di Paolo Repetto, 2010
Agli amici
Non scervellatevi sulla titolazione di questa piccola strenna. Non ha alcun significato o rimando esoterico. Mi ero semplicemente stufato di rincorrere titoli parafrasati, di strizzare l’occhio all’ipotetico lettore ideale, quello che sa dove l’hai pescato e se ne compiace; alla lunga è quasi altrettanto faticoso che inventarli. Così ho fermato la prima cosa che mi passava per la mente, e a posteriori credo di aver centrato quella giusta: i sessantatré inverni che ho alle spalle (essendo nato a fine novembre ne conto uno in più).
Computo il vissuto in inverni non per una disposizione pessimista, ma perché l’inverno è sempre stata la mia stagione preferita. Quelli reali, per uno che dai dieci anni in poi ha sempre dovuto viaggiare, come studente prima e per lavoro poi, sono stati trafficati e faticosi: ma quello ideale, forse proprio per questo motivo, è sempre stato il luogo e il tempo della pace.
L’inverno offre l’alibi perfetto per le giornate perse, o che sembrano tali, trascorse a far nulla, a leggere, a rovistare cassetti, a fingere di mettere ordine. Ti scarica della responsabilità di vivere intensamente “fuori”, in pubblico o in mezzo alla natura, al mare, al fiume o al parco giochi, della coazione ad approfittare delle belle giornate per “fare qualcosa”, della necessità di riempire di significati “attivi” il tempo. Ti consente anche di trascorrere un intero pomeriggio ad ideare un nuovo libretto, senza che nessuno, tu per primo, te lo rinfacci.
Per questo, se torno ad affliggervi, prendetevela con l’inverno.
Post scriptum. Mi viene in mente solo adesso che il titolo di un romanzo di Hugo è “Novantatré”. Ogni riferimento è puramente casuale. O almeno, è inconscio.