(parte prima)
di Paolo Repetto, 28 gennaio 2022
Per aiutarvi ad ammazzare il tempo, in attesa che la variante omicron ci abbia visitati tutti e che venga eletto un nuovo presidente della repubblica, proponiamo i capitoli iniziali di uno studio in progress (in realtà fermo da un paio d’anni, dall’epoca pre-covid). In tempi di siccità si spremono anche i cactus, ed è quello appunto che stiamo facendo, visto che l’auspicato ricambio generazionale non si lascia scorgere. Dovrebbero seguire ulteriori capitoli, ma non promettiamo nulla. Al momento preferiamo considerarla un’opera aperta, non a una molteplicità di interpretazioni, ma ad integrazioni e sviluppi che arrivino da e si muovano verso ogni possibile direzione.
Il mistero esistenziale
segna tutta la mia vita
Sono un uomo o un animale
mi domando ad ogni uscita.[1]
Da piccolo, intendo dire fino attorno ai sette o otto anni, non ero quel che si dice un bambino propriamente sveglio. O almeno: lo ero per certe cose, leggere, scrivere, disegnare, ma sul versante appena appena più pratico ero un vero disastro. Oggi mi certificherebbero subito gravi disturbi dell’attenzione, e potrei tranquillamente fregarmene di studiare, e dedicarmi a tempo pieno ai miei libri, ai miei fumetti, ai miei giochi preferiti. All’epoca però non funzionava così, e per sopravvivere dovevi comunque adeguarti. Io, ad esempio, ho continuato a lungo ad avere dubbi sulla localizzazione della destra e della sinistra: per cui per distinguerle ricorrevo al segno della croce. Essendo naturalmente destrimane la cosa mi aiutava (fossi stato mancino genitori, preti e maestre mi avrebbero “rieducato”, con le buone o con le cattive), e così col tempo la distinzione è diventata automatica, nel senso che non faccio più il segno della croce, ma il riferimento non conscio al braccio persiste.
Qualcosa di quella confusione deve però essermi rimasto in testa, per cui a dispetto dell’automatismo fisico non sono mai riuscito in verità a raccapezzarmi perfettamente nelle lateralizzazioni. Soprattutto poi quando il terreno di gioco è quello della politica.
Avete già capito dove voglio andare a parare. Ci risiamo. Per l’ennesima volta (è l’ultima, lo giuro) torno sul tarlo che da tempo mi rosica, anche perché spesso è stuzzicato dagli amici: ma io, alla fin fine, sono di destra o di sinistra?
So benissimo che è un tormentone insensato e anacronistico, visto che queste appartenenze, già molto confuse di per sé, da quando il “pensiero liquido” ha ufficialmente cancellata ogni distinzione sono concordemente schifate da una parte e dall’altra: e anche perché di una mia eventuale “collocazione” importa poi in realtà a nessuno. Ma tant’è, il rosichìo del tarlo continua, è fastidioso, e a me importa. Perché liquido non lo sono affatto, nelle situazioni di ambiguità mi trovo a disagio e alle differenze ci tengo. Ed è anche significativo della confusione dei tempi il fatto stesso che uno si ponga la domanda. Visto dunque che una qualche risposta vorrei riuscire a darmela, il modo migliore che ho è costringermi a rifletterci su per iscritto, per procedere con un minimo di ordine. Per Roland Barthes scrivere era un verbo intransitivo: per me è un riflessivo.
Confesso subito però che quello dell’appartenenza politica, pur nascendo da un interrogativo reale, è solo un pretesto: un trampolino per tuffarmi un po’ più in profondità. Quando ho iniziato a pensare a questo pezzo ero convinto di cavarmela con quattro paginette, invece la cosa mi ha preso la mano e la curiosità ha alzato l’asticella. Ciò che cerco davvero è infatti una chiave di interpretazione che chiarisca, sia pure molto all’ingrosso, le mie convinzioni e i comportamenti che ne conseguono, non solo nella sfera politica, ma in tutti gli ambiti relazionali. Cerco ciò che mi distingue, per capire se la sempre più ricorrente sensazione di estraneità è frutto solo del trascorrere degli anni o rivela un’anomalia rispetto a una misura universale. È in fondo una curiosità fine a se stessa: voglio semplicemente capire un po’ di più, e non mi aspetto che una maggiore consapevolezza, quale che sia, possa poi influire su quei comportamenti, o addirittura modificarli. Fumo da cinquant’anni, e a dispetto di ogni negativa evidenza non ho mai cercato di smettere. Ma il sapere perché lo faccio mi dà una certa illusione di controllo.
Ora, non essendo appassionato di oroscopi e nutrendo ancor meno fiducia nella psicanalisi, nella ricerca di questa chiave, della mia, ma per forza di cose anche di quella universale, mi affiderò solo al pochissimo che ho appreso dalla biologia, dall’antropologia e dalla storia, saltando da un ambito all’altro, incrociando e collegando, magari del tutto arbitrariamente, ciò che credo di aver capito. Non so se ne verrà fuori un identikit verosimile, ma penso che almeno il percorso possa risultare in qualche misura interessante anche per altri. In fondo, non sono poi così originale. Per questo cercherò di documentarne le tappe.
Con un’avvertenza. Dietro questo scritto non ci sono geniali intuizioni: è tutto molto semplice e scontato. Lo schema suppone un tot di innato, un tot di acquisito e una percentuale di “costruito”. Su un fondo di determinazione genetica, in pratica il corredo che ci trasmettono i genitori, gli errori di replicazione del DNA e le contingenze storico-ambientali hanno sviluppato delle variabili, quelle che danno origine al carattere individuale. È storia comune, nemmeno molto diversa dalla lettura zodiacale che fa il mago Otelma: nasci con un segno (l’influsso astrale, in questo caso quello genetico) e lo declini poi in base alle congiunzioni o alle opposizioni dei pianeti. Ma io, da buon Scorpione[2], tendo a sottrarmi alla regola, e finisco per complicare le cose: mi piacciono i quadri molto mossi. E per sapere quanto lo è il mio devo capire quanto è davvero immobile quello comune.
- Da che parte sto?
Dunque: sto a destra o a sinistra? Visto che sono partito da questa domanda proseguo per il momento nel gioco, e penso che la mossa più logica d’apertura sia riesaminare i significati originari delle due categorie politiche e seguire, sia pure per sommi capi, i loro aggiustamenti successivi, affrontando poi su questa base la presunta crisi identitaria odierna (e la mia in particolare)[3].
Fino a che il confronto è con Berlin, con Bobbio e con altri filosofi “classici” della politica devo dire che le cose funzionano, nel senso che bene o male è ancora possibile “riconoscersi”. In buona sostanza, come riassume perfettamente Bobbio, “il criterio rilevante per distinguere la destra e la sinistra è il diverso atteggiamento rispetto all’ideale dell’uguaglianza, e il criterio rilevante per distinguere l’ala moderata e quella estremista, tanto nella destra quanto nella sinistra, è il diverso atteggiamento rispetto alla libertà”. Ovvero: stai a destra se poni l’accento sulla libertà (con possibili eccezioni estremistiche, quando quest’ultima viene sacrificata ad una qualsivoglia presunta “identità” tradizionale), stai a sinistra se lo poni sull’uguaglianza, sulla “giustizia sociale” (anche qui, in uno spettro molto vasto di accezioni, che arrivano fino alla sovrapposizione con quelle della destra estremistica). All’interno di questo schema, come si vede, col variare dei rapporti percentuali tra gli elementi in gioco le combinazioni possibili sono infinite, e le appartenenze si sfumano. Oggi più che mai, perché è venuto a mancare, o almeno è diventato meno visibile, per l’una parte e per l’altra, l’antagonista. È difficile quindi definirsi, come si faceva un tempo, semplicemente per contrasto, puntando sul “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Va (andrebbe) chiarito ciò che intendiamo quando parliamo di uguaglianza (o più genericamente di giustizia sociale) e di libertà.
Quanto all’eguaglianza, ad esempio, io la interpreto così: tutti devono poter godere di eguali opportunità, il che significa azzerare (almeno tecnicamente: parlo di condizioni economiche, di opportunità scolastiche) gli svantaggi culturali e compensare quelli naturali: ma una volta realizzate queste condizioni, ciascuno è poi responsabile delle sue ambizioni e delle sue scelte, degli eventuali successi e delle possibili delusioni. L’eguaglianza ha da essere la condizione di partenza, non quella d’arrivo.
Perché qui poi entra in ballo la libertà: che è appunto libertà di fare delle scelte (Berlin la definisce libertà “positiva”, libertà di), purché queste non vadano a ledere la libertà altrui, e quindi di perseguire gli obiettivi e gli stili di vita più diversi. Le scelte sono veramente tali quando non sono condizionate da costrizioni o da forme subdole di persuasione (libertà da, o libertà “negativa”), ma nemmeno dall’invidia per quelle altrui e dalla imitazione puramente competitiva. Quando sono cioè totalmente responsabili e coerenti.
Per essere chiari: se ritengo non valga la pena dannarmi l’anima per possedere una casa al mare o in montagna (ma anche semplicemente per possederne una), e preferisco dare la precedenza ad altri valori o a più immediate soddisfazioni, non devo poi recriminare sul fatto che qualcuno possa permettersela: sempre che mi sia stata data in partenza la stessa possibilità e che quel qualcuno non abbia acquistata la casa coi soldi fatti sulla mia pelle. L’esempio è talmente banale da sembrare persino stupido, ma a mio avviso riassume, sia pure in maniera semplicistica, le dinamiche elementari dei rapporti (e dei conflitti) sociali. In base a questo criterio potrei dire, come Berlin, che “sto nel mezzo: sono all’estrema destra della sinistra e all’estrema sinistra della destra”[4].
Questa posizione rientra ancora in una concezione “classica” della sinistra. Persino Berneri e gli anarchici, almeno quelli seri, l’avrebbero sottoscritta: ma non corrisponde, per contro, a quella marxista, o meglio a quella declinazione del marxismo di cui si è fatto monopolista il comunismo novecentesco. Credo si debba assumere un terzo criterio per una definizione corretta dell’essere “a sinistra”: essere consapevoli che non potrà mai esistere una “società giusta” (magari una un po’ più giusta di altre, si), ma essere convinti che possano esistere, ed esistano, uomini giusti. La differenza è netta: io parlo di una “rigenerazione sociale” che deve partire dal basso, dalla presa di coscienza e dall’assunzione di responsabilità da parte dei singoli individui, mentre il marxismo-leninismo parla di una “rivoluzione” calata dall’alto e di individui eteroguidati, “rieducati”. Dal momento che ritengo che la vicenda cambogiana, per citarne una, non costituisca un’aberrazione, ma sia il naturale esito di quell’idea spinta sino alle sue estreme conseguenze, è chiaro che non ho dubbi: io sono “la sinistra”, mentre gli altri sono quando va bene degli illusi, quando va male dei criminali.
Il problema si complica invece, come dicevo, allorché provo a confrontarmi tanto con le declinazioni ultime, post-comuniste, del significato dello “stare a sinistra”(da Toni Negri ai vari neo-populismi e neo-machiavellismi), quanto con i teorizzatori dell’avvenuta dissoluzione delle categorie contrapposte, da Alain de Benoist a Maffesoli e, dalle nostre parti, da Tarchi a Cacciari: un po’ perché ci capisco poco, un po’ perché c’è davvero poco da capire, e comunque, quando accade, non ne trovi due che concordino, dal momento che gli scenari coi quali confrontarsi si sono complicati parecchio. E infine perché, a conti fatti, io stesso non concordo con nessuno, pur riconoscendo che il mio percorso, in questi ultimi quarant’anni, è stato comune a quello di molti altri, a volte solo per alcuni tratti, in qualche caso sino in fondo. Non sempre però lo stesso sentiero, anche quando si snoda attraverso gli stessi panorami, porta a cogliere identici scenari. Ma su questo torneremo.
Quindi: o il problema dell’appartenenza, del posizionamento su una sponda o sull’altra, davvero non ha più senso, oppure va affrontato partendo da molto più lontano (in fondo la valenza politica di “destra” e di “sinistra” ha solo tre secoli). Per esempio, prendendo spunto dalle analisi a vasto raggio delle motivazioni dei comportamenti umani sviluppate da René Girard, che individua nel “desiderio mimetico” e nel risentimento che ne consegue il senso originario dell’ambiguità delle relazioni sociali. Oppure da quelle storico-sociologiche di Alexis de Tocqueville, che scriveva “Ho per le istituzioni democratiche un gusto della mente, ma sono aristocratico per istinto”, riassumendo perfettamente tutto quello che andrò a dire.
Ma anche su questo tornerò. L’ho anticipato solo per dire che per comprendere l’origine delle nostre propensioni, anche di quelle politiche, è necessario andare oltre il lessico politico. Capire cioè se classificazioni come “di destra” e “di sinistra” abbiano un carattere ed una origine puramente convenzionali[5], oppure se ci siano alle loro spalle delle ragioni di ordine “naturalistico”. È opportuno allora ripensare i concetti di “destra” e “sinistra” andando a ritroso nel tempo, partendo da una primordiale connotazione fisiologica. Questo porta a sconfinare dal discorso prettamente “politico” verso ambiti che toccano la linguistica, l’antropologia, la storia naturale, la biologia e la neurofisiologia, per poi rientrare attraverso la sociologia. Il rischio è quello di dar vita aduno sconclusionato helzapoppin, ma potrebbero anche scaturirne elementi di conoscenza curiosi e inattesi.
- Un tuffo nella linguistica
La risalita a monte ha preso avvio dalla casuale riscoperta di un libro che possedevo da un pezzo e davo per scontato. Si tratta di “La rappresentazione collettiva della morte”, di Robert Hertz, edito da Savelli più di quarant’anni orsono. Oltre al saggio che fornisce il titolo, il volume contiene un breve studio su “La preminenza della mano destra”, che è un capolavoro di intuizione e di sintesi. Quest’ultimo non ricordavo di averlo letto. Probabilmente, a dispetto delle sottolineature che ho riconosciuto per mie, si era trattato di una lettura superficiale, perché la sua ripresa ha costituito un’autentica rivelazione (ma forse nemmeno questo è del tutto vero: forse certe cose avevano continuato a girarmi in testa anche dopo che ne avevo dimenticato la fonte).
Hertz era un brillante studioso tedesco di origine ebraica, cresciuto alla scuola sociologica di Durckheim e morto precocemente combattendo sul fronte francese durante la prima guerra mondiale. Sulle circostanze di questa morte e sul personaggio nel suo assieme varrà senz’altro la pena soffermarci in altra occasione: per il momento mi interessa invece la domanda con la quale si apre il secondo saggio: “La mano destra è il simbolo o modello di ogni aristocrazia, la mano sinistra di tutte le plebi. Quali sono i titoli di nobiltà dell’una, e da dove deriva la servitù dell’altra?”.
Per farla breve riassumo subito la risposta dell’autore. Fermo restando che l’uso prevalente della mano destra – ma in realtà di tutti gli arti e degli organi sensoriali situati nel lato destro del nostro corpo – ha una motivazione prevalentemente fisiologica (come vedremo più oltre), è interessante tutto ciò che ne consegue: l’identificazione cioè della destra con il positivo e la “demonizzazione” della sinistra, quella che potremmo definire l’elaborazione simbolica della differenza, frutto di un lungo lavoro della cultura collettiva. Secondo Hertz questo lavoro è legato al fatto che noi umani tendiamo a leggere il mondo, la realtà che ci circonda, in base a uno schema di polarità contrapposte. Dalla quotidiana alternanza delle esperienze fisiche esterne (luce e buio, caldo e freddo, vita e morte) e di quelle psicologiche interne (gioia e dolore, amore e odio, ecc …) abbiamo desunto la divisione dell’universo in due poli, che nella primitiva interpretazione religiosa rappresentano l’uno il sacro e l’altro il profano. Entro queste polarità si iscrivono rispettivamente tutte le coppie oppositive esistenti: il puro e l’impuro, il bene e il male, la forza e la debolezza, ecc …
Ora, questa lettura del mondo attraverso categorie oppositive ci è necessaria per elaborare un linguaggio della differenza, ai fini pratici immediati della sopravvivenza (commestibile-velenoso, innocuo–pericoloso) e a quelli sociali e identitari di difesa o offesa (amico-nemico). Le polarità originariamente religiose si secolarizzano poco alla volta in polarità sociali, e il funzionamento di ogni comunità finisce per fondarsi su una strutturazione bipolare: dentro-fuori, identità-diversità.
Fin qui Hertz. A questo punto, con parecchia presunzione, inserisco una digressione mia, sia pure seguendo la linea da lui tracciata. Mi sposto sull’analisi lessicale, che mi è costata decine di ore di ricerche, ma mi ha regalato grosse sorprese e molte soddisfazioni.
Protagonista principale e al tempo stesso testimone chiave del processo che volevo ricostruire, sin dalle origini più remote cui possiamo risalire, è il linguaggio. Il perché lo vedremo. Per ora ci basti sapere che negli idiomi protoindoeuropei esiste una radice “dek” (presente in “tekh’s”, che indica appunto la mano destra, e più genericamente il lato destro) dalla quale germogliano una serie di voci tutte riferibili a valori positivi: dekos, ad esempio sta per onore, giustizia, bontà, decoro, ordine, misura, gradevolezza. Il lessema dek connota e identifica il campo del positivo, di ciò che è favorevole. E mantiene questa valenza nelle successive derivazioni: nel sanscrito dàkša (idoneo, capace), ad esempio. La discendenza lessicale poi è perfettamente rintracciabile nella lingua greca (dove destro è dexiteron) e in quella latina (dexter), per arrivare infine alle lingue neoromanze, ma anche a quelle germaniche: e assieme al suono si perpetua la valenza simbolica. Ad esempio, in latino c’è un tema verbale cui fanno capo azioni positive: decet, oppure, doceo, o ancora disco. Nell’antico germanico c’è Zeche, ordine, nell’irlandese dess (appropriato) e deis (compagno, amico).
Nella lingua italiana i termini derivati o direttamente apparentati con la destra sono una folla. Addestrare è impartire un buon insegnamento; maldestro è colui che sbaglia; destrezza è al contrario segno di abilità; il destrosio è un energetico, mentre il destriero è un cavallo di razza; avere il destro significa godere di una buona opportunità. Troviamo anche, oltre ai termini strettamente connessi con destra, quelli riferibili al suo equivalente, la “dritta” (che è ancora usato nel linguaggio marinaresco), dal quale abbiamo dritto, diritto, dirittura, ecc … Dritta è probabilmente traslato dal francese droite, che al maschile sta sia per diritto (sostantivo) che per giusto, onesto, dritto (aggettivi). Ha un equivalente nelle lingue celtiche e sassoni: right significa destro e significa anche giusto, regolare. Anche in italiano locuzioni come tenere la schiena dritta, prendere la dritta via, guardare dritto negli occhi, hanno rapporto con un atteggiamento giusto e leale. E anche i gesti della quotidianità sono orientati in tal senso: a destra si dà la precedenza; a destra si avvita per stringere, mentre a sinistra si allenta, ecc …
Non accade la stessa cosa per il concetto di sinistra. Non esiste cioè un radicale originario altrettanto evidente, e già questo è sintomatico. Mentre la radice da cui originano la destra e l’universo di significati positivi ad essa legati è unica, ed ha attraversato tutte le epoche e le culture linguistiche (almeno quelle occidentali), il concetto di sinistra non presenta alcuna stabilità morfologica, e questa assenza di continuità suggerisce di per sé l’idea di disordine. Possiamo risalire solo al latino sinis, che significherebbe “a differenza di”, e che combinato col suffisso -ter (di comparazione e opposizione) dà sinister. Indica ciò che è diverso dalla norma, in particolare “la mano anormale”. Pare che in realtà nel mondo romano il termine non avesse sempre un significato negativo, almeno nei rituali religiosi (i romani officiavano rivolgendosi a sud, e il levante, dal quale provenivano gli auspici positivi, veniva a trovarsi a sinistra): ma nella quotidianità prevaleva senz’altro l’abbinamento con il negativo, la disgrazia, la disonestà, derivante direttamente dalla interpretazione greca (i greci officiavano rivolti a settentrione). Non a caso Catullo quando bacchetta Asinio Marrucino fa riferimento al “cattivo uso della mano sinistra”.
Sinister, tra l’altro, convive nel latino con un termine più antico, laevus, da cui l’inglese attuale left (originariamente debole, inutile): ma in inglese è presente anche sinister, che non indica una condizione fisico-geografica, ma si riferisce solo ai significati negativi e infausti del lessema. E anche lo spagnolo ha una parola derivata dal latino sinistrum: siniestro, i cui significati ricalcano quelli del corrispettivo italiano, compreso l’incidente.
Questo ci riporta all’uso lessicale italiano. Come sostantivo un sinistro è un appunto un incidente, una disgrazia: come aggettivo sta ad indicare sgradevole, sfavorevole, tragico, sciagurato, minaccioso, pauroso, funesto, nefasto, cattivo, maligno, ecc … L’oppositivo di dritta è, guarda caso, manca, che dichiara esplicitamente una condizione imperfetta, di assenza. In francese accade pressappoco la stessa cosa: a droite si oppone gauche, che deriva da gauscir, deformare, alterare, curvare.
Direi che c’è già materia a sufficienza per tirare un po’ di somme. Tutta questa esibizione di competenze filologiche che in realtà non possiedo sta a spiegare come “destra” e “sinistra” diventino, a partire da una tendenza fisiologica e attraverso la mediazione del linguaggio, i simboli e la sintesi di una opposizione ancestrale intrinseca all’universo.
Questo processo lo possiamo constatare già nella Bibbia, dove la “mano destra” viene menzionata molto più spesso della sinistra,e quando si parla della gloria e della potenza di Dio si precisa che “è piena di giustizia la tua mano destra” (Salmo 48,11) e che “il Signore con la mano destra compie prodigi” (Sal 118,15-16), ma anche che “La tua destra, Signore, terribile per la potenza, la tua destra, Signore, annienta il nemico” (Es 15,6. 12). Il riferimento, almeno quando a parlare è il Signore, è sempre ad una sola mano. Dio con essa crea (“Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie” (Is 66,1-2,), si prende cura, sostiene, salva, offre protezione, ma anche giudica, corregge, condanna e punisce. La destra indica la potenza e l’abilità di Dio, la dolcezza e l’elezione, la capacità di uccidere e di guarire. Le stesse attribuzioni, soprattutto quelle connesse alla misericordia, le ritroviamo nel Nuovo Testamento, nel costante richiamo alla mano risanatrice o benedicente di Gesù.
Ma il processo si sviluppa contemporaneamente nel mondo greco. È significativo ad esempio che Pitagora parta dall’opposizione tra i numeri (pari/impari) per dedurne la suddivisione di tutta la realtà in categorie antitetiche, e dunque una visione dualistica del mondo. La sua dottrina individua dieci coppie di contrari, gli “opposti pitagorici”, una delle quali è appunto destra-sinistra. Alla destra corrispondono unità, quiete, retta, luce, bene, maschio, limitato, dispari e quadrato. Alla sinistra molteplicità, movimento, curva, tenebre, male, femmina, illimitato, pari e rettangolo. Insomma, a destra sta la perfezione, perché perfezione nel mondo classico comporta anche il senso del limite (perfectus=compiuto, definito), mentre la sinistra è imperfezione, disordine.
Sia nella cultura classica che in quella giudaico-cristiana, se la destra è associata all’idea del divino la sinistra è invece collegata al magico. Nel mondo pre-cristiano tuttavia non sempre quest’ultimo legame comporta una valenza negativa: a volte l’uso della mano sinistra ha un valore apotropaico. Nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, ad esempio, viene prescritto per le operazioni magico-mediche curative e profilattiche: le piante medicinali vanno raccolte con la mano sinistra. Il cristianesimo medioevale sottolinea invece la distinzione tra magia bianca e magia nera, e naturalmente le due sfere vengono “lateralizzate” secondo il modello oppositivo. Quando poi la sfera del sacro si formalizza in canone (ad esempio con la controriforma) quella magica assume connotati equivoci e torbidi (e scatta la caccia alle streghe).
Il Cristianesimo ribadisce comunque l’opposizione: “dopo il giudizio, i giusti siederanno alla destra del padre, gli empi alla sinistra; i primi erediteranno il regno, i secondi bruceranno tra le fiamme dell’inferno”. (Matteo 25, 31-46). Nella quasi totalità delle raffigurazioni del peccato originale – da Wiligelmo a Michelangelo, a Rubens, ecc … – Eva coglie la mela con la sinistra, e con quella la porge ad Adamo. (Sempre nella cappella Sistina, però, Michelangelo mostra le dita della mano destra di Dio che toccano quelle della sinistra di Adamo. E questa non me la spiego, se non per ragioni di equilibrio della composizione – a meno che non stia a significare che prima del peccato, in un universo non diviso, ai fini della conoscenza destra e sinistra erano equivalenti).
La demonizzazione della sinistra è fatta naturalmente propria anche dall’islam. La tradizione islamica afferma che ogni cattiva azione viene iscritta sul braccio sinistro, mentre le buone azioni vengono iscritte sul braccio destro, e che il Giorno del Giudizio universale ogni uomo che avrà commesso del male tenterà, invano, di tenere il braccio sinistro nascosto dietro la schiena. Allo stesso modo, nel mondo mussulmano durante lo svolgimento dei pasti è obbligo utilizzare la mano destra, perché la sinistra è considerata haram, proibita in quanto impura. Ed è necessario lavarsi le mani cominciando dalla destra.
Bene. Abbiamo visto come la destra diventi in questo modo la depositaria di un comportamento adeguato rispetto ad un ordine stabilito (dalla natura, dagli dei, dagli uomini), mentre la sinistra rimanda alla trasgressione, all’alterazione, all’instabilità e all’inaffidabilità, e suscita sentimenti di inquietudine e di avversione.
Tutto questo trova espressione naturalmente anche nei rapporti tra i generi, e nella considerazione riservata a quello più debole. Accennavo a quel che ne pensava Pitagora, e aggiungo che i suoi connazionali erano tutti perfettamente d’accordo[6]. E non solo loro: troviamo che in epoca storica questa concezione è stata condivisa da tutte le culture e a tutte le latitudini[7]. Anche per le popolazioni più primitive destra è la parte del fegato, e fegato sta per “coraggio”. Una virtù solare, prerogativa, nella dominante concezione maschilista, degli uomini. Sinistra è invece la parte del cuore, quella che governa il lato femminile del sentimento (ciò che viene rimarcato soprattutto dalla cultura medioevale); è la parte sotterranea, satanica, passionale.
Pierre Bourdieu sintetizza in questo modo quanto ho cercato sino ad ora di raccontare: «Dunque, attraverso questi apprendimenti corporei, vengono insegnate delle strutture, delle opposizioni tra l’alto e il basso, tra il diritto e il curvo. Il diritto evidentemente è maschile, tutta la morale dell’onore delle società mediterranee si riassume nella parola “diritto” o “dritto”: “tieniti dritto” vuol dire “sii un uomo d’onore, guarda dritto in faccia, fai fronte, guarda nel viso”. La parola “fronte” è assolutamente centrale, come in “far fronte a”. In altri termini, attraverso delle strutture linguistiche che sono, allo stesso tempo, strutture corporali, si inculcano delle categorie di percezione, di apprezzamento, di valutazione, e allo stesso tempo dei princìpi di azione sui quali si basano le azioni, le ingiunzioni simboliche (le ingiunzioni del sistema di insegnamento, dell’ordine maschile, ecc.). In sintesi, è attraverso una logica disposizionale che l’ordine si impone.»
Il “comportamento adeguato” di cui parlavo sopra è oggetto nel corso del tempo di una codificazione. Si elabora un rituale al quale non è ammesso derogare, che governa gli scambi e le relazioni (con la divinità, o tra gli uomini). Si pensi ad esempio al motivo del duello che crea la fama, sinistra appunto, dell’Innominato: il non voler cedere la destra. Questa ritualizzazione è necessaria per diminuire gli attriti, le incomprensioni, le incertezze. Il comportamento adeguato viene riassunto in formule, e sacralizzato: diventa perciò appannaggio della casta sacerdotale, e successivamente di quella dominante (l’aristocrazia). La cosa si ripete in genere in conseguenza di ogni scossone, di ogni momento di grande trasformazione sociale. Nel rinascimento, ad esempio, quando la vecchia nobiltà di spada cede il passo a quella di roba, e gli assetti sociali vengono sconvolti dall’ingresso di nuovi attori, si moltiplicano i manuali di “comportamento adeguato” (il Galateo, Il Cortegiano, ecc …).
Hertz (e finalmente torniamo a lui) sottolinea però ancora un altro aspetto, quello in fondo più pertinente alla domanda dalla quale siamo partiti. Ritiene che la polarizzazione culturale abbia a sua volta un effetto reversivo, e nel contempo amplificatorio, proprio sulla tendenza fisiologica originaria. In altre parole, il fatto che la maggior parte della popolazione utilizzi la mano destra è almeno in parte imputabile all’essere orientata la nostra società in quella particolare direzione. Il che spiega l’accanimento col quale in passato si perseguitava o si cercava di correggere la “devianza” dei mancini. Ma anche nel presente, malgrado non pesi più su di essi un vero e proprio stigma sociale, è necessario che i mancini imparino, per “destreggiarsi” appunto nei comportamenti quotidiani, a utilizzare la mano destra, mentre i destrorsi non hanno la necessità opposta: per fare qualche esempio, si scrive da destra a sinistra, ciò che complica parecchio la vita ai mancini (tanto più quando devono scrivere sui tavolini reclinabili attaccati al bracciolo destro delle sedie), il cambio della macchina va gestito con la mano destra (tranne in Inghilterra, ma non per una maggiore apertura, piuttosto per spirito di contraddizione[8]), ecc … Sto banalizzando un ragionamento complesso, ma la sostanza è quella.
L’interpretazione di Herzt è senz’altro suggestiva, a patto di non estremizzarla. In effetti la lateralità specifica nell’uso degli arti è condivisa da altri primati, ma in essi non è altrettanto caratterizzante come nell’uomo. In genere usano quasi indifferentemente la destra e la sinistra. E questo parrebbe suffragare l’interpretazione di Hertz. Ma la spiegazione non può essere solo di carattere socio-antropologico. A oltre un secolo dalla formulazione di quella ipotesi, lo sviluppo delle neuroscienze, la conoscenza dei meccanismi cerebrali, le nuove scoperte della paleontologia, ecc … hanno modificato di parecchio l’approccio interpretativo.
Voglio dire che la prevalenza negli umani dell’uso della mano destra, per quanto poi enfatizzata da un accumulo di fattori sociologici e culturali, ha un’origine più complessa. Occorre dunque risalire oltre, fino ad un meccanismo ancora più remoto, quello biologico. Temo che la cosa mi stia prendendo la mano (destra, naturalmente: anche sulla tastiera). In effetti non mi sto più chiedendo se sono di destra o di sinistra, ma quanto l’idea stessa di questa appartenenza sia indotta da fattori culturali e quanto da una eredità biologica. In sostanza, se si sceglie o meno di essere “sinistrorsi” o “destrorsi”. Mi sto addentrando in un territorio pericoloso, pieno di sabbie mobili. (…)
Note
[1] Interpolazione da Sandro Penna. L’originale recita così: “Il problema sessuale/ prende tutta la mia vita/ sarà un bene o sarà un male/ mi domando ad ogni uscita”.
[2] Max Jacob nel suo “Specchio di astrologia” associa questo segno all’occulto e al mistero. Mi ci riconosco poco, a meno di voler intendere che si può risultare “misteriosi” anche senza esserlo affatto, solo per motivi caratteriali. Concordo invece sull’idea che sia un segno amante del rischio (Jacob dice: più di tutti gli altri). In effetti spesso il rischio sono andato a cercarlo, ma non per dimostrare di essere il più coraggioso: l’ho fatto in genere quando ero solo, semplicemente perché le situazioni spericolate mi divertivano. Anche sul fatto che sia piuttosto difficile prendere in giro uno Scorpione sono d’accordo, non perché non abbia il senso dell’umorismo, ma perché ne ha sin troppo, e lo esprime attraverso l’ironia e più spesso ancora col sarcasmo. Quest’ultimo può essere anche interpretato come una manifestazione di cattiveria, ma in realtà è una reazione di risposta a sollecitazioni troppo idiote. A volte, ammetto, un po’ sproporzionata.
Jacob sostiene che gli Scorpioni hanno una concezione molto personale dell’equità, nel senso che dettano loro le regole e sono capaci di una discrezione assoluta ma, al contempo, sono capaci di infrangere le regole con una nonchalance impressionante. Qui la cosa va chiarita. Senz’altro amo dettare io le regole, e pretendo siano rispettate, ma sono comunque il primo a rispettarle: e quelle dettate dagli altri le violo solo se mi paiono palesemente inique o stupide, e lo faccio alla luce del sole, assumendomene la responsabilità. Mi piace anche il resto della descrizione, seppure mi corrisponda solo in parte: “Grazie al tagliente senso dell’umorismo, e al velo di mistero che le accompagna, le persone dello Scorpione hanno un fascino superiore a quello della maggior parte degli altri segni. È da tenere però in conto che lo Scorpione può essere difficile da gestire come partner (giustissimo). È da ricordare che l’animale Scorpione è l’unico capace di darsi la morte, con il proprio pungiglione, se si rende conto di non avere scampo”. O magari ne ha solo le scatole piene.
[3] In realtà evito di ripercorrere il cammino delle destre e delle sinistre storiche (per questo rimando a L’ultimo in fondo, a sinistra, in “Critica della ragion pigra“, Viandanti delle Nebbie 2004). Mi limito a ricordare che queste denominazioni sono invalse solo quando i rapporti gerarchici hanno cessato di viaggiare dall’alto al basso, all’interno di un ordine che si voleva i-mutabile e dettato da una sfera superiore, celeste, e ne era lo specchio terreno: cioè dopo la rivoluzione scientifica e quelle industriale e politica che ne sono conseguite.
[4] Mi riconosco nella posizione analoga espressa da Steven Pinker, quando constata di non essere né di destra né di sinistra, ma più vicino al liberalismo che all’autoritarismo. E, almeno in parte, in quella di Cristopher Lasch, che si definisce un “conservatore di sinistra”.
[5] Così potrebbe sembrare se considerassimo casuale il posizionarsi dei rappresentanti del terzo stato a sinistra negli Stati Generali del 1789 (ma già era accaduto nel Parlamento inglese nel 1648). In realtà si posizionarono a sinistra perché i conservatori avevano già saldamente occupati gli scranni di destra, con una precisa motivazione simbolica.
[6] Per i drammatici sviluppi di questa concezione nel mondo greco rimando a “La vera storia del-la guerra di Troia“, Viandanti delle Nebbie, 2014.
[7] La rappresentazione oggi più diffusa, nei testi cartacei e sul web, delle diverse funzioni degli emisferi, elenca come fondamentali caratteristiche del sinistro “analitico/mascolino/ egocentrico” e del destro “intuitivo/femminile/altruista comunitario”. Si tratta evidentemente di una banalizzazione, che ha però un suo fondamento.
[8] Simon Shama fa risalire la scelta inglese di viaggiare a sinistra alla volontà di contrapporsi alla normativa rivoluzionaria francese. In verità, da una serie di schizzi di Jan Bruegel (il vecchio) si evince ad esempio che il traffico dei carri sulle strade fiamminghe si svolgeva già nel 1500 secondo quello che sarà poi il modello anglosassone.