebbe stata impensabile senza le molteplici connessioni, interferenze e sovrapposizioni tra geografia e filosofia. Il testo vuole ripercorrere alcune delle tappe più significative di un percorso comune così poco conosciuto e di cui si è minimizzata l’importanza: da Kant a Foucault, da Hegel a Marx e Heidegger.

 

Bollettino della Società Geografica Italiana Riflessioni sul postmodernismo (di M.Marconi)…

Nei nostri ricordi scolastici geografia e filosofia rappresentano mondi separati e lontani, che poco o nulla hanno a che fare l’uno con l’altro. La geografia ci riporta alle carte appese alle pareti delle aule e ad elenchi interminabili come quello degli affluenti di destra del Po. La filosofia al proprio tempo appreso col pensiero, al Cogito e agli imperativi categorici. Questa spartizione ha dietro di sé una lunga storia – che se non è lunghissima, è ancora viva e presente nella cultura contemporanea.

Nonostante lo spatial turn registratosi nelle scienze sociali negli ultimi anni, la storia dei prestiti e delle contaminazioni tra discorso geografico e discorso filosofico attende ancora, in larga parte, di essere scritta. La responsabilità va ripartita in parti uguali tra geografi e filosofi. I primi hanno teorizzato poco o nulla e guardato come pericolose deviazione quei tentativi di elaborare un’immagine della Terra che non fosse semplicemente il mero calco della rappresentazione cartografica (sono emblematici, da questo punto di vista, i casi di Reclus e Dardel). I secondi si sono generalmente disinteressati ad una disciplina che sembrava offrire pochi appigli alla riflessione critica a causa del suo statuto epistemologico ambiguo e incerto, a metà strada tra il fisico e l’umano, dunque di difficile collocazione in un quadro teorico dominato da dicotomie come quella tra “natura” e “spirito”.

Questo lavoro parte da una precisa ipotesi interpretativa: l’esplorazione conoscitiva e materiale della Terra, l’impresa che ha cambiato per sempre la faccia del pianeta ma alla quale né i geografi né i filosofi hanno preso parte direttamente, non sarebbe stata possibile senza l’apporto di quegli straordinari codici di scrittura del mondo che sono geografia e filosofia. Si tratta allora di riportare alla luce, attraverso uno scavo archeologico, alcune delle tappe più significative di un percorso comune così poco conosciuto e di cui oggi è più che mai urgente scrivere la storia: da Kant a Foucault, passando per Hegel, Marx e Heidegger.

 

Spazio e geografia in Hegel:
la dialettica terra-mare

Nella filosofia hegeliana troviamo sempre la natura definita inizialmente, per la coscienza ordinaria, come l’elemento immediato, esteriore, molteplice ed estrinseco, un Proteo che ci troviamo di fronte senza averlo prodotto17, caratterizzato da rapporti di giustapposizione spaziale e successione temporale18. Questa accezione di natura è contrapposta allo spirito umano inteso da Hegel sempre in termini di razionalità come risultato, ritorno in se stessi, farsi per mezzo della propria attività, in modo autonomo e libero, autodeterminato.

Quale significato ha allora la sensibilità dell’uomo, il suo aspetto biologico, rispetto alla sua natura razionale e alla natura esterna? Sicuramente, per Hegel, l’uomo si dice sensibile in quanto non lo si dice libero, ma il nesso che lega alla natura esterna il carattere dell’uomo (termine con cui Hegel indica forme specifiche di indole, tendenza ed attitudine interiori) non è un rapporto di meccanica dipendenza causale, come se la determinatezza naturale del suolo o del clima avesse come effetto la formazione del carattere di un popolo, riempiendo di contenuto attitudini di per sé vuote ed astratte. Hegel è fortemente critico rispetto a supposti effetti determinanti e specifici del clima, per lui un clima aspro e duro non avrebbe alcuna relazione causale o analogica significativa con destini di eroi e/o suicidi:

Si parla spessissimo del mite cielo ionico, che avrebbe prodotto Omero. Certo esso ha molto contribuito alla grazia della poesia omerica. Ma la costa  dell’Asia Minore è stata sempre la stessa, e lo è ancora: eppure dal popolo ionico non è sorto che un Omero19.

L’influenza del clima è per Hegel più generale, e (specialmente negli estremi del torrido e del gelo) riguarda la sua potenza e la sua forza di oppressione sulla liberazione delle forze spirituali umane. Tale liberazione per Hegel non può che iniziare a livello della sensibilità stessa dell’uomo, nel suo nesso con la natura esterna, con l’evidente richiamo alla tesi aristotelica secondo cui l’uomo si rivolge all’universale solo quando non è depresso e ottuso dai bisogni, ma è in grado di distaccarsi e ritrarsi dalla propria immersione nel mondo esterno. Da questa prima serie di considerazioni, che senza dubbio privilegiano le terre temperate come terre di sviluppo della libertà 20, emerge che è il rapporto con la natura con ciò che è fuori di noi, non l’introspezione, il rapporto con noi stessi, la prima posizione a partire dalla quale l’uomo è in grado di riflettere in sé e acquistare libertà, e che è nel rapporto con la differenza da sé, e non nelle profondità della individualità, che l’uomo trova per Hegel il suo originario punto di partenza per muovere verso il sapere di sé. Inoltre, va notato che emerge anche come la separazione dalla natura, il distacco da un rapporto semplicemente immediato con essa, sia la prima condizione per separare da sé bisogni e pulsioni, l’irretimento nei rapporti primari di possesso e dipendenza: con le cose, con la terra, con i legami famigliari (“la voce del sangue”), e per sviluppare una cultura spirituale21.

Si vede allora come, per Hegel, la maniera naturale di essere dell’uomo sia tanto il suo essere sensibile e non libero, immerso nell’esteriorità, sia il suo stesso ritrarsi dalla immediatezza di tale immersione, se la natura esterna non glielo impedisce:

Il gelo che serra i Lapponi o il calore torrido dell’Africa sono forze troppo potenti a petto dell’uomo perché lo spirito possa acquistare fra esse libero movimento e giungere a quella sua ricchezza, che è necessaria perché una civiltà assuma forma reale. In quelle zone il bisogno non può esser mai allontanato: l’uomo è perpetuamente obbligato a rivolgere la sua attenzione alla natura.22

In altre parole, il clima è determinante solo nella misura in cui la sua potenza impedisce all’uomo di ritornare a sé stesso e in sé stesso. Circoscrivere alla  zona temperata il fiorire della civiltà, si badi bene, non è stato affatto determinato da Hegel dallo stanziamento di certe popolazioni geneticamente superiori a scapito di altre, non è basato su argomenti che oggi definiremo “razzisti”. Il primato, sotto l’aspetto spirituale, dell’Europeo e della razza caucasica (su criteri osteologici e non sul colore della pelle come in Kant)23 che troviamo ad esempio nella sua Filosofia dello spirito soggettivo è affermato solo nei mutabili termini della storia e della antropologia culturale, non su immutabili fondamenti biologici ed ereditari: «la differenza delle razze umane è ancora una differenza naturale, cioè una differenza che riguarda anzitutto l’anima naturale. Come tale, essa è legata alle differenze geografiche del suolo sul quale gli uomini si riuniscono in grandi masse 24».

Da qui l’importanza, inedita nel pensiero filosofico, delle basi geografiche della storia del mondo, e in particolare del Mediterraneo come espressione del rapporto tra mare e terra, vista come l’opposizione più universale della determinazione naturale e di maggiore significato storico. Hegel considera infatti quanto il movimento concettuale, oggetto e compito della considerazione filosofica, si ritrovi nelle considerazioni delle diversità fra i continenti, per sottrarre tali differenze dalla casualità e poterne fare discorso razionale.

Ricordo brevemente come Hegel codifica i momenti necessari della attività logico-reale del pensiero25. Il pensiero come attività formale si muove a partire dalla intuizione immediata della sensazione, dalla apprensione della individualità concreta. La nega intellettivamente nella unità di una universalità indifferenziata e compatta, che sussume quella singolarità insieme al molteplice che gli è omogeneo. Ma il pensiero non si ferma a questa attività di isolamento e separazione di un universale astratto, come un che di ideale saldamente contrapposto al reale singolare della sensazione. L’antitesi prodotta dal momento intellettuale non fissa che apparentemente degli estremi indipendenti e autosussistenti, la loro verità speculativa o razionale si riconosce quando ogni determinazione isolata, ogni essere finito, si mostra, dialetticamente, in relazione con ciò che esclude, si rovescia nel suo opposto. In altre parole, ogni determinata identità con sé, in quanto non è mai un termine fisso e ultimo ma è soggetta a mutamento e divenire, contiene anche la propria negazione, contraddicendo così la propria autosufficienza, che si rivela dunque una mera apparenza. I due opposti estremi della universalità e della singolarità, ognuno passato nell’altro, risultano così relativi l’uno all’altro e compenetrati sillogisticamente nel medio della loro unità: una unità non iniziale, ma riflessa in sé, prodotta dal pensiero.

Il modo di pensare dialettico mostra dunque in generale la finitezza delle determinazioni unilaterali dell’intelletto, esponendole per quello che sono, tali che si rovesciano in quel loro opposto da cui avevano astratto per circoscrivere e fissare la propria identità esclusiva, e così si superano. Da qui la dialettica come «immanente oltrepassare», come finito che non viene limitato dal di fuori ma che si contraddice in se stesso, passa nel suo contrario mediante se stesso. Solo per questo aspetto di anima motrice la dialettica è per Hegel il principio mediante cui il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, e il suo è un risultato positivo, una unità mediata di determinazioni distinte 26.

Hegel ha così gli strumenti filosofici per pensare il “nesso immanente” tra le grandi suddivisioni continentali, come porzioni limitate e finite, del nostro pianeta, mostrando come sia possibile razionalmente (dialetticamente) “dedurre” l’Africa come unità indifferenziata, universale massa continentale compatta, l’Asia come suo opposto, per gli altipiani e le grandi valli irrigate da ampi fiumi che spezzano tale uniformità, e infine l’Europa, dove montagna e pianura non sono giustapposte, ma si compenetrano costantemente.

L’Europa, in questa considerazione filosofica, per Hegel «rivela l’unità di quella unità indifferenziata dell’Africa e dell’opposizione non mediata dell’Asia. Questi tre continenti sono, non separati, ma uniti dal Mediterraneo,  attorno al quale si stendono» 27. Analogamente, le differenze fondamentali dello spazio naturale vengono pensate secondo la scansione della compattezza indifferente e chiusa, informe dell’altopiano con le sue grandi steppe e pianure, della massa montana rotta da corsi di acqua che si scavano il passaggio verso il mare nella transizione della pianura fluviale, mentre il terzo elemento è la zona costiera, la terra che è a contatto con il mare.

Nella comprensione concettuale (necessaria) delle tre differenze fondamentali dal punto di vista della terra, i corsi di acqua giocano un ruolo fondamentale. Nella terra abitata, lo spazio, la nostra prima intuizione dell’esteriorità che corrisponde alla categoria della quantità 28, non vale più unicamente come giustapposizione indifferente ed estrinseca, ma è ambiente, la mera esteriorità quantitativa viene subordinata a rapporti vitali più complessi: «il sussistere in modo reciprocamente estrinseco della spazialità non ha alcuna verità per  l’anima» 29. La fertilità del terreno porta allo sviluppo dell’agricoltura e quindi alla regolamentazione del ciclo di soddisfacimento dei bisogni primari su ciclici tempi stagionali, la sedentarietà e il possesso prolungato causano il sorgere dei diritti sociali (proprietà, diritto, classi), rapporti collettivi che unificano esistenze che prima erano nomadi o meramente singole. In questo schema geopolitico dell’avanzare della cultura e della civiltà dall’altipiano interno al mare, l’acqua, per Hegel, ha dunque sempre il valore di ciò che unisce, mai di ciò che separa:

in tempi recenti, in cui si è voluto sostenere che gli stati debbono essere necessariamente divisi da elementi naturali, ci si è abituati a considerare l’acqua come il principio separatore. Contro questa opinione è invece di importanza essenziale il dire che nulla riunisce quanto l’acqua, chè i paesi di cultura non sono altro che bacini fluviali. L’acqua è infatti ciò che congiunge; sono i monti che separano. Quando i paesi sono separati da monti, lo sono maggiormente che quando son divisi da un fiume o persino dal mare 30.

Hegel si riferisce probabilmente al ruolo del Reno e dell’Elba durante le campagne napoleoniche in Germania nel primo decennio dell’800: un «falso principio » dei Francesi far valere che i fiumi siano confini naturali, come nel caso della Confederazione del Reno (Rheinbund) seguita all’abolizione del Sacro Romano Impero (1806), da cui erano escluse Prussia ed Austria. Ma mi piace pensare che per una filosofia hegeliana degli spazi naturali e umani  egli fosse portato a sottolineare la comunicazione di popoli, costumi e caratteri attraverso le vie di acqua anche perché attento a registrare un nuovo fenomeno del suo tempo: il flusso turistico che venne a svilupparsi sul Reno dopo la sconfitta di Napoleone del 1815, in quella Confederazione germanica (Deutscher Bund) di cui facevano di nuovo parte Regno di Prussia e Impero austriaco, con l’introduzione della navigazione a vapore nel 1817 (da Bonn fino a Coblenza) e nel 1827 (fino a Magonza) grazie alla Compagnia prussiano-renana di battelli a vapore. 31

Può essere interessante notare come anche oggi, pur in un panorama storico profondamente mutato, l’approccio di Hegel conservi il suo valore: basti pensare a come un sociologo come Franco Cassano guarda all’Adriatico, quando, tra tracce passate di guerre recenti e proiezioni di future integrazioni comunitarie, scrive che attraversarlo:

significa avvicinare popoli dello stesso continente, completare l’Europa, ma anche cambiarla mutando l’equilibrio delle sue voci […] l’Adriatico è un invito a fare un salto, un salto possibile e non metafisico, un invito a guardare lontano, ma non troppo. L’Adriatico non chiede di essere angeli, ma solo gabbiani 32.

Nell’ottica di Hegel, dunque, non tanto la corrispondenza tra terra aspra e composita, stretta tra mare e altipiano, e i popoli e le lingue diverse, sarebbero oggetto di discorso filosofico, quanto il contatto tra terra e mare, l’aspetto della comunicazione con il mare e i modi in cui la costa sviluppa le sue relazioni con esso, attraverso i commerci e la navigazione, come poi riprenderà Carl Schmitt nel suo Land und Meer, sempre in termini di reinterpretazione della storia universale, attraverso però il conflitto intrinseco, nella rivoluzione spaziale globale scaturita dalla scoperta del nuovo mondo, tra potenze di terra e di mare 33. La zona costiera sembra invece unificare per Hegel la saldezza dell’aspetto continentale, del legame con la terra che fissa l’uomo al suolo, restringendone la libertà nel complesso dei rapporti di proprietà, lavoro, bisogno, e l’aspetto del superamento del limite.

Scrive Hegel che il ‘senso’ del mare come di qualcosa che porti oltre la limitatezza della terra manca all’Asia, nonostante che la Cina confini con il mare, per tali popoli «il mare è solo il cessare della terra». Il condizionamento della natura sulla vita dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo risveglia invece il coraggio e il rischio, la cui anticipazione e decisione di correrlo svincolano l’uomo dalla catena di rapporti con la cose, creando uno scarto interiore che dà all’individuo la autocoscienza di una maggiore libertà. Chi cerca il guadagno, chi lavora per soddisfare i bisogni usando come mezzo il mare e non la terra si mette esistenzialmente in gioco, in modo radicale, accettando di mettere a rischio vita e ricchezze, e come tale conquista un maggiore senso di autonomia e indipendenza del volere.

Il coraggio poi in questo caso sarebbe unito con l’astuzia. In una bella pagina, che riscrive filosoficamente la tipologia poetica di ogni Odìsseo e del suo navigare, come istanza di compenetrazione fra la solidità del suolo e la cedevolezza del fluido, Hegel così si esprime:

Il coraggio di fronte al mare deve quindi essere insieme astuzia, perché ha a che fare con ciò che è astuto, con l’elemento più malsicuro e mendace. Questo infinito piano è assolutamente morbido, non resiste affatto ad alcuna pressione, neanche al soffio: ha l’aria infinitamente innocente, remissiva, amabile, carezzevole, ed è appunto questa cedevolezza che cambia il mare nel più pericoloso e formidabile elemento. A tale insidia e violenza l’uomo […] contrappone solo un semplice pezzo di legno, in cui sale, affidandosi soltanto al suo coraggio e alla sua presenza di spirito; e così passa da ciò che è saldo a qualcosa che non offre punto d’appoggio, conducendo con sé il proprio suolo artificiale. La nave, questo cigno del mare, che con agili e rotondi movimenti solca il piano delle onde o vi traccia cerchi, è uno strumento la cui invenzione fa il più grande onore tanto all’arditezza quanto all’intelligenza dell’uomo 34.

In conclusione, perché il mito di Trieste, come si auspica, continui a vivere non solo di luce riflessa, forse non ci si dovrebbe attardare sul pluralismo culturale asburgico, che è storia remota, ma individuare l’aspetto essenziale, e non transeunte o accidentale, di ciò che ha avuto in quel periodo la possibilità di svilupparsi ed esprimersi, quello che Hegel chiamerebbe l’in sé, la dynamis o potenzialità “costiera” della vita di Trieste. Forse, dopo tutto, basterebbere leggere con altre categorie il nesso tra conformazione geografica e fisionomia culturale, e invece di scrivere di equilibrismi fra altipiano e mare, di strettoie fra frontiere naturali e artificiali, di etnie e lingue giustapposte, pensare in termini di innovazione, arditezza e intelligenza, di comunicazione, cultura e commercio, al mare non come al cessare della terra, ma come al superamento del limite: spazio di unione, contatto, scambio. L’opposizione dialettica tra fissità al suolo, saldezza continentale, e mobilità delle acque, imprevedibilità e accidentalità del rischio, tra agricoltura e navigazione, nella filosofia degli  spazi naturali e umani di Hegel, può offrirci le condizioni di intelligibilità di una Trieste (in teoria) come città potenzialmente capace di integrare, in una medesima esperienza più avanzata, le differenze delle culture di terra e di mare e in questo sta, a mio parere, la sua possibile identità, la sua riducibile differenza “insulare”.

17 Cfr. HEGEL, Enciclopedia, II, cit., p. 80; si veda anche §246,Agg, p. 86.

18 Cfr. HEGEL, Enciclopedia, II, cit., §247, p. 90.

19 HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, I, trad. it. G. Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 209.

20 Cfr. R. M. dAINOTTO, Europe (in Theory), Durham and London, Duke Universty Press, 2007, p. 168, che, senza darne le ragioni, ricostruisce «la trama tracciata dalla vera storia» per Hegel come quella di un «avanzamento climatologico dello spirito da un ‘torrido’ sud ad un nord ‘temperato’».

21 Il passaggio da un rapporto di desiderio (e distruzione egoistica, consumo) con l’oggetto ad un rapporto formativo, il superamento della propria soggettività e dell’oggetto esterno come elevazione, l’esperienza dell’essere-altro come altro Io, che porta al riconoscimento di un essenza comune di tutti gli uomini, sono i temi della fenomenologia dell’autocoscienza (cfr. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, III, Filosofia dello spirito, trad. it. A. Bosi, UTET, Torino, 2005, §§428-430, pp. 270-272).

22 HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., pp. 210-11.

23 Cfr. I. KANT, “Determinazione del concetto di razza umana” [1785], in: Id., Scritti di storia, politica e diritto, [a cura di F. Gonnelli],  Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 87-102.

24 Hegel, Enciclopedia, III, cit., § 393, Aggiunta, p. 124.

25 Quanto segue riassume il contenuto dei §§ 79-82 di HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, I, La Scienza della logica, trad. it. V. Verra, UTET, Torino, 1981, pp. 246-256.

26 HEGEL, Enciclopedia, I, cit., § 81, p. 250.

27 Ci pare interessante notare come le più recenti considerazioni geopolitiche sull’Adriatico, che lo ricollocano nel quadro della fine delle ideologie e dei blocchi contrapposti e alla luce della tesi che la politica mondiale si stia ristrutturando su assi culturali, con la convergenza di paesi affini per civiltà, osservino che esso è l’unico mare del Mediterraneo «dove non semplicemente due, come altrove accade, ma ben tre delle nove civiltà individuate da Huntigton entrano in contatto: l’occidentale, dalla parte italiana e dalla parte opposta sino all’altezza delle bocche di Cattaro;  ’ortodossa, lungo la costa montenegrina; l’islamica, in Albania. A soltanto un altro mare al mondo, il Mar del Giappone, che separa quest’ultimo dalla Corea e dai territori dell’ex Unione Sovietica, si interpone tra altri tre diversi insiemi culturali,  ’ortodosso, il sinnico e il giapponese. Ma nemmeno là il diaframma liquido è così uniforme e sottile come in Adriatico» (F. FARINELLI, L’eccezione adriatica, in “Lettera internazionale”, cit., p. 5).

28 Cfr. HEGEL, Enciclopedia, II, cit., §254, Aggiunta, p. 106.

29 HEGEL, II, cit., § 350, Aggiunta, p. 448.

30 HEGEL, Lezioni di filosofia della storia, cit., pp. 216-7.

31 Nel 1881, nella sua prefazione a una guida turistica del Danubio, per una filosofia hegeliana degli spazi naturali e umani da Passau a Linz, Ferdinand Zoehrer celebra il fiume del futuro, via commerciale più importante fra Oriente e Occidente le cui onde «trasportano continuamente la cultura verso est» (Cfr. Signori, si parte! Come viaggiavamo nella Mitteleuropa 1815-1915, a cura di M. bRESSAN, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2011, p. 161). A Trieste, le linee di navigazione  vapore del LLoyd Austriaco verso l’Oriente, sin dalla prima metà dell’800, verso Istria e Dalmazia (1845), e poi verso le Americhe, sono tutti esempi per cui Hegel fornisce un quadro teorico di riferimento quando sottolinea che fra America ed Europa il contatto è più facile di quanto sia nell’interno dell’Asia o dell’America. 32 Cfr. F. ¢ASSANO, Come I gabbiani. L’Adriatico per completare l’Europa, in: “Lettera internazionale”,cit., p. 11.

33 Cfr. C. sCHMITT, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo [1942], trad. it. G. Gurisatti. Con un saggio di F. Volpi, Adelphi, 2002.

34 HEGEL, Lezioni di filosofia della storia, cit., pp. 219-20.

BIBLIOGRAFIA

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HEGEL G.fi.F., Vorlesungen über die Logik, Berlin 1831. Nachgeschrieben

von Karl Hegel (a cura di U. rAMEIL),

 

 

Geografia

 

La geografia (dal latino geographia, a sua volta dal greco antico: γῆ, “terra” e γραφία, “descrizione, scrittura”) è la scienza che ha per oggetto lo studio, la descrizione e la rappresentazione della Terra nella configurazione della sua superficie e nella estensione e distribuzione dei fenomeni fisici, biologici, umani che la interessano e che, interagendo tra loro, ne modificano continuamente l’aspetto.

La geografia è molto più che la cartografia, cioè lo studio delle mappe, o la topografia. Rispetto ad esse, infatti, la geografia aggiunge l’indagine della dinamica e delle cause della posizione della Terra nello spazio, dei fenomeni che avvengono su di essa e delle sue caratteristiche.

Tra i popoli dell’area circum-mediterranea, i primi ad elaborare un vero concetto di geografia sono stati i Greci, dai quali deriva appunto il nome in uso in Occidente. Eratostene (al quale si deve anche l’introduzione del nome) introdusse l’uso delle coordinate sferiche (latitudine e longitudine) per individuare le località geografiche. Importanti progressi furono poi compiuti da Ipparco di Nicea, che in particolare introdusse l’uso di metodi astronomici per il calcolo delle longitudini.

Il primo geografo romano di cui abbiamo notizie fu Pomponio Mela che scrisse il breve trattato Chorogràphia; poi il greco Strabone (vissuto fra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C.), compose un’imponente Storia (pervenutaci solo in pochi frammenti) ed una non meno importante e completa Geografia, che invece ci è giunta in buone condizioni. L’opera di Strabone è tuttavia qualitativa e non usa le tecniche di geografia matematica che erano state introdotte da Eratostene e Ipparco.

Lo studio della geografia matematica fu ripreso nel II secolo d.C. da Marino di Tiro e, soprattutto, da Claudio Tolomeo, la cui Geografia non solo riporta le coordinate sferiche di 8000 diverse località, ma espone anche i metodi di proiezione usati nella cartografia.

Il Medioevo, come con altre scienze, dovette prima difendere (nelle biblioteche monastiche) quanto avevano prodotto gli antichi dalle distruzioni operate dai barbari, poi ricominciare a produrre opere nuove, che hanno per noi oggi l’aspetto di cataloghi, o carte molto approssimate e addirittura spesso inventate. Spiccano però le mappe della cartografia nautica, per la loro precisione ed accuratezza (spesso corredate da testi contenuti in un libro portolano), soprattutto quelle realizzate nell’Europa meridionale. Anche i geografi Arabi crearono opere di estrema qualità, come per esempio il “Libro del Re Ruggiero”, di Idrisi (del XII secolo), e altri autori ancora come Ibn Battuta e Ibn Khaldun.

Con le grandi esplorazioni terrestri dirette in Asia (Il Milione di Marco Polo, nel XIII secolo, ne è un esempio affascinante) e quelle marittime, o ancora verso l’Asia o verso le Americhe, l’uomo “riscoprì” la passione per la geografia, e il bisogno di uno studio più accurato. Nella seconda metà del XV secolo la riscoperta in Europa dell’opera geografica di Tolomeo fu essenziale per la rinascita della cartografia. Sono infatti di quell’epoca i primi atlanti europei ottenuti con l’uso dei metodi della cartografia matematica. Al XVII secolo risalgono i tentativi di Varenio di sistemare la scienza geografica.

Nel Settecento si cominciò a intendere come scopo principale della geografia la raccolta di dati sulle caratteristiche fisiche, sociali, economiche, storiche di ogni paese.

Nell’Ottocento nacque la cosiddetta geografia moderna, per merito (soprattutto) dei tedeschi Alexander von Humboldt (che ne fondò l’indirizzo naturalistico) e Carl Ritter (che ne fondò l’indirizzo antropico-storico): con il passare del tempo questi due indirizzi si fusero poi in uno solo. Presto divenne una disciplina universitaria, a cominciare da Parigi e Berlino.

Negli ultimi due secoli, la quantità di conoscenze e il numero di strumenti disponibili sono aumentati molto. Ci sono forti legami tra la geografia e le scienze di geologia e botanica, come anche economia, sociologia e demografia. Nel XX secolo, in occidente, la disciplina geografica venne esaminata in quattro diverse fasi: determinismo geografico, geografia regionale, rivoluzione quantitativa e geografia critica.

La “rivoluzione quantitativa” della geografia si diffonde a partire dagli anni Sessanta, grazie anche allo sviluppo delle tecniche statistiche e matematiche. Questa “rivoluzione” porta a un rinnovamento della geografia, infatti si inserisce il termine di “nuova geografia” poiché si spera di racchiudere ogni fatto e avvenimento geografico entro una misurazione espressa quantitativamente e perciò la possibilità di capire (attraverso algoritmi matematici e strumentazioni computerizzate), le relazioni tra fenomeni molto diversi che l’osservazione di una singola persona o studioso non avrebbe potuto indicare con perfetta precisione. Questa nuova concezione della geografia, nella seconda metà degli anni Settanta viene quasi rigettata perché si sostiene che i dati raccolti non sono sempre affidabili e questo può portare a conclusioni contrastanti.

 

Il pensiero anarchico

A cura di Silvia Ferbri

 “Vuoi rendere impossibile per chiunque opprimere un suo simile? Allora, assicurati che nessuno possa possedere il potere” (M. Bakunin)

È possibile accostare il pensiero anarchico alla filosofia? Se “filosofia” significa amore per il “sapere”, ricerca mai conclusa del “sapere”, del “conoscere”, del “comprendere”, forse non sono molte le correnti filosofiche dall’età moderna in poi, pur così nominate, a poter rivendicare per sé questa qualifica in senso pieno. La maggior parte di esse si limita infatti ad offrire una specifica visione del mondo o dell’uomo, spesso dettagliata e argomentata, il più delle volte considerata un punto di arrivo. Non è anche l’anarchia una particolare dottrina politica, legata a un determinato momento storico? Se approfondiamo un poco la conoscenza di questo pensiero, ci renderemo conto che una definizione più corretta può essere invece “dottrina etico-politica” (molti pensatori anarchici si sono occupati di problemi etici, basti l’esempio di Kropotkin), e se andiamo ancora avanti nella nostra esplorazione, alla fine arriveremo a concludere che può essere ancora più opportuno riconoscerla come “filosofia etico-politica”, e attribuirle quindi lo spazio a cui ha pieno diritto all’interno del pensiero filosofico in senso lato. Potremmo anche dire, rifacendoci ad Aristotele, che si tratta di una “filosofia pratica”, in quanto caratterizzata dall’azione, sia come scopo che come oggetto.

Ma per rispondere con maggiore certezza a simili domande e affrontare con la massima apertura e disponibilità questa ricerca, occorre innanzitutto abbandonare i vari pregiudizi, chiarirci il più possibile le idee, e cioè partire dall’inizio. Il termine “anarchia” è infatti ancora un po’ troppo avvolto nella confusione. Muoviamo allora dalle origini, dal significato della parola “anarchia”.

Il termine “an-archia” deriva dal greco “αναρχία”, parola composta dalla radice α-(a-), senza, e dalla radice αρχ- (arch), governo, dominio, e viene solitamente tradotto con le espressioni “senza-comando”, “senza-potere”, “senza-autorità”. “Archi” (archi), primo termine di numerosi composti, deriva dal verbo “archein”, archein, comandare. Così “archia”, archia, da “archos”, archos, “arca”, nelle parole composte dotte significa “governo”, “dominio” (mon-archia, olig-archia) e “an-archos”, an-archos, può essere pertanto tradotto “senza un superiore”. Ma si considera anche, come secondo termine, “arch ”, arché, che unito alla radice α- diviene “an-arch”, an-arché.  “Arché” però, prima ancora di “comando”, “potere”, “autorità”, significa “principio”, “origine e fine di tutte le cose”, perciò “anarchia” può anche voler dire “senza principio”, “senza divinità”, “senza dogmi”.

Una delle definizioni del pensiero anarchico (in forma sintetica) è infatti “né Dio né padrone”. Sébastien Faure disse: “Chiunque neghi l’autorità e combatta contro di essa è un anarchico”. Definizione molto semplice, e per questo incompleta e alla fine fuorviante. Il pensiero anarchico è in realtà un pensiero complesso, policromo, talvolta contraddittorio. Semplificarlo non aiuta a conoscerlo e a liberarsi dalla confusione cui accennavamo prima. E’ un pensiero che ha una sua storia peculiare e un proprio originale nucleo teorico-concettuale, che lo distingue da altre dottrine politiche, come il socialismo o il liberalismo, e che lo rende in un certo senso più ampio di queste, in quanto tende ad occuparsi dell’intera vita umana e non soltanto della gestione politica o di quella economica. Ma ciò che soprattutto lo distingue dalle altre dottrine politiche, è che per l’anarchismo non esiste una “umanità astratta” (di cui invece trattano tanto il liberalismo quanto il socialismo di stato e il comunismo autoritario), ma singoli uomini concreti. Il pensiero anarchico pertanto, diversamente dalle altre dottrine politiche, non ritiene di aver compreso per via filosofica la “natura” dell’uomo, e non si considera legittimato a prescrivere un codice morale e un’etica di comportamento che implichino diritti e doveri uguali per tutti gli uomini. Nell’anarchia è di fondamentale importanza l’autodeterminazione dell’individuo, di ogni singolo individuo, che è unico e diverso da tutti gli altri, e il suo totale e pieno diritto di scelta, di consenso o di rifiuto. Potremmo provare a definirla quindi una filosofia della libertà. Ma anche così otteniamo una definizione in un certo senso riduttiva e vaga al tempo stesso. Quello anarchico non è un pensiero che rimane tale: è un pensiero legato strettamente all’azione, dando immediata origine all’”anarchismo”. Precisando meglio, l’anarchismo non deriva da riflessioni astratte di qualche intellettuale o filosofo, ma dalla lotta diretta dei lavoratori contro il capitalismo, dalla ribellione degli oppressi contro i loro oppressori, dai bisogni e dalle necessità di questi uomini e dalle loro aspirazioni di libertà ed eguaglianza. I pensatori anarchici, quindi, come Bakunin o Kropotkin, non inventarono l’idea dell’anarchismo, semplicemente la scoprirono nelle masse oppresse e sfruttate e la rafforzarono, la chiarirono e la divulgarono. E’ l’azione pertanto che dà origine al pensiero. Il fine ultimo dell’anarchismo è infatti quello di un cambiamento sociale. L’anarchia critica la società esistente, di conseguenza non respinge il potere terreno in base a considerazioni prettamente filosofiche o religiose (come i mistici o gli stoici, ad esempio).

Per inciso, si può, senza eccedere in fantasia, tanto per quanto riguarda il pensiero anarchico come per altri pensieri “moderni”, fare accostamenti in alcuni punti con correnti filosofiche più antiche, e in questo caso quindi rilevare alcune somiglianze tra il pensiero anarchico e lo stesso stoicismo, ad esempio, per la sua visione cosmopolita,  o ancora meglio lo scetticismo, per il suo rifiuto di ogni dogma, o l’epicureismo, per la sua concezione materialistica e atomistica, per il suo contatto con la realtà concreta, per la scelta della situazione, delle persone e dei fatti che meglio si armonizzano con la costituzione intellettuale dell’individuo, per l’esclusione delle sterili dispute sulle questioni “supreme”, per la pluralità delle ipotesi, per la vita piacevole accompagnata però dalla rinuncia “al più”, quindi la semplicità e non lo spreco, per il suo rifiuto dell’attività politica fine a se stessa, o, ancora, si può accostare il pensiero e il sentire anarchico ad alcuni aspetti del libertinismo, per il suo richiamo alla dignità e all’autonomia della ragione dell’uomo, per il suo volersi emancipare da ogni forma di servitù intellettuale e per la sua ribellione morale alla legge e alla tradizione invecchiata, a tutto ciò che non permette all’uomo di liberare la sua creatività, quindi per quel suo spirito innovativo, scanzonato e ribelle. Portiamo dentro di noi in vari modi l’intera storia del pensiero che ci ha preceduti, che spesso riemerge in forme nuove.

Riprendendo il filo del discorso, l’anarchia, come abbiamo osservato, non sogna un mondo ultraterreno. Si occupa di questo, dove ora ci troviamo a vivere. Non si esaurisce in desideri o fughe individuali. Né si è mai considerata un pensiero elitario. E’ un pensiero concreto e radicato nel mondo che lo circonda, aperto a tutti quanti gli uomini. Esistono infatti sia il pensiero anarchico che il movimento anarchico, nelle sue varie fasi, forme ed espressioni. E sono qualcosa di inscindibile. Uno non può esistere senza l’altro. L’anarchia in senso astratto non ha senso per gli anarchici, ciò che essi desiderano è realizzarla concretamente, qui e ora. Le idee da sole non significano nulla: vanno messe in pratica nella vita di tutti i giorni, in quella pubblica come in quella privata (per gli anarchici non esiste questa distinzione, così come non esiste distinzione tra i mezzi e il fine che si vuole raggiungere; non si può voler ottenere la libertà, ad esempio, restringendola o negandola), tentando di realizzare in ogni gesto, singolarmente e in comunione con gli altri, quel mondo più umano, più libero, più giusto, che è al centro dell’ideale anarchico. A questo punto è necessario osservare come invece nell’immaginario della maggioranza degli individui il termine “anarchia” venga associato al caos, al disordine, alla violenza. O all’individualismo e all’egoismo. Oppure, anche riconoscendola come dottrina socio-politica, si tende ad accostarla al “nichilismo” o al “terrorismo”. Tutto questo avviene perché tanto la storia del pensiero anarchico quanto quella del suo movimento sono ben poco conosciute e sono sempre state tenute in ombra. Non è facile così riuscire a capire che anarchia non significa affatto disordine: caso mai il suo contrario, nel senso che gli anarchici tentano di ritrovare, di ricostituire quello che per loro è l’”ordine naturale” delle cose e della vita, deformato e stravolto nel tempo dalle varie forme di sopraffazione, di dominio, di sfruttamento e di potere. Come pensare che uomini come Tolstoj e Godwin, Thoreau e Kropotkin, le cui teorie sociali sono state definite anarchiche, volessero portare nient’altro che il caos, il disordine, la violenza nella società? Altrettanto difficile è in genere comprendere come il rispetto per la libertà dell’individuo, del singolo, visto spesso, in modo errato, unicamente come esaltazione del singolo, come puro egoismo, possa unirsi alla solidarietà nei confronti degli altri, in particolare nei confronti degli ultimi, degli emarginati, degli oppressi.

L’immagine distorta dell’idea anarchica ha diverse cause. Una può forse essere imputata agli stessi anarchici o a una parte di loro, e cioè a quella propaganda che poneva principalmente l’accento sugli aspetti distruttivi della dottrina. Ma non è mancata in realtà neppure la propaganda contraria, quella propositiva e costruttiva, sostenuta costantemente, tra l’altro, da concreti esempi di vita. La ragione principale, invece, parrebbe essere la versione spesso faziosa, in ogni caso superficiale, fornita da sempre dalla storiografia, tanto di destra quanto di sinistra (con grosse responsabilità da parte dei marxisti, a cominciare da Marx in persona, che qualificò l’anarchismo come una ideologia piccolo borghese, espressione immatura, disorganica e unicamente individualistica di ceti sociali in crisi per la disgregazione del mondo contadino e artigiano, e non ancora inseriti nel processo di produzione capitalistico, senza considerare lo scontro di potere all’interno della Prima Internazionale dei Lavoratori). Non di certo ultima, un’altra ragione è il fatto in sé evidente che il pensiero anarchico non piace a chi è al potere (o a chi il potere lo ama o lo condivide): anarchia e potere sono nemici da sempre. (Così come anarchia e gerarchia, anarchia e autoritarismo, anarchia e verticismo). Gli anarchici non vogliono conquistare il potere (neppure in “nome del popolo”), vogliono eliminarlo. In altre parole si può dire che vogliono frantumarlo  e ridistribuirlo in migliaia e migliaia di piccole unità, tante quanti sono gli esseri umani. I governi perciò, di qualsiasi colore, hanno sempre dato la caccia agli anarchici, hanno cercato di metterli a tacere, hanno sempre tentato di accusarli di ogni atto di terrorismo o violenza e di ogni azione nei confronti della ricchezza e della proprietà privata, così come nei confronti del capitalismo di stato e della sua burocrazia tirannica, tutte cose che gli anarchici desiderano abolire e che i governi e le loro polizie intendono invece difendere ad ogni costo. L’ineguale distribuzione della ricchezza e la proprietà privata, così come il potere di pochi sulla vita dei molti, sono alla base stessa dell’esistenza dei governi e della polizia, secondo l’analisi anarchica ma non solo. Nei nostri tribunali si dovrebbe amministrare la giustizia. Ma come si può considerare giusto, equo, il mondo in cui viviamo? Questo è quanto gli anarchici si chiedono e mettono da sempre in discussione.

Quali sono dunque i caratteri fondamentali del pensiero anarchico? Quali i suoi valori di riferimento? Prima di tutto: quando hanno cominciato ad essere effettivamente utilizzate le parole “anarchia”, “anarchismo”, “anarchico”?

Durante la Rivoluzione francese il girondino Brissot definiva anarchici il movimento degli Enragés, e nel 1793 dava questa definizione dell’”anarchia”: “Leggi non tradotte in effetto, autorità prive di forza e disprezzate, il delitto impunito, la proprietà minacciata, la sicurezza dell’individuo violata, la moralità del popolo corrotta, nessuna costituzione, nessun governo, nessuna giustizia: queste  le caratteristiche dell’anarchia.” Definizione quindi del tutto negativa, rafforzata in seguito dal Direttorio, che sarebbe sceso addirittura alle ingiurie: “Per «anarchici» il Direttorio intende quegli uomini carichi di delitti, macchiati di sangue, impinguati dalle ruberie, nemici di tutte le leggi che non sono state fatte da loro, di tutti i governi in cui loro non governano...”

Possiamo invece attribuire una prima riconoscibile e coerente formulazione del pensiero anarchico all’illuminista inglese William Godwin (1756-1836), quando venne data alle stampe nel 1793 la sua opera Enquiry Concerning Political Justice (che si basa su di un assunto di matrice liberal-libertaria, già sviluppato tra gli altri da Thomas Paine, John Locke e Thomas Jefferson, e cioè la contrapposizione tra la società, considerata naturale e buona, e il governo, lo stato, ritenuto artificioso e malvagio, nato in un’epoca di immaturità della ragio