Ritratti di famiglia

La storia è una galleria di quadri,
dove ci sono pochi originali e molte copie.

Ritratti di famiglia copertinaIn concomitanza con la mostra-rassegna delle loro attività (la prima, e con ogni probabilità anche l’unica) i Viandanti delle Nebbie offrono ai “followers” una strenna natalizia. L’idea iniziale prevedeva una plaquette sul modello dei vecchi calendarietti profumati dei barbieri, per i quali proviamo tanta nostalgia (per i libretti, ma anche per i barbieri): poi abbiamo optato per una linea meno frivola.
Distribuiremo quindi cinquanta libretti (il che significa presumere, molto ottimisticamente, un numero di lettori doppio rispetto a quelli del Manzoni) che vogliono suggerire da dove arrivano i Viandanti, chi c’è idealmente alle loro spalle. Certi dell’impunità, perché quasi tutti gli interessati non sono più in vita, ci siamo permessi di vantare nobili ascendenze.
Rispetto a molti dei personaggi evocati i gradi di separazione sono almeno quattro o cinque. Il sesto ci avrebbe portato direttamente a Gesù, e ci pareva un tantino esagerato. E tuttavia …

03 Quadri in mostraL’albero genealogico dei Viandanti è fittissimo e composito. Risalendo di due secoli (non abbiamo voluto andare oltre, era già abbastanza complicato così) si incontrano un po’ tutte le tipologie e le varietà umane: scrittori, artisti, esploratori, viaggiatori, rivoluzionari, filosofi, storici, fumettisti, ecc…). In un modo o nell’altro coloro che abbiamo rintracciato hanno contribuito a indicare percorsi, a suggerire svolte, a portare ristoro e a orientarci nella nebbia. Non sono gli unici, naturalmente, perché la nostra è una famiglia molto allargata. Potremmo citarne almeno altrettanti, e anzi, quella dei gradi meno prossimi di parentela potrebbe già essere un’idea per una strenna futura.

Abbiamo volutamente omesso ogni indicazione biografica o bibliografica relativa ai personaggi presentati. Il bello del gioco sta proprio qui: ciascuno potrà fare eventuali ricerche di approfondimento per conto proprio.
Questo è lo spirito dei Viandanti.

Nella Galleria non hanno trovato posto figure femminili. Chiamatelo maschilismo, se volete, ma di fatto non ci è venuta in mente alcuna protagonista significativa dei nostri percorsi culturali. Questo non significa che non abbiamo incontrato donne eccezionali: significa solo che queste donne non hanno lasciato il segno. Per un difetto nostro di sensibilità, indubbiamente: ma ci sembrava terribilmente ipocrita inserirne qualcuna solo in ossequio al politicamente corretto.01a Tin Tin

P.s: Il fatto che Tintin o Milù compaiano sia in prima che in quarta di copertina non è casuale: sono tra gli antenati più nobili, non potevano mancare all’appello.

04 Bustin in mostra

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

Isaiah Berlin

Camillo Berneri

Renzo Calegari

Albert Camus

Nicola Chiaromonte

Stig Dagermann. 12

Charles Darwin

Franz De Waal

Hans Magnus Enzensberger

Patrick Leith Fermor

Caspar David Friedrich

Piero Gobetti

Knut Hamsun

William Henry Hudson

Alexander von Humboldt 20

Pëtr Kropotkin

Furio Jesi

Toni Judt

Gustav Landauer

Giacomo Leopardi

Primo Levi

Jack London

Herman Melville

Albert Frederic Mummery

George Orwell

Hugo Pratt

Élisée Reclus

Mario Rigoni Stern

Albert Robida

J.D. Salinger

Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

George  Steiner

Robert Louis Stevenson

Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

Alexis De Tocqueville

Sergio Toppi

Alfred Wallace

Charles Waterton

Titn Tin con bandiera dei pirati con sfondo uniforme

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

08 Ken Parker06 Milazzo05 BerardiHo impugnato il fucile per tutta la vita, eppure, il mio popolo è stato distrutto, la mia sposa torturata a morte…
Se mio figlio vivrà dovrà trovare un altro modo di combattere…Addio, “Lungo fucile” …

Isaiah Berlin

12 Isaiah BerlinGarantire la libertà ai lupi significa condannare a morte le pecore.

Non esiste alcuna istanza primaria in base a cui la verità, una volta scoperta, debba per forza essere anche interessante

11 Isaiah Berlin

Camillo Berneri

14 Camillo BerneriL’anarchismo è il viandante che va per le vie della Storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca. Egli si sofferma per adagiarsi all’ombra avvelenata, per dissetarsi alla fontana insidiosa. Egli sa che il destino, che la sua missione è riprendere il cammino, additando alle genti nuove mete.

 

16 Camillo Berneri

Renzo Calegari

17 Renzo CalegariQuesta storia è finita come doveva, con dei vincitori e dei vinti … il mio guaio è che non appartengo né agli uni né agli altri.

19 Renzo Calegari

Albert Camus

21 Albert CamusPerché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Bisogna che si cambi in esempio.


Nicola Chiaromonte

25 Nicola ChiaromonteQuando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distogliere lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per pri-ma ci si articola nella mente è: Che cosa rimane?… Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati “belli”, direbbe Plotino… Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male, e non si può fare che sia diversa-mente (e non si deve fare che appaia diversamente).

24 Nicola Chiaromonte

La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine. 

Stig Dagermann

26 Stig DagermanLe auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà.

  27 Stig Dagerman

L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo sicuramente è vero.

 

Charles Darwin

30 Charles DarwinNella lunga storia del genere umano (e anche del genere animale) hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare ed a improvvisare con più efficacia.

  

 

32 Charles Darwin

Lo stadio più elevato di cultura morale si ha quando riconosciamo che dovremmo controllare i nostri pensieri.

 

Franz De Waal

33 Franz de WaalTutti sanno che gli animali hanno emozioni e sentimenti, e che prendono decisioni simili alle nostre. Gli unici a fare eccezione, sembrerebbe, sono alcuni universitari. 

35 Franz de Waal

Tutto conferma la mia visione della morale “venuta dal basso”. La legge morale non è né imposta dall’alto, né dedotta da principi accuratamente razionalizzati, ma nasce da valori ben radicati, presenti da tempo immemorabile. Il più fondamentale deriva dal valore della vita collettiva per la sopravvivenza. Il desiderio di appartenenza, la voglia di capirsi, di amarsi e di essere amati ci spingono a fare tutto ciò che possiamo per restare nel miglior rapporto possibile con le persone dalle quali dipendiamo.


Hans Magnus Enzensberger

38 Han Magnus EnzesbergerLa televisione è puro terrorismo. La parola scompare, e con la parola ogni possibilità di riflessione.

39 Han Magnus Enzesberger e Umberto Eco

Negli ultimi duecento anni le società più evolute hanno suscitato attese di uguaglianza che non si possono soddisfare; e al contempo hanno fatto sì che ogni giorno per ventiquattro ore la disuguaglianza venga dimostrata su tutti i canali televisivi a tutti gli abitanti del pianeta. Ragione per cui la delusione umana è aumentata con ogni progresso.

Al perdente, per radicalizzarsi, non basta quello che gli altri pensano di lui, siano essi concorrenti o sodali… Egli stesso deve metterci del suo; deve dirsi: io sono un perdente e basta. L’estinzione non solo di altri, ma anche di se stesso, è la sua soddisfazione estrema.

 

Patrick Leith Fermor

44 Patrick Leith FermorUna magica pace vive nelle rovine dei templi greci. Il viaggiatore si adagia tra i capitelli caduti e lascia passare le ore, e l’incantesimo gli vuota la mente di ansie e pensieri molesti e a poco a poco la riempie di un’estasi tranquilla.

45 Patrick Leith FermorNon si parte per andare da nessuna parte senza aver prima di tutto sognato un posto. E viceversa, senza viaggiare prima o poi finiscono tutti i sogni, o si resta bloccati sempre nello stesso sogno.

 

Caspar David Friedrich

47 Caspar David friedrichL’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un’opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio.

 

49 Caspar David friedrichPerché, mi son sovente domandato, scegli sì spesso a oggetto di pittura la morte, la caducità, la tomba? È perché, per vivere in eterno, bisogna spesso abbandonarsi alla morte.


Piero Gobetti

52 Piero GobettiIl fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

51 Piero Gobetti

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

Knut Hamsun

53 Knut HamsunQuando parlo con un uomo, non ho bisogno di guardarlo per seguire esattamente quello che dice; sento subito se egli mi dà a bere qualche cosa o me ne nasconde qualche altra; la voce, credetemi, è un apparecchio pericoloso

54 Knut Hamsun

  “Amo tre cose”, dico allora.
“Amo il sogno d’amore di un tempo, amo te e amo quest’angolo di terra.”
“E cosa ami di più?”
“Il sogno.”

 

William Henry Hudson

57 William Henry HudsonProvo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico,

58 William Henry Hudson


Alexander von Humboldt

61 Alexander von HumboldtCi sono popoli più acculturati, avanzati e nobilitati dall’educazione di altri, ma non esistono razze più valide di altre, perché sono tutte egualmente destinate alla libertà.

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La visione del mondo più pericolosa di tutte è quella di coloro i quali il mondo non l’hanno visto.

 

Pëtr Kropotkin

65 Petr KropotkinL’evoluzione non è lenta e uniforme come si vuol sostenere. Evoluzione e rivoluzione si alternano, e le rivoluzioni – i periodi cioè di evoluzione accelerata – appartengono all’unità della natura esattamente come i periodi in cui l’evoluzione è più lenta.

 

Non appena avrai scorto un’ingiustizia e l’avrai compresa – un’ingiustizia nella vita, una menzogna nella scienzao una sofferenza imposta da altri – ribellati contro di essa!  LottaRendi la vita sempre più intensa!

66 Petr Kropotkin

E così tu avrai vissuto, e poche ore di questa vita valgono molto di più di anni interi passati a vegetare.

 

 Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.

Furio Jesi

67 Furio JesiLa cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche  Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra.

68 Furio Jesi

Toni Judt

71 Toni JudtIl problema è che i socialisti hanno sempre nutrito una fiducia incondizionata nella razionalità degli uomini.

70 Toni Judt

Lo stile materialista ed egoísta della vita contemporánea non è inerente alla condizione umana. Gran parte di quello che a noi pare “naturale” data dalla decade del 1980: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le crescenti differenze tra ricchi e poveri. E, soprattutto, la retorica che li accompagna: un’acrítica ammirazione per i mercati sregolati, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione della crescita infinita.

 

Gustav Landauer

73 Gustav LandauerLo Stato non è qualcosa che si può distruggere con una rivoluzione, dato che esso esprime una condizione, una certa relazione tra gli esseri umani, una modalità del comportamento umano; lo possiamo distruggere solo contraendo altri tipi di relazioni, assumendo altri tipi di comportamento.

 L’anarchia non riguarda il futuro, riguarda il presente; non è questione di ciò che speri, è questione di come vivi.

 


Giacomo Leopardi

74 Giacomo LeopardiPasseggere: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo.

  La ragione è un lumela Natura vuol essere illuminata dalla ragionenon incendiata. 75 Giacomo Leopardi

Primo Levi

153ab Primo LeviPerché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

 

 Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.

 

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.

156 Primo Levi

Jack London

77 Jack LondonNon era della loro tribù, non poteva parlare il loro gergo, non poteva far finta di essere come loro. La maschera sarebbe stata scoperta e, per altro, le mascherate erano estranee alla sua natura.

78 Jack London

Dalla creazione del mondola barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progressoNel corso dei secolil’abbiamo soltanto ricoperta  con una mano di vernice, nient’altro.


Herman Melville

154 Herman MelvilleNoi non possiamo vivere soltanto per noi stessi. Le nostre vite sono connesse da un migliaio di fili invisibili, e lungo queste fibre sensibili, corrono le nostre azioni come cause e ritornano a noi come risultati.  

157 Herman Melville

Io sono tormentato da un’ansia continua per le cose lontane. Mi piace navigare su mari proibiti e scendere su coste barbare.

156 Herman Melville

Dell’amicizia a prima vista, come dell’amore a prima vista, va detto che è la sola vera.

 

Albert Frederic Mummery

81 Albert Frederic MummeryLa via più difficile alle cime più difficili è sempre la cosa giusta da tentare, mentre i pendii di sgradevole pietrisco vanno lasciati agli scienziati. Il Grépon merita di essere salito perché da nessuna altra parte l’alpinista troverà torrioni più arditi, fessure più selvagge, precipizi più spaventosi.
Assolutamente impossibile con mezzi leali.

 

George Orwell

85 George OrwellSapere dove andare e sapere come andarci sono due processi mentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessa personaI pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango.

  

Così come per la religione cristiana, anche per il socialismo la peggior pubblicità sono i suoi seguaci.

86 George Orwell

Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenzaA loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto.

 

 

Hugo Pratt

88 Hugo PrattQuelli che sognano ad occhi aperti sono pericolosi, perché non si rendono conto di quando i sogni finiscono.

89 Hugo Pratt - Corto Maltese

Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…

Élisée Reclus

92 Elisée ReclusL’Anarchia è la più alta espressione dell’ordine. 

93 Elisée Reclus

Se noi dovessimo realizzare la felicità di tutti coloro che  portano una figura umana e destinare alla morte tutti coloro che hanno un muso e che non differiscono da noi che per un angolo facciale meno aperto, noi non avremmo certo realizzato il nostro ideale. Da parte mia, nel mio affetto di solidarietà socialista, io abbraccio anche tutti gli animali.


Mario Rigoni Stern

159 Mario Rigoni SternI ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia. 

 

163 Mario Rigoni SternDomando tante volte alla gente: avete mai assistito a un’alba sulle montagne? Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura.

 

160 Mario Rigoni SternIl tempo, nella vita di un uomo, non si misura con il calendario ma con i fatti che accadono; come la strada che si percorre non è segnata dal contachilometri ma dalla difficoltà del percorso.

 

Albert Robida

96 Albert RobidaMio caro Mandibola – diceva quasi sempre Farandola terminando – abbandono definitivamente ogni idea di riforma sociale, e mi lancio con tutte le vele spiegate, nella più vasta industria. Gli affari, il commercio, ecco ciò che mi occorre; e dal momento che le grandi imprese sono necessarie alla mia salute, avanti con le gigantesche speculazioni commerciali! 

  Il vecchio telegrafo permetteva di comunicare a distanza con un interlocutore. Il telefono permise di sentirlo. Il telefonoscopio superò entrambi rendendo possibile anche vederlo. Che si può volere di più?

99 Albert Robida

J. D. Salinger

100 J D SalingerIo sono una specie di paranoico alla rovescia. Sospetto le persone di complottare per rendermi felice.

 

101 J D Salinger - Il giovane HoldenLa più spiccata differenza tra la felicità e la gioia è che la felicità è un solido e la gioia è un liquido.

 

Camillo Sbarbaro

103 Camillo SbarbaroSe potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.

 

 Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.

 Si comincia a scrivere per essere notati, si seguita perché si è noti.

105 Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

107 Erwin SchrödingerIl mondo è una sintesi delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e dei nostri ricordi. È comodo pensare che esista obiettivamente, di per sé. Ma la sua semplice esistenza non basterebbe, comunque, a spiegare il fatto che esso ci appare.

Se questi dannati salti quantici dovessero esistere, rimpiangerò di essermi occupato di meccanica quantistica.

  106 Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

110 Johann Gottfied SeumeCamminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa. 

113 Johann Gottfied Seume

In tutta la mia vita non mi sono mai abbassato a chiedere qualcosa che non abbia meritato, e nemmeno chiederò mai quel che ho meritato finché esistono in questo mondo tanti mezzi di vivere onestamente: e quando poi anche questi finissero, ne resterebbero alcuni altri per non vivere più.

115 Johann Gottfied Seume

 

George  Steiner

116 George SteinerTutta la metafisica è un ramo della letteratura fantastica.

Un genio degli scacchi è un essere umano che concentra doni mentali ampi e poco compresi, e lavora su un’impresa umana alla fine insignificante.

L’etichetta di homo sapiens, a parte pochi casi, probabilmente è solo un’infondata millanteria.

120 George Steiner

Robert Louis Stevenson

121 Robert Louis StevensonNon chiedo ricchezzené speranze, né amorené un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi.
Io non ho viaggiato per andare da qualche parte, ma per il gusto di viaggiare.
La questione è muoversi.

122 Robert Louis Stevenson

La politica è forse l’unica professione per la quale non viene ritenuta necessaria alcuna preparazione specifica.


Henry David Thoreau

125 Henry David ThoreauNon c’è valore nella vita eccetto ciò che scegli di mettere in essa e nessuna felicità in nessun posto eccetto ciò che gli apporti tu.

126 Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

128 Sebastiano TimpanaroScrivere significa svolgere un ragionamento che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze. Senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali. Seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni. Chi scrive offre al lettore la propria coerenza di ragionamento e lo invita ad analoga coerenza.


Alexis De Tocqueville

135 Alexis De TocquevilleSe cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?

137 Alexis De Tocqueville 

In una rivoluzione, come in un raccontola parte più difficile è quella di inventare un finale.

 

Sergio Toppi

138 Sergio ToppiIo detesto essere chiamato artista: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo.

 

139 Sergio ToppiIl suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai d’imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l’incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri.

 

Alfred Wallace

142 Alfred WallaceQuesta progressione, per piccoli passi, in varie direzioni, ma sempre controllata ed equilibrata dalle condizioni necessarie, soggette alle quali solo l’esistenza può essere preservata, può, si crede, essere seguita in modo da concordare con tutti i fenomeni presentati da esseri organizzati, la loro estinzione e successione nelle epoche passate, e tutte le straordinarie modificazioni di forma, istinto e abitudini che esibiscono.

146 Alfred Wallace

 

Charles Waterton

147 Charles WatertonMentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione.

Tin Tin si avvia

L’inventore dei capelli a spazzola

di Paolo Repetto, 4 maggio 2020

Se Saturnino Farandola discendeva i fiumi africani in groppa ad un ippopotamo (per di più a vela) qualcuno prima di lui aveva provato a farlo a cavalcioni di un caimano. Solo che non si trattava di un personaggio letterario, ma di un tizio in carne ed ossa. Il tizio si chiamava Charles Waterton: era un aristocratico inglese discendente da una famiglia cattolica di antichissimo lignaggio, un naturalista appassionato, un burlone irriverente, un magnifico atleta (addirittura un free climber ante litteram), oltre che un personaggio incredibilmente stravagante. La metà di questi requisiti sarebbero stati sufficienti a rendermelo interessante, tutti assieme mi hanno entusiasmato.

Tra le stravaganze minori di Waterton c’era quella di portare i capelli tagliati a spazzola, in un’epoca (i primi dell’ottocento) nella quale andavano di moda le teste leonine (vedi Foscolo, Chateaubriand e Beethoven) o il taglio “Roma imperiale” (vedi Napoleone). È stata proprio questa caratteristica a farmelo conoscere. Cercavo sue notizie per un semplice riferimento trovato in nota in un libro su Humboldt, e mi sono imbattuto nel ritratto di un tale con i capelli tagliati esattamente come li porto io, cosa che nella ritrattistica del primo ottocento non avevo mai riscontrato. Mi ha incuriosito, e non c’è voluto poi molto a scoprire che questa era solo l’ultima delle sue eccentricità.

Quando è uscita in edizione italiana la biografia scritta da Julia Blackburn (Cavalcare il coccodrillo, Boringhieri 1993) ho potuto godermi per intero il racconto di un uomo e di una vita eccezionali. E ad essa dunque rinvio, per una conoscenza più approfondita, chi fosse per qualche motivo intrigato dal personaggio. Garantisco che ne vale la pena. Non sono invece mai stati tradotti (e dubito che lo saranno) i diari, le opere scientifiche e il resoconto delle sue avventure nell’America del Sud. Mi limiterò qui ad una sommaria ricostruzione della sua vita e a sottolineare alcuni aspetti particolarmente singolari (in qualche caso molto attuali) del suo modo d’essere e di pensare.

Waterton vantava nella sua ascendenza una schiera incredibile di santi, tra i quali anche Thomas More, oltre a qualche sovrano come Edoardo il confessore. Era un aristocratico dello Yorkshire, la contea della rosa bianca, nato nel 1782 (quindi coetaneo di Hugh Glass, il tizio sopravvissuto ad un incontro ravvicinato con un grizzly e reso famoso da Revenant – tanto per intenderci sulla stoffa di cui era fatta questa gente), cresciuto nella magione avita di Walton Hall, in mezzo ad una natura rigogliosissima e semiselvaggia, e libero di godersela tutta. Sin dalla giovinezza non era uomo da lasciarsi mettere i piedi addosso, anche nel clima ferocemente anticattolico che in quegli anni ancora si respirava in Inghilterra: chi lo incontrava era conquistato dal suo carattere dolcissimo e svagato, ma quando si impuntava Waterton sapeva essere testardo come un mulo e terribilmente schietto: cosa che col tempo gli alienò le simpatie di molti suoi contemporanei.

Si era fatto (e rotto, ripetutamente) le ossa cavalcando alberi e catturando animali nella campagna attorno a casa, e anche nel collegio gesuita cui fu inviato continuò seguire la sua vocazione, tanto da essere investito ufficialmente del ruolo di cacciatore di volpi e di topi. Nei confronti di questi ultimi, ma solo di quelli della specie grigia, a suo dire arrivata in Inghilterra nel 1688, con l’usurpatore protestante Guglielmo d’Orange, e in breve tempo divenuta dominante a spese della specie autoctona nera, nutriva un odio feroce. Li chiamava topi “hannoveriani” e li aveva eletti a simbolo della malvagità assoluta.

A dispetto di quanto si dice della severità delle scuole gesuitiche, Waterton trovò nel college di Stonyhurst, un ambiente libero e stimolante (non è un caso che le scuole gesuitiche migliori e più “progressiste” fossero quelle tollerate, obtorto collo, nei paesi protestanti), cosa che lo indusse a rimanere in contatto per tutta la vita con i suoi vecchi insegnanti e a far loro visita ogni anno, quando era in Inghilterra, per la gioia e il divertimento dei nuovi studenti. Ho trovato anche menzione di alcune sue bravate, come lo scalare una torre vicina all’istituto, che gli sarebbe valsa una dura punizione, ma nella biografia della Blackburn non se ne parla. Le bravate peraltro ci starebbero tutte, come dimostrò la sua vita successiva, ma certamente il rapporto con i padri gesuiti non si incrinò mai.

Nell’Inghilterra “hannoveriana” non era consentito ai cattolici frequentare gli studi universitari, e Charles si trovò prima dei vent’anni a chiedersi cosa avrebbe voluto fare da grande. In realtà il suo futuro era già deciso: come primogenito avrebbe ereditato il titolo e la tenuta di famiglia, ancora notevole a dispetto degli espropri che l’avevano mutilata a partire dallo scisma protestante in poi: ma il giovane non era tipo da rimanere con le mani in mano in attesa della successione. La sua esuberanza e la fame di natura non potevano trovare sfogo nella sola Inghilterra. Nel 1802 si trasferì quindi a Malaga per aiutare un paio di zii che erano lì in affari: ne approfittò per imparare lo spagnolo, viaggiare lungo la costa meridionale e leggere in originale il Don Chisciotte, che lo entusiasmò e rimase il libro della sua vita. L’anno successivo si trovò però in mezzo ad una terribile epidemia di febbre gialla (che solo in quella città uccise oltre la metà degli abitanti), fu contagiato e ne uscì vivo, e una volta ormai immune si prodigò ad aiutare gli ammalati (tra i quali uno degli zii, che morì in poco tempo). Riuscì poi, forzando il blocco di quarantena steso attorno alla città, a fuggire su un veliero svedese e a tornare in Inghilterra.

Vi rimase per poco. Un anno dopo, a 22 anni, si imbarcava nuovamente, e questa volta per varcare l’oceano: la meta era la Guyana britannica, dove si recava in qualità di sovrintendente di una piantagione di cotone acquistata dal padre nei pressi di Georgetown. L’ambiente coloniale lo disgustò immediatamente, a partire dalla vita pigra e annoiata e dal lusso ostentato dei proprietari fino alla condizione miserabile degli schiavi. Evitò quindi accuratamente i circoli e i salotti cittadini, mentre cominciò a girovagare sia all’interno della colonia, sia tra le isole antillane, da Grenada a Barbados. L’unica amicizia vera la maturò con uno strano personaggio, per certi versi non molto dissimile da lui, Charles Edmonstone, uno scozzese che si era ritirato nel mezzo della giungla interna, sposando la figlia di un capo nativo ed evitando i rapporti con gli altri europei, ed era diventato una sorta di protettore e rappresentante degli indigeni. Waterton tornava comunque ad intervalli quasi regolari in Inghilterra, dove aveva un mentore in sir Joseph Banks, fondatore del giardino botanico di Londra ed ex compagno di esplorazioni del leggendario Cook. E proprio sotto lo stimolo di Banks intraprese a partire dal 1812 quattro successive spedizioni esplorative all’interno del continente.

Nel 1812 si inoltrò per quattro mesi nel cuore meridionale della Guiana, sconfinando anche in Brasile, viaggiando nella stagione delle piogge, in parte in canoa e in parte a piedi (anzi, a piedi nudi: questa era un’altra delle sue eccentricità, non sopportava le calzature), senza uno scopo ben definito, se non il constatare l’inesistenza del mitico lago dell’Eldorado: in realtà a muoverlo era il puro piacere di stare a contatto con la natura nel suo stato più primordiale.

Quattro anni dopo ripartì, ancora una volta col viatico di Banks, che gli affidò il compito di raccogliere il maggior numero possibile di semi “di ogni pianta notevole per bellezza o rarità”, da donarsi ai giardini reali di Kews. La spedizione in realtà non decollò mai, un po’ per la confusione e le velleità di Waterton (inizialmente voleva risalire addirittura tutto il Rio delle Amazzoni, proseguire sul Rio Negro e arrivare alle montagne di Cristallo), un po’ per una serie di inconvenienti che lo costrinsero a cambiare più volte i piani. Dopo aver zizzagato a lungo dal Brasile al Suriname e alla Caienna, alla fine si risolse ad accantonare il progetto e a compiere la sua ricerca vagabondando in solitaria per sei mesi tra le paludi e le montagne della Guiana britannica, raccogliendo soprattutto centinaia di esemplari di uccelli che trattava personalmente con un suo specialissimo metodo tassidermico.

Tra la seconda e la terza spedizione si inserì uno stravagante siparietto. Tornato in Europa, Waterton si recò nell’autunno del 1817 a Roma, per una udienza del papa Pio VII. Voleva offrirgli un quadro realistico di come era vissuta la religiosità dagli indigeni, in base alle osservazioni che aveva potuto fare durante la sua permanenza in colonia. Ma imbattutosi, appena arrivato in città, in un vecchio compagno del collegio gesuita, ricadde nello spirito adolescenziale e con il compare si arrampicò sin sulla punta del parafulmine della cupola di san Pietro, dove lasciò infissi un paio di guanti. La bravata non piacque affatto al pontefice, che intimò ai due di andare a rimuovere i guanti e di sparire velocemente dalla circolazione.

Il richiamo della foresta si faceva comunque risentire, e Waterton sarebbe partito già l’anno seguente se non fosse rimasto vittima durante il viaggio di ritorno dall’Italia di un grave incidente, dovuto come al solito ad una delle sue acrobazie, che lo mise a rischio di perdere la funzionalità di un ginocchio. Tornò ad una forma accettabile solo dopo due anni, nel 1820, e stavolta decise di organizzare la nuova spedizione con maggiore criterio. Aveva scelto come base l’azienda ormai in abbandono del suo amico Charles Edmonstone, che era rientrato in Europa. Di qui, con una ridottissima squadra (tre compagni) partiva per incursioni nell’interno, in cerca di esemplari di fauna da imbalsamare col suo particolare metodo. Si era munito di casse apposite per trasportarli poi in Europa, e le riempì tutte.

Proprio in questa occasione compì la prodezza che doveva renderlo popolare. Voleva imbalsamare un caimano, ma un esemplare che per dimensioni non avesse eguali in Europa, e per farlo aveva bisogno di catturare l’animale senza rovinare l’integrità della pelle, quindi di conservarlo vivo fino al ritorno presso la fazenda, dove aveva installato il suo laboratorio tassidermico. Riuscì ad organizzare la cattura, fra lo sbalordimento dei compagni, facendo uscite il caimano dall’acqua, avvicinandoglisi con estrema cautela, balzandogli all’improvviso sul dorso e abbrancandone le zampe anteriori per impedire loro di toccare terra e all’animale di tornare verso il fiume. Dopo una breve cavalcata da rodeo, con il caimano che si torceva da ogni parte e dava violenti colpi di coda, i suoi compagni riuscirono finalmente ad immobilizzare la bestia. Una cosa analoga fece di lì a poco con un boa constrictor lungo quasi cinque metri.

Questa volta rimase nella foresta undici mesi, vivendo alla maniera degli indigeni, ammalandosi e curandosi poi con i loro metodi, e facendo incetta di animali. Quando le casse non furono più in grado di accoglierne altri, si ritenne soddisfatto: “Avevo raccolto alcuni insetti rari, duecentotrenta uccelli, due testuggini di terra, cinque armadilli, due grandi serpenti, un bradipo, un formichiere gigante e un caimano”. Al ritorno però l’impatto con la civiltà e la burocrazia del vecchio continente fu disarmante. Ad accoglierlo non c’era più sir Joseph Banks, morto ormai da qualche anno, e i funzionari di dogana trattennero i suoi esemplari per un sacco di tempo, col rischio di far andare a male i frutti dei suoi sforzi, e gli chiesero anche il pagamento di un pesante dazio. Waterton ne fu particolarmente urtato, e risolse che avrebbe di lì innanzi limitato al massimo i rapporti con la “cricca hannoveriana” che governava il paese, concentrandosi invece nel fare di Walton Hall una sorta di zona franca.

Il quarto viaggio americano fu dunque di natura completamente diversa, a partire già dallo scenario. Questa volta, e siamo nel 1826, la meta fu la neonata repubblica statunitense. Il viaggio nell’America del nord non fu una spedizione esplorativa, ma una sorta di pellegrinaggio. A Waterton era capitata tra le mani una copia di American Ornitology, un’opera straordinaria del naturalista e pittore scozzese Alexander Wilson, che a quasi trent’anni si era trasferito in America con l’intento di censire e descrivere, soprattutto attraverso le immagini, tutti i volatili del continente. Wilson aveva attuato il suo proposito senza poter contare su alcuna sponsorizzazione, si era mantenuto praticando i mestieri più diversi, aveva camminato per migliaia e migliaia di chilometri lungo i fiumi e dentro le foreste dell’est americano. Waterton avvertì, dietro le descrizioni e i disegni, una immediata affinità, e decise di ripercorrere almeno in parte gli itinerari del pittore, morto ormai da più di dieci anni, per condividerne appieno anche le sensazioni. Appena giunto nel nuovo continente si mise quindi in contatto con coloro che erano stati intimi di Wilson, soprattutto con lo zoologo George Ord, che ne aveva completata e valorizzata l’opera. Tra i due si instaurò una strana amicizia, stante la differenza dei caratteri, che proprio perché coltivata poi solo a distanza sarebbe durata tutta la vita.

Waterton percorse parte del cammino fatto da Wilson, non mancò di lasciarsi andare a qualche stranezza, come quella di andare a curarsi una slogatura mettendo la gamba sotto il getto delle cascate del Niagara, (pare impossibile, ma sembra l’abbia fatto davvero), ma soprattutto rimase affascinato dal paese e dalla gente libera e schietta che lo abitava. È interessante in tal senso confrontare le sue impressioni con quelle di Tocqueville, che visitò le stesse zone sette anni dopo, e con quelle di Dickens, che lo fece quasi vent’anni dopo, traendone impressioni ben diverse. Per Waterton paradossalmente era l’immagine di una certa arretratezza a conferire fascino alle terre americane: “Mi sembra rappresentare ciò che deve essere stata l’Inghilterra cinquant’anni fa. Si sente parlare molto raramente di criminalità, e tutto il paese sembra unito e in pace con se stesso”. Anche se non mancava di rilevare che “in queste vaste regioni la natura sta perdendo rapidamente il suo antico aspetto e indossa vesti nuove. La maggior parte degli imponenti alberi da legname sono stati asportati: migliaia di alberi giacciono al suolo esanimi; mentre prati, campi di cereali, villaggi e pascoli sorgono di continuo davanti agli occhi del viaggiatore che percorre i tratti di bosco superstiti”.

Il momento negativo di questo viaggio fu invece costituito dall’incontro con John James Audubon, un altro pittore naturalista impegnato in un’opera simile a quella di Wilson e destinato ad oscurare la fama di quest’ultimo. I due non avevano in effetti, a parte l’interesse per gli uccelli – che si manifestava però in modo opposto: Audubon era un cacciatore quasi feroce – nulla che li accomunasse. Il francese era un uomo di spettacolo, che coltivava accuratamente la propria immagine di scorridore della frontiera: lunga chioma arricciata e ingrassata, abiti in pelle di lupo indossati anche nei ricevimenti eleganti, fucile in spalla o imbracciato in tutti i ritratti. Waterton non era certo il tipo da farsi impressionare da queste cose, ed era parecchio infastidito nel constatare come l’opera di Audubon stesse surclassando quella di Wilson nel gradimento del pubblico. Per questo motivo, negli articoli di scienze naturali che pubblicò in Inghilterra durante gli anni successivi si dedicò con sottile piacere a smontare pezzo per pezzo le osservazioni naturalistiche e i racconti avventurosi di Audubon, facendo intendere in pratica che erano quasi tutte panzane, o cose scopiazzate da altre fonti. Il che naturalmente gli attirò i fulmini degli ammiratori (e degli editori) del francese, che ribaltarono la faccenda: “Mentre il signor Audubon è esposto a pericoli o privazioni, e deve attendersi sostegno e ricompensa solo dal patrocinio del pubblico, il signor Waterton se ne sta tranquillamente insediato nella sua magnifica residenza nella campagna inglese, nel mezzo dei suoi possedimenti ancestrali”. (Magazine of natural History, 1833)

Nulla di più falso, intanto perché Waterton, quanto a pericoli e privazioni sofferti, non era certo secondo a nessuno, meno che mai ad Audubon, e poi perché il nostro se ne stava tutt’altro che tranquillamente insediato nei suoi possedimenti, a vivere di rendita. Nelle pause tra un viaggio e l’altro Waterton aveva infatti già cominciato a risistemare Walton Hall secondo un piano e in vista di un fine ben determinati. Aveva fatto costruire attorno al parco che circondava la magione un muro lungo oltre cinque chilometri e alto in alcuni punti quasi cinque metri, opera che mise a dura prova le sue finanze. Il muro doveva costituire una barriera contro i bracconieri e contro i grossi mammiferi predatori (volpi, tassi), per offrire rifugio ad ogni altra specie avicola o terrestre (comprese gazze, corvi, cornacchie, gheppi, allodole, puzzole e donnole, ed esclusi naturalmente i ratti grigi, a liquidare quali concorrevano in effetti tutte le altre specie). All’interno della recinzione erano bandite trappole e tagliole di ogni tipo, nessun animale poteva essere cacciato e anche gli alberi morti e caduti non dovevano essere rimossi. Per alcuni animali, ad esempio per i ricci, Waterton pagava addirittura una piccola taglia ai contadini che glieli portavano vivi. Versava loro anche una sorta di cauzione annua perché non sparassero agli stormi di oche che si fermavano in zona, soprattutto sulle rive del suo laghetto, durante le migrazioni. Le piante cadute diventavano base per la crescita selvaggia dell’edera o si trasformavano lentamente in fertilizzante, mentre nei tronchi cavi, spesso opportunamente chiusi con piccoli interventi in muratura, trovavano dimora le innumerevoli specie che animavano il suo piccolo e selvaggi paradiso terrestre.

In effetti, aveva creato il primo parco naturalistico al mondo, e continuò poi a difenderlo per tutta la vita. Stanti le devastazioni che la rivoluzione industriale stava producendo in tutta l’Inghilterra, e segnatamente in quella del nord-ovest, Walton Hall divenne una sorta di piccolissima oasi dove si conservava la natura di un tempo. Una battaglia legale contro un fabbricante di sapone che aveva piazzato i suoi impianti ai confini delle terre di Waterton e che con gli scarichi e le emissioni delle sue ciminiere inquinava aria, acque e terreni per un ampio raggio circostante, durò cinque anni, e si risolse con una vittoria più simbolica che reale per Waterton: il saponificio fu spostato più in là, ma venticinque anni dopo, e solo una decina dopo la scomparsa di Waterton, l’intera Walton Hall passò nelle mani del figlio di quel fabbricante, che si affrettò a consumare una postuma vendetta stravolgendo tutto il lavoro del naturalista.

Chi andava a visitare Walton Hall, come fece ad esempio lo stesso Charles Darwin dopo il ritorno dal viaggio con la Beagle (ma conosceva Waterton già da prima), non poteva non essere conquistato dal candore del proprietario e dalla giustezza del suo assunto, anche quando magari ne condivideva solo in parte il radicalismo e il modo di vivere. Tra i visitatori famosi ci fu probabilmente anche Dickens, che senz’altro conobbe Waterton personalmente: ma di questa visita non rimane testimonianza, perché la gran parte dell’epistolario di Waterton è andata perduta in un malaugurato incendio. D’altro canto lo “squire” non sembrava dare molta importanza alle differenze di estrazione o di fama dei visitatori: il parco era gratuitamente aperto a tutti, senza distinzioni, nobili, borghesi e popolani, operai e braccianti, e persino ai pazzi internati in un vicino manicomio. Il proprietario li accoglieva sempre conciato alla stessa maniera, nella sua “divisa da lavoro”, di solito a piedi scalzi, e li trascinava senza tanti convenevoli ad ammirare le meraviglie naturali, gli alberi secolari, gli aironi del lago, ecc… Si esibiva magari anche nei suoi numeri di arrampicata, per andare a prendere un nido, farlo ammirare e riportarlo al suo posto. I pazzi, probabilmente, si sentivano molto a proprio agio.

Poi li conduceva alla magione, dove già nell’ingresso e lungo le scale i visitatori erano accolti dai suoi capolavori di tassidermia, dai suoi inquietanti ibridi, nonché da una vera e propria galleria di quadri, disegni, oggetti e armi primitive, ed erano accompagnati dai suoi racconti e dalle sue spiegazioni. A fare gli onori di casa c’erano anche un pappagallo e un enorme gatto selvatico che Waterton si era portato appresso dalla Guinea, e che provvedeva a scongiurare la presenza degli odiati ratti grigi. Insomma, le visite a Walton Hall tutto dovevano essere, tranne che noiose.

Ma cosa trovavano i visitatori nel feudo di Waterton? Sin dall’ingresso avevano la sensazione di entrare in un altro mondo e in un’altra era. L’arco d’accesso era ridotto ad un rudere ed era interamente ricoperto dall’edera, un paio di torrette diroccate erano state trasformate in rifugi per gli storni o per i rapaci, ai lati del viale era tutta un’esplosione di vegetazione liberamente cresciuta, una sorta di giungla tenuta a bada solo con interventi minimi. La dimora di famiglia sorgeva su un’isoletta naturale, situata all’estremità di un lago di dieci e passa ettari di superficie, dalla forma molto allungata, che tagliava a metà la proprietà. L’isola era collegata alla sponda da un piccolo ponte di ghisa. Sulla terrazza antistante la facciata della casa era piazzato un grosso cannocchiale, che consentiva di esplorare tutta la superfice del lago e di ammirare la fauna avicola stanziale e quella di passaggio. Attorno al lago, che era al centro di una vallata ondulata, correva uno stretto sentiero, ma gli spostamenti erano molto più agevoli muovendosi sull’acqua con una piccola imbarcazione. Aggirandosi per la tenuta il visitatore coglieva immagini che parevano tratte dai paradisi terrestri dipinti da Jan Brueghel, fatti salvi le pecore e i leoni. Gli alberi secolari, le querce e gli olmi, coabitavano con i tassi e gli agrifogli piantati appositamente per favorire la nidificazione. Walton Hall era infatti un paradiso soprattutto per gli uccelli. A metà del secolo, nel suo pieno rigoglio, arrivò ad ospitare dai tre ai cinquemila volatili acquatici nella stagione estiva, e aveva colonie residenti di centinaia di aironi, di corvi, di cornacchie, di gheppi e di rapaci di ogni genere, tutti animali ai quali al di là del muro era data una caccia spietata. Ma c’erano anche i ricci, le donnole, le vipere (“le vipere sono numerosissime dentro le mura del parco, dove le attiro per proteggerle”), insomma, tutti i “nocivi” che altrove venivano sterminati.

Alcuni testimoni raccontano che Waterton si muoveva in mezzo a questo eden primordiale come Adamo prima della cacciata. Gli animali erano così abituati alla sua presenza discreta da accorrere a mangiare dalle sue mani, o da accompagnarlo nelle sue passeggiate. Mentre fuori l’aspetto del territorio stava diventando sempre più irriconoscibile, a Walton Hall il tempo sembrava essersi fermato, e anzi, essere tornato indietro.

Nel frattempo Waterton non si era chiuso al mondo. Non solo riceveva visitatori, ma lui stesso si muoveva frequentemente, magari evitando con cura i convegni e i congressi ufficiali, ma correndo ad esempio a esaminare ogni animale esotico nuovo che approdasse in Inghilterra, in genere come attrazione da fiera (e ne opzionava poi le salme da imbalsamare, sapendo benissimo che non sarebbero sopravvissuti a lungo), oppure studiando in loco le nidificazioni di cormorani e gabbiani nelle scogliere a picco sul mare dello Yorkshire, lungo le quali si calava e risaliva con la tecnica alpinistica della corda doppia.

Per un certo periodo partecipò inoltre con articoli e piccoli saggi, spesso violentemente polemici, al dibattito naturalistico, che già prima dello “scandalo” creato da Darwin era accesissimo (non ho notizia invece di come abbia accolto la teoria evoluzionistica. Da cattolico fervente senz’altro non ne fu entusiasta, ma propendo a credere che all’epoca quella battaglia fosse ormai lontana dai suoi interessi). I suoi interventi erano soprattutto volti a denunciare la distruzione progressiva della fauna e del paesaggio inglese, o a sfatare leggende e credenze sugli animali esotici o sui selvatici di casa. In coerenza con la sua posizione “fissista” si ostinò a negare in qualche caso (come in quello dei gorilla esibiti dall’esploratore Paul du Chaillu) l’esistenza di nuove specie, e arrivò ad architettare, come vedremo, vere e proprie burle per screditare i suoi colleghi naturalisti, finendo invece per minare la propria credibilità: ma rimaneva pur sempre l’uomo che aveva cavalcato un coccodrillo e che prendeva i serpenti per la coda. E su questo faceva sotto sotto leva, soprattutto quando prendeva di mira gli studiosi da tavolino, coloro che presumevano di poter descrivere il mondo senza averlo mai percorso. In questo c’era anche una punta di acredine nei confronti di chi, invece di produrre esperienze sul campo, faceva aggio su quei titoli accademici che a lui erano stati negati. “Gli errori del professor Rennie si possono spiegare solo col fatto che il professore, come tanti altri naturalisti di chiara fama, ha più pratica di manuali che pratica manuale. È da deplorare che non si sia abbastanza sporcato le mani, perché da un tale esercizio i suoi scritti ornitologici avrebbero tratto grande giovamento”.

In un campo poi non ammetteva rivali, quello dello studio dei veleni. Si era portato dall’Amazzonia una notevole quantità di curaro, e non ebbe difficoltà a distribuirlo a tutti gli studiosi che gliene facevano richiesta, a testarne personalmente gli effetti con esperimenti sugli animali e a ipotizzarne possibili usi terapeutici.

La sua militanza polemica si interruppe però a metà degli anni trenta, dopo una violenta diatriba che gli aveva procurato attacchi da ogni parte dell’establishment scientifico e accuse di essere un bugiardo. Per reazione, nello stesso periodo decise di aprire definitivamente il suo parco al pubblico, quasi a tradurre in gesti concreti quella divulgazione di conoscenza naturalistica che sulle riviste gli era contestata. In qualche modo fu un gesto molto elegante di disprezzo nei confronti dei suoi avversari.

A Waterton si poneva però un altro problema. Approdato ormai alla piena maturità non aveva ancora un erede. Quando decise di provvedere sposò, quarantasettenne, una ragazza di trent’anni più giovane, Anne, figlia del suo vecchio amico Charles Edmonstone, della quale era stato anche padrino di battesimo. e nelle cui vene scorreva sangue indiano e scozzese. Per quanto comprensibilmente un po’ intimidita dalla stranezza del personaggio e dalla differenza d’età, sembra che la giovane non abbia affatto sofferto il matrimonio come una costrizione o un sacrificio. Dopo in rientro in patria lei e le sorelle, tutte belle ragazze ma recanti palesemente nei tratti e nel colore della pelle l’impronta del meticciato, avevano vissuto un isolamento dettato dal pregiudizio razziale che le circondava. Walton Hall era in fondo un ambiente a metà strada tra quello in cui erano cresciute e quello col quale si trovavano ora, molto spaesate, a confrontarsi.

Un anno dopo le nozze Anne diede alla luce un figlio, Edmund, ma a poche settimane dal parto morì. Charles non seppe mai darsi pace. Quasi ad espiare una colpa, dopo la morte della moglie scelse di dormire sempre sul pavimento di una vecchia soffitta piena di spifferi, avvolto in un mantello e con un pezzo di legno per cuscino.

La paternità fu forse il più grosso infortunio della sua vita. Il figlio crebbe con le sorelle della madre, che Waterton aveva chiamato a vivere a Walton Hall, ed è presumibile che queste lo viziassero molto. Inoltre il rapporto con un padre del genere, che pure almeno durante la giovinezza gli fu sempre molto accanto, non poteva che essere complicato. Era difficile seguirne le orme, ma lo era altrettanto prenderne serenamente le distanze. Edmund non fece né l’una né l’altra cosa. Divenne una persona inconcludente, avida e perennemente indebitata, che inseguiva le onorificenze quanto il padre le aveva snobbate, e che non essendo in grado di imitarla si vergognava di quella figura così stravagante. Alla fine si ridusse come dicevo a vendere la proprietà, ormai onerata di debiti e di ipoteche, proprio a chi era stato il più caparbio nemico del padre, contravvenendo anche alle clausole testamentarie che quest’ultimo aveva disposto, proprio nella coscienza della debolezza del figlio, e che lasciavano eredi le due cognate (le quali, naturalmente, di fronte alle pretese del nipote cedettero).

L’inclinazione del figlio alla vita scioperata amareggiò molto l’ultima parte della vita di Waterton, ma non ne cambiò affatto le abitudini. Subito dopo la morte della moglie aveva intrapreso una serie di viaggi “turistici” in Europa, con le cognate e con Edmund al seguito, rimanendo spesso lontano da Walton Hall per periodi molto lunghi. Ne approfittò per ampliare le sue competenze naturalistiche e incontrare i suoi corrispondenti scientifici, per verificare i metodi di conservazione degli esemplari adottati nei musei di storia naturale o per battere i mercati degli uccelli, ma anche per rendere omaggio alle espressioni più superstiziose della sua fede, dal miracolo di san Gennaro alle processioni delle salme mummificate per le vie di Palermo. Sceglieva di preferenza le mete dei suoi soggiorni nei paesi cattolici, in Belgio, in Italia o in Austria, nei quali riusciva a trovare tutto entusiasmante, persino le abitudini meno nobili. Dalla metà degli anni quaranta iniziò però a fare vita molto più ritirata, per dedicarsi anima e corpo al suo parco.

Waterton era nel frattempo diventato, nell’immaginario popolare, una sorta di macchietta, una singolare sopravvivenza di un passato pre-industriale, cui si attribuivano le parole e i comportamenti più bizzarri e si concedeva una dubbia attendibilità. E Walton Hall si era trasformato quasi in una meta turistica, della quale il proprietario era una delle attrazioni.

Negli ultimissimi anni della sua esistenza ebbe però almeno una consolazione. Un giorno si recò a trovarlo, arrivando a piedi da Manchester, un sedicenne lavoratore che frequentava studi serali di scienze naturali, e che sarebbe poi diventato uno dei più famosi medici d’Inghilterra (fu anche il medico curante di Darwin). Il giovane si chiamava Norman Moore, e la sua passione per le conoscenze naturalistiche conquistò immediatamente Waterton. A sua volta il ragazzo fu affascinato dall’anziano ma arzillo signore, che lo associò immediatamente alle sue ronde attraverso il parco per visitare e riparare i vari rifugi degli animali o per verificare la presenza di uova nei nidi, oppure alle sue traversate in barca per vedere gli stormi degli uccelli migratori, e persino ai tentativi di imbalsamazione di vari animali, tra i quali un enorme gorilla. Le annotazioni di Moore, nella loro semplicità e innocenza, danno probabilmente l’immagine più vera dei modi e del carattere di Waterton. Quando lo conobbe rilevò che “è un vecchio di media statura. Ha i capelli bianchi, ma i suoi sensi sono più acuti di quelli di un uomo molto più giovane, e non è affatto curvo”. All’epoca Waterton aveva già superato gli ottant’anni. Durante le visite successive (furono otto, e in alcuni casi si prolungarono per diverse settimane) descrisse l’ambiente, la casa, il museo, il parco, ma soprattutto colse momenti come questi: “Siamo andati all’albero cavo presso il bordo dell’acqua. Stavamo per tirarne fuori degli stecchi quando sono volati via due bei gufi bianchi. […] più tardi dai rovi è uscita in volo un’oca canadese. Su un salice vicino al canale dei pesci abbiamo visto una coppia di cince dalla lunga coda. Abbiamo visto anche un picchio bianco e nero, al quale mi sono avvicinato […] abbiamo visto anche alcuni aironi, colombelle, corvi neri, gheppi e diversi altri uccelli” Oppure: “Stamane alle due io e il signor Waterton stavamo sulla scalinata. Scrutavamo in giro per vedere se fosse rimasto qualche uccello acquatico. La luna risplendeva sul ghiaccio, ma a parte l’oca canadese non vedemmo nulla di nulla”. E ancora: “Alle sei e un quarto sono salito alla stanza di Waterton, e l’ho trovato seduto accanto al fuoco che leggeva il Don Chisciotte. Mi ha mostrato un bel fungo a cui stava lavorando e un grosso rospo di Bahia che stava colorando”. Nei giorni di pioggia i due trascorrevano interi pomeriggi a parlare vicino al fuoco, nella grotta naturale in prossimità del lago, seminascosta dagli alberi di tasso, che Waterton aveva fatto adattare a ricovero e a luogo di svago per le comitive.

Le immagini di questo anziano signore e del ragazzo seduti nel cuore della notte sulla scalinata a guardare la luna riflettersi sul ghiaccio, o a parlare per ore accanto al fuoco di alberi, di uccelli e di avventure alla Guiana sono toccanti. È quanto Waterton aveva probabilmente sempre sperato di fare con il figlio, e quanto Moore aveva magari sognato di poter fare con il proprio padre, che invece non conobbe mai. E senza dubbio l’incontro con Waterton fu determinante per i futuri successi del giovane

Moore era a Walton Hall anche al momento della morte dell’anziano amico, e ce ne ha lasciata la cronaca. Durante una escursione Waterton cadde malamente su un ceppo d’albero, ma fu in grado di tornare a casa sulle sue gambe. Era tuttavia consapevole che questa volta non se la sarebbe cavata, come aveva fatto per tutta la vita, con un semplice salasso, e infatti morì la notte successiva, non prima di aver dato con molta calma istruzioni alle cognate e a tutta la servitù, e di aver salutato Norman Moore. Il quale scrisse: “Morì mentre i corvi cominciarono a gracchiare e le rondini a garrire. È morto come aveva sempre previsto: ritto a sedere e lucido fino alla fine”. Era uscito di scena allo modo in cui vi aveva vissuto: dignitosamente, e senza procurare problemi a nessuno.

Proprio la testimonianza fresca ed ingenua di Moore mi autorizza a tentare una sintetica rilettura della figura di Waterton, che ridimensioni un poco la patente di eccentricità della quale fu insignito e per la quale ancora oggi è conosciuto.

Leggendo la biografia della Blackburn, scritta con tutta la simpatia possibile, ma mantenendo una corretta attinenza ai fatti documentati, balza evidente che Waterton era fuori registro persino per gli standard inglesi, che quanto ad originalità sono già di per sé decisamente alti. E in tal senso definirlo bizzarro è persino riduttivo. Eppure questa bizzarria non disturba affatto il quadro. Voglio dire che Waterton riuscì a fare ciò che fece, e non mi riferisco alle sue imprese ma alla costruzione e alla difesa di Walton Hall, proprio in ragione della sua eccentricità. Tutto il resto è contorno. Non che facesse parte di una qualche messinscena: Waterton si comportava come gli sembrava e gli riusciva naturale, e semmai la sua differenza sta nel fatto che non conosceva o non accettava alcun limite dettato dalle convenzioni sociali. Si potrebbe parlare di una forma di infantilismo, anche se l’impressione è che in qualche misura ci marciasse consapevolmente. Era infantile in certi comportamenti e in certe reazioni, ma aveva anche capito che la sua fama ormai consolidata di bizzarro gli consentiva di fare cose che nessun altro nella sua posizione avrebbe osato fare, pena perdere ogni reputazione sociale. Waterton ad un certo punto non aveva nessuna reputazione da perdere: la fama del suo coraggio e della sua incoscienza lo avevano fatto comunque amare dal grande pubblico, e ci si aspettava da lui che fosse coerente. Cosa che non gli era difficile: non doveva interpretare un personaggio, ma solo essere se stesso.

È dunque pensabile che dietro le sue bravate, dalla scalata a san Pietro alle innumerevoli altre di cui la sua vita fu costellata, ci fosse anche una componente di esibizionismo. Ma nel caso di Waterton non credo si possa ridurre tutto ad una infantilistica ostentazione di sé. C’era invece, ad esempio, lo scotto dell’appartenenza ad una minoranza fortemente discriminata, ciò che obbliga ad essere sempre un po’ al di sopra delle righe, per cercare una rivalsa che riequilibri il rapporto: e c’era anche la volontà, legata alla stessa condizione, di cimentarsi costantemente con se stesso per darsi sicurezza. Queste pressioni ambientali e psicologiche, quando trovano la materia prima adatta, finiscono per forgiare caratteri forti e anticonformisti, a volte sin troppo, e non maschere di convenienza. Nel caso di Waterton lo dimostra il fatto che, secondo le testimonianze di coloro che gli furono più vicini, certi comportamenti non li riservava agli ospiti, con i quali anzi cercava di mantenersi il più “normale” possibile, ma li teneva soprattutto quando era libero di dare sfogo alla sua natura. Fino ad ottanta anni suonati continuò ad arrampicare sugli alberi più alti del suo parco per osservare la vita e la salute delle nidiate di uccelli che li affollavano.

Se alla luce di certi suoi exploit Waterton potrebbe sembrare un totale incosciente (in effetti lo era, e anche parecchio), si trattava però di una incoscienza senz’altro genuina, mai esibita per dare spettacolo o per crearsi un personaggio. Era convinto di ciò che faceva, e questo da un lato perché aveva una grossa consapevolezza delle sue risorse fisiche, dall’altro perché era fiducioso nel fatto che gli animali, persino i più feroci, non attaccano se non sono minacciati. Riteneva, evidentemente a ragione, visto che arrivò incolume alla tarda età, di poter stabilire con la natura un rapporto di perfetta parità, senza sentirsi né un dominatore né una vittima. Per questo camminava a piedi nudi nelle foreste, o cacciava il braccio in una cassa contenente una decina di serpenti a sonagli per trasferirli ad uno ad uno in un altro contenitore.

Una identica fiducia, a quanto pare, riusciva a trasmetterla anche ai suoi interlocutori non umani. Ecco come descrive l’incontro con un orango, avvenuto nel 1851, in una fiera inglese. La povera bestia era rinchiusa in una gabbia, e secondo il dottor Hobson, che per un lungo periodo fu un amico di Waterton (ma che dopo una violenta rottura ne scrisse una biografia piena di astio), era furibonda. Waterton evidentemente la vedeva invece tranquilla, tanto che si fece aprire la gabbia ed entrò. “Mentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione […] sarebbe tempo perso mettersi a riferire tutte le cerimonie che si svolsero tra di noi […] gli spettatori che ci attorniavano parevano estremamente divertiti alla solenne pantomima cui assistevano”.

Una scena simile si ripeté un’altra volta con un leopardo: Waterton entrò nella gabbia, e i due rimasero a studiarsi a lungo. Ad un certo punto l’animale si ritirò per distendersi nel suo angolo, con un grande sbadiglio. La stessa fiducia Waterton la concedeva persino alla specie da sempre considerata la nemica più subdola dell’uomo, quella dei rettili velenosi. “Il serpente labari è molto velenoso, ma io mi ci sono spesso avvicinato a meno di due metri senza timore. Ho avuto cura di muovermi con gran delicatezza e cautela, tenendo immobili le braccia, e lui ha sempre consentito che lo osserva a mio bell’agio, senza mostrare la minima intenzione di balzarmi addosso. Pareva che tenesse fissi gli occhi su di me con fare sospettoso, ma questo era tutto”. E a proposito della storia dei serpenti a sonagli, testimoniata dallo stesso dottor Hobson, che ne era stato coprotagonista, scriveva: «Consapevole del fatto che non c’era pericolo a patto che conservassi la mia presenza di spirito, infilai con la massima calma la mano nella cassa e misi con precisione due dita su un lato e su un altro del collo del rettile, in prossimità della testa. Con questo semplice procedimento trasferii tutti i serpenti dalle casse di legno alla mia cassa di vetro. Quei furbacchioni fecero tintinnare per tutto il tempo i loro sonagli, quasi per dirmi: “Non farci del male, o ci ribelleremo”». Va bene l’understatement tipico inglese, in questo caso davvero sottilmente ostentato, ma insomma, si sta parlando di serpenti a sonagli e di un gesto che ci riesce istintivamente repulsivo anche con quelli più innocui.

A questo punto potrebbe apparire contraddittoria la professione di amore per gli animali da parte di Waterton con la sua pratica della tassidermia. Dobbiamo però calarci nel contesto dell’epoca. Waterton si confrontava con una passione per la caccia, particolarmente diffusa in Inghilterra, che si traduceva in stragi insensate e stava portando all’estinzione sul suolo inglese di intere specie. Dietro questo furore distruttivo stava una sorta di rivendicazione sociale: la caccia era rimasta per secoli un privilegio distintivo della nobiltà, ed il suo esercizio era diventato recentemente uno dei simboli del nuovo status che gli acquirenti borghesi delle antiche proprietà nobiliari volevano esibire. Non solo: per i contadini e i piccoli proprietari costituiva una sorta di rivincita nei confronti di un sistema che a lungo aveva protetto la fauna, sia pure in funzione venatoria, a discapito dei raccolti e quasi in dispregio della povertà e della fame diffuse. Per questo motivo veniva praticata indiscriminatamente, a volte col pretesto di eliminare animali nocivi, ma più spesso per un malinteso spirito sportivo, o per puro sadismo revanscista. Nei diari e negli appunti di Waterton ricorrono costantemente le denunce di questa pratica, le annotazioni dei momenti in cui erano stati abbattuti gli ultimi esemplari di particolari specie. “Comitive di cacciatori da ogni angolo del regno visitano Flamborough (la località sulla costa dello Yorkshire nella quale andava ad osservare i nidi arrampicando sulla scogliera) e i dintorni nei mesi estivi, spargendo attorno a se una cupa devastazione. La carneficina non ha nessun utile, gli sventurati uccelli servono semplicemente da bersaglio e vengono in genere abbandonati sul luogo in cui cadono”. Oppure: “Nel 1813 ho visto per l’ultima volta una poiana. Nella primavera di quell’anno se ne andò per non fare più ritorno e, pressappoco nella stessa epoca, il nostro ultimo corvo imperiale fu abbattuto nel suo nido da un mio vicino”. È comprensibile che si fidasse molto più degli animali che degli uomini. Ma, da par suo, non si limitava a deplorare. Intraprese nel suo piccolo anche delle campagne di stampa, che raccolsero consensi e sfociarono più tardi in una parziale modifica delle leggi inglesi sulla caccia.

E la tassidermia? Anche questa va considerata in rapporto all’epoca. L’unico modo per far “toccare con mano” agli europei la fauna esotica, per consentire al grande pubblico di conoscerne le reali fattezze e dimensioni e i colori, al di là delle descrizioni fantasiose dei viaggiatori e delle raffigurazioni in genere molto stilizzate, miranti all’effetto artistico piuttosto che a quello realistico, prodotte dai pittori-naturalisti, era l’esibizione di esemplari imbalsamati o impagliati. Waterton normalmente, in patria, esercitava la sua perizia su animali trovati già morti nel suo parco o sulle salme delle povere bastie importate per essere esibite nelle fiere e negli spettacoli, che avevano una vita molto breve. Così racconta l’ultimo incontro con una femmina di gorilla tenuta segregata in una squallida topaia: «“Addio, povera piccola prigioniera, – le dissi – ho paura che questa nostra fredda e cupa atmosfera abbrevierà i tuoi giorni”. Jenny scosse la testa come per dire: “Non c’è nulla qui che sia fatto per me: la stanza è piccola e surriscaldata; gli abiti che mi costringono a indossare sono del tutto insopportabili, mentre il cibo che mi danno non è quello di cui ero solita cibarmi quando ero sana e libera nelle mie foreste natie”». Il fatto poi che il corpo della povera Jenny lo abbia personalmente imbalsamato non toglie credibilità alla sua sincera compassione e indignazione: rientrava nel ruolo del quale si era investito, quello del naturalista.

Anche nella storia delle “burle” si possono cogliere le particolari e apparentemente ambigue sfumature dell’infantilismo di Waterton. La vicenda ebbe un ruolo importante nella sua vita e va ricordata. Durante il viaggio di ritorno dalla quarta spedizione americana Waterton aveva fatto una capatina nelle regioni meridionali da lui in precedenza esplorate, e ne era ripartito portandosi dietro alcuni esemplari di scimmie urlatrici già trattati col suo metodo tassidermico. Uno degli esemplari era però il frutto di una ingegnosa manipolazione, attraverso la quale con i quarti posteriori di una scimmia erano stati creati il volto e il busto di un essere a metà strada tra l’uomo e gli altri primati. Una sorta di “anello mancante”. Aveva mostrato il risultato già a Georgetown, suscitando l’ilarità dell’intera colonia e mantenendo la cosa nei confini dello scherzo. Ma al ritorno in Inghilterra fu tentato di strafare, e presentò il suo mostro accompagnandolo con una descrizione avventurosa delle modalità della scoperta e con una breve descrizione “scientifica”. L’errore fu quello di inserire questo scherzo in coda al volume dei Wanderings in South America, nel quale aveva raccolto i suoi diari delle esplorazioni, col risultato di far dubitare della veridicità di tutto il resto, che già in alcuni punti rasentava l’incredibile. L’opera stessa andava per molti aspetti contro i canoni della letteratura naturalistica corrente, e di questo Waterton era ben consapevole, ed anzi, ne rivendicava l’originalità: “Il mio unico obiettivo era di esortare il lettore a recarsi ad esplorare quelle remote regioni. Avrei potuto fornire il nome scientifico e quello indiano di tutti gli uccelli e gli altri animali, ma me ne sono guardato accuratamente. Ho dato al mondo un resoconto scientifico originale, buttato giù a matita sera dopo sera, non deturpato da caricature né mistificato da chiose da naturalista di laboratorio”. Il pubblico apprezzò, i suoi colleghi naturalisti molto meno.

Le motivazioni ad una trovata del genere erano diverse. C’era senz’altro da un lato, come molla occasionale, il desiderio di giocare uno scherzo al “consesso dei primari naturalisti del momento”, e di ridicolizzali (in tal senso si inseriva in una tradizione che aveva precedenti illustri, non ultimo quello del fantomatico verme di Spallanzani, e che sarebbe proseguita con falsi clamorosi come quello dell’uomo di Piltdown). Questo perché in fondo Waterton si considerò per tutta la vita, a dispetto della mancanza di titoli e di riconoscimenti accademici, uno scienziato, depositario di conoscenze molto concrete, maturate sul campo: e gli pesava senz’altro, al di là delle sue professioni di indifferenza, di essere escluso da quel “consesso”, o quanto meno che le sue conoscenze non fossero tenute nella dovuta considerazione. A modo suo in effetti uno scienziato lo era, e diede contributi non indifferenti al sapere naturalistico: ma gli mancò quella scoperta, quel guizzo che avrebbe potuto giustificare senza riserve questa sua ambizione, anche perché ostacolato da una profonda ortodossia religiosa, che lo portava a guardare con sospetto ad ogni novità e a non tirare le fila di indizi che magari aveva intuito, ma che spingevano verso direzioni pericolose.

Dall’altro lato c’era la volontà di dimostrare la sua eccezionale bravura come tassidermista (su questo non aveva dubbi: si considerava il miglior tassidermista del mondo, e si arrabbiava moltissimo se qualcuno definiva i suoi esemplari “animali impagliati”), ma anche un gusto particolare, e un po’ macabro, per le figure bizzarre; l’Inclassificato – così aveva nominato la sua creazione più famosa – non fu infatti l’unico esemplare da lui trattato in quel modo.

Io credo tuttavia che alla fine a prevalere, a fargli compiere il passo sbagliato che avrebbe compromesso per sempre la sua credibilità, sia stata la voglia pura e semplice di divertirsi. Qualsiasi calcolo d’altro tipo avrebbe dovuto indurlo infatti a lasciar perdere. Ma forse non era altrettanto bravo nel prevedere le reazioni umane che nel sentire gli umori degli animali.

Tutto sommato, rimango convinto che la vicenda delle burle abbia impresso una svolta positiva alla sua vita. Intuendo che il suo maldestro sberleffo alla comunità scientifica non gli sarebbe stato mai perdonato, Waterton si concentrò su quello che gli piaceva davvero e in cui riusciva meglio, la cura del suo parco. Il che gli consentì di vivere il resto della sua esistenza scalzo, trascurato nel vestire, monastico negli orari e incredibilmente frugale nell’alimentazione, ma soprattutto sincero, e libero di scegliere i suoi interlocutori e di organizzare in perfetta autonomia le proprie giornate. Ciò che, a pensarci bene, non è poco.

Aggiungo, infine, un paio di notazioni molto personali. La prima concerne il suo aspetto. Anche i capelli a spazzola, così come l’abbigliamento trasandato e assolutamente fuori moda, non rappresentavano una ricerca di originalità a tutti i costi, ma rispondevano ad un bisogno di praticità. Le parrucche erano ormai desuete, tranne che nelle conventicole aristocratiche più reazionarie, e le nuove acconciature maschili mal si addicevano a un uomo che amava muoversi in ambienti pieni di insetti e di parassiti di vario genere. Nella camera-soffitta in cui Waterton dormì per più di trent’anni non c’erano specchi: l’unico suo autocompiacimento fisico riguardava la propria straordinaria agilità e la incredibile resistenza fisica. Non voleva piacere agli altri, ma aveva rispetto per se stesso.

Un’altra notazione riguarda il culto di Don Chisciotte, che Moore testimonia essere rimasto vivo sino alla fine. Essendo stato io stesso fin dalla giovinezza un cultore del cavaliere dalla trista figura, non ho potuto che salutare una ulteriore consonanza. Credo che l’amore per l’eroe di Cervantes, intendo l’amore di pelle e di sangue, non quello puramente letterario, la dica lunga su una particolare disposizione nei confronti della vita e sul senso che si vorrebbe darle. Caratterizza una particolare tipologia umana, e Waterton di quella tipologia incarna senz’altro uno degli esemplari più significativi.

Infine, l’unica cosa che nella vita di Waterton non ho trovato è un incontro, o almeno una qualche corrispondenza, con Alexander von Humboldt. Sembra quasi impossibile che i due non si siano mai incrociati. Erano contemporanei, hanno esplorato la stessa area sudamericana pressappoco negli stessi anni, hanno sperimentato gli stessi veleni, hanno continuato entrambi per tutta la vita a vestire contro ogni canone, erano famosi entrambi. Mi aspettavo di trovare qualche menzione l’uno dell’altro, magari anche in negativo. Invece nulla. Non mi resta che sperare nella pubblicazione dell’epistolario completo di Humboldt, annunciata da un pezzo in Germania. Pare che occupi una ventina di volumi, quindi avrò da divertirmi per quel che mi resta da vivere.

Non sarà certamente come cintare Walton Hall, ma la possibilità di chiudere un cerchio entro il quale mi sto aggirando da anni è già un buon motivo per tirare avanti.

Chi volesse leggersi in lingua originale (in italiano non sono mai state tradotte) le opere di Waterton può trovare:
Charles Waterton – Wanderings in South America – CreateSpace Independent Publishing Platform 2015 London
Charles Waterton – Essays on Natural History – Forgotten Books 2012

Per le opere su di lui, naturalmente, e unica, la biografia scritta da:
Julia Blackburn – Cavalcare il coccodrillo – Bollati Boringhieri 1993

Anarchismo e geografia

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018Anarchismo e Geografia

Kant geografo della ragione

Kant grande geografo

La nascita della geografia moderna  attraverso il pensiero di Alexander von Humboldt e Carl Ritter

Lezione (hegeliana) di geografia

Geografia e filosofia. Materiali di lavoro

Spazio e geografia in Hegel:  la dialettica terra-mare

Geografia

Il pensiero anarchico

I principali pensatori anarchici

Simon Springer

Anarchismo!  quello che dovrebbe essere la geografia

Kant geografo della ragione *

Hansmichael Hohenegger

How absolute the knave is! we must speak by

the card, or equivocation will undo us.

(Hamlet, V, 1, 132)

Nel breve scritto in cui annuncia il corso di geografia fisica del semestre estivo del 1757, Kant dichiara che il suo insegnamento non mira alla precisione e alla completezza filosofica che sono richiesti dalla fisica e dalla descrizione della natura, ma segue piuttosto il filo conduttore della «curiosità razionale del viaggiatore».1 Certo, Kant è stato un viaggiatore davvero sui generis, non essendosi mai allontanato dalla sua città natale se non di poche miglia,2 ma la sua curiosità è fuori questione: basta pensare alle testimonianze dei suoi biografi e alle sue estesissime letture di manuali di geografia e di resoconti di viaggi.3 L’attenzione alla geografia dipende forse dal fatto che Kant ha insegnato per più di quarant’anni geografia fisica (dal 1755 al 1796), ma l’intensità e l’estrema articolazione di livelli della sua conoscenza fa supporre che alla base di tutto il suo  modo di pensare ci sia una dialettica più profonda tra un’istanza spaziale di ordine e una passione avventurosa per la scoperta e il viaggio. Pur giustificato dai dati biografici, il cliché del geografo da poltrona ha impedito di valutare proprio questo contrasto tra la sua Reiselust e la sua articolata e profonda idea della spazialità.4 A partire da questi due fattori si vuole fornire qualche nuovo elemento per ulteriori indagini riguardo alla genesi dell’architettonica filosofica di Kant.

Il primo passo potrebbe essere quello di notare come la stessa idea di viaggio (il contrario della nostalgia; Fernweh, diranno poi i romantici) sia alla base del suo impulso metafisico. In una nota manoscritta del decennio di preparazione alla Critica della ragione pura, Kant considera la stessa filosofia critica un viaggio:

“La critica della ragione pura è una misura di prevenzione contro una malattia della ragione, che ha il suo germe nella nostra natura. Essa è il contrario dell’inclinazione che ci incatena alla nostra patria (nostalgia, Heimweh). È il desiderio di perderci al di fuori delle nostre cerchie e di rivolgerci ad altri mondi.” 5

Già qualche anno prima, nella Dissertatio (1770), Kant aveva usato la metafora del viaggio quando aveva scritto di aver osato un passo oltre i confini della certezza apodittica (ultra terminos certitudinis apodicticae). Si era chiesto infatti quali fossero le «cause dell’intuizione sensibile». La sorprendente risposta di Kant non è lontana, per sua stessa ammissione, dal «nos omnia intueri in Deo» di Malebranche, ma già la domanda aveva i tratti dell’avventura in alto mare (in altum): nell’oceano delle «indagationes mysticae». Nel 1770 l’impulso metafisico è così manifesto perché è ancora alimentato dalla speranza di risultati positivi derivanti dall’uso reale dell’intelletto; la cautela critica è, però, ben presente: conscio dell’incerto mare delle conoscenze riguardanti le cause dei fenomeni, Kant dichiara infatti che è più raccomandabile (consultius) navigare lungo la costa (littus legere).6

Nel famoso passo dei Paralogismi della prima edizione della Critica della ragione pura, Kant sembra aver preso definitivamente partito per la «sobrietà di una severa, ma giusta critica» che sia in grado di tracciare «sicuri limiti in base a principi» e scriva con la massima sicurezza il nihil ulterius sulle colonne d’Ercole, che la natura stessa ha eretto, affinché il viaggio della nostra ragione continui solo fin dove si estendono le coste ininterrotte dell’esperienza.7

Il viaggio per l’oceano senza rive (uferloser Ocean) deve essere abbandonato perché, secondo questa radicalizzazione quasi empiristica, non rimangono speranze di espandere le conoscenze della ragione. Da allora, l’immagine del costeggiare, del prudente rimanere dentro i confini dell’esperienza, accompagna da sempre la filosofia trascendentale anch’essa come un cliché che, in quanto tale, è vero, ma solo parzialmente. Infatti, l’autentico simbolo (Sinnbild) della filosofia critica, come è espresso icasticamente nei Prolegomeni, non è il limite, ma la «conoscenza del limite»,8 la quale è possibile solo se si riesce a pensare il limite insieme all’impulso a fare un passo oltre di esso. In una delle più famose metafore geografiche di Kant, quella dell’isola della verità, la necessità della navigazione (sia pure di quella non errabonda, herumschwärmende 9) ha lo stesso peso dell’istanza, se si vuol dire così, agrimensoria:

“Noi abbiamo fin qui non solo percorso il paese dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte; ma lo abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma questo paese è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È il paese della verità (nome seducente), circondata da un vasto oceano tempestoso, la vera e propria sede della parvenza, dove qualche banco di nebbia e qualche ghiacciaio, pronto a liquefarsi, fingono nuovi paesi, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo (herumschwärmende) in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo. Ma, prima di arrischiarci in questo mare, per indagarlo in tutta la sua distesa, e assicurarci se mai qualche cosa vi sia da sperare, sarà utile che prima diamo ancora uno sguardo alla carta del paese, che vogliamo abbandonare, e chiederci anzi tutto se non possiamo in ogni caso star contenti con ciò che esso contiene; o, anche, se non dobbiamo accontentarcene per necessità, nel caso che altrove non ci fosse assolutamente un terreno, sul quale poterci fabbricare una casa; e in secondo luogo, a qual titolo noi possediamo questo stesso paese, e come possiamo assicurarlo contro ogni pretesa nemica.” 10

Questo passo si trova proprio all’inizio del capitolo «Sul fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in genere in phaenomena e noumena», che funge da vera e propria cerniera tra l’analitica e la dialettica trascendentale. Kant vuole mettere sotto gli occhi, come su una carta nautica, la regione dove l’intelletto ha un suo dominio (ditio) e quindi dov’è possibile la conoscenza (territorium), rispetto a quella in cui i concetti della facoltà conoscitiva fanno solo riferimento alla facoltà stessa e quindi possono solo avere un campo (Feld 11). In questo capitolo, Kant ha bisogno di distinguere tra uso empirico e significato trascendentale delle categorie 12 per permettere la navigazione nell’oceano della parvenza dialettica, cioè per esplorare il campo dei concetti dell’intelletto oltre il loro uso empirico: per esempio la categoria di causa-effetto come causalità libera nella terza antinomia della ragione pura. Prima di aprire questa indagine sulla parvenza dialettica, in cui la ragione dovrà disegnare da sé i limiti del proprio dominio legittimo (sia esso dei concetti della natura sia esso di quello della libertà), Kant propone una ricognizione del dominio in cui l’intelletto con i suoi principi è legislativo.

Kant e Bacon

Un confronto tra Kant e Bacon può aiutare a chiarire la natura di questa metafora geografica. 13  Anche in Bacon si può trovare un’articolazione della filosofia in una parte in cui si critica la parvenza e gli errori e una parte positiva in cui vengono stabilite le verità. La bella immagine dell’isola della verità, d’altronde, Kant la prende proprio da Bacon. 14  Infatti la causa dell’errore è dovuta anche per lui al fatto che l’insula veritatis è «circondata da un oceano immenso cui si aggiungono anche straordinari danni e dispersioni prodotte dai venti degli idoli (Immensum enim pelagus veritatis insulam circumluit; et supersunt adhuc novae ventorum idolorum injuriae et disjectiones)». 15 Anche per Bacon inoltre la peragratio è dannosa se non è guidata da quella scienza che è «ex naturae lumine petenda, non ex antiquitatis obscuritate repetenda». 16 Le conoscenze degli antichi sono repertori di errori e tradizioni che avrebbero potuto essere ancora più vari e numerosi se le circostanze politiche e la provvidenza non avessero impedito tali peregrinationes ingeniorum. Inoltre, se per Kant alla logica della verità come analitica trascendentale corrisponde la logica della parvenza trascendentale insita nelle stesse idee della ragione o dialettica trascendentale, per Bacon alla scientia ex lumine naturae con il suo organon fa da pendant il falso sapere, frutto degli idola, in particolare degli idola theatri, o idola scenae, effetto dell’accettazione cieca delle opinioni incontrollate che ci vengono dalla tradizione filosofica.

Il Temporis partus masculus è, sì, un’opera appena abbozzata in età relativamente giovanile in cui, almeno nella presentazione retorica, prevale lo spirito polemico e distruttivo. Anche in questo contesto, però, Bacon dichiara che per distruggere la falsa scienza bisogna comunque proporre una nuova scienza.17

Nell’opera più matura De dignitate et augmentis scientiarum (1623), Bacon è molto più moderato e scrive che è utile studiare le varie opinioni dei filosofi, che sono «veluti diversas Naturae glossas», 18 ma non rapsodicamente, debbono essere presentate come un tutto compiuto e continuo: «Philosophia integra seipsam sustentat, atque dogmata ejus sibi mutuo lumen et robur adjiciunt». Quando si traggono citazioni a caso o si estrapola da un contesto che non si conosce più, le singole affermazioni «portenta quaedam videntur et plane incredibilia». 19 Se si confronta questo passo con la chiusura della prefazione della seconda edizione della Critica della ragione pura, in cui si dice che chi padroneggia l’Idee im Ganzen di un’opera non si lascia fuorviare da apparenti contraddizioni che sorgono quando da un discorso continuo sono stati tolti singoli passi dal loro contesto, si dovrà ammettere che le somiglianze non sono solo linguistiche. 20 Kant può aver apprezzato in Bacon proprio questo metodo inteso in senso architettonico. Sempre nel De augmentis, Bacon sembra di nuovo anticipare il Kant del capitolo sull’Architettonica della Critica della ragione pura. Bacon scrive: «Methodus vero veluti scientiarum Architectura est». 21

Un tema fondamentale della Dottrina del metodo nella Critica della ragione pura è infatti proprio quello  dell’unità sistematica delle conoscenze sotto un’idea, ovvero sotto il concetto razionale «della forma di un tutto nella misura in cui mediante esso determina a priori sia la sfera [Umfang] del molteplice sia la posizione reciproca della parti». 22

Sia la singola scienza sia le scienze tutte debbono fare riferimento a questa possibile unità sistematica che ne fa un totum delimitato e organico.

Un elemento essenziale del progetto baconiano è quello di disegnare i confini delle scienze: già nel Temporis partus masculus Bacon vuole spingere il dominio dell’uomo sull’universo ad datos fines. 23 Questa nozione di sistematicità e di delimitazione delle scienze, sembra però in contrasto con l’altrettanto potente spinta al progresso delle conoscenze. Il motto di Bacon è, infatti, il colombiano «plus ultra» come efficacemente rappresentato nel frontespizio dell’Instauratio magna che mostra una nave che passa le colonne d’Ercole.

Spingere le conoscenze oltre i limiti dettati dalla tradizione ha, tuttavia, proprio lo scopo di stabilire limiti certi della scienza. Come si è visto nell’allegoria del viaggio oltre l’isola della verità, anche in Kant da un lato c’è la pulsione al viaggio avventuroso, dall’altro l’esigenza di disegnare i limiti della scienza. Perfino in alcuni aspetti metodologici il progetto di Bacon e quello di Kant coincidono. Per Bacon sono necessari all’impresa scientifica nuovi strumenti (per la navigazione mediterranea bastavano le stelle, per quella oceanica sarà necessario usum acus nauticae 24) e la collaborazione di molti (il motto del frontespizio è multi pertransibunt et augebitur scientia).

Kant sottoscrive l’esigenza baconiana della dimensione pubblica e collaborativa nella costruzione della scienza, come risulta dall’exergo nella seconda edizione della Critica della ragione pura tratto dalla prefazione alla Instauratio magna: «Chiediamo poi che gli uomini secondo il loro stesso interesse […] – prendendo consiglio in comune (in commune consulant) – […] partecipino all’opera». 25 La dimensione pubblica e storica della divisione del sapere è un tema centrale per Kant: gli scienziati e il governo politico debbono cooperare per costituire un’enciclopedia delle scienze (orbis scientiarum) in modo tale da organizzarle non solo in un tutto secondo principi oggettivi, ma anche organizzarle soggettivamente riguardo a coloro che le indagano e insegnano. Questa dimensione soggettiva delle scienze rimanda all’esigenza di organizzare in un corpo comune i docenti: un compito della ragione che deve indagare l’«Idee von einer Universität überhaupt» sulla base della quale debbono essere misurati statuti e piani delle università esistenti. 26 La dimensione pubblica della ragione è intrinsecamente storica, ma ciò non impedisce che abbia anche, laddove l’universale ragione umana è come una repubblica in cui «ognuno ha il suo voto»,27 una valenza trascendentale. In entrambi i casi, la dimensione repubblicana è essenziale all’impresa, solamente è diversa la qualità del sapere a cui si fa riferimento.

Dove si tratta dell’enciclopedia del sapere l’orizzonte è quello del singolo individuo che può e deve allargarlo, riassumere le conoscenze apprese da altri e renderle a sua volta disponibili, mentre dove è in gioco l’architettonica si tratta di un’istanza oggettiva che appartiene all’orizzonte degli uomini in generale. Naturalmente, in quanto entrambe queste due istanze fanno riferimento a una possibile unificazione e sistematicità delle conoscenze, esse debbono essere pensate come convergenti.28

Per Kant l’esigenza di un sapere organizzato sistematicamente, i cui limiti siano stabiliti non arbitrariamente, è essenziale per lo sviluppo delle scienze, come si vede fin nell’Opus postumum,29 ma è innanzitutto un compito filosofico che precede ogni scienza in quanto sua condizione. Per Bacon, invece, la filosofia non è nettamente separata dalla scienza, il suo progetto è enciclopedico e mira a una descriptio globi intellectualis (così si intitola un suo libro scritto nel 1612 e pubblicato nel 1653 30), ma non prevede una scienza specifica che determini l’orizzonte della stessa ragione.

Kant è consapevole della novità della scienza che propone: nei Prolegomeni dice esplicitamente che nessuno aveva mai avuto l’idea di questa scienza, quel che è stato pensato prima di essa non poteva essere utilizzato per costruirla: unica eccezione è rappresentata dalla indicazione che poteva essere data dal dubbio di Hume; neanche lui ebbe il presentimento di una tale possibile scienza formale, anzi trasse sulla spiaggia (dello scetticismo) la sua nave per metterla al sicuro, dove poteva stare e marcire; mentre a me importa fornirgli un pilota che, seguendo i principi sicuri dell’arte nautica derivati dalla conoscenza del globo, munito di una carta nautica completa e di un compasso, possa portare con sicurezza la nave dove gli paia giusto. 31

 

Kant e Hume

Le somiglianze anche strutturali tra Kant e Bacon sono certo significative per quanto riguarda la rappresentazione spaziale della sistematicità e del progresso delle conoscenze, ma, se si vuole esaminare nella sua massima generalità il ruolo della spazialità nella concezione della filosofia trascendentale, è il ruolo che ha avuto Hume a essere essenziale, e non solo perché è Kant a attribuirglielo. 32 Non è qui, in ogni caso, questione della maggiore o minore importanza di un autore, ma è rilevante, al di là della questione della filiazione di metafore spaziali,33 il diverso valore che queste metafore hanno a livelli diversi dell’architettonica kantiana: l’organizzazione soggettiva delle conoscenze (la carta nautica usata, ma anche aggiornata, dai navigatori), l’organizzazione oggettiva delle scienze (la carta nautica per come deve essere approntata) e, infine,  quello che si potrebbe chiamare il livello trascendentale, la stessa possibilità della carta nautica, le sue condizioni di possibilità.

Cassirer aveva scritto che, già nel periodo precritico, Kant era passato dalla determinazione del cosmo spaziale alla determinazione del cosmo intellettuale, «da geografo empirico Kant diviene “geografo della ragione” in quanto intraprende a misurare tutta l’ampiezza della sua facoltà secondo principi determinati».34 In realtà Kant non ha mai detto di se stesso di essere un geografo della ragione, ma di Hume che era uno di questi geografi della ragione, che credeva aver fatto abbastanza per sbarazzarsi di tutti quei problemi con il relegarli al di fuori dell’orizzonte della ragione, orizzonte che però non poteva determinare.35

Potrebbe sembrare che Kant usi questa caratterizzazione per evidenziare la disposizione solo empirica di Hume a descrivere la ragione umana senza riferimento ad alcun principio, appunto secondo una scienza come la geografia che è eminentemente empirica. Il contesto sembra suggerirlo, si tratta infatti del capitolo Dell’impossibilità di un appagamento scettico di una ragione pura che sia in dissidio con se stessa, in cui Kant distingue due tipi di ignoranza, quella accidentale che riguarda le cose e quella «della determinazione e dei limiti della mia conoscenza». Nel primo caso si è autorizzati a indagare dogmaticamente, mentre nel secondo si deve indagare criticamente.36 Se l’ignoranza è assolutamente necessaria (schlechthin nothwendig) ci si può astenere dalla ricerca, ma, in effetti, è esclusa solo l’indagine empirica in quanto sarebbe insensata, mentre quella critica è possibile «mediante l’indagine delle ragioni (Ergründung) delle prime fonti della nostra conoscenza». In questo caso posso sperare, procedendo con argomenti a priori, di determinare i limiti (Grenzen) del conoscibile. Quando, invece, si tratta di limitazioni (Einschränkungen) poste alla nostra ragione, la conoscenza della ignoranza può essere determinata solo a posteriori perché se pure si riesce a sapere qualcosa, sappiamo che ci resta ancora dell’altro da sapere e quindi essa rimane complessivamente indeterminata. Dei limiti, quindi, si può dare scienza, delle limitazioni no, solo percezione (Wahrnehmung).37

Per chiarire questo punto Kant espone la distinzione, già spaziale, della differenza tra Grenzen e Schranken (Einschränkungen) con un’immagine spaziale.38

Chi trovandosi sulla superficie terrestre se la rappresenta, secondo una percezione dei sensi, come un piatto, non sa quanto essa si estenda; procedendo nell’esplorazione conoscerà sempre porzioni di questa superficie, saprà di non averle prima conosciute, conoscerà, quindi, le limitazioni (Schranken) della geografia (Erdkunde) di questa superficie, ma, appunto, non i limiti (Grenzen) di ogni possibile descrizione della terra. Se, invece, si è arrivati a sapere (wissen) che la terra è una sfera, si può conoscere in modo determinato e secondo principi, anche da una piccola sua porzione, per esempio quella di un grado, il suo diametro e così anche la compiuta delimitazione della terra, cioè la sua superficie. Potrò essere ignorante riguardo agli oggetti che si trovano su questa superficie, ma non riguardo all’estensione che li contiene, alle sue delimitazioni e alla sua grandezza.39 Se quindi Hume è un «geografo della ragione» per il fatto di essersi sbarazzato dei problemi filosofici relegandoli «al di fuori dell’orizzonte della ragione», è però, pur sempre, un geografo empirico che in quanto tale non può determinare questo stesso orizzonte e quindi nessuna fondata indagine critica sulle fonti della conoscenza.40

Questa considerazione contrasta, però, con il passo già citato dei Prolegomeni in cui Kant sostiene che Hume è l’unico ad aver dato almeno un’indicazione sulla possibilità della filosofia critica come nuova scienza formale: il suo contributo a questa nuova scienza non può consistere solo nella censura empiristica del dogmatismo. Descrivere Hume come semplice geografo empirico-percettivo non dà conto in modo accurato della sua filosofia.

Già il fatto che sia Hume stesso a caratterizzare la sua indagine come mental geography suggerisce che Kant non faccia un uso polemico dell’idea di una geografia empirica della ragione, soprattutto se si considera che Hume introduce questa espressione proprio per dimostrare la necessità della filosofia:

And if we can go no farther than this mental geography, or delineation of the distinct parts and powers of the mind, it is at least a satisfaction to go so far; and the more obvious this science may appear (and it is by no means obvious) the more contemptible still must the ignorance of it be esteemed, in all pretenders to learning and philosophy.41

In questo contesto Hume non sostiene una tesi scettica, il tono è semmai quello di un dogmatico in quanto nutre la speranza (there is no reasonto despair) che questo tipo di ricerche possa permettere anche di «discover, at least in some degree, the secret springs and principles, by which the human mind is actuated in its operations»; 42 Hume pensa, infatti, che si possa passare dalla descrizione delle facoltà alla loro spiegazione come mental powers and oeconomy. Poco dopo Hume si spinge a dire che, poiché un’operazione e un principio della mente sono dipendenti da un’altra operazione e un altro principio, questa «may be resolved into one more general and universal». Non è dunque il mancato riferimento ai principi quel che Kant critica a Hume, ma il fatto che Hume non sappia determinare esattamente fin dove possano arrivare queste indagini. Hume stesso lo dice: «how far these researches may possibly be carried, it will be difficult for us, before, or even after, a careful trial, exactly to determine». Hume ha dunque avuto l’idea di un careful trial che preceda o segua queste indagini e quindi stabilisca la filosofia come un sapere che si sappia autodelimitare, ma ne ha dichiarato l’inutilità. L’idea di completezza della filosofia che si può trovare in Hume è quella dell’unione di concretezza a rigore dei saperi filosofici: «Happy, if we can unite the boundaries of the different species of philosophy, by reconciling profound enquiry with clearness, and truth with novelty!».43 Intenzione e auspicio questo che non va oltre l’enunciazione, appartenente anche al razionalismo, del connubium rationis et experientiae, o, baconianamente, inter mentem et naturam, e si colloca semmai come ideale regolativo della ragione, non come descrizione della stessa ragione, come vuole Kant. Sia lo scettico sia il dogmatico concepiscono la ragione come un piano in cui l’indagine prosegue indeterminatamente in quanto considerano le cose come cose in sé e «l’insieme di tutti gli oggetti possibili della nostra conoscenza » come una «totalità incondizionata».44 La differenza sta nel fatto che lo scettico ritiene che, negando la necessità di un concetto a priori, che sia al di fuori dell’orizzonte di conoscibilità o che appartenga alla linea di confine (Grenzlinie), si possa escludere la possibilità di qualsiasi concetto di quel tipo, mentre il dogmatico conserva la fiducia, perfezionandosi la conoscenza, di poter possedere concetti a priori. Sia quella non completamente provata sfiducia, sia questa eccessiva fiducia si contrappongono in un conflitto inconcludente. L’unico modo di porvi termine è un esame preliminare che la ragione riesce a fare di se stessa, disegnando, nello stesso tempo, i limiti dell’esperienza possibile:

La nostra ragione non è, per così dire, un piano di estensione indeterminabile, le cui limitazioni siano in genere conosciute solo in questo modo, deve piuttosto essere paragonata a una sfera [Sphäre] il cui raggio può essere determinato dalla curvatura di un arco della sua superficie (dalla natura delle proposizioni sintetiche a priori), in modo tale però che sia possibile da ciò stabilire con sicurezza volume e delimitazione di questa sfera.45

Anche se Hume non è citato esplicitamente, è chiaro dall’ inciso riguardante le proposizioni sintetiche a priori che il contributo determinante di Hume in questa geografia della ragione è quello di aver sollevato un dubbio sulla necessità del legame causale. È questo dubbio che, oltre a rappresentare una censura difficilmente eludibile di ogni dogmatismo rispetto all’uso trascendente di concetti a priori, impone di indagare la stessa ragione. La censura humiana colpisce, sì, il dogmatico che è messo in difficoltà dal non riuscire a ribattere sia pure a un solo dubbio scettico, ma il merito principale di Hume rispetto a Kant è quello di aver posto la domanda su come siano possibili i giudizi sintetici a priori. Il suo contributo a questa scienza del tutto nuova della critica della ragione pura non va, però, oltre questo, perché il geografo della ragione Hume proponeva solo la cartografia di un’ignoranza locale. Per passare dal metodo scettico a quello critico è necessario descrivere con completezza l’orizzonte della ragione, e cioè, appunto, l’«ignoranza riguardo a tutte le questioni possibili di una data specie».46

Secondo Kant, Hume è destinato inevitabilmente a confusioni, proprio perché non si pone il problema di «abbracciare con lo sguardo a priori e sistematicamente tutti i tipi di sintesi dell’intelletto»,47 e non può quindi porre Grenzen alla conoscenza, ma unicamente Schranken, che, certo, sono d’impaccio per il dogmatico, ma solo provvisoriamente. Per far tacere il dogmatico nelle sue pretese smisurate, bisogna potergli mostrare «l’ignoranza per noi inevitabile» 48 nella sua intera estensione.

Hume non si è impegnato in una rassegna di tutte le antitetiche, di tutte le sintesi della ragione in quanto sistema delle idee e quindi non ha potuto porsi criticamente la domanda sulla possibilità dei giudizi sintetici a priori. Negando la validità dei giudizi sintetici a priori «non ha infatti posto la distinzione tra le fondate pretese dell’intelletto e le presunzioni dialettiche della ragione».49 Questa distinzione l’ha però fatta Kant a partire proprio da Hume, cosicché quando nei Prolegomeni afferma che è stato Hume – con le sue obiezioni alla necessità del legame causale – a svegliarlo dal sonno dogmatico, e in un’altra parte della stessa opera dice che a svegliarlo sono state le antinomie,50 tra le due affermazioni non c’è vera contraddizione. La causalità e le antinomie hanno infatti un elemento in comune: in entrambi i casi sono in gioco giudizi e inferenze sintetiche a priori che costituiscono rispettivamente due sistemi completi, quello delle categorie e quello delle idee, che sono strettamente interdipendenti e insieme costituiscono la sfera della ragione.51 La conoscenza del limite è proprio la capacità di tracciare questa distinzione, cioè di descrivere, per quanto ciò possa essere paradossale,52 dall’interno dell’esperienza i limiti di quest’ultima, e di conseguenza dar conto del sapere che permette di disegnare dall’interno i limiti della ragione. Questo sapere è il sapere architettonico nella sua forma più universale. In una Reflexion risalente all’epoca di preparazione della Critica della ragione pura dedicata all’architettonica, dopo aver dato la classica definizione della ragione architettonica in quanto «critica tutte le conoscenze e progetta un canone», Kant ne coglie anche l’istanza trascendentale: la ragione architettonica è «la facoltà di descrivere la sua propria sfera».53 Si può chiudere questa nota sull’importanza del pensiero della spazialità nella costruzione del sistema critico citando una Reflexion che deve essere stata scritta quando il pensiero della Critica della ragione pura era in statu nascendi, e che proprio per questo potrebbe farne apprezzare il valore euristico:

Della metafisica come di un paese sconosciuto, di cui intendevamo appropriarci, abbiamo indagato attentamente per prima cosa la posizione e le vie di accesso. (Giace nella [regione] semisfera della pura ragione); abbiamo tracciato perfino il contorno di dove quest’isola della conoscenza è connessa mediante ponti con il paese dell’esperienza o dove essa ne è separata da un mare profondo; ne abbiamo perfino disegnato il contorno e ne conosciamo per così dire la geografia (icnografia); non sappiamo ancora cosa si possa trovare in questo paese, che da alcuni è ritenuto non abitabile da uomini, da altri è considerato la loro vera sede. Dopo la geografia universale di questo paese della ragione, vogliamo prendere in considerazione la storia universale della ragione.54

In questa allegoria sembra che la metafisica sia ancora un’isola vera e propria, non solo una parvenza di isola («banchi di nebbia e ghiacciai pronti a liquefarsi»), che, insomma, all’epoca in cui Kant scriveva essa aveva una dimensione geograficamente più concreta, v’erano, infatti, ancora accessi, ponti, e essa non era circondata solo da un mare profondo. L’unica cosa che non si sapeva era se fosse abitabile. Non è chiaro cosa rappresenti l’emisfero della ragione pura: forse è il mundus intelligibilis che, in parte, è occupato da idee della ragione e in parte da concetti dell’intelletto. In questo caso, l’altro emisfero sarebbe ancora – se è plausibile la datazione della Reflexion intorno al 1772, pochi anni dopo la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis del 1770 – il mundus sensibilis che certo è antipodale alla metafisica. In questo caso Kant potrebbe voler dire che l’emisfero della ragione pura è ancora non illuminato, come se la sfera di cui è parte fosse divisa a metà dall’orizzonte in una parte illuminata e in una oscura, il mondo fenomenico e quello noumenico. In questo caso riprenderebbe in qualche modo l’idea lockiana di delimitazione della ragione come di un orizzonte che «sets the bounds between the enlightened and dark parts of things, between what is and what is not comprehensible by us».55

L’elemento di novità in questa nota manoscritta è che, oltre alla spazialità – qui al servizio di un’allegoria della sistematicità della ragione (la rappresentazione delle connessioni tra regioni che insieme costituiscono un tutto organizzato) –, si considera la possibilità di rappresentare temporalmente la ragione. Forse Kant aveva già in mente una storia della ragione come sarà sviluppata nell’ultimo capitolo della Critica della ragione pura, dal titolo, appunto, di «Storia della ragione».56 L’importanza sistematica di questo capitolo è stata spesso ignorata forse anche per via della sua estrema brevità, ma la brevità è inversamente proporzionale alla sua importanza: «sta qui solo per indicare un posto rimasto vuoto nel sistema, e che dovrà essere riempito in futuro».57 Kant enuncia appena le tappe del processo del divenire adulta della ragione come il sorgere del metodo critico dall’opposizione di metodo scettico e metodo dogmatico, ma, ancora più originariamente, a partire dalla dialettica tra metodo naturalistico e metodo scientifico, tra sapere naturale della ragione comune e sapere sistematico in base a principi della ragione pura. Quest’ultima opposizione permette di stabilire un utile parallelismo tra il modello spaziale e il modello temporale della ragione in quanto il suo tema centrale è l’ignoranza. Nel caso della spazialità si è visto che è l’«ignoranza per noi inevitabile» che permette di disegnare estensione e figura della sfera della ragione (anche grazie al dubbio di Hume), mentre nel secondo caso l’ignoranza in gioco è quella della misologia, che non è tanto disprezzo della scienza, quanto dubbio rispetto al valore pratico della ragione intesa esclusivamente come scienza (Wissenschaft). La misologia in senso positivo non è disprezzo di quel che non si sa, ma insoddisfazione di fronte alle scienze che si ritengono autosufficienti, è saggezza (Weisheit), ovvero un’istanza critica che valuta ogni sapere rispetto agli scopi ultimi dell’umanità che non possono appartenere se non alla ragione pratica.

La storia della ragione come teleologia humanae rationis è costituita essenzialmente da questa tensione ineliminabile tra scienza (Wissenschaft) e saggezza (Weisheit). Il risultato critico è che l’unità della ragione teoretica e pratica può essere pensata solo storicamente.58

Da un punto di vista più generale e architettonico, ci si potrebbe domandare, in conclusione, quali prospettive ermeneutiche possa aprire  l’esame sistematico dell’istanza humiana insieme a quella rousseauviana. Il dubbio humiano e la misologia rousseauviana hanno in comune di essere filosofie dell’ignoranza,59 e, come si è visto, sono momenti essenziali dell’indagine della ragione, la prima di quella spaziale e la seconda di quella temporale.

Queste due modalità di autocomprensione della ragione non possono essere, però, né tenute insieme né separate in modo assoluto. La conseguenza di ciò è che non è la storicità a tenere aperto un sistema della ragione (se lo fa è quaestio facti), ma de iure è la tensione ineliminabile tra la sistematicità e la processualità della stessa ragione a tenere aperto ogni sistema della ragione.60

* L e opere di I. Kant pubblicate in vita sono citate da Werke in zehn Bänden, a cura di W. Weischedel, Darmstadt, 1981 (19561), con  ’indicazione dove possibile della paginazione originale.

‘A’ indica la prima e ‘B’ la seconda edizione. Le opere non pubblicate in vita e le trascrizioni di lezioni sono citate da Kant’s gesammelte Schriften, a cura della Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften (e successori), Berlin, 1900- (d’ora in avanti KGS). In numeri romani si

indica il volume, in numeri arabi la pagina; delle Reflexionen si indica anche il numero progressivo e tra parentesi la datazione, in forma semplificata, proposta dal curatore E. Adickes. Le modifiche apportate alle traduzioni dei testi citati non sono segnalate.

 

NOTE

1 I. Kant, Entwurf und Ankündigung eines Collegii der physischen Geographie (1757), KGS II, p. 3; cit. in W. Stark, Einleitung a Vorlesungen über physische Geographie, Berlin, 2009, KGS XXVI, 1, p. vi. Kant esclude per esempio la geografia matematica e quella storica dalle sue lezioni (cfr. W. Stark, Einleitung cit., p. vi), mentre include considerazioni che oggi diremmo etnografiche, almeno fino a quando, nel 1772, non inizierà a tenere le lezioni di antropologia.

2 Per avere un quadro completo e preciso dei viaggi di Kant, cfr. W. Stark, http://web.unimarburg.de/kant//webseitn/bio_reis.htm#Wohnsdorf.

3 R iguardo a quest’ultimo punto vedi la bibliografia raccolta da Werner Stark alla fine del primo tomo dedicato alle Vorlesungen über physische Geographie cit., KGS XXVI, 1, pp. 321-363. Riguardo alle testimonianze biografiche, oltre ai vari aneddoti su conversazioni con stranieri nelle quali Kant dimostra una conoscenza di luoghi in cui non è mai stato superiore a quella di chi vi ha abitato per anni, si può ricordare quel che racconta Wasianski, dell’intenso desiderio di viaggiare che Kant ha avuto nell’ultimo anno della sua vita. In inverno, attendendo l’estate per poter realizzare questo suo desiderio, Kant pensava dapprima a «gite, poi a viaggi nel paese e infine a lunghi viaggi». E. A. Ch. Wasianski, Immanuel Kant in seinen letzten Lebensjahren, Königsberg, 1804, in Immanuel Kant. Sein Leben in Darstellungen von Zeitgenossen, a cura di F. Gross, Darmstadt, 1993, p. 238. Arrivata l’estate non smetteva di pensare a quei «lunghi viaggi progettati nel paese e all’estero», p. 242. Il suo medico e biografo Wasianski, per evitare strapazi al vecchio e malato Kant, propose allora una gita nella casa di campagna dove Kant era già stato in passato: «Bene, basta che il viaggio sia lungo», fu la risposta, p. 243. Naturalmente le condizioni di salute e l’assoluta mancanza di abitudine al viaggiare resero breve e faticoso il viaggio, ma, anche dopo l’esperienza penosa, Kant continuò a parlare «con entusiasmo rinnovato di viaggi, lunghi viaggi, viaggi all’estero», ibid.

4 Kant non si è interessato solo alla geografia fisica, che ha insegnato così a lungo, ma, naturalmente, anche alla geografia astronomica. Basta pensare ai due saggi sulle variazioni del moto rotatorio della terra e sull’invecchiamento della terra (entrambi del 1754), oppure alla sua Teoria del cielo (1755). Naturalmente, anche in questo caso, sono molte e importanti le metafore spaziali a partire dall’astronomia che sono disseminate nei suoi scritti. Solo a titolo d’esempio, Kant usa l’immagine dell’errore di parallasse (lo spostamento dell’oggetto rispetto allo sfondo se considerato da punti di vista diversi) per illustrare l’errore connaturato all’universale intelletto umano, in quanto, per essere esaminato, deve potersi valutare sia «dal punto di vista del mio intelletto » sia «dal punto di vista di una ragione estranea e esterna». Sogni di un visionario, A 74; trad. it. in Scritti precritici, a cura di P. Carabellese, successive aggiunte e correzioni di R. Assunto, R. Hohenemser e A. Pupi, Roma-Bari, 19823, pp. 380-381. Questa teoria dell’errore anche in KGS XVIII, pp. 79-80; Refl. 5073 (1777). È chiaro che la metafora più nota e studiata è quella per cui la filosofia critica opera una «rivoluzione copernicana», KrV B XVI; trad. it., p. 24. Ancora, ma in ambito di filosofia delle storia: per giudicare del progresso dell’umanità si deve tenere conto del fatto che la direzione dell’umanità può sembrare come il moto apparente dei pianeti, ovvero retrogrado (epiciclo), se non la si considera dal punto di vista del sole, ovvero, fuori dalla metafora, dal punto di vista della ragione. Cfr. Il conflitto delle facoltà, A 140; trad. it. in Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Roma-Bari, 1995, p. 227.

5 KGS XVIII, pp. 79-80; Refl. 5073 (1777).

6 De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis A 28; trad. it. in Scritti precritici cit., p. 450.

7 Cfr. Critica della ragione pura (d’ora in avanti KrV) A 395-396; trad. it. a cura di G. Colli, Milano, 1976 (Torino 19571), pp. 457-458.

8 Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, § 59, A 182; trad. it. di P. Carabellese, rev. e intr. di H. Hohenegger, Roma-Bari, 1996, p. 247.

9 Non si perda, nella scelta della parola, il riferimento allusivo allo sciamare disordinato (schwärmen) dei fanatici (Schwärmer). In questa parola risuona notoriamente il disordinato sciamare delle api, il vagabondaggio senza meta dei ragazzi o dei soldati senza patria, e, con coloritura religiosa, di chi abbandona rumorosamente l’ortodossia e segue una setta: «fanaticum esse, in globo errantium hominum esse, segreges coetus instituere». J. Grimm e W. Grimm, Deutsches Wörterbuch,33 voll., München, 1984, s.v. «Schwärmen». La citazione in latino è dal dizionario tedesco-latino: J. L. Frisch, Teutsch-lateinisches Wörter-Buch, Berlin, 1741, II, p. 243a.

10 KrV B 294-295/A 236-237; trad. it., p. 311.

11 Questa terminologia giuridico-geografica è tratta dalla Critica della facoltà di giudizio, § II,

B XVI-XVII, trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Torino, 1999, p. 10.

12 Cfr. KrV B 305/A 248; trad. it., p. 321.

13 L’utilità di un confronto tra Bacon e Kant era già stata sostenuta da Salomon Maimon, uno dei più acuti interpreti di Kant tra i suoi contemporanei. Proprio per il fatto che essi «sono per un verso assai simili e per l’altro così diversi, credo che il loro essere messi a confronto permetta di gettare su entrambi una nuova luce» (S. Maimon, Baco und Kant, in «Berlinisches Journal für Aufklärung» 1790 VII/2, http://www.ub.uni-bielefeld.de/diglib/aufkl/berlaufk/berlaufk.htm. Cfr. anche l’edizione in S. Maimon, Gesammelte Werke, a cura di V. Verra, vol. II, Hildesheim, 1965, pp. 499-522, p. 102). In comune hanno l’essersi proposti «una compiuta [völligen] riforma della filosofia (e di conseguenza di tutte le scienze nella misura in cui esse traggono i loro principi dalla filosofia)», ivi, p. 103. Mentre Kant, però, si sarebbe concentrato sul «provare la possibilità dell’applicazione delle forme logiche agli oggetti reali della natura, in quanto quelle sono date a priori e questi a posteriori», Bacon, non prendendo in considerazione questo problema, si sarebbe preoccupato di trovare «il vero metodo di questo uso [delle forme logiche applicate agli oggetti] in casi particolari», ivi, p. 104. È notevole che Maimon scelga di chiarire il punto prendendo come esempio il concetto di causa: Bacon, secondo lui, «non si preoccup di spiegare come siamo arrivati al concetto di causa, a priori o a posteriori (come vuole che sia D. Hume), né della spiegazione della possibilità dell’uso di questo concetto, che se è a priori lo è di oggetti a posteriori; a lui basta che il factum sia al di là del dubbio, che cioè noi lo usiamo», ivi, pp. 104-105. Anche se Bacon ha di mira un sistema delle scienze, secondo Maimon, se non si pone il problema critico del rapporto tra forme del pensiero a priori e oggetti a posteriori, non riuscirà con l’induzione ad attingere a un sistema come quello kantiano in cui «forme e principi possono essere completi (vollzählig)», ma potrà solo approssimarsi regolativamente ad esso come a un’idea (p. 119). Naturalmente Maimon dice anche dei vantaggi di questo empirismo baconiano, e del possibile superamento di questa opposizione in un leibnizismo perfezionato che è poi la proposta della sua filosofia.

14 Neanche Hans Vaihinger nota questa possibile fonte di Kant e, per la metafora dell’oceano, rimanda sì a Bacon, ma a un altro pur importantissimo passo del De dignitate et augmentis scientiarum, lib. IX, § 1 (Cfr. H. Vaihinger, Commentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, 2 voll. [Stuttgart, 1881-1892 ed. orig.], a cura di R. Schmidt, Stuttgart, 1922, p. 40), nel quale Bacon, dopo aver detto che fino a quel punto si è trattato di navigare lungo la costa del vecchio e del nuovo mondo delle scienze (orbis scientiarum), si deve abbandonare la navicula rationis humanae per passare all’ecclesiae navis, cioè dalla scienza alla teologia, per affrontare i temi della re ligione. È anche interessante che questo libro si chiuda con la dichiarazione di aver per quanto possibile esaurito, completato con le parti mancanti, il piccolo continente (mondo) dell’orbe intellettuale (globum exiguum Orbis Intellectualis); resterà ai posteri il compito non solo di giudicare questo suo lavoro, ma anche di accrescerlo ulteriormente. F. Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum, in The Works of Francis Bacon, 14 voll., a cura di J. Spedding, R. L. Ellis, D. D. Heath, London, 1857-1874, rist. anast., Stuttgart, 1989, vol. I, pp. 836-837; trad. it. in Opere, a cura di E. De Mas, 2 voll., Bari, 1965, vol. II, pp. 518-519. D’altronde non si trova un riferimento a questa plausibile fonte di Kant neanche nel recente libro, pur ambizioso e ricco di spunti, di Shi-Hyong Kim, Bacon und Kant. Ein erkenntnistheoretischer Vergleich zwischen dem ‘Novum Organum’ und der ‘Kritik der reinen Vernunft’, Kantstudien Ergänzungshefte, Berlin-New York, 2008. Certo, la metafora è davvero diffusa e quando se ne indaga la Quellengeschichte, la prova di una derivazione è sempre assai difficile, perché chi la usa, più essa è diffusa, più non sente il bisogno di citare la propria fonte. Come esempio si può considerare, un autore ben presente a Kant, Johann Nicolas Tetens, il quale cita da una poesia in cui un saggio in cerca della verità «lontano da concetti terreni / osa veleggiare sul vasto oceano della divinità» («von irdischen Begriffen / im weiten Ocean der Gottheit wagt zu schiffen»; A. von Haller, Gedanken über Vernunft, Aberglauben und Unglauben, 1729). Sulle fonti possibili di questo verso (famoso, tanto che Tetens non ne cita l’autore) già varrebbe la pena indagare (Comenius, Locke, Leibniz?). A partire da questa suggestione, Tetens stabilisce un’analogia tra come procede l’intelletto nella scienza e la navigazione, e anche in questo caso non cita alcun autore (è Bacon?). Come il navigante si tiene alla costa, così il filosofo si tiene all’esperienza, ma «la metafisica è un viaggio intorno al mondo, sull’oceano, dove solo di quando in  quando si incontrano isole e sponde in alcuni principi universali dell’esperienza, da cui si può apprendere quale sia la direzione che si è presa. Le passioni sono le tempeste, i pregiudizi gli scogli che respingono o fanno naufragare la ragione». J. N. Tetens, Über die allgemeine speculativistische Philosophie (Bützow e Wismar, 1775), stampato insieme al primo vol. dei Philosophische Versuche über die menschliche Natur und ihre Entwicklung (1777), a cura di W. Uebele, Berlin, 1913, vol. I, p. 15 (ed. orig. p. 20). La natura assai produttiva della metafora fa sì che non sia impossibile collegare la circolarità del sapere sia con la sfera sia con l’oceano. Bacon vede nella sapienza di Salomone (1Re 4:29-34), vasta come la sabbia che circonda universas orbis oras, la sapienza che abbraccia ogni sapere umano e divino. De dignitate et augmentis scientiarum cit., vol. I, p. 750; trad. it., vol. II, pp. 418-419.

15 F. Bacon, Temporis partus masculus, in The Works of Francis Bacon cit., vol. III, p. 536.

16 F. Bacon, Temporis partus masculus, cit, p. 535.

17 F. Bacon, Temporis partus masculus cit., vol. III, p. 539; trad. it. p. 52.

18 F. Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum cit., III, 4; vol. I, p. 563; trad. it., vol. II, p. 175.

19 F. Bacon, De augmentis scientiarum cit., p. 564; trad. it., pp. 175-176.

20 Cfr. KrV B XLIV; trad. it., p. 43: «Auch scheinbare Widersprüche lassen sich, wenn man einzelne Stellen, aus ihrem Zusammenhange gerissen, gegen einander vergleicht, in jeder, vornehmlich als freie Rede fortgehenden, Schrift ausklauben, die in den Augen dessen, der sich auf fremde Beurteilung verlässt, ein nachteiliges Licht auf diese werfen, demjenigen aber, der sich der Idee im Ganzen bemächtigt hat, sehr leicht aufzulösen sind».

21 F. Bacon, De augmentis scientiarum cit., VI, 2, vol. I, p. 668; trad. it., vol. II, p. 305.

22 KrV B 860/A 832; trad. it., p. 806.

23 F. Bacon, Temporis partus masculus cit., vol. III, p. 528, p. 38.

24 Praefatio generalis, Instauratio magna, in The Works of Francis Bacon cit., vol. I, p. 130; trad. it., vol. I, p. 225.

25 KrV B II. F. Bacon, Instauratio magna cit. p. 132.

26 KGS XXIII, Vorarbeiten zum Streit der Fakultäten, p. 430. Per la questione della divisione del lavoro e quindi della dimensione pubblica e storica dell’architettonica delle scienze rimando alle citazioni che si trovano in H. Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla «Critica della facoltà di giudizio», Macerata, 2004, pp. 37-64.

27 KrV B 780/A 752; trad. it., p. 745.

28 Sulla questione del rapporto tra enciclopedia e architettonica cfr. M. Capozzi, Kant e la logica, Napoli, 2002, pp. 413-418. In generale sulla nozione di orizzonte e in particolare sull’importanza di Georg F. Meier per l’elaborazione kantiana di questa nozione, cfr. R. Pozzo, Prejudices and Horizons: G. F. Meier’s Vernunftlehre and its Relation to Kant, «Journal of the History of Philosophy», 43, n. 2, 2005, pp. 185-202. Per un rapido elenco della pluralità degli orizzonti, dall’universale orizzonte dell’intelletto umano in genere, a quello, pratico, pragmatico, estetico, del sesso, del censo, dell’età, oppure riguardo alle regole per determinare il proprio orizzonte, cfr. Logik Busolt, KGS XXIV, pp. 623-625. La determinazione dell’orizzonte e la divisione del lavoro è chiaramente in rapporto alla «Encyclopaedia vniversalis. Vniversalcharte (g Mappemonde delle scienze)». KGS XVI, Refl. 1998 (1780-89), p. 189.

29 Riguardo alle scienze, la filosofia deve «fin dove è possibile, misurare, tenendosi all’interno dei limiti di ciò che è conoscibile a priori, il campo di questo conoscibile e rappresentarlo in un cerchio (orbis) che sia semplice e unito, cioè in un sistema non escogitato arbitrariamente, ma prescritto dalla ragione pura, la qual cosa non potrebbe accadere con la raccolta di elementi empirici della conoscenza, in quanto, messi insieme frammentariamente, non farebbero sperare in nessuna convinzione di completezza». KGS XXI, p. 524. Ricorre spesso nell’Opus postumum l’espressione orbis scientiae con funzione schematica, di mediazione tra sapere filosofic e empirico, ovvero l’esigenza di completezza, sempre rappresentata dalla tavola delle categorie.

30 F. Bacon, Descriptio globi intellectualis, in The Works of Francis Bacon cit., vol. IV, pp.

31 Prolegomeni A 17; trad. it. p. 17.

32 Al posto di una rassegna dei numerosi passi in cui Kant si richiama a Hume si può citare,  per la sua efficace brevità, l’affermazione che si trova nella trascrizione di una lezione di metafisica: c’è «in David Hume», afferma Kant, «qualcosa di simile alla Critica della ragione pura». Metaphysik Mrongovius (1782-1783), KGS XXIX, p. 781.

33 Un’indagine sulle metafore geografiche sarebbe assai desiderabile, e almeno per l’ambito della filosofia inglese, dovrebbe valutare anche l’importanza di Locke nel suo ruolo di mediazione tra Bacon e Hume. Un testo da prendere in considerazione sarebbe sicuramente quello, già citato da Vaihinger come possibile fonte kantiana (Commentar cit., p. 40), ovvero il capitolo introduttivo del Saggio sull’intelletto umano in cui Locke considera la necessità di un «survey of our own understandings», senza «let loose our thoughts into the vast ocean of being» o «letting their thoughts wander into those depths where they can find no sure footing». Il risultato di questo vagabondare non può essere che il perfect skepticism: «Whereas were the capacities of our understanding well considered, the extent of our knowledge once discovered, and the horizon found, which sets the boundary between the enlightened and the dark parts of things; between what is and what is not comprehensible by us, men would perhaps with less scruple acquiesce in the avow’d ignorance of the one; and employ their thoughts and discourse, with more advantage and satisfaction in the other». J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, I, 1, § 7; The Works of John Locke, 10 voll., London, 1823, I, pp. 5-6.

34 E. Cassirer, Kants Leben und Lehre, Berlin, 1921, p. 44; Vita e dottrina di Kant, trad. it. a cura di G. A. De Toni, Firenze, 1977, p. 52.

35 KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

36 KrV B 786/A 758; trad. it., p. 749.

37 KrV B 787/A 759; trad. it., p. 750.

38 Coglie un’importante caratteristica della spazialità filosofica l’ osservazione di Giorgio Stabile riguardo al fatto che esiste una differenza tra le filosofie che possono essere rappresentate figuratamente come un puzzle, che si costruisce sempre a cominciare dai suoi limiti, cioè, anticipando la totalità, e il caso opposto, quello del meccano o del lego, in cui si procede come su un piano infinito in cui non c’è differenza tra porre i limiti e costruire. G. Stabile, La categoria dell’ubi e le sue implicazioni per il concetto di spazio nell’antichità, in Aa.Vv., Metafisica, Logica, Filosofia della natura. I termini delle categorie aristoteliche dal mondo antico all’età moderna, Atti del seminario dell’ILIESI, Roma gennaio-maggio 2003, a cura di E. Canone, La Spezia, 2004, pp. 1-11, pp. 4-5. Cfr. H. Hohenegger, Kant filosofo dell’architettonica cit., p. 92.

39 KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

40 KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

41 D. Hume, An Enquiry Concerning Human Understanding 1.13 (1748), in Essays Moral, Political, and Literary, a cura di T. H. Green e T. H. Grose, 2 voll., London, 1889, vol. II, p. 10; Ricerche sull’intelletto e sui principi della morale, trad. it. a cura di M. Dal Pra, Roma-Bari, 1978, p. 13.

42 D. Hume, An Enquiry cit., p. 11; trad. it., p. 15.

43 D. Hume, An Enquiry cit., pp. 12-13; trad. it., p. 18.

44 Cfr. KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

45 KrV B 790/A 762; trad. it. 752.

46 KrV B 789/A 761; trad. it., p. 752, c.vo mio.

47 KrV B 795/A 767; trad. it. 756, c.vo mio.

48 KrV B 795/A 767; trad. it. 756.

49 KrV B 791/A 761; trad. it., p. 757.

50 Prolegomeni A 12; trad. it., p. 13 e § 50, A 142; trad. it., p. 193.

51 N el De dignitate et augmentis scientiarum Bacon fa un’interessante apologia di Platone: «in sua de Ideis doctrina Formas esse verum scientiae objectum», De augmentis, vol. I, p. 565; trad. it., p. 177. Il modello della conoscenza è la grammatica (Filebo 18 B-D) che impedisce la confusione dell’infinità della compositione et transpositione literarum. Per Bacon è necessario, come per Platone, cercare gli elementi che per essere non molti possono stare alla base delle «Essentias et Formas omnium substantiarum» ivi, p. 566; trad. it., p. 178. Questa esigenza di una collezione completa di elementi che forniscano le regole per l’unificazione intelligibile del sapere ricorda il kantiano Buchstabieren secondo il sistema completo delle categorie e poi sotto la funzione unificante delle idee. Si potrebbe pensare che questa istanza di completezza delle regole corrisponda all’esigenza di una sfera della ragione, ma può essere al servizio di metafisiche assai diverse, e in effetti potrebbe essere alla base anche della characteristica universalis di Leibniz.

52 «Se voglio capire qualcosa della natura, allora con la mia spiegazione non debbo uscire dalla natura. Se voglio capire la natura nel suo complesso allora debbo essere al di fuori dei suoi limiti [Grenzen]». KGS XVII, p. 375; Refl. 3980 (1769). Oppure, più in generale: «Cerco in un intelletto, che ha bisogno di regole, la conoscenza di queste stesse regole: questo è paradossale». KGS XVI, p. 28; Refl. 1592 (1764-1777).

53 KGS XV, p. 186; Refl. 451 (1772-1778).

54 KGS XVII, p. 559; R 4458 (1772). «Wir haben von der metaphysik als von einem unbekannten Lande, auf dessen Besitz wir bedacht sind, zuerst die (g Lage und) Zugänge fleißig Untersucht. (Es liegt in der (g Gegend) Halbkugel der reinen Vernunft😉 wir haben so gar den Umris davon gezogen, wo diese Insel der [Erkennt] von Erkenntnis [an das] mit dem Lande der Erfahrung durch Brücken zusammenhangt, oder wo sie durch ein tiefes Meer davon abgesondert ist; wir haben so gar den Umris davon gezeichnet und kennen gleichsam die geographie (g ichnographie) desselben, wissen aber noch nicht, was in diesem Lande, welches einige vor unbewohnbar vor menschen gehalten, andre als ihre wirkliche Niederlassung angesehen haben, angetroffen werden möge. Nach dieser allgemeinen Geographie dieses Vernunftlandes wollen wir die allgemeine Geschichte desselben in Erwegung ziehen».

55 Cfr. la citazione data per esteso supra nota n. 35. J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, I, 1, § 7; The Works cit., vol. I, p. 6.

56 KrV B 880-884/A 852-856; trad. it., pp. 821-824.

57 KrV B 880/A 853; trad. it., p. 821.

58 La famosa dichiarazione del debito di Kant verso Rousseau non serve solo a stabilire temporalmente quando Kant ha scoperto cosa voglia dire per lui essere filosofo, ma anche il valore del ruolo architettonico della ragione pratica, che ha la dimensione essenzialmente storica di una scoperta che l’umanità deve fare: «Io stesso sono per inclinazione un indagatore. Sento tutta la sete di conoscenza e l’avida inquietudine di progredire in essa, ma anche l’appagamento per ogni conquista. C’era un tempo in cui credevo che ciò potesse da solo costituire l’onore dell’umanità e disprezzavo il volgo che nulla sa. Rousseau mi ha messo a posto. Questo primato abbagliante scompare, imparo a onorare gli uomini e mi riterrei più inutile di un comune lavoratore se non credessi che questa considerazione possa dare a tutte le altre un valore, e realizzare i diritti dell’umanità». KGS XX, p. 44; trad it. in Bemerkungen. Note per un diario filosofico, a cura di K. Tenenbaum,Roma, 2001, p. 85. Per l’importanza architettonica della misologia roussoviana, pari solo a quella del dubbio humiano, cfr. H. Hohenegger, Kant filosofo dell’architettonica cit., p. 39 ss.

59 «La filosofia dell’ignoranza è molto utile, ma anche difficile perché deve andare fino alle fonti della conoscenza». KGS XVIII, p. 36; Refl. 4940 (1778).

60 Si comprenderà, a questo punto, che le metafore spaziali e temporali sono state qui prese in considerazione in quanto non sono pure metafore. Infatti, l’istanza sistematica (coerenza, compiutezza e interdipendenza delle parti) che è espressa sia dal mappamondo delle scienze sia dalla sfera della ragione sembra essere legata alla spazialità in modo non accidentale. Mentre l’istanza della progresso nelle conoscenze e la storicità della stessa ragione fanno riferimento alla processualità e contingenza temporale, di ciò che ha inizio e fine. Rimando alla nozione esplicitata nella voce Spazialità che Emilio Garroni ha scritto per l’Enciclopedia Einaudi (Enciclopedia, 14 voll.,Torino, 1977-1981, vol. XIII, Torino, 1981, pp. 244-272), ripresa poi nel saggio Comprendere e narrare, in E. Garroni, L’arte e l’altro dall’arte, Roma-Bari, 2003. In quest’ultimo saggio spazialità e temporalità sono opposte come condizioni formali del linguaggio, una del comprendere e l’altra del narrare. Questa distinzione non serve a classificare i testi in filosofici (o critici) e narrativi, ma a cogliere le condizioni formali sia della comprensione dell’unità di senso di un testo (e dell’esperienza correlata) sia della temporalità che, pur non essendo già contraddizione, contiene però la possibilità del non senso (non essere già da sempre, poter non essere); ovvero contiene il dover essere del senso che, in Kant, contraddistingue l’elemento noumenico, anche del sistema filosofico, come o orizzonte di senso o Aufgabe.

 

 

Lorenzo Scillitani

Spazio geografico e antropologia filosofico-sociale.
Riflessioni a partire da Kant

  1. La Geografia di Kant

Immanuel Kant è noto per essere stato un grande filosofo. È meno noto per essere stato uno studioso, e un docente, di geografia, all’ insegnamento della quale Kant dedicò un numero di corsi (49) maggiore di quelli dedicati all’etica (46), all’antropologia (28), alla fisica teorica (24), alla matematica (20), al diritto (16), e minore soltanto rispetto a quelli dedicati alla logica e alla metafisica (54). Dal 1756 al 1796 il pensatore di Königsberg «perse il suo tempo» (come si poté leggere nella pagina culturale di uno dei principali quotidiani italiani di qualche anno fa, che registrava con malcelato disappunto l’iniziativa editoriale di tradurre la Geografia fisica kantiana in francese)1 a insegnare una disciplina che, nelle sue dichiarate intenzioni, doveva costituire una propedeutica alla conoscenza del mondo2. Risale al 1811 l’unica traduzione italiana delle lezioni che furono raccolte dagli allievi di Kant in circa 40 anni. Oltre due secoli più tardi, è stata riproposta, in una nuova versione, sollecitata dall’edizione francese del 1999, e verificata sulla base del testo originale dell’edizione critica del 19683, l’Introduzione alla Geografia, redatta nel 1776, e autorizzata dallo stesso Kant nel 1802 (a cura di Rink)4. L’interesse a sottoporla nuovamente all’attenzione del lettore italiano è stato motivato non tanto da una mera curiosità storico-filologica quanto dall’attualità di una urgenza scientifico-culturale e insieme formativa, che merita di trovare appropriati canali e modalità di espressione. Si tratta infatti di riscoprire la portata innovativa della lettura kantiana della geografia, a livello sia speculativo sia didattico.

A livello conoscitivo, il contributo della geografia nell’istruire la ragione è dettato dalla sua capacità di attingere dall’esperienza gli elementi che formano le fonti della conoscenza del mondo, come Kant ha cura di rilevare proprio nella sua Introduzione, di carattere propedeutico piuttosto che enciclopedico. Questa attitudine, che la geografia condivide con l’antropologia5, impegnata a elaborare la conoscenza degli uomini, alimenta per Kant la vera filosofia, la quale «consiste nel seguire la diversità e la varietà di una cosa attraverso tutte le epoche» 6. Diversità e varietà sono le caratteristiche di prima evidenza, e di prima approssimazione, che la moderna antropologia culturale coglie nei fenomeni dei quali si occupa. Il Kant professore di geografia, e geo-filosofo7 ante litteram, ritiene di poter individuare nella geografia (intesa nella sua valenza descrittiva e rappresentativa di luoghi, terre e mari, e dei loro confini, proiettati in uno scritto) un fattore decisivo di identificazione di elementi conoscitivi che si mostrano già carichi di significati filosofici.

A livello pedagogico, Kant si fa consapevole promotore, oltre che originale interprete, di una disciplina destinata ad attivare negli allievi l’interesse a formarsi una idea di prima approssimazione di che cos’è e di come è fatto realmente il mondo nel quale vivono: a titolo fortemente esemplificativo, la lettura dei giornali implica, secondo Kant, una nozione estesa della superficie terrestre, alla quale soltanto la geografia può dare forma e rilievo specifici. La globalizzazione, prefigurata dal pensatore tedesco nei termini di un cosmopolitismo8 al quale l’umanità tenderebbe per il semplice fatto di abitare un pianeta di forma sferica che avvicina gli uomini tra di loro, è un fenomeno che presuppone l’acquisizione di dimensioni eminentemente geografiche dello spazio9, e come tale si connota intensamente per i suoi aspetti geo-politici e geo-economici. In tal senso, quando Kant riconosce che è la geografia a fondare la storia, «poiché gli avvenimenti debbono pure rapportarsi a qualcosa»10, evoca il potenziale esplicativo, e insieme educativo, di un primato – o comunque di una specificità – della geografia, in quanto scienza a un tempo fisica, matematica, morale (declinata in un linguaggio dell’epoca che recepiva l’istanza di una sorta di geografia dei costumi, oggi declinabile magari in antropologia geografica11, o in geografia culturale), politica, economica, letteraria, religiosa: ovvero scienza della natura e al contempo, in senso prettamente umanistico, scienza della cultura, della società, del diritto. Occidente, Oriente, Nord, Sud, Europa, prima di essere categorie politico-culturali storicamente determinate, corrispondono a espressioni specificamente geografiche, legate a coordinate e a conformazioni ambientali che in quanto tali vanno studiate e pensate, nel presupposto che lo stesso pensiero, filosofico e scientifico, è portatore di una esigenza di orientamento che lo stesso Kant ha avuto cura di evidenziare12.

Orientarsi nell’estensione, e nella profondità, geospaziale del paesaggio umano è il compito che l’Introduzione alla geografia di Kant si è assunto, e che vale la pena riprendere, nella prospettiva di una più articolata rivitalizzazione, come di una più efficace ricollocazione, di una disciplina ingiustamente negletta, che oggi più che mai si impone come necessaria e imprescindibile, e quindi in tutti i sensi utile, per un sapere umanistico e scientifico integrato nei suoi molteplici aspetti epistemologici e metodologici. 224

  1. Fattori geografici e dimensioni storiche di una antropologia giuridico-politica filosoficamente orientata

Dalla ripresa del Kant speculativamente (a torto) considerato “minore”, ma a pieno titolo (almeno pedagogicamente) “maggiore”, delle lezioni sulla geografia si può essere autorizzati a trarre alcune deduzioni, relativamente all’elaborazione delle linee di una antropologia sociale filosoficamente impostata, e orientata in senso giuridico e politico.

Ogni pensiero filosofico, in quanto storicamente e culturalmente determinato, è anzitutto geograficamente collocato: geo- linguisticamente localizzato, dimensionato e condizionato. Il pensiero greco, ad esempio, veicolato dalla lingua greca, corrisponde a una latitudine prossima al pensiero degli statisti e giuristi romani (per riprendere una sintetica definizione di Jaspers), veicolato dalla lingua latina, ma ne resta, in via più o meno accentuata, distinto. Esso resta greco anche quando, a tratti, riappaia in pensatori che greci in senso anagrafico non sono, come per esempio Heidegger. Analoga impronta non sembra, a livello filosofico, essere ravvisabile in autori cronogeograficamente riconducibili all’ epoca in cui Roma ha dettato la sua legge al mondo euro-mediterraneo. Di nessun pensatore si dice che sia espressione di un modo filosoficamente latino di pensare13. Il pensiero canonizzato come occidentale è, a sua volta, per definizione ambientato in un contesto  che lo qualifica in base ad una determinazione geografica, quali sono i punti cardinali. Ma altrettale discorso può farsi per il pensiero europeo in generale 14?

L’incertezza nell’individuare fonti geografiche del filosofare, come nel caso della Magna Graecia, geograficamente situata nell’Italia meridionale costiera, potrebbe peraltro far propendere – come in effetti è troppo spesso accaduto – per un sottodimensionamento dell’elemento geografico, anticamera di una sua sottovalutazione. Ma la problematicità legata all’enucleazione delle coordinate geografiche del formarsi di una civiltà, anche in senso filosofico, lungi dall’essere di ostacolo all’approfondimento del tema in discussione, potrebbe rivelarsi una insospettata risorsa. Si è dovuto aspettare che non un filosofo dichiarato ma un antropologo, come Claude Lévi-Strauss, distribuisse i libri della sua biblioteca personale sulla base dell’ appartenenza dei loro autori, o dei temi trattativi, alle varie zone geografiche della Terra, perché ci si rendesse conto della portata decisiva che il punto di riferimento spazialmente individuato sviluppa accanto ai consueti punti di riferimento storico-evolutivi, largamente prevalenti nell’organizzazione delle enciclopedie piuttosto che nelle  trattazioni sistematiche di carattere umanistico o scientifico. Il tentativo di riprodurre in un microcosmo domestico il macrocosmo terrestre delle culture umane riflette la struttura stessa dell’universo delle civiltà, dei popoli, delle lingue, che si dà come un universo geografico.

Certo, la geografia non è solo cartografia. Per estensione, non abusiva, dei significati connessi al termine qui in esame, tutto ciò che è mappatura (si pensi alla mappatura del genoma) procede da un modo di immaginare, percepire, pensare la realtà su di una superficie abitata da significati rappresentabili secondo dimensioni di estensione, e di profondità, e di relative angolature, che non si risolvono in determinanti storico-temporali. La chiave di lettura geografica dei fenomeni culturali consente di attivare la percezione delle loro costanti, trans-storiche e trans-culturali, che un’ottica puntata sulla Storia tende fatalmente a eludere. Ciò sembrerebbe possibile in virtù della peculiare attitudine della geografia, che è scienza dell’uomo e al tempo stesso della natura, a fornire una descrizione di fenomeni naturali suscettibili di essere letti alla luce di leggi fisiche, matematiche. La sovradeterminazione (para) storicistica dei fenomeni culturali ha oscurato le caratteristiche e le risorse di questa attitudine, che mette in condizione di legare la particolarità di un fenomeno a leggi generali.

L’esperienza giuridica, a questo riguardo, offre un interessante piano di riscontro: nei limiti in cui registra e realizza un accesso al mondo degli oggetti – per esempio i beni, oggetto di possesso o di proprietà – che corrispondono a dati di fatto in una certa misura incontrovertibili (quel suolo, come pure quella cosa mobile), essa condivide con la geografia il rispetto dell’elemento naturale nella sua particolarità, generalizzata sotto forma di legge. La stessa esperienza politica, nei termini in cui comporta una qualche sia pur approssimativa corrispondenza tra grandezze di ordine fisico (isole, penisole, spazi delimitati da corsi d’acqua o da barriere naturali), è indice di elementi non interamente storicizzabili: una nazione procede da un atto di nascita certificabile in riferimento a una localizzabilità più o meno precisa, spesso di ascendenza ancestrale. I popoli nomadi, semi-nomadi o stanziali sono qualificati come tali sulla base di un riferimento, meno o più definito, allo spazio geografico nel quale si muovono, o viceversa si radicano. Un’entità etnica non può inventarsi per un atto arbitrario, perché non può prescindere dalle pianure, dalle foreste, dai monti nei quali si è forgiato il suo primo prender forma. Non si sottrae a questa valenza in qualche maniera nomo-grafica della geografia neppure l’esperienza economica, a misura che procede dalla raccolta e dalla selezione di materiali relativi a risorse del suolo, o del sottosuolo, che costituiscono la materia della gestione e dello sviluppo stesso dell’economia.

Qualcosa come una statica sociale15, risultando intrinseca al complesso dell’esperienza sociale umana in generale, almeno nelle sue declinazioni giuridica, politica, economica (per tacere della sacrale-religiosa), si mostra quindi caratterizzata dall’incidere essenziale di fattori non riducibili alla storicità dei fenomeni culturali. Nella prospettiva di una statica sociale ampiamente documentata dalle ricerche antropologico-culturali, può articolarsi una fenomenologia di tutti quegli aspetti della socialità umana che non si risolvono in sequenze di eventi o di epoche. Tutto ciò che è rito, costume, uso, tradizione introduce una dimensione ciclico-ripetitiva nel flusso temporale, determinando una scansione degli avvenimenti che rispecchia il succedersi delle stagioni. Lì dove la Storia concentra, fino al dettaglio, bruciando le possibilità che non si dischiusero nell’episodicità di un evento, la geografia dilata, perché custodisce la necessità sulla base della quale nuovi mondi e nuove forme di vita possono emergere: sulla superficie terrestre può costruirsi una civiltà, che poi decade fino a ridursi in macerie, ma il fondo tellurico che l’ha vista sorgere, crescere e infine declinare resta. E le radici di quell’albero penetrano in inesplorate profondità, che forse solo una geografia dell’inconscio potrebbe sondare.

In quanto stratigrafia, la geografia sta lì a ricordare, a significare, che il volere e il potere umani incontrano un limite: in questo senso, la geografia dà una costante lezione di realismo. Il viaggio che essa apre è un percorso attraverso luoghi, della natura e dello spirito, che, nella loro costitutiva dimensione di realtà, impediscono all’esistenza umana storica – quale viaggio nel tempo – di percepirsi come un fluttuare abbandonato al caso. In quest’ottica, la geografia ridà senso e significato a un Paese che sia anche, o meglio in primo luogo, una patria rispetto alla quale anche il senza patria trovi posto, ovvero ritrovi la sua dignità, e le sue prerogative, di cittadino. Un non-luogo16, in tal senso, restando una pura ipotesi, si annuncia come il prodotto di una pretesa storicistica assoluta di prescindere dal dato di fatto geografico, nella supposizione, tutta da verificare, che l’uomo sia in ultima analisi cultura, e non anche natura. Invero, nella misura in cui la geografia umana reca le tracce, talora monumentali, di passaggi al limite, non solo tra natura e cultura, ma anche tra queste e la sopranatura, non si dà genuina geografia fisica che non si atteggi, in qualche modo, a geografia metafisica, ipotizzabile ove si consideri che l’anima di certi luoghi fa da punto di orientamento di culti, scelte, decisioni, talora di forte valenza politica (si pensi alle “terre sante”, o promesse, per le quali, talvolta metro dopo metro, ancor oggi si lotta senza tregua).

L’abitare stesso (in senso heideggeriano), del resto, è sempre stato – come dimorare – un fenomeno strettamente legato ad aspetti sia materiali sia immateriali, o spirituali in senso lato: la sacralità di una sorgente, o di una montagna, rende l’idea di una geo-metafisica nella quale il pensiero umano si trova impegnato fin dai primordi. I riti di sepoltura simboleggiano, in particolare, la riassunzione nel grembo materno ctonio di un essere che pure se ne è staccato per vincere, quando non per tentare di annullare le stesse distanze spaziali (come nell’esperienza della ipertelecomunicazione odierna). A questa postura metafisica della geografia non è estranea la stessa categoria estetica di bellezza, che ritrae proprio dal naturale (bellezza naturale) la fecondità di canoni consacrati nella grande arte, in particolare quella figurativa.

Una antropologia filosofica non può pertanto evitare di considerare l’uomo come ente che descrive la terra, che scrive sulla terra, e con la terra, ma con ec-centramento dalla terra che lo rende ultimamente sovraterrestre nelle sue conclamate manifestazioni di ordine spirituale. Non sarebbe attestazione dell’umano una geografia che non fosse capace di ricomprendere nel suo ambito la posizione singolarmente eccezionale dell’uomo: anzi, che si dia qualcosa come una geografia sta ad indicare che vi è all’opera un soggetto di pensieri e di atti che ha bisogno, per ri-trovarsi, proprio del dimensionamento e della strutturazione geografici, quali ad esempio si evidenziano nella matrice geo-mitica dell’identità dei popoli senza scrittura17.

L’integrazione dell’antropologia con la geografia rende possibile la formulazione di un sapere che metta a tema le componenti naturali (biologiche e geografiche) dell’umano, rinviandole a un livello nel quale si produce una pre-comprensione di strutture portanti dei processi culturali e sociali, ivi compresi quelli attinenti all’etica, al diritto, alla politica, all’economia, alla religione. Se è vero che l’uomo è un ente storico, nel senso che la sua esistenza si concepisce come eminentemente storico-culturale, in divenire, è altrettanto vero che è inseparabile dall’autorappresentazione individuale e collettiva dell’uomo la dimensione geo-naturale, che attesta il suo essere-nel-mondo come essere in un mondo, sotto quel cielo.

Una antropologia filosofico-sociale (nel senso, comprensivo, di filosofico-giuridica e filosofico-politica) è tanto più avvertita di questa necessaria integrazione quanto più assume a tema delle sue analisi e delle sue interpretazioni l’insieme del fenomeno sociale umano: sia come storia sia come geografia del sociale. Le conoscenze che l’antropologia culturale, con la paleontologia, ha acquisito ci mettono in condizione di confrontarci con una durata della specie umana rispetto alla quale la fase assunta come storica corrisponde a un lasso di tempo minimo, estremamente significativo per i contemporanei, ma trascurabile se rapportato all’intero arco temporale dell’esistenza del genere umano sulla faccia della terra. Il complesso della vicenda umana richiede un approccio geo-sociale di portata esplicativa almeno pari a quella tradizionalmente sviluppata dall’approccio storico-sociale. Ne va della possibilità stessa di intendere umanisticamente il fenomeno umano, superando l’equivoco di scambiare la Storia per una scienza. Se proprio di scienza umana deve trattarsi, questa deve farsi carico di tutti gli elementi fondamentali che richiedono di essere conosciuti, e valutati. La temporalizzazione dell’elemento umano non può fare a meno di reagire sul piano nel quale, prima di qualsiasi “progetto” o di qualsiasi “costruzione”, l’uomo si dà a conoscere: come un essere-nello-spazio18.

La rappresentazione della socialità umana di base come una rete di relazioni che si inscrivono in filiazioni (livello giuridico-familiare) e in alleanze (livello politico) richiede, per essere elaborata filosoficamente, una lettura antropologico-sociale che filtra una vera e propria geografia sociale, non metaforica ma reale come possono essere reali i simboli che la esprimono, su di un piano mitico-fondativo che l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss ha tradotto in formule di precisione geometrica. La rappresentazione del sociale, presso l’umanità di tutte le latitudini geoculturali, ha preso inizialmente la forma di una planimetria, ovvero di un disegno dello spazio relazionale (tra individui e tra gruppi) che ha preceduto qualsiasi progetto di edificazione puntato su traguardi storici. In questo senso – nella ricostruzione di un percorso, e con un filo logico, che da Kant giunge a Lévi-Strauss – la geografia ha preceduto e fondato la Storia, costituendo la pre-condizione di qualsiasi formazione storico-umana. Se dunque di un primato si tratta, questo primato è documentabile antropologicamente, prima di potere, e di dovere, essere filosoficamente argomentabile.

Una prima implicazione del primato quanto meno fenomenologico (se non proprio ipotizzabile come onto-fenomenologico) dell’elemento geo-umano sta nell’ipotizzare la preesistenza della geo-strutturazione delle forme associative umane rispetto all’articolazione dialettica che mette in moto i processi registrabili come storici. Una seconda implicazione sta nel congetturare che la geostrutturazione del tessuto socio-umano di base precorre, prefigura e preforma il cristallizzarsi di determinati processi in istituzioni, le quali si danno già come stabilizzazione, più o meno duratura, di una dinamica sociale19. La stessa tendenza inerziale delle istituzioni umane a durare nel tempo, malgrado contraddizioni e contestazioni di vario genere, riflette un ancoraggio meta-storico, che ritrae dalla geografia, lato sensu intesa, cioè terrestre, ctonia, cosmica, le immagini che veicolano i significati di saldezza, sicurezza, perennità. È vero che l’orografia e la stessa topografia sono soggette a mutamenti, ma generalmente nel lungo, anzi lunghissimo periodo: la persistenza dei caratteri salienti della conformazione di un territorio, della dolcezza o della durezza delle sue condizioni climatiche, offrono la prima modalità di espressione di un’invarianza categoriale, la quale si traduce in strutture fondamentali che, resistendo al mutamento, rendono al tempo stesso possibile la tensione dialettica da cui si sprigionano le forze che portano a superare, in parte o in tutto, le forme istituzionali consolidate. Il conflitto, da interpretare, in questa prospettiva, quale espressione più intensa del dinamismo sociale, generatore di Storia, deve il suo sorgere alla solida resistenza che gli oppone la spessa coltre del suolo che esige di essere curato, conservato e perpetuato, prima di essere magari sfruttato.

Il substrato geo-socio-grafico della statica sociale, che si annuncia quale fattore di comunicazione e di coordinazione tra individui, maschili e femminili, e tra gruppi di individui, corrisponde alla spazializzazione di questi rapporti, traducendosi in geografia giuridica delle parentele e delle filiazioni, e in geografia politica delle alleanze. La pre-incidenza dell’elemento geografico così declinato, sul piano giuridico-e-politico, relativizza il dato storico a punti di riferimento, a veri e propri assi cardinali non suscettibili di ulteriore dialettizzazione: i rilievi possono essere spianati, i passi possono essere attraversati, le rive dei fiumi possono essere collegate da ponti, uomini e donne possono simbolizzare in molteplici maniere le loro differenze, fin quasi a sovvertirle, ma il cambiamento di una situazione geografica, o di una geo-istituzionale, sarà sempre relativo a una permanenza, comunque percepita o elaborata, o anche semplicemente sottintesa. La dis-continuità del mondo umano storico rispetto a quello naturale non è assoluta proprio perché quel mondo resta mondo, cioè uno spazio che dipende da un orizzonte non ulteriormente superabile, anche quando venga proiettato nella dimensione ultra-mondana della sopranatura.

Le nominazioni di parentela, inquadrate nei sei sistemi di parentela a tutt’oggi noti20, formano l’atlante geografico dei sistemi sociali di base, che a loro volta costituiscono l’ordito attorno al quale vengono a strutturarsi gli insiemi sociali degli altri aggregati umani rilevanti sui piani geografico (dal villaggio ai nuclei abitativi più complessi), geo-sociologico (dalla famiglia al clan alla tribù), geo-antropologico (gruppi umani etnicamente o linguisticamente identificabili). Al pari di un atlante storico, che ripercorre le diverse fasi di sviluppo delle civiltà umane, la carta geografica delle nomenclature di parentela offre un quadro sufficientemente illustrativo di che cosa significa una statica sociale, tema di una scienza antropologica piuttosto che di una storia sociale, impegnata con la storia della famiglia, e delle unità sociali più estese, con specifico riguardo ai rapporti di sovraordinazione/subordinazione che innescano la dinamica sociale dei rapporti di forza e di potere.

Il punto è che, finora, la fenomenologia filosofica dei principi di messa in forma dell’archeo-socialità umana è stata pressoché interamente assorbita dalla rappresentazione storico-dialettica delle dinamiche, evitando di sostare nel riconoscimento che i principi di organizzazione della socialità umana dipendono da assi geo-antropologicamente pre-ordinati: sistemi elementari socio-familiari-parentali strutturati già attorno a categorie giuridiche. Una presa d’atto, e di coscienza, di segno filosofico dovrebbe partire dall’acquisizione che, se il politico vanta sicuramente un primato a livello storico-storiografico, il giuridico può vantare un primato a livello antropo-geografico. Una geografia filosofica, anche nelle sue declinazioni filosofico-giuridica e filosofico-politica, capace di restituire allo spazio tutto lo spessore ermeneutico che il primato attribuito al tempo storico gli ha sottratto, potrebbe in tal senso offrire un utile contributo introduttivo all’elaborazione di una complessiva antropologia filosofica della socialità umana.

Con la globalizzazione21, inaugurata da tesi sulla fine della Storia che, attualizzando la lezione hegeliana22, sembravano aver “fermato” il tempo, lo spazio annunciava di essersi ripreso le sue prerogative: la controtendenza storico-politologica alla focalizzazione degli scontri di civiltà23, pur rimettendo in gioco una filosofia della cultura imperniata su categorie temporali ben definite, ha peraltro mostrato che, al di là di geo-localismi più o meno accentuati, mai come oggi la politica dipende dalla geografia, della terra ma, forse oggi più che mai, anche del mare24. Perché, in una certa misura, è la stessa Storia a dipendere dalla geografia, sia questa intesa in senso strettamente scientifico, sia questa reinterpretata come geografia filosofico-sociale, indice di un significativo nesso di dipendenza della stessa geopolitica da un geo-diritto25 tutto da indagare, e da interrogare e approfondire nelle sue possibili valenze teoretiche.

 

Note

1 I. KANT, Géographie, trad. fr. a cura di M. Cohen-Halimi, M. Marcuzzi e V. Seroussi, Aubier, Paris 1999. Per una prima presa di contatto con questa edizione francese si rinvia alla lettura di I. LABOULAIS-LESAGE, La Géographie de Kant, in “Revue d’Histoire des Sciences Humaines”, 2 (1/2000), pp. 147-153.

2 A Kant (il quale dimostrava in tal modo quanto prendesse sul serio l’ampliamento del proprio modo di pensare; cfr. H. ARENDT, Teoria del giudizio politico, trad. it. P.P. Portinaro, il Melangolo, Genova 2005, p. 70) si deve di essere stato il primo filosofo a impartire corsi universitari di geografia, ancor prima dell’assegnazione della prima cattedra di geografia a Carl Ritter (Berlino, 1820; cfr. M. MARCUZZI, Introduction a I. KANT, Géographie, ed. cit., p. 11). Sulla geografia kantianamente intesa quale propedeutica alla scienza e alla vita si rinvia in particolare a A.-L. SANGUIN, Redécouvrir la pensée géographique de Kant, in “Annales de Géographie”, 576 (1994), p. 144. 222

3 Il Corso di Physische Geographie è stato pubblicato nel 1902 dall’Accademia prussiana delle Scienze, ed editato nel tomo IX, pp. 151-436, dei Kants Werke. Logik, Physische Geographie, Pädagogik (de Gruyter, Berlin 1968).

4 La versione italiana della Einleitung kantiana della quale trattasi, curata da L. Scillitani con la collaborazione di S. Nienhaus, è stata pubblicata, col titolo Geografia fisica, in A. LANDOLFI (a cura di), Geografia: dalla ricerca alla didattica. Due autori a confronto, Università degli Studi del Molise, Campobasso 2013, pp. 21-30.

5 Cfr. I. KANT, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, F. Nicolovius, Königsberg 1798; trad. it. G. Vidari e A. Guerra, Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari 1985. Se la conoscenza del mondo «ha lo stesso significato di antropologia pragmatica (conoscenza degli uomini)» (M. HEIDEGGER, Vom Wesen des Grundes, Klostermann, Frankfurt a.M. 1955, p. 31; trad. it. P. Chiodi, L’essenza del fondamento, in ID., Essere e tempo – L’essenza del fondamento, Utet, Torino 1978, p. 655), proprio dalla conoscenza del mondo che si esprime nella geografia fisica «sorgeranno quegli interrogativi che spingeranno Kant ad impostare un autonomo corso di antropologia, dopo aver preparato un testo (Urtext) nel 1759 di geografia ed aver ampliato il campo di indagine della geografia stessa, che dev’essere anche morale e politica oltre che fisica» (I.F. BALDO, Kant e la ricerca antropologica, in AA.VV., Il problema dell’antropologia, Editrice Gregoriana, Padova 1980, p. 75).

6 I. KANT, Geografia fisica, ed. cit., p. 27.

7 La geofilosofia alla Deleuze o alla Cacciari non ha tuttavia a che vedere con l’orizzonte al quale l’approccio kantiano rinvia. Piuttosto valgono, in questa sede, le riflessioni di O. DEKENS, D’un point de vue géographique sur la philosophie kantienne, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 2 (1998), pp. 269-272. In ogni caso, per un ampliamento geofilosofico della tematica qui trattata si rinvia, oltre che ai testi consultabili nel sito http://www.geofilosofia.it, a L. BONESIO-C. RESTA, Intervista sulla Geofilosofia, a cura di R. Gardenal, Diabasis, Reggio Emilia 2010; L. BONESIO, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 20012; ID., Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna, Casalecchio 2002; ID., Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, Reggio Emilia 2007; A. BERQUE, Médiance de milieux en paysages, Belin, Paris 1990; ID., Être humains sur la Terre, Gallimard, Paris 1996; I., Ecoumène: introduction à l’étude des milieux humains, Belin, Paris 2009; F. FARINELLI, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003; ID., La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009; ID., L’invenzione della Terra, Sellerio, Palermo 2007.

8 Attirano l’attenzione sul nesso essenziale tra geografia e cosmopolitismo in Kant le considerazioni di J.-M. BESSE, La philosophie et la géographie, in Encyclopédie Philosophique Universelle, diretta da J.-F. Mattéi, PUF, Paris 1998, p. 2553.

9 Su di una prima configurazione del tema dello spazio in Kant si veda, di questo, Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Raume, in “Königsberger Trag- und Anzeigungsnachrichten”, 6-8 (1768); trad. it. R. Assunto, R. Hohenemser e A. Pupi, Sul primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, in ID., Scritti precritici, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 409-418.

10 I. KANT, Geografia fisica, ed. cit., p. 27.

11 Sulla natura pragmatica della geografia kantiana attira l’attenzione M. TANCA, Geografia e filosofia, Franco Angeli, Milano 2012, p. 40.

12 Cfr. I. KANT, Was heisst sich im Denken orienieren?, in ID., Gesammelte Schriften, de Gruyter, Berlin-Leipzig 1902; trad. it. P. Dal Santo, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1996.

13 Per una diversa lettura del tema cfr. però S. MASO, Filosofia a Roma. Dalla riflessione sui principi all’arte della vita, Carocci, Roma 2012.

14 Cfr. R.B. ONIANS, Le origini del pensiero europeo, trad. it. P. Zaninoni, a cura di L. Perilli, Adelphi, Milano 1998.

15 Per quanto desueta nell’omologo significato di “sociologia statica” (cfr. L. GALLINO, Statica sociale, in Dizionario di sociologia, Istituto Geografico De Agostini, Novara 2006, vol. 2, pp. 476-478), questa espressione meriterebbe di essere rivisitata, al di là di riduzionismi sociologici, in sede specificamente antropologico-filosofica. 226

16 Cfr. M. AUGÉ, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. D. Rolland e C. Milani, Elèuthera, Milano 2009.

17 Circa gli itinerari del sogno presso gli Aborigeni australiani studiati da Freud, sulla base delle ricerche di James Frazer, cfr. B. GLOWCZEWSKI, Du rêve à la loi chez les Aborigènes, PUF, Paris 1991.

18 A una meditazione complessiva, in chiave fenomenologica, sulle componenti simboliche di questo dimensionamento antropo-geografico rimanda la lettura di E. DARDEL, L’uomo e la terra. Natura della realtà geografica, trad. it. C. Copeta, Unicopli, Milano 1986, sul quale vedasi C. COPETA, Il mio incontro con Dardel (ovvero perché sono geografa!), in E. DARDEL, L’uomo e la terra, ed. cit., pp. 201-223. Più in generale, sul tema della spazialità, si rinvia alla omonima voce dell’Enciclopedia Einaudi (Torino 1981, vol. 13, pp. 244-272), redatta da E. GARRONI.

19 Per la dinamica sociale, o sociologia dinamica, vale quanto detto supra, nella n. 14, a proposito della statica sociale (cfr. L. GALLINO, Dinamica sociale, in Dizionario di sociologia, ed. cit., vol. 1, pp. 414-417).

20 L’elenco formato dagli etnologi annovera i seguenti sei sistemi: eschimese, hawaiiano, irochese, crow, omaha, sudanese. Su questo impianto le società umane strutturano il loro assetto in quanto reti di parentele.

21 Sulla difficoltà di definire i processi di globalizzazione nella prospettiva della de-territorializzazione, cfr. in particolare S. SASSEN, Né globale, né nazionale; la terza dimensione dello spazio nel mondo contemporaneo, in “il Mulino”, 6 (2008), pp. 969-979.

22 Cfr. F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it. D. Ceni, Rizzoli, Milano 1992. Più in generale sui rapporti fra geografia e Storia in Hegel si rinvia a P. ROSSI, Storia universale e geografia in Hegel, Sansoni, Firenze 1975. Peraltro, nella misura in cui i Fukuyama o gli Huntington continuano, insieme con molti altri, a porsi il problema della definizione del ruolo dello spazio e dei fattori geografici nella Storia mondiale nei termini delle forme di vita politica che coincidono con Stati, si è portati, almeno in questo senso, ad essere ancora hegeliani (cfr. M. TANCA, Geografia e filosofia, ed. cit., pp. 74-75).

23 Cfr. S.P. HUNTINGTON, Lo scontro di civiltà?, trad. it. S. Pighini, in ID., Ordine politico e scontro di civiltà, a cura di G. Pasquino, il Mulino, Bologna 2013, pp. 273-301.

24 F. ROSENZWEIG, Globus. Studien zur weltgeschichtlichen Raumlehre, in ID., Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, vol. III: Zweistromland. Kleinere Schriften zu Glauben und Denken, Martinus Nijhoff, Dordrecht-Boston-Lancaster 1984, p. 348; trad. it. S. Carretti, Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio, a cura di F.P. Ciglia, Marietti 1820, Genova-Milano 2007, p. 83. Sulle “vendette” che la geografia, ogni tanto, si prende sulla politica – da Napoleone a Hitler, fino ai nostri giorni –, può essere illuminante la lettura di R. KAPLAN, The Revenge of Geography, in “Foreign Policy”, maggio/giugno 2009.

25 Sui significati e sull’uso di questo neologismo si rinvia agli esordi sull’argomento in N. IRTI, Geo-diritto, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, 1 (2005), pp. 21-37.

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Kant grande geografo

La traduzione della Geografia fisica di Kant impegnò August Eckerlin a lungo: i sei volumi vennero pubblicati in successione tra il 1807 e il 1811.

Come apparve subito chiaro, si trattava di un lavoro importante, ma privo di uno sforzo di sistematizzazione che avrebbe potuto e dovuto facilitarne la lettura e la consultazione. Questo è poi il motivo principale per il quale all’edizione Vollmer (su cui si basò Eckerlin per la traduzione italiana) si è sempre poi preferita in seguito quella, più snella, curata da Theodor Rink. Per tutte le questioni annesse alla vicenda editoriale si può ora vedere il vol. 26.1 delle Kant’s gesammelte Schriften che contiene le lezioni sulla geografia fisica curate da Werner Stark in collaborazione con Reinhard Brandt (Berlin-New York, de Gruyter, 2009).

Nel 1816 Lorenzo Nesi, abate toscano all’epoca impegnato a Milano in attività di insegnamento, pubblica una Storia fisica della terra espressamente compilata «sulle tracce della Geografia fisica di Kant», con l’intento dichiarato di procedere a una riorganizzazione delle sparse osservazioni ricavate dagli appunti degli studenti proposte nell’edizione Vollmer.

Il più conosciuto fra i moderni, che siasi esclusivamente occupato di questa scienza importante, è stato il Sig. Kant, Professore celeberrimo dell’Università di Koënisberga, che tanto onore ha procurato al Secolo XVIII, alla repubblica letteraria, ed alla dotta sua patria. Se in quest’opera fosse egli stato meno ambizioso d’originalità, e più ordinato nella distribuzione delle materie, potrebbe questa a ragione riguardarsi come l’unica classica in questo genere, poichè nè i Malthebrun, nè i Pinkerton, nè i Guthrie hanno avuto campo di dare nelle loro Geografie Universali un competente sviluppo a questa parte, che di tutte è forse la più interessante, come la più dilettevole (vol. I, p. 6).

Lo scopo di Nesi è quello di liberare l’opera di Kant delle cose superflue, delle ipotesi azzardate, di accorciarla e armonizzarne le parti.

L’opera di Nesi venne pubblicata in due volumi: il primo nel 1816 presso l’editore Baret di Milano, il secondo nel 1817 presso l’editore Buccinelli, sempre di Milano.

Di questo curioso tentativo di rimaneggiamento della traduzione della Geografia fisica non v’è traccia in nessuna delle discussioni sul tema che da noi conosciute, né ci sembra sia mai citato (anche soltanto come curiosità) nelle bibliografie specialistiche.

Pertanto, se non andiamo errati, questa è la prima volta che si fa menzione di questo testo, la cui articolazione ricorda certamente la Geografia fisica di Kant, in rapporto alla storia della fortuna testuale di Kant in Italia.

Geografia e antropologia

Nel 1843, cioè trentasei anni dopo l’uscita del primo volume della Geografia fisica, l’editore milanese Giovanni Silvestri dà alle stampe un ausilio all’opera di Kant che Augusto Eckerlin aveva tradotto e pubblicato per lui tra il 1807 e il 1881 in sei volumi.

Si tratta di un dizionario che ordina alfabeticamente una serie di voci tratte dall’opera maggiore di Kant e che sostituisce l’indice analitico che Eckerlin non aveva accompagnato alla sua edizione e che molti avevano lamentato come mancanza grave. In effetti, la mole della Geografia fisica e, soprattutto, la vastità delle materie esposte richiedevano uno strumento di guida che consentisse di orientarsi in quella selva di dati e di notizie.

La geografia per Kant non si limitava alla fisica in quanto tale, benché tutte le cognizioni note sulla formazione della terra, dei mari, dei ghiacci e via dicendo fossero presentate in maniera più o meno sistematica. La geografia è, per Kant, principalmente una forma di conoscenza del mondo umano, un criterio di ordinamento delle caratteristiche antropologiche che devono poter essere descritte per ottenere un’immagine effettivamente cosmopolitica dell’uomo e del suo ambiente.

Questa prospettiva pragmatica era stata anche considerata negativamente da qualche recensore italiano, che riteneva del tutto improprio parlare delle situazioni concrete dei commerci, degli assetti politici e via dicendo all’interno di un trattato di geografia. Ma è invece proprio questa la caratteristica essenziale e, in qualche modo, innovativa dell’opera di Kant. La quale, in ogni caso, venendo diffusa in Italia in un’epoca fortemente segnata da trasformazioni politiche, poteva soccorrere la necessaria spinta propulsiva in avanti delle cognizioni tecniche. Non è un caso che, già a partire dalla stagione delle riforme settecentesche, in campo editoriale si facessero diversi sforzi per proporre un ampliamento della conoscenza della geografia, sforzi che vennero poi crescendo in età napoleonica e poi nella prima metà dell’Ottocento. La letteratura e la manualistica di settore in quest’epoca cresce in modo progressivo e porta alla traduzioni in italiano di altri manuali tedeschi di questo genere.

Quello kantiano è caratteristico e risulta ancora oggi un apax nell’attività dei filosofi, che caso mai tra fine Settecento e inizio Ottocento preferiscono indugiare sulla storia, attraverso prospettive universalistiche o sistematiche (da Herder a Hegel, per intendersi).

Il Manuale di geografia fisica è un altro esempio della particolare direzione che assume in Italia l’irradiazione di Kant, la cui attività antropologica è vista con molto interesse e talvolta con quel favore che non si poteva concedere al suo criticismo. Basti pensare che la cosiddetta macrobiotica di Kant, vale a dire le regole per il controllo spirituale degli stati patologici del corpo (il terzo saggio che compone il Conflitto delle facoltà) venne tradotto in italiano sia nella prima parte dell’Ottocento, sia nel clima positivistico di fine secolo.

Tra storia naturale e etnografia. La geografia kantiana

Kant tenne lezioni sulla Geografia fisica fino al Sommerse-mester del 1796: aveva cominciato quarant’anni prima, nel 1756. Il corso non era basato su un manuale, come richiesto poi dai regolamenti universitari, ma elaborato personalmente. E questo, come opportunamente fa notare Werner Stark nella prefazione al primo volume delle Vorlesungen über Physische Geographie apparso nel 2009 nell’ambito dell’edizione dell’ Accademia, vuol dire che il programma delle lezioni preparate da Kant, può essere considerato, entro certi limiti, opera autonoma. I limiti, peraltro, sono costituiti dal fatto che le lezioni così come ci sono rimaste, entrano nel patrimonio di studio di studenti e uditori, a volte eccellenti (come dimostra il caso di Herder).

La caratteristica essenziale  delle tre parti in cui si divideva l’insegnamento della Geografia fisica, è che la prima è dedicata alla descrizione fisica, la seconda alla storia naturale e la terza all’etnografia.  Kant raccoglie una grande quantità di materiali tratti da diari di viaggio, riviste, manuali che organizza poi in modo autonomo.  L’esposizione in aula non può certo entrare nei particolari, dice Kant presentando il corso del 1757, ma cercare ciò che desta meraviglia dappertutto e la bellezza con la curiosità razionale di un viaggiatore.

Su manoscritti di uditori di Kant si fonda l’edizione Vollmer (1801-1805), sebbene non si sappia nulla di questa fonte diretta. Come giustamente nota Stark, l’edizione Vollmer si presenta come un progetto editoriale autonomi rispetto alle lezioni kantiane. Infatti, vi si trovano assemblate informazioni che risalgono anche a periodo successivi il ritiro di Kant dall’Università e rimontano fino ai primi anni dell’Ottocento, quando ormai Kant (che muore nel 1804) non ha certo modo e tempo di dedicarsi ad aggiornamenti simili.

Vollmer ebbe a che fare con Theodor Rink a proposito di questa voluminosa edizione (in quattro volumi e sette tomi), ritenuta da Rink una contraffazione e oggetto di una disputa in tribunale che trascinò anche il vecchio Kant, il quale dettò una sua dichiarazione contro Vollmer e a favore di Rink, al quale aveva affidato il materiale per la pubblicazione delle lezioni di geografia fisica.

La polemica si protrasse per un certo tempo, ma lasciò il segno: nella seconda edizione, infatti, Vollmer presenta l’opera come propria trattazione ricavata dalle idee di Kant («nach kantischen Ideen») e, soprattutto, il curatore esce dall’anonimato e si fa riconoscere come Johann Jakob Wilhelm Vollmer «direttore, primo professore e bibliotecario del ginnasio dell’Accademia, ispettore delle scuole cittadine, predicatore della cattedrale di Thorn» (l’attuale Torun in Polonia). Per lo stesso curatore, quindi, l’opera non è di Kant, ma risulta una compilazione di materiali di varia natura, molti dei quali tratti da importanti manuali dell’epoca, comela Erdbeschreibung  di Anton Friedrich Büsching.

Non abbiamo una conoscenza precisa di Vollmer: Il Gelehrte Teutschland di HambergerMeusel (vol. VI, p. 113) ne riporta poche notizie, senza nemmeno indicare la data e il luogo di nascita, ma sappiamo che nacque a Thorn, ricordando che è stato l’editore della geografia kantiana e l’autore di un Kritisches Handbuch der Geschichte für die Jugend, eine Revision alles dessen, was wir mit Sicherheit in der Geschichte wissen (Hamburg 1805) – Manuale critico di storia per la gioventù, una revisione di tutto ciò che della storia sappiano con certezza.

Un altro cenno a Vollmer, non elogiativo, si trova in una storia della  città di Thorn del 1842: Jiulius Emil WernickeGeschichte Thorns aus Urkunden, Dokumente und Handschriften, Thorn 1842, vol. I, p. 580, in cui si dice che Vollmer, nominato nel 1803 direttore del Ginnasio, ne disperse lo splendore cui l’aveva portato il suo predecessore.

La Geografia fisica proposta da Rink si presenta come corrispondente a quella Vollmer soltanto per la parte introduttiva (le prenozioni matematiche), mentre per il resto i due volumi che compongono l’opera differiscono per l’ampiezza di sguardo, più che per i temi. L’ultima sezione, la sommaria considerazione delle più notevoli meraviglie naturale  di tutti i paesi in ordine geografico, risulta un anello di congiunzione con l’antropologia pragmatica, in particolare con la caratteristica, ossia l’osservazione del mondo esterno per comprendere il lato interno dell’uomo.

La Geografia fisica tradotta in italiano non presenta questo elemento etnografico, poiché il «cittadino Vollmer» (così si firma Johann Jakob Wilhelm Vollmer, da non confondere con l’editore dell’opera che si chiamava Gottfried Vollmer) l’aveva escluso dalla sua edizione, che è alla base della traduzione italiana di August Eckerlin. La conseguenza della scelta di quest’ultimo, che non riteneva opportuno tradurre la Geografia fisica di Rink – senza peraltro darne una motivazione –, è stata che del Kant antropologo e cosmopolita in Italia non si è saputo per un periodo piuttosto lungo. Qualche acuta osservazione di Bertrando Spaventa a metà secolo ha poi consentito di avere, effettiva, sebbene fugace, visione del pensiero antropologico kantiano.

La nascita della geografia moderna
attraverso il pensiero di Alexander von Humboldt e Carl Ritter

 

Wolfgang Francesco Pili

L’interesse per lo studio geografico sin dai tempi antichi non è mai mancato. Anzi, questo si è dimostrato un elemento unificante fra tutte le varie nazioni europee e mondiali che rivaleggiavano fra di loro per accaparrarsi il maggior numero di scoperte, ma che cercavano sempre di unire il sapere affinché tutti potessero usufruirne e poterne sfruttare al massimo i risultati. Fra il settecento e l’ottocento nuovi studi più approfonditi e dotati di una loro metodologia scientifica vengono intrapresi ed è così che emergono due importanti figure: Alexander von Humboldt e Carl Ritter.

Alexander von Humboldt è stato un uomo poliedrico e dagli interessi multiformi che dedicò la sua vita per intero allo studio e alla conoscenza geografica. Nato nel 1769 egli fu prima di tutto un naturalista, specializzato in botanica e in mineralogia, e alacre viaggiatore: infatti è proprio nei suoi numerosi viaggi che von Humboldt, attraverso le sue osservazioni e rilevamenti, si presenta come un grande geografo, tanto da essere considerato il fondatore vero e proprio della geografia moderna. Laureatosi nel 1790 in biologia all’università di Gottinga, nel biennio successivo studiò nell’accademia mineraria di Freiberg. Non è un caso che poco dopo fu nominato direttore dell’area mineraria della Franconia. Effettuò diversi viaggi nella sua giovinezza, specialmente in Europa e, in particolare, in Italia: dopo la morte della madre eredita una grande somma, poté organizzare una grande spedizione verso i tropici nelle colonie spagnole americane fra il 1799 e il 1804 con l’ausilio del botanico Aimè Bonpland (La Rochelle, 1773 – Restauraciòn, 1858). In questo viaggio ebbe modo di approntare molte ricerche sulla botanica: provò la scalata del Chimoborazo (un monte ecuadoregno) senza raggiungerne la vetta e scoprì un collegamento fra i bacini dell’Orinoco e del Rio delle Amazzoni, attraverso il fiume Casiquiare. Esplorò inoltre l’isola di Cuba, il Messico e il Perù facendo a volte anche studi di tipo etnologico e linguistico. Stabilitosi nuovamente in Europa, a Parigi per i successivi vent’anni, ebbe modo di scrivere la monumentale opera intitolata Voyage auc règions èquinoxiales du Nouveau Continent: questo fu il primo trattato di geografia socioeconomica del vicereame della Nuova Spagna, esteso dall’America istmica alla California e al Texas. Fondata a Berlino la Società Geografica tedesca nel 1828, nel 1829 invitato dallo zar Nicola I, effettuò un viaggio scientifico nella Russia orientale e in Asia centrale. Questo viaggio gli permetterà di dedicarsi alla sua opera magistrale intitolata Kosmos, redatta da cinque volumi, in cui von Humboldt tratta dei diversi aspetti geografici, con particolare riguardo alla fisica, all’astronomia e alle scienze naturali. Ad Alexander von Humboldt si deve l’inserimento negli studi geografici delle isoterme, ovvero la correlazione fra la diminuzione della temperatura e il crescere dell’altezza; inoltre fu proprio il geografo tedesco a valorizzare l’uso del barometro per misurare l’altitudine. Scoprì ancora le variazioni d’intensità del campo magnetico terrestre con la latitudine e viene considerato, fra gli altri, anche il fondatore della geografia botanica. La grande differenza fra Humboldt e i precedenti geografi consiste nel fatto che fu in grado di correlare i diversi fenomeni e argomenti geografici ad altre discipline come la fisica o la sociologia e questo è un aspetto tutt’ora fondamentale per un buono studio accademico geografico. Alexander von Humboldt morì a Berlino nel 1859 all’età di 89, proprio mentre si apprestava a scrivere l’ultimo tomo del Kosmos, che verrà completato e redatto grazie alle sue accurate note bibliografiche. Humboldt fu anche un insigne linguista.

Carl Ritter è stato uno studioso di geografia totalmente diverso dal suo contemporaneo Humboldt: infatti pur avendo anch’egli effettuato numerosi viaggi specialmente in Italia e sulle Alpi, fu un geografo che si dedicò più alla teoria che alla pratica. È’ per questo che la produzione libraria enciclopedica di Ritter è stata molto più prolifica rispetto a quella del suo collega Humboldt. Egli diede alla propria ricerca uno stampo fortemente umanistico. Fu il primo studioso geografo a diventare professore di un corso di Geografia all’università di Berlino nel 1820 e dal 1821 fu direttore della Società geografica berlinese di cui era cofondatore. Le sue opere principali sono due: Die Erdkunde im Verhaltniss zur Natur und zur Geschichte des Menschen e la Erkunde (geografia). Quest’ultima opera fu quella che determinò un profondo mutamento a livello enciclopedico anche se la sua opera rimase incompiuta: era infatti un’opera monumentale (19 volumi con 21 tomi e più di 30.000 pagine) pubblicata a Berlino dal 1822 fino al 1859 dove descrisse minuziosamente l’Asia e l’Africa. Quest’opera ritteriana è tutt’oggi molto poco conosciuta al di fuori delle ristrette cerchie tedesche in quanto è stata tradotta in poche lingue e con poche edizioni (mai in italiano) e appare di difficile lettura e spesso oscura; senz’altro Ritter fu influenzato dal pensiero storicista di Herder, dalla pedagogia di Johann H. Pestalozzi e dai principi generali del luteranesimo. Quest’ultimo punto porterà Ritter a parlare della teleologia o principio di finalità, che Ritter intravedeva nella predestinazione dei popoli e dei paesi. Ritter nell’opera intitolata Vorlesungen über allgemeine Erdkunde (1852), afferma che la teleologia cerca di rispondere all’esigenza di studiare la saggezza del creatore nelle opere della natura e di comprendere lo scopo finale della creazione: lo studio della Terra in ciò è importante perché non è solo il luogo in cui la divina natura si manifesta, ma anche perché è il luogo dove dimora il genere umano. Carl Ritter si definisce uno dei fondatori della geografia scientifica vista intesa come lo studio teorico e filosofico fra natura e uomo: infatti, afferma nell’introduzione alla Erdkunde, che l’influenza della natura sui popoli è maggiore di quella degli singoli uomini, perché si tratta di una massa che agisce su un’altra massa. Tuttavia la natura, al contrario del popolo, agisce in maniera progressiva e la sua influenza in genere è più profonda di quanto sembri. È dunque Ritter un geografo filosofo e storico? Potremmo rispondere affermativamente a questa domanda. Egli studia come detto in modo analitico e teorico tutte le cause della natura e di come essa agisce sull’uomo. Affermerà Ritter che l’influenza della natura sullo sviluppo dei popoli diminuisce di pari passo con l’evoluzione della civiltà, per cui i rapporti di stampo deterministico (vedi bibliografia essenziale) non rimangono uguali nel tempo. Ritter fu un geografo dunque che a differenza di Humboldt riuscì a sottolineare in maniera più compiuta l’eterogeneità dei fenomeni di cui si interessa la geografia e, tuttavia, come ci dice la critica successiva, la sua descrizione dell’Asia e dell’Africa appare arida e noiosa. D’altronde Ritter nei due continenti non ebbe modo (o probabilmente interesse) di andarci: questo rende la sua opera principale, l’Erdkunde, non così importante come potrebbe sembrare, e fornisce anche una ragione anche perché non sia stata tradotta nei vari stati europei.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Bartaletti F., Geografia Teoria e prassi, Bollati Beringhieri, Torino, 2006

http://it.wikipedia.org/wiki/Aim%C3%A9_Bonpland

http://www.openfisica.com/fisica_ipertesto/openfisica4/principio_isoterme.php

http://geography.about.com/od/historyofgeography/a/vonhumboldt.htm

http://www.treccani.it/enciclopedia/carl-ritter/

http://geography.about.com/od/historyofgeography/a/carlritter.htm

http://www.vialattea.net/esperti/php/risposta.php?num=13271 riguardo la teleologia

http://www.sapere.it/enciclopedia/determinismo.html per quanto concerne il determinismo geografico

 

 

Lezione (hegeliana) di geografia

Quando mi misi a pensare all’argomento per la tesi di laurea – prima di focalizzare la mia attenzione su Rousseau, i selvaggi e l’antropologia – sottoposi a un docente germanofilo della cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea dell’Università Statale di Milano, l’idea di vederci chiaro sul rapporto tra geografia e storia nella filosofia hegeliana. Un argomento non semplice, poco studiato in Italia, e che dunque avrebbe richiesto una buona conoscenza della lingua tedesca, ostacolo per me all’epoca insormontabile. Tra l’altro avrei dovuto leggermi alcuni saggi di geografi e storici tedeschi a cavallo tra ‘700 e ‘800 (tra cui quelli di un certo Ritter, geografo spesso citato da Hegel), che se andava bene erano stati tradotti in francese. Mi sarebbe poi piaciuto tirar dentro Johann Gottfried Herder, che aveva scritto due opere splendide dedicate alla filosofia della storia. Ma poiché ero già abbondantemente fuori corso, finii per lasciar perdere. (Forse giocava anche un riflesso condizionato della mia passione di bambino per tutto ciò che aveva a che fare con la geografia e, soprattutto, con le carte geografiche; senza ancora sospettare che la cartografia – e la crisi della ragione cartografica di cui parla ad esempio il geografo Franco Farinelli –  è cosa serissima, tanto più in epoca globale).

Hegel, nella sua filosofia della storia, aveva costruito una vera e propria cartografia e mappa dello sviluppo spirituale, generalmente semplificato nell’arco che da Oriente va ad Occidente – l’alba e il tramonto-compimento dello spirito, in chiave chiaramente eurocentrica. Anche se poi tale spirito finiva per sostare un po’ troppo nelle terre germaniche e prussiane, prima di (forse e comunque con poco entusiasmo da parte del filosofo tedesco) intraprendere la traversata dell’oceano e migrare in terra americana. Pur trincerandosi dietro la frase che “il filosofo non s’intende di profezie”, Hegel deve comunque ammettere a denti stretti che l’America sarà il paese dell’avvenire. Non so che cosa avrebbe obiettato se gli si fosse fatto presente che, proprio perché la filosofia non produce profezie, non si poteva escludere che la circolarità dello spirito avrebbe finito per doppiare lo stretto di Bering e ripartire così dal suo luminoso inizio – e che dopo il secolo americano ci sarebbe stato il secolo cinese, ad onta del fatto che per i cinesi “il mare è solo il cessare della terra”.

Ad ogni modo lo spirito – la cultura umana – ha sempre una precisa collocazione geografica: Hegel la definisce nelle sue Lezioni “situazione di natura, ossia la base geografica della storia del mondo”. I popoli, per esser tali, devono avere una loro “configurazione naturale […] da cui si sprigiona lo spirito”. Questo, dunque, si impasta con il clima e si innesta sul materico-naturale, anche se suo compito essenziale è di elevarsi da questa sua naturalità e fisicità, per riconoscersi in qualità di libero spirito.

Ciò non toglie nulla alla sua valenza fortemente geografica (e dunque storica): Hegel riconosce ad esempio, sulla scorta degli studi settecenteschi, in particolare di Montesquieu, che il clima è un elemento determinante. In particolare, solo la zona temperata può essere a suo giudizio il vero teatro della storia del mondo; mentre il mare ricopre una funzione essenziale in termini di superamento del limite, pericolosità, coraggio, scoperta, astuzia: “nel mare è implicita quella specialissima tendenza verso l’esterno, che manca alla vita asiatica: il procedere della vita oltre sé medesima”. Insomma, non c’è in Hegel una filosofia della storia che non sia contemporaneamente una filosofia della geografia, una geofilosofia o una geopolitica.(Oggi, a distanza di ben due secoli, si tratta di una branca nuova ed interessante della filosofia: per averne un’idea basta consultare il Sito italiano di Geofilosofia o dare un’occhiata alle 10 tesi di Geofilosofia di Caterina Resta)..

Questa lunga (e forse poco interessante) premessa, per dire che la lezione di geografia è essenziale, e che forse bisognerebbe tornare a studiarla con più attenzione, a prescindere dalla facilità con cui wikipedia o google map ci fiondano sul globo in un batter di clic.

La geografia è cosa serissima; i numeri della demografia sono pesantissimi; lo spazio, anche se apparentemente annullato dai media e dalla rete, è un’estensione imprescindibile; i colori delle mappe geografiche, gli istogrammi e i dati statistici nascondono sotto la loro patina brillante guerre e conflitti, corpi e macerie, lavoro e fatica, vita e speranze insieme ad un bel po’ di promesse tradite.

Faccio solo tre esempi, cercando di applicare quanto ho detto finora a quel che va accadendo in questi mesi in giro per il pianeta:
a) sui numeri, mi pare che la prussiana (e forse un po’ hegeliana) Angela Merkel abbia detto una cosa geofilosofica ovvia, su cui però non molti stanno ragionando: l’Unione europea incide in termini demografici solo per il 7% della popolazione mondiale (il 10% se allarghiamo all’intera Europa), mentre l’Italia non arriva nemmeno all’1%. Quando si usa la categoria di potenza mondiale non possiamo non ragionare anche su questi dati;
b) che cosa vuol dire oggi essere europei od occidentali? perché mai dovrei sentirmi più europeo di quanto non mi senta mediterraneo o ugrofinnico o micronesiano? E poi: insulare  – continentale – fluviale – lacustre – marino – montano – campagnolo – metropolitano – centrale – periferico – nomade – migrante… potrei continuare a lungo con questa cartografia geoantropologica che nasconde e svela ad un tempo il destino di miriadi di esseri umani, insieme alle loro collocazioni biografiche ed esistenziali, difficilmente rappresentabili e riducibili a quelle mappe e a quei numeri;
c) ma la lezione più drammatica ed istantanea di geografia, di geofilosofia e di geopolitica, ce la dà – tanto per fare un esempio paradigmatico – la Siria di quest’ultimo anno: gli abitanti di quella nazione, con quei confini, quella densità, quella superficie, quella conformazione orografica ed idrografica, quel clima e quel fuso orario, quelle religioni e lingue ed etnie – e con quelle risorse (o non risorse) – ebbene loro sì che stanno scrivendo la lezione di geografia con il proprio sangue.

  1. Ogni cultura umana è legata alla terra, alla natura in cui si sviluppa, sembra essere vero, se pensiamo anche soltanto all’influenza sulla costituzione culturale non solo del clima, ma anche del cibo autoctono e delle abitudini, degli usi e costumi ad esso connesse. Anche se ormai mangiamo cibi esotici, e persino il grano proviene in gran parte da paesi d’oltremare. E senza contare l’oggetto di fede che è ormai diventata la fede universale, il danaro e i flussi del capitale finanziario, quanto mai liquido, per il quale non si danno confini.

In“Terra e il Mare” Carl Schmitt, sosteneva che la supremazia europea era sulla via del tramonto, e con essa il diritto e lo statalismo europeo. la storia del mondo è la storia delle potenze marittime contro le potenze terrestri, e viceversa.

Per Schmitt: “Il Mare è innanzitutto la negazione della differenza, conosce solo l’uniformità, mentre nella Terra si dà sempre la variazione, la difformità. Il Mare non ha confini se non le masse continentali ai suoi estremi. La Terra è sempre solcata dai confini tracciati dall’uomo, oltre alle barriere naturali. Il Mare è mobilità permanente, flusso privo di un centro stabile. È caos e dissoluzione. La Terra è costanza, stabilità, gravità. È gerarchia e ordine. Il Mare è il Capitale, la Terra è il Lavoro. Eccetera.

Allo stesso modo la fluida uniformità marittima genera il dio-denaro, ciò tramite cui ogni merce può essere scambiata ma che non è a sua volta una merce. L’era moderna in effetti è l’era dei flussi: flussi di informazioni, flussi di capitali, flussi di merci, flussi di individui. Il monoteismo del mercato (capitalistico e finanziario) nasce dal Mare.

Concretamente e storicamente, il Mare sarebbe incarnato dalle talassocrazie anglosassoni, la Terra dalla tellurocrazia continentale eurasiatica.
E l’America sarebbe in tutto e per tutto l’erede geopolitico e geofilosofico dell’Inghilterra. In essa lo spirito mercantile, l’istinto predatorio e l’individualismo borghese raggiungono livelli deliranti. Il titanismo predatore, piratesco, mercantile tipico delle talassocrazie è animato da una brama di dominio inestinguibile che non può essere limitata da alcuna regola.

L’istinto di predone dei mari che caratterizza il popolo insulare (Inghilterra e America) intende in modo tutto diverso la vita economica. Qui si tratta di lotta e di bottino, anziché di politica, come sulla terra.Nell’isola, quindi, il capitalista sostituisce il politico ed il corsaro prende il posto del soldato; solo sulla Terra l’esistenza dell’uomo è immediatamente politica.”

Comunque ormai anche la Cina ha “attraversato la grande acqua”, ed è un oceano, a confronto del piccolo stagno che è l’Europa.

 

Geografia e filosofia. Materiali di lavoro

 

di Marcello Tanca         Franco Angeli, 2013

Nei nostri ricordi scolastici geografia e filosofia rappresentano mondi separati e lontani, che poco o nulla hanno a che fare l’uno con l’altro. Questa spartizione ha dietro di sé una lunga storia – che se non è lunghissima, è ancora viva e presente nella cultura contemporanea. Nonostante lo “spatial turn” registratosi nelle scienze sociali negli ultimi anni, la storia dei prestiti e delle contaminazioni tra discorso filosofico e discorso geografico attende ancora, in larga parte, di essere scritta. Questo lavoro parte da una precisa ipotesi interpretativa: l’esplorazione conoscitiva e materiale della Terra, il tratto che più di ogni altro caratterizza l’epoca moderna e senza il quale non si darebbe globalizzazione, sarebbe stata impensabile senza le molteplici connessioni, interferenze e sovrapposizioni tra geografia e filosofia. Si tratta allora di ripensare il rapporto tra quelli che sono a tutti gli effetti dei dispositivi di produzione di immagini del mondo e di riportare alla luce alcune delle tappe più significative di un percorso comune così poco conosciuto: da Kant a Foucault, passando per Hegel, Marx e Heidegger.

Recensione (di Dino Gavinelli):

Geografia e Filosofia, due discipline ben delineate nell’immaginario collettivo come distanti e ben separate tra loro e che invece Marcello Tanca riavvicina per evidenziarne codici, discorsi, linguaggi, saperi, percorsi e evoluzioni di volta in volta vicini, mescolati, complementari. La sua analisi si inserisce dunque sul solco dei non numerosi lavori che hanno indagato sugli incontri, gli scontri, le mediazioni, le sovrapposizioni e le interferenze tra geografia e filosofia. Nel lavoro monografico si spazia da quell’Illuminismo settecentesco, tutto teso a trasporre l’ordine razionale della scienza sul piano della storia e della geografia, alla filosofia novecentesca di Foucault che, con la sua microfisica del potere e le sue frequenti preoccupazioni per la dimensione spaziale, non lascia certamente indifferenti i geografi contemporanei. Tra questi estremi temporali Marcello Tanca si muove agevolmente per raccogliere, ordinare e presentarci i suoi “materiali di lavoro”: Kant e la “geografia fisica” (capitolo 1); Hegel e la “geografia dello spirito” (capitolo 2); Marx e la geografia (capitolo 3); il paesaggio come categoria logica della descrizione geografica e della riflessione filosofica (capitolo 4); abitare il mondo: Heidegger, Dardel, Le Lannou (capitolo 5); Foucault: per una geografia del potere (capitolo 6). Tra questi materiali ritroviamo anche testi che, in alcuni casi, sono tradotti per la prima volta in italiano per recuperare, come ben dice l’autore nella sua Introduzione, la dimensione storica del sapere geografico e risalire, con metodo filologico, alle origini di modelli ontologici e di precise figure teoriche e geografiche (il paesaggio, l’abitare).

Nel primo capitolo, dedicato a Kant e alla sua geografia fisica, l’autore ci porta al centro delle riflessioni del filosofo di Königsberg sulla storia umana, sull’operatività dei gruppi sociali sulla scena del mondo con il fine di creare un ordinamento cosmopolitico, tipicamente settecentesco. In tale contesto la geografia fisica e quella umana acquisiscono una loro grande utilità perché svolgono un’importante funzione pratica, popolare e di orientamento. Attraverso la geografia gli individui sono in grado di avere non solo uno sguardo regionale ma anche uno d’insieme sul pianeta per poter così indagare e conoscere i suoi molteplici paesaggi.

Nel secondo capitolo domina la figura di Hegel che, nel suo sistema filosofico tutto teso a riconoscere il presente (quello tra la fine del Settecento egli inizi dell’Ottocento) nella sua positività e a contrastare il moralismo di chi contrappone l’ideale astratto al reale, lascia un certo spazio alla geografia. La filosofia della storia di Hegel ci presenta infatti il grande scenario della vita degli stati,  espressione dello spirito di quei popoli che, nelle diverse epoche, hanno non solo rappresentato un momento significativo del progresso complessivo dello spirito umano ma disegnato anche luoghi specifici. La dimensione evolutiva è dunque selettiva non solo nel tempo ma anche nello spazio, come il nostro autore ben evidenzia in diversi punti della sua lettura geografica dell’opera hegeliana.

Nel terzo capitolo viene proposta una rilettura del pensiero di Karl Marx in chiave geografica. Questa rilettura consente di richiamare succintamente le tappe principale del rapporto tra il filosofo tedesco e la geografia. All’interno del suo complesso impianto speculativo e espositivo, conosciuto ai più per i suoi aspetti filosofici, politici ed economici perché incentrato sull’unità del processo di produzione e di circolazione del capitale, Marx ha inserito infatti ampie parti documentarie, storiche, ecologiche e geografiche. La sua teoria critica della globalizzazione, che Tanca interpreta giustamente come evidente superamento dell’influsso hegeliano, è molto utile al geografo alla ricerca di “preziosi strumenti di lettura dei meccanismi di esclusione sociospaziale e delle contraddizioni ecologiche e territoriali del sistema-globo”. L’attualità del pensiero di Marx rispetto alla presente globalizzazione capitalistica che plasma ambienti, culture, economie, società, territori e paesaggi è sorprendente.

Nel quarto capitolo è il paesaggio, come categoria logica della descrizione geografica e della riflessione filosofica, a imporsi all’attenzione del lettore. Il concetto polisemico di paesaggio, elemento paradigmatico della complessità attuale del mondo, con i suoi molti valori estetici, romantici, patrimoniali, scientifici, soggettivi, per citarne solo alcuni, consente di richiamare termini quali “mimesis”, “graphikos”, “pictura”, di ricordare Humboldt e i suoi schemi progettuali di acuto geografo, di inquadrare i termini di un Vidal de la Blache ermeneuta e di riflettere su ricchi e variegati percorsi geofilosofici ottocenteschi e novecenteschi. Con queste analisi il paesaggio si dimostra in tutta la sua “plasticità” e offre numerosi spunti all’autore che, a ragione, avversa l’idea dell’immutabilità dei caratteri naturali, culturali e paesaggistici. Proprio i paesaggi della contemporaneità, trattati nell’ultimo paragrafo del capitolo, ci ricordano che il discorso rimane aperto e in divenire.

Nel quinto capitolo è il popolamento del pianeta e le modalità dell’abitare ad essere trattato da tre punti di vista filosofici e geografici di spessore: Heidegger, Dardel e Le Lannou. Il percorso speculativo di Heidegger, che nel problema dell’essere ha posto la sua maggiore attenzione, non si limita agli aspetti metafisici ma implica anche una dimensione spaziale polisemica nella quale i luoghi e gli ambienti sono intimamente legati alle grandi questioni filosofiche e si prestano agli  approfondimenti delle successive correnti fenomenologiche, umanistiche e esistenziali presenti in filosofia e in geografia. Anche Dardel indaga discretamente sulla natura della realtà geografica, e in particolare dell’abitare, nel suo ormai celebre “L’uomo e la terra” così ricco di richiami a Heidegger e, più in generale, alla filosofia. Negli stessi anni anche Le Lannou si interessa alla geografia come scienza dell’uomo-abitante e anticipa la sua riflessione critica sulla pianificazione territoriale che troverà ampio spazio nel dibattito culturale francese  degli ultimi decenni del XX secolo. I tre punti di vista, pur tra loro diversi, mettono in campo metodi e strumenti della filosofia e della geografia per sottolineare che l’azione dell’abitare è sempre complessa, si presta a tante letture ed è una questione che riguarda tutti noi.

Nel sesto capitolo l’analisi dell’opera del filosofo e saggista francese Foucault consente al nostro autore di rimettere in questione la centralità del soggetto, della storia e dello spazio intesi come esito positivo della progettualità umana secondo un tragitto lineare e continuo. Al contrario, il divenire storico e geografico passano attraverso brusche fratture, tra loro spesso contraddittorie o eterotopiche, che possono essere descritte e registrate ma non spiegate. In questo senso Foucault fornisce un contributo notevole alla geografia postmoderna pur non avendo elaborato un’organica teoria generale dello spazio. Ma è soprattutto nell’analisi dei rapporti di potere che egli influenza il pensiero geografico sul presente e alimenta decise opposizioni al suo punto di vista critico. Il potere è infatti inteso non come istanza centralizzante e gerarchizzante ma piuttosto come insieme plurimo, reticolare e circolare di relazioni. Verso di esso possono strutturarsi forme di resistenza che rimettono in causa le pratiche discorsive e le strategie dominanti e alimentano gli studi di geopolitica.

Il testo, denso nei contenuti e foriero di stimoli, è arricchito da una Prefazione di Franco Farinelli. In essa si ricorda il lungo cammino compiuto dalla geografia e si sottolinea come questa disciplina abbia preso ampio spunto dapprima dalla filosofia greca delle origini. Le successive analisi filosofiche hanno poi consentito, più o meno direttamente, alla geografia di rendersi maggiormente articolata, variegata e complessa a riprova dei proficui contatti tra le due discipline.

L’esplorazione conoscitiva e materiale della Terra, il tratto che più caratterizza l’epoca moderna e senza il quale non si darebbe globalizzazione, sarebbe stata impensabile senza le molteplici connessioni, interferenze e sovrapposizioni tra geografia e filosofia. Il testo vuole ripercorrere alcune delle tappe più significative di un percorso comune così poco conosciuto e di cui si è minimizzata l’importanza: da Kant a Foucault, da Hegel a Marx e Heidegger.

 

Bollettino della Società Geografica Italiana Riflessioni sul postmodernismo (di M.Marconi)…

Nei nostri ricordi scolastici geografia e filosofia rappresentano mondi separati e lontani, che poco o nulla hanno a che fare l’uno con l’altro. La geografia ci riporta alle carte appese alle pareti delle aule e ad elenchi interminabili come quello degli affluenti di destra del Po. La filosofia al proprio tempo appreso col pensiero, al Cogito e agli imperativi categorici. Questa spartizione ha dietro di sé una lunga storia – che se non è lunghissima, è ancora viva e presente nella cultura contemporanea.

Nonostante lo spatial turn registratosi nelle scienze sociali negli ultimi anni, la storia dei prestiti e delle contaminazioni tra discorso geografico e discorso filosofico attende ancora, in larga parte, di essere scritta. La responsabilità va ripartita in parti uguali tra geografi e filosofi. I primi hanno teorizzato poco o nulla e guardato come pericolose deviazione quei tentativi di elaborare un’immagine della Terra che non fosse semplicemente il mero calco della rappresentazione cartografica (sono emblematici, da questo punto di vista, i casi di Reclus e Dardel). I secondi si sono generalmente disinteressati ad una disciplina che sembrava offrire pochi appigli alla riflessione critica a causa del suo statuto epistemologico ambiguo e incerto, a metà strada tra il fisico e l’umano, dunque di difficile collocazione in un quadro teorico dominato da dicotomie come quella tra “natura” e “spirito”.

Questo lavoro parte da una precisa ipotesi interpretativa: l’esplorazione conoscitiva e materiale della Terra, l’impresa che ha cambiato per sempre la faccia del pianeta ma alla quale né i geografi né i filosofi hanno preso parte direttamente, non sarebbe stata possibile senza l’apporto di quegli straordinari codici di scrittura del mondo che sono geografia e filosofia. Si tratta allora di riportare alla luce, attraverso uno scavo archeologico, alcune delle tappe più significative di un percorso comune così poco conosciuto e di cui oggi è più che mai urgente scrivere la storia: da Kant a Foucault, passando per Hegel, Marx e Heidegger.

 

Spazio e geografia in Hegel:
la dialettica terra-mare

Nella filosofia hegeliana troviamo sempre la natura definita inizialmente, per la coscienza ordinaria, come l’elemento immediato, esteriore, molteplice ed estrinseco, un Proteo che ci troviamo di fronte senza averlo prodotto17, caratterizzato da rapporti di giustapposizione spaziale e successione temporale18. Questa accezione di natura è contrapposta allo spirito umano inteso da Hegel sempre in termini di razionalità come risultato, ritorno in se stessi, farsi per mezzo della propria attività, in modo autonomo e libero, autodeterminato.

Quale significato ha allora la sensibilità dell’uomo, il suo aspetto biologico, rispetto alla sua natura razionale e alla natura esterna? Sicuramente, per Hegel, l’uomo si dice sensibile in quanto non lo si dice libero, ma il nesso che lega alla natura esterna il carattere dell’uomo (termine con cui Hegel indica forme specifiche di indole, tendenza ed attitudine interiori) non è un rapporto di meccanica dipendenza causale, come se la determinatezza naturale del suolo o del clima avesse come effetto la formazione del carattere di un popolo, riempiendo di contenuto attitudini di per sé vuote ed astratte. Hegel è fortemente critico rispetto a supposti effetti determinanti e specifici del clima, per lui un clima aspro e duro non avrebbe alcuna relazione causale o analogica significativa con destini di eroi e/o suicidi:

Si parla spessissimo del mite cielo ionico, che avrebbe prodotto Omero. Certo esso ha molto contribuito alla grazia della poesia omerica. Ma la costa  dell’Asia Minore è stata sempre la stessa, e lo è ancora: eppure dal popolo ionico non è sorto che un Omero19.

L’influenza del clima è per Hegel più generale, e (specialmente negli estremi del torrido e del gelo) riguarda la sua potenza e la sua forza di oppressione sulla liberazione delle forze spirituali umane. Tale liberazione per Hegel non può che iniziare a livello della sensibilità stessa dell’uomo, nel suo nesso con la natura esterna, con l’evidente richiamo alla tesi aristotelica secondo cui l’uomo si rivolge all’universale solo quando non è depresso e ottuso dai bisogni, ma è in grado di distaccarsi e ritrarsi dalla propria immersione nel mondo esterno. Da questa prima serie di considerazioni, che senza dubbio privilegiano le terre temperate come terre di sviluppo della libertà 20, emerge che è il rapporto con la natura con ciò che è fuori di noi, non l’introspezione, il rapporto con noi stessi, la prima posizione a partire dalla quale l’uomo è in grado di riflettere in sé e acquistare libertà, e che è nel rapporto con la differenza da sé, e non nelle profondità della individualità, che l’uomo trova per Hegel il suo originario punto di partenza per muovere verso il sapere di sé. Inoltre, va notato che emerge anche come la separazione dalla natura, il distacco da un rapporto semplicemente immediato con essa, sia la prima condizione per separare da sé bisogni e pulsioni, l’irretimento nei rapporti primari di possesso e dipendenza: con le cose, con la terra, con i legami famigliari (“la voce del sangue”), e per sviluppare una cultura spirituale21.

Si vede allora come, per Hegel, la maniera naturale di essere dell’uomo sia tanto il suo essere sensibile e non libero, immerso nell’esteriorità, sia il suo stesso ritrarsi dalla immediatezza di tale immersione, se la natura esterna non glielo impedisce:

Il gelo che serra i Lapponi o il calore torrido dell’Africa sono forze troppo potenti a petto dell’uomo perché lo spirito possa acquistare fra esse libero movimento e giungere a quella sua ricchezza, che è necessaria perché una civiltà assuma forma reale. In quelle zone il bisogno non può esser mai allontanato: l’uomo è perpetuamente obbligato a rivolgere la sua attenzione alla natura.22

In altre parole, il clima è determinante solo nella misura in cui la sua potenza impedisce all’uomo di ritornare a sé stesso e in sé stesso. Circoscrivere alla  zona temperata il fiorire della civiltà, si badi bene, non è stato affatto determinato da Hegel dallo stanziamento di certe popolazioni geneticamente superiori a scapito di altre, non è basato su argomenti che oggi definiremo “razzisti”. Il primato, sotto l’aspetto spirituale, dell’Europeo e della razza caucasica (su criteri osteologici e non sul colore della pelle come in Kant)23 che troviamo ad esempio nella sua Filosofia dello spirito soggettivo è affermato solo nei mutabili termini della storia e della antropologia culturale, non su immutabili fondamenti biologici ed ereditari: «la differenza delle razze umane è ancora una differenza naturale, cioè una differenza che riguarda anzitutto l’anima naturale. Come tale, essa è legata alle differenze geografiche del suolo sul quale gli uomini si riuniscono in grandi masse 24».

Da qui l’importanza, inedita nel pensiero filosofico, delle basi geografiche della storia del mondo, e in particolare del Mediterraneo come espressione del rapporto tra mare e terra, vista come l’opposizione più universale della determinazione naturale e di maggiore significato storico. Hegel considera infatti quanto il movimento concettuale, oggetto e compito della considerazione filosofica, si ritrovi nelle considerazioni delle diversità fra i continenti, per sottrarre tali differenze dalla casualità e poterne fare discorso razionale.

Ricordo brevemente come Hegel codifica i momenti necessari della attività logico-reale del pensiero25. Il pensiero come attività formale si muove a partire dalla intuizione immediata della sensazione, dalla apprensione della individualità concreta. La nega intellettivamente nella unità di una universalità indifferenziata e compatta, che sussume quella singolarità insieme al molteplice che gli è omogeneo. Ma il pensiero non si ferma a questa attività di isolamento e separazione di un universale astratto, come un che di ideale saldamente contrapposto al reale singolare della sensazione. L’antitesi prodotta dal momento intellettuale non fissa che apparentemente degli estremi indipendenti e autosussistenti, la loro verità speculativa o razionale si riconosce quando ogni determinazione isolata, ogni essere finito, si mostra, dialetticamente, in relazione con ciò che esclude, si rovescia nel suo opposto. In altre parole, ogni determinata identità con sé, in quanto non è mai un termine fisso e ultimo ma è soggetta a mutamento e divenire, contiene anche la propria negazione, contraddicendo così la propria autosufficienza, che si rivela dunque una mera apparenza. I due opposti estremi della universalità e della singolarità, ognuno passato nell’altro, risultano così relativi l’uno all’altro e compenetrati sillogisticamente nel medio della loro unità: una unità non iniziale, ma riflessa in sé, prodotta dal pensiero.

Il modo di pensare dialettico mostra dunque in generale la finitezza delle determinazioni unilaterali dell’intelletto, esponendole per quello che sono, tali che si rovesciano in quel loro opposto da cui avevano astratto per circoscrivere e fissare la propria identità esclusiva, e così si superano. Da qui la dialettica come «immanente oltrepassare», come finito che non viene limitato dal di fuori ma che si contraddice in se stesso, passa nel suo contrario mediante se stesso. Solo per questo aspetto di anima motrice la dialettica è per Hegel il principio mediante cui il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, e il suo è un risultato positivo, una unità mediata di determinazioni distinte 26.

Hegel ha così gli strumenti filosofici per pensare il “nesso immanente” tra le grandi suddivisioni continentali, come porzioni limitate e finite, del nostro pianeta, mostrando come sia possibile razionalmente (dialetticamente) “dedurre” l’Africa come unità indifferenziata, universale massa continentale compatta, l’Asia come suo opposto, per gli altipiani e le grandi valli irrigate da ampi fiumi che spezzano tale uniformità, e infine l’Europa, dove montagna e pianura non sono giustapposte, ma si compenetrano costantemente.

L’Europa, in questa considerazione filosofica, per Hegel «rivela l’unità di quella unità indifferenziata dell’Africa e dell’opposizione non mediata dell’Asia. Questi tre continenti sono, non separati, ma uniti dal Mediterraneo,  attorno al quale si stendono» 27. Analogamente, le differenze fondamentali dello spazio naturale vengono pensate secondo la scansione della compattezza indifferente e chiusa, informe dell’altopiano con le sue grandi steppe e pianure, della massa montana rotta da corsi di acqua che si scavano il passaggio verso il mare nella transizione della pianura fluviale, mentre il terzo elemento è la zona costiera, la terra che è a contatto con il mare.

Nella comprensione concettuale (necessaria) delle tre differenze fondamentali dal punto di vista della terra, i corsi di acqua giocano un ruolo fondamentale. Nella terra abitata, lo spazio, la nostra prima intuizione dell’esteriorità che corrisponde alla categoria della quantità 28, non vale più unicamente come giustapposizione indifferente ed estrinseca, ma è ambiente, la mera esteriorità quantitativa viene subordinata a rapporti vitali più complessi: «il sussistere in modo reciprocamente estrinseco della spazialità non ha alcuna verità per  l’anima» 29. La fertilità del terreno porta allo sviluppo dell’agricoltura e quindi alla regolamentazione del ciclo di soddisfacimento dei bisogni primari su ciclici tempi stagionali, la sedentarietà e il possesso prolungato causano il sorgere dei diritti sociali (proprietà, diritto, classi), rapporti collettivi che unificano esistenze che prima erano nomadi o meramente singole. In questo schema geopolitico dell’avanzare della cultura e della civiltà dall’altipiano interno al mare, l’acqua, per Hegel, ha dunque sempre il valore di ciò che unisce, mai di ciò che separa:

in tempi recenti, in cui si è voluto sostenere che gli stati debbono essere necessariamente divisi da elementi naturali, ci si è abituati a considerare l’acqua come il principio separatore. Contro questa opinione è invece di importanza essenziale il dire che nulla riunisce quanto l’acqua, chè i paesi di cultura non sono altro che bacini fluviali. L’acqua è infatti ciò che congiunge; sono i monti che separano. Quando i paesi sono separati da monti, lo sono maggiormente che quando son divisi da un fiume o persino dal mare 30.

Hegel si riferisce probabilmente al ruolo del Reno e dell’Elba durante le campagne napoleoniche in Germania nel primo decennio dell’800: un «falso principio » dei Francesi far valere che i fiumi siano confini naturali, come nel caso della Confederazione del Reno (Rheinbund) seguita all’abolizione del Sacro Romano Impero (1806), da cui erano escluse Prussia ed Austria. Ma mi piace pensare che per una filosofia hegeliana degli spazi naturali e umani  egli fosse portato a sottolineare la comunicazione di popoli, costumi e caratteri attraverso le vie di acqua anche perché attento a registrare un nuovo fenomeno del suo tempo: il flusso turistico che venne a svilupparsi sul Reno dopo la sconfitta di Napoleone del 1815, in quella Confederazione germanica (Deutscher Bund) di cui facevano di nuovo parte Regno di Prussia e Impero austriaco, con l’introduzione della navigazione a vapore nel 1817 (da Bonn fino a Coblenza) e nel 1827 (fino a Magonza) grazie alla Compagnia prussiano-renana di battelli a vapore. 31

Può essere interessante notare come anche oggi, pur in un panorama storico profondamente mutato, l’approccio di Hegel conservi il suo valore: basti pensare a come un sociologo come Franco Cassano guarda all’Adriatico, quando, tra tracce passate di guerre recenti e proiezioni di future integrazioni comunitarie, scrive che attraversarlo:

significa avvicinare popoli dello stesso continente, completare l’Europa, ma anche cambiarla mutando l’equilibrio delle sue voci […] l’Adriatico è un invito a fare un salto, un salto possibile e non metafisico, un invito a guardare lontano, ma non troppo. L’Adriatico non chiede di essere angeli, ma solo gabbiani 32.

Nell’ottica di Hegel, dunque, non tanto la corrispondenza tra terra aspra e composita, stretta tra mare e altipiano, e i popoli e le lingue diverse, sarebbero oggetto di discorso filosofico, quanto il contatto tra terra e mare, l’aspetto della comunicazione con il mare e i modi in cui la costa sviluppa le sue relazioni con esso, attraverso i commerci e la navigazione, come poi riprenderà Carl Schmitt nel suo Land und Meer, sempre in termini di reinterpretazione della storia universale, attraverso però il conflitto intrinseco, nella rivoluzione spaziale globale scaturita dalla scoperta del nuovo mondo, tra potenze di terra e di mare 33. La zona costiera sembra invece unificare per Hegel la saldezza dell’aspetto continentale, del legame con la terra che fissa l’uomo al suolo, restringendone la libertà nel complesso dei rapporti di proprietà, lavoro, bisogno, e l’aspetto del superamento del limite.

Scrive Hegel che il ‘senso’ del mare come di qualcosa che porti oltre la limitatezza della terra manca all’Asia, nonostante che la Cina confini con il mare, per tali popoli «il mare è solo il cessare della terra». Il condizionamento della natura sulla vita dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo risveglia invece il coraggio e il rischio, la cui anticipazione e decisione di correrlo svincolano l’uomo dalla catena di rapporti con la cose, creando uno scarto interiore che dà all’individuo la autocoscienza di una maggiore libertà. Chi cerca il guadagno, chi lavora per soddisfare i bisogni usando come mezzo il mare e non la terra si mette esistenzialmente in gioco, in modo radicale, accettando di mettere a rischio vita e ricchezze, e come tale conquista un maggiore senso di autonomia e indipendenza del volere.

Il coraggio poi in questo caso sarebbe unito con l’astuzia. In una bella pagina, che riscrive filosoficamente la tipologia poetica di ogni Odìsseo e del suo navigare, come istanza di compenetrazione fra la solidità del suolo e la cedevolezza del fluido, Hegel così si esprime:

Il coraggio di fronte al mare deve quindi essere insieme astuzia, perché ha a che fare con ciò che è astuto, con l’elemento più malsicuro e mendace. Questo infinito piano è assolutamente morbido, non resiste affatto ad alcuna pressione, neanche al soffio: ha l’aria infinitamente innocente, remissiva, amabile, carezzevole, ed è appunto questa cedevolezza che cambia il mare nel più pericoloso e formidabile elemento. A tale insidia e violenza l’uomo […] contrappone solo un semplice pezzo di legno, in cui sale, affidandosi soltanto al suo coraggio e alla sua presenza di spirito; e così passa da ciò che è saldo a qualcosa che non offre punto d’appoggio, conducendo con sé il proprio suolo artificiale. La nave, questo cigno del mare, che con agili e rotondi movimenti solca il piano delle onde o vi traccia cerchi, è uno strumento la cui invenzione fa il più grande onore tanto all’arditezza quanto all’intelligenza dell’uomo 34.

In conclusione, perché il mito di Trieste, come si auspica, continui a vivere non solo di luce riflessa, forse non ci si dovrebbe attardare sul pluralismo culturale asburgico, che è storia remota, ma individuare l’aspetto essenziale, e non transeunte o accidentale, di ciò che ha avuto in quel periodo la possibilità di svilupparsi ed esprimersi, quello che Hegel chiamerebbe l’in sé, la dynamis o potenzialità “costiera” della vita di Trieste. Forse, dopo tutto, basterebbere leggere con altre categorie il nesso tra conformazione geografica e fisionomia culturale, e invece di scrivere di equilibrismi fra altipiano e mare, di strettoie fra frontiere naturali e artificiali, di etnie e lingue giustapposte, pensare in termini di innovazione, arditezza e intelligenza, di comunicazione, cultura e commercio, al mare non come al cessare della terra, ma come al superamento del limite: spazio di unione, contatto, scambio. L’opposizione dialettica tra fissità al suolo, saldezza continentale, e mobilità delle acque, imprevedibilità e accidentalità del rischio, tra agricoltura e navigazione, nella filosofia degli  spazi naturali e umani di Hegel, può offrirci le condizioni di intelligibilità di una Trieste (in teoria) come città potenzialmente capace di integrare, in una medesima esperienza più avanzata, le differenze delle culture di terra e di mare e in questo sta, a mio parere, la sua possibile identità, la sua riducibile differenza “insulare”.

17 Cfr. HEGEL, Enciclopedia, II, cit., p. 80; si veda anche §246,Agg, p. 86.

18 Cfr. HEGEL, Enciclopedia, II, cit., §247, p. 90.

19 HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, I, trad. it. G. Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 209.

20 Cfr. R. M. dAINOTTO, Europe (in Theory), Durham and London, Duke Universty Press, 2007, p. 168, che, senza darne le ragioni, ricostruisce «la trama tracciata dalla vera storia» per Hegel come quella di un «avanzamento climatologico dello spirito da un ‘torrido’ sud ad un nord ‘temperato’».

21 Il passaggio da un rapporto di desiderio (e distruzione egoistica, consumo) con l’oggetto ad un rapporto formativo, il superamento della propria soggettività e dell’oggetto esterno come elevazione, l’esperienza dell’essere-altro come altro Io, che porta al riconoscimento di un essenza comune di tutti gli uomini, sono i temi della fenomenologia dell’autocoscienza (cfr. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, III, Filosofia dello spirito, trad. it. A. Bosi, UTET, Torino, 2005, §§428-430, pp. 270-272).

22 HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., pp. 210-11.

23 Cfr. I. KANT, “Determinazione del concetto di razza umana” [1785], in: Id., Scritti di storia, politica e diritto, [a cura di F. Gonnelli],  Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 87-102.

24 Hegel, Enciclopedia, III, cit., § 393, Aggiunta, p. 124.

25 Quanto segue riassume il contenuto dei §§ 79-82 di HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, I, La Scienza della logica, trad. it. V. Verra, UTET, Torino, 1981, pp. 246-256.

26 HEGEL, Enciclopedia, I, cit., § 81, p. 250.

27 Ci pare interessante notare come le più recenti considerazioni geopolitiche sull’Adriatico, che lo ricollocano nel quadro della fine delle ideologie e dei blocchi contrapposti e alla luce della tesi che la politica mondiale si stia ristrutturando su assi culturali, con la convergenza di paesi affini per civiltà, osservino che esso è l’unico mare del Mediterraneo «dove non semplicemente due, come altrove accade, ma ben tre delle nove civiltà individuate da Huntigton entrano in contatto: l’occidentale, dalla parte italiana e dalla parte opposta sino all’altezza delle bocche di Cattaro;  ’ortodossa, lungo la costa montenegrina; l’islamica, in Albania. A soltanto un altro mare al mondo, il Mar del Giappone, che separa quest’ultimo dalla Corea e dai territori dell’ex Unione Sovietica, si interpone tra altri tre diversi insiemi culturali,  ’ortodosso, il sinnico e il giapponese. Ma nemmeno là il diaframma liquido è così uniforme e sottile come in Adriatico» (F. FARINELLI, L’eccezione adriatica, in “Lettera internazionale”, cit., p. 5).

28 Cfr. HEGEL, Enciclopedia, II, cit., §254, Aggiunta, p. 106.

29 HEGEL, II, cit., § 350, Aggiunta, p. 448.

30 HEGEL, Lezioni di filosofia della storia, cit., pp. 216-7.

31 Nel 1881, nella sua prefazione a una guida turistica del Danubio, per una filosofia hegeliana degli spazi naturali e umani da Passau a Linz, Ferdinand Zoehrer celebra il fiume del futuro, via commerciale più importante fra Oriente e Occidente le cui onde «trasportano continuamente la cultura verso est» (Cfr. Signori, si parte! Come viaggiavamo nella Mitteleuropa 1815-1915, a cura di M. bRESSAN, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2011, p. 161). A Trieste, le linee di navigazione  vapore del LLoyd Austriaco verso l’Oriente, sin dalla prima metà dell’800, verso Istria e Dalmazia (1845), e poi verso le Americhe, sono tutti esempi per cui Hegel fornisce un quadro teorico di riferimento quando sottolinea che fra America ed Europa il contatto è più facile di quanto sia nell’interno dell’Asia o dell’America. 32 Cfr. F. ¢ASSANO, Come I gabbiani. L’Adriatico per completare l’Europa, in: “Lettera internazionale”,cit., p. 11.

33 Cfr. C. sCHMITT, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo [1942], trad. it. G. Gurisatti. Con un saggio di F. Volpi, Adelphi, 2002.

34 HEGEL, Lezioni di filosofia della storia, cit., pp. 219-20.

BIBLIOGRAFIA

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HEGEL G.fi.F., Vorlesungen über die Logik, Berlin 1831. Nachgeschrieben

von Karl Hegel (a cura di U. rAMEIL),

 

 

Geografia

 

La geografia (dal latino geographia, a sua volta dal greco antico: γῆ, “terra” e γραφία, “descrizione, scrittura”) è la scienza che ha per oggetto lo studio, la descrizione e la rappresentazione della Terra nella configurazione della sua superficie e nella estensione e distribuzione dei fenomeni fisici, biologici, umani che la interessano e che, interagendo tra loro, ne modificano continuamente l’aspetto.

La geografia è molto più che la cartografia, cioè lo studio delle mappe, o la topografia. Rispetto ad esse, infatti, la geografia aggiunge l’indagine della dinamica e delle cause della posizione della Terra nello spazio, dei fenomeni che avvengono su di essa e delle sue caratteristiche.

Tra i popoli dell’area circum-mediterranea, i primi ad elaborare un vero concetto di geografia sono stati i Greci, dai quali deriva appunto il nome in uso in Occidente. Eratostene (al quale si deve anche l’introduzione del nome) introdusse l’uso delle coordinate sferiche (latitudine e longitudine) per individuare le località geografiche. Importanti progressi furono poi compiuti da Ipparco di Nicea, che in particolare introdusse l’uso di metodi astronomici per il calcolo delle longitudini.

Il primo geografo romano di cui abbiamo notizie fu Pomponio Mela che scrisse il breve trattato Chorogràphia; poi il greco Strabone (vissuto fra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C.), compose un’imponente Storia (pervenutaci solo in pochi frammenti) ed una non meno importante e completa Geografia, che invece ci è giunta in buone condizioni. L’opera di Strabone è tuttavia qualitativa e non usa le tecniche di geografia matematica che erano state introdotte da Eratostene e Ipparco.

Lo studio della geografia matematica fu ripreso nel II secolo d.C. da Marino di Tiro e, soprattutto, da Claudio Tolomeo, la cui Geografia non solo riporta le coordinate sferiche di 8000 diverse località, ma espone anche i metodi di proiezione usati nella cartografia.

Il Medioevo, come con altre scienze, dovette prima difendere (nelle biblioteche monastiche) quanto avevano prodotto gli antichi dalle distruzioni operate dai barbari, poi ricominciare a produrre opere nuove, che hanno per noi oggi l’aspetto di cataloghi, o carte molto approssimate e addirittura spesso inventate. Spiccano però le mappe della cartografia nautica, per la loro precisione ed accuratezza (spesso corredate da testi contenuti in un libro portolano), soprattutto quelle realizzate nell’Europa meridionale. Anche i geografi Arabi crearono opere di estrema qualità, come per esempio il “Libro del Re Ruggiero”, di Idrisi (del XII secolo), e altri autori ancora come Ibn Battuta e Ibn Khaldun.

Con le grandi esplorazioni terrestri dirette in Asia (Il Milione di Marco Polo, nel XIII secolo, ne è un esempio affascinante) e quelle marittime, o ancora verso l’Asia o verso le Americhe, l’uomo “riscoprì” la passione per la geografia, e il bisogno di uno studio più accurato. Nella seconda metà del XV secolo la riscoperta in Europa dell’opera geografica di Tolomeo fu essenziale per la rinascita della cartografia. Sono infatti di quell’epoca i primi atlanti europei ottenuti con l’uso dei metodi della cartografia matematica. Al XVII secolo risalgono i tentativi di Varenio di sistemare la scienza geografica.

Nel Settecento si cominciò a intendere come scopo principale della geografia la raccolta di dati sulle caratteristiche fisiche, sociali, economiche, storiche di ogni paese.

Nell’Ottocento nacque la cosiddetta geografia moderna, per merito (soprattutto) dei tedeschi Alexander von Humboldt (che ne fondò l’indirizzo naturalistico) e Carl Ritter (che ne fondò l’indirizzo antropico-storico): con il passare del tempo questi due indirizzi si fusero poi in uno solo. Presto divenne una disciplina universitaria, a cominciare da Parigi e Berlino.

Negli ultimi due secoli, la quantità di conoscenze e il numero di strumenti disponibili sono aumentati molto. Ci sono forti legami tra la geografia e le scienze di geologia e botanica, come anche economia, sociologia e demografia. Nel XX secolo, in occidente, la disciplina geografica venne esaminata in quattro diverse fasi: determinismo geografico, geografia regionale, rivoluzione quantitativa e geografia critica.

La “rivoluzione quantitativa” della geografia si diffonde a partire dagli anni Sessanta, grazie anche allo sviluppo delle tecniche statistiche e matematiche. Questa “rivoluzione” porta a un rinnovamento della geografia, infatti si inserisce il termine di “nuova geografia” poiché si spera di racchiudere ogni fatto e avvenimento geografico entro una misurazione espressa quantitativamente e perciò la possibilità di capire (attraverso algoritmi matematici e strumentazioni computerizzate), le relazioni tra fenomeni molto diversi che l’osservazione di una singola persona o studioso non avrebbe potuto indicare con perfetta precisione. Questa nuova concezione della geografia, nella seconda metà degli anni Settanta viene quasi rigettata perché si sostiene che i dati raccolti non sono sempre affidabili e questo può portare a conclusioni contrastanti.

 

Il pensiero anarchico

A cura di Silvia Ferbri

 “Vuoi rendere impossibile per chiunque opprimere un suo simile? Allora, assicurati che nessuno possa possedere il potere” (M. Bakunin)

È possibile accostare il pensiero anarchico alla filosofia? Se “filosofia” significa amore per il “sapere”, ricerca mai conclusa del “sapere”, del “conoscere”, del “comprendere”, forse non sono molte le correnti filosofiche dall’età moderna in poi, pur così nominate, a poter rivendicare per sé questa qualifica in senso pieno. La maggior parte di esse si limita infatti ad offrire una specifica visione del mondo o dell’uomo, spesso dettagliata e argomentata, il più delle volte considerata un punto di arrivo. Non è anche l’anarchia una particolare dottrina politica, legata a un determinato momento storico? Se approfondiamo un poco la conoscenza di questo pensiero, ci renderemo conto che una definizione più corretta può essere invece “dottrina etico-politica” (molti pensatori anarchici si sono occupati di problemi etici, basti l’esempio di Kropotkin), e se andiamo ancora avanti nella nostra esplorazione, alla fine arriveremo a concludere che può essere ancora più opportuno riconoscerla come “filosofia etico-politica”, e attribuirle quindi lo spazio a cui ha pieno diritto all’interno del pensiero filosofico in senso lato. Potremmo anche dire, rifacendoci ad Aristotele, che si tratta di una “filosofia pratica”, in quanto caratterizzata dall’azione, sia come scopo che come oggetto.

Ma per rispondere con maggiore certezza a simili domande e affrontare con la massima apertura e disponibilità questa ricerca, occorre innanzitutto abbandonare i vari pregiudizi, chiarirci il più possibile le idee, e cioè partire dall’inizio. Il termine “anarchia” è infatti ancora un po’ troppo avvolto nella confusione. Muoviamo allora dalle origini, dal significato della parola “anarchia”.

Il termine “an-archia” deriva dal greco “αναρχία”, parola composta dalla radice α-(a-), senza, e dalla radice αρχ- (arch), governo, dominio, e viene solitamente tradotto con le espressioni “senza-comando”, “senza-potere”, “senza-autorità”. “Archi” (archi), primo termine di numerosi composti, deriva dal verbo “archein”, archein, comandare. Così “archia”, archia, da “archos”, archos, “arca”, nelle parole composte dotte significa “governo”, “dominio” (mon-archia, olig-archia) e “an-archos”, an-archos, può essere pertanto tradotto “senza un superiore”. Ma si considera anche, come secondo termine, “arch ”, arché, che unito alla radice α- diviene “an-arch”, an-arché.  “Arché” però, prima ancora di “comando”, “potere”, “autorità”, significa “principio”, “origine e fine di tutte le cose”, perciò “anarchia” può anche voler dire “senza principio”, “senza divinità”, “senza dogmi”.

Una delle definizioni del pensiero anarchico (in forma sintetica) è infatti “né Dio né padrone”. Sébastien Faure disse: “Chiunque neghi l’autorità e combatta contro di essa è un anarchico”. Definizione molto semplice, e per questo incompleta e alla fine fuorviante. Il pensiero anarchico è in realtà un pensiero complesso, policromo, talvolta contraddittorio. Semplificarlo non aiuta a conoscerlo e a liberarsi dalla confusione cui accennavamo prima. E’ un pensiero che ha una sua storia peculiare e un proprio originale nucleo teorico-concettuale, che lo distingue da altre dottrine politiche, come il socialismo o il liberalismo, e che lo rende in un certo senso più ampio di queste, in quanto tende ad occuparsi dell’intera vita umana e non soltanto della gestione politica o di quella economica. Ma ciò che soprattutto lo distingue dalle altre dottrine politiche, è che per l’anarchismo non esiste una “umanità astratta” (di cui invece trattano tanto il liberalismo quanto il socialismo di stato e il comunismo autoritario), ma singoli uomini concreti. Il pensiero anarchico pertanto, diversamente dalle altre dottrine politiche, non ritiene di aver compreso per via filosofica la “natura” dell’uomo, e non si considera legittimato a prescrivere un codice morale e un’etica di comportamento che implichino diritti e doveri uguali per tutti gli uomini. Nell’anarchia è di fondamentale importanza l’autodeterminazione dell’individuo, di ogni singolo individuo, che è unico e diverso da tutti gli altri, e il suo totale e pieno diritto di scelta, di consenso o di rifiuto. Potremmo provare a definirla quindi una filosofia della libertà. Ma anche così otteniamo una definizione in un certo senso riduttiva e vaga al tempo stesso. Quello anarchico non è un pensiero che rimane tale: è un pensiero legato strettamente all’azione, dando immediata origine all’”anarchismo”. Precisando meglio, l’anarchismo non deriva da riflessioni astratte di qualche intellettuale o filosofo, ma dalla lotta diretta dei lavoratori contro il capitalismo, dalla ribellione degli oppressi contro i loro oppressori, dai bisogni e dalle necessità di questi uomini e dalle loro aspirazioni di libertà ed eguaglianza. I pensatori anarchici, quindi, come Bakunin o Kropotkin, non inventarono l’idea dell’anarchismo, semplicemente la scoprirono nelle masse oppresse e sfruttate e la rafforzarono, la chiarirono e la divulgarono. E’ l’azione pertanto che dà origine al pensiero. Il fine ultimo dell’anarchismo è infatti quello di un cambiamento sociale. L’anarchia critica la società esistente, di conseguenza non respinge il potere terreno in base a considerazioni prettamente filosofiche o religiose (come i mistici o gli stoici, ad esempio).

Per inciso, si può, senza eccedere in fantasia, tanto per quanto riguarda il pensiero anarchico come per altri pensieri “moderni”, fare accostamenti in alcuni punti con correnti filosofiche più antiche, e in questo caso quindi rilevare alcune somiglianze tra il pensiero anarchico e lo stesso stoicismo, ad esempio, per la sua visione cosmopolita,  o ancora meglio lo scetticismo, per il suo rifiuto di ogni dogma, o l’epicureismo, per la sua concezione materialistica e atomistica, per il suo contatto con la realtà concreta, per la scelta della situazione, delle persone e dei fatti che meglio si armonizzano con la costituzione intellettuale dell’individuo, per l’esclusione delle sterili dispute sulle questioni “supreme”, per la pluralità delle ipotesi, per la vita piacevole accompagnata però dalla rinuncia “al più”, quindi la semplicità e non lo spreco, per il suo rifiuto dell’attività politica fine a se stessa, o, ancora, si può accostare il pensiero e il sentire anarchico ad alcuni aspetti del libertinismo, per il suo richiamo alla dignità e all’autonomia della ragione dell’uomo, per il suo volersi emancipare da ogni forma di servitù intellettuale e per la sua ribellione morale alla legge e alla tradizione invecchiata, a tutto ciò che non permette all’uomo di liberare la sua creatività, quindi per quel suo spirito innovativo, scanzonato e ribelle. Portiamo dentro di noi in vari modi l’intera storia del pensiero che ci ha preceduti, che spesso riemerge in forme nuove.

Riprendendo il filo del discorso, l’anarchia, come abbiamo osservato, non sogna un mondo ultraterreno. Si occupa di questo, dove ora ci troviamo a vivere. Non si esaurisce in desideri o fughe individuali. Né si è mai considerata un pensiero elitario. E’ un pensiero concreto e radicato nel mondo che lo circonda, aperto a tutti quanti gli uomini. Esistono infatti sia il pensiero anarchico che il movimento anarchico, nelle sue varie fasi, forme ed espressioni. E sono qualcosa di inscindibile. Uno non può esistere senza l’altro. L’anarchia in senso astratto non ha senso per gli anarchici, ciò che essi desiderano è realizzarla concretamente, qui e ora. Le idee da sole non significano nulla: vanno messe in pratica nella vita di tutti i giorni, in quella pubblica come in quella privata (per gli anarchici non esiste questa distinzione, così come non esiste distinzione tra i mezzi e il fine che si vuole raggiungere; non si può voler ottenere la libertà, ad esempio, restringendola o negandola), tentando di realizzare in ogni gesto, singolarmente e in comunione con gli altri, quel mondo più umano, più libero, più giusto, che è al centro dell’ideale anarchico. A questo punto è necessario osservare come invece nell’immaginario della maggioranza degli individui il termine “anarchia” venga associato al caos, al disordine, alla violenza. O all’individualismo e all’egoismo. Oppure, anche riconoscendola come dottrina socio-politica, si tende ad accostarla al “nichilismo” o al “terrorismo”. Tutto questo avviene perché tanto la storia del pensiero anarchico quanto quella del suo movimento sono ben poco conosciute e sono sempre state tenute in ombra. Non è facile così riuscire a capire che anarchia non significa affatto disordine: caso mai il suo contrario, nel senso che gli anarchici tentano di ritrovare, di ricostituire quello che per loro è l’”ordine naturale” delle cose e della vita, deformato e stravolto nel tempo dalle varie forme di sopraffazione, di dominio, di sfruttamento e di potere. Come pensare che uomini come Tolstoj e Godwin, Thoreau e Kropotkin, le cui teorie sociali sono state definite anarchiche, volessero portare nient’altro che il caos, il disordine, la violenza nella società? Altrettanto difficile è in genere comprendere come il rispetto per la libertà dell’individuo, del singolo, visto spesso, in modo errato, unicamente come esaltazione del singolo, come puro egoismo, possa unirsi alla solidarietà nei confronti degli altri, in particolare nei confronti degli ultimi, degli emarginati, degli oppressi.

L’immagine distorta dell’idea anarchica ha diverse cause. Una può forse essere imputata agli stessi anarchici o a una parte di loro, e cioè a quella propaganda che poneva principalmente l’accento sugli aspetti distruttivi della dottrina. Ma non è mancata in realtà neppure la propaganda contraria, quella propositiva e costruttiva, sostenuta costantemente, tra l’altro, da concreti esempi di vita. La ragione principale, invece, parrebbe essere la versione spesso faziosa, in ogni caso superficiale, fornita da sempre dalla storiografia, tanto di destra quanto di sinistra (con grosse responsabilità da parte dei marxisti, a cominciare da Marx in persona, che qualificò l’anarchismo come una ideologia piccolo borghese, espressione immatura, disorganica e unicamente individualistica di ceti sociali in crisi per la disgregazione del mondo contadino e artigiano, e non ancora inseriti nel processo di produzione capitalistico, senza considerare lo scontro di potere all’interno della Prima Internazionale dei Lavoratori). Non di certo ultima, un’altra ragione è il fatto in sé evidente che il pensiero anarchico non piace a chi è al potere (o a chi il potere lo ama o lo condivide): anarchia e potere sono nemici da sempre. (Così come anarchia e gerarchia, anarchia e autoritarismo, anarchia e verticismo). Gli anarchici non vogliono conquistare il potere (neppure in “nome del popolo”), vogliono eliminarlo. In altre parole si può dire che vogliono frantumarlo  e ridistribuirlo in migliaia e migliaia di piccole unità, tante quanti sono gli esseri umani. I governi perciò, di qualsiasi colore, hanno sempre dato la caccia agli anarchici, hanno cercato di metterli a tacere, hanno sempre tentato di accusarli di ogni atto di terrorismo o violenza e di ogni azione nei confronti della ricchezza e della proprietà privata, così come nei confronti del capitalismo di stato e della sua burocrazia tirannica, tutte cose che gli anarchici desiderano abolire e che i governi e le loro polizie intendono invece difendere ad ogni costo. L’ineguale distribuzione della ricchezza e la proprietà privata, così come il potere di pochi sulla vita dei molti, sono alla base stessa dell’esistenza dei governi e della polizia, secondo l’analisi anarchica ma non solo. Nei nostri tribunali si dovrebbe amministrare la giustizia. Ma come si può considerare giusto, equo, il mondo in cui viviamo? Questo è quanto gli anarchici si chiedono e mettono da sempre in discussione.

Quali sono dunque i caratteri fondamentali del pensiero anarchico? Quali i suoi valori di riferimento? Prima di tutto: quando hanno cominciato ad essere effettivamente utilizzate le parole “anarchia”, “anarchismo”, “anarchico”?

Durante la Rivoluzione francese il girondino Brissot definiva anarchici il movimento degli Enragés, e nel 1793 dava questa definizione dell’”anarchia”: “Leggi non tradotte in effetto, autorità prive di forza e disprezzate, il delitto impunito, la proprietà minacciata, la sicurezza dell’individuo violata, la moralità del popolo corrotta, nessuna costituzione, nessun governo, nessuna giustizia: queste  le caratteristiche dell’anarchia.” Definizione quindi del tutto negativa, rafforzata in seguito dal Direttorio, che sarebbe sceso addirittura alle ingiurie: “Per «anarchici» il Direttorio intende quegli uomini carichi di delitti, macchiati di sangue, impinguati dalle ruberie, nemici di tutte le leggi che non sono state fatte da loro, di tutti i governi in cui loro non governano...”

Possiamo invece attribuire una prima riconoscibile e coerente formulazione del pensiero anarchico all’illuminista inglese William Godwin (1756-1836), quando venne data alle stampe nel 1793 la sua opera Enquiry Concerning Political Justice (che si basa su di un assunto di matrice liberal-libertaria, già sviluppato tra gli altri da Thomas Paine, John Locke e Thomas Jefferson, e cioè la contrapposizione tra la società, considerata naturale e buona, e il governo, lo stato, ritenuto artificioso e malvagio, nato in un’epoca di immaturità della ragione e che si basa unicamente sulla forza, al di là delle varie giustificazioni mitiche sulle quali pretende di reggersi) mentre il primo ad adottare orgogliosamente per sé il termine “anarchico” fu il pensatore francese socialista Pierre Joseph Proudhon, nel suo Che cos’è la proprietà? che uscì nel 1840. “Quale dev’essere la forma del governo nel futuro? Sento alcuni dei miei lettori rispondere: «Ma via, come puoi fare una domanda simile? Tu sei un repubblicano.» Un repubblicano! Si, ma questa parola non dice ancora nulla di preciso. Res publica significa la cosa pubblica; chiunque si interessi alla condotta della cosa pubblica, sotto qualsiasi forma di governo, può dunque chiamarsi repubblicano. Persino i re sono repubblicani. «Ma tu sei un democratico.» Neanche per sogno….«Che cosa sei allora?» Sono un anarchico!”. Proudhon, convinto che nella società operi una legge naturale d’equilibrio, ritenne l’autorità nemica  e non amica dell’ordine, e ribaltò così le accuse rivolte agli anarchici, rivolgendole a sua volta ai fautori del principio autoritario.

Possiamo citare come valori di riferimento quelli emersi dalla Rivoluzione francese: libertà, eguaglianza, solidarietà. (Valori che non hanno poi trovato, a seguito di quella lunga e sanguinosa vicenda, la loro vera e piena applicazione e realizzazione, essendo si in questo caso espressione dell’emergente borghesia, o almeno essa se ne impadronì e li adoperò per i propri interessi).

Anche il liberalismo e il socialismo fecero propri questi valori, ma l’interpretazione anarchica è profondamente diversa: se per il socialismo il valore principale di riferimento è l’uguaglianza e per il liberalismo la libertà, per l’anarchismo tali valori sono del tutto inscindibili e non possono che darsi contemporaneamente. Non vi può essere libertà senza uguaglianza né uguaglianza senza libertà. E la solidarietà verso gli oppressi è sempre presente. L’anarchismo quindi fa riferimento a questi valori, ma in un modo ben preciso, rigoroso e totale. Ciò che è importante rilevare è che l’affermazione anarchica della libertà, individuale e sociale, è radicale e completa, e si unisce all’altrettanto radicale critica nei confronti del principio di autorità, nei confronti del potere e del dominio in quanto tale.

L’anarchismo ne ha combattuto perciò ogni manifestazione storica, in particolare la forma politica assunta dal dominio nella società moderna: lo stato. La critica anarchica non nasce isolata: pensiamo alle svariate espressioni di lotta al potere, tanto religioso che politico, tanto culturale che economico- sociale che percorrono l’era moderna, fino a giungere alla decapitazione di un re sulla piazza della Rivoluzione a Parigi. Ma la critica anarchica appare l’approdo ultimo e quello più radicale e completo, che non accetterà mai compromessi e continuerà a negare ogni tipo di società scissa in governanti e governati. Continuerà a criticare e combattere l’autoritarismo in ogni sua forma, le gerarchie, le istituzioni oppressive nemiche dell’autodeterminazione e della libertà, le disuguaglianze e le ingiustizie sociali, quindi la proprietà privata, l’appropriazione della ricchezza, lo sfruttamento del lavoro altrui, e in tempi più recenti lo sfruttamento delle risorse naturali e ambientali, lo sfruttamento animale, l’inquinamento e lo spreco. Gli anarchici allora, ci si può chiedere, sono contro o a favore del progresso? La risposta è semplice: l’anarchico non concepisce il progresso come continuo e sfrenato aumento della ricchezza materiale e del consumo, dello sfruttamento tanto del lavoro quanto delle risorse, come distruzione dell’ambiente, come incremento della complessità della vita, ma piuttosto come moralizzazione della società attraverso l’abolizione dell’autorità, dell’ineguaglianza, dello sfruttamento economico e ambientale, e, insieme, come offerta ad ogni singolo essere umano, e a tutti quanti gli uomini, delle stesse possibilità di sviluppo individuale in termini di benessere, cultura, qualità della vita, senza privilegi o discriminazioni di sorta (economiche, etniche, razziali, di genere…). L’anarchismo critica inoltre le barriere nazionali e le disuguaglianze tra i popoli, e il concetto di patria, in nome della quale troppi uomini hanno perduto inutilmente la vita. Non le guerre tra i popoli, tra gli oppressi, quindi, ma un’unica guerra agli oppressori, ai potenti, che per i loro interessi hanno sempre sacrificato la vita dei giovani, dei lavoratori, dei proletari.

A fianco della critica e della lotta, il sogno e il progetto di una società di liberi ed uguali. Una società armonica, che ritrovi il suo proprio equilibrio e quello con la natura intorno a sé.

Come deve essere composta, organizzata la società secondo il pensiero anarchico?

Innanzitutto, nessuna divisione tra governanti e governati, come abbiamo visto.

L’amministrazione degli affari sociali ed economici sarà affidata a piccoli gruppi locali, libere associazioni tra individui, senza regie dall’alto, senza padroni o capi di alcun genere. Quindi federazioni di comuni e di lavoratori, coordinate tra loro in modo circolare e orizzontale, fondate sull’autogestione e la cooperazione, una rete organica di interessi che si equilibrano a vicenda, basata sulla naturale tendenza degli uomini ad aiutarsi reciprocamente, senza necessità alcuna di schemi artificiali di coercizione (mutualismo ed associazionismo, ad esempio, fanno parte della storia del movimento anarchico). La produzione sarà il più possibile locale e differenziata a seconda del terreno, l’industrializzazione non sarà sfrenata e massiccia, avrà grande importanza l’artigianato, il lavoro concreto, bello, creativo, gli oggetti fatti per durare e non “usa e getta” come è nella logica del consumismo. L’impatto ambientale dovrà essere il più basso possibile. L’anarchia non è una forma estrema di democrazia: se nella democrazia sovrano è (teoricamente) il popolo, per gli anarchici “sovrano” deve essere l’individuo, che non ha alcun bisogno di delegare ad altri la gestione dei suoi interessi né di essere “rappresentato”, e che ha pieno diritto di scelta. Inoltre, il pensiero anarchico nega il diritto di qualsiasi maggioranza di imporre la sua volontà a una minoranza. Nega quindi valore in sé alle leggi degli uomini. “Qualsiasi legge deve comparire prima di tutto davanti al tribunale della nostra coscienza.” disse Elisée Reclus, geografo anarchico francese protagonista della Comune di Parigi. “V’è un solo potere”, scrisse Godwin, “al quale posso prestare un’obbedienza convinta: la decisione della mia intelligenza, il comando della mia coscienza.”. L’anarchismo rifiuta poi, oltre a qualsiasi forma di monopolio dei mezzi di produzione e dei prodotti, così come del sapere, la divisione gerarchica del lavoro (intellettuale e manuale) e qualsiasi dicotomia e antagonismo tra città e campagna, tra mente e corpo. Né può l’anarchismo essere qualificato come “ideologia”, perché sempre aperto, mai dogmatico, contrario da sempre a qualsiasi astratta norma morale e a qualsiasi servitù del pensiero.

Questo sogno e questo progetto sono stati descritti e rincorsi in modi diversi: l’anarchismo non possiede una sola anima, al suo interno hanno sempre convissuto approcci differenti, tra cui quello rivoluzionario tout court, che considera legittimo il ricorso alla violenza per distruggere gli istituti del dominio, quello gradualista, basato principalmente sulla costruzione graduale e pacifica, quello educazionista o “pedagogico”, che mette al primo posto l’educazione del popolo, la diffusione di una cultura libertaria e il risveglio delle coscienze, anche se queste distinzioni sono in qualche modo arbitrarie e discutibili, un po’ perché i confini non sono così netti e poi perché l’anima più profonda è in realtà una sola, ed è l’amore per la libertà nella sua espressione più alta. Solo una autentica libertà in questa vita e in questo mondo può rendere felici gli uomini e in grado di sviluppare al meglio le loro qualità di esseri umani. A questo ideale di libertà (tutt’altro che egoistico) molti anarchici hanno dedicato o sacrificato la propria vita. Tutti questi modi, o correnti, rappresentano in ogni caso un progetto che in sé è sempre rivoluzionario. L’utopia anarchica, lungi dal rifugiarsi in un mondo fantastico, perduto in un remoto passato o in un ipotetico e improbabile futuro, è essenzialmente concreta, perché si fonda e muove da una approfondita critica dell’esistente, ed è l’esistente a dover essere capovolto e trasformato.

La rivoluzione, per gli anarchici, è da intendersi prima di tutto rivoluzione sociale, non meramente politica. E’ la rivoluzione del popolo. Ed è proprio per questo che ad ogni rivoluzione del popolo (che ne fosse promotore o partecipe con altre classi sociali) è sempre stato impedito di andare avanti oltre un certo punto, è per questo che ogni rivoluzione che voleva essere rivoluzione sociale oltre che politica è stata soffocata e tradita. Il potere e i privilegi (contro cui il popolo lottava) non dovevano scomparire, infatti, ma solo passare di mano. E la lotta del popolo è servita a questo, è stata strumentalizzata a questo scopo da chi di volta in volta ha assunto la regia della rivoluzione. La rabbia e la volontà di lotta e di cambiamento sociale espresse dal popolo sono state usate finché potevano essere utili, poi messe da parte, tradite o punite duramente quando non ve ne era più bisogno. Questa vicenda si è ripetuta più di una volta nella storia, con le varie differenze dovute al contesto, al luogo e al periodo, che si tratti della rivoluzione inglese, francese, messicana, russa, spagnola. E’ una storia poco conosciuta e compresa, e che solo gli anarchici hanno raccontato fino in fondo.

Per quanto riguarda l’uso della violenza, bisogna innanzitutto osservare che anarchia significa non-violenza, dal momento che significa non-imposizione dell’uomo sull’uomo, come sottolineava l’anarchico Errico Malatesta (1853-1932). La società alla quale tende l’anarchismo è infatti una società pacifica. Le differenze sono emerse nel momento di scegliere (a seconda anche delle circostanze e del momento storico contingente, ad esempio sotto una dittatura, o appunto nel corso di una rivoluzione) quali mezzi adoperare per raggiungere o avvicinarsi alla società desiderata, quindi ci sono stati coloro che hanno adottato l’uso individuale della violenza, altri invece un suo uso di massa, ma sempre come unica scelta possibile all’interno della realtà concreta e determinata in cui si sono trovati a dover agire. E la violenza da usare è sempre soltanto quella necessaria, niente di peggio o di più.

Per quanto riguarda invece l’educazione libertaria, si tratta di un approccio che mette al primo posto un rapporto paritario e non gerarchico tra l’adulto e il bambino e tra ogni educatore e i suoi allievi, e la possibilità offerta al bambino e ad ogni essere umano di realizzare completamente se stesso, di svilupparsi liberamente, senza imposizioni, costrizioni, premi, castighi. Quindi rifiuto dell’autorità, rispetto della libertà e delle propensioni individuali, progettualità autogestionaria, libertà di pensiero e di giudizio, “educazione integrale”, inserendo così l’educazione libertaria in una più ampia visione politica. Uno dei primi sostenitori dell’autonomia e dell’indipendenza del bambino fu proprio William Godwin, respingendo ogni tipo di coercizione nel processo educativo ed evidenziando la necessità di svincolare l’istruzione dal controllo dello stato, affinché l’istruzione non sia uno strumento del controllo sociale e un mezzo per rafforzare la visione e l’impostazione gerarchica e anti-libertaria della società. Temi analoghi li ritroviamo in Charles Fourier (1772-1837), secondo il quale nell’azione educativa occorre ridurre al minimo l’esercizio dell’autorità e permettere lo sviluppo di tutte le potenzialità della persona e in Max Stirner (1806-1865). Il concetto fourieriano di “educazione integrale” (un’educazione che comprenda in egual misura attività manuali ed intellettuali) verrà ripreso da molti pensatori anarchici, tra cui Pëtr Kropotkin (1842-1921) Altri anarchici che si sono interessati all’importanza dell’educazione libertaria sono stati gli italiani Errico Malatesta (1853-1932) e Camillo Berneri (1897-1937), vittima quest’ultimo come tanti altri della persecuzione da parte dello stalinismo nei confronti degli anarchici, in questo caso durante la rivoluzione spagnola del 1936. Gli esempi di scuole libertarie e antiautoritarie sono stati numerosi. La prima esperienza del genere è da attribuirsi a Lev Tolstoj (1828-1910), a Jasnaja Poljana tra il 1859 e il 1862, anno in cui la sua scuola verrà chiusa dalle autorità. Poi l’orfanotrofio francese di Cempuis diretto tra il 1880 e il 1894 da Paul Robin, esempio seguito da Sébastian Faure (1857-1942) con la sua scuola libertaria La Ruche (L’alveare), istituita fuori Parigi nel 1904, attiva fino al 1914, e poi ancora l’esperienza del libertario spagnolo Francisco Ferrer y Guardia (1859-1909) che fondò nel 1901 la sua Escuela Moderna a Barcellona, scuola laica e mista, con lo scopo di permettere ai ragazzi di diventare persone indipendenti, capaci di creare e vivere in una società libertaria (Ferrer verrà fatto fucilare dal governo spagnolo nel 1909), l’Université Nouvelle di Bruxelles fondata nel 1894 insieme ad altri dal geografo anarchico francese Elisée Reclus (1830-1905), che si terrà  a lungo in contatto con Ferrer, con il quale collaborerà per i suoi programmi educativi in particolare riguardo l’insegnamento della geografia (nel 1896 uscì un Manifesto europeo anarchico per la fondazione di scuole libertarie, tra i primi firmatari troviamo Reclus e Kropotkin), la scuola libera di Summerhill fondata nel 1921 da Alexander S.Neill (1883-1973) nel Suffolk, fino ad arrivare al movimento delle Free Schools negli anni successivi al 1960 negli Stati Uniti e in Europa, che si richiamavano ai principi di Tolstoj, Neill e Paul Goodman (basate su principi libertari quali la cooperazione, l’autogestione del progetto da parte di tutti i soggetti coinvolti, il rifiuto di un’organizzazione burocratica e gerarchica, l’assenza di un’autorità formale), poi alle Freie Schulen in Germania a partire dagli anni Settanta, e ai vari esperimenti di licei autogestiti in particolare in Francia fino al caso più recente di Bonaventure, sorta sempre in Francia nel 1993 nell’Ile d’Oleron, scuola per bambini dai tre ai dieci anni.

Per quanto riguarda l’”individualismo anarchico”, occorre dire che rispetto all’anarchismo che si è espresso in Europa nell’età contemporanea è una acquisizione abbastanza recente. Se fino agli anni Ottanta dell’Ottocento il termine “individualista” era adoperato in chiave polemica nei confronti di ideologie di derivazione liberale, in seguito tale significato si modifica, in particolare a causa delle trasformazioni della società, che diviene poco a poco una società di massa. All’uniformità che si va imponendo, si contrappone per contrasto l’individualità, che non intende sottomettersi alle norme e alle convenzioni “borghesi”, termine, quest’ultimo, che non aveva all’epoca un vero e proprio significato classista. Certe forme di individualismo infatti si ricollegavano a una lunga tradizione di ribellismo letterario, piuttosto che appartenere all’associazionismo operaio o essere in continuità con l’Internazionale anarchica. Si tratta inoltre di un fenomeno tutt’altro che unitario, presentando tendenze ed espressioni alquanto disomogenee. All’interno del movimento anarchico comincia così a manifestarsi la propensione all’atto isolato o ad opera di piccoli gruppi, frutto di una scelta individuale o espressione orgogliosa di una totale autonomia, rispetto anche all’organizzazione anarchica, intorno alla quale si dibatteva significativamente in quegli anni, anche se il passaggio dall’individualismo antiorganizzatore tradizionale a quello che venne definito individualismo d’azione non è così automatico. Quest’ultimo infatti costituiva una tendenza minoritaria all’interno del movimento anarchico, tendenza che ebbe il suo culmine in tutta una serie di azioni dimostrative fino ai tragici attentati della fine dell’Ottocento. Veniva intanto precisata una teorizzazione dell’individualismo d’azione, tramite la parola d’ordine “propaganda mediante il fatto”. In seguito questi filoni anarcoindividualisti andarono perdendo vitalità. Alla vigilia della prima guerra mondiale ci fu tra di essi chi scelse l’interventismo, chi invece si oppose (come il movimento anarchico nel suo complesso) alla costrizione alla violenza da parte degli stati.

Esistono altre anime o sfumature dell’anarchismo. Tra queste ricordiamo l’anarcosindacalismo, i cui maggiori ispiratori furono Émile Pouget (1860-1931), Fernand Pelloutier (1867-1901), Paul Delasalle (1870-1848) e il danese Cristian Cornelissen (1864-1943). Molti anarchici italiani militarono nell’Unione Sindacale Italiana, U.S.I., sindacato di ispirazione anarco sindacalista il cui segretario fu Armando Borghi (1882-1968) nel corso del primo ventennio del Novecento e furono protagonisti di importanti lotte operaie. Stessa cosa avvenne in altri paesi europei e non solo. Molti anarchici e libertari militano tutt’oggi in diverse organizzazioni sindacali, tra cui la stessa USI, ricostituita alcuni anni dopo la seconda guerra mondiale, e altre organizzazioni all’estero, alla ricerca di un sindacalismo realmente autogestionario, un sindacato dei lavoratori, non compromesso politicamente, che sia anche in appoggio ad ogni altra categoria di persone in difficoltà, lavoratori precari, disoccupati, extracomunitari, senza tetto, non ponendo al primo posto quindi la difesa di interessi di tipo corporativo, ma lavorando sempre nell’ambito di una più ampia visione di trasformazione sociale. Ricordiamo ancora l’anticlericalismo, l’antimilitarismo, il femminismo, l’antipsichiatria, l’utopia, l’ecologia sociale, la lotta contro l’istituzione carceraria e contro il razzismo (attualmente contro i centri di permanenza per gli extracomunitari ad esempio, e in generale contro tutte le gravi discriminazioni e persecuzioni a cui sono soggetti gli uomini che nascono nelle zone meno fortunate del mondo), la lotta contro le discriminazioni sessuali (la difesa della piena libertà di scelta, tra cui la scelta omosessuale), gli esperimenti di comuni autogestite, laboratori dove mettere in pratica l’utopia e la libertà (esempio tipico la Colonia Cecilia, fondata da Giovanni Rossi con un gruppo di circa centocinquanta lavoratori italiani in Brasile, nel Paranà, nel 1890, ma tanti altri esperimenti hanno continuato ad avere luogo e tutt’ora continuano).

 

I principali pensatori anarchici

Non è facile un’esposizione dei pensatori anarchici o una scelta tra di essi. Occorre anche tenere presente che la maggior parte di loro non visse soltanto di pensiero ma soprattutto di azione, inserendosi a vari livelli nel movimento anarchico e nelle lotte sociali, le cui opere scritte vanno quindi in qualche modo a completare una testimonianza offerta innanzitutto con la propria vita. Quello che segue qui non è che un elenco del tutto ridotto e incompleto, che esclude forzatamente alcune grandi figure che si sono distinte in numerosi e drammatici eventi rivoluzionari, tra cui l’Ucraina machnovista (da Nestor Machno, leader del movimento ucraino) nel contesto della rivoluzione russa,  la rivoluzione messicana (un nome dobbiamo farlo, ed è quello di Ricardo Flores Magón), la Catalogna libertaria durante la guerra civile spagnola, senza contare la partecipazione del movimento anarchico alla lotta contro il fascismo e alla Resistenza.

Dopo William Godwin (1756-1836) e Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), cui abbiamo già accennato, e Max Stirner (pseudonimo di Johann Caspar Schmidt, 1806-1865), l’autore di Der Einzige und sein Eigentum (L’Unico e la sua proprietà) che uscì nel 1843, ricordiamo Michail Bakunin (1814-1876), grande rivoluzionario e pensatore russo, promotore dell’Internazionale Antiautoritaria dopo la rottura con Marx, autore di numerose opere tra cui Stato e Anarchia (1873), Pëtr Kropotkin (1842-1921), di cui sono da menzionare in particolare Il Mutuo Appoggio e L’Etica, (Kropotkin in maniera approfondita si è occupato tra il resto di problemi etici, muovendo da una rivisitazione critica del darwinismo ed elaborando il suo concetto del mutuo appoggio come fondamentale fattore evolutivo per tutte le specie viventi compreso l’uomo), quindi i francesi Elisée Reclus (1830-1905) e Jean Grave (1854-1939), vicini a Kropotkin insieme all’italiano Riccardo Mella (1861-1925). E ancora, per l’anarchismo italiano: Carlo Cafiero (1846-1892), Andrea Costa (1851-1910), Errico Malatesta (1853-1932), fondatore del quotidiano anarchico Umanità Nova e promotore dell’Unione Anarchica Italiana, Francesco Saverio Merlino (1856-1930), Pietro Gori (1865-1911), Luigi Fabbri (1877-1935), Camillo Berneri (1897-1937), uomini che insieme a tanti altri hanno dedicato la propria vita, in anni estremamente difficili, alla causa dell’emancipazione e della libertà, nel nostro paese e nel mondo intero. (E non ne abbiamo citato che alcuni). Purtroppo ancora oggi non sono in molti a sapere che cosa furono davvero quegli anni, a conoscere la portata del contributo anarchico e ad attribuire agli anarchici il posto che spetta loro nella storia politica e sociale della società italiana, per i motivi che abbiamo esposto in precedenza. Occorre quindi ricordare che la Prima Internazionale italiana fu principalmente anarchica, così come il primo socialismo italiano, e che solo in seguito esso diventò un socialismo riformista e parlamentarista. La storia del movimento anarchico italiano si sviluppa dalla nascita della Prima Internazionale allo scontro con i mazziniani prima (il nemico non appare più lo straniero, il nemico ora è il nemico di classe) e con i seguaci di Marx poi (contro l’autoritarismo e la gestione centralista), attraverso l’emergere delle correnti individualiste, nell’ambito dell’associazionismo operaio e del nascente sindacalismo di classe fino all’opposizione alla prima guerra mondiale, un movimento di grande ricchezza culturale e politica, che ha sempre lottato per la libertà e l’uguaglianza, per un grande ideale che doveva essere il “sol dell’avvenire” per l’intera società, soggetto pertanto costantemente alle persecuzioni più dure. Dopo le drammatiche vicende del periodo fascista, la seconda guerra mondiale e la partecipazione alla Resistenza, il movimento anarchico si ricostituisce in forme sempre nuove, dovute alle trasformazioni che si susseguono incessanti nel corso degli anni e al panorama sociale, politico ed economico che muta enormemente, continuando a portare avanti la sua ricerca della libertà e a tenere in vita il suo ideale di un mondo che sia davvero a misura d’uomo.

Storie in parte diverse hanno avuto gli anarchici negli altri paesi europei ed extraeuropei. Ricordiamo ad esempio il maggio francese del 1968, ma ovunque si lotti per la libertà, contro le oppressioni e le ingiustizie, contro le guerre e le occupazioni militari dei territori, gli anarchici non possono fare a meno di essere presenti. L’anarchismo continua a vivere oggi, sempre nel mirino della repressione, in una situazione e in un contesto che mutano e si trasformano ma soltanto in apparenza, perché il nodo centrale del dominio non è ancora stato sciolto. Il mondo odierno è gestito dalla pubblicità e dalla menzogna, dalle multinazionali, dal potere finanziario e militare, è un mondo molto più difficile da decifrare e comprendere rispetto a quello di un tempo, dotato di un controllo totale e onnipervasivo nei confronti degli esseri umani come mai prima, un mondo solo apparentemente democratico e libero, che propaganda in ogni modo la sua missione di difendere la “sicurezza” dei “cittadini”, ma che è invece ormai del tutto privo di libertà.

Molti intellettuali e artisti che si sono espressi in campi diversi da quello della riflessione politico-sociale in senso stretto possono essere compresi a buon diritto in questo sommario elenco, avendo mostrato una sensibilità affine in vari modi a quella anarchica. Nel campo della letteratura ricordiamo i poeti inglesi Samuel Coleridge (1772-1834), William Blake (1757-1827), Percey Bysshe Shelley, discepoli di Godwin, William Morris (1834-1896), autore del romanzo utopico News from Nowhere (Notizie da nessun luogo, 1891), Oscar Wilde (1854-1900), autore tra le altre sue opere di un breve saggio dove è evidente l’influenza di Kropotkin, L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Lev Tolstoj (1828-1910), già ricordato, lo scrittore statunitense David Thoreau, autore di un trattato sulla disobbedienza civile, Franz Kafka, che espresse con forza un odio assoluto per il potere e la burocrazia, Henri Miller (1891-1980), libertino e libertario, in contatto con Emma Goldman (1869-1940), grande figura di donna anarchica e rivoluzionaria, le opere di George Orwell (1903-1950), Ignazio Silone (1900-1978), Albert Camus (1913-1960), e trascureremo qui gli autori della controcultura degli anni Sessanta, in particolare la beat generation e il Living Theatre. Anche nelle arti figurative c’è stato un fecondo incontro con l’anarchismo: Camille Pissarro, Carlo Carrà, André Breton, Enrico Baj ne sono un esempio. Nel cinema due nomi soprattutto sono significativi: Jean Vigo e Luis Buñuel. E ancora (dopo la pedagogia, già trattata): Lewis Mumford, Carlo Doglio, Giancarlo De Carlo per l’urbanistica, Pierre Clastres e Marc Augé per l’antropologia, Paul Feyerabend per la filosofia della scienza, Henri Laborit per la biologia, Thomas Szasz e Giorgio Antonucci per l’antipsichiatria.

Infine, in ordine sparso: Rudolf Rocker (1873-1958), intellettuale anarchico, i chansonniers francesi Brassens e Ferré, Paul Goodman (1911-1972) e Noam Chomsky (1928), Michel Foucault (1926-1984), Murray Bookchin (1921-2006), grande teorico dell’ecologia sociale, così definita in quanto afferma e dimostra che una vera trasformazione ecologica non può che basarsi su profonde trasformazioni sociali.

Ci si può davvero perdere nel tentativo di riconoscere temi e sentimenti anarchici: l’anarchia è infatti un modo di sentire e di essere, e alcuni suoi tratti o aspetti potrebbero essere scoperti un po’ ovunque e teoricamente in chiunque.

Ma torniamo all’ambito più strettamente filosofico, rispetto al quale, a questo punto, un interrogativo forse un po’ azzardato sembra presentarsi da sé e portarci a concludere questa breve esposizione.

Proviamo a considerare le principali caratteristiche della filosofia contemporanea. Come prima cosa rileviamo il carattere antimetafisico di gran parte di essa, essendo ormai venuto meno l’atteggiamento della tradizione filosofica che intendeva la conoscenza della “verità” come guida dell’azione umana e innanzitutto dell’azione morale e politica. Oggi si nega che l’esistenza dell’uomo possa avere un qualsiasi “fine” stabilito necessariamente dal posto assegnatogli “di diritto” nell’ordine dell’universo, e si riconosce invece che i fini dell’uomo sono soltanto quelli che egli sceglie liberamente: non ci troviamo più di fronte alla richiesta della contemplazione della verità del mondo, ma alla necessità della sua trasformazione pratica in base a progetti liberamente scelti e costruiti dall’uomo, nonché alla necessità di un’etica, ovvero di una responsabilità che occorre assumersi in questo mondo lacerato dai dolori e dalle ingiustizie. Se consideriamo poi che la filosofia ha un’altra fondamentale caratteristica, e cioè quella di mettere ogni cosa in dubbio e non prendere mai niente “per buono” (secondo Aristotele, come “scienza fine a se stessa” e non asservita ad altro, è l’unica a poter essere davvero libera), e che l’autentico filosofo è colui che è sempre alla ricerca, che pensa liberamente e autonomamente, che non si sottomette ad alcuna autorità di pensiero, non si arresta, non si accontenta e non si piega a una sola verità, che continua a porre in discussione qualsiasi presunta certezza, non ci viene spontaneo allora dedurne che non si può essere davvero filosofi, senza essere al tempo stesso anche un po’ anarchici?

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Simon Springer

Anarchismo!
quello che dovrebbe essere la geografia

 

«Noi, “terribili anarchici” come siamo, conosciamo un solo modo per stabilire pace e benessere tra donne e uomini: la soppressione del privilegio e il riconoscimento dei diritti. Non ci piace vivere se le gioie della vita sono solo per noi; noi protestiamo contro la nostra buona fortuna se non possiamo dividerla con gli altri; è più dolce per noi frequentare gli emarginati che sedere, coronati di rose, al banchetto del ricco. Siamo stanchi di quelle ineguaglianze che ci fanno nemici l’un l’altro; noi vogliamo porre fi ne alla furia che  spinge i popoli a scontri ostili e a tutto ciò che incatena il debole al forte sotto la forma di schiavitù, servaggio e dipendenza» (Elisèe Reclus 1884, p.641).

«Se voi volete, come noi, che sia rispettata la completa libertà

dell’individuo e, conseguentemente, la sua vita, necessariamente siete portati a ripudiare il governo dell’uomo sull’uomo, qualunque forma esso assuma; voi siete forzati ad accettare i principi della anarchia che voi avete disdegnato così a lungo. Voi dovete allora cercare con noi le forme della società che possano meglio realizzare questo ideale e mettere fine a tutta la violenza che suscita la vostra indignazione» (Piotr Kropotkin 2005 [1898]) p.144).

L’anarchismo è una filosofia politica calunniata; su questo non ci possono essere dubbi.

Comunemente l’anarchismo è descritto come una caotica espressione di violenza perpetrata contro il supposto pacifico «ordine» dello stato. Questa rappresentazione mistifica il cuore del pensiero anarchico, che è propriamente compreso come il rifiuto di tutte le forme di dominazione, sfruttamento, e «archia» (sistema di regole, governo), da cui la parola «an-archia» (contro il sistema di regole, non governo). L’anarchismo è una teoria e una pratica che cerca di produrre una società in cui gli individui possano cooperare liberamente come uguali in ogni aspetto, non in base alla legge o a una garanzia sovrana (che introduce nuove forme di autorità, impone criteri di appartenenza e rigidi legami territoriali), ma a partire da sé stessi in solidarietà e mutuo rispetto. Conseguentemente l’anarchismo si oppone a tutti i sistemi di regole o forme di archia (cioè gerarchia, patriarchia, monarchia, oligarchia, antropoarchia, eccetera) ed è invece fondata su forme cooperative ed egualitarie di organizzazione sociale, politica ed economica, dove possono fiorire spazialità autonome e in continua evoluzione. Sebbene sia stato spesso detto che ci sono tanti anarchismi quanti sono gli anarchici, il mio assunto è che l’anarchismo debba abbracciare un’etica della non violenza precisamente perché la violenza si riconosce sia come un atto che come un processo di dominazione.

La violenza è stata la base di molti movimenti storici anarchici e sarebbe semplicistico definire questo elemento come qualcosa di «non anarchico». In effetti prima che anarchici come Paul Brousse, Johann Most, Enrico Malatesta e Alexander Berkman sostenessero la violenza rivoluzionaria e la propaganda del fatto, i primi anarchici o «protoanarchici» come William Godwin, Pierre-Joseph Proudhon, Henry David Thoreau e Leo Tolstoi, rifiutarono la violenza come mezzo giustificabile per abbattere la tirannia dello stato. In accordo con queste posizioni l’anarchismo simpatizzava con la nonviolenza come si poteva vedere nel The Peaceful Re24 La pratica della libertà e i suoi limiti volutionist, un settimanale edito da Josiah Warren nel 1833 e primo periodico anarchico mai stampato. Che  l’ anarchismo sia diventato da allora un diretto sinonimo di violenza (piuttosto che riconoscerla come politico-economiche alternative e della limitata immaginazione geopolitica o l’i ndottrinamento ideologico di coloro che non possono o semplicemente rifiutano di concepire un mondo senza stati. Infatti la critica originaria dello anarchismo è che lo stato è la quintessenza della violenza o come Godwin (1976 [1793], p. 380) puntualizza: «Soprattutto noi non dobbiamo dimenticare che il governo è un male, un’ usurpazione del giudizio personale e della coscienza individuale dell’umanità». Dato l’approccio postcoloniale che la geografia umana contemporanea oggi sposa, i geografi radicali dovrebbero considerare più criticamente su come l’accettazione dello stato in effetti reintegri la violenza di pensiero e la pratica del colonialismo. Nel rinvigorire il potenziale delle geografie anarchiche e mettendo in pratica la prassi critica che l’ anarchismo richiede, il mio pensiero è che la non violenza dovrebbe essere compresa come un ideale in cui vivere per gli anarchici. Questa è la storia dell’anarco-femminista Emma Goldman (1996 [1923], p. 253) che nei suoi anni giovanili aveva flirtato con la violenza ma, alla fine, l’aveva rifiutata:

una cosa di cui mi sono convinta come mai nella mia vita, è che le armi non decidono assolutamente niente. Anche se raggiungono quello che si prefiggono, cosa che raramente avviene, producono così tante conseguenze negative da inficiare gli obiettivi originali.

Per questo, se l’anarchismo si pone contro lo stato e in particolare contro il monopolio, l’istituzionalizzazione e la codificazione della violenza che questa organizzazione spaziale rappresenta, allora ne consegue che l’anarchismo propone un’immaginazione geografica alternativa che rifiuta mezzi violenti. Inizio esplorando come i geografi hanno considerato il pensiero anarchico. Sostengo che sebbene l’anarchismo abbia contribuito fortemente alla radicalizzazione della geografia umana negli anni Settanta questa prima prospettiva è stata velocemente eclissata dal marxismo che da allora (insieme al femminismo) è diventato la pietra angolare della geografia radicale contemporanea. La sezione seguente problematizza l’utilitarismo del pensiero marxiano che, si sostiene, reitera i principi coloniali che il marxismo esplicitamente cerca di distruggere. L’anarchismo è presentato come un’alternativa preferibile per il fatto che si contrappone al nazionalismo e riconosce che non c’è una fondamentale differenza tra la colonizzazione e la formazione di uno stato se non per la scala secondo cui questi progetti paralleli operano, significando in tal modo che qualsiasi posizione «post coloniale» deve essere anche «post statale» o anarchica. In seguito cerco di dare una parziale risposta alla questione delle alternative allo stato e come nuove forme di organizzazioni umane volontarie possano esseremesse in condizione di fiorire. Piuttosto che proporre un imperativo rivoluzionario sostengo il valore dell’immediato, del qui e ora come la più emancipatoria dimensione spazio-temporale, precisamente perché è il luogo e il momento in cui noi effettivamente viviamo le nostre vite.

Considero a questo punto l’illusione neoliberista della dissoluzione dello stato un accessorio e ricordo che un «governo leggero» è sempre un governo per cui, mentre i disegni, le strategie, le tecnologie e le tecniche del governo neoliberista sono nuove, la logica disciplinare dello stato rimane la stessa. Nelle conclusioni propongo qualche pensiero sul futuro della geografia radicale e in particolare dove  penso che le geografie anarchiche possano costituire un quadro concettuale più libero che potenzialmente rompa sia la struttura discorsiva del neoliberismo sia i limiti del marxismo in relazione alle contemporanee lotte di opposizione.

Quindi questo articolo può essere letto come un manifesto delle geografi e anarchiche che sono concepite come spazialità caleidoscopiche che consentono connessioni multiple, non gerarchiche e propulsive tra entità autonome dove solidarietà, legami, e affinità  sono unite volontariamente in opposizione alla violenza sovrana, di norme predeterminate e categorie di appartenenza assegnate. Nel suo rifiuto di questi multiformi apparati di dominazione questo articolo è un richiamo all’uso di armi non violente per quei geografi e non geografi che cercano di porre fine all’apparente infinita serie di tragedie, sfortune e catastrofi che caratterizzano l’attuale maleodorante momento neoliberista. Ma questa non è semplicemente una richiesta che finisca il neoliberismo e il suo rimpiazzo con una più moderata e umana versione del capitalismo, né che si voglia una più egualitaria versione dello stato. È piuttosto una condanna del capitalismo e dello stato in qualsiasi forma si presentino; una condanna di tutti i modi di sfruttamento, manipolazione e dominazione dell’ umanità; un’opposizione alla deprivazione della maggioranza e ai privilegi della minoranza che fino a oggi e per comune accettazione sono state chiamate «ordine»; e il recupero di un progetto della geografia che risale ai primi giorni della disciplina. Questo non è niente di più e niente di meno che una rinnovata chiamata all’anarchismo.

 

Per geografi e anarchiche

Alla luce dei contributi fondamentali alla disciplina geografi ca di Kropotkin e di Reclus e dell’importante ruolo dell’anarchismo nella crescita di una prassi geografica più radicale, è sorprendente che questa vibrante tradizione intellettuale sia stata, fino a tempi recenti, largamente ignorata dai geografi dai tardi anni Settanta. Scrivendo nel periodo della maggiore infatuazione della geografi a per il colonialismo durante la fi ne dell’Ottocento e i primi del Novecento, e in forte contrasto con i contemporanei come David Livingstone, Halford Mckinder e Friederich Ratzel, che spesero i loro giorni sostenendo una visione imperialista della disciplina, sia Kropotkin sia Reclus avevano una risoluta immaginazione antiautoritaria. La teoria di Kropotkin del volontario reciproco scambio di risorse per il bene comune, o «mutuo appoggio», era una diretta sfi da al darwinismo sociale presente negli scritti di Mckinder, Ratzel e in particolare nel saggio del biologo Thomas Henry Huxley, La lotta per l’ esistenza, (1888). «Loro arrivarono a concepire il mondo animale come un mondo di lotta perpetua tra malnutriti individui assetati del sangue degli altri», scrive Kropotkin nella sua grande opera Il mutuo appoggio: Loro hanno fatto risuonare la moderna letteratura con il grido di guerra e la sofferenza del vinto, come se fosse una parola definitiva nella moderna biologia. Hanno innalzato la battaglia “senza pietà” per vantaggi personali alle altezze di un principio biologico cui pure gli umani devono sottomettersi sotto la minaccia di soccombere in un mondo fondato sul mutuo sterminio.

Sostenendo che la realtà del mutuo appoggio tra animali non umani minava gli argomenti naturalistici in favore di capitalismo, guerra e imperialismo che dominavano il pensiero geografi co del tempo, come pure i darwinisti sociali, precisamente in modo opposto Kropotkin voleva trovare in natura quanto voleva legittimare nella società. La geografi a di conseguenza doveva essere concepita non come un programma di prepotenza imperiale, ma come mezzo per dissolvere pregiudizi e realizzare la cooperazione tra le comunità (Kropotkin 1978 [1880]).

Come per il suo amico e compagno Kropotkin la visione anarchica di Reclus era similmente radicata nella geografi a. Reclus ha proposto un approccio integrale verso ogni fenomeno inclusa l’umanità che era concepita come inseparabile dalle altre forme di vita e dalle caratteristiche geografiche della terra stessa. La terra, di conseguenza, era concepita come un tutt’uno in cui ogni coerente elemento del mondo richiedeva un simultaneo riconoscimento di tutti i multipli fattori di interconnessione. Per Reclus (1905-1908, p.114- 115) «È solo attraverso un atto di pura astrazione che uno possa pensare di presentare un particolare aspetto dell’ambiente come se avesse un’ esistenza distinta e cerchi di isolarlo da tutti gli altri per studiare la sua influenza essenziale». Sebbene il focus fosse il sistema «naturale» il lavoro olistico di Reclus in effetti richiedeva che i fenomeni sociali fossero considerati come intrecciati e costitutivi della naturale «geografia universale» che aveva in mente (vedi Reclus 1876-1894). Per Reclus la sopracitata affermazione sulla natura aveva la stessa rilevanza delle idee prevalenti sull’ organizzazione umana, fossero quella marxiana o quella neoclassica, e questo riporta ai limiti di quelle due teorie economiche. Così mentre le idee reclusiane di integralità hanno ispirato l’ecologia sociale di Murray Bookchin e altre  parti del movimento ambientalista radicale, le implicazioni politiche del suo lavoro rispetto all’organizzazione umana sono state sostanzialmente ignorate dai geografi per più di un secolo.

Il suo permanente significato politico deriva in larga parte dalla sua visione egualitaria di una «globalizzazione dal basso» basata sulla integralità che lui ha descritto e promosso, e che offre un’alternativa teorica alla dominante versione della globalizzazione aziendale e statale. In contrasto con la situazione corrente di un mondo diviso tra chi ha e chi non ha dove la geografia dell’accesso al capitale aderisce largamente agli alti e bassi del sistema vestfaliano, Reclus (1876-1894, citato in Clark e Martin, 2004) preconizzava un mondo libero e senza stati con «il suo centro ovunque, la sua periferia in nessun posto».

Mentre la geografia umana contemporanea è opportunamente andata oltre all’affermazione della scienza come sinonimo di «verità», il medesimo scetticismo di Reclus e Kropotkin e le sfide alle ideologie dominanti di allora hanno molto da offrire agli studi geografi ci contemporanei e alla loro irriflessiva accettazione del «discorso» di civiltà, legalità capitalista che converge nello stato. La perpetuazione dell’idea che la spazialità umana necessiti della formazione degli stati è piuttosto ampia in una disciplina che da un lato ha deriso la «trappola territoriale» (vedi Agnew, 1994), ma dall’altro ha rifiutato di portare la critica dello statocentrismo verso la dissoluzione dello stato. I geografi contemporanei di conseguenza hanno evitato di co  nfrontarsi con il potenziale emancipatorio della prassi anarchica, sottostimando largamente i contributi di Hakim Bey, Bookchin e Pierre Clastres sull’importanza di alternative configurazioni rispetto allo stato, favorendo invece discussioni su alternative configurazioni dello stato, in particolare da parte della teoria marxiana. Nella forma odierna l’attenzione si concentra sulla spiegazione di come il  processo neoliberista faciliti la trasformazione dello stato e la sua permanenza facendo da contraltare alle diffuse teorie che la globalizzazione stia erodendo lo stato e producendo un mondo senza confini, il che significa la fine sia della storia sia della geografia. In altre parole mentre le idee neoclassiche e neoliberiste sono state vigorosamente dibattute e screditate dai geografi che si muovono in una ampia prospettiva marxiana, la geografia contemporanea non ha visto le critiche anarchiche al marxismo svilupparsi con la stessa forza empirica e teorica del suo rivale radicale; un impresa assolutamente da fare.

Sebbene molto sottorappresentati nella letteratura geografica recenti contributi offrono graditi interventi che prestano attenzione alle promettenti idee anarchiche sia teoriche sia pratiche.

Graditi come sono offrono grandi spunti in un terreno teorico ancora molto da esplorare dai geografi . In particolare penso ai profondi contributi di studiosi non geografi quali Lewis Call, Todd May, Saul Newman e di Douane Rousselle e Süreyyya Evren sulle possibilità e il potenziale del post-anarchismo. Mentre il post- strutturalismo è cosa comune nella disciplina, i geografi umani hanno mancato di esplorare il potenziale del pensiero post-anarchico con poche eccezioni. Altri hanno esplorato largamente spazialità «anarchiche» attraverso lenti poststrutturaliste, ma senza inserire questa attenzione nella emergente letteratura che esplici tamente sviluppa una teoria post-anarchica. Il post-anarchismo non è un movimento oltre l’ anarchismo, ma un rinnovamento di idee anarchiche attraverso «l’ infusione» con la teoria post-strutturalista, consentendoci così di mantenere uno spirito emancipatorio, nel mentre si abbandona il richiamo alla scienza e le essenzialiste epistemologie e ontologie che caratterizzano il pensiero anarchico classico. È doveroso per i geografi radicali cominciare a esaminare l’importanza contemporanea

dell’azione anarchica e delle teorie post-anarchiche nel resistere al capitalismo piuttosto che semplicemente ripetere quegli statocentrici e senza via d’uscita argomenti che puntano a una più equa distribuzione del potere all’interno dello stato. Lo stato dopotutto, nella classica critica anarchica, è un’istituzione gerarchica che presume il rispetto dell’autorità. Come hanno riconosciuto chiaramente pensatori «non anarchici» quali Giorgio Agamben e Walter Benjamin è precisamente a causa del carattere giuridico sovrano dello stato che non può mai essere effettivamente egualitario. E così i geografi dovrebbero domandarsi: dove possono portarci supposti argomenti liberatori che continuano ad accettare lo stato se non a strutture di gerarchia e dominazioni fermamente stabili?

Nonostante non sia l’unica preoccupazione degli anarchici, lo stato è il primario argomento del pensiero anarchico. Sebbene i marxisti abbiano sempre più criticato la logica del potere statale, va oltre lo scopo di questo articolo sviluppare una tassonomia che indichi con precisione la posizione verso lo stato delle multiple varianti del pensiero marxiano. A rischio di semplificare eccessivamente la complessità delle intersezioni tra le due principali alternative del pensiero socialista, ciò nonostante è facile dire che la questione dello stato è la differenziazione originaria tra marxismo e anarchismo. Infatti la principale divisione tra anarchismo e marxismo si riferisce alle differenti opinioni sul grado di autonomia concesso ai lavoratori in un contesto post-rivoluzionario e la strettamente legata questione del monopolio della violenza. Gli anarchici rifiutano decisamente tale monopolio sulla base che la violenza è soprattutto la primaria dimensione del potere dello stato e di ogni stato; sia controllato dalla borghesia o conquistato dai lavoratori inevitabilmente funzionerà come strumento della dominazione di classe. Al contrario i marxisti credevano che poiché una classe minoritaria governa la maggior parte delle società, prima del socialismo il raggiungimento di una società senza classi richiede che, preventivamente, la classe più svantaggiata conquisti lo stato e acquisisca il monopolio della violenza. Dunque il desiderio di superare lo stato e creare un sistema socialista liberato attraverso un potere dispotico è una contraddizione che gli anarchici negano. La correlata nozione marxiana dell’estinzione dello stato era similmente vista come una contraddizione. E Bakunin ha osservato (1953 [1873], p. 288): Se il loro Stato è un genuino Stato popolare, perché dovrebbe dissolversi? …(i marxisti) dicono che questo giogo statale (la dittatura) è un necessario mezzo temporaneo per raggiungere l’emancipazione del popolo: l’anarchismo o la libertà è lo scopo, lo Stato o la dittatura è il mezzo.

Quindi per liberare le masse lavoratrici per prima cosa è necessario schiavizzarle. Questa notevole contraddizione inorridiva gli anarchici e durante la Prima Internazionale questa differenza divenne la fondamentale divisione tra i socialisti. Mentre il marxismo tradizionalmente rappresenta il confine statista dello spettro politico socialista, o in ultima analisi, l’accettazione dello stato in termini utilitaristici come mezzo verso una finalità attraverso una provvisoria dittatura del proletariato, l’anarchismo è sempre stato il campo del socialismo libertario rifiutando l’idea che uno stato, sia pur modificato, possa mai scomparire e condurre a una condizione di emancipazione.

Il colonialismo è morto, lunga vita al colonialismo?

Non condivido l’entusiasmo di Marx per il capitalismo. Marx e gli economisti politici classici vedono il capitalismo attraverso simili lenti celebratorie; solo che Marx mitigava la sua visione suggerendo che era una necessaria fase da passare sulla via del comunismo e non una gloriosa fase finale come nel progetto liberale di Adam Smith. Scrivendo un secolo dopo Bill Warren, uno dei più controversi scrittori della tradizione marxista, lo ha colto come essenza del lavoro di Marx. Warren (1980, p. 136) sosteneva che:  l’ imperialismo era il mezzo attraverso cui tecnica, cultura e istituzioni che si erano sviluppate in Europa lungo molti secoli (la cultura del Rinascimento, la Riforma, l’Illuminismo e la Rivoluzione Industriale) hanno sparso i loro semi rivoluzionari nel resto del mondo».

Warren ha interpretato correttamente la relazione integrale tra capitalismo e imperialismo, ma ha dipinto l’imperialismo come un «male necessario» sulla strada verso un bene più grande. La banalità della descrizione di Warren dell’imperialismo ha stimolato molti detrattori, ma egli in effetti ha rivisitato il marxismo espresso nel Manifesto comunista dove, sebbene Marx condanni la violenza dell’accumulazione primitiva, ciò nonostante ritiene «questa violenta espropriazione come necessaria per lo sviluppo delle possibilità umane» (Glassman 2006, p. 610). Malgrado trovi il capitalismo moralmente ripugnante se comparato con il modo di produzione feudale che lo ha preceduto, Marx attribuisce al capitalismo molte virtù, riconoscendolo come straordinariamente produttivo, suscitatore di creatività umana, produttore di grandi cambiamenti tecnologici e iniziatore di potenziali forme democratiche di governo. In linea con questa ottimistica visione di Marx, Warren sostiene che nella sua fase iniziale l’esplorazione capitalista di nuovi territori è stata condotta in forma di colonialismo e imperialismo e mentre questa forma di capitalismo è stata un arretramento per quei territori occupati ci  sono stati però anche importanti benefici. I livelli di istruzione sono cresciuti, le aspettative di vita anche e le forme di controllo politico sono da considerarsi più democratiche di quelle preesistenti il colonialismo.

Se tutto questo suona familiare è perché è la stessa struttura «discorsiva» che orienta il neoliberismo oggi; correttamente David Harvey (2003) lo ha definito «nuovo imperialismo ». Il ritornello è che la gente potrebbe fare meglio e sebbene imperfetta nella sua esecuzione (largamente attribuita alla continua «interferenza» dello stato nei mercati) alla fine «l’effetto gocciolamento» produrrà i suoi frutti e la promessa utopia si materializzerà.

Invece di aspettare che il mercato produca i suoi effetti secondo i suoi tempi Marx intendeva accelerarne il passo per raggiungere un contratto sociale egualitario attraverso la rivoluzione. Per essere chiari non sto sostenendo che ci sia una ideologica consonanza tra il marxismo e il neoliberismo, piuttosto cerco di chiarire che ambedue condividono la nozione che lo stato può essere usato per raggiungere un fi ne «liberato». Per contrasto la posizione anarchica rifiuta la violenza dello stato, dell’imperialismo e del capitalismo e non si fa convincere dall’utilitarismo di Marx. I mezzi del capitalismo e le sue violenze non giustificano un non-stato finale comunista né questo fi ne giustifica tali mezzi. Questo particolare aspetto del pensiero marxista richiama il neoliberismo: sebbene l’utopico non stato finale sia concettualizzato in modo differente, i mezzi «penultimi» per raggiungere il «prodotto finale» sono virtualmente gli stessi. Mentre i post-marxisti opportunamente sostengono che genere, sesso, etnicità, razza, e altre evidenti categorie «non capitaliste» siano ugualmente importanti linee di differenziazione che segnano gerarchie, disuguaglianze e violenze nel nostro mondo neoliberista l’ anarchismo va oltre rifiutando la sostanziale violenza che è intrinseca e implicitamente accettata dall’approccio lineare alla storia fondato sugli «stadi di sviluppo». Non coerente con l’utilitarismo e l’ essenzialismo del pensiero di Marx può allo stesso modo essere vista la genesi del post-strutturalismo, che invece si focalizza sulla complessità ed eterogeneità della condizione attuale e rifiuta teorie totalizzanti nel rigettare le «verità» assolute.

Sebbene la critica post strutturalista sia diventata velocemente una delle più vibranti varianti filosofiche nella disciplina geografica e Michel Foucault, Gilles Deleuze e Jacques Lacan abbiano tutti elaborato critiche all’interno del fertile terreno del pensiero antistatale la geografia contemporanea è stata lenta nel confrontarsi con le idee che auspicano la fine del Leviatano. Posso solo formulare ipotesi sulle ragioni di questa lacuna, ma sembra che il predominio delle idee marxiste abbia avuto un ruolo. Il marxismo tradizionale con la sua compagna ideologia statalista è largamente presente nella letteratura geografica dove l’influenza di Harvey domina. Sebbene occasionalmente qualche geografo politico abbia criticato la limitata visione geopolitica dello stato-centrismo, ciononostante la forma di organizzazione statale è un dato di fatto scontato nella disciplina. Lo stato è o implicitamente accettato o non sottoposto a un tipo di esame che ne analizzi i suoi principi fondamentali, anche se i/le geografi /e femministi/e hanno contribuito a ridefinire i parametri sui quali lo stato è correntemente concepito. Nonostante questo una parte significativa della geografia umana ha sollevato la questione dello stato solo per cercare di determinare quanto il neoliberismo abbia riconfigurato le sue funzioni, con i geografi marxisti che auspicano una rinnovata e reimmaginata versione del welfare sociale, e i post-strutturalisti che argomentano che la governabilità rende lo stato quasi invisibile grazie a soggetti capaci di autoregolarsi e di autocorreggersi. È scarsamente evidenziata la potenzialità di quest’ ultimo approccio nello svelare la perdurante forza della logica statuale e della violenza che la pervade tramite alterate razionalità disciplinari e le mutate tecniche di controllo biopolitico; per non parlare delle coincidenze del post-strutturalismo con il pensiero anarchico (vedi Newman 2010).

Che la geografia radicale mantenga l’orientamento statuale forse testimonia delle origini coloniali della disciplina stessa e una esitazione nel rompere con vecchie abitudini. Così il contemporaneo stato-nazione va visto come una replica in scala minore dello stato coloniale.

Sebbene differenziati per diffusione e distribuzione nello spazio sia il potere dello stato nazionale sia quello coloniale mostrano gli stessi violenti principi del privilegio di pochi sopra i molti e l’imposizione di un’identità unica prevalente su antecedenti modi di concepire l’appartenenza. Marx ne era consapevole, ma ancora una volta ha sostenuto la sua idea utilitarista. Nel momento in cui il capitalismo si diffonde nel mondo ha suscitato forti movimenti di resistenza da parte di lavoratori e contadini oppressi (guidati da avanguardie) che, secondo Marx, avrebbero incubato alla fine il superamento del capitalismo.

In casi particolari Marx aveva sostenuto lotte nazionaliste vedendo in questo una «fase di sviluppo» verso il futuro internazionalismo dei lavoratori. Dal punto di vista anarchico è difficile vedere il fine emancipatorio quando si usano mezzi violenti. Quello che la «liberazione nazionale» rappresenta in effetti è il cambio di una élite con un’altra e quindi di una forma di colonialismo con un’altra. Mentre l’espressione territoriale è stata dismessa, la sottostante logica rimane la stessa. Esattamente come lo stato coloniale suscitava e spesso imponeva il monopolio della violenza la lotta per creare uno stato-nazione è allo stesso modo una lotta per il monopolio della violenza. Quello che si crea in ambedue i casi (uno stato coloniale o nazionale) è esso stesso uno strumento di violenza. Nel riconoscere questa corrispondenza, e a dispetto del cosiddetto «precipuo quadro di comprensione postcoloniale» di Gillian Hart (Hart 2008, p.680), essere «postcoloniali» in ogni senso è essere anche «poststatali» o anarchici come pure sono da rifiutare totalmente gerarchie, ordine, autorità e violenza su cui quei progetti paralleli sono stati costruiti. Inoltre l’internazionalismo, per definizione, non può andare oltre lo stato; al contrario continua a presupporre e assumere l’esistenza delle nazioni. Nell’auspicare la cooperazione tra le nazioni a prescindere dalla geografia, l’internazionalismo di Marx non va oltre la nozione dello stato-nazione quale unità di base dell’appartenenza.

Perché allora la geografia radicale contemporanea non ha sviluppato una «immaginazione anti coloniale» che giunga fino alla sfida post statuale come Anderson (2005) ritiene che in effetti sia necessario? Reclus e Kropotkin hanno dimostrato da molto tempo che la geografia si presta essa stessa a idee emancipatorie e «non è stato per caso che due dei più importanti anarchici della fi ne del   secolo fossero geografi » (Ward 2010, p.209). C’è un latente straordinario potenziale per la geografia radicale contemporanea di diventare ancora più radicale nella sua critica e quindi maggiormente libertaria nei suoi interessi aderendo all’ethos anarchico. L’anarchismo è in grado di comprendere capitalismo, imperialismo, colonialismo, neoliberismo, militarismo, nazionalismo, classismo, razzismo, etnocentrismo, orientalismo, sessismo e genere, omofobia e transfobia, età, abilità, specie, vegetarianismo, sovranità e lo stato come sistemi intrecciati di dominazione. Il mutuo rinforzo della  composizione di queste varie dimensioni di «archia» significa, conseguentemente, che escluderne acriticamente una dall’analisi perpetua quella conglomerazione nel suo insieme. A differenza delle compartimentazioni della geografi a marxiana la promessa delle geografi e anarchiche consta precisamente nella loro capacità di pensare in modo integrato e quindi di rifiutare di dare priorità a uno qualsiasi dei molteplici apparati di dominazione, in quanto tutti irriducibili uno all’altro. Questo significa che nessuna lotta può venire dopo una qualsiasi altra. È tutto o niente e il privilegio aprioristico dei lavoratori, delle avanguardie, o di qualsiasi altra classe sopra le altre devono essere rifiutati sulla base della loro insita gerarchia.

 

 

 

Immaginare alternative

In effetti non ci sono peggiori controrivoluzionari dei rivoluzionari; perché non ci sono peggiori cittadini degli invidiosi (Anselme Bellegarrigue 1848) Non ci sono sogni per un lontano futuro e neppure tappe da raggiungere dopo altre, ma nostri processi di vita ovunque nei quali noi possiamo sia avanzare sia arretrare (Roger Baldwin 2005, p.114)

La questione delle alternative allo stato è comunque nella mente degli scettici dell’anarchismo. In questo senso Harvey (2009, p.200) domanda: «Come funzionerà concretamente la reificazione di questo ideale anarchico nello spazio e nel tempo assoluti?».

Sebbene gli anarchici abbiano teorizzato molteplici possibilità da quella collettivista a quella individualista, dalla sindacalista alla mutualista, dalla volontaristica alla comunista, io rivendico un non dottrinario, post-anarchico approccio e conseguentemente la mia risposta è cominciare a rifiutare di dare visioni prescrittive sulle forme di organizzazione sociale che io penso debbano essere sviluppate. La risposta a questa domanda non può dipendere da un singolo individuo, ma piuttosto collettivamente attraverso il dialogo e una permanente flessibile innovazione. In questo senso la critica di Harvey all’anarchismo è problematica da due punti di vista. Primo, quando mai spazio e tempo sono stati «assoluti » se non attraverso le lenti riduzioniste del positivismo? Questa affermazione nega

lo stesso riconoscimento di Harvey sulla reciproca influenza dialettica di spazio e tempo, espressa da lui come «spazio-tempo». Secondo, cerca di applicare i principi del pensiero marxiano e della «teoria delle fasi» a una posizione filosofica che escluda questa linearità predeterminata. Harvey concettualizza la costruzione del luogo come una politica di fine stato, cosa che posiziona non correttamente l’anarchismo come un progetto chiaramente definito (idea condivisa da marxismo e neo-liberismo) piuttosto che riconoscerlo come un processo vivente, flessibile e sempre dinamico (Springer 2011). Qualcuno potrebbe giudicare la mia posizione come un tentativo di svicolare, ma desidero ricordare al lettore che qualsiasi tentativo di preconizzare un modello fisso isolato dal più ampio corpo sociale riassume sia il progetto neoliberista sia una disposizione autoritaria visto che ciascuno di essi sostiene un unico modo di fare le cose. Questo rinforza l’arroganza/ignoranza dei cosiddetti «esperti» che presumono di sapere che cosa è meglio senza riconoscere i propri limiti. Persino Sara Haraway, quale brillante pensatrice che è, una volta manifestò i propri limiti rivelando: «io ho quasi perso la capacità di immaginare come potrebbe essere un mondo non capitalista. E questo mi spaventa» (Harvey e Haraway 1995, p.519). La stessa incipiente paura dovrebbe essere ugualmente evocata quando si riflette criticamente sullo stato e sulla sua apparente totalizzante pervasività. Noi trattiamo questa particolare forma gerarchica di organizzazione e di dominio territoriale come imprescindibile e facendo questo noi concretamente dimentichiamo che la gran parte del tempo che gli umani hanno passato sul pianeta Terra è stato caratterizzato da una organizzazione non statale. Lo stato quindi non è né inevitabile né necessario. Il neoliberismo è particolarmente virulento nella misura in cui inserisce un nuovo elemento nella nostra collettiva dimenticanza riconfigurando lo stato in modo tale che impedisce di notare i suoi continui effetti deleteri. Il discorso dietro questa illusione di dissoluzione cerca di convincerci che il neoliberismo rappresenti la nostra liberazione come individui, emancipandoci dalle catene che chiama «il grande governo». Ma lo stato continua a essere rilevante nelle dinamiche neoliberiste.

Allo stesso modo il monopolio della violenza che lo stato reclama per sé rimane ugualmente potente e oppressivo sotto la logica disciplinare di uno stato neoliberista come lo fa sotto ogni altra configurazione di stato; malgrado «i bei momenti» della apparente democrazia (leggi «autoritarismo elettorale») (Springer 2011). Quello che è effettivamente perso nel supposto stato neoliberista in streaming sono ovviamente i benefici sociali forniti ai cittadini. Questa retromarcia è il risultato del collasso della fiducia sociale, che attivamente anticipa il mito hobbesiano- darwiniano di tutti contro tutti dove solo il più forte sopravvive. La gente è incoraggiata non a rivolgersi agli altri per risolvere i problemi di tutti i giorni o anche solo quando ci sono problemi, ma semplicemente deve smettere di essere «pigra» e mettersi al lavoro. Il discorso neoliberista pone il sistema stesso al di sopra di qualsiasi rimprovero così che ogni «anomalia», come l’impoverimento o la disoccupazione, sono derubricate quali fallimenti individuali. Quelli che non hanno «successo» in questo gioco perverso sono facilmente estromessi dal punitivo stato neoliberista grazie alla loro criminalizzazione. Il carcere è visto come la più valida soluzione che affronta il crescere delle ineguaglianze e della povertà della maggioranza. Questo strumento disciplinare è particolarmente debilitante perché per la realizzazione del potere popolare le condizioni per la cooperazione sociale devono essere presenti per il semplice motivo che la gente deve avere fiducia negli altri.

Il neoliberismo in particolare e il capitalismo più generalmente lavorano per distruggere la fiducia facendoci competere l’un l’altro e approfittare della reciproca vulnerabilità.

Allo stesso modo lo stato distrugge la fiducia avvertendoci che homo homini lupus diventerebbe la legge in assenza di un potere sovrano. Per ristabilire la fiducia sembrerebbe che sconfiggere il capitalismo non sia sufficiente. Nell’allestire una realtà post-neoliberista, cioè la realizzazione di un contesto che rompa con il corrente Zeitgeist (spirito del tempo), la sovranità e lo stato stesso devono essere smantellati. Facendo questo, a prima vista, sembra apparire il problema del muoverci dal qui al e dall’ora al poi. Nonostante collochi l’idea della rivoluzione come sparita dalla vista Neil Smith 2010) esemplifica la permanente infatuazione della sinistra suggerendo che la recente crisi finanziaria potrebbe essere la base sulla quale «l’ imperativo rivoluzionario» può essere rinnovato. Ma desiderando che una rivoluzione globale emerga dalla recente crisi economica attribuisce un ruolo strumentale a un singolo sistema economico che stranamente recupera l’argomento del neoliberismo come monolitismo. Questo tipo di critica riporta all’implicita accettazione di Smith del ruolo utilitaristico che Marx attribuisce al capitalismo /colonialismo, una posizione che gli anarchici trovano discutibile. Mentre compiange le vittime del colonialismo Marx si consola con il pensiero che i suoi continui abusi non faranno che avvicinare il giorno in cui l’intero mondo verrebbe consumato da un’unica crisi e quindi inaugurando la rivolta rivoluzionaria così desiderata. Questo è un approccio ultra passivo perché se la rivoluzione deve risultare da una crisi capitalista allora questo implica una politica di attesa per il giorno in cui «tutto si dissolve».

La questione della perdita di fiducia diventa particolarmente acuta al momento del «dissolvimento» perché, come Proudhon (2005 [1864], p.108) avvertiva, c’è un «pericolo nell’aspettare fi no ai momenti di crisi, quando le passioni diventano incandescenti dalla diffusa sofferenza». Nel tempo che è passato dall’inizio della crisi nel tardo 2008 è tristemente diventato ovvio di come sia possibile, in assenza di fiducia, per la gente, accettare alternative razziste, nazionaliste e fondamentaliste. Invece che occupare il tempo nell’attesa della rottura i geografi dovrebbero invece aderire anarchicamente al «qui e ora» come spazio-tempo in cui le nostre vite sono effettivamente vissute. Riconoscendo che la potenzialità di questa immediatezza sia emancipatoria di per sé in quanto ci fa rendere conto della possibilità che noi possiamo immediatamente rifiutare di partecipare al consumismo, di praticare il nazionalismo e di non agire gerarchicamente per evitare di legittimare l’ordine esistente, ci porta ad aderire alla cultura del «do it yourself» centrata sull’azione diretta, il non consumismo e il mutuo aiuto. Aderendo all’idea della coppia di autrici che si firma J-K Gibson-Grahan (2008) che «altri mondi» sono possibili e all’impegno di Sara Koopman (2011) per una battaglia contro egemonica non violenta di quello che lei chiama «altra-geopolitica», il potere del «qui e ora» ci offre la libertà  ’immaginare e di cominciare a costruire le libere alternative istituzioni e le volontarie associazioni che faciliteranno la transizione verso un vero futuro post-coloniale/post-neoliberista. Così il significato di immaginare alternative all’ordine corrente non è quello di fissare un programma per ogni tempo, ma invece di fornire un esempio di alterità o di esternalità come un mezzo per sfidare i limiti di questo ordine. È solo nel preciso spazio e momento del rifiuto, che è il «qui e ora», che gli individui si prendono il potere di scegliere la propria via, liberi dalla guida coercitiva di un’autorità sovrana o dalla persuasiva influenza di un patrocinio accademico. L’ambito dove i geografi sono effettivamente in buona posizione per essere efficaci, come i/le pensatori/rici femministi/e hanno dimostrato, è nei riguardi della questione del costruire fiducia, abbattendo pregiudizi e agendo con nuove energie creative radicate nella continua capacità delle emozioni e della vita quotidiana come effettivo terreno dell’interazione umana. Nell’accettare la «svolta affettiva» (Thien 2005) che vede la connettività emozionale e la politica dell’affinità come basi fondamentali su cui qualsiasi durevole trasformazione può avvenire, è precisamente a questa intimità e immediatezza che possono dedicarsi produttivamente le geografi e anarchiche. Piuttosto che dare priorità al particolarismo di classe, come nell’imperativo marxiano, o arrenderci alla politica del razzismo, come vorrebbe il neoliberismo, l’anarchismo chiede che qualsiasi processo di emancipazione sia pervaso da relazioni non universali, non gerarchiche e non coercitive, fondate sul mutuo appoggio e sull’impegno eticamente condiviso.

Infine, quello che l’anarchismo ha da offrire è esattamente l’opposto del neoliberismo. Differenziandosi dall’insito elitismo e autoritarismo dello stato, l’anarchismo punta alla produzione di beni comuni tramite la cooperazione umana in accordo ai bisogni, un processo che non richiede una struttura amministrativa, ma invece perni su cui si fonda un’etica di reciprocità. Una prospettiva anarchica riconosce inoltre che le nuove latenti forme di organizzazione, che potrebbero svilupparsi oltre la logica territoriale dello stato, possono esistere in un continuo processo di riflessione e revisione da parte di coloro che le praticano, così come impedire la formazione di qualsiasi potenziale gerarchia prima che le si possa permettere di crescere. Le geografi e anarchiche di cooperazione devono nascere all’esterno dell’ordine esistente, nei luoghi che lo stato ha mancato di includere e nelle infinite possibilità che la logica statale ignora, rifiuta, saccheggia e nega. Come Kropotkin (1887 p.153) ha eloquentemente chiarito: mentre tutti concordano che l’armonia è sempre desiderabile non c’è una corrispondente unanimità a proposito dell’ ordine che si immagina che regni nelle nostre società moderne; così che noi non abbiamo nessun tipo di obiezione all’uso della parola “anarchia” come negazione di quello che è stato spesso descritto come ordine.

Le geografie anarchiche sono quelle forze potenziali che continuamente infastidiscono lo stato sostenendo che sia semplicemente una delle possibilità socio-spaziali in un numero illimitato di altre. Così le alternative allo stato non nascono dall’ordine che esse rifiutano,in quanto contraddittorio e oppressivo, ma dall’anarchica profusione di forze che sono aliene a questo ordine e da quelle reali possibilità che questo ordine cerca di dominare e distorcere. I geografi radicali di conseguenza avrebbero molto da imparare dall’ intensificare le connessioni con quei popoli (come le tribù indigene di  Zomia) che non hanno mai avuto lo stato e praticato quello che James Scott (2009) chiama «l’arte di non essere governati». La questione qui non è la fine dello stato o la realizzazione di una politica che porti alla fine dello stato, ma piuttosto una «infinita richiesta», una lotta fatta di continua evasione, contestazione e solidarietà (Critchley 2007). Non siamo obbligati a vedere lo stato come l’esclusivo luogo dal cambiamento sociopolitico o l’unico riferimento di un paradigma rivoluzionario, come troppo spesso è avvenuto. Nello spirito delle citazioni che aprono questo articolo noi possiamo invece orientare la nostra rabbia e tristezza dentro di noi, dove la sostenuta indignazione per la nostra buona fortuna può portare a un riallineamento delle nostra bussola etica, forzandoci a fermarci e rifiutare, stando dalla parte di altri meno fortunati. L’empatia è la morte dell’apatia e comincia non quando lo stato è fluidificato, indebolito o smembrato, ma «qui e ora».

Conclusioni

 

La libertà come mezzo produce più libertà. Per coloro che condannano ciò come sterilità politica e posizione da «torre d’avorio» si risponda che il «realismo» e il loro «circostanzialismo » invariabilmente portano al disastro. Noi crediamo che sia più realistico influenzare le menti con la discussione piuttosto che plasmarle con la coercizione (Vernon Richards 1995, p.214).

L’etimologia di «radicale» viene dal latino radix e significa radice. I geografi radicali contemporanei farebbero meglio a esplorare questa originaria dimensione (ri)confrontandosi con i contributi di Kropotkin e Reclus, che senza timore criticavano la dominazione coloniale in un tempo in cui il «grosso» della geografi a marciava mano nella mano con il progetto imperialista. Ma la geografia radicale oggi non ha bisogno di rileggere il passato, bensì necessita di un futuro, di una iniezione di nuove idee che abbracci i progressi intellettuali fatti dal pensiero post-strutturalista e femminista per andare oltre quello che è già «conosciuto». All’interno degli studi anarchici il confine critico di questo tentativo è il post-anarchismo, che non cerca di muovere il «vecchio» anarchismo, ma rifiuta le basi epistemologiche delle teorie anarchiche «classiche» e il loro attaccamento all’essenzialismo del metodo scientifico. Il pensiero post-anarchico di conseguenza cerca di rinvigorire la critica anarchica espandendo il suo concetto di dominazione oltre lo stato e il capitalismo per comprendere le reti tortuose e molteplici che caratterizzano il potere contemporaneo; e rimuovendo i suoi quadri concettuali normativi e «naturali» per aderire a conoscenze specifiche ed empatiche. Applicare questa critica filosofica alla geografia radicale oggi richiede che si faccia una scelta consapevole etica e emozionale, scegliere se «essere alleati con la stabilità dei vincitori e dei governanti, oppure, cosa più difficile, considerare tale stabilità come uno stato di emergenza che minaccia i meno fortunati con il pericolo della completa estinzione» (Said 1993, p. 26). La seconda scelta richiede un deciso sforzo per rompere il fascino del «senso comune» della governabilità neoliberista, in quanto il governo non è solo la struttura politica o le procedure gestionali dello stato, ma l’indirizzo della condotta dei singoli e dei gruppi, significa «strutturare il possibile campo di azione degli altri», la loro direzione e la loro posizione (Foucault 1982, p.790).

Questo è un processo che molti geografi hanno già iniziato prestando attenzione all’intrico del potere, facendo ricerche sulle azioni partecipative e attraverso la teoria non rappresentativa (Thrift 2007), ma senza riferirla esplicitamente alla critica anarchica. Così se i mutevoli orizzonti dello spazio-tempo assicurano che le nostre esperienze vissute sono continui comportamenti che sfidano la divisione teorica di identità predeterminate e di soggettività codificate, allora che cosa è più «realistico» se non riconoscere la perpetua fioritura dei significati dell’anarchismo? Le geografi e anarchiche allora cercherebbero di mettere in dubbio la spazialità su cui il «governo» è fondato, per sostenere un non strutturato «campo di azione» dove gli individui volontariamente e/o collettivamente possano decidere la loro direzione, liberi dalla presenza e dalle pressioni di qualsiasi alta o ultima autorità. Il luogo di questa liberazione da tutte le varianti del potere sovrano non è radicato nell’idea di fissità, come è nella «trappola territoriale» dello stato, ma nella inesorabile affermazione di libertà attraverso dinamiche associazioni per affinità che possano essere interamente transitorie o solo poco permanenti. Il pensiero potenziale chiave è quello che ogni affiliazione è libera di rafforzarsi o dissolversi grazie alla condizione di una libera e individuale scelta, dove nessun soggetto, come il monopolio della forza o il controllo dei mezzi di produzione, faccia rispettare la sottomissione o la continuità condivisa.

Le geografie politiche delle frontiere e dei confini diventerebbero infinitamente intricate, sovrapponibili e variabili fi no al punto che cercare di fissarle in un rigido ordine o una griglia, come è nella epistemologia sottostante la moderna cartografi a, diventerebbe un esercizio di futilità. Questa mappatura, sia letteralmente come nella attuali carte sia attraverso tecniche come i dati censuari, è costitutiva della logica dello stato da cui cominciare ad agire e la proposizione delle geografi e anarchiche dovrebbe essere quella di dissolvere qualsiasi schema di categorizzazione e classificazione che promuova permanenze spaziotemporali.

Questo non significa che l’anarchismo sia un caos, ma che ogni organizzazione geografica debba procedere come un’etica di empatia invece che una politica di differenze, visto che queste ultime sono sempre forgiate dall’oppressione. L’anarchismo, spazialmente organizzato in questi termini, ci permetterebbe di comprendere l’ insieme delle persone piuttosto che considerarli soggetti o cittadini conformi a particolari spazi e a parziali obiettivi politici. Kropotkin ha descritto una simile visione quando scrisse: in questo tempo di guerre, di auto-centrature nazionali, di gelosie nazionali e odii abilmente alimentati da gente che persegue i propri egoistici interessi o di classe, la geografi a deve essere … un mezzo per dissipare i pregiudizi e creare altri sentimenti più nobili per l’umanità.

Le geografie anarchiche possono di conseguenza essere produttivamente caratterizzate dalla loro integralità, dove tutti i tentativi di creare false dicotomie di separazione sono rifiutate e al contrario l’umanità è riconosciuta come intimamente interconnessa con tutti i processi e flussi dell’intero pianeta (Massey 2005). Questa radicale riconcettualizzazione della disciplina la renderebbe simile, realizzando la visione di Reclus, sia alla Rete dei Gioielli di Indra della filosofia buddista sia all’ipotesi di Gaia, dato che i tentativi di separare ogni tipo di variante da quella politica a quella economica, da quella sociale a quella culturale e così via, sarebbe vista come una costruzione che tenti di addomesticare, costringere, dividere e contenere l’irriducibile intero.

Nuove forme di affinità stanno già emergendo in forma di «etiche relazionali di lotta» (Routledge 2009) dove non è più il lavoratore che è concepito come il soggetto del cambiamento storico, ma gli oppositori anticapitalisti che comprendono gruppi eterogenei che sfuggono alla soggettivazione universale dell’identità proletaria. Riconoscere questo potrebbe essere il punto di partenza per scalzare la posizione che il marxismo detiene oggi nella geografi a radicale. Questa emergente forma di lotta è chiaramente non interessata a formulare strategie che replichino tradizionali strutture rappresentative, volendo significare uno spostamento paradigmatico dal cambiare lo stato modificandone i caratteri, prestando invece attenzione a movimenti autonomi in opposizione allo stato. In questo contesto Newman (2010, p.182) identifica una serie di nuove questioni e sfide politiche: «libertà oltre la sicurezza, democrazia oltre lo stato, politica oltre i partiti, organizzazione economica oltre il capitalismo, globalizzazione oltre i confini, [e] vita oltre la biopolitica».

E ancora, queste non sono solo questioni politiche, ma ciascuna è anche profondamente geografica. Mentre i geografi stanno già esaminando queste concrete questioni c’è stata un’attenzione molto ridotta ai modi in cui l’anarchismo può favorire una più rigorosa analisi di queste emergenti geografie. Di conseguenza concettualizzare un «andare avanti», oltre le dominanti strutture del neoliberismo e le perduranti animosità del colonialismo, significa un più profondo rapporto con le filosofie anarchiche. Impegnare la geografia radicale in un programma anarchico vorrebbe dire la negazione della falsa dicotomia che la disciplina mantiene tra l’accademia come luogo della produzione della conoscenza da una parte e dall’altra la più ampia società come campo della lotta sociale. Perciò reti di solidarietà con coloro che svolgono azione diretta nelle strade potrebbe ben essere il futuro della geografi a radicale. Da qui possono fiorire idee che permettano nuove immaginazioni geografi che e materializzazioni che vadano oltre politiche stato-centriche; possono fiorire forme di organizzazione non istituzionali, «glocalizzate», temporanee e volontarie, e la teoria kropotkiniana del mutuo appoggio come pure il contributo di Reclus agli ideali della libertà umana possono avere lo stesso tipo di attenzione che finora Marx ha avuto dalla geografia radicale. L’anarchismo, come Kropotkin (1978 [1885]) ha riconosciuto più di un secolo fa, è «quello che la geografi a dovrebbe essere».

traduzione di Fabrizio Eva

 

 

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Vita e avventure di un mondo perduto

Vita e avventure di un mondo perdutoa cura di Paolo Repetto, 23 maggio 2018

Le origini di un impero tra storia e leggende

Sven Hedin e i misteri del lago errante

Carlo Piaggia, vagabondo del Nilo

Cercando l’Australia

Alexander von Humboldt

L’ultimo lago

Il viaggio al Tibet

Il milanese che valicò le Ande

l mito americano della Natura

Humboldt e l’alba dell’ecologia

La poesia di Wystan Hugh Auden

Donne con la  bussola

Ida Pfeiffer, la viaggiatrice solitaria

Le origini di un impero tra storia e leggende

di Paolo Novaresio

Dal 1960 il Mali è una Repubblica, ma la memoria popolare è tuttora rivolta ai secoli splendidi in cui era un vasto e potente impero.

Le interminabili genealogie dei re, tramandate dai canti e racconti epici fino ai nostri giorni, non sono sterili elencazioni ma storia viva e presente in cui spesso si intrecciano elementi magici e leggendari dovuti alla scarsità di documentazione scritta. La tradizione africana, infatti, viene tramandata soprattutto oralmente e tutto questo non fa che aumentare il fascino di questo Paese, della sua gente frazionata in decine di etnie diverse.

Zoumana Traoré dice di avere sessant’anni, abita a Gao ed è di origine Songhai, popolo che fondò il regno del Mali. Ai bei tempi faceva il meccanico per l’Air Mali e si arrangiava a portare a spasso i turisti nella zona. Ora Gao è isolata, irraggiungibile e pericolosa: di aerei neppure l’ombra, di turisti non ne parliamo.

Zoumana è ovviamente disoccupato, senza troppe ansie per il futuro, sopravvive al presente. Mentre sorseggia con metodo una birra mi racconta della storia di Gao, o almeno la sua personale versione, tramandata attraverso una serie di eventi simbolici che parlano di battaglie, re, eroi e magia: «Quando in Mali c’erano i francesi circolava una barzelletta. Si studiava la storia di Francia, quindi di conseguenza i nostri antenati erano i Galli – nos ancêtres les Gaulois – così si leggeva sui libri. Per un Songhai una discendenza piuttosto strana, non trovi?».

La tendenza a considerare l’Africa un continente senza storia, un esotico relitto dell’Eden, è un vizio duro a morire, anche se di origini recenti. In realtà solo da un paio di secoli gli Europei vedono l’Africa come un continente selvaggio. Per i Romani e per gli uomini del Medioevo e del Rinascimento, l’Africa evocava immagini di regni sontuosi e ricchezze straordinarie. Era la culla della sapienza e della civiltà. A Gao le tracce di questo illustre passato sono ben visibili.

Da ciò che resta del famoso Hotel Atlantide, con una breve passeggiata (due chilometri, fatali senza un cappello) si arriva di fronte alla tomba degli Askia, la dinastia che portò Gao al rango di capitale del vastissimo Impero Songhai.

La tomba è un mausoleo in terra cruda, in puro stile sudanese. Pare che l’iniziatore di questo stile sia stato un architetto e poeta andaluso che raggiunse il fiume Niger dal Cairo, al seguito della corte di Kankan Musa. Il mansa (re) del Mali era di ritorno da uno dei suoi famosi pellegrinaggi alla Mecca. Era l’anno 1325.

Oggi nei manuali in uso alle scuole secondarie di Bamako non si parla più di Galli e cerimonie druidiche, ma di imperi sudanesi. La loro storia passa attraverso interminabili genealogie di re e sovrani mitici: dal nostro punto di vista possono apparire sterili elencazioni ma per gli africani, discendenze e parentele tramandate dai canti e dai racconti epici, sono storia viva e presente. Tant’è che nel marzo del 1957, il dottor Kwame Nkrumah nella qualità di primo Presidente si prese una “licenza storica” e dette all’antica Costa d’Oro il nome di Ghana, il cui impero e sfera d’influenza erano in realtà situati assai più a nord.

Le rovine della presunta capitale del regno, Koumbi Saleh, si trovano addirittura nel territorio dell’odierna Mauritania.

In compenso, per rimescolare ulteriormente le carte nel discutere le modalità dell’indipendenza per l’Africa occidentale francese, i rappresentanti della Costituente di Dakar scelsero per i territori lungo il corso del Niger il nome di Mali, inoltrandosi in un pellegrinaggio ideale alle più profonde radici della storia della regione.

Non a caso Timbuktu, Gao, Djenné e le grandi città mercato del delta interno, conservano nel semplice svolgersi della vita, nelle caratteristiche della pianta urbana, nel carattere degli abitanti, la luminosa eredità dell’antico Mali.

L’odierna Repubblica del Mali copre una vasta frazione dei bacini dei due grandi fiumi dell’Africa occidentale, il Senegal e soprattutto il Niger.

Quest’ultimo attraversa il Mali per 1800 chilometri, asse privilegiato di comunicazione e insediamento, con la grande ansa verso nord che attraversa le sabbie del Sahara.

Il paragone col Nilo è d’obbligo: come il “padre dei fiumi”, il Niger scorre nel deserto, si impaluda in un grande delta interno ed è agitato da rapide fin quasi alla foce.

Come il Nilo, il Niger è stato via di penetrazione commerciale e militare e testimone di grandi civiltà. Dai tempi remoti che videro sorgere il regno di Ghana fino all’epoca attuale, il traffico di genti e merci non ha mai smesso di solcare il fiume. Il Niger riassume in sé la continuità della storia del Mali, dagli splendori passati alle speranze di oggi.

Il Paese può essere sommariamente diviso in tre grandi regioni naturali che corrispondono, in concreto, a due zone climatiche: quella sahariano-saheliana e quella sudanese.

La regione che costeggia il deserto appariva alle carovane che venivano dal Nord come la riva dell’oceano, da cui il nome Sahel (in arabo, letteralmente “sponda”). Una distesa piatta, uniforme, sabbiosa, con precipitazioni torrenziali e irregolari, vegetazione limitata a ciuffi di arbusti spinosi e a qualche acacia. È la terra dei pastori nomadi.

Più a sud, dopo aver lasciato Timbuktu, il Niger si allarga in un immenso delta interno. Un fitto reticolo di canali, affluenti e stagni è quel che resta di un vasto lago, prosciugatosi alcune migliaia di anni fa. La vegetazione è più rigogliosa, la terra fertile: gli arabi chiamarono questa regione, dall’Atlantico al Nilo, Bilad el-Sudan, la Terra dei Neri.

Il Sudan, sufficientemente irrorato dalle piogge, è adatto all’agricoltura e l’abbondanza dei raccolti permise l’insediamento sedentario di popolazioni urbane numerose e attive.

Fu proprio nelle città del delta interno che si sviluppò una nuova e originale dimensione di civiltà, legata a doppio filo al grande commercio carovaniero attraverso il Sahara.

L’oggetto principale di questo traffico era l’oro, estratto in notevoli quantità nelle regioni di Bouré e Bambouk e scambiato con sale, tessuti e rame. Il monopolio del commercio dell’oro fu uno dei fondamenti dello sviluppo dei regni di Ghana, Mali e Songhai.

I documenti commerciali, fortunosamente conservati negli archivi del Cairo, ci danno prova di come le monarchie lungo il Niger fossero inserite nel gigantesco sistema commerciale che, facendo perno sull’Egitto, si estese dopo l’anno Mille dalla Spagna alla Cina.

A riprova di questa tesi, ecco cosa scrive un mercante egiziano dell’ epoca a un suo socio e corrispondente al Cairo.

Sono appena giunto da Almeria in Spagna. Il vostro collega in affari della marocchina Fez mi ha mandato qui un lingotto d’oro, certamente proveniente dal Sudan, per comprare seta spagnola per voi. Ma non credo sia una buona idea, e vi mando invece l’oro. Al tempo stesso un amico del vostro collega d’affari mi ha consegnato una certa quantità di ambra grigia che vi mando sempre per questo mezzo. Vuole che gli mandiate cinque fiaschi di muschio per lo stesso valore. Vendete per piacere l’ambra grigia e comprate il muschio perché devo spedirlo subito.

Questa piccola operazione commerciale amichevole riguardava ambra grigia dall’Africa tropicale, muschio dall’Asia e oro proveniente dai mercati di Djenné e Timbuktu.

I compartimenti in cui si svilupparono i regni sudanesi non erano poi così stagni come si tende a credere. Le mappe commerciali dell’epoca danno forma a un quadro di viaggi sicuri e regolari, un commercio continuativo che faceva largo uso del credito a lunga scadenza e la cui rete garantiva la costante distribuzione di merci su distanze incredibili per l’epoca.

Ma che tipo di civiltà esprimevano questi sistemi monarchici? Quale potere rappresentavano i mansa del Mali? Nonostante le frequenti guerre di conquista, l’ordine sociale e politico non era mantenuto con la forza delle armi. L’autorità del re era rituale, di diritto e non di fatto. La figura del mansa garantiva l’armonia della società con le tradizioni e gli antenati, incarnava il bene materiale e spirituale del proprio popolo. La letteratura araba del tempo formicola di aneddoti e descrizioni ma poco ci dice sulla natura di questi regni e sulla loro origine.

Le prime tracce di un’istituzione di governo, facente capo a una dinastia, possono ravvisarsi già nel regno di Ghana, dalla metà del primo millennio della nostra epoca.

In pratica, la nascita delle monarchie nell’Africa occidentale subsahariana segue una cronologia parallela a quella dell’Europa anglosassone e francese. La penetrazione commerciale e culturale dell’islam a sud del Sahara, contribuì ad accelerare e modellare la trasformazione della discendenza in dinastia, del consiglio degli anziani in governo.

Il controllo del traffico commerciale, il grande volume e valore delle merci che affluivano ai mercati, la crescente domanda di oro, esigevano apparati di gestione più complessi e articolati. Il commercio inoltre stimolò una produzione di beni voluttuari, o comunque superiori alla stretta necessità, e si formarono nuove caste di artigiani e mediatori.

Nasce a questo punto la necessità di un controllo centralizzato che garantisca la sicurezza, diriga le specializzazioni e protegga l’integrità della stirpe nel contatto con nuove civiltà.

Le origini del regno del Mali hanno a che fare più con la leggenda che con la storia. L’accentrarsi del potere nelle mani del clan Keita, dietro l’aneddotica e la magia, è l’esempio storico di questo processo. Nel 1076 il regno di Ghana, saccheggiato dagli Almoravidi, dissolveva la sua fragile identità in un mosaico di domini locali. Tra questi il Sosso, che sotto la guida di Sumanguru, riuscì a conquistare il predominio. Ma il piccolo regno Keita non tardò a reagire e la sua riscossa ebbe in Sundiata un mitico protagonista.

Dopo un lungo periodo di guerra, la battaglia finale tra Sundiata e Sumanguru ebbe luogo sulle rive del Niger, fra le terre dei Sosso e quelle dei Malinké. La vittoria di Sundiata, risultato dei suoi poteri magici, aprì ai successori le porte di un dominio vastissimo: nasceva l’Impero del Mali, la cui struttura doveva essere in qualche modo simile al modello feudale europeo, dove i rapporti di vassallaggio implicavano le relazioni tra i vari lignaggi.

Tra i grandi re del Mali la storia ricorda soprattutto mansa Kankan Musa, autore di un famoso pellegrinaggio alla Mecca. In quell’occasione la quantità di oro immessa sul mercato del Cairo dal re e dal suo seguito fu tale che il prezzo crollò verticalmente e per 12 anni non si ristabilì un indice corretto. Sotto Kankan Musa, il Mali raggiunse il massimo dello splendore. Dal Cairo e da Alessandria una nutrita schiera di poeti, architetti, letterati e medici venne a stabilirsi alle corti di Timbuktu e Djenné. Le grandi città universitarie lungo il Niger divennero poli di attrazione della cultura del tempo, una cultura originale e viva il cui rapporto con l’islam non fu mai di dipendenza, bensì un fecondo scambio di dottrine.

La ricchezza del mansa era favoleggiata come immensa. Il geografo arabo Ibn Battuta soggiornò lungamente alla corte di un successore di Kankan Musa ed ebbe a osservare con stizza che a tanta ricchezza non corrispondeva uguale munificenza.

Accompagnato nei suoi alloggiamenti, in luogo di oro e seta trovò “tre focacce, un pezzo di bue fritto in olio locale e una zucca di latte cagliato acido”. Per un re che governava una terra di “quattro mesi di viaggio in lunghezza e altrettanti in larghezza” era decisamente un po’ poco. Al deluso Ibn Battuta che sognava doni e appannaggi principeschi, sembrò più l’accoglienza tradizionale di un capo tribale che di un principe islamico. Non aveva torto, in effetti in Africa occidentale l’islam fu interpretato in forma del tutto particolare. Di fronte a una classe di notabili e mercanti che osservavano, pur superficialmente, i dettami dell’ortodossia, stava il mondo rurale, tenacemente chiuso nelle sue credenze animiste.

Il declino del Mali fu lento e irreversibile. Le incursioni di Tuareg, Mossi e Fulani si moltiplicarono. Nel 1435 i Tuareg saccheggiarono Timbuktu. A est il nascente impero Songhai conquistò Gao e vi pose la capitale. Il Mali si smembrò in una quantità di piccoli regni e l’egemonia che il regno di Mali aveva esercitato per oltre due secoli sul Sudan si trasferì naturalmente all’impero Songhai. Poi, nel 1594 un corpo di spedizione calò dal Nord e giunse a saccheggiare Gao. Un migliaio di mercenari marocchini e spagnoli, armati di cannoni e fucili, bastarono a sbaragliare le forze del Songhai.

Al posto di quelli che erano stati i grandi imperi dell’Africa occidentale rimase un gruppo di popoli frazionati e divisi, pronti a vendersi l’un l’altro. Il traffico degli schiavi verso le Americhe – nei 250 anni che seguirono – svuotò letteralmente il Sudan del potenziale umano necessario a costituire una società civile. Il clima di terrore e di insicurezza degradò profondamente le strutture sociali e all’autorità legittima si sostituì il potere. Le linee di sviluppo della storia africana furono tagliate alle radici. La schiavitù distrusse la cultura e la civiltà dell’Africa. La ricostruzione di una variante moderna delle grandi civiltà perdute è il grande enigma del futuro africano.

Sven Hedin e i misteri del lago errante

di Paolo Novaresio

 “Da un anno intero io non ho potuto ridere per colpa tua, perché tu mi hai mentito, io non ho avuto nessuna gioia da te, le mie lacrime sono scorse come un fiume. Dio non ha voluto che fossimo amici. Le tue pupille e le tue ciglia sono fra le più belle che esistano”. Sven Anders Hedin

La monotona melodia risuonava da più di un secolo sulle labbra degli abitanti del Lop Nor, il lago errante perduto nel cuore dell’Asia. Sven Hedin, o He-Dani come lo chiamavano gli indigeni, la trascrisse puntualmente nel suo giornale di viaggio. Era l’undici giugno del 1899 e la breve estate continentale concedeva notti tiepide e cieli limpidi.  Hedin era partito un anno prima da Stoccolma per la sua seconda grande spedizione in Asia centrale.

Nel primo viaggio l’esploratore svedese si era addentrato nelle sconosciute distese desertiche del Taklamakan, nel cuore del Turkestan orientale. Inesperto e quasi privo di mezzi, aveva rischiato di morire di sete nel deserto, com’era successo a gran parte dei suoi compagni.

Questa volta invece il suo bagaglio era proporzionato all’impresa: 1130 kg di attrezzature eccellenti, ripartite in ventitré casse e contenenti un letto smontabile, un battello in tela di fabbricazione inglese (pieghevole e così leggero da poter essere trasportato da un uomo solo), quattro macchine fotografiche e un’intera biblioteca. Le due spedizioni compiute da Sven Hedin alla fine dell’Ottocento attraversando i deserti del Taklamakan e di Gobi e l’altopiano del Tibet

Non mancavano gli occhiali da ghiaccio: Hedin ne aveva con sé ben cinquantotto paia. Le scorte di cibo sarebbero state sufficienti per due anni.

Il ricco corredo di strumenti di misurazione dimostrava che il salto di qualità dal tipo di esplorazione classica a quella moderna era ormai un fatto compiuto. Il nuovo esploratore partiva, infatti, con uno scopo ben preciso, volto alla ricerca scientifica: raccogliere e analizzare dati sui territori attraversati.

Il 19 febbraio 1901 Hedin festeggiava il suo trentaseiesimo compleanno in una zona inesplorata del deserto di Gobi. Il giorno prima una tremenda bufera di sabbia aveva cancellato ogni traccia e confuso l’orizzonte delle dune.

Gli uomini esausti vagavano alla ricerca di una sorgente, un punto imprecisato, sperduto chissà dove nel micidiale mare di sabbia.

Ancora un giorno, forse poche ore, e i cammelli, da dodici giorni senz’acqua, avrebbero cominciato a morire l’uno dopo l’altro. E gli uomini non avrebbero tardato a seguire la medesima sorte. Tuttavia quel giorno Hedin ebbe il più bel regalo di compleanno che a suo dire gli fosse mai capitato: improvvisamente uno dei suoi uomini scivolò per caso su un grande ammasso di ghiaccio.

Era la sorgente, gelata dalle temperature polari di fine inverno, che durante la notte raggiungevano i venti gradi sotto zero. Hedin distribuì il ghiaccio triturato ai cammelli e ai cavalli sfiniti: i loro occhi, disse, brillavano di contentezza. Placata la sete, gli uomini scavarono grandi buche che, riempite di brace ardente, vennero poi ricoperte di sabbia. Sdraiandosi sulla terra calda, era possibile strappare qualche ora di sonno al gelo della notte. Su quella antica via carovaniera si era probabilmente avventurato, quasi seicento anni prima, Marco Polo.

Ormai l’oasi di Altimisch Bulak era a poche decine di chilometri ma Hedin piegò verso sud, in direzione dell’antico bacino prosciugato del Lop Nor. Pochi mesi prima, vagando a tentoni in una tempesta di sabbia, uno dei membri della spedizione aveva scoperto per caso le rovine di un antico insediamento urbano. Hedin presumeva che il fortunoso ritrovamento fosse la chiave per svelare i segreti dell’antica città di Loulan, in passato fiorente centro carovaniero sulle sponde del gran lago.

Ben presto gli scavi diedero i primi risultati: monete cinesi, una lampada in rame, un frammento di legno scolpito a forma di pesce (ciò che testimoniava la passata esistenza dell’acqua). Ma non bastava, Hedin era testardo: “Queste rovine io voglio costringerle a parlare e non intendo partirmi di qui a mani vuote”, scrisse nel suo diario. Dalla sabbia emersero i resti di un tempio dedicato a Budda e, infine, la grande scoperta. In una casupola d’argilla, a sessanta centimetri di profondità, Hedin trovò 200 manoscritti e molti bastoncini coperti di caratteri cinesi. Quei pezzetti di carta consumata dal tempo contenevano la spiegazione del mistero del Lop Nor.

I sinologi russi e tedeschi che in seguito li decifrarono, confermarono che l’intuizione di di Hedin era esatta: la città di Loulan era davvero situata sulle sponde del lago. Prima della sua distruzione a causa di un’inondazione, nel IV secolo, la città era un importante centro commerciale dell’impero cinese, in cui confluivano le merci (soprattutto grano) che venivano distribuite per tutta la regione. Hedin si imbatté anche in una ruota, che faceva supporre l’esistenza di una rete carrozzabile. La scoperta era importante non solo dal punto di vista storico, ma anche da quello geofisico, poiché dimostrava le migrazioni del lago errante, il Lop Nor. Hedin fece accurate livellazioni della regione, che era assolutamente piatta: misurato su una distanza di trentadue chilometri, il dislivello non era che 11 centimetri.

Proseguendo l’esplorazione Hedin si trovò ben presto in un vero e proprio labirinto di acque. Il paesaggio era mutato drasticamente, nell’arco di una sola settimana: un nuovo lago di circa 50.000 metri quadrati si era formato per infiltrazione, quasi sotto gli occhi dell’esterrefatto esploratore.

In certi punti l’acqua zampillava fino a un metro di altezza, mista a grosse bolle d’aria. Il lago si stava progressivamente spostando verso nord.

A sud la sponda si prolungava in depositi di fango, sabbia e piante in putrefazione, mentre a nord il forte vento scavava le superfici asciutte, preparando al lago un nuovo letto. Così la vegetazione, la vita animale e gli abitanti seguivano il Lop-Nor in queste sue peregrinazioni periodiche.

“In avvenire sarà possibile determinare la lunghezza del periodo di queste oscillazioni; per ora non sappiamo altro di certo che nell’anno 265, ultimo anno di regno dell’imperatore Yuan Tis, il Lop Nor si trovava nella parte settentrionale del deserto”. Con queste parole Hedin sapeva di aver trasformato una leggenda in una serie di dati scientifici, commensurabili e in certa misura prevedibili. Gli antichi segreti del Lop Nor erano finalmente stati svelati.

L’ultimo saluto del grande lago fu un vero e proprio uragano di sabbia, il temuto kara-buran. Per due giorni Hedin fu costretto a rimanere rinchiuso nella sua yurt, la grande tenda mongola adibita a quartier generale.

Alla tremula luce di una lampada cinese l’esploratore aggiornò il suo diario di viaggio con le nuove eccitanti scoperte. Poi cominciò a organizzare la parte più problematica del viaggio: raggiungere l’altopiano tibetano e penetrare nella misteriosa città santa di Lhasa, preclusa agli stranieri.

Per entrare a Lhasa, Hedin meditava di travestirsi da pellegrino mongolo, con l’aiuto di un autentico Lama incontrato nella città di Urga, che acconsentì ad accompagnare la carovana lungo il pericoloso itinerario. Hedin tentava intanto di imparare il mongolo.

La spedizione lasciò la regione del Lop nel maggio del 1901, in assoluto incognito. Ma Hedin, nonostante la voluminosa pelliccia gialla e le scarpe a punta rialzata, non riuscì a ingannare le sentinelle tibetane.

Fu fermato e rimandato indietro per ordine personale del Dalai Lama.

La marcia per sottrarsi all’autorità tibetana, verso ovest e il Ladak, fu lunga e piena di patimenti. L’esploratore scrisse nei suoi appunti: “Quando verso il tramonto il cielo comincia ad offuscarsi ad oriente, mi pare che la notte voglia stendere il suo velo sopra il paese del Dalai Lama e proteggere con le sue tenebre i misteri che racchiude…”

Nel maggio del 1902 la spedizione arrivò a Kashgar, con la primavera al massimo splendore. Poco più di un mese dopo Hedin rivedeva le coste svedesi. Le sue peregrinazioni erano durate tre anni e tre giorni.

I granelli di sabbia del Gobi, annotò, “ancor oggi cascano dal mio giornale di viaggio”.

Carlo Piaggia, vagabondo del Nilo

di Paolo Novaresio

Chi era Carlo Piaggia? Un esploratore, un cacciatore, un mercante? Certo, tutto questo e anche qualcosa in più. È difficile inquadrare la sua personalità nell’affollata platea degli esploratori del bacino del Nilo.

Sicuramente, come molti altri, Piaggia era spinto da una curiosità divorante per il nuovo, e agitato da un’irrequietezza di fondo che lo trascinava a fuggire dal quotidiano. L’Africa fu per lui la grande occasione di un’esistenza diversa. La semplice e sincera confessione di Joseph Thomson, il viaggiatore scozzese che attraversò le steppe dei Masai fino alla regione dei Grandi Laghi equatoriali, sembra attagliarsi perfettamente alla sua figura: “Sono destinato a essere nomade. Non sono un fondatore di imperi, né un missionario, e neanche un vero scienziato. Voglio solo tornare in Africa per continuare i miei vagabondaggi”.

Carlo Piaggia partì per l’Africa nel 1851, all’età di ventiquattro anni.

Proveniva da una famiglia di contadini di Lucca: era sprovvisto di cultura accademica e scientifica ma in compenso dimostrava un’incredibile versatilità negli affari pratici, che gli consentiva di imparare qualunque lavoro in poco tempo. Nell’ambiente vivace e cosmopolita di Alessandria d’Egitto, Piaggia si trovò perfettamente a suo agio: fece il pescatore di conchiglie nel mar Rosso, il legatore di libri, il cappellaio, il verniciatore, l’armaiolo e altri mestieri diversi.

L’itinerario seguito da Carlo Piaggia per raggiungere da Khartoum le immense regioni del Bahr al-Ghazal dove abitavano i temuti Azande, detti “niam-niam”.

Nel 1856 lo troviamo a Khartoum, in compagnia di un gruppo di mercanti bolognesi e francesi, intento alla caccia dei marabù (le cui piume erano allora esportate in Europa come articolo di lusso). Fu allora che Piaggia scoprì la sua indole di viaggiatore. Lasciò Khartoum e si mise a risalire il corso del Nilo, attraversando le grandi paludi che il fiume forma alla confluenza con il Sobat, e giungendo fino all’avamposto di Gondokoro, dove erano sorte le prime missioni cattoliche. Piaggia vagabondò per ben tre anni su e giù per il fiume, a caccia di elefanti, entrando in diretto contatto con la sordida realtà del traffico degli schiavi.

A ovest del Nilo si estendevano le immense regioni del Bahr al-Ghazal, il Fiume delle Gazzelle, soglia di accesso all’impenetrabile cuore del continente, allora completamente sconosciuto all’Europa (ma non ai mercanti di schiavi musulmani). Le notizie che giungevano ai villaggi lungo il Nilo parlavano di animali misteriosi e popolazioni di cannibali con la coda.

Dai tempi di Erodoto la conoscenza di quelle terre non era progredita di un solo passo. Piaggia tornò in Italia, ma non vi restò a lungo.

Il demone della scoperta lo aveva ormai catturato.

Qualche tempo dopo rieccolo a Khartoum, che allora funzionava come trampolino di lancio per le spedizioni dirette verso l’interno del continente.

Dopo lunghe trattative riuscì ad aggregarsi a una carovana di mercanti di avorio: in cambio della sua guida, una scorta armata lo avrebbe accompagnato fino ai primi villaggi dei temuti Azande, detti “niam-niam” e considerati cannibali (ne abbiamo parlato in Cannibali, leggende e verità).

Prima di partire, in un paio di settimane, aveva raccolto materiale e provviste. Ben poca roba, a quanto risulta: cinquanta chili di biscotti, un po’ di riso, zucchero, caffè, fiammiferi, candele, pochi metri di tela di cotone bianco, filo da cucire e “una piccola tenda da viaggio, una cassetta di ferri per la riparazione delle armi da fuoco, cento libbre di piombo da caccia, palle, un migliaio di capsule, una trentina di scatole di polvere da caccia, i ferri da falegname, un cannocchiale, un termometro e una bussoletta tascabile”.

Il bagaglio di un artigiano più che di un esploratore di terre ignote.

Le popolazioni locali ostacolarono duramente la marcia della colonna, che si salvò a stento da un incendio appiccato dagli indigeni alle erbe della savana. Dopo un mese la carovana arrivò ai limiti del territorio dei famigerati Niam-Niam.

Il comandante dei soldati fece firmare a Piaggia un documentò che lo scaricava di ogni responsabilità e tornò immediatamente indietro.

Piaggia rimase solo e ben presto fu avvicinato dal capo di un vicino villaggio, che lo accolse amichevolmente. Fu alloggiato in una capanna costruita apposta per lui e per le mogli che senz’altro, nella sua posizione, sarebbe stato suo diritto avere.

Piaggia restò fra i “niamniarri”, come li chiamava lui, per più di un anno e mezzo. All’inizio aveva una gran paura di essere mangiato dai suoi ospiti (vedeva ovunque inquietanti segni di antropofagia), poi si tranquillizzò e si tuffò con zelo nella nuova vita. Per ingannare il tempo andava a caccia di uccelli rari per le sue collezioni, discuteva con i fabbri del luogo sui metodi più pratici per lavorare il ferro e costruì con mezzi di fortuna un mulino per macinare le sementi. La novità destò grande entusiasmo nel villaggio, ma pochi giorni dopo il re ordinò di distruggere il macchinario, in quanto invenzione foriera di inquietanti novità, poiché “le donne non sanno più cosa fare, invece di restare nelle capanne vanno nei boschi… e  la donna quando non lavora va in cerca dell’uomo”.

Nel frattempo gli abiti e gli stivali di Piaggia erano andati a brandelli e l’esploratore dovette  adattarsi a vestire di pelli e a camminare con sandali di cuoio di bufalo da lui stesso confezionati. Intanto, giorno dopo giorno, Piaggia annotava sul suo taccuino tutto ciò che vedeva, disegnando come gli riusciva sagome di capanne, pipe, scudi e utensili. Forse le sue descrizioni dei Niam-Niam appaiono oggi ingenue e imprecise, prive di metodo scientifico, ma restano comunque una testimonianza importante per l’atteggiamento di rispetto e simpatia che ne guida lo stile.

Era la prima volta che un viaggiatore bianco si adattava per così lungo tempo, in totale isolamento dal mondo esterno, ad affrontare la vita quotidiana e i problemi di un popolo considerato primitivo. Gli appunti di Piaggia furono largamente sfruttati dall’esploratore baltico Schweinfurth, che si recò pochi anni dopo in quelle regioni. L’opera di Schweinfurth, intitolata “Nel cuore dell’Africa”, ebbe un grande e immediato successo editoriale.

Invece Carlo Piaggia, poco istruito e incapace di bella letteratura, non riuscì mai a far pubblicare i suoi voluminosi manoscritti.

Eppure Piaggia fu, più di altri, cronista attento e acuto: dei Niam-Niam annotò le tecniche dì estrazione del ferro e di fusione del minerale in forni di terra cruda, le usanze alimentari, le relazioni sociali e le pratiche religiose, descrivendo anche la fauna della zona e le caratteristiche del territorio (la definizione “foresta a galleria” è di sua invenzione). I suoi rapporti con gli africani furono sempre ottimi.

Il ritorno con la carovana dei mercanti fu un disastro: i soldati razziavano e uccidevano uomini, donne e bambini, lasciandosi dietro terra bruciata.

Infine, sulla via di Khartoum, la barca di Piaggia naufragò nel Nilo: alcuni uomini furono divorati dai coccodrilli e molte delle collezioni ornitologiche e parte degli appunti andarono irrimediabilmente perduti.

Dopo un breve soggiorno in Italia, Piaggia tornò per l’ultima volta in Africa, deciso a proseguire i suoi viaggi nell’interno. Poche cose colpiscono il viaggiatore africano come il baobab, che con la sua mole gigantesca e contorta si erge ìn mezzo alle distese di erba gialla che· si prolungano all’infinito verso l’orizzonte. Sotto uno di quegli alberi maestosi, chissà dove, giace ancor oggi Carlo Piaggia, morto di febbri sulla pista che dalle pianure del Sudan meridionale corre verso le montagne etiopiche e le gole del Nilo Azzurro.

Cercando l’Australia

di Paolo Novaresio

 «Vi è ragione di ritenere che un continente molto esteso possa trovarsi a sud della rotta seguita recentemente dal capitano Wallis…». Il messaggio, tradotto in linguaggio burocratico, era scritto su un plico sigillato, che fu consegnato in via riservata al capitano Cook. L’Australia. Tra i pochi grandi miti geografici scampati al razionalismo tagliente dell’età dei Lumi, la Terra Australis conservava un posto di prestigio.

James Cook, nato in Inghilterra nel 1728, animato da una prepotente vocazione per gli oceani inesplorati, partì per il primo dei suoi tre viaggi di scoperta nel 1768, finanziato dalla Royal Geographic Society.

A sua disposizione: cento tra marinai e soldati di equipaggio, un gruppo di astronomi per studiare il passaggio di Venere sul disco solare previsto a Tahiti, due botanici, pittori e cartografi per rilevare le eventuali nuove terre scoperte, destinate a popolare le cartine geografiche dell’epoca.

La nave si chiamava  “Endeavour”, cioè Tentativo, ed era una carboniera di 368 tonnellate di stazza, ristrutturata e perfettamente attrezzata per le attività di ricerca ed esplorazione. Il compito di Cook era racchiuso nelle sommarie indicazioni che il capitano aveva ricevuto dall’Ammiragliato: navigare verso sud, fino al 40° parallelo, poi puntare a ovest.

E tenere gli occhi aperti, perché laggiù, forse, si sarebbe trovata l’Australia.

La prima tappa di Cook fu Tahiti, allora tappa d’obbligo per i navigatori del Pacifico. Grossa isola dagli attracchi sicuri, benedetta dalla natura e sognata dall’Europa esotizzante, che amava il “buon selvaggio” e leggeva avidamente Rousseau.

Tahiti fu circumnavigata in barca e battuta palmo a palmo a piedi da Cook e dai suoi uomini, che con centinaia di schizzi e acquerelli ne disegnarono l’intero profilo, la costa e i porti naturali. Ogni aspetto della vita dei tahitiani fu accuratamente studiato, secondo i canoni puntigliosi dettati dagli scienziati illuministi e con tutto il rispetto che l’Europa del settecento poteva garantire a una cultura non europea.

Joseph Banks, il futuro presidente della Royal Geographic Society, che aveva voluto a tutti i costi partecipare all’impresa, annotò meticolose descrizioni del regime alimentare delle popolazioni locali, che mangiavano frutti dell’albero del pane, pesce, qualche maiale, banane, frutti selvatici e cucinavano la carne di cane in rudimentali forni di pietra: “Il cane del mare del Sud”, annotò impassibile Banks, “ha un gusto buono quasi quanto quello dell’agnello inglese; e a suo vantaggio si deve dire che vive quasi interamente di verdure; probabilmente i nostri cani non avrebbero un sapore così buono”. A Tahiti c’erano anche oche e tacchini, probabile eredità della spedizione inglese di un anno prima.

Mentre Banks si occupava della gastronomia locale, Cook spendeva le proprie energie nel tentativo di rendere meno traumatica e invadente possibile la sua presenza sull’isola. Tanto per cominciare, vietò immediatamente al suo equipaggio di barattare con gli indigeni oggetti di ferro.

La nave di Wallis, infatti, durante la precedente sosta a Tahiti, aveva rischiato di affondare perché in un mese i marinai avevano clandestinamente estratto tanti chiodi di ferro da compromettere lo scafo: dato che a Tahiti bastava un chiodo per ottenere qualunque cosa, comprese le ragazze dell’isola, la minaccia era più che reale.

Cook cercò anche di premunirsi contrò i furti, per i quali i tahitiani mostravano un’insistente inclinazione e un’abilità tale “da coprire di vergogna il miglior tagliaborse d’Europa”.

Nel frattempo il gruppo di scienziati a bordo non perdeva tempo: furono studiate le canoe, le lenze da pesca e le stoffe degli indigeni, ricavate da fibre vegetali con risultati giudicati da tutti sorprendenti.

Cook fece incetta di grandi scorte di viveri freschi, per variare la dieta dei marinai durante la navigazione.

Prima di lasciare l’Inghilterra, con singolare lungimiranza per l’epoca, alla carne salata e ai biscotti, il capitano aveva aggiunto crauti e minestra in tavolette, senza esitare a ricorrere a punizioni corporali per chi rifiutava le razioni.

In virtù di questa saggia politica alimentare, a differenza di quasi tutti gli equipaggi impegnati in lunghe traversate marine, gli uomini non si ammalarono di scorbuto. In compenso, metà di loro prese la sifilide mentre la nave era ferma a Tahiti.

Come il capitano ebbe cura di precisare, la malattia era stata portata sull’isola da spedizioni precedenti.  Il paradiso in Terra aveva subito la prima, fatale corruzione.

L’Endeavour lasciò Tahiti dopo qualche mese di esplorazioni e di osservazioni astronomiche, avventurandosi verso la costa ovest della Nuova Zelanda.

I paradisi polinesiani erano ormai un altro mondo: in Nuova Zelanda la spedizione fu accolta dalle canoe da guerra degli indigeni maori, da cui dovette difendersi facendo uso delle armi da fuoco.

I rilevamenti si fecero difficili e pericolosi, ma Cook riuscì a circumnavigare interamente la nuova terra, dimostrando che si trattava di due isole e non di una sola, come si credeva.

Il momento cruciale era giunto. Non restava che eseguire gli ordini segreti dell’Ammiragliato. Cook si inoltrò nell’oceano verso occidente.

Senza saperlo, stava per entrare in uno dei tratti di mare più pericolosi del mondo: il labirinto di secche e bassifondi della Grande Barriera corallina australiana. L’Endeavour si incagliò nelle rocce madreporiche, rischiando di affondare.

Il capitano la pilotò faticosamente fino alla sconosciuta costa orientale dell’Australia, poco più a sud di dove oggi si trova Sydney.

La costa est del nuovo continente fu rilevata con una precisione senza precedenti, collezionando una serie di osservazioni e dati che sono ancora oggi validi.

Riparata la nave e ripreso il mare, dopo due mesi di navigazione Cook riuscì a raggiungere il possedimento olandese di Batavia (Giava).

E infine, dopo più di tre anni di viaggio, a missione compiuta, l’Endeavour giunse in vista delle coste inglesi.

James Cook sarebbe salpato ancora due volte, per circumnavigare l’Antartide e poi per esplorare le coste dell’America Settentrionale fino allo stretto di Bering. Non furono i rischi e gli imprevisti della navigazione a sorprenderlo. Per uno strano gioco del destino, morì proprio per mano di quei “buoni selvaggi” che tanto amava e rispettava: fu ucciso alle isole Hawaii il 14 febbraio del 1779.

Alexander von Humboldt

di Paolo Novaresio

L‘uomo bianco faceva sempre domande, qualunque cosa vedesse. Raccoglieva testimonianze e scriveva, scriveva. Al ritorno avrebbe svelato all’Europa i segreti affascinanti della natura equatoriale del Nuovo Mondo. Quella notte, però, il 6 aprile 1800, vinse lo stupore. La luna illuminava la sommità di Tepu-Mereme, la “roccia dipinta”, rivestendola di un’aurea surreale. Chi mai aveva potuto tracciare quei segni sui massi di granito che emergono dal fitto della vegetazione soffocante dell’alto Orinoco? Figure di corpi celesti, serpenti e coccodrilli erano scolpiti su strapiombi irraggiungibili. Furono gli indios Tamanac a spiegare sorridendo allo straniero bianco che all’epoca delle Grandi Acque i loro padri arrivavano fino a quell’altezza in canoa. Lo straniero si chiamava Friedrich Heinrich Alexander, barone von Humboldt.

Nato a Berlino, età anni 28, altezza metri 1.70, capelli bruno-chiari, occhi grigi, grande naso, fronte aperta segnata da cicatrici di vaiolo… viaggia per acquisizione di sapienza”. Così recita e lo descrive il passaporto francese, ottenuto pochi anni prima a Parigi, capitale scientifica e intellettuale del tempo e sua patria d’adozione.

Oggi il mondo ha quasi dimenticato la grande opera di Humboldt, il progetto di sistemazione organica del sapere geografico, basata su una strategia generale dello studio della natura. Ma allora, al ritorno dal grande viaggio nel Nuovo Mondo, Humboldt era uno degli uomini più famosi e stimati d’Europa. Moltissimi i luoghi che portano tutt’oggi il suo nome: più di quelli dedicati a qualunque altro scienziato ed esploratore. Quattordici città negli Stati Uniti, una in Canada. Montagne in Australia, Antartide, Nuova Zelanda. La grande corrente fredda al largo delle coste peruviane. Il più esteso ghiacciaio della Groenlandia e uno dei mari sulla superficie della luna.

Neppure un monumento, invece, a Cumaná, la sonnolenta cittadina del Venezuela dove Humboldt sbarcò insieme al botanico Aimé Bonpland per intraprendere il più grande viaggio privato della storia. Eppure Cumaná, dove avvenne il primo incontro di Humboldt con la natura equatoriale lungamente sognata, fu forse il più amato dallo scienziato prussiano, che non scordò mai quel luogo: “Cumaná e la sua terra polverosa si riaffacciano ancor oggi nella mia mente, più sovente di tutti i meravigliosi scenari delle Cordigliere”.

Dopo sei anni di studio e di preparazione, e molti tentativi infruttuosi, il giovane scienziato poteva finalmente contemplare il cielo tropicale, ricco di meteore e stelle cadenti: per gli indios nient’altro che i riflessi delle pietre d’argento del leggendario lago Parima. Da Cumaná la spedizione si addentrò nei llanos, le desolate praterie che si stendono tra la costa e l’Orinoco.

Il caldo torrido, con temperature fino ai 50° (Humboldt riempì il cappello di foglie per avere un po’ di sollievo), l’orizzonte infinito e polveroso, confuso dai miraggi, misero a dura prova la resistenza dei viaggiatori. Dopo la stagione delle piogge, che trasformavano i llanos in un immenso acquitrino, erano rimaste grandi pozze fangose. Qui Humboldt ebbe modo di studiare una delle più stupefacenti creature del Nuovo Mondo, l’anguilla elettrica dell’Amazzoni, che può dare scosse fino a 650 volt, sufficienti a stordire e uccidere un uomo. Per catturarle vive senza pericolo gli indios fecero entrare a forza un branco di cavalli nell’acqua. Alcuni, terrorizzati e storditi dalle scosse elettriche, annegarono, ma cinque grosse anguille furono catturate vive. Humboldt le studiò accuratamente, sperimentando suo malgrado la loro potenza elettrogena.

Superati i llanos, la spedizione raggiunse il Rio Apure, uno dei primi affluenti dell’Orinoco. La guida di Humboldt, nel dedalo di corsi d’acqua della foresta amazzonia, fu un frate francescano spagnolo, abituato da anni alla vita nella giungla. Padre Bernardo Zea condusse i due scienziati a una delle poche spiagge dell’Orinoco dove deponevano le uova le grandi tartarughe note in loco come arrau. Dalle uova, mediante bollitura, gli indios ricavavano un olio limpido e di ottimo sapore. Humboldt calcolò che su quella sola spiaggia si radunavano a deporre le uova almeno 330.000 tartarughe.

Il viaggio procedeva verso l’interno, lungo il corso dell’Orinoco. La navigazione era resa penosa dal crudele tormento degli insetti, soprattutto sciami di zanzare, le cui punture provocavano ferite dolorose e infezioni. Poco più avanti si stendevano le pericolose rapide di Maypures e Atures, lunghe più di quaranta miglia. Un labirinto di acque spumeggianti fra i massi di granito. Per superare l’ostacolo fu approntata una canoa più piccola, sulla quale fu stipato tutto il materiale scientifico, i bagagli, gli erbari e le gabbie con le scimmie e gli uccelli. “Oltre le Grandi Cateratte inizia una terra sconosciuta”, scrisse Humboldt, “il paese delle favole e delle visioni fantastiche”. E aldilà delle montagne la tradizione poneva i miti dell’Eldorado e del lago di Parima. Dopo tre secoli dalla scoperta la conoscenza geografica della regione non era quasi per nulla progredita.

A un certo punto Humboldt lasciò l’Orinoco per un piccolo affluente che seguì fino a trovarsi a dieci miglia dal Rio Negro, il più grande tributario del Rio delle Amazzoni. La canoa e i bagagli furono trascinati a braccia attraverso la foresta fino al fiume. Le acque del Rio Negro erano limpide e fresche. In pochi giorni la spedizione raggiunse il Casiquiare, un canale naturale che collega i due grandi sistemi fluviali dell’Amazzonia, il bacino dell’Orinoco e quello dell’Amazzoni.

 Le due settimane di navigazione sul Casiquiare, il cui corso era praticamente inesplorato, furono le peggiori di tutto il viaggio. Il cielo era sempre coperto di nuvole, notte e giorno. La foresta, alta e impenetrabile, chiudeva il fiume in una morsa verde. I due scienziati erano costretti a dormire sulla piroga, già carica all’inverosimile. È difficile immaginare la difficoltà di procedere in quell’ambiente ostile trascinandosi dietro bagagli, attrezzature, il carico di campioni botanici e 14 uccelli e 11 mammiferi vivi,  con un equipaggio di nove persone stipato in uno spazio ristretto. La foresta era tanto umida da rendere impossibile accendere un fuoco. E non offriva cibo: Humboldt fu costretto a mangiare semi di cacao crudi e, una volta, un ignobile pasticcio di formiche. Una notte un giaguaro si portò via, senza il minimo rumore, il grosso mastino che faceva la guardia al centro del campo. Infine la biforcazione dell’Orinoco fu raggiunta.

Dalle carte geografiche spariva il lago Parima ed entrava, accuratamente rilevato, il Casiquiare. Il villaggio semiabbandonato di Esmeralda era l’unico luogo abitato della regione. Qui Humboldt vide preparare il curaro, il letale veleno estratto dalla corteccia della liana Strychnos. Un uomo colpito da una freccia avvelenata moriva in poco più di dieci minuti. Da Esmeralda la spedizione decise di tornare indietro fino a Cumaná.

Il viaggio però non era ancora terminato. Humboldt si recò di nuovo a Cuba, poi attraversò la Cordigliera andina dalla Colombia al Perù. Da Lima, passando per il Messico, fece ritorno in Europa nel 1804, dopo cinque anni di assenza.

 

L’ultimo lago

di Paolo Novaresio

Il conte Teleki von Szeck era un nobile asburgico di rango: bon vivant, piuttosto bene in carne (gli africani lo chiamavano Bwana Tumbo, il “Signor Pancia”), di carattere socievole e buon conversatore. Celibe fino alla fine dei suoi giorni, spese la propria vita tra occasioni mondane, impegni politici, battute di caccia e viaggi. Era immensamente ricco. Benché buon scrittore, come testimoniano le sue lettere al principe Rodolfo, non scrisse una sola riga sul viaggio che lo rese famoso, probabilmente per pura indolenza.

La molla che fece scattare il desiderio di un viaggio in Africa non fu certo spinta dalla brama di gloria: Teleki era restio ad assumersi impegni troppo gravosi e voleva semplicemente divertirsi, collezionando trofei di caccia. La regione del lago Tanganyka, sua prima meta, era già selvaggia a sufficienza per i suoi scopi.

Fu quasi a malincuore che cedette ai consigli del suo illustre amico, il principe Rodolfo d’Asburgo: trasformare una battuta di caccia in un viaggio di scoperta verso terre ancora sconosciute. Come compagno di viaggio e suo luogotenente il conte scelse Ludwig von Hönhel, uno sconosciuto ufficiale di marina.

Teleki era l’aristocratico e lo sponsor, di carattere brillante e determinato, ai limiti della testardaggine. Von Hönhel aveva origini modeste, era un appassionato lettore di libri di viaggio e sognava da sempre l’avventura africana: Teleki gli stava offrendo la più grande occasione della sua vita.

Nonostante le differenze di estrazione sociale e di carattere, i due divennero amici: in ogni caso il loro accordo fu sempre perfetto, poiché la gerarchia imponeva a von Hönhel il ruolo di subalterno. Il loro viaggio, concluso con la scoperta del grande lago battezzato Rodolfo (oggi Lago Turkana), segna il distacco tra la grande epoca dell’esplorazione africana e la modernità.

IL VIAGGIO

Nell’ottobre del 1886 von Honel giunse a Zanzibar per predisporre la logistica e assumere le famose guide locali Jumbe Kimemeta e Qualla Idris. Teleki partì da Pangani, sulla costa dell’odierna Tanzania. La spedizione, equipaggiata con circa trecento armi da fuoco, contava oltre 670 effettivi ed era così composta: 450 portatori, 200 Zanzibariti (con compiti più specializzati), 9 guide, 9 soldati e 7 asinai. Inoltre seguivano il corteo 25 asini, una mandria di 21 vacche e 60 tra pecore e capre.

Per trovare i fondi per l’impresa Teleki vendette una grossa proprietà terriera e un diamante di grande valore storico, già appartenuto ai suoi antenati.

Le spese complessive ammontarono a 130.000 Corone, equivalenti in valore a 40 chilogrammi d’oro (ovvero, alla quotazione attuale, 1.600.000 Euro).

IL MATERIALE

Oltre al materiale da campo, agli effetti personali e alle scorte di viveri, nel bagaglio della classica spedizione ottocentesca in Africa figuravano stoffe, fili metallici, perline di vetro a altri articoli usati come doni e merci di scambio durante il percorso. Teleki ne acquistò quantità inverosimili, tanto che questa voce costituiva oltre la metà del carico al seguito della spedizione.

Ecco una lista sommaria degli articoli destinati ad accattivarsi la simpatia degli indigeni:

600 pezze di cotone bianco merikani (circa 18 chilometri di stoffa)

250 pezze di cotonina indiana blu scuro (7 metri l’una per un totale di 1750 metri)

100 pezze di tessuto rosso vivo bendera assilia (28 metri l’una per un totale di 2800 metri) varie pezze di tessuto di prima e seconda qualità di manifattura araba

perline maasai (da 1/12 a 1/8 di pollice di diametro) di colore rosso, blu, bianco, 2285 kg.

perline Parigi del diametro di un pisello

perline bianche comuni

anelli di vetro (murtinarok) verde, blu, marrone chiaro, circa 1/2  pollice

perline rosso chiaro e blu turchese per la gente del Kilimanjaro

una quantità di grosse perline assortite (mboro)

perline marrone chiaro, blu, bianche (dette perline orientali, introdotte da poco nel commercio dalla casa Filonardi)

filo di ferro (1/5 di pollice), circa 3500 chili

filo d’ottone e rame robusto, 525 chili

406 chili di polvere da sparo (in piccole casse da 11 libbre l’una)

molte migliaia di capsule per fucili ad avancarica

stagno

piombo

filo di ferro fine

conchiglie cauri (Cyprae moneta)

coltelli

occhiali

libri illustrati

marionette

filo dorato

braccialetti e anelli

pugnali

sciabole da marina e cavalleria

vari altri articoli.

Qualche giorno dopo la partenza gli esploratori cercarono di stilare un inventario, assegnando ad ogni portatore il suo fardello, pari a circa 35 chilogrammi.

Dal diario di Ludwig von Hönhel:

“Allora iniziammo ad occuparci della revisione dell’equipaggiamento della spedizione, accatastato in un mucchio talmente consistente nel mezzo dell’accampamento da impedire l’accesso alle nostre tende.

Avevamo:

  • tende, tavoli, sedie, letti, valige piene di vestiti, strumenti, etc.: 65 ca richi
  • armi e munizioni: 35 carichi
  • articoli di uso quotidiano (sapone, tabacco, zucchero, tè, caffè, etc.): 44 carichi
  • equipaggiamento per guadare fiumi e paludi (cavi robusti): 2 carichi
  • medicine, bendaggi, filtri: 3 carichi
  • razzi ed esplosivi: 2 carichi
  • alcool: 1 carico
  • materiale per illuminazione: 3 carichi
  • seghe da legna, pale, asce: 4 carichi
  • utensili, ricambi, corde: 3 carichi
  • lubrificanti per fucili, etc.: 1 carico
  • riso: 5 carichi
  • cognac, vino, aceto: 4 carichi
  • imballaggi: 2 carichi
  • stoffe: 90 carichi
  • fili metallici: 80 carichi
  • cauri, catenelle di metallo, etc.: 5 carichi
  • moneta di rame(per la zona costiera): 3 carichi
  • battello smontabile in 6 parti di metallo, battello smontabile in 2 parti di tela: 22 carichi

Totale  470 carichi

Teleki e von Hönhel raggiunsero il lago Turkana il 5 marzo del 1888, un anno dopo la partenza da Zanzibar. Durante il percorso la spedizione perse oltre i due terzi dei componenti, fuggiti col proprio carico o uccisi in combattimento con tribù ostili. Teleki perse nel viaggio circa 30 chili del proprio peso.

Sulle carte geografiche dell’Africa scompare l’ultimo Ignoto.

Comincia la spartizione coloniale del continente.

 

Il viaggio al Tibet di Padre Cassiano Beligatti

di David P. Gelman

1738-1745. Portavano la parola e l’evangelo del Cristo in capo al mondo, patendo umiliazioni, difficoltà, soprusi. Non hanno avuto troppo successo visto che si sono trovati dinanzi la diffidenza e poi l’aperta ostilità dei religiosi di Lhasa.

Trecendo anni fa i monaci cappuccini giunsero in Tibet, impegnati nella paziente quanto indefessa opera di diffusione del cattolicesimo, senza tuttavia tentare di imporlo o di prevaricare.Tra loro padre Cassiano Beligatti.

Il suo Viaggio al Tibet, pubblicato da Edizioni Il Polifilo (www.ilpolifilo.it) ci appare oggi come  un autentico viaggio nel tempo, caratterizzato da un’insolita franchezza e modestia. Lo sguardo di padre Beligatti è privo di supponenza e pregiudizi: lo spirito di osservazione è quello del vero reporter.

Il suo giornale di viaggio coglie l’essenziale, portandoci alle soglie di un luogo in cui la spiritualità e la divinità ordinano e presiedono il mondo. Per questo il Viaggio al Tibet è un libro importante e ancora attuale.

Noi, profani e improvvisati viaggiatori, non possiamo che avvertire un’eco lontana, seppur consistente, di quel mondo. Anche noi ci siamo recati in quei luoghi, pur senza raggiungere Lhasa, la meta finale. Ci siamo andati assai più comodamente, atterrando sulla coda di un monsone, all’aeroporto di Katmandu. E non abbiamo animo di chiamare la nostra: avventura, se paragonata con quella di padre Beligatti. Trecento anni fa i monaci cappuccini, e oggi noi. Cos’è cambiato in quei luoghi? Tutto e niente.

L’uomo moderno ha il privilegio di entrare e uscire da quel mondo misterioso, che la leggenda narrava abitato da giganteschi serpenti. Un mondo in cui tutto parla di pace, armonia, tolleranza. L’atmosfera che immediatamente avvolge il viaggiatore è preludio a percorsi dello spirito che possono segnare l’esistenza. O più semplicemente rendersi indimenticabili.

In quei luoghi, per ciò che abbiamo visto e avvertito, curiosando fra templi, statue di pietra e divinità di ogni sorta, aleggia una spiritualità diffusa, percepibile, autentica e condivisa dalla gente. Il medioevo asiatico laggiù è ancora di casa.

Ma torniamo al Viaggio al Tibet e al suo autore. Chi era padre Beligatti? In verità della sua vita si hanno scarse notizie. Nacque e morì a Macerata (1708-1785)  e nel 1725 vestì l’abito religioso. Nel 1738 partì per la missione in Tibet e vi rimase due anni, quindi passò in Nepal e nel Bengala. Operoso e modesto, autore di fondamentali opere storiche ed etnografiche riguardanti gli usi, i costumi e le religioni dei territori che lo videro missionario, Beligatti scrisse anche un Alphabetum Tibetanum e due grammatiche: una della lingua indostana, l’altra dell’idioma sanscrito in caratteri malabarici. Diverse altre sue opere, in parte ancora inedite, si conservano nella Biblioteca comunale Mozzi Borgetti di Macerata.

Dell’indimenticabile reportage di padre Beligatti, riportiamo, senza commentarli, alcuni brani.

A pagina 18

… Provvisti dell’occorrente i missionari partirono, e dopo un lungo e dificile viaggio arrivarono a Lhasa nel gennaio del 1741. Fu lor fatta buona accoglienza, specialmente dal re, e, dopo aver appresa la lingua del paese, si dettero a predicare, ma con frutti piuttosto scarsi. Ben presto poi i religiosi tibetani cominciarono a veder di malocchio il favore che i missionari godevano presso il re. Nacque fermento che andò man mano crescendo finché un bel giorno parecchie centinaia, di preti buddhisti, raccoltisi dai vari conventi di Lhasa e dei dintorni, invasero il palazzo reale, e rimproverarono al re il suo contegno. Questi, atterrito, temendo di fare la fine dei suoi tre predecessori, uccisi appunto per odio dei lama, dichiarò ipso facto i padri decaduti dalla sua grazia; impose loro di non predicare nel Tibet se non ai mercanti venuti di fuori…

A pagina 23

… I missionari… si posero in cammino alla spicciolata per raccogliersi poi tutti al porto di Lorient, che doveva essere il luogo d’imbarco… il viaggio attraverso la Francia. Compiuto sempre a piedi, fu assai molesto e malagevole; i frati patirono spesso la fame, e dovettero perlopiù adattarsi a dormire nelle stalle, perché ben di rado i conventi li ospitavano, ma con mille pretesti li mandavano altrove, ed essi erano sempre scherniti, insultati e fatti segno a mille scherzi grossolani…

A pagina 31

… Traversato il fiume Bagmati entrarono in Nepal, e valicata un’alta montagna trovarono il fiume Kakokù, che dovettero passare a guado 9 volte, e viaggiando in mezzo a foreste di pini e d’ippocastani, dopo essre passati per il castello di Kuà giunsero il 6 febbario a Bahagdaon, capitale del regno del medesimo nome, dove da qualche tempo i cappuccini avevano un ospizio. Furono bene accolti dal re e trattati con somma famigliarità, e il Beligatti s’intrattiene a parlare delle prove ricevute della benevolenza regale…

A pagina 33

… La città di Bhagdaon numera 12.000 famiglie. Le genti sono cortesi e affabili: la religione dominante è quella dei brahmani; …La città di Kathmandu conta 18.000 famiglie, e la città di Patan ne conta 24.000…  

A pagina 48

… Il satu non è altro che la farina dell’orzo mondo alquanto abbrustolito prima di macinarlo nelle macinette a mano. La carne è molto abbondante nel Tibet avendo quantità di montoni voltati, e macellando ancora lo yak, specie di bove selvatico; ma fuori dei benestanti non ne fanno grand’uso, per mancanza di legna per cuocerla, la qual mancanza sia stata la cagione dell’uso ch’anno gli tibetani di mangiare la carne cruda…

A pagina 73

… Il giorno del Santo Natale, avemmo la consolazione di dire una messa per ciascuno… che ci recò singolare consolazione. Questo stesso giorno il padre prefetto volle regalarci una pozione, che sogliono fare gli religiosi del Tibet nei tempi più freddi, qual pozione chiamano condè; è composta di decozione di tè, di birra, di zucchero, latte, e un poco di butirro insieme lungamente bollito; lo bevemmo più per compiacere il buon vecchio, che per inclinazione, ma sia lui che la più parte di noi, ne trovammo l’utile di scaricare gli nostri stomachi delle flemme ammassatevi nel viaggio. Dopo il mezzogiorno fummo rammaricati per un accidente che accorse. Gli mulattieri lasciarono alla campagna tutte le loro bestie,quali entrarono a pascolare in un prato riserbato, per lo che furono tutte confiscate…

A pagina 76

… Due giorni prima che noi arrivassimo al lago, la lamessa era partita per Lhasa. Gli tibetani hanno per questa lamessa la stessa venerazione che hanno per il Gran Lama, credendola informata da uno spirito di Cianciub…. Quando esce va sempre sotto baldacchino e è preceduta da due incensieri fermati sopra due muli ne quali gli religiosi brugiano continuamente profumi. Vive celibe facendo voto di castità; ciononostante circa 5 anni prima del nostro arrivo sortì da essa una lamessina, quale per quante diligenze che usarono, pure non poterono impedire che non si rendesse pubblica, lo che raffreddò un poco la venerazione…

Il milanese che valicò le Ande

Vita di Antonio Raimondi,  l’esploratore e cartografo ottocentesco divenuto eroe in Perù

di Marco Boscolo

 Un paese che si libera dal peso del colonizzatore straniero ha la necessità di scrivere la propria storia e di celebrare i costruttori del nuovo Stato. Servono a questo le liturgie pubbliche, i libri e i monumenti. Come le tombe di pietra e marmo che dall’inizio dell’Ottocento raccontano la storia della Repubblica peruviana nel cimitero intitolato al Presbítero Matías Maestro di Lima. Tra i 766 mausolei ce n’è uno che colpisce il visitatore italiano più attento. È quello dove riposa un milanese che ha lasciato l’Italia del Risorgimento per esplorare un “paradiso tropicale” ancora sostanzialmente ignoto e diventare il primo cartografo del nuovo Perù. Il suo nome è Antonio Raimondi e per capire perché oggi è celebrato come un eroe nazionale, con scuole intitolate a suo nome in ogni angolo della cordigliera peruviana, non c’è occasione migliore della mostra che il Museo delle Culture di Milano gli ha dedicato.

La storia di Antonio Raimondi comincia veramente a due passi dalla madunina. Nasce infatti il 19 settembre 1824 in Corsia del Duomo, lo slargo direttamente a nord del Duomo che oggi è parte integrante della sistemazione a piazza dell’area. In età avanzata scriverà di essere “nato con una precisa inclinazione ai viaggi e allo studio delle scienze naturali” e di sognare “dalla prima fanciullezza le splendide regioni della zona torrida”. Sostiene che all’età di tredici anni ha preferito impiegare i soldi ricevuti dalla madre per comprarsi la Storia naturale di Georges-Louis Leclerc de Buffon, punto di riferimento per i naturalisti d’Europa all’epoca. Legge avidamente i resoconti di viaggio di scienziati del Settecento, come Alexander von Humboldt e Louis Antoine de Bougainville, ma anche di esploratori, come James Cook e Cristoforo Colombo. “Nelle mie letture seguivo sulla carta gli itinerari percorsi da quegl’illustri viaggiatori e mi pareva di visitare con essi le numerose isole dell’Oceania le vaste selve dell’America tropicale, apparendomi allo sguardo come in uno specchio i più bei panorami, così pieni di vita, come offre soltanto la zona del nostro globo compresa fra i tropici”. A Pavia, mentre assiste ai corsi sui banchi dell’Università (senza laurearsi), o mentre si sofferma sulle collezioni dell’Orto Botanico di Brera, il suo pensiero è già fissamente altrove.

È la politica a trattenerlo dal prendere il mare verso l’America Latina. Siamo in pieno fervore risorgimentale, con un’Italia divisa, oppressa a nord dall’occupazione austriaca, bloccata dal potere clericale al centro e guidata paternalisticamente dai Borboni nel Meridione. Nel 1848, l’anno in cui, per usare l’immagine di Alexis de Tocqueville, il vulcano della rivoluzione erutta in tutt’Europa, Antonio Raimondi è sulle barricate della sua Milano durante le Cinque Giornate. Ha 24 anni e, come molti suoi coetanei, è percorso da ideali liberali: scacciare lo straniero è la giusta causa da combattere. Il fallimento della liberazione può forse farlo vacillare, ma non lo abbatte. L’anno successivo, infatti, è tra le fila garibaldine a combattere per la Repubblica Romana nata con il ritiro di papa Pio IX dalla città eterna. È solo quando anche quest’atto eroico si infrange contro le armi dell’esercito francese – giunto in aiuto alla Chiesa – che Antonio Raimondi si decide per la partenza. A bordo del brigantino L’Industria salpa da Genova alla volta del Perù: non farà più ritorno in patria.

È un’epoca caratterizzata dallo spirito enciclopedico della scienza: in Italia e in Europa si gettano le basi di alcune delle più importanti collezioni etno-antropologiche.

Raimondi arriva al porto del Callao, nei pressi di Lima, il 28 luglio del 1850. Ha con sé la Storia Naturale di Buffon – un po’ come Charles Darwin vent’anni prima era sbarcato alle Galapagos con la Teoria della Terra di James Hutton –, qualche strumento scientifico da campo e una volontà di ferro. A parte questo però, Raimondi, anche se di buona famiglia, deve trovarsi di che vivere. L’occasione si presenta quasi subito grazie a Cayetano Heredia. Il Perù è indipendente da poco meno di trent’anni e deve ricostruire tutte le istituzioni pubbliche necessarie allo sviluppo e alla gestione del nuovo Stato. Heredia, grazie alla sua fama di medico eccellente, è incaricato dal governo per dirigere il Colegio de la Indipendencia, la futura Facoltà di Medicina di San Fernando di Lima. Intuendo nel giovane italiano le doti del naturalista di razza, gli affida il compito di ordinare la collezione mineralogica: è l’inizio di un’amicizia e della carriera accademica di Raimondi, che presto comincia a insegnare Storia Naturale.

Con lo stipendio che gli garantisce di che vivere, Raimondi può cominciare realizzare il suo vero sogno: esplorare ogni angolo del Perù. La scelta del paese non è stata casuale, perché, come scrisse più tardi esagerando un pochino, “la sua proverbiale ricchezza, il suo vasto territorio, che sembra riunire in sé gli arenili della costa, gli aridi deserti dell’Africa, i vasti altipiani, le monotone steppe dell’Asia, le alte vette della cordigliera, le fredde regioni polari, gli intricati boschi di montagna e la lussureggiante vegetazione, mi spinsero a preferire il Perù come campo di esplorazione e studio”. Dal 1851, per quasi vent’anni, non perde occasione di allargare le sue conoscenze del territorio. Nel corso delle sue 19 campagne esplorative, Raimondi si comporta come il perfetto naturalista dell’epoca, abbracciando tutte le discipline scientifiche. Le sue raccolte parlano da sole: 3.000 minerali e rocce, 4.000 insetti, 400 esemplari di mammiferi e rettili, 1.265 uccelli, 2.000 fossili, 2.000 molluschi, 72 teschi umani, 300 reperti etnografici, 500 semi, 20.000 piante e 2.000 tra conchiglie, denti e uova fossili. Numeri che dicono dello spirito enciclopedico della scienza dell’epoca, quando in Italia e in Europa si costituiscono alcuni dei grandi musei di Storia naturale moderni e si gettano le basi di alcune delle più importanti collezioni etno-antropologiche.

I viaggi oltre la cordigliera delle Ande, nelle aree più remote dell’Amazzonia come negli aridi deserti o lungo la costa pacifica appagano la sete di conoscenza di Raimondi. Nel corso della sua vita raccoglie note in 195 taccuini, alcuni dei quali dedicati a temi specifici, tutti impreziositi dai suoi splendidi acquerelli. Vi annota tutto quello che gli strumenti e il suo occhio attento gli permettono di catturare. A tratti sembra un lavoro maniacale, come quello che farà qualche decennio dopo Alexandre Yersin, lo scopritore del bacillo della peste, che sceglie anche lui i tropici preferendoli all’instabilità politica della Francia. Così, per mano di un italiano con lo spirito d’avventura, il Perù indipendente comincia a fare la conoscenza di se stesso e delle sue ricchezze. L’idea di scienza che ha Raimondi, infatti, è enciclopedica alla maniera illuminista, sempre intesa come strumento per un futuro fatto di progresso e miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità. Nei suoi rilievi cartografici, quindi, non mancano mai riferimenti precisi alle risorse naturali: giacimenti di metalli preziosi sì, ma soprattutto di carbone, salnitro e guano, risorse indispensabili per lo sviluppo del paese. Grazie alla conoscenza del territorio che acquisisce viaggiando, Raimondi diventa una specie di consulente tuttologo per il governo. Ogni volta che c’è da progettare un ponte o una ferrovia viene consultato in qualità di esperto. La sua perizia anche negli aspetti che oggi diremmo ingegneristici è testimoniata dai disegni tecnici che ha realizzato, come quelli che riguardano un progetto di una fabbrica per la fusione dei metalli del 1875.

Dal 1862 i viaggi di Raimondi assumono un nuovo significato. Viene incaricato ufficialmente dal governo di realizzare un progetto grandioso: un’esplorazione sistematica per la realizzazione della prima carta geografica completa del Perù. Sarà composta di 38 fogli pubblicati tra il 1887 e il 1897 dall’editore parigino Erhard e, come sottolineato da una mostra sull’esplorazione peruviana tenuta a Lima nel 2015, è la “radice della cartografia nazionale” del Perù. Oltre all’importanza dello strumento in sé per lo sviluppo del paese, la grande mappa ha anche un’altra funzione nella storia peruviana: riallacciare i fili della storia con il passato pre-coloniale. Raimondi, infatti, non solo applica tutta la sua maniacale precisione nell’indicare emergenze fisiche, geologiche e quant’altro ci si aspetti da una carta di questo tipo, ma vi segnala anche i toponimi indigeni come origine dei nomi attuali delle principali città e dei villaggi. Per esempio, dà la stessa importanza a Lima e Cuzco, in quanto capitali del paese in due diversi momenti storici. Dagli appunti dei 195 taccuini di campo, inoltre, Raimondi comincia a preparare, con l’aiuto di una vera e propria redazione multidisciplinare, un’opera finanziata dal governo e intitolata semplicemente El Perù che avrebbe dovuto essere una grandiosa enciclopedia del paese indipendente.

La mappa di Raimondi tornò utile a Hiram Bingham, soprattutto il 24 luglio del 1911, il giorno della scoperta di un sito archeologico di straordinaria importanza: Machu Picchu.

Un altro aspetto delle esplorazioni di Raimondi è quello legato all’antropologia e all’archeologia. Nell’incontrare le popolazioni indigene ne annota usi e costumi, raccoglie esempi di artigianato e di abbigliamento come parte integrante del grande affresco del Perù che sta cercando di dipingere. In questo ambito, pur rimanendo un uomo dell’Ottocento, convinto della superiorità della civilizzazione di stampo europeo, non ha mai sentimenti di esclusione per le diverse popolazioni indigene, ma le reputa parte integrante della complessità e della varietà del Perù suo contemporaneo. Quando visita Cuzco avviene un cortocircuito tra ciò che vede e quello che ricorda dell’Italia: “Alla fine sono arrivato nella Roma d’America, in questa grande città di memorie che ci chiama Cuzco, dove non si può fare un passo senza imbattersi in una testimonianza della sua antica civiltà”. Raimondi, forse spinto dalla sua profonda fede nel progresso, vede una continuità tra i fasti dell’antico impero Tahuantisuyo (Inca, in lingua quechua) e le potenzialità di sviluppo del Perù in cui vive.

Purtroppo il futuro dorato immaginato da Raimondi non si realizzerà. Il paese indipendente fatica a trovare un equilibrio interno e i rapporti esteri sono ruvidi. Già nel 1864, c’è una scaramuccia con la Spagna per il controllo delle isole Chincha, un enorme deposito di guano al largo della città di Pisco, a sud di Lima. Ma è la Guerra del Pacifico (1879 – 1883) a giocare un ruolo determinante. Nello scontro con il Cile, il Perù perde il dipartimento di Tarapacá, una regione esplorata ovviamente anche da Raimondi e ricca di giacimenti di salnitro e minerali. Con essa se ne va una grossa fetta delle risorse del paese e il Perù, sfiancato e sull’orlo della bancarotta, deve rivedere i piani per il proprio futuro, compresa la pubblicazione dell’opera di Raimondi, che si blocca la terzo tomo del 1880. L’esploratore milanese, intanto, comincia a sentire il peso degli anni e la responsabilità di provvedere alla propria famiglia (si è sposato solo nel 1869, al termine dei suoi viaggi, e ha avuto tre figli). Continua il suo lavoro di insegnante, finché una lunga malattia non se lo porta via il 26 ottobre 1890. Di tutta l’eredità scientifica che ha lasciato, probabilmente a Raimondi sarebbe piaciuto sapere che la sua grande carta geografica tornò utile all’archeologo americano Hiram Bingham, soprattutto il 24 luglio del 1911, il giorno della scoperta di un sito archeologico di straordinaria importanza: Machu Picchu.

 

l mito americano della Natura

Raccontata come un Eden, l’America prima di Colombo era molto diversa da come la immaginiamo.

di Matteo Cossu

Il mito della natura incontaminata, della ‘Great American wilderness’, è profondamente radicato nella cultura occidentale. Il continente americano pre-colombiano è spesso dipinto come un luogo selvaggio, scarsamente popolato: un mondo dove la presenza umana era appena percepibile. L’attrazione per questo mito pervade molta della letteratura statunitense del XIX secolo. Le descrizioni di natura incontaminata fanno da sfondo al mito eroico del pioniere. Basti pensare a un libro come Walden e alle altri odi alla natura di Thoreau. Thoreau cantava di una natura intonsa, selvaggia, sconfinata, e la immaginava ancora più primordiale nei secoli precedenti alla venuta degli occidentali.

L’idea della grande America selvatica non ha solo giocato un ruolo rilevante nella percezione culturale della natura, ma ha anche influenzato generazioni di studiosi e attivisti ambientali. Nel 1950, John Bakeles in The Eyes of Discovery, parlava della sua opera come di un libro ‘che presentava le visioni, i suoni e gli odori di un’America in uno stato inalterato. Quarant’anni esatti più tardi, Kirkpatrick Sale pubblicava Conquest of Paradise dove affermava che erano stati gli europei a cambiare l’ambiente, trasformando la natura sulla scia di Colombo e dei conquistadores. Similmente, un anno dopo, Shetler (in un libro pubblicato dallo Smithsonian) sosteneva che:

L’America pre-colombiana era ancora un Eden, un regno naturale integro. I nativi erano trasparenti rispetto all’ambiente, vivendo come elementi naturali dell’ecosfera. Il loro mondo, quello che Colombo chiamò il Nuovo Mondo, era di impercettibile disturbo umano.

Ma era davvero così? L’impatto delle popolazioni native sull’ambiente era stato così trascurabile? Oggi sappiamo che la popolazione sia nel nord che nel sud America raggiungeva cifre paragonabili e, per alcuni studiosi, persino superiori a quelle raggiunte in Europa.

Il dibattito demografico

Quando l’Ammiraglio John Smith esplorò le coste del Massachussets nel 1614, i suoi rapporti descrivevano una terra “così rigogliosa di giardini e campi di mais, diffusamente abitata da gente forte e ben proporzionata”. Ma appena sei anni dopo, quando i pellegrini del Mayflower sbarcarono sulle stesse coste, trovarono solo miseria e morte. Thomas Morton, un commerciante inglese, scrive della sua visita nel 1622: “gli Indiani morivano in massa dentro le loro case, i teschi e le ossa sparsi in diversi posti delle loro abitazioni erano uno spettacolo [degno di] una nuova Golgota”.

L’incongruenza delle fonti, generò ben presto un dibattito antropologico che continua al giorno d’oggi. Le stime demografiche pre-colombiane erano molto difficili da ottenere, e i primi studiosi essenzialmente tirarono ad indovinare. Nel 1910, l’antropologo James Mooney incrociò fonti di esploratori e primi coloni con studi sulla capacità agricola delle popolazioni indigene, e concluse che in tutto il Nord America, viveva appena un milione persone. Mooney era rispettatissimo all’epoca e per molti anni le sue conclusioni non vennero mai messe in discussione. Per questo ci volle un periodo di grande fermento culturale come la fine degli anni Sessanta per rivisitare questa stima. E infatti nel 1966, alla luce del suo lavoro a stretto contatto con molte comunità di nativi americani, l’etnografo-storico Henry Dobyns, pubblicò stime decisamente più alte: al tempo del primo contatto europeo, a nord del Rio Grande vi sarebbero state tra le dieci e le dodici milioni di persone. Dobyns ricevette durissime critiche, ma anziché ricredersi, circa 20 anni dopo ripubblicò ulteriori ricerche e aumentò il limite superiore fino a diciotto milioni.

Dobyns (assieme ad altri antropologi come Alfred Crosby), rivelò così l’esistenza di dinamiche ignote fino ad allora. Secondo le sue stime, negli anni direttamente successivi ai primi contatti europei, si consumò la più grande epidemia della storia, direttamente responsabile di una decimazione delle popolazioni pari a oltre il 90%. Ai tempi, negli anni tra i ‘60 e gli ‘80, non esistevano metodi scientifici che potessero confermare le ipotesi degli antropologi, ma qualche mese fa un gruppo di ricercatori dell’università di Adelaide, ha pubblicato un articolo su Science Advances, sul DNA di 92 mummie e scheletri pre-colombiani, tutte datate tra i 500 e gli 8600 anni fa. Lo studio ha dimostrato l’estinzione pressoché totale, nella popolazione odierna, delle linee genealogiche individuate nelle mummie. Uno scenario concordante con le teorie di Dobyns.

Danni involontari

La suscettibilità delle popolazioni native americane alle malattie europee era dovuta a diversi fattori. Uno dei più importanti era l’assenza di diffuse pratiche di allevamento. Per la maggior parte, le comunità native in America si sostenevano con l’agricoltura e con la caccia. D’altra parte invece, in Europa, l’allevamento aviario, di suini, bovini, e ovini era praticato da millenni, e aveva portato alla diffusione, e alla conseguente immunizzazione, da diverse malattie zoonotiche, malattie cioè che ‘saltavano’ di specie per aggredire l’uomo: praticamente tutte le grandi epidemie, dal vaiolo al morbillo hanno questa origine.

Nel maggio del 1539, Hernando de Soto sbarca nella baia di Tampa con nove navi, più di 600 uomini e 220 cavalli. Secondo le ricostruzioni di Charles Hudson, un antropologo che ha dedicato la sua carriera a ricostruire il percorso di de Soto, la spedizione incontrò in quello che è oggi l’Arkansas, “città ben popolate” e “insediamenti così ravvicinati da potersi scorgere tutti insieme, tutti difesi da colline artificiali, fossati e schiere di arcieri”. De Soto passò anche attraverso a estesi campi di mais, zucche e fagioli.

Lo spagnolo morì nel 1542, e nessun europeo visitò quei luoghi per oltre un secolo. Nel 1682, quando Réné-Robert Cavelier, Sieur de la Salle esplorò le stesse zone, trovò condizioni ben diverse. Dei cinquanta insediamenti visitati dallo spagnolo, ne descrisse solo dieci, forse ri-occupati da nuove tribú.

La missione di de  Soto non era certo pacifica. Nei quattro anni passati tra quello che oggi è il sud degli Stati Uniti e le aree intorno al Mississippi, la compagnia distrusse, uccise e derubò tutto ciò che incontrò sul suo cammino. Ma il peggior danno causato dall’hidalgo avvenne a sua completa insaputa: de Soto si accompagnava a un gruppo che lo avrebbe dovuto aiutare contro ogni avversità: guide, mercenari, ingegneri, e… maiali. Recenti analisi di antico DNA mitocondriale hanno stabilito che i maiali domestici arrivarono in Europa al seguito dei primi agricoltori provenienti dal Vicino Oriente circa 7500 anni fa. Con gli animali, arrivarono anche le malattie: da solo, il maiale è responsabile di antrace, brucellosi, leptospirosi, teniasi, trichinosi e tubercolosi. Se si considera la loro vorticosa riproduzione e la possibilità di trasmettere malattie a tacchini selvatici e cervi (due specie centrali nell’alimentazione dei nativi), i maiali di de Soto erano, a tutti gli effetti, delle armi biologiche.

La natura indigena

La deforestazione e l’agricoltura intensiva sono due dei principali fattori dell’impatto antropogenico sull’ambiente. Prima del contatto colombiano, in America entrambe queste attività venivano compiute attraverso l’appiccamento regolare di fuochi controllati. In diverse misure, i nativi americani usavano il fuoco per creare terreni coltivabili, per mantenere ‘aperte’ le foreste, e per favorire la crescita di nuovi germogli attraendo quindi le specie da cacciare. Lo dimostra il fatto che diversi studiosi hanno trovato tracce di incendi controllati dalle zone sub-artiche fino al deserto di Sonora. Le caratteristiche e gli impatti di questi incendi dolosi variavano a seconda delle regioni e localmente dipendevano da fattori demografici e ambientali, ma in ogni caso avevano impatti non trascurabili addirittura su scale continentali.

In Nord America, gli incendi delle popolazioni native non solo plasmarono le foreste creando praterie, ma cambiarono attivamente la composizione degli ecosistemi forestali, creando condizioni favorevoli a specie utili alle comunità. Fragole, mirtilli, lamponi e altre bacche, ma anche varie specie di pino, e querce, sono quasi certamente un subclimax ecologico di origine antropogenica, create (e mantenute) attraverso il fuoco. Già nel 1958, il padre fondatore del concetto di “cultural landscape” Carl O. Sauer, da studi sulle precipitazioni medie e composizione dei suoli, concluse che la maggioranza dei biomi a bassa vegetazione del Nuovo Mondo erano di origine antropogenica.

La piccola era glaciale

Tra circa la metà del 1500 e per i 250 anni successivi, il mondo si ritrovò in un ciclo climatico di temperature significativamente più basse. Le conseguenze furono globali, e l’Europa non fu da meno. Si ghiacciò il Tamigi, il Corno d’Oro e parte del Bosforo. Interi villaggi alpini furono spazzati via dall’avanzata dei ghiacciai. Nel 2003, un paleo-climatologo e biologo marino, William Ruddiman, pubblicò un articolo in cui argomentava essenzialmente che l’impatto dell’uomo non è mai stato trascurabile, e che molte delle anomalie climatiche possono trovare spiegazione in eventi legati agli uomini. La piccola era glaciale non fa eccezione, e Ruddiman ipotizzava che fosse correlata al cambio d’uso della terra avvenuto dopo il contatto colombiano sia nel nord che nel sud America. In breve, il declino delle popolazioni americane portò a una riforestazione, da lì a una minore emissione di CO2 e quindi alla conseguente diminuzione dell’effetto serra e all’abbassamento delle temperature globali.

L’impatto umano sull’ambiente non è semplicemente un processo di degrado o cambiamento in risposta a un aumento di popolazione o di fattori industriali, agricoli o economici. Anche piccole popolazioni possono avere conseguenze drammatiche nel tempo. L’impatto umano è interrotto da periodi di inversione, riabilitazione ecologica e diversificazione di linee temporali, con l’insorgenza di nuove condizioni aumentano, diminuiscono o in certi casi addirittura si evolvono nuove specie. L’impatto può essere costruttivo, benigno o degenerativo, ma è bene notare che questi termini, e quindi la naturalità di un sistema, sono tutti concetti soggettivi.

Hernando de Soto si aggirò in Nord America per quattro anni e in nessun racconto del suo viaggio descrisse mai la specie che la nostra cultura associa maggiormente alle grandi praterie: il bisonte. Un secolo dopo, mentre attraversava gli stessi territori di de Soto, La Salle descrisse invece abbondanti mandrie di bisonti al pascolo nelle terre circostanti i fiumi. Considerando il repentino crollo della presenza umana e osservando il problema da un punto di vista ecologico, si può spiegare questa discordanza solo individuando nei nativi la specie chiave. In ogni ecosistema, le specie chiave esercitano una grande influenza stabilizzante su tutta una comunità ecologica, nonostante la loro relativamente piccola abbondanza numerica. Esercitando la caccia, è possibile quindi che i nativi americani limitassero le popolazioni di molte specie, favorendone altre. Questa dinamica era comune sia ai bisonti, che a diverse specie di cervi. Da studi di strati archeologici, si evince per esempio che il numero di cervi nell’America del nord aumentò drasticamente circa 500 anni fa in contemporanea con l’arrivo degli europei e il tracollo dei nativi. Il piccione migratore, una specie estinta che per anni fu usata come esempio della distruzione degli ecosistemi da parte dell’uomo, era praticamente una rarità prima del contatto colombiano. A man a mano che la frontiera dei coloni si spostava verso Ovest, essa veniva anticipata da un’ondata microbiologica e virale che, sterminando gli indigeni, causava un conseguente rimescolamento e riequilibrio degli ecosistemi, che andava a tutti gli effetti adattandosi a un impatto umano significativamente minore che in precedenza.

Longfellow inneggiava alla ‘forest primeval’ nel suo poema epico Evangeline: A Tale of Acadie. Se con quel termine intendeva boschi liberi da presenze umane, allora – come si è visto dalle ultime ipotesi di scienziati, antropologi che abbiamo riassunto in questo articolo – è possibile che lo fossero maggiormente nel 1800 che non nel 1500.

Humboldt e l’alba dell’ecologia

di Federico Nejrotti

Alexander von Humboldt, fratello minore del filosofo Wilhelm von Humboldt, nasce a Tegel nel 1769 da una ricca famiglia prussiana che gli assicura un’ottima educazione. Dopo la morte del padre rimane in balia di una madre iperprotettiva, che non manifesta particolare sensibilità per la passione per il viaggio di Alexander e gli permette di visitare solo i grandi centri culturali europei. Proprio per questo motivo, quando nel 1796 la madre muore, Alexander non perde un attimo di tempo e comincia a organizzare la sua prima spedizione: non senza intoppi, si imbarca per il Venezuela insieme al botanico Aimé Bonpland.

Viaggia per due anni, percorre il corso del fiume Orinoco, lotta ferocemente con delle anguille elettriche e nel novembre del 1800, ancora assieme a Bonpland, parte per Cuba ed esplora le Ande. Un giorno viene a sapere che la spedizione del capitano Nicolas Baudin, partita da Nantes e finita per dirigersi in Australia, sarebbe passata tra Guayaquil, in Ecuador, e Lima, in Perù. Senza esitazioni decide di aprirsi un varco nella foresta amazzonica per riuscire ad arrivare esattamente in tempo per imbarcarsi. Giunta a Quito, in Ecuador, nel gennaio del 1802, la compagnia viene a sapere che le notizie sulla spedizione di Baudin erano tutte sbagliate: il capitano si stava dirigendo verso Capo di Buona Speranza. Colto clamorosamente in fallo, Humboldt non si perde d’animo e decide di passare i mesi successivi a scalare tutti i vulcani della zona. Non contento, cinque mesi dopo si dirige cento miglia a sud di Quito e con tipico aplomb prussiano scala il Chimborazo, la cima più distante dal centro della Terra.

Sarebbe ingenuo cercare di sbrigare le tappe di Alexander von Humboldt in così poche righe: d’altronde dopo le Ande ha esplorato il Messico, gli Stati Uniti, si è fatto di nuovo un giro in Europa e infine ha toccato gli estremi orientali della Russia. Persino Andrea Wulf, con la sua straordinaria biografia The Invention of Nature, è riuscita appena a sfiorare la vastità delle terre calpestate da Humboldt nonostante avesse a disposizione trecentocinquanta pagine. Ma la cosa che più conta è come tutti quei viaggi abbiano permesso ad Humboldt di ottenere una visione totalizzante della natura, e di intuire una astrusa e misteriosa armonia globale che lega ogni singola manifestazione di vita sulla Terra. Proprio per questo non stupisce che sia stato Humboldt uno dei primi grandi personaggi a chiedersi se l’uomo, in pieno impeto pre-industriale, non stesse rischiando di interferire con il naturale corso di questa armonia.

Quando le foreste vengono distrutte

Le traversate amazzoniche di Humboldt non gli hanno permesso soltanto di raccogliere un inventario botanico invidiabile, ma soprattutto di acquisire una singolare consapevolezza di violenza, pervasività e ingordigia dell’imperialismo coloniale europeo. Così scrive in Personal Narrative:

Quando le foreste vengono distrutte, come succede ovunque in America a causa della fretta imprudente dei coltivatori europei, le sorgenti vengono interamente prosciugate, o diminuiscono drasticamente di numero. I letti dei fiumi, rimanendo asciutti per parte dell’anno, diventano torrenti ogni volta che la pioggia cade abbondante. Le praterie e i muschi scompaiono sotto i rami accatastati ai lati delle montagne, l’acqua che scende sotto forma di pioggia non trova impedimento al suo passaggio: e invece che aumentare progressivamente il livello dei fiumi attraverso filtrazioni costanti, scava violenta ai lati delle colline, portando con sé il terreno smosso e formando queste inondazioni improvvise, che devastano le pianure.

Nel 1804, concluso il suo tour del sud America, Humboldt decide, insieme ad Aimé Bonpland, di fare una tappa a Washington per conoscere Thomas Jefferson, presidente degli Stati Uniti e scienziato. Accolto calorosamente, trascorrerà con lui una settimana in cui il principale tema di dibattito sarà l’intersezione tra natura e politica: per Jefferson l’unico modo per ottenere felicità e indipendenza è attraverso un repubblicanesimo agrario, una totale concentrazione sui valori della terra, così profonda e sentita da convincere Jefferson che i veri membri del Congresso dovrebbero essere proprio i contadini, “veri rappresentanti degli interessi americani”. Le discussioni tra i due riguarderanno spesso temi legati all’America del colonialismo spagnolo e alle politiche estere degli Stati Uniti. A questo riguardo Humboldt non ha dubbi: oltre che per l’enorme stima nei confronti di Jefferson, è in nome di una scienza libera che decide di fornire al presidente tutte le informazioni raccolte durante i suoi viaggi: credeva infatti che la crescita della comunità scientifica internazionale dovesse trascendere gli interessi nazionali.

Durante la settimana a Washington, Humboldt approfondisce assieme a Jefferson le assurdità perpetrate dagli imperialismi coloniali. Gli racconta della “insaziabile avarizia” spagnola per oro e legname: il vero carburante dell’era coloniale, così ambito che, nel 1664, in Sylva, a Discourse of Forest Trees, John Evelyn scrive: “sarà meglio finire l’oro prima del legname”, con riferimento alle innumerevoli industrie messe in moto dalla sua lavorazione.

Di passaggio dal Lago Valencia, in Venezuela, Humboldt per esempio studia il progressivo prosciugamento del lago, attribuito dai locali a un misterioso “buco sotterraneo”. Analizzando le sabbie rinvenute nella zona e paragonando i ritmi di evaporazione a quelli europei, la conclusione di Humboldt è lapalissiana: la deforestazione della zona da parte degli europei ha privato il lago di un fattore preziosissimo per il proprio fragile ecosistema. Poco distante, nella valle di Aragua, troverà intere popolazioni ridotte alla fame perché obbligate a sostituire le coltivazioni per il sostentamento agricolo con quelle di indigofera tinctoria, una pianta da cui viene estratta una tinta blu particolarmente ambita dai commercianti europei. Queste coltivazioni, nota Humboldt, avevano rapidamente prosciugato la fertilità del terreno e reso inospitale l’intero territorio.

Che si trattasse di pratiche agricole o di interventi infrastrutturali – come le dighe piazzate nella rete fluviale senza cognizione di causa – Humboldt intuì per primo l’impatto dell’uomo sull’armonia della natura e cominciò a sospettare, e a scrivere, che l’incoscienza di quegli anni avrebbe potuto causare danni irreparabili per le generazioni future. Nel successivo lavoro di rielaborazione dei dati raccolti, Humboldt cominciò a unire i puntini per scoprire – o meglio, accorgersi – che le stesse pratiche sfruttate dai coloni spagnoli erano state replicate in Europa, e avevano allo stesso modo disturbato l’ecosistema. Si trattava dei primi studi sul cambiamento climatico antropogenico.

Naturgemälde: la natura è un tutt’uno vivente Qualche tempo prima di formulare questi pensieri, ancora immerso nella foresta amazzonica, Humboldt vive la sua epifania: sulla vetta del Chimborazo, infatti, vive un momento quasi estatico, in cui con un “singolo sguardo” riesce a comprendere la natura nella sua interezza, da un punto di vista fisico, ma anche spirituale. Tornato all’altezza del mare, Humboldt dipinge il Naturgemälde, una mappa del vulcano corredata di informazioni sulla distribuzione geografica delle piante, un “dipinto della natura come insieme” che corrisponde a una vera rivoluzione copernicana per la scienza naturale: gli ecosistemi non sono composti di compartimenti stagni, ma sono parte di un insieme vivente su scala globale. Gli equilibri sono fragili e strettamente interdipendenti. Dall’insetto più piccolo fino alla vetta più alta, ogni elemento contribuisce alla conservazione della natura, e ogni interferenza è un duro colpo a questo innato e costante sforzo.

Nel mondo i disastri ambientali si moltiplicano ogni anno, tra fenomeni di intensa siccità e violente inondazioni, e sta cominciando a prendere paurosamente piede la definizione di “rifugiato ambientale”.

È proprio nella visione unificata del Naturgemälde che Humboldt inizia a concepire il progetto delle isoterme, le linee metereologiche che uniscono i punti della terra e del mare che hanno la stessa temperatura, e che unite ai dati raccolti da Humboldt durante le sue spedizioni non fanno che confermare la sua teoria: la natura è un vero e proprio organismo vivente, non una risorsa inerte alle azioni dell’uomo. Queste riflessioni e scoperte non sono altro che l’inizio di un percorso molto più grande di Humboldt, quasi si trattasse di una presa di coscienza umana, più che individuale, e che nei secoli successivi finirà per influenzare tutto il mondo della scienza, e non solo. Nelle decadi seguenti John Muir, padre del movimento ambientalista americano, sarà mosso dalle stesse aspirazioni di Humboldt per la preservazione di una natura in quanto tutt’uno. Muir si batterà per la conservazione di intere foreste e contribuirà alla protezione delle sequoie americane inaugurando parchi e riserve naturali, come quelle dello Yosemite National Park.

Due secoli dopo, a cavallo del nuovo millennio, la missione di Humboldt è in seria difficoltà: il sistema Terra sta passando i suoi anni più caldi da quando abbiamo cominciato a registrare la sua temperatura e le calotte polari, proprio in questi giorni, stanno registrando ritmi di scioglimento inspiegabilmente anomali. Il 2016 è stato anche l’anno del superamento definitivo dei limiti di carbonio per l’atmosfera terrestre, che ha toccato le quattrocento parti per milione: una soglia sotto la quale, probabilmente, non scenderà mai più. Nel mondo i disastri ambientali si moltiplicano ogni anno, tra fenomeni di intensa siccità e violente inondazioni, e sta cominciando a prendere paurosamente piede la definizione di “rifugiato ambientale,” ovvero colui costretto a migrare dalle condizioni estreme imposte dal riscaldamento globale e dal cambiamento climatico.

Le istituzioni di tutto il mondo stanno lentamente prendendo parte a un processo di cambiamento che sarà ancora lungo e faticoso: il Trattato Climatico di Parigi, firmato da oltre centonovanta nazioni del mondo e ratificato da più di cento, mira a contenere l’innalzamento delle temperature globale a 1.5C° sopra i livelli pre-industriali. La brutta notizia è che non rispettare questi accordi potrebbe, questa volta definitivamente, significare conseguenze irreparabili per l’intera umanità, senza distinzione di razza, sesso, religione o classe sociale. Quella peggiore è che Donald Trump, il nuovo Presidente della prima economia del mondo sembra non credere a nulla di tutto questo.

  

La poesia di Wystan Hugh Auden

Un ricordo di quella che Brodskij definì “la più grande mente del ventesimo secolo”

di Flavio Santi

Quando si pensa alla più grande mente del ventesimo secolo, i primi nomi che si affacciano sono quelli di scienziati (Einstein, Heisenberg), statisti (Gandhi, Churcill), magari pittori (Picasso), musicisti (Stravinskij), architetti (Le Corbusier), financo filosofi (Simone Weil). Difficilmente si pensa a un poeta. Ma proprio in questi termini (“la più grande mente del ventesimo secolo”) parla di Wystan Hugh Auden il poeta russo Iosif Brodskij nel saggio “Per compiacere un’ombra”, tratto da Fuga da Bisanzio e opportunamente posto sulla soglia della recente edizione Adelphi delle Poesie scelte di Auden, nella versione di due maestri della traduzione, Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica.

“La più grande mente del ventesimo secolo”. Che un ingegno acuto come Brodskij – premio Nobel per la letteratura nel 1987, forse il più grande poeta russo della seconda metà del Novecento – si spinga a tanto avrà un significato, una spiegazione, un punto d’appoggio. Non sarà il semplice frutto di un commosso omaggio amicale. Chi conosce i saggi di Brodskij sa che il russo pratica un profondo scavo critico, mai arreso a slogan o a facili soluzioni. E dunque? Che un poeta sia la più grande mente del ventesimo secolo è una bella rivincita per chi crede nella poesia. Auden non è il semplice “cronista” che intravide Eugenio Montale (un’entrata a gamba tesa che complicò, tra l’altro, la fortuna del poeta in Italia), ma ben altro.

Nel testo originale l’aggettivo è greatest: la greatness è fatta di intuito e buon senso, visione e retroguardia, acribia e cialtroneria, fango e arcobaleno. La più “grande” mente non significa la più intelligente. Né la più geniale. Questa grandezza poi non deriva romanticamente dalla pura e semplice conduzione di vita di Auden. Che fece quel che doveva fare, senza strafare per altro: non visse molto, in fondo, appena sessantasei anni (1907-1973), fu inglese nell’accezione più classica e blasonata (fu oxoniense), e poi americano, ma anche austriaco (d’estate, a Kirchstetten, in un cottage seminascosto ai passanti, in fondo a una via ribattezzata “Audenstrasse”); vide la Guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale; viaggiò in Germania, Cina, Islanda, Italia; bevve molto whiskey e fumò molte sigarette.

La grandezza, naturalmente, risiede nelle poesie. Le poesie di Auden formano un mondo a sé, autonomo, dotato di gravità propria e proprio ossigeno. Come in ogni mondo, c’è tutto. Referti epocali:

Dall’Archeologia

è dato trarre almeno una morale:

cioè che tutti i nostri libri

di scuola mentono.

Di quella che chiamano Storia

non c’è da menar vanto,

fatta com’è di quanto

c’è in noi di criminale;

la bontà è senza tempo.

Preveggenze brucianti come in questo “Blues del profugo”:

Questa città avrà, mettiamo, dieci milioni di anime,

C’è chi vive in palazzi e chi in topaie,

Ma per noi non c’è posto, mia cara, no non c’è.

Avevamo una patria, e ci pareva bella,

Se guardi sull’atlante è sempre quella:

Adesso non ci andremo, cara, no, non andremo là.

Scalpellature epigrammatiche:

Ora che i porci son rifatti uomini

Ed è propizio il cielo e quieto il mare,

Tutti a casa possiamo ritornare.

Slanci fulminanti:

Vai, macchinista, accelera e vai

Dove splende il sole sulla Springfield Line.

Vola come un aereo e non frenare;

Non prima di New York, Stazione Centrale.

Campiture mozzafiato:

Oh la valle d’estate dove col mio John

Presso il fiume profondo camminavamo tanto

Mentre i fiori dal basso e gli uccelli lassù

Parlavan con debolezza di amore ricambiato.

Mi chinai sulla sua spalla: “Oh Johnny, giochiamo”;

Ma scuro in volto come il tuono se n’è andato.

L’Orazio anglosassone, si è detto. Del poeta latino Auden possiede la caratteristica, insieme banale e lussureggiante, di essere uomo e umanità, singolarità e sintesi, uno e folla. Wystan (Wystan era il nome di un principe medievale venerato come santo dalla Chiesa anglicana) Hugh Auden è ora una delle (tante) carrozze di un lungo, forse interminabile convoglio, ora la locomotrice di testa; ora l’apprendista, ora il mago. Tutto ciò risalta ancora meglio nella tensione di una partitura quasi sussurrata:

Splendi: che nessuno stanotte

Di soprassalto desto

Solo nel letto al buio pesto

Si senta augurare con furore

La morte al suo amore.

Amore e morte. Cosa c’è di più universale e, al tempo stesso, unico?

Anche qui la cognizione della morte

Le dà un amore struggente.

Fa breccia il fervore dell’amante:

Che hai in mente piccioncino, coniglietto;

Come le piume crescono i pensieri, impasse della vita;

Di far l’amore o di contare soldi,

O d’arraffare gioie, piani degni d’un ladro?

Così come il suo speculare, lo strazio:

Ah, ma di che tarlo di colpevolezza,

Di che dubbio maligno

Sono vittima?

Perché tu poi, sfrontato

Facesti ciò che mai avrei voluto

Confessando un altro amore;

E io sentendomi indesiderato

A testa bassa me ne andai?

Fino a coagularsi nella poesia forse più celebre (per via del film Quattro matrimoni e un funerale), “Funeral Blues”, che riportiamo per intero:

Fermate gli orologi, staccate il telefono,

Zittite il cane con un osso succulento,

Tacciano i pianoforti e tra tamburi afoni

Esca la bara, vengano i dolenti.

Gemano sorvolando gli aeroplani,

Scribàcchino il messaggio Lui È Morto,

Mettete crespo al collo dei piccioni

Guanti neri di cotone i vigili ora portino.

Lui era il mio Nord, Sud, Ovest, Est,

I giorni di lavoro e i dì di festa,

Meriggio e mezzanotte, voce e canto;

Credevo amore eterno ma s’è infranto.

Le stelle ormai inservibili, spegnete una a una,

Smantellate il sole e imballate la luna,

Spazzate il bosco e svuotate il mare;

Nulla di buono ormai c’è da sperare.

Poesia in cui, non a caso, tornano insieme amore e morte. Ora, la morte ha vari modi di camuffarsi per presentarsi a noi senza farci impazzire. Uno di questi è sub specie temporis, sotto forma di tempo (“Il Tempo che non puoi debellare”). Le poesie di Auden sono piene di tempo. Percepito, misurato, pensato, subìto, meteorologico, astrale, epocale. Come si è visto, “Funeral blues” comincia con gli orologi. “In memoria di W.B. Yeats” attacca con una gelata invernale:

È scomparso nel cuore dell’inverno:

Gelati i ruscelli, gli aeroporti quasi deserti,

La neve sfigurava i monumenti;

Sprofondava il mercurio in bocca al giorno moribondo.

Ecco, secondo tutti gli strumenti

Il giorno in cui morì era un giorno buio e freddo.

Altri travestimenti della morte sono più ameni (ma sempre toccati da un soffio rabbrividente):

Ormai cresciuti, ricordiamo sere come questa

A zonzo insieme nel frutteto senza vento

Dove il torrente corre sulla ghiaia, lontano dal ghiacciaio.

[…]

A qualcuno i rumori dell’alba

Daranno libertà; non questa pace che nessun uccello

Può contraddire: breve ma sufficiente per qualcosa

Di compiuto è già quest’ora, di amato o di subìto.

Contro la morte ci sono soluzioni praticabili? Per evitarla no di certo, come sappiamo tutti noi. Ma si può renderla tollerabile, quasi amichevole, se non amica. Come? Con il buon senso, il senso comune. Anche qua la scintilla scaturisce dal saggio di Brodskij, da un teatralissimo scambio di battute: “Il migliore scrittore russo è Cechov”. “Perché?”. “È l’unico […] che abbia un briciolo di senso comune”. È il senso comune – inesauribile risorsa – che fa pronunciare ad Auden parole come queste:

Facile è fare la domanda difficile;

Domandare all’incontro

Con una semplice occhiata d’intesa

Questi dove vanno

E come stanno questi:

Facile è fare la domanda difficile,

Semplice atto di volontà confusa.

Oppure riflessioni come questa, al limite dell’idiot savant:

Se noi, caro, sappiamo di non saperne più

Di loro sulla legge,

Se io non più di te

So quello che si deve e non si deve

Salvo che ognuno conviene

Con gioia o dispiacere

Che la legge è

E che tutti lo sanno.

O confezionare autoritratti, come qua dove Yeats visita la tomba di Yeats ed è come se stesse parlando davanti a uno specchio (basta sostituire l’Irlanda dell’originale con Inghilterra):

“Eri sciocco come noi: il tuo talento sopravvisse a tutto;

Alla congrega delle donne ricche; al fisico degrado;

A te stesso; la folle Irlanda t’inferse la poesia.

Ora l’Irlanda ha sempre il suo clima e la follia

Perché la poesia non fa accadere niente; sopravvive

Nella valle del suo dire ove il burocrate

Mai metterebbe becco; sbocca a sud

Dalle tenute dell’isolamento e dagli assidui crucci,

Scabre città in cui si crede e muore; sopravvive,

Un modo di accadere, una bocca.

Chiudiamo con le parole finali del saggio di Brodskij perché tutto è già stato detto lì, inno bifronte al sublime e al senso comune: “lo vidi l’ultima volta a Londra nel luglio 1973, a una cena da Stephen Spender. Wystan, seduto a tavola con una sigaretta nella destra e un bicchiere nella sinistra, dissertava sul tema del salmone freddo. Poiché la sedia era troppo bassa, la padrona di casa provvide a infilargli sotto la persona due squinternati volumi dell’Oxford English Dictionary. Pensai allora che davanti ai miei occhi stava l’unico uomo che avesse il diritto di usare quei volumi come sedile.”

Donne con la  bussola

di Paola Rinaldi

Viaggio è maschile o maschilista? Seppure non siano poche le donne che hanno contribuito alla cartografia, alla geografia e all’esplorazione, le storie dei piedi rosa che hanno stretto i lacci e camminato per il mondo sono rimaste nell’ombra per secoli. Da Freya Stark a Louise Arner Boyd, da Léonie d’Aunet a Ida Pfeiffer, sono state centinaia le donne che hanno avuto il coraggio di rovesciare gli stereotipi ed esplorare luoghi lontani.

«La storia di Ulisse e Penelope descrive sotto forma di metafora quanto tramandato dalla notte dei tempi: l’uomo fatto per il movimento, l’avventura, e la donna per la stanzialità», spiega la professoressa Luisa Rossi, docente di Storia della geografia e delle esplorazioni presso l’università di Parma e autrice del libro L’altra mappa. Esploratrici, viaggiatrici, geografe.

«Nomi femminili si incontrano nella storia della letteratura, della medicina, della pittura e di molte altre discipline culturali, mentre la geografia, sapere territoriale e strategico, è rimasta a lungo appannaggio di chi governava o faceva le guerre, e dunque degli uomini».

Nonostante tutto, le donne si sono fatte largo tra i pregiudizi. Geografe da tavolino o viaggiatrici?

Sarebbe stato più “logico” il primo ruolo, proprio perché sedentario, ma per rivestirlo occorrevano competenze di preparazione scientifica, come il latino, che le donne non possedevano. Un tempo, alle figlie venivano insegnati il ricamo e i mestieri legati alla vita domestica piuttosto che le discipline tecnico-scientifiche. Per questo motivo, l’unico modo a disposizione di una donna interessata a conoscere il mondo era partire. Nelle motivazioni del partire risiede la prima differenza tra il viaggio maschile e quello femminile: il primo era commissionato dai governi o dalle compagnie commerciali, il secondo era spontaneo e generalmente dettato da una sete di sapere personale.

La diversità si riflette anche nel bagaglio?

Certo. Basti pensare all’orientalista Giuseppe Tucci, grande viaggiatore e studioso italiano che – scopriamo dai suoi diari – era partito per il Tibet con una ricca attrezzatura, mentre nello stesso periodo Alexandra David-Néel raggiunge Lhasa con un fagottino.

Chi erano le esploratrici?

Erano donne come altre, forse con un pizzico di coraggio in più, con uno spiccato desiderio di conoscenza che le spingeva ad abbandonare tutto e scoprire il mondo. Alcune intraprendevano un viaggio religioso, perché era più semplice giustificarlo agli occhi della famiglia, per poi appassionarsi e diversificare le mete. Solitamente, appartenevano a un ceto medio-alto con una discreta istruzione, anche se non manca qualche operaia. Molte viaggiavano con il marito, ma sono tante anche quelle che hanno viaggiato da sole, in condizioni difficilissime.

Mary Montagu ha scritto: “Il mondo raccontato dagli uomini è vero solo a metà”. C’è differenza tra sguardo maschile e femminile?

Sicuramente i resoconti di viaggio sono molto diversi.

Quelli redatti dagli uomini sono più tecnici, quelli scritti dalle donne sono più particolaristici e maggiormente attenti alla dimensione sociale.

Mary Montagu era una viaggiatrice inglese, che nel primo Settecento ha raggiunto Costantinopoli insieme al marito ambasciatore. È la prima ad accorgersi che le donne turche praticavano l’inoculazione del vaiolo ai loro figli, pratica che lei descrive minuziosamente e porta in Inghilterra.

Nessun viaggiatore prima di lei lo aveva notato. Gli uomini hanno sicuramente scoperto il mondo, ma le donne hanno arricchito questa conoscenza con dettagli che prima non erano emersi.

Questo è stato apprezzato?

Sì, anche se forse le donne sono state più stimate come scrittrici che come geografe. Ancora oggi è più facile trovare una donna impegnata nei servizi sociali piuttosto che nell’urbanistica all’interno di un’amministrazione pubblica: la conoscenza e la gestione del territorio è ancora questione di potere, e pertanto in larga misura nelle mani degli uomini. Ma il cammino femminile, anche se lento, sicuramente continua.

 

Ida Pfeiffer, la viaggiatrice solitaria

di Paola Rinaldi

Se il viaggio avesse il volto di una donna, probabilmente l’ovale di Ida Pfeiffer sarebbe quello che gli somiglia di più.

Nata a Vienna nel 1797, sin da piccola, Ida divorava libri che parlavano di evasione, irrequietezza, cambiamento, viaggio come uscire “fuori” dal quotidiano. Quinta di sei fratelli, a soli 9 anni si ritrova ad affrontare il dolore per la morte prematura del padre e, a 22 anni, viene costretta dalla madre a unirsi in matrimonio per convenienza con un vedovo, molto più anziano di lei, dal quale ha due figli e dal quale si separa. Nel frattempo, in lei cresce il desiderio di conoscere il mondo: studia le lingue, le mappe geografiche, le piante, gli usi e i costumi dei popoli.

Intorno al 1842, ormai quarantacinquenne e madre di due figli diventati adulti, inizia a girare il mondo per soddisfare la sua curiosità e allontanarsi dalla limitata realtà femminile viennese. Siccome in quell’epoca l’unico pellegrinaggio consentito alle donne era quello in Terra Santa, Ida sceglie Gerusalemme, ma in circa nove mesi tocca anche Egitto e Malta. Da quel momento, il suo amore per i viaggi è siglato per sempre: la viaggiatrice solitaria percorre oltre 140 mila miglia marine e 20 mila miglia inglesi via terra.

Tra le regioni visitate c’è anche l’Oriente: Ida decide di andare controcorrente e visita di persona quella terra di sogni e spiritualità che aveva conosciuto solo attraverso la lettura. “In quella mischia ero davvero sola e confidavo solo in Dio e nelle mie forze. Nessuna anima gentile mi si avvicinò”, scrive nel suo diario di viaggio.

Da Smyrna il viaggio continua via mare per Rodi, Cipro e Beirut.

Donna coraggiosa e tenace, Ida intraprende cinque lunghi viaggi nella sua vita. In Egitto, visita le Piramidi di Giza e impara a cavalcare un dromedario; in Islanda preleva campioni di piante e rocce che, secondo alcuni racconti, ha successivamente venduto ad alcuni musei; in Brasile, visita la foresta pluviale per conoscere le condizioni di vita degli indigeni, usando i loro mezzi di trasporto. I suoi pellegrinaggi la portano dappertutto e le permettono di scrivere tredici diari, tradotti in sette lingue, ricavati dagli appunti che ogni notte scriveva a matita per raccontare la giornata appena trascorsa.

Muore a Vienna, poco tempo dopo essere rientrata dal suo ultimo viaggio in Madagascar.

Quello di Ida Pfeiffer ricorre più di ogni altro nome femminile nella documentazione ufficiale della geografia ottocentesca, persino in pubblicazioni sino ad allora “antifemministe” come quelle della Società geografica di Parigi e di Londra. In uno dei suoi due lungi giri intorno al mondo (uno intrapreso nel maggio 1846 per due anni e sette mesi, il secondo effettuato tra il marzo 1851 e il maggio 1855), riesce a entrare in un noto villaggio di cacciatori di teste del Borneo, raccontato in maniera dettagliata nei suoi resoconti.

Ida dimostra una grande maturità culturale, perché – se per chiunque sarebbe stato difficile giudicare con freddezza il rituale di quei popoli – lei ha la freddezza di asserire: “Ci meravigliamo tanto di questa pratica, ma quante teste sono appese nei saloni di Versailles?”. Come dire: “Quante guerre e quanti morti sono costati i nostri palazzi e i nostri agi?”.

Ideologie coloniali

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2017

 

La scoperta degli indiani e della loro anima. 1

Buoni e cattivi selvaggi 12

Schiavitù, diversità, razza. 37

 

La scoperta degli indiani e della loro anima

Nel resoconto dei suoi primi approcci con gli indigeni delle Antille, Colombo ci anticipa attraverso alcune significative considerazioni i tratti che caratterizzano l’atteggiamento futuro dei colonizzatori. Egli annota: “Prendevano tutto quello che loro si regalava, e davano assai volentieri di tutto quello che avevano; ma parvemi che potessero dare ben poca cosa, e fosse gente sotto ogni aspetto molto povera”. Più oltre: “[…] essi debbono essere molto servizievoli e di buon carattere”. E poi ancora: “Mi sembra che se potrebbe fare subito dei cristiani, perché pare che non abbiano alcuna religione”. Infine: “Non hanno ferro. Le loro zagaglie sono bastoni senza ferro […] conoscono male l’uso delle armi […] cinquanta soldati sarebbero sufficienti a renderli inoffensivi e a far fare loro ciò che si vuole”.

C’è in primo luogo la preoccupazione di fondo, che concerne il movente principe della spedizione, quello economico. Gli indigeni sono disponibili allo scambio, e probabilmente la loro ingenuità consentirebbe traffici assai vantaggiosi: ma non possiedono nulla di ciò che muove l’interesse degli europei: né l’oro, né le spezie. Colombo non può fare a meno di rilevarlo, sia pure marginalmente, e lasciando appena trapelare la constatazione in mezzo all’entusiasmo per il compimento della traversata e alla curiosità per l’incontro con i nativi. Deve prendere atto che sotto il profilo economico l’impresa si sta rivelando fallimentare: in Spagna i suoi finanziatori attendono carichi di pepe, di cannella, di chiodi di garofano, oppure di tessuti o di preziosi, non certo pappagalli o selvaggi piumati da esibire. I suoi rivali portoghesi hanno trovato sulla rotta orientale l’oro della Guinea, e sono comunque certi di approdare prima o poi direttamente ai mercati indiani. L’ammiraglio non può ammettere che la “sua” via e le scoperte risultino antieconomiche: gli indigeni hanno poco da offrire, ma sono “molto docili e servizievoli”, e di lì a poco verrà proprio da lui la proposta ai sovrani di utilizzarli o di venderli come schiavi. Per il momento si limita a reclutare nei loro villaggi delle mogli per i propri uomini, e a portarne alcuni con sé, in Europa, come campionario.

Dai prosaici calcoli commerciali, la cui momentanea frustrazione non induce affatto un declino delle speranze, si passa a più elevate preoccupazioni di promozione spirituale. Gli amerindi, privi almeno in apparenza di un culto religioso, offrono una notevole occasione missionaria. I dubbi sulla loro appartenenza o meno al genere umano sorgeranno più tardi, quando sarà ormai comprovato l’isolamento del continente americano e non si riuscirà a farli rientrare in alcuna delle stirpi bibliche. Dall’evidente vacanza di una religiosità “positiva” organizzata, Colombo deduce invece soltanto che gli indigeni non hanno un dio. La sua fede non è formale e convenzionale: egli è fermamente convinto del dovere di diffondere la “vera religione”, con le buone o con le cattive: “se ne potrebbe fare subito dei cristiani”, appunto.

Infine, visto che il livello di organizzazione politica e militare è ben diverso da quello che ci si attendeva (Colombo era munito di lettere dei sovrani per il Gran Khan), emerge anche il dato tutt’altro che trascurabile dell’estrema debolezza bellica dei nativi: armi primitive e spirito fondamentalmente pacifico. Anche se l’ammiraglio sarà parzialmente smentito dalla feroce resistenza offerta dai Caribi, la sostanziale innocuità degli indigeni sarà uno dei fattori di maggiore stimolo per il moltiplicarsi delle spedizioni transoceaniche.

Sugli iniziali contatti con gli abitanti del nuovo mondo pesa tutto il retaggio di sogni, speranze, paure, fantasticherie liberatorie o paurose di cui gli europei hanno da sempre caricato il mistero occidentale. In un primo tempo è presente anche, e lo abbiamo accennato per Colombo, l’inquietudine generata da una supposta profanazione: non ha forse i tratti dell’Eden, questa terra dal clima incredibilmente mite, che nutre i suoi abitanti senza spremere il loro sudore, che appare come un immenso giardino per la varietà e la ricchezza della sua flora? La sensazione di aver violato un mondo estraneo al tempo e alla storia umana resiste anche alla concreta presa di possesso delle nuove terre, alle delusioni che essa arreca e alla nuova barbarie che sembra eccitare negli animi degli europei.

L’innocenza, la semplicità, la gioia di vivere che traspaiono dai primi resoconti sugli indigeni ravvivano l’immaginazione dei contemporanei di Machiavelli (ma non quella del segretario fiorentino), troppo mortificata dalla realtà torbida e violenta in cui sono immersi. Li eccita la libertà e al tempo stesso la naturalezza sessuale, della quale favoleggiano, secondo un inveterato costume, i marinai di ritorno: così come li affascina l’idea di un’esistenza sottratta alla schiavitù del lavoro, fondata sul piacere e sull’abbondanza. Nella fantasia di chi ascolta le meraviglie della fertilità del suolo, del tepore perenne, della debolezza e della cordialità dei nativi entrano in circuito le fabulazioni medioevali sulle Indie, assieme al sogno paganeggiante di una rinnovata età dell’oro, diffusa tra gli umanisti quattrocenteschi (Colombo è contemporaneo di Machiavelli, ma anche di Botticelli).

Il nuovo mondo dà linfa al fiorire dell’utopia: da un lato fornisce modelli esotici, sia di felice anarchismo che di efficiente organizzazione politico-amministrativa, cui attingono da Moro in avanti tutti i propugnatori di società “perfette”; dall’altro offre spazi concreti alla sperimentazione e alla realizzazione di “controsistemi” ispirati a nuovi rapporti con la natura e tra gli uomini. Del sogno utopico modifica comunque sostanzialmente i tratti. Le isole fortunate si moltiplicano, ma esse non vanno più alla deriva sugli oceani del mondo, e i loro colori sono familiari.

Al di là comunque delle fantasie liberate, la realtà dell’impatto procura agli europei più di una delusione. Si attendevano un’organizzazione politica, militare e soprattutto commerciale di alto livello, e si trovano di fronte, almeno inizialmente, ad un mondo primitivo, privo di una qualsivoglia struttura economica che consenta traffici regolari e remunerativi. Gli stessi missionari, aggregatisi sin dalla prima ora ai naviganti e ai conquistadores, nella prospettiva di immense greggi da condurre in seno alla chiesa, debbono constatare che i nativi sono riottosi alla conversione e tendono a dimenticare velocemente gli insegnamenti cristiani per tornare alla pratica dei loro culti tradizionali. I più comprensivi tra i religiosi manifestano l’impressione di trovarsi di fronte ad un popolo fanciullo, che dovrà attendere parecchio prima di giungere alla maturità. Esitano talvolta addirittura ad ammetterli ai sacramenti in cui entri in gioco una maggiore responsabilizzazione personale, come l’eucarestia. Ci sono anche coloro che, disgustati della promiscuità sessuale, delle usanze sacrificali, o semplicemente della impermeabilità dimostrata nei confronti della “vera fede”, rinunciano all’opera di evangelizzazione, affermando che “Dio mai creò gente tanto intrisa di vizi e di bestialità, senza mescolanza di bontà o urbanità”. (Tomaso Ortis).

D’altro canto, i problemi di coscienza e gli entusiasmi per il rinvenimento di una umanità più libera e felice sembrano propri soltanto di coloro che col nuovo mondo hanno rapporti puramente intellettuali o sentimentali. Chi invece ad esso concretamente approda è sospinto in genere da motivazioni che non consentono di apprezzare la “qualità della vita” degli indigeni. Al contrario, forti dell’impressione suscitata dalle armi da fuoco e dall’acciaio, ed anche del fatto che i nativi appaiono ingenui, fiduciosi e poco combattivi, gli europei non tardano a mettere in atto una spogliazione ed uno sfruttamento sistematici, improntati al più bestiale misconoscimento di ogni principio umano di carità o di giustizia. Cosa abbia significato per gli amerindi l’incontro con la “civiltà” europea lo dicono chiaramente le cifre. Nel volgere di un secolo una popolazione calcolata attorno ai venti milioni nella sola America Centrale, si riduce a circa un milione: e quella totale del continente, valutata sui quaranta milioni al momento dell’arrivo di Colombo, è ridotta alla fine del ‘500 a meno di dieci[1]. In questo sterminio hanno una gran parte le malattie, soprattutto quelle polmonari e il vaiolo, diffuse dai bianchi; ma senza dubbio la crudeltà, i massacri, le fatiche inumane imposte dai colonizzatoti rimangono il fattore principale. Nulla meglio della testimonianza di Bartolomeo de Las Casas, strenuo difensore della umanità degli Indios e del loro diritto alla libertà, può darci un’idea di ciò che avviene dopo la scoperta e nel corso della “civilizzazione”. Nella Brevisima relacion de la destruccion de las Indias troviamo descritte atrocità ai limiti del credibile. “I cristiani con cavalli e spade e lance cominciarono ad uccidere e usare indicibili crudeltà nei loro confronti. Entravano nelle terre, sventravano e squartavano senza risparmiare né ragazzi, né vecchi, né donne incinte, come se assaltassero degli agnelletti nelle loro mandrie. Scommettevano a chi con una coltellata fendeva un uomo in due, o gli tagliava lo testa di un colpo, o gli scopriva le viscere. Staccavano i neonati dalle poppe delle madri, prendendoli per i piedi, e li sfracellavano con la testa nelle rupi… I signori e la nobiltà li uccidevano normalmente in questo modo. Costruivano graticole di legno sostenute da forchette, e ve li legavano sopra, e sotto attizzavano un fuoco lento: onde poco a poco, gettando tra quei tormenti urla disperate, davano fuori l’anima […] queste cose e altre assai, che fanno fremere l’umanità, vidi io con questi occhi; ed ora ho appena il coraggio di raccontarle, desiderando io stesso non crederle, e supporre che sia stato un sogno”. Egli attacca violentemente anche gli encomenderos: “Finite le guerre, divisero tra loro gli uomini […] e così ripartiti li davano a ciascun cristiano col pretesto che dovesse ammaestrarli nelle fede cattolica: onde costoro, per lo più uomini ignoranti e crudeli, avidissimi e viziosi, eccoli divenire parrocchiani delle anime. La cura e il pensiero che ne ebbero fu di mandare gli uomini nelle miniere a estrarre oro, che è una fatica intollerabile: e le donne nelle capanne, per dissodare e coltivare il terreno, fatica da uomini molto forti e robusti. Non davano da mangiare né agli uni né alle altre, se non erbe e cose prive di sostanza […] È impossibile riferire le some di cui li caricavano, di tre o quattro arrobe, facendoli camminare cento o duecento leghe… sempre si servivano di loro come bestie da soma […] La tirannia che esercitano gli spagnoli contro gli indiani per cercare o pescare perle è una cose più riprovevoli e crudeli che siano al mondo. Non vi è sulla terra vita così infernale e disperata che possa paragonarsi a questa… li mettono in mare, tre, quattro, cinque braccia al fondo, dalla mattina al tramonto. Stanno sempre nuotando a cercare le ostriche. Vengono a galla con alcune reticelle piene di queste a respirare, e lì vi è un boia spagnolo in una barchetta, e se cercano di riposarsi li percuote coi pugni, e pigliandoli per i capelli li butta nell’acqua, perché tornino a pescare”. Las Casas mostra di avere una esatta percezione delle dimensioni dell’etnocidio, quando afferma: “Daremo per certo e reale che, nei detti quarant’anni, per le tirannie e le infernali sevizie dei cristiani sono morti ingiustamente e tirannicamente più di 12 milioni di persone, uomini, donne e bambini; ed io credo in verità, né penso di ingannarmi, che passino i quindici milioni”.

Le divergenze tra la madrepatria e i coloni sul trattamento da usare nei confronti degli indigeni risalgono già ai primi anni della conquista. I sovrani, Isabella in particolare, sono decisamente contrari all’idea dell’asservimento, caldeggiata tra gli altri da Colombo. A Nicolàs de Ovando, primo governatore inviato alle Indie spagnole, fanno pervenire più di un richiamo a non eccedere nella coercizione degli indigeni al lavoro e a retribuirli “pagando loro il salario giornaliero che sia da voi fissato: e ciò facciano e compiano come persone libere come sono, e non come servi”. L’Ovando risponde che l’unico mezzo per far fruttare le terre scoperte è proprio il lavoro coatto: i nativi, pigri e disordinati per indole, necessitano in ogni attività produttiva di una guida e di uno stimolo costante.

Una soluzione accettabile per entrambe le parti sembra essere rappresentata dall’encomienda, istituita nel 1503 nell’intento da parte dei sovrani di salvaguardare i diritti degli indigeni, senza venire a contrasto con i colonizzatori e senza rinunciare alle entrate che lo sfruttamento delle isole caraibiche prospetta. L’encomienda, come si è visto dalla testimonianza di Las Casas, si rivela una forma di schiavizzazione totale e tra le più disumane. Gli indios non “appartengono” all’encomendero, non costituiscono un suo bene o possesso, anche se costui li utilizza come tali: e ciò rende la loro situazione assai più penosa, perché neppure il senso della proprietà interviene in qualche modo a salvaguardarli. Essi sono sfruttati fino a che possono produrre, e quindi lasciati perire di stenti o di malattia; altri, bisognosi d’essere istruiti nella vera fede e “protetti”, li sostituiscono. Las Casas narra di un ufficiale cui furono affidati trecento indios, e nel giro di pochi mesi li ridusse a trenta; ottenuto un ulteriore affidamento, si ritrovò in breve tempo nella stessa situazione: e cosi continuò, dice il narratore, finché il diavolo se lo portò via.

Le prime voci ad alzarsi in difesa degli indios sono quelle dei missionari, in modo particolare quelle dei domenicani. Un religioso giunto da poco a Santo Domingo, Antonio da Montesinos, indignato per la barbarie di cui si trova ad essere spettatore, inizia nel 1511 a denunciare con violente predicazioni l’ipocrisia e la ferocia degli encomenderos. Ottiene al momento soltanto di venire in odio ai suoi vecchi compatrioti, che ne sollecitano l’allontanamento presso la corte e i superiori. Il germe di una diversa coscienza del problema indiano è comunque gettato. Tornato in patria, Montesinos si fa assertore intrepido all’interno del suo ordine e di fronte al consiglio della corona dei diritti degli indios e del rifiuto di qualsiasi forma di schiavitù; e non lotta invano, se nelle disposizioni date ai missionari domenicani è compreso da allora il rifiuto dell’assoluzione per gli encomenderos indegni. Più tiepidi al riguardo appaiono invece i francescani, che hanno nelle isole particolari concessioni e tendono a salvaguardarle sostenendo la necessità di una “tutela” ampia da esercitarsi sugli indigeni.

Nel 1514 inizia la battaglia di Las Casas. Già encomendero al seguito di Ovando, prende i voti in età matura, a 36 anni, e si trova a parteggiare, al momento dello scompiglio suscitato da Montesinos, per i coloni. Non tarda però a provare disgusto, toccato da quella predicazione, per il comportamento dei suoi compatrioti, e a rilevare Montesinos stesso nella difesa degli amerindi presso il consiglio delle Indie, fino ad ottenere il titolo di Protector de Los Indios.

In seguito alle sue sollecitazioni viene inviata ai Caraibi una commissione d’inchiesta, che constata la veridicità delle denunce, ma arriva a concludere che la soggezione degli indios, sia pure in forme mitigate, è indispensabile per la resa economica di quelle terre. Tutt’altro che domo, Las Casas si impegna allora a dimostrare concretamente il contrario. Ottenuta una concessione imperiale, nel 1520 impianta egli stesso una colonia mista di popolamento a Cumana, sulla costa del continente, fondandola sulla parità di diritti tra le due razze. L’esperimento non ha successo, soprattutto per la scarsa disponibilità alla convivenza egualitaria da parte dei bianchi; esso si risolve addirittura in un massacro, causato dalle provocazioni continue dei coloni, cui fa seguito un’immediata, crudelissima rappresaglia.

Neppure questo fallimento riesce tuttavia a far desistere Las Casas da quella che ormai considera la sua missione particolare. È un momento particolarmente difficile per la causa degli indios. Le remore morali che avevano in qualche modo condizionato il comportamento iniziale dei conquistatori, o lo avevano comunque fatto oggetto di riprovazione, sembrano venute meno. Dopo la morte di Isabella la corona si è mostrata scarsamente sollecita nella difesa della libertà degli indigeni. L’assuefazione all’idea di un loro legittimo asservimento induce un altro assioma, quello della loro inferiorità.

Nel 1524 il francescano Tomaso Ortis presenta al consiglio delle Indie una relazione molto esplicita in questo senso. Gli indios vengono in essa descritti nelle tinte più fosche: “[…] Mangiano carne umana e sono sodomiti più di qualunque altra popolazione… non provano né amore né vergogna, sono bestiali ed incostanti, incapaci di apprendimento e di correzione, traditori, crudeli, vendicativi, ostilissimi alla religione: sono stregoni, negromanti, indovini […]. Non hanno arte né abilità da uomini”. La loro resistenza alla predicazione e all’evangelizzazione è tra le colpe più gravi: “Quando si scordano delle cose della fede che hanno imparato, dicono che esse vanno bene per la Castiglia e non per loro, e che non vogliono mutare né costumi né dei”. Persino le costumanze estetiche sono interpretate come perversioni: “sono senza barba, e se gliene cresce un po’ se la tagliano”. Le accuse di cannibalismo e di sodomia sono le più ricorrenti nelle descrizioni “in negativo” delle popolazioni amerinde. La seconda è di prammatica, in tutto il corso della civiltà occidentale, nei confronti di qualsivoglia diversità o dissenso (soprattutto all’interno dei gruppi religiosi o politici). La presenza effettiva del cannibalismo, invece, pratica attribuita nel medioevo solo alle popolazioni leggendarie, colpisce profondamente l’immaginazione europea, che ingigantisce un fenomeno peraltro sporadico e di significato soprattutto rituale. Già nel 1511 un anonimo inglese dà questa descrizione degli indigeni: “… Non hanno re, né signore, né dio, possiedono tutto in comune e vanno coperti solo di piume, come bestie senza ragione vivono mangiandosi l’un l’altro e appendono le salme per affumicarle come noi la carne di maiale”; dove la mancanza di senso dell’autorità e della proprietà è associata, in un comune significato di depravazione, all’antropofagia.

Nel 1526 Gonzalo Fernandez de Oviedo dà alle stampe il suo Sumario de la natural Istoria de las Indias, nel quale vengono ribadite le tesi di Ortis, nel dichiarato intento di giustificare il comportamento degli encomenderos. Las Casas si sente vieppiù spronato nella sua opera di denuncia e di divulgazione delle atroci realtà della conquista. Continua a presentare memoriali al Consiglio delle Indie, e pubblica nel 1542 la Brevisima relaciòn, dalla quale abbiamo tratto i passi sopra riportati. Nel frattempo la chiesa si è espressa ufficialmente sul problema con la bolla Sublimis Deus, emanata da Paolo III nel 1537, nella quale si sancisce la piena umanità e razionalità degli indigeni, e conseguentemente il divieto di privarli della libertà. È una posizione che a molti riesce assai difficile accettare. Las Casas conduce una disputa quasi ventennale con Juan de Sepulveda, teorizzatore di un diritto delle nazioni “civili” a soggiogare quelle primitive, e a condurre quelle ultime alla civiltà “con qualsiasi mezzo”. Al tempo stesso, però, affianca all’impegno teorico l’azione concreta, svolta nelle terre in questione. Riesce a strappare a Carlo V, proprio con la relazione sulla distruzione delle popolazioni indigene, le Nueuas Leyes de Indias, con le quali viene abolito l’istituto dell’encomienda, lasciando in vigore solo le concessioni esistenti fino alla morte dell’affidatario. È un provvedimento un po’ tardivo per gli indigeni, ormai decimati: così come quello successivo delle Ordenanzas sobre discubrimiento del 1573; inoltre, nella realtà, la situazione muta ben poco.

Nell’ideale dibattito che lungo tutto il Cinquecento ha luogo intorno all’“umanità” degli indiani e al livello della loro civiltà, appaiono emblematici gli atteggiamenti di due tra i maggiori protagonisti della cultura dell’epoca: Montaigne e Shakespeare. Il primo ha una posizione nettamente anticolonialistica, fondata su premesse ben diverse da quelle missionarie di Las Casas. Non gli interessa che gli indiani siano in grado di abbracciare e di praticare la fede “superiore” come e più dei bianchi. La sua idea di umanità è talmente ampia da comprendere le manifestazioni più eterogenee del vivere umano, e da accettarle di per sé, senza rapportarle a paradigmi particolari di civiltà, nella fattispecie a quella europea. “Mi sembra che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi: sembra infatti noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa”. La sua amara riflessione sullo snaturamento e l’artificiosità dei rapporti umani lo spinge anzi a scorgere nello “stato di natura” degli amerindi un livello superiore di esistenza. “Quei popoli mi sembrano barbari in quanto sono stati in scarsa misura modellati dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano sempre le leggi naturali, non ancora troppo imbastardite dalle nostre […]. Possiamo dunque ben chiamarli barbari, se li giudichiamo secondo le regole della ragione, ma non confrontiamoli con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie”. Smantella e ribalta persino le accuse che maggiormente si prestavano a suffragare l’imputazione di barbarie, come quella della pratica cannibalesca: “Non lo fanno, come si può pensare, per nutrirsene, ma per esprimere una superiore vendetta… Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente […] e sotto il pretesto della pietà religiosa)”. Ed esprime il suo rammarico per uno stato di purezza e di tranquillità che nell’incontro con gli europei è andato irrimediabilmente perduto: “Temo molto che avremo assai affrettato il suo declino e la sua rovina col nostro contagio, e che gli avremo venduto a caro prezzo le nostre opinioni e le nostre arti […] Quanto a religione, osservanza delle leggi, bontà, liberalità, franchezza, ci è stato molto utile non averne quanto loro: essi si sono rovinati per tale superiorità e venduti e traditi da soli”.

Nel suo ultimo dramma, La Tempesta, Shakespeare ci offre una metafora ben diversa dei rapporti tra barbarie e civiltà. Se pure all’inizio sembra abbracciare tesi anticolonialistiche (“Se colonizzerò quest’isola, farò tutto al contrario… niente traffici, niente magistrature… né poveri, né ricchi, e tantomeno schiavi… nessuna legge né contratto… niente recinti, né lavoro, ecc…”), l’antitesi tra Calibano (anagramma di cannibale) e Prospero si rivela ben presto come lo scontro tra cultura, nella sua espressione superiore, ovvero europea, bianca, e natura, nel significato deteriore di animalità. Alcune affermazioni sembrano riecheggiare le relazioni di Tomaso Ortis, più ancora che le teorie di Sepulveda: “È un demonio, un demonio nato, sulla cui natura l’educazione non potrà mai fare presa”. C’è una componente nuova, nel disprezzo che i bianchi shakespeariani mostrano nei confronti di Calibano: è qualcosa che odora decisamente di razzismo: “[…] ma la tua bassa natura, per quanto imparassi, era tale che gli onesti non potevano sopportare di avvicinarla”. Shakespeare ha probabilmente letto il saggio di Montaigne: ma l’immagine che ha dell’uomo naturale è tutt’altro che edenica. Per lui l’essere umano è comunque soggetto alla corruzione e alla malvagità. Lo stato di natura è imperfetto, è una condizione subumana, che l’uomo civile deve correggere ed educare. Nel caso specifico poi Calibano, nero di origine africana, “a savage and deformed slave”, personifica la bruttezza, che si contrappone alla bellezza di Miranda, la malvagità bestiale opposta alla gentilezza e alla civiltà, e ciò spiega e legittima la sua condizione di schiavitù.

E tuttavia, anche dietro un ritratto così negativo spuntano alcune consapevolezze che rendono ambigua la posizione di Shakespeare. Calibano si rivela infatti violento e malvagio solo dopo aver subito prevaricazioni e provocazioni, mentre all’inizio appare gentile e ben disposto; il suo cambiamento è quindi anche frutto della corruzione portata dall’uomo civilizzato, la cui bassezza può essere persino peggiore della bestialità del selvaggio. Non tutti i bianchi sono come Prospero: anzi, la gran parte dei protagonisti de La Tempesta è di tutt’altro stampo. La malvagità è comune a entrambi i mondi.

La colpa di Calibano sta soprattutto nel desiderare la fanciulla bianca; e naturalmente, in quanto selvaggio e colorato, il suo desiderio non si esprime nella forma civile dell’“aspirare alla mano”, ma nella bestiale ignominia dello stupro. Dopo che per un secolo gli spagnoli, i portoghesi e da ultimo anche i francesi si sono prodigati a ripopolare il nuovo mondo di meticci, la prospettiva di una mescolanza razziale appare ora, a chi sta per soppiantarli nel dominio coloniale, abominevole. Calibano è in fondo la proiezione di tutte le paure che gli abitanti del vecchio mondo hanno nei confronti del nuovo, e degli stereotipi che inventano per esorcizzarle …

Questa visione anticipa dunque, e condensa, lo spirito nuovo del colonialismo, lascia trapelare una diversa inquietudine: “La tempesta è la formulazione di un giudizio, oltre che storia in forma mitologica; è l’Europa che giudica e rifiuta non solo l’indigeno americano, l’indiano, ma tutti gli americani bianchi futuri, che inevitabilmente si trasformano a immagine dell’indiano. E pure il rifiuto non è totale, in quanto quasi all’ultimo momento il portavoce della cultura europea riconosce che il nuovo uomo nato dalla potenza delle tenebre è in qualche modo derivato anche da lui” (Fielder).

Shakespeare non è nuovo a questa ambiguità. È la stessa che troviamo infatti nella vicenda di Otello, e prima ancora in quella di Shylock.

Nella storia del moro di Venezia il vero protagonista negativo è un bianco, un occidentale. Umanamente il povero Otello ispirerebbe piuttosto simpatia; è innamorato, ed è orgoglioso di essere amato da una donna bianca. Ma proprio qui è il discrimine: fin dove arriva l’amore, e dove invece l’orgoglio? Il tragico finale ci dice che è il secondo a prevalere, e questo in qualche modo avvalora il disagio, il sospetto vero che Shakespeare, attraverso Jago, ma non solo lui, insinua: più che l’amore qui sembra in gioco una rivalsa o un riscatto razziale. Non importa che Otello appaia più moderno e più aperto di tutti i suoi nemici (anche se poi, quando gli viene istillato il sospetto lascia libero corso alla sua natura primitiva). La sua colpa non è di aver commesso qualcosa, ma di essere quello che è. E proprio questo è significativo.

Allo stesso modo, ne Il mercante di Venezia Shylock risponde all’immagine demonizzante dell’ebreo già diffusa a partire dal Basso medioevo in tutta l’Europa, ma rafforzata in età controriformistica sia nei paesi cattolici che in quelli protestanti. E tuttavia, le parole che gli sono messe in bocca, alla fine del ‘500, non possono non lasciarci un sapore amaro in bocca, che guasta il “lieto” fine. “Sono un Ebreo. Non ha occhi un Ebreo? Non ha mani un Ebreo, organi, membra, sentimenti, affetti, passioni? Non si nutre con lo stesso cibo, si ferisce con le stesse armi, è soggetto alle stesse malattie, è curato con gli stessi metodi, non sente freddo d’inverno e caldo d’estate come un Cristiano? Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? E se ci fate un torto non vogliamo vendetta? Se noi siamo come voi in tutto il resto, vi rassomiglieremo anche in questo”.

 

Buoni e cattivi selvaggi

Nel Settecento non si modifica solo l’immagine fisica che gli europei hanno del globo: cambia anche la percezione delle diverse culture che questo mondo dilatato lo abitano. Dopo lo sconcerto provocato dal primo impatto i popoli “nuovi” sono ora meglio conosciuti e cominciano ad essere inseriti in un quadro che non pretende di trovare corrispondenza letterale nella Bibbia e nella geo-antropologia tradizionale, mentre quelli “antichi” vengono spogliati di tutto il repertorio immaginifico che era loro associato nella classicità e nel medioevo. Una volta conclusa la prima fase della conquista, quella americana, viene anche meno la motivazione più strumentalmente immediata a “demonizzare” le popolazioni indigene, ad accampare la loro presunta barbarie per giustificare la propria. L’immagine che ne risulta è tuttavia mediata da una serie di nuovi filtri, attraverso i quali si attua una rielaborazione del diverso ad uso “interno”. In sostanza, mentre in precedenza la supposizione immaginaria o una conoscenza per la gran parte fantasiosa induceva a proiettare sugli “altri” le paure, le speranze o i rimpianti legati ad una tradizione mitologica o scritturale (e questo vale, come abbiamo visto, ancora per lo stesso Colombo), ora il termine di confronto è costituito dallo stato stesso della civiltà occidentale, con le sue istituzioni, la sua cultura, la sua storia, e gli “altri” fungono da pietra di paragone per esaltarne i pregi o denunciarne i difetti[2].

Su questa trasformazione influiscono quindi tanto le modalità pratiche, motivazionali e psicologiche dell’approccio (ciò che sta fuori non fa più paura – anche perché lo si affronta dall’alto di una superiorità tecnologica e militare – ma incuriosisce e, per i più svariati motivi, attira), quanto il progressivo affermarsi di una “razionalizzazione”, di una concezione convenzionalistica degli istituti sociali, politici e culturali (quella che va da Machiavelli a Hobbes e a Locke per la politica, che passa per la definizione dei “generi” nella letteratura e delle “buone maniere” nel costume quotidiano, che opera attraverso l’adozione di un metodo nella cultura scientifica[3], ecc.). Si è ora disposti a guardare con altri occhi alle culture altre perché non si suppone più un’origine divina dei modelli politici, sociali e culturali propri. Ciò non implica necessariamente una “valorizzazione” del diverso: dal confronto può anche scaturire un sentimento di superiorità, che da culturale tende velocemente a trasformarsi in “razziale”; oppure si può essere indotti a considerare quello in cui vivono gli altri popoli uno stadio più arretrato dello stesso cammino, riconoscendo a tutti una potenzialità di crescita ma avendo chiaro in mente dove questo cammino debba portare. Rimane comunque il fatto che anche in questi casi le differenze di livello vengono imputate alla natura degli uomini, al loro operato, al loro rapporto con le situazioni ambientali, e non alla volontà divina.

La concezione convenzionalistica si traduce pertanto in una considerazione degli altri, dei loro costumi, delle loro credenze e tradizioni, che prescinde da scale di valori precostituite. Solo fino ad un certo punto, però: perché il possibile esito (nella fattispecie, anche il più comune) è il prevalere di una lettura simbolica e strumentale delle diverse esperienze, chiamate in causa non per quello che sono ma per quello che, proprio attraverso il confronto, dicono della cultura occidentale. L’interesse degli europei si concentra infatti sugli elementi più immediatamente funzionali al dibattito politico-filosofico interno: ad esempio, sull’atteggiamento nei confronti della proprietà, che presso i popoli di più recente scoperta o non esiste o è intesa come possesso dei beni clanico o comunitario (il che riduce ad esempio a una normale pratica di scambio ciò che dagli europei è considerato un furto, o addirittura in qualche caso associa a questo comportamento un particolare prestigio); o sulla concezione dell’autorità, e di conseguenza di quella dei limiti e dei modi della libertà individuale; oppure sugli atteggiamenti relativi alla sfera del pudore e della sessualità (dai costumi prematrimoniali alla nudità, all’incesto, ecc…). Spesso queste differenze, vere o semplicemente enfatizzate che siano, vengono giocate a sostegno di una immagine di inferiorità e di barbarie (si pensi al mito del cannibalismo): ma più spesso ancora, e anche a partire da interpretazioni diametralmente opposte, offrono lo spunto per un ripensamento radicale sui fondamenti religiosi, morali e politici su cui si è sviluppata la cultura occidentale. La stessa “barbarie” è sempre meno intesa come la risultante di una degenerazione o di una deviazione dal modello umano originario, e viene letta piuttosto come una particolare condizione storica e sociale all’interno dell’unico percorso possibile verso il modello umano compiuto. Dall’idea del “barbaro” si passa a quella del “selvaggio”.

Tanto è la gente amorevole, e senza avidità, e trattabile, e mansueta, ch’io giuro alle Altezze Vostre che nel mondo non v’è miglior gente, né miglior terra”. Nel corso del suo quarto viaggio Colombo si convince di essere approdato nel paradiso terrestre, e tenta di convincere anche i suoi finanziatori. Naturalmente è l’unico a crederci[4], perché i navigatori che nel frattempo ne hanno seguita la scia, Vespucci tra i primi, hanno capito subito di essere soltanto al cospetto di una terra e di una umanità diverse e ne hanno data notizia all’Europa. La polemica che si origina da questa coscienza e le motivazioni che la alimentano sono già state trattate in queste pagine: le conseguenze sul piano di una presunzione di superiorità non solo culturale ma biologica lo saranno più oltre. Ciò che preme ora ribadire è che alla fine, malgrado tutto, sarà l’immagine proposta da Colombo a prevalere: è sufficiente sostituire l’Eden con lo “stato di natura” e ci si accorge che il navigatore genovese ha in fondo fornito un modello interpretativo destinato ad una enorme fortuna.

Tuttavia, anche se di fatto è il primo “moderno” a parlare in positivo dei “selvaggi”, Colombo non lo fa nei termini propri della modernità, perché non è pronto a riconoscere agli “indiani” una loro originalità culturale[5]. Questo passaggio sarà reso possibile solo dal clima diffuso attorno alla metà del Cinquecento dal tardo Umanesimo, dalla visione laica del mondo e della storia che Erasmo e i suoi eredi oppongono tanto alla Riforma che alla Controriforma, ribaltando l’idea di un’umanità marchiata dal peccato originale e condizionata dal servo arbitrio. Pur considerandolo uno stadio primordiale quasi animalesco, e argomentando ciascuno in maniera diversa, Grozio e Hobbes prima, e poi Pufendorf e altri, fino a Locke e a Leibnitz, teorizzano uno “stato di natura” che suppone quest’ultima come un ordine autonomamente normato, nel quale l’umanità può svilupparsi al di fuori dei limiti sociali e culturali artificiosamente creati dalla “civilizzazione”. I costumi dei selvaggi ne sono appunto la testimonianza, e anche quando vengano interpretati come segni di inferiorità dimostrano comunque che le fedi e le culture dei popoli civilizzati sono frutto di un artificio, e le istituzioni e le leggi nascono da una convenzione.

In questo quadro teorico, e sulla scorta della documentazione fornita soprattutto dai missionari sul comportamento degli europei nei confronti di questi popoli, sugli eccidi e le nefandezze da essi compiuti, sulla sostanziale innocenza di pratiche volutamente interpretate in negativo al primo incontro, è naturale che nasca una riflessione intorno al senso e al destino della cultura occidentale. Lo ha già fatto con largo anticipo Tommaso Moro, traendone un giudizio tutt’altro che positivo: ma Moro, per quanto probabilmente suggestionato dalle notizie sull’incontro con i “selvaggi”, rimane nella sfera del vecchio mondo, al più spostando oltre l’oceano la localizzazione della sua Utopia. Ci ritorna invece con uno spirito nuovo, come abbiamo già visto, dopo la metà del Cinquecento, Montaigne.

Nel celebre “essai” Des Cannibales Montaigne non usa mai l’espressione “buon selvaggio”, che comincerà a circolare solo un secolo più tardi[6]. Le sue riflessioni si fondano soprattutto su l’Histoire d’un voyage fait en la terre du Brésil, autrement dite Amerique, di Jean de Lery (pubblicato nel 1568), resoconto entusiasta della vita degli indigeni del nuovo mondo, che sfronda tutta una serie di luoghi comuni assurdi e dà un’interpretazione in positivo della poligamia, della nudità, dell’assenza di senso della proprietà, arrivando a concludere che se esistono uomini felici, questi sono gli Americani. Montaigne attinge dunque ad una fonte laica, laddove per quasi tutto il suo secolo e quello successivo saranno soprattutto i religiosi, in primo luogo i Gesuiti, a difendere la causa dei popoli primitivi e a ribaltarne in positivo l’immagine. Questo probabilmente influisce sulle conclusioni che il filosofo ne trae, sull’assunzione di un atteggiamento scettico anziché giusnaturalistico. Non ha infatti la necessità di fare un uso polemico delle notizie cui si affida, perché non deve sostenere l’esistenza di alcuna base, naturale o religiosa, del diritto. Si limita a prendere atto della diversità e ad astenersi dal giudizio (sia pure mostrando simpatia per i “selvaggi”). Quella di Montaigne rimane comunque una posizione isolata, dettata dal buon senso e da una sensibilità che difetteranno, per un verso o per l’altro, ai suoi successori. Non è relativismo, ma la semplice coscienza del fatto che ogni cultura ha una storia propria, e che importante è conoscere e capire questa storia, piuttosto che fare confronti tra realtà per molti aspetti e per ragioni naturali e storiche incommensurabili.

Un contemporaneo di Montaigne, Giovanni Botero, scrive: “[…] danno nome di barbari a quei popoli i cui costumi si dilungano dalla ragione e dalla vita comune. Definizione che, se fosse vera, il nome de’ Barbari converrebbe più a’ Greci e a’ Latini che al resto delle genti: perché se vita comune si deve dire quella che mena la più parte delli huomini e Barbari quelli che se ne allontanano, essendo che i Greci e i Latini vivono differentemente da altri e sono meno degli altri, a loro converrebbe il nome di Barbari[7]. In pratica risponde con largo anticipo a Grozio, il quale qualche decennio dopo sosterrà che “[…] il diritto naturale è quello che viene ritenuto tale presso tutto i popoli, o tutti quelli con costumi più avanzati. Un effetto universale postula una causa universale […][8], e definirà barbari coloro che non seguono la retta ragione e la comune consuetudine degli uomini.

L’argomentazione di Botero è fatta propria a metà Seicento anche da Hobbes: “Non di rado accade che tutti i popoli appaiano perfettamente d’accordo nel tenere comportamenti che quegli scrittori (i giusnaturalisti) ritengono essere contrari alla legge naturale[9]. Il criterio non può quindi essere quello del consensus omnium, ma quello per cui la legge naturale è il “dettame della giusta ragione”. E in base a questo, ad esempio, è possibile negare la naturalità del patriarcato, o quella della proprietà privata: allo stato di natura, come dimostrano proprio i costumi dei “popoli selvaggi dell’America”, queste istituzioni non esistono. A prescindere dal fatto che per Hobbes lo stato di natura è comunque tutt’altro che edenico[10], affermare che a dispetto dell’esistenza di diversità culturali inoppugnabili e irriducibili esiste un parametro, e questo parametro non è né il consenso universale né quello dei popoli più civilizzati, è un passo fondamentale. Significa muoversi già su un altro binario, quello che attraverso Pufendorf condurrà poi a Leibnitz[11] e all’illuminismo francese.

Al di là comunque delle sfumature, sia pure tutt’altro che trascurabili, ciò che importa è che tanto Montaigne quanto Grozio e Hobbes affermano l’autonomia dell’essenza umana. Ed è questo a fare la differenza rispetto alla concezione pre-moderna. Di qui innanzi, quale che sia il giudizio che di questa essenza si verrà a dare, il dibattito ruoterà attorno all’idea di una “umanità” che esiste anche al netto della civilizzazione, oltre che della rivelazione. Naturalmente, il passaggio è graduale. Nel corso del Seicento il dibattito si svolge ancora, come abbiamo visto, a tre voci: c’è quella dei conquistatori, che procede attraverso l’uso sistematico della connotazione in negativo (i selvaggi non hanno dio, non hanno leggi morali, non indossano abiti, non conoscono la proprietà, non lavorano, non sono monogami, ecc…) ad alzare lo steccato, a sancire la barbarie e a giustificare l’asservimento; c’è quella dei missionari, quando non si accordi e non diventi strumentale alla prima, che mitiga la contrapposizione, perché pur ammettendo i difetti e l’inferiorità culturale degli indigeni riconosce loro anche una buona disposizione e una certa potenzialità di miglioramento, o meglio di “redenzione”, e rivendica l’innocenza dei loro costumi; e c’è infine quella dei “libertini”, che si innesta su un filone ideologico di polemica antispagnola in nazioni come l’Olanda, la Francia e l’Inghilterra, e sostiene la naturalezza di questi costumi, capovolgendo il non privativo in un senza dal significato liberatorio[12] e travalicando quel sistema di valori all’interno del quale l’innocenza ancora si pone.

Nel Settecento il confronto in qualche modo si semplifica. Ormai l’idea dell’esistenza di uno “stato di natura” è acquisita, viene costantemente suffragata da una conoscenza delle culture dei selvaggi scientificamente fondata su un approccio etno-antropologico, ed è divulgata dalla letteratura diaristica, dalle relazioni di viaggio e dalle illustrazioni sempre più realistiche e dettagliate che le accompagnano. Su questa base lo “stato di natura” può essere poi letto, a seconda dei casi, secondo il paradigma del “buon selvaggio” o in chiave negativa. Le scuole di pensiero tendono naturalmente a connotarsi nell’una o nell’altra direzione in ragione delle scelte coloniali delle diverse nazioni, per cui laddove i nativi sono considerati degli interlocutori, nel quadro ad esempio di una politica di alleanze o di scambi commerciali, verranno individuati gli aspetti positivi delle loro culture, mentre dove li si vede come un ostacolo nella prospettiva di un insediamento territoriale, o al più come una risorsa da sfruttare in forma schiavistica, se ne sottolineeranno soprattutto l’arretratezza e la disumanità. È così che il dibattito assume coloriture molto diverse in Francia, in Spagna o in Inghilterra[13]. La semplificazione è comunque legata anche al fatto che, una volta uscito dal chiuso dei salotti libertini o delle relazioni dei gesuiti, il dibattito si allarga ora a coinvolgere un’opinione pubblica ben più vasta, e nel farlo rinuncia sempre più alle argomentazioni sottilmente teologiche o filosofiche per dare spazio alle componenti emozionali o spettacolari. L’immagine dei “selvaggi” che circola nel Settecento è piuttosto quella diffusa dal barone di Lahontan o da De Foe, e più tardi da Bernardin de Saint-Pierre o da Bougainville, che non quella dei giusnaturalisti o degli illuministi.

Se vogliamo in qualche modo datare un inizio del “nuovo corso” possiamo farlo risalire al 1683, quando padre Louis Hennepin, un “recollet” belga già aggregato alla spedizione di La Salle, pubblica la Description de la Louisiane nouvellement decouverte au sud-ouest de la Nouvelle France. Mescolando realtà, fantasia e millanterie il francescano descrive una natura incontaminata e fertile (è il primo occidentale a vedere, o perlomeno a descrivere, le cascate del Niagara), racconta di avventure mirabolanti e di grandi passioni, presenta “selvaggi” che parlano con un’arte oratoria degna di Cicerone e conservano intatta la capacità di un alto e nobile sentire. Hennepin conosce in effetti la vita indiana, per essere stato catturato dai Sioux ed avere vissuto con loro, come prigioniero, per qualche mese (afferma addirittura di essere stato adottato da un capo indiano): ma il valore documentario della sua opera è alquanto discutibile. Indubbio è invece l’effetto: il suo racconto, oltre a ravvivare l’interesse per l’America degli ambienti politici e commerciali francesi, fino a quel momento piuttosto tiepido, accende l’entusiasmo di molti giovani assetati di avventura.

Tra costoro c’è il barone Louis Armand de Lahontan, personaggio decisamente controverso e intrigante, che nel 1683, a soli diciassette anni, si arruola nell’esercito e viene spedito in Canada, dove si trova a vivere l’epopea dell’esplorazione della zona dei grandi laghi e delle guerre tra la nazione urone e quella irochese. Lahontan rimane nella nascente colonia per dieci anni, durante i quali impara perfettamente le lingue algonchine e condivide per lunghi periodi la vita e i costumi delle popolazioni indiane. Alla fine, per contrasti nati con il governatore, diserta e rientra in Europa. Naturalmente non può tornare in Francia (anzi, fornisce esortazioni e suggerimenti al governo inglese su come subentrare ai francesi), e pubblica in Olanda nel 1703 i Nouveaux voyages de M. le baron de La Hontan dans l’Amérique septentrionale, cronaca della sua vita canadese, seguiti dai Mémoires de l’Amérique septentrionale, osservazioni sulla geografia e sulle istituzioni delle tribù indigene, nonché da un Supplément aux Voyages, ou Dialogues curieux entre l’auteur et un sauvage de bon sens qui a voyagé, in cui esalta la vita primitiva attaccando violentemente il cristianesimo e la civiltà europea. Nei suoi scritti racconta le peregrinazioni lungo l’alto corso del Mississippi e la scoperta di altro fiume, la “rivière longue”, probabilmente il Missouri, la sua permanenza per più anni nei villaggi algonchini, gli scontri con gli inglesi e con le tribù avversarie. È un racconto vivace ed incalzante, che appassiona i lettori e divulga un’immagine nuova e diversa del selvaggio americano. Nel Supplemento, in particolare, attraverso il dialogo tra lo stesso Lahontan e un capo urone di nome Adario, viene esaltata la condizione di assoluta libertà e serenità dei popoli nativi. L’idealizzazione dello “stato naturale” è mirata soprattutto a mettere sotto accusa le complicazioni e le restrizioni comportate da una civiltà europea avvelenata dalla religione, dalle leggi e dalla proprietà privata[14]. I “selvaggi” non hanno bisogno di giudici, e quindi di prigioni, perché non conoscono la proprietà e nemmeno l’uso del denaro; non hanno bisogno di preti, perché la loro religione è semplice e la loro vita è esente dai vizi tipici degli europei; non hanno bisogno di capi, di funzionari e di burocrazie perché sono liberi e completamente padroni dei loro corpi, e non conoscono discriminazioni tra ricchi e poveri.

Alla stessa immagine perviene, partendo da esperienze e motivazioni decisamente differenti, Anthony Cooper, terzo conte di Shaftesbury, in un saggio sulle “Caratteristiche di uomini, costumi, opinioni, tempi” pubblicato nel 1711. Shaftesbury non ha mai visto un selvaggio, ma non ne fa un problema: ciò che gli preme è trovare argomenti contro la dottrina del peccato originale. Gli indiani raccontati da Lahontan e da Hennepin gliene offrono a iosa: dimostrano che lo stadio “naturale” è assolutamente positivo e che fino a quando non vengono guastati da una civiltà piena di vizi, di ingiustizie e di corruzione gli uomini sono essenzialmente buoni. In un universo che è armonico e ordinato sono necessariamente tali anche le leggi che governano la sfera morale, e il bene comune si accorda pienamente con quello individuale. Non c’è conflitto tra egoismo e altruismo, dal momento che quando l’individuo opera “scelte razionali” queste tengono conto dell’interesse comune, e il singolo persegue il bene universale mentre realizza il proprio. Shaftesbury parte dal principio che “se in una creatura o in una specie v’è qualche cosa di naturale, è ciò che contribuisce alla conservazione della specie stessa e determina il suo benessere e la sua prosperità”. Pertanto, al contrario di ciò che afferma Hobbes, l’uomo è spontaneamente incline alla società con gli altri uomini, poiché l’istinto sociale è insito nella sua stessa disposizione naturale. “Se devi cercare un modello etico”, consiglia dunque al suo lettore “cercalo nella semplicità dei modi e nel comportamento innocente che era spesso proprio dei puri selvaggi, prima che essi fossero corrotti dai nostri commerci[15]. Shaftesbury va quindi oltre la posizione libertina, che era soprattutto indirizzata ad una contrapposizione ideologica. Non rifiuta la civiltà cristiana, ma la civiltà tout court. E in questo senso va oltre non solo le posizioni di Hobbes, ma quelle dello stesso Montaigne.

Le avventure di Lahontan esercitano un enorme influsso su un’opinione pubblica che cresce con la diffusione della lettura, cosi come le idee di Shaftesbury lo hanno su tutta la filosofia settecentesca: ma questo vale più sul continente che oltremanica. In Inghilterra lo sguardo sui nativi americani rimane in verità piuttosto disincantato. Colpisce in negativo la loro povertà istituzionale e l’assenza di tecnologia. Il modello del pensiero inglese è perfettamente riassunto dal Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe. Duecento anni dopo l’isola di Utopia, protagonista è un’altra isola, nella quale però il collettivismo lascia il posto all’individualismo. I selvaggi possono essere buoni, come Venerdì, quando sono disposti a fungere in pratica da schiavi (il fatto stesso che Robinson gli imponga un nome, come fa Adamo con tutte le cose dopo la creazione, invece di chiedergli se ne ha uno, è una chiara presa di possesso), o cattivi, come i cannibali che frequentano l’isola per i loro macabri banchetti, che vanno quindi combattuti e possibilmente sterminati. L’idea di avere qualcosa da imparare da loro non passa a Robinson nemmeno per il capo.

D’altro canto, sia pure con esiti più sfumati, ma adottando comunque un angolo visuale non molto dissimile, il tema del selvaggio americano era già stato trattato da Locke nel secondo dei Due trattati sul Governo (1690). Locke va al sodo. “Mi chiedo se nelle foreste vergini o negli immensi spazi incolti dell’America, abbandonati alla natura senza alcuna bonifica, alcun dissodamento o coltivazione, un migliaio di acri forniranno ai poveri e disgraziati indigeni altrettante comodità di vita quante ne forniscono dieci acri di terra ugualmente fertile nel Devonshire, dove son ben coltivati […]” Poveri e disgraziati: altro che vita beata nella natura. Verrebbe da chiedere a chi i dieci acri fornissero le comodità di vita, stanti le condizioni in cui versavano i contadini inglesi ai primi del Settecento: ma Locke non sta a sottilizzare: “in mancanza dell’incremento apportato dal lavoro, non hanno nemmeno la centesima parte delle comodità di cui godiamo noi”. Il lavoro, la proprietà, il denaro, prima ancora che lo sviluppo delle tecnologie, che era stato uno degli argomenti a favore della superiorità occidentale nel Seicento, costituiscono per Locke il discrimine tra uno stato naturale di miseria ed uno civile di benessere. Da notare che Locke è un sostenitore dello “stato di natura”[16], e che in un altro capitolo dello stesso trattato utilizza in funzione polemica antilegittimista il tema della concordia interna ai gruppi tribali e dell’assenza di dinastie monarchiche, dal momento che i selvaggi eleggono i loro governanti[17], e conferiscono loro poteri limitati ai periodi di belligeranza: “I Re degli indiani sono poco più che generali delle loro armate. Pur avendo un comando assoluto in guerra, tuttavia negli affari interni e in tempo di pace essi esercitano un potere assai esiguo […]”. Ma se la naturale condizione umana non è per Locke la guerra di tutti contro tutti, e ogni uomo ha in sé una naturale predisposizione alla giustizia e alla pace, è solo nello stato di diritto, o stato sociale, che le regole impresse dalla natura nel suo cuore trovano la piena e concorde attuazione. Gli uomini sono stati creati per vivere in società, e non in solitudine.

In Francia e sul continente il filone letterario-filosofico del “buon selvaggio” trova un terreno più consono, ed è declinato nelle sue più diverse sfumature. Il padre gesuita Joseph François Lafitau (scopritore tra l’altro delle virtù del ginseng canadese e considerato uno dei fondatori dell’antropologia) nel 1724 pubblica Moeurs des Suavagés ameriquains, comparées au moeurs des premiers temps. In questo caso l’esperienza è maturata sul campo, con uno studio approfondito delle popolazioni irochesi, ma è fortemente mediata da una intenzione ideologica (Lafitau sostiene il monogenetismo, e di conseguenza il diffusionismo culturale). Nei riti e nelle credenze dei popoli primitivi ritrova la spiegazione dei riti e delle credenze di quelli classici, tanto da arrivare ad affermare che gli indiani americani sono i diretti discendenti dei Lacedemoni, arrivati nel nuovo continente dopo aver attraversato tutta l’Asia e superato lo stretto di Bering. Anche se non crede ad una assoluta eguaglianza degli spiriti (cosa che invece credeva Fontenelle[18]), Lafitau vede la condizione dei “selvaggi” come uno stadio significativo della storia dell’umanità (in linea peraltro con quanto afferma quasi contemporaneamente Giovan Battista Vico nei Principi di una Scienza Nuova, del 1725). Quindi uno stadio primitivo, nel quale sopravvivono però le qualità fondamentali di coraggio, schiettezza e lealtà proprie degli antichi eroi della classicità.

Ludovico Antonio Muratori, dal canto suo, propone nel 1743, con il Cristianesimo felice de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai, una storia delle riduzioni gesuitiche compilata in funzione apologetica dell’operato della Compagnia, proprio nel pieno della tempesta che porterà di lì a qualche anno alla sua soppressione. In questo caso lo “stato di natura” è per Muratori quello che rende possibile la riaffermazione della “vera chiesa”, che consente di veder riapparire “lo spirito dei primi cristiani”, nei quali “abita l’umiltà” che la cristianità europea ha dimenticato. Gli intenti possono apparire diametralmente opposti a quelli di Shaftesbury, ma il presupposto è in fondo lo stesso.

Nelle Lettere irochesi (1752) di Jean Henry Maubert de Gouvest, un ex gesuita dal dente avvelenato, l’irochese Igli è un invece un pretesto in puro stile libertino per mettere alla berlina la religione cristiana, e in generale tutte le fedi, ma anche la cultura formalistica e storicistica degli europei: a questa il “selvaggio” contrappone il suo gusto per la vita e per la natura. Lo stesso spirito informa L’ingénu di Voltaire (1767), dove si raccontano le malinconiche vicende di un indigeno americano schietto e innocente, catturato dagli inglesi, finito a vivere in Francia, convertito al cristianesimo e alle maniere civili, solo per trovarsi a constatare quanto immorale e falsa sia la società evoluta. Voltaire ha peraltro già affrontato il tema dei “selvaggi” nell’Essai sur les moeurs, dove li cita a modello, ma anche in questo caso solo per parlare male dei civilizzati[19]. (Salvo poi darne, come vedremo, un giudizio completamente opposto in un’altra occasione).

Persino Benjamin Franklin, rappresentante di una nazione che nasce sulla negazione agli indiani del diritto alla propria terra e alla propria cultura, che li ha combattuti prima e arriverà poi quasi a sterminarli, prende posizione in loro favore nei Remarks concerning the savages of North America (1784). “Selvaggi li chiamiamo noi – scrive – perché le loro maniere sono diverse dalle nostre, e noi pensiamo di aver raggiunto la perfezione della Civiltà: ma essi pensano la stessa cosa di se stessi”. Franklin rivolge questo scritto, nel quale non manca peraltro di fare le punte a certe esagerazioni e ai luoghi comuni del mito, ai coloni suoi connazionali. «Non dovete essere così sicuri che il vostro stile di vita sia l’unico modo di vivere dignitosamente. Gli indiani sono brave persone, con una forte fede. Il fatto che non sia la stessa fede che praticate voi non significa che non sia “buona”. Dovete anzi sforzarvi di essere più simili a loro, in quanto sono persone ospitali». Troverà un uditorio alquanto distratto.

In Europa invece il mito del “buon selvaggio” conosce un’ulteriore definitiva consacrazione presso il grande pubblico (anche quello femminile, che non legge le relazioni di viaggio o i pamphlets polemici) quasi a fine secolo, nel romanzo Paul et Virginie di Bernardin de Saint Pierre (1787). In realtà, qui i selvaggi c’entrano poco, dal momento che i protagonisti sono figli della cultura europea che hanno la ventura di crescere in mezzo all’oceano indiano, in un’isola che pare modellata su quella degli utopiani, dove gli abitanti vivono e lavorano in perfetta armonia, collaborazione ed eguaglianza, e che dovrebbe rappresentare le condizioni esistenti allo “stato di natura”. Ma ci sono tutti gli ingredienti per toccare i cuori ed appagare la voglia di esotismo da cartolina che una nuova forma di sensibilità va diffondendo: una storia d’amore tra adolescenti, lo sfondo di un ambiente da sogno, lontano dalle convenzioni sociali e dalla corruzione della civiltà, il tragico epilogo. Di illuministico c’è solo la formazione dell’autore: per il resto, con Paul et Virginie siamo già in atmosfera preromantica, in una concezione sentimentale della vita e spiritualistica della natura[20]. I passi successivi saranno Les Natchez di Chateaubriand (ma siamo già nel 1801), dove l’idillio scocca tra un europeo e una “selvaggia” figlia della natura, e l’Ultimo dei Mohicani, dove le parti addirittura si rovesciano.

Nel frattempo, però, continua ad essere mostrata anche l’altra faccia della medaglia, quella del “cattivo selvaggio”. Non si tratta necessariamente di rivangare la crudeltà e la brutalità che imperano allo stato primitivo, rappresentazione che anima ad esempio in Inghilterra un acceso dibattito durante la guerra dei sette anni sull’utilizzo di alleati indiani[21]. Anche senza far ricorso ai cannibali o ai sacrifici umani ci si richiama ad una valutazione realistica delle miserabili condizioni, rapportate ai parametri europei, in cui vivono le popolazioni americane: sono condizioni che non sembrano lasciare alcuno spazio a quelle prospettive di costante miglioramento che l’illuminismo pone a significato ultimo dell’uomo.

Il giovane ecclesiastico olandese Cornelius de Pauw pubblica nel 1768 le Recherches philosophiques sur les Américains, un poderoso studio sulla natura delle Americhe e sui loro abitanti. De Pauw ribalta completamente la prospettiva. Sottolinea il ritardo economico, tecnologico e culturale dei selvaggi, e lo spiega da un lato con la natura troppo rigogliosa del continente, che consente di sopravvivere senza impegnarsi molto, dall’altro con la “pusillanimità innata” dei suoi abitanti, la “constitution de la vie sauvage”. In sostanza, la fortuna di un popolo è vivere su una terra che non dia nulla senza la contropartita di uno sforzo, perché induce a produrre più del necessario. Questo è verificabile peraltro anche nei comportamenti dei conquistatori europei: i coloni inglesi stanno “risanando” l’ambiente naturale americano con il loro lavoro, e stanno cercando di trasmettere il loro spirito operoso anche agli aborigeni, mentre quelli spagnoli e portoghesi si sono lasciati ammorbare dall’ambiente e contagiare dalla pigrizia degli indigeni. Come spesso accade, le posizioni più conservatrici o reazionarie si rivelano poi le più lungimiranti. Du Pauw ignora volutamente tutta la letteratura “positiva” delle relazioni gesuitiche e dei pamphlets libertini, ma preconizza un futuro radioso per l’America, sia sul piano economico che su quello culturale, anche se lo pospone di almeno tre secoli (forse per dare il tempo agli aborigeni di estinguersi e agli inglesi di dissodare)[22]. Se si prescinde delle tesi razziste, il suo è in realtà un ritratto dell’America alla metà del Settecento molto più veridico di quelli che circolano nel milieu libertino: ed è anche rimarcabile il fatto che in conclusione l’autore si auguri che non si ripeta in altri continenti quello che è accaduto nel nuovo, dove gli Europei hanno fatto una strage orrenda degli abitanti originari: se non sappiamo far altro che peggiorare la loro situazione, scrive De Pauw, lasciamoli almeno vivere in pace nella loro miseria[23]. Che è già qualcosa di meglio della pretesa di “civilizzarli”, e di più realistico di quella di farne dei modelli.

Uno schivo e misconosciuto frequentatore del gruppo degli enciclopedisti, Nicolas Antoine Boulanger, fa piazza pulita di tutta la mitologia sull’Eden primordiale ne L’Antiquité dévoilée par ses usages, pubblicata nel 1766. Boulanger è un pensatore fuori dal coro, particolarmente ecclettico, precursore di Wittfoghel ma anche di Alfred Wegener, lo scopritore della deriva dei continenti. Parte dall’analisi delle religioni, dei riti e dei miti antichi, ripercorre le fasi dell’imporsi di un dispotismo teocratico originario, fondato sulla paura e sulla debolezza della ragione, e disegna un percorso evolutivo dell’uomo sociale. L’intento è quello di arrivare a smascherare ogni forma di dispotismo politico, che a suo parere altro non è che una teocrazia laica, nella quale le ritualità religiose sono semplicemente sostituite da un cerimoniale politico altrettanto artificioso. Il cammino verso la libertà, intrapreso solo dall’uomo occidentale, perché gli orientali continuano ad essere sottomessi a dispotismi di vario genere, è insieme un percorso sociale e individuale di liberazione dalla natura originaria, tutt’altro che innocente e fiera, di progressiva emancipazione dalle paure e dalla superstizione.

Boulanger non costituisce un’anomalia: testimonia il fatto che nell’ambiente illuminista la naturale bontà dei “selvaggi” e le meraviglie dello stato di natura non sono dei dogmi, ma piuttosto dei pretesti per il dibattito sui modi e sugli esiti del processo di “civilizzazione”. Anche i maggiori esponenti del movimento, primo tra tutti Voltaire, nutrono più di un dubbio. D’Holbach stesso (che peraltro è l’editore delle opere di Boulanger) riporta raccapriccianti episodi delle guerre indiane riferitigli dal barone di Dieskau (quello rappresentato in celebre quadro di Benjamin West mentre sta per essere scalpato da un irochese e viene salvato in extremis dal generale Johnson). Tanto il quadro che il racconto sottolineano il contrasto tra il senso dell’onore e il rispetto dell’avversario degli europei e la vile ferocia dei selvaggi (il barone Dieskau è ferito e indifeso)[24].

La fase americana della guerra dei Sette Anni, combattuta al di fuori di ogni regola militare e di ogni convenzione morale, smorza alquanto gli entusiasmi dei fautori dello stato di natura. Nel frattempo, però, si apre un orizzonte alternativo. Vengono pubblicate in rapida successione le relazioni sui viaggi d’esplorazione nelle terre australi di Byron, di Wallis, di Carteret, di Bougainville e di James Cook, tutti compiuti nel volgere di una manciata di anni, che rivelano l’esistenza di una cultura edenica conservatasi intatta, lontano dalla civiltà e dalla cristianizzazione[25]. Lo specchio nel quale riflettersi non sono più gli indiani americani, ma gli indigeni polinesiani.

I “selvaggi” dei Mari del Sud non sono feroci come gli irochesi né apatici come gli indios sudamericani. Sono allegri, spontanei, ospitali. Non conducono una vita stentata e miserabile[26]. Al momento di ripartire, dopo aver scoperto Tahiti e avervi soggiornato per qualche tempo, Wallis non riesce a trattenere la commozione[27]. Sin dal primo impatto Bougainville è affascinato dalla loro fisicità, gli uomini robusti e tatuati, le donne aggraziate e sensuali: “Le piroghe erano piene di donne che, per l’aspetto gradevole non apparivano di certo inferiori alla maggior parte delle europee, e con queste avrebbero potuto gareggiare con vantaggio”. Il paesaggio stesso suggerisce dolcezza, facilità e felicità del vivere: “Io stesso ho passeggiato diverse volte all’interno dell’isola. Mi credevo trasportato nei giardini dell’Eden[28]”. Ma mentre passeggia nell’Eden lo sta già profanando. Nel corso della prima spedizione Cook scrive nel suo diario: “Stiamo corrompendo la loro integrità morale, già di per sé portata al vizio, e diffondiamo tra loro bisogni e forse anche malanni prima sconosciuti per loro e che servono solo a turbare la tranquilla felicità di cui essi e i loro progenitori hanno sinora goduto”. È trascorso solo un anno dalla partenza di Bougainville.

Il tema del degrado della condizione indigena, della corruzione degli animi e dei costumi indotta dal contatto con gli europei, ricorre nei resoconti di tutti i viaggiatori dell’ultima parte del Settecento e di tutto il secolo successivo. Lo ritroviamo in Georg Forster, che partecipa alla seconda spedizione di Cook, e poi in Humboldt, in Darwin e in Wallace. Costituirà in effetti il leit-motiv di tutta la letteratura etnografica otto-novecentesca, fino a Levi-Strauss e oltre. Riflessioni di questo genere non erano certo mancate anche nei secoli precedenti, rispetto alle civiltà e alle culture americane: ma sono decisamente rafforzate dall’incontro con le popolazioni dei mari del Sud. I motivi, come abbiamo visto, sono essenzialmente due: da un lato la situazione incontrata dai primissimi scopritori, che presenta davvero tutti i requisiti per far pensare all’Eden[29], dall’altro la rapidità con la quale questa situazione si degrada. Tra il racconto di Bougainville e quello di Forster intercorrono dieci anni, e dalla meraviglia si è già passati al rimpianto[30]. È ora di iniziare a tirare qualche somma.

Guillaume Raynal, altro gesuita tornato allo stato laicale, pubblica nel 1770 l’Histoire philosophique et politique des établissements des Européens dans les deux Indes. Nel decennio successivo ne verranno edite altre due successive versioni, ampliate fino a raddoppiarne l’estensione e a conferirle un respiro immenso. Alla fine l’opera viene a costituire quella che può essere considerata la prima storia della globalizzazione, ripercorsa ed interpretata da ogni angolo visuale e con uno sguardo che pone problemi ancora oggi di stretta attualità. L’Hisoire costituisce in effetti il pendant storico dell’Encyclopédie: non a caso dietro ad entrambe c’è il genio di Denis Diderot, non soltanto ispiratore ma materiale estensore e responsabile delle parti più significative. Non si tratta solo della redazione di un bilancio: l’opera è un vero, appassionato manifesto di denuncia di un modello di civilizzazione ferocemente imperialista, che ha esportato in tutto il mondo il dispotismo, le diseguaglianze sociali, l’assenza di libertà e i costumi corrotti tipici della società europea.

Diderot ha una sua particolare posizione sullo “stato di natura”. Pur essendo un apostolo della scienza e più ancora delle sue applicazioni pratiche, delle tecnologie, nelle quali vede lo strumento per un continuo progresso, nel Supplément au voyage de Bougainville, pubblicato nel 1772, sembra non sottrarsi al mito del buon selvaggio. “Noi siamo innocenti, noi siamo felici; e tu non puoi che nuocere alla nostra felicità. Noi seguiamo il puro istinto della natura; e tu hai cercato di cancellarne il carattere dalle nostre anime. Qui tutto appartiene ad ognuno; e tu ci hai insegnato non so quale distinzione tra il tuo e il mio. Noi siamo liberi; ed ecco che tu hai sotterrato nella nostra terra il simbolo della nostra schiavitù futura”. Chi parla in questo modo è un vecchio tahitiano, che descrive a Bougainville gli effetti prodotti tra la sua gente dall’arrivo degli Europei.

Il vecchio risponde a distanza di ottant’anni ai giudizi di Locke: “Noi possediamo tutto ciò che ci è necessario, tutto ciò che è bene per noi. Siamo forse degni di disprezzo per non aver saputo crearci bisogni superflui? Quando abbiamo fame, noi abbiamo di che sfamarci; quando abbiamo freddo, noi abbiamo di che vestirci […] Ricerca fin dove vuoi quelle che tu chiami comodità della vita; ma consenti a esseri forniti di buon senso di arrestarsi quando essi potranno ottenere soltanto, dalla continuazione dei loro sforzi penosi, dei beni immaginari”. La risposta in verità vale anche per il Bougainville reale, che a giustificazione della partenza per il suo giro attorno al mondo aveva scritto: “Si troverà nei mari del sud una sorgente inesauribile di esportazione per i prodotti francesi, a vantaggio delle popolazioni immense che li abitano e che, nell’ignoranza in cui vivono, apprezzeranno infinitamente ciò che la nostra cultura ha reso così comune e ha ridotto da noi a così vil prezzo. Di lì trarremo i beni che la natura offre laggiù[31].

Il portavoce di Diderot mette persino in questione la superiorità razionale degli europei: “Lasciaci i nostri costumi; essi sono più saggi e più onesti dei tuoi: non vogliamo scambiare ciò che tu definisci la nostra ignoranza con i tuoi lumi inutili”. La conclusione è perfettamente in linea con quelle di Lahontan e di Shaftesbury, e in parte, come vedremo, anche con quelle di Rousseau: “Esisteva un tempo un uomo naturale; all’interno di quest’uomo si è introdotto un uomo artificiale, e nella caverna si è accesa una guerra continua che dura per tutta la vita. Talvolta l’uomo naturale è piú forte, talvolta è invece sconfitto dall’uomo morale e artificiale. […]

Ma allora, si deve civilizzare l’uomo, oppure abbandonarlo al suo istinto? Se si deve rispondere francamente, dirò che dovete civilizzarlo, se avete intenzione di diventarne il tiranno: avvelenatelo quanto piú potete di una morale contraria alla natura; frapponetegli ostacoli di ogni specie; impedite i suoi movimenti in mille modi; ispirategli fantasmi che lo spaventino; perpetuate la guerra nella caverna, di modo che l’uomo naturale sia sempre incatenato ai piedi dell’uomo artificiale. Se invece lo volete felice e libero, non intervenite nelle sue faccende: già troppi incidenti imprevisti lo condurranno alla luce e alla disperazione; e restate pur sempre convinti che non è a vostro profitto, ma per proprio vantaggio, che alcuni saggi legislatori vi hanno costruiti e conformati così come siete”.

Mezzo secolo dopo sembra di sentir ripetere il discorso di Adario a Lahontan. Ma non è la stessa cosa. In mezzo ci sono una militanza illuminista eclettica e perennemente curiosa, fatta di profonde e sincere amicizie e di rispetto intellettuale per le opinioni altrui, i rapporti con il sensismo materialistico di Condillac e D’Holbach, la conoscenza del pensiero di Shaftesbury, del quale Diderot ha tradotto le opere principali e adottate le idee di tolleranza: c’è, soprattutto, una rara capacità di mettere in discussione i propri convincimenti, di fronte alle realtà e alle situazioni che le nuove conoscenze fanno intravvedere. Diderot non pensa affatto che l’uomo debba abbandonarsi ai suoi istinti o lasciarsi determinare dalle forze naturali. La libertà dell’individuo sta per lui proprio nella capacità di dominare gli uni e le altre, o quantomeno di sottrarsi al loro condizionamento, e quindi alla superstizione e ai pregiudizi, attraverso la conoscenza tanto dei fenomeni naturali che della storia umana. È ben lontano dall’idea di uno stato naturale edenico. Ma ci sono degli aspetti del racconto di Bougainville che lo hanno profondamente colpito. Il primo è la sensualità spontanea e innocente dei tahitiani (“La ragazza lasciò cadere negligentemente una stoffa che la copriva e apparve agli occhi di tutti nello stesso modo in cui Venere apparve al pastore frigio”, scriveva Bougainville), che al contatto con gli europei si è degrada immediatamente a lussuria. Diderot fa dire al vecchio: “Le nostre figlie e le nostre donne sono comuni; tu hai condiviso con noi questo privilegio, e hai acceso in esse furori sconosciuti. Esse sono diventate folli nelle tue braccia, e tu sei diventato feroce tra le loro. Esse hanno cominciato a odiarsi; voi vi siete battuti per esse, e ci sono ritornate macchiate del vostro sangue”. La prima lotta per la liberazione dalle paure e dai tabù concerne per Diderot proprio la sfera del corpo (coerentemente col suo sensismo): conoscerlo e viverlo appieno significa riprenderne possesso, dopo l’espropriazione operata per tanti secoli tanto dalla chiesa quanto dai poteri civili.

Il secondo aspetto concerne i rapporti sociali e il loro legame con il regime economico, l’assenza di sperequazioni tra ricchi e poveri. Bougainville aveva scritto: “È probabile che i tahitiani pratichino fra loro una lealtà che non conosce incrinature. Siano essi in casa o no, giorno o notte, le case sono aperte. Ciascuno coglie i frutti nel primo albero che incontra, o ne prende nella casa in cui entra. Parrebbe che, per le cose assolutamente necessarie alla vita, non esista il diritto di proprietà, e tutto appartenga a tutti”. E infatti il vecchio accusa: “Qui tutto appartiene ad ognuno; e tu ci hai insegnato non so quale distinzione tra il tuo e il mio”. Il paradiso perduto, insomma, non è tanto quello esotico dei mari del Sud, ma quello domestico di un’Europa dove la “civilizzazione” ha coinciso con un progressivo asservimento: “Richiamiamoci a tutte le istituzioni politiche, civili e religiose: esaminatele profondamente – e, se non mi inganno, vi vedrete la specie umana piegata di secolo in secolo sotto il giogo che un ristretto numero di imbroglioni si proponeva di imporle. Diffidate di colui che vuol mettere ordine”.

Di questo asservimento mascherato dai vuoti rituali politici e religiosi e dall’ipocrisia delle buone maniere, messo ora a nudo attraverso la brutalità con la quale si è espanso a tutto il globo, l’Histoire di Raynal e Diderot offre una radiografia cruda e indignata. È una lettura delle forme del potere e del nascente imperialismo che lascerà il segno, anche se a prevalere nell’immediato parrà piuttosto la lezione di Rousseau.

Paradossalmente, tra i pensatori illuministi Rousseau è quello meno vicino al mito del buon selvaggio. Mentre il modello giusnaturalista dava dello stato di natura un’interpretazione “realistica”, collocandolo in un periodo storico o in uno stadio particolare del processo di incivilimento, Rousseau lo assume invece come categoria teorica[32]. Con lui lo “stato di natura” diventa in maniera esplicita un criterio di giudizio per sviluppare la critica del presente e condannare le ingiustizie e le disuguaglianze indotte dalla civiltà. Pur essendo un avido lettore di resoconti di viaggio non è particolarmente entusiasta dei costumi delle popolazioni amerindiane (e nemmeno appare commosso dal loro sciagurato destino)[33]. I dati etnografici gli servono soltanto a elaborare il paradigma di una ideale “sauvagerie”. Il selvaggio da lui ipotizzato non è né buono né cattivo, vive in una sorta di limbo di innocenza. Nel Discorso sulle scienze dice: “I selvaggi non sono precisamente cattivi, per-ché non sanno cosa sia essere buoni; poiché non è l’accrescimento dei lumi né il freno della legge, ma la calma delle passioni e l’ignoranza del vizio che impedisce loro di fare il male”. Adeguando esattamente i loro bisogni alle risorse di cui dispongono non necessitano di sviluppare le arti e le tecniche o di creare istituzioni sociali. Allo stadio naturale l’uomo torna ad apparire a Rousseau come un essere “senza”, senza occupazione, senza linguaggio, senza domicilio, senza guerra e senza legami[34]. È evidente che non sta pensando agli Uroni o agli indios amazzonici, ed anche che non auspica un ritorno allo stato “selvatico”.

L’“uomo naturale” possiede in potenza due strumenti fondamentali per uscire da questo torpore: il libero arbitrio e la capacità di perfezionarsi. Stimolato da fattori esterni, ambientali, l’uomo ha utilizzato questi strumenti, ma in maniera sbagliata: ha iniziato a costruirsi una famiglia, ha inventato la metallurgia e l’agricoltura, le quali a loro volta hanno indotto il senso della proprietà e le disuguaglianze, e di conseguenza lo Stato, per difenderle e perpetuarle. L’uscita dallo stato primitivo ha coinciso quindi con il passaggio dall’uguaglianza primitiva alla disuguaglianza propria della società progredita: in questo senso la storia non è che una “deviazione”. Per certi versi l’uomo civile è superiore all’uomo primitivo: ma si tratta di recuperare la bontà e la felicità che furono propri di quest’ultimo, e lo si può fare solo con una diversa educazione, che lo lasci liberamente sviluppare secondo natura.

I buoni selvaggi sono quindi per Rousseau piuttosto i montanari svizzeri (peraltro già portati ad esempio anche da Locke) che gli americani. La prossimità alla natura consiste per lui nella fedeltà a una vita semplice e operosa, rispettosa delle antiche tradizioni di libertà: quella in definitiva che può essere riscontrata, senza tanti esotismi, nella repubblica ginevrina. Non sono tanto i modi della vita, quanto i sentimenti naturali, la contrapposizione ai costumi corrotti degli stati assolutistici, a determinare il grado di libertà.

L’incontro settecentesco con la diversità non riguarda però solo i “selvaggi”. Sono “diverse” anche quelle culture con le quali esiste un’antica consuetudine, ma che vengono ora riscoperte sull’onda di un espansionismo economico (e presto politico e militare) che ingenera necessariamente anche una curiosità culturale. L’immagine dell’Oriente era rimasta per secoli quella trasmessa da Marco Polo e dagli altri viaggiatori nel XIII e XIV secolo, mediata prima dai rapporti con Bisanzio e poi da quelli intrattenuti soprattutto da Venezia con il mondo ottomano, e per suo tramite con la cultura arabo-mussulmana: una mescolanza di mistero, di favola, di crudeltà e di vita intensa dei sensi. Ancora agli inizi del Seicento la letteratura (si pensi al Tasso o a Marino) insiste su questa immagine fortemente sensuale, ripresa e rafforzata negli scritti degli esploratori e dei viaggiatori, che sottolineano sempre gli aspetti “scandalosi” o semplicemente disinvolti della sessualità nelle popolazioni extra-europee: l’idea dei mondi nuovi come luoghi della libidine e dell’eros si riverbera anche su quelli antichi.

La penetrazione dei portoghesi prima e di olandesi, britannici e francesi poi nell’estremo oriente fa conoscere però anche altre realtà: e sono soprattutto i missionari gesuiti affluiti in Cina e in India a strappare il sipario del favoloso e a raccontare agli stupefatti occidentali di società ordinate, laboriose e civili quanto e forse più quella europea. Verso la fine del XVII secolo le relazioni di Matteo Ricci e dei suoi confratelli, le opere di Athanasius Kirkner, insieme all’importazione delle sete, delle ceramiche e del segreto della porcellana, creano una vera e propria mania per le cineserie, ma anche una forte curiosità intellettuale per i costumi di un popolo che sembra aver elaborato leggi perfette, che utilizza amministratori reclutati per concorso ed ha elaborato un sapere filosofico di altissimo livello. La Cina influenza per quasi un secolo il gusto europeo non solo in ambito letterario (Il mandarino meraviglioso di Carlo Gozzi), ma nell’architettura, nell’arredo, nella costruzione dei giardini, sposandosi felicemente con il rococò. Dopo la metà del Settecento, invece, in concomitanza con il tentativo di colonizzazione francese dell’India e la guerra anglo francese che ne consegue, l’interesse si sposta e la sinomania lascia il posto allo studio dei costumi e della religione indiana, aprendo tra l’altro un nuovo fondamentale capitolo negli studi linguistici.

Anche l’oriente arabo conosce un forte ritorno di interesse a partire dai primi anni del sec. XVIII, ma in una direzione diversa. L’edizione francese de Le mille e una notte, del 1704, nella traduzione di Antoine Galland, avvalora l’immagine di luoghi magici e favolosi e incontra un’enorme fortuna tanto in Francia quanto in Inghilterra, dando l’avvio alla moda letteraria del racconto o della fiaba ambientati in un Oriente che è tutto una caverna di Aladino. Gli stereotipi di questa forma di esotismo sono quelli perfettamente riassunti nel Vathek (1786) di William Beckford (autore anche di pregevoli libri di viaggio), dove la magia, e addirittura il demoniaco, si mescolano con l’erotismo, la violenza, la crudeltà, i saperi misteriosi e ogni altro ingrediente capace di solleticare i sensi e la fantasia, piuttosto che la razionalità. Ma la speziatura orientale viene utilizzata, con finalità diverse, anche in altri contesti: per aggiungere sapore al racconto galante (il Sophà di Crébillon fils) o per travestire sotto spoglie esotiche la critica dei costumi e della società occidentali.

Un’utilizzazione satirica dell’esotismo era già stata fatta da Montaigne, che aveva raccontato gli stupori e le perplessità di due cannibali capitati a Rouen. Alla fine del Seicento Giovanni Paolo Marana ne “L’esploratore turco nelle corti dei principi cristiani” (che i francesi traducono “L’espion turc”) fa giudicare gli Europei da un preteso viaggiatore orientale e lancia un nuovo modo di far satira, che di lì a poco conoscerà il suo capolavoro con le Lettres Persanes (1721) di Montesquieu.

Nell’opera di Montesquieu le Lettres stanno a L’Esprit des Lois come in quello di Diderot il Supplément sta all’Histoire. Sono una dichiarazione d’intenti, alla quale seguirà lo studio approfondito dei costumi civili e politici. Montesquieu non può essere iscritto tra i fautori dello stato di natura, anche se nell’opera maggiore indica le società primitive come modelli di virtù e di saggezza[35]. Le culture cui fa riferimento in questo caso sono piuttosto quelle remote nel tempo che quelle lontane geograficamente e, come avviene per Rousseau, la società che lo interessa non è quella naturale, ma quella civile. Non rifiuta lo Stato, ma vuole che sia legittimato dall’equilibrio dei poteri: e non sono certo gli uroni o gli irochesi a potergli fornire dei modelli convincenti. Nemmeno i persiani, a dire il vero: ma questi perlomeno gli offrono lo spunto per criticare le manie, i pregiudizi e gli abusi della civiltà moderna da un pulpito reso credibile da millenni di storia. I suoi due orientali non sono né naturali né ingenui, ma hanno quello sguardo lucido e disincantato che consente di cogliere da “fuori” tutto ciò che risulta oggettivamente ridicolo e assurdo.

I persiani non sono lì per caso. Nel corso della seconda metà del XVII secolo diversi francesi, tra cui Jean Baptiste Tavernier e Jean Chardin, soggiornano a lungo in Persia, attratti soprattutto dal commercio delle pietre preziose, tanto ricercate dalla corte del re sole. Da Versailles vengono inviate anche ambascerie ufficiali, e sono ricambiate. Gli usi e i costumi del paese vengono conosciuti con ricchezza di dettagli, naturalmente anche con qualche esagerazione, e suscitano una impressione positiva, che verrà rafforzata dopo la pubblicazione de Le mille e una notte. La moda persiana è però destinata a tramontare presto. Ad un certo punto, nel secolo successivo, l’influenza francese sulla corte persiana diverrà fastidiosa per la Compagnia inglese delle Indie Orientali, che si mobiliterà per subentrare. I francesi si ritireranno in buon ordine, ma solo per lasciare spazio al nuovo competitore che si affaccia nello scacchiere dell’Asia centrale: la Russia.

 

Schiavitù, diversità, razza

L’attenzione a modelli di civiltà e di cultura diversa, l’assunzione ad esemplarità di uno stato naturale edenico o l’ipotesi di un possibile progresso culturale coinvolgono i popoli asiatici e gli indigeni americani o polinesiani, ma non i neri africani.

Il parametro del giudizio rimane nei viaggiatori del Sei e del Settecento la prossimità al modello bianco. Bougaiville, dopo aver decantato le delizie della “Nuova Citera” e le virtù dei suoi abitanti arrischia il complimento più grande: “Nulla distingue i loro tratti da quelli degli Europei; e se fossero vestiti, se vivessero meno all’aria aperta e in pieno sole, sarebbero bianchi come noi”. Più avanti conclude: “Per il resto abbiamo osservato, nel corso di questo viaggio, che in generale gli uomini con la pelle nera sono molto più cattivi di coloro il cui colore è vicino al bianco”.

Dumont d’Urville descrive così gli abitanti della nuova Zelanda: “I Maori sono di un colore bruno, un po’ più scuro di quello degli spagnoli. Sono molto alti: i loro lineamenti sono generalmente regolari e piacevoli a vedersi. L’influenza del clima più freddo avvicina la loro fisionomia a quella degli europei; il naso aquilino, lo sguardo pensieroso, la fronte rugosa, manifestano un carattere più virile, dalle passioni più durature, una attività più perseverante. […] I Manga-Manga sono invece più piccoli e più robusti; il loro colore è assai scuro; hanno capelli e barba assai crespi e occhi piccoli… i lineamenti del viso poco espressivi”. Lo stesso vale per gli abitanti delle Fiji: “Il colore della loro pelle è poco scuro, soprattutto tra i capi, e questo fatto dà a molti di loro una somiglianza ancor più marcata con gli europei delle contrade meridionali. Ci sono anche individui che alla taglia più bella, al portamento più nobile, alle forme più perfette uniscono i tratti più delicati e un colore quasi bianco o semplicemente abbronzato”.

Quando si vuole sottolineare in positivo l’umanità e la possibilità di integrazione degli indigeni si ricorre alle sfumature: “Sono di alta statura, ben fatti e proporzionati…il loro colore è bronzino, ma piuttosto chiaro” (John Byron)” oppure si abbinano i caratteri fisici all’industriosità e alle capacità tecniche: “Questi indiani sono di color bronzino […] hanno dei bei e lunghi capelli neri […] i loro lineamenti sono di mediocre statura, ma straordinariamente agili, vigorosi e attivi” che si accompagna a “le loro piroghe sono ben lavorate e con molta destrezza” (Carteret).

Il colore bronzino, possibilmente tendente al chiaro, sembra costituire per gli scopritori dei paradisi del Pacifico il limite ultimo tollerabile nella scala cromatica dell’umanità. Oltre c’è il nero, o il tendente al nero, c’è la diversità assoluta, anziché la differenza. Un’istintiva antipatia e contrapposizione verso tutto ciò che è scuro ha da sempre caratterizzato la cultura e il gusto occidentale, portando ad associare simbolicamente il bianco con ciò che è puro e buono e il nero con ciò che è malvagio ed ha a che fare con la morte o con le tenebre. Ma in questo caso all’istinto[36] si sovrappone un convincimento culturale di recentemente acquisito. Questi viaggiatori, e gli scienziati e i filosofi che ne leggono e ne commentano le relazioni, sono figli di Linneo e del nuovo atteggiamento “scientifico”: hanno indossato gli occhiali di un pregiudizio che non è più fondato su contrapposizioni religiose o etniche, ma su una sistematizzazione delle conoscenze in termini di “razionalità” e “scientificità”. Magari senza averne alcuna coscienza, sono portatori di un germe che si svilupperà proprio in seno alla cultura illuministica della tolleranza etnica e religiosa e dell’universalismo. Il razzismo è dunque un virus nuovo, generato, coltivato e diffuso proprio dalla “modernità”.

Il concetto delle differenze razziali basate sulla ereditarietà e sulla biologia si sviluppò soltanto tra popoli che da secoli si erano liberati del servaggio e della schiavitù, ma che mantenevano essi stessi degli schiavi. È importante notare che, fino a quando il commercio degli schiavi fu considerato cosa lecita e nessuna voce si alzò contro di esso, gli schiavi, per quanto trattati come bestie, furono sempre ritenuti esseri umani, sotto ogni aspetto, salvo quello dello status sociale” (Montagu).

In effetti, prima del diffondersi della tratta africana la civiltà occidentale non ha mai postulato nessi di fondo tra schiavitù e diversità etnica. È vero che già Aristotele, nella Politica, giustificava l’esistenza della schiavitù affermando che “[…] per natura, alcuni esseri comandano, altri obbediscono, ai fini della reciproca sicurezza […]” e che “[…] colui che è abile soltanto ad eseguire con la fatica del corpo è inferiore, e naturalmente schiavo”: ma le sue argomentazioni non fanno riferimento a caratteri biologici specifici, quanto piuttosto ad una attitudine spirituale, che non ha legami di sorta con i tratti morfologici. È solo il concetto della “superiorità” culturale diffuso nel mondo greco, portato alle estreme conseguenze attraverso la razionalizzazione. Da quel mondo arriva piuttosto, per voce del suo più famoso viaggiatore, la testimonianza di un criterio estetico non etnocentrico che farà difetto ai moderni. Parlando degli Etiopi Erodoto infatti dice: “Vi si trovano gli uomini più alti, più belli e più longevi”. Un atteggiamento altrettanto aperto, e più moderno ancora, troviamo nella cultura romana. Nel De Legibus Cicerone afferma che “gli uomini, diversi quanto a sapere, sono però tutti uguali nella loro attitudine al sapere: non c’è nessuna razza (genus) che guidata dalla ragione non possa raggiungere la virtù[37]. Ha qualche dubbio, in verità, nei confronti degli ebrei, ma il dato di fondo è l’assenza di qualsiasi discriminazione pregiudiziale. Certo, possiamo trovare altrettanti riscontri di un atteggiamento opposto, in Plinio il Vecchio[38], ad esempio, in Pomponio Mela, in Strabone e in Tacito[39], ma anche questi autori non arrivano mai a mettere in discussione l’unicità di quel genus.

Le cose non cambiano in epoca cristiana. San Paolo sancisce l’unità di tutti i popoli in Cristo[40]. È vero che Agostino, prendendo spunto proprio da Plinio, si pone il problema di una comune discendenza di tutti i popoli della Terra da un solo progenitore, soprattutto di quelli “mostruosi che abitano i confini del mondo”; ma lo risolve con una professione di fede monogenetica[41] e soprattutto, quantunque “africano bianco”, non accenna minimamente ad un problema specifico posto dalla “negritudine”.

La presunzione di una superiorità “latina” e poi “cristiana” rimane certamente viva, e si accentua, in età medioevale: si alimenta però sempre di contrapposizioni culturali o religiose (è il caso degli ebrei) e sottolinea le differenze etniche soltanto in funzione di queste ultime. Si arriva al più a dare credito alle favole su esseri intermedi, su uomini con la coda ed altre straordinarie ibridazioni, confinando comunque queste presenze ai limiti del mondo, in una dimensione che non comporta problemi di valutazione biologica.

Non solo. Nel Medio Evo si può addirittura rintracciare un certo apprezzamento per i “mori”, al contrario di quanto avviene nei confronti degli ebrei. Un primo motivo è verosimilmente legato al fatto che i neri sono comunque lontani, non costituiscono una presenza tangibile e inquietante, mentre gli ebrei sono presenti e pongono quotidianamente con la loro presenza il problema della diversità. Ma esistono anche altre ragioni plausibili. L’ultima delle svariate localizzazioni del mito del prete Gianni, ad esempio, colloca in Africa, nella regione etiope, il favoloso regno dal quale dovrà arrivare soccorso contro gli islamici. E probabilmente si lega a questo mito la comparsa di un nero tra i magi rappresentati nelle Natività. Una condizione di parità sembra vigere persino nel repertorio dei santi, che vede un san Maurizio bianco nelle prime versioni e poi improvvisamente e definitivamente nero, e un san Gregorio il Moro venerato addirittura in Germania. Non viene neppure negata l’appartenenza alla nobiltà ai mulatti generati da nobili con schiave nere e riconosciuti dal genitore (è il caso di Alessandro “il Moro”, della famiglia dei Medici), o a ex schiavi nordafricani adottati da famiglie nobiliari (Leone Africano, anch’egli accolto nella grande famiglia medicea). Solo nella penisola iberica la presenza islamica e il suo retaggio portano precocemente all’associazione tra pelle nera e schiavitù; ciò che spiega peraltro la naturalezza e la disinvoltura con la quale i portoghesi sin dai primi impatti con l’Africa subsahariana hanno dato avvio alla tratta.

Delineare il percorso che dai primi approdi portoghesi nel golfo di Guinea conduce al razzismo “scientifico” del secondo Ottocento è tutt’altro che semplice, soprattutto in un lavoro di sintesi. È sufficiente ad esempio dare un’occhiata alla sterminata produzione storiografica sul razzismo per rendersi conto che la scelta stessa di retrodatare o di posticipare l’apparizione di sintomi evidenti del fenomeno, o di restringere o allargare i criteri per una sua definizione, ne modifica radicalmente la chiave di lettura. Ho scelto pertanto, per praticità e chiarezza, di distinguere nei limiti del possibile e trattare in successione le due angolazioni dalle quali il tema può essere affrontato, quella dello schiavismo moderno e della sua giustificazione e quella conseguente e parallela del razzismo. In parte queste tematiche sono già state sviluppate, almeno per quanto concerne i risvolti pratici, parlando della tratta. In quanto aspetti di uno stesso fenomeno naturalmente si fondono e si incrociano, ma a partire da un certo punto percorrono anche vie autonome. Lo dimostra il fatto stesso che la cessazione della tratta non ha implicato automaticamente la fine dello schiavismo, e che l’abolizione di quest’ultimo non ha affatto coinciso con una ritirata del razzismo (semmai, è avvenuto il contrario).

Stante quello che si è a più riprese affermato nelle pagine precedenti, e cioè che la xenofobia e l’etnocentrismo hanno caratterizzato da sempre, in ogni tempo e cultura, la storia dell’umanità, ma né nell’antichità né nel medioevo e né in Europa né in Oriente hanno mai assunto una vera connotazione “razziale”, resta da capire da quando può essere significativamente documentata la comparsa di quest’ultima tendenza. Credo che la metà del XV secolo possa rappresentare un plausibile spartiacque, per la concomitanza di una serie di eventi che a vario titolo risultano connessi alla nostra direzione d’indagine. Intanto, la caduta di Costantinopoli cambia la percezione della presenza ottomana e del pericolo che rappresenta per l’intera Europa, inducendo la ricerca di rotte commerciali alternative (e quindi aprendo l’epoca delle grandi scoperte geografiche) ma anche una contrapposizione frontale che si alimenta di reciproche demonizzazioni.

Dal lato opposto del Mediterraneo, la “normalizzazione” e la sete di rivincita che seguono la cacciata definitiva degli Arabi dalla Spagna portano ad elaborare, proprio a partire dalla metà del secolo, gli statuti della purezza del sangue (limpieza de sangre). Gli statuti in realtà non fanno che tradurre in uno strumento giuridico codificato dei provvedimenti e un modo di sentire diffuso che erano nati già dieci secoli prima, rivolti specificamente contro gli Ebrei[42]. Ora però tali provvedimenti vengono allargati ai moriscos. Si tratta di una discriminazione su base religiosa, almeno negli intenti: ma diventa invece, visto il clima di sospetto che continuerà a gravare sui conversos, ebrei o arabi che siano, lo strumento per indurre una concezione “ereditaria” della differenza. Per esseri che portano dentro il gene del male non c’è conversione che tenga. Pertanto, una volta “ripulita” la penisola iberica, tutte le immagini negative associate nei secoli precedenti ai moriscos e agli ebrei, soprattutto ai neoconvertiti, verranno in automatico proiettate sugli indigeni americani e sugli schiavi africani.

Negli stessi anni in cui vengono emanati i primi statuti fa la sua comparsa la tratta, e a suo supporto prende avvio il processo di de-umanizzazione dei neri. Gomes Eanes de Zurara sostiene, nella seconda metà del XV secolo, che “i neri sono i discendenti di Cam, la cui razza era destinata a restar sottomessa a tutte le razze del mondo, come afferma Giuseppe nelle ‘Antichità Ebraiche’ […]” Sta facendo appello ad una argomentazione che discendente da una lettura impropria della Bibbia, e che fatta propria dalla cultura islamica è divenuta presto funzionale alla pratica schiavistica diffusa nel mondo arabo: gli abitanti dell’Africana sub-sahariana sono appunto considerati dai musulmani i discendenti di Cam, maledetti e condannati alla schiavitù perpetua.

Sembra non mancare nulla: statuti di purezza del sangue, giustificazione della schiavitù per appartenenza etnica. Tutto parrebbe avere inizio prima ancora della scoperta dei nuovi mondi. In realtà sarà quest’ultima a portare le argomentazioni decisive per la svolta verso il razzismo “moderno”.

Lo strappo è costituito, alla fine dello stesso secolo, dall’incontro con i nativi americani. Il confronto con i “selvaggi” del nuovo mondo non dà luogo ad una vera e propria concezione “razzista”, ma sono proprio questi popoli a mettere in moto quel diverso meccanismo di approccio che ne indurrà i presupposti teorici. Il problema di fondo che essi pongono è quello dell’origine, per la quale non c’è riscontro nella narrazione biblica (a meno di volerli considerare, come qualcuno in effetti subito fa, i discendenti di una delle tribù disperse di Israele). Ci si chiede quindi se si tratti o meno di discendenti di Adamo, e le possibili risposte hanno le implicazioni più diverse, relative al peccato originale, alla possibilità di ricevere il battesimo, ecc…

Il dibattito non rimane comunque circoscritto nei termini dell’esegesi biblica, anche se fino alla metà del XVII secolo il confronto più serrato e significativo si svolgerà proprio su questo piano. L’isolamento plurimillenario induce a pensare che questi popoli non abbiano un’origine comune con quelli da sempre conosciuti, e non basta la bolla papale Sublimis Deus, del 1537, emanata per scongiurare la riduzione degli indigeni in schiavitù[43], a restituire loro la parentela diretta con gli “umani”. Anzi, il pronunciamento ufficiale della Chiesa accelera probabilmente la comparsa e l’affermazione delle teorie poligenetiche, non fosse altro per un automatica presa di distanza da parte del mondo protestante.

Le prime ipotesi in questa direzione cominciano infatti ad essere formulate proprio da posizioni ereticali, come nel caso di Giordano Bruno e di Paracelso. Per quest’ultimo la diversa origine è già sinonimo di inferiorità: gli indigeni sono privi di anima, in quanto creati non da Dio, ma dagli influssi di una particolare congiuntura astrale. Non è un’argomentazione particolarmente pregnante, ma sottintende la possibilità che altre forze, oltre la volontà divina, possano agire o aver agito nella definizione del quadro della vita. Sarà sufficiente sostituire la natura, come agente autonormativo, agli influssi degli astri per entrare nella nuova mentalità scientifica.

Nell’ambito dell’ortodossia prevale invece naturalmente la teoria monogenetica, sostenuta soprattutto dai gesuiti; anticipando di secoli le conclusioni della genetica delle popolazioni essi sostengono per quanto concerne i nativi americani l’ipotesi di una migrazione dall’Asia, anzi, di una serie di migrazioni, che spiegherebbero i differenti livelli di civiltà cui i vari popoli sono pervenuti.

La controversia sull’origine degli indiani si svolge comunque su un terreno nel quale hanno gioco fattori e interessi i più svariati. Lo stesso Colombo passa dal primo entusiasmo ai dubbi appena incontra, già al secondo viaggio, delle resistenze[44]. I conquistadores e gli encomenderos devono giustificare il trattamento inumano riservato agli indigeni. I libertini, nel secolo successivo, usano l’argomento per confutare la narrazione biblica, mentre i gesuiti sostengono l’opinione contraria per giustificare i loro esperimenti di cristianizzazione totale. Altri, come ad esempio il mercante-navigatore George Best, incaricato di redigere il resoconto ufficiale della spedizione di Frobisher, rifiutano la comune discendenza perché questa avvalora l’idea che le differenze fisiche tra gli esseri umani siano da attribuirsi esclusivamente al clima e all’ambiente, idea che può scoraggiare gli europei dal cambiare continente o emisfero. Nella prospettiva di avviare progetti di colonizzazione in tutte le aree del globo, comprese le zone torride o glaciali, è invece necessario fugare nei potenziali coloni ogni timore di una possibile “degenerazione” morfologica, a partire dalla pigmentazione della pelle, affermando che i caratteri sono stati fissati da Dio una volta per tutte e citando a sostegno la solita maledizione di Cam.

Tutto sommato, comunque, la gran parte delle valutazioni espresse sul carattere e sui costumi di questi popoli sono positive, e arrivando quasi sempre da missionari fanno riferimento in particolare alla permeabilità religiosa: le stesse valutazioni verranno poi paradossalmente riprese ed utilizzate nella direzione opposta, della libertà di pensiero e della naturalità dei costumi, dalla cultura libertina. Nell’un caso e nell’altro l’origine comune non è messa in discussione. Meno frequenti sono invece le descrizioni totalmente negative, anche perché le popolazioni americane vengono viste ancora come un insieme unico, nel quale spiccano alcune civiltà che hanno raggiunto un alto livello organizzativo. Non si rende quindi necessario ricorrere a teorie esplicative della differenza culturale e somatica tra i vari popoli della terra su basi biologiche.

Quanto ai neri, il problema si pone in altri termini. Con la loro diversità gli europei hanno convissuto per millenni; non costituisce una sorpresa, non ha mai creato eccessivi interrogativi. Ne hanno dato spiegazioni naturalistiche già gli autori classici, da Erodoto[45] a Plinio, svariando dagli effetti del clima a quelli dell’alimentazione, senza trascurare peraltro anche ipotesi degenerative, ma mai accampando un’origine separata.

L’incontro con le popolazioni della costa subsahariana proietta però la negritudine in una prospettiva nuova, in termini sia economici che psicologici. Il quasi contemporaneo contatto con gli indigeni brasiliani sembra intanto confutare ogni ipotesi di pigmentazione legata al clima e all’ambiente. Sotto il sole dei tropici vivono sulle due sponde dell’oceano uomini dal colore, dai tratti, dalle corporature e dai costumi completamente diversi, difficilmente rapportabili ad un genitore comune. Gli stessi europei, anche dopo lunghe permanenze nelle zone equatoriali, mantengono sotto una momentanea arrossatura il colorito chiaro. Gli africani condividono poi il territorio con specie antropomorfe che suggeriscono una scala dell’essere a gradini distinti: e la contiguità viene facilmente tradotta in una prossimità di “stato”, che relega i neri al fondo della scala. Anche la “protesta” religiosa, soprattutto nella versione luterana, decisamente contraria alla politica di inclusione e di conversione di massa promossa dalla chiesa, porta a cogliere nella diversità il segno di un’esclusione divina: a livello popolare è diffusa, in particolare in Germania, la credenza che il mancato rispetto della Bibbia produca la degenerazione fisica, e che il segno più manifesto sia proprio l’iscurimento della pelle. La responsabilizzazione individuale di fronte al peccato non fa sconti ai popoli “bambini” (nemmeno a quelli più anziani, a giudicare dall’odio di Lutero per gli Ebrei), e non concede loro alcun credito di una crescita futura: esattamente come farà la cultura laico-scientifica.

L’ipotesi poligenetica comincia infatti a diventare dominante verso la fine del Seicento, in una prospettiva ormai sganciata dalle motivazioni religiose, polemiche o apologetiche che siano: il problema della diversità si ripropone ora in termini “scientifici”. Agli inizi essa non comporta un esito necessariamente razzista: uno dei suoi primi sostenitori, Arthur Isaac La Peyrère, nel Pre-Adamitae (1655) afferma che l’origine dei negri è più antica di quella dei bianchi, secondo un’interpretazione che è appunto definita “preadamitica”, dalla quale non trae peraltro alcuna valutazione gerarchica. Ma il preadamitismo compare in un’epoca nella quale l’attenzione si va spostando dal selvaggio americano a quello africano; il primo, buono o cattivo che lo si voglia considerare, del tutto inadatto alla fatica e allo sfruttamento, il secondo al contrario eccezionalmente resistente e utilizzabile in ogni settore lavorativo. Inoltre, si afferma contemporaneamente al maturare di tentativi di interpretazione biologica della diversità orientati verso l’ipotesi di una catena degli esseri.

Già William Petty nel 1677 parla di differenze esistenti tra gli uomini “come tra le diverse razze dei cani”. Nel 1684 poi François Bernier divide gli uomini in cinque razze: europei, negri, americani, lapponi, ottentotti[46], e anche se il suo impiego della categoria di “razza” non implica giudizi morali è automatico che questi scaturiscano dalla suddivisione stessa. È così che verso la fine del ‘600 vi sono autori che possono già intendere il senso riposto di queste elaborazioni dottrinali come un tentativo di giustificazione dello schiavismo. Morgen Goodwin (The Negro’s and Indians advocate, 1680) afferma che sono i proprietari di schiavi a sostenere la teoria preadamitica, in quanto ciò consente loro di evitare di battezzare i propri servi, eludendo così ogni controllo religioso e statale sul trattamento ad essi inflitto. Occorre d’altro canto osservare che si trovano argomentazioni del tutto opposte. Un medico che ha lavorato su navi negriere, John Atkins, sostiene il poligenismo proprio contro le conversioni con le quali i religiosi giustificano la schiavitù.

I due problemi della diversità razziale e della schiavitù cominciano quindi ad essere posti in correlazione. Nel frattempo, le anticipazioni della teoria poligenetica sembrano trovare una conferma scientifica nelle osservazioni di Malpighi e di Ruysch: si comincia a parlare di un “reticolo mucoso” individuato, durante la dissezione di negri, tra lo strato esteriore e quello interno dell’epidermide. Un’argomentazione simile si ha già ne L’Espion Turc del Marana (1686), dove si sostiene espressamente che i bianchi e i negri appartengono a due specie differenti, e si cita la testimonianza di un celebre medico parigino che afferma di aver trovato “una sorta di vascular plexus, che si stendeva per tutto il corpo come una tela”. L’autore ne deduce che “la natura, per distinguerli gli uni dagli altri ha dato dei marchi interni ed esterni per far conoscere la differenza dei loro corpi”. Lo stesso tipo di testimonianza si ritrova in Tyssot de Payot (Voyages ed adventures de Jacques Massé, 1710): “[…] immediatamente sotto l’epidermide trovammo una membrana estremamente delicata, […] ciò diede luogo a ragionamenti sull’origine degli Etiopi, che sembra non essere quella degli altri uomini, vista questa rimarchevole differenza”.

Agli inizi del ‘700 la vecchia interpretazione che attribuiva la differenza di colore agli influssi climatici è ormai in disuso. Anche il linguaggio si adegua. Il termine “razza” compare per la prima volta in un vocabolario francese nel 1690. Il fatto è che quando si trasferisce l’utilizzo di questo termine dalle specie animali a quella umana il fattore di diversità più immediatamente evidente è proprio il colore della pelle. Nelle colonie nordamericane comincia ad essere utilizzato già nel ‘600 l’acronimo Wasp (White Anglo-Saxon Protestant), ad indicare i discendenti dei primi colonizzatori, rigorosamente inglesi, non contaminati con ebrei, afro-americani, slavi o asiatici, appartenenti alle chiese presbiteriane o anglicana. È significativo che la connotazione “cromatica” preceda sia quella etnica che quella dell’appartenenza religiosa. Ma in fondo “Dio è bianco”, e i popoli dell’Europa occidentale, che nel pallore del loro incarnato maggiormente gli si avvicinano, forniscono il parametro sul quale misurare quantitativamente il grado di civiltà le altre culture[47]. Tempo un secolo e in Europa si affermerà il termine ariano, che fa corrispondere ai caratteri morfologici, primo tra tutti naturalmente il colore, un insieme molto più nutrito di peculiarità psicologiche e linguistiche.

Si adegua intanto velocemente anche il mondo scientifico. Le ricerche degli anatomisti sulle cause della diversa pigmentazione dei negri si sono moltiplicate. Oltre alla tesi sul reticulum mucosum ve ne sono altre che parlano di un fermentum nigricans, o individuano l’origine nel sangue e nella bile. Tutte comunque portano ormai allo stesso risultato: la razza nera è separata dalle altre da una barriera biologica. È pur vero che nell’ambito più strettamente scientifico Linneo prende le distanze da una interpretazione forzata del suo Systema naturae (1735): ma in realtà l’opera, anche nella sua neutralità, apre la strada ad una convalida scientifica di quanto era venuto maturando alla fine del XVII secolo[48]. Il fissismo non ammette evoluzioni o salti qualitativi.

La spiegazione “razzista” trova dunque numerosissimi adepti[49], anche se nel mondo scientifico incontra ancora alcuni oppositori. Buffon nelle Varietà della specie umana (1749 e poi 1777) sostiene che a differenziare gli uomini sono solo le sfumature: se vi sono differenze tra questi popoli, esse non concernono che il più o il meno di difformità. Pur parlando di “razza”, e introducendone in pratica il concetto antropologico, non intende assolutamente il termine in senso biologico. Ciò malgrado, riesce ad essere razzista su altri presupposti: sostiene infatti la teoria della degenerazione, in base alla quale tutti gli uomini discendono da un ceppo unico, ma alcuni popoli, per fattori legati al clima e all’ambiente si sono allontanati dalle caratteristiche originarie. Nei confronti della schiavitù non esprime alcuna condanna, limitandosi ad osservare che i maltrattamenti inflitti ai neri non sono degni di bianchi “superiori”.

Tra i più accesi sostenitori del razzismo biologico e gerarchico è invece Voltaire, che desume dalle varietà e dalle differenziazioni “scientificamente sperimentate” dei convinti giudizi di valore. Egli vuole sbarazzare il campo di tutte le nozioni relative a ciò che non è naturale, come quella di “indole” usata da Buffon. Per natura le specie sono fisse, immutabili, al più si possono ottenere degli ibridi infecondi. Le enormi differenze esistenti tra le razze umane sono incontestabili, e poiché hanno dato origine a civiltà di diverso livello, occorre trarne classificazioni gerarchiche: i vari gradi di umanità corrispondono ai vari gradi di civiltà. Così che “ottentotti, samoiedi, lapponi, cafri … sono animali”. Voltaire non ha dubbi, cita anch’egli le testimonianze sul reticolo mucoso, e sembra in definitiva interpretare quella che è l’opinione comune corrente della sua epoca. Il paradosso sta nel fatto che pur disprezzando profondamente i neri (e gli ebrei) attacca lo schiavismo come un prodotto del cristianesimo, mentre gli sta offrendo tutta una serie di giustificazioni laiche e “razionali”.

Verso la fine del secolo James Burnett (Lord Monboddo), autore di Of the origin and progress of language (1792), ritiene che la recente scoperta dell’orangutan nelle isole malesi comprovi l’esistenza di una grande catena dell’essere, che va dall’inorganico sino all’uomo cosciente, e nella quale “il fratello dell’uomo”, così simile ai neri africani, costituisce l’anello superiore animale, mentre i neri sono quello più basso della specie umana. Lo stesso orangutan viene posto dal suo contemporaneo Edward Long, un coltivatore giamaicano impegnato a difendere lo schiavismo attraverso l’ipotesi poligenetica, al livello dei neri, in una specie inferiore, dalle caratteristiche più bestiali che umane[50]. Proprio dalla Giamaica parte, con questa grossolana risposta alla nascita del movimento abolizionista, l’offensiva del razzismo compiutamente “moderno”, quello che lasciando cadere le vecchie argomentazioni testamentarie pretende di fondarsi sulle più avanzate ricerche e acquisizioni scientifiche, e che tanto successo avrà negli Stati Uniti[51].

Anche in Europa comunque la tesi della differenza razziale biologica viene molto presto quasi universalmente accettata, malgrado in autori come Herder[52] e Blumenbach[53] si ritrovi la teoria dell’unicità dell’origine umana. Un collega di Blumenbach a Gottinga, Christoph Meiners, redige addirittura, a pochi anni dalla comparsa della terza edizione dell’Histoire di Raynal e Diderot, una storia universale di segno diametralmente opposto, (Lineamenti di una storia dell’Umanità) basata sulla tesi dello sviluppo separato di razze umane diverse ab origine, con caratteri ereditari non mutabili, valutate sulla base di un criterio estetico-morfologico che naturalmente pone in una sfera superiore gli europei[54]. Meiners anticipa molte delle future teorie di De Gobineau, schierandosi contro ogni mescolanza inter-razziale.

Qualche anno dopo Petrus Camper classifica in una sua Dissertazione[55] (1791) le razza umane in base alle misure anatomiche (è l’inventore dell’angolo facciale), che dovrebbero fornire un criterio estetico basato sull’anatomia comparativa. Questo consente a Charles White, un chirurgo inglese, di affermare che “per la struttura e l’economia corporee, il nero è più vicino alla scimmia dell’europeo[56]. Da un altro versante, e pur se alieno da ogni ipotesi razzista ed etnocentrica, anche Johann Kaspar Lavater con la Fisiognomica (1778) finisce per supportare le tesi della differenza. Le sue silhouettes forniscono un metodo per la comparazione dei tratti somatici, meno scientifico rispetto all’analisi biometrica ma egualmente soggetto ad interpretazione.

È infine lo stesso Kant, con il trattato “Le differenti razze dell’umanità” a introdurre in Germania l’ipotesi poligenetica e il concetto di razza, anche se non ne dà poi alcuna connotazione morale[57]. Si tratta oramai però di una acquisizione ideologica che si è autonomizzata, perché lo schiavismo ha in realtà fatto la sua epoca.

L’evolversi dell’atteggiamento occidentale nei confronti delle ipotesi genetiche può essere quindi seguito parallelamente allo sviluppo dell’istituto schiavistico nelle colonie. Fino a quando si tratta di popoli coi quali si mantiene un rapporto commerciale, nulla induce a porsi problemi sulla loro appartenenza o meno a pieno diritto al genere umano. Ma allorché si passa ad una forma diversa di colonizzazione, intesa alla produzione diretta, e diventa necessario “usare” intere popolazioni tenendole in uno stato inumano, ecco sorgere il corrispettivo scientifico della loro non umanità. Evidentemente non è un caso che proprio il secolo dei lumi veda l’affermazione del razzismo: e non tanto perché i criteri di omogeneità e di commensurabilità sottesi alla razionalizzazione comportano una valutazione negativa e gerarchizzata del diverso, quanto piuttosto perché questa razionalizzazione si attua all’insegna di un nuovo esperimento produttivo, di cui lo schiavo è soltanto la prima cavia. Per questo, non appena gli orientamenti economici mutano e il sistema schiavista viene superato dall’incalzare della nuova realtà industriale, il pensiero illuminista potrà abbracciare la causa dell’abolizionismo, senza per questo rinnegare le sue acquisizioni “scientifiche” razziste.


[1] Le stime relative alla demografia dell’America precolombiana sono a tutt’oggi assai controverse. Vanno, per l’intero continente, da un minimo di 10/12 milioni a un massimo di oltre 100. Sulle valutazioni pesano fattori legati alla metodologia di ricerca, ma è poi determinante l’atteggiamento ideologico. Per la seconda ipotesi, quella di un continente sovrappopolato (la stessa Europa di fine XV secolo non raggiunge i cento milioni) propende un gruppo di storici terzomondisti, tra i quali il più autorevole è Pierre Chaunu, per ovvie ragioni, mentre la maggioranza degli studiosi valuta ragionevole una consistenza attorno ai trenta milioni. Esiste infine una corrente minimalista, che basandosi sulla relativa povertà di siti archeologici, non è disposta ad ammettere cifre superiori ai dodici milioni.

[2]Sino ad oggi i moralisti avevano cercato l’origine e i fondamenti della società nelle società che avevano sotto gli occhi. Ma dopo che si è visto che le istituzioni sociali non derivano né dai bisogni della natura né dai dogmi della religione, poiché innumerevoli popoli vivono indipendenti e senza culto, si sono scoperti i vizi sella morale e della legislazione nella formazione stessa delle società” (Denis Diderot, Pensées détachées remis à l’Abbé Raynal)

[3] Un metodo che insegna a dubitare anche del concetto di “consenso universale”. Nel Discours de la méthode Cartesio scrive: Vedendo come molte cose che, malgrado a me sembrino assolu-tamente stravaganti e ridicole, sono tuttavia comunemente riconosciute e approvate da altri grandi popoli, ho imparato a non credere troppo a ciò di cui ero stato persuaso dagli esempi e dal costume diffuso […]”.

[4] Il riferimento all’Eden, o all’età dell’oro, è presente anche nelle Decades de orbe novo di Pietro Martire d’Anghiera, pubblicate qualche anno più tardi: ma in questo caso è la cultura umanistica, e quindi metaforica, a prevalere, piuttosto che quella religiosa.

[5] Gli indigeni gli sembravano, però, appartenere ad una civiltà inferiore, da convertire, ma anche da assoggettare: “devono essere buoni servitori e ingegnosi, perché osservo che ripetono tutto quello che dico loro” annotò.

[6] Per la precisione nel 1672, nell’opera teatrale La conquista di Granada, di John Dryden.

[7] Giovanni Botero, Relazioni Universali, parte IV, Venezia 1596

[8] Ugo Grozio, De jure belli et pacis, 1625

[9] Thomas Hobbes, De Cive, Londra 1642

[10] Per Hobbes nello stato di natura gli uomini vivono in uno stato di guerra perpetuo di ciascuno contro tutti gli altri (“bellum omnium contra omnes”) e la vita è nasty, brutish, and short (spiacevole, grezza, e breve). La conservazione di se stessi è un principio naturale, e proprio il naturale diritto a conservare la propria vita e la propria integrità fisica autorizza l’uomo, nello stato di natura, ad aggredire il suo vicino per difendersi da lui prevenendolo. Per uscire da questa situa-zione e garantire la sicurezza degli individui si deve costituire una società efficiente. Gli individui devono quindi rinunciare ai propri diritti naturali, stringendo un patto con cui li trasferisco-no a una singola persona, che può essere o un monarca, oppure un’assemblea di uomini, che si assume il compito di garantire la pace entro la società.

[11] In una lettera ad Hobbes del 1670 Leibnitz sostiene che quella dello “stato di natura” deve esse-re considerata una pura finzione concettuale, e non una realtà storica. Dio non può aver creato un mondo nel quale non ci siano obblighi morali e diritti individuali. Tuttavia consente con Hobbes sul fatto che la “società civile” nasca per motivi di sicurezza reciproca tra uomini spinti dal timore.

[12] Il senza era stato utilizzato in una valenza negativa da André Thévet, un compagno di De Léry: “L’America è abitata da genti meravigliosamente strane e selvagge, senza fede, senza legge, senza, religione, senza civiltà alcuna, ma che vivono come animali privi di ragione nel modo in cui la natura li ha generati, che mangiano radici e restano sempre nudi sia gli uomini che le donne … (La singularité de la France Anctartique .., 1558). Lahontan scriverà invece: “Ah! Vi-va gli Uroni, che senza leggi, senza prigioni e senza torture passano la vita nella dolcezza, nel-la tranquillità, e godono di una felicità sconosciuta ai francesi”. (Dialogues curieux …, 1703)

[13] Questo avviene anche all’interno della chiesa cattolica. Vedi il dibattito gesuiti-francescani, che si disputano il controllo delle reducciones e la gestione della evangelizzazione degli indigeni. Particolarmente crudo sarà il confronto tra la Compagnia di Gesù e i cosiddetti “recollets”, che sono gli apripista dell’evangelizzazione soprattutto nel Nord-America.

[14] C’è in queste accuse un forte coinvolgimento personale, perché Lahontan si arruola per sfuggi-re ai creditori, e sia in America sia dopo la diserzione verrà sempre a conflitto con ogni autorità costituita, religiosa o laica.

[15] Anthony Shaftesbury Advice to an author (1712)

[16] Anche se è disposto a dar credito ai racconti più assurdi sui “selvaggi”: “Vi sono luoghi dove la gente mangia i propri bambini. Gli abitanti dei Caraibi erano soliti castrare i bambini apposi-tamente per ingrassarli e mangiarli. Garcilaso de la Vegas ci racconta di un popolo nel Perú il quale ingrassava e mangiava i bambini che avevano dalle loro prigioniere, le quali venivano conservate come concubine per quello scopo e quando avevano passato l’età della procrea-zione venivano anch’esse uccise e mangiate” (Saggio sull’intelletto umano).

[17]Benché essi preferiscano di solito l’erede del loro re defunto, tuttavia, se lo trovano in qual-che modo debole o incapace lo mettono da parte e stabiliscono a loro governatore l’uomo più forte e coraggioso […]”.

[18] Bernard de Fontenelle riteneva che tutti i popoli “civili” fossero passati per uno stato simile a quello dei selvaggi: “I Greci furono un tempo dei selvaggi cosi come lo sono oggi gli America-ni: quando erano un popolo nuovo non pensavano affatto più ragionevolmente di quanto pen-sino i barbari d’America, i quali erano, a quanto pare, un popolo buonissimo, quando furono scoperti dagli spagnoli” (Histoire des oracles, 1686).

[19]Voi intendete per selvaggi dei villanzoni che vivono nelle capanne con le loro famiglie e qualche animale […] che parlano un dialetto che non si comprende nelle città (…) che hanno poche idee e per conseguenze poche espressioni […], che si riuniscono in una specie di ca-panna per celebrare delle cerimonie di cui non comprendono nulla […]? Il fatto è che vi sono di tali selvaggi in tutta l’Europa. Bisogna convenire che i popoli del Canadà e i Cafri, che noi chiamiamo selvaggi, sono infinitamente superiori ai nostri. L’Urone, l’Algonchino, l’Illinois, il Cafro, l’Ottentotto hanno l’arte di fabbricare essi stessi tutto ciò c di cui hanno bisogno. Le popolazioni dell’America e dell’Africa sono libere, e noi selvaggi non abbiamo nemmeno l’idea di cosa sia la libertà” (Essai sur les Moeurs).

[20]Voi europei, il cui spirito si riempie sin dall’infanzia di tanti pregiudizi contrari alla felicità, non riuscite a concepire che la natura possa procurare tanti lumi e tanti piaceri. La vostra anima circoscritta in una piccola sfera di conoscenze umane presto attinge il termine dei suoi godimenti artificiali: ma il cuore e la natura sono inesauribili”.

[21] Anche dopo la rivolta delle colonie, in un discorso pronunciato alla Camera dei Lord nel 1777, William Pitt il Vecchio denuncia gli atti di violenza e addirittura di cannibalismo perpe¬trati da-gli ausiliari indiani contro “innocenti”.

[22]Au bout de trois cent années, l’Amérique rassemblera aussi peu à ce qu’elle est aujourd’hui, qu’elle ressemble aujourd’hui peu à ce qu’elle étoit au temps de la découverte”.

[23]Ne massacrons pas les Papous pour connaître, au thermomètre de Réaumur, le climat de la Nouvelle Guinée”.

[24] La credibilità del racconto è a dire il vero un po’ inficiata dalla reputazione di Johnson, che era chiamato “il selvaggio bianco” per l’atteggiamento spietato.

[25] Questa immagine viene ulteriormente rafforzata dalla vicenda del Bounty, che ha una larga risonanza sia per lo scandalo dell’ammutinamento che per la scelta dell’equipaggio di rimanere nelle Isole Felici.

[26]Gli indigeni danno l’impressione di essere felici come nessun altro popolo sotto la cappa del cielo e oltre a tutto il necessario dispongono anche a profusione di quegli agi e voluttà che abbelliscono la vita” scrive Cook nei Diari di bordo.

[27]Tutti questi nostri amici, e specialmente la Regina, diedero l’ultimo addio ai nostri in una maniera così sensibile, che Mister Wallis avendo il cuore nell’estrema costernazione, non fece altro per lungo tempo che sfogarsi anch’egli a piangere dirottamente”.

[28] Luois Antoine de Bougainville, Voyage autour du mond, 1771

[29] Anche se non mancano le eccezioni. A proposito delle Isole Salomone Carteret scrive: “Se può giudicarsi dello stato di un popolo da quello delle sue abitazioni, questi selvaggi dovevano es-sere certamente negli estremi gradi della vita selvaggia, avendo per dimora le più miserabili che si fossero giammai vedute nel mondo”.

[30] Georg Forster, Viaggio attorno al mondo, 1780. “Purtroppo io temo che la nostra conoscenza sia stata del tutto svantaggiosa per gli abitanti dei Mari del Sud”.

[31] Bougainville, Voyage autour du mond, Lettera introduttiva

[32]Lo stato di natura non esiste più, forse non è mai esistito, probabilmente non esisterà mai” (Discours sur l’origine de l’inegalité, 1755)

[33] Non si può nemmeno parlare di primitivismo o di culto della barbarie, anche perché Rousseau è ben consapevole dei limiti di quello stadio di vita. “Non vi era né educazione né progresso, le generazioni si moltiplicavano inutilmente e, poiché ognuno partiva sempre dal medesimo punto, i secoli scorrevano e rimaneva inalterata la rozzezza dell’età primitiva, la specie era già vecchia e l’uomo rimaneva sempre bambino”.

[34] Nel Discours sur l’origine de l’inegalité scrive: “Errando nella foresta senza lavoro, senza pa-rola, senza domicilio, senza guerra e senza legami, senza alcun bisogno dei suoi simili, così come senza alcun desiderio di nuocer loro, persino senza mai riconoscerne alcuno individualmente, l’uomo selvaggio, soggetto a poche passioni e bastante a se stesso, non aveva che i sentimenti e i lumi propri a quello stato, non provava che i bisogni veri, non guardava se non quanto aveva interesse di vedere e la sua intelligenza non faceva maggiori progressi della sua vanità”.

[35] Montesquieu, al pari di Locke, non ha una grossa stima dei “selvaggi”. Ne “L’Esprit des Lois” usa a modo di parabola la storia di un popolo che, avendo scelto di vivere allo stato di natura, finisce per degradarsi ed estinguersi. Non è nemmeno un entusiasta delle civiltà orientali: basandosi su una relazione di Dampierre depreca l’uso tonchinese e cinese di affidare le cariche amministrative agli eunuchi, che produce una serie di contraddizioni: “Si affidano a quelle persone le magistrature perché non hanno famiglia; e d’altro lato, si permette loro di sposarsi perché hanno le magistrature […] Nella storia della Cina si trovano un gran numero di leggi per togliere agli eunuchi tutte le cariche civili e militari: ma vi ritornano sempre. Sembra che gli eunuchi in Oriente siano un male necessario”.

[36] Parlo di istinto non perché ritenga che i pregiudizi di gruppo siano geneticamente determinati (come sostengono William Hamilton, Richard Dawkins ed Edward O. Wilson), ma perché so-no comunque universalmente diffusi, sotto le specie dell’etnocentrismo, e agiscono come un automatismo di difesa e di sopravvivenza.

[37] Quaecumque est hominis definitio, una in omnes valet (De Legibus, I, X, 29)

[38] Naturalis Historia, libro VII

[39] Nel De origine et situ Germanorum, soprattutto, insiste sulla non contaminazione dei popoli germanici, dei quali esalta il coraggio, la semplicità, il senso dell’ospitalità e la monogamia, in contrasto con l’immoralità dei costumi romani (non manca però di sottolineare quanto siano pigri e barbari). Negli Annales esprime invece a più riprese un profondo disprezzo per gli ebrei.

[40] Nell’Epistola ai Galati (III, 27): Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più né schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Gesù Cristo.

[41] Agostino di Ippona, De civitate dei, libro XIX. Agostino sostiene anche, però, che la schiavitù va vista come la sanzione divina di una colpa (che può anche essere collettiva). Una legittimazione della schiavitù arriva nel XIII secolo da Tommaso d’Aquino, aristotelico convinto, che ritiene giustificata la schiavitù se conseguente ad una condanna per un grave delitto, alla cattura in una guerra giusta, alla nascita in stato servile.

[42] Già nel Concilio di Elvira (IV secolo) si proibiva ai cristiani il matrimonio con gli ebrei o addi-rittura di consumare con essi il pasto.

[43] Preceduta peraltro da una legge di Carlo V, del 1539, che perseguiva lo stesso scopo.

[44] A differenza dei Tainos, che gli erano parsi la miglior gente di questo mondo “i Caribi, sono gente fiera e combattiva, ma affrancata da quella loro crudeltà, sarebbero schiavi dei migliori che siano al mondo” scrive nel memoriale ad Antonio de Torres del 1494.

[45] Erodoto, al solito il più moderno, fa risalire le differenze alla sola “tradizione culturale”.

[46] Nouvelle division de la Terre par les différentes éspèces ou races d’homme qui l’habitent.

[47]Nel Settecento si escludeva che i cinesi fossero ‘bianchi’ in quanto non se ne riconosceva più la pari dignità culturale. La convinzione che esistesse per forza un nesso fra il colore della pel-le da un lato e il carattere di una razza o di un popolo dall’altro, e che vi fosse altresì una gerarchia culturale, nella quale il primo posto spettava ai bianchi europei e l’ultimo ai neri dell’Africa, implicava non solo che una carnagione scura dovesse comunque corrispondere a un’inferiorità di cultura e di carattere, ma anche, per converso, che quanti non erano adeguati allo standard delle ‘nazioni progredite dell’Europa’ non potessero, appunto perciò, essere bianchi”. (Demel, Walter – Come i cinesi divennero gialli – Vita e pensiero 1997).

[48] Lineo distingue tra europei, indiani d’America, asiatici, africani. Utilizza come criterio distinti-vo il colore della pelle (bianchi, rossi, gialli e neri) e descrive i primi come “perspicaci, ottimisti, creativi, governati dalle leggi”, i secondi come “collerici”, i gialli come “apatici”, gli ultimi come “furbi, indolenti, negligenti, malinconici, governati dal capriccio”.

In verità nelle prime edizioni del suo Systema Naturae (ad esempio in quella del 1740), l’uomo asiatico è definito “fuscus” (scuro), ma nel 1756 diventa “luridus” (giallastro).

[49] Tra questi anche David Hume (Essays, 1741), che ritiene i neri “inferiori per natura”, privi di doti razionali e incapaci di sviluppo civile.

[50] History of Jamaica, 1774 – Lang ritiene esistano solo tre specie del genere umano: gli europei e, molto a margine, i gialli e i rossi; i negri e gli orang-utan; le scimmie senza coda.

[51] Una delle eccezioni è costituta da Thomas Jefferson, che nelle Notes on Virginia (1784) sostiene la parità morale dei neri coi bianchi. Un po’ più dubbioso è su quella intellettuale, mentre non ha dubbi sulla superiorità estetica dei secondi.

[52] Johann Gottfried von Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-91) – In realtà, anche se combatte lo schiavismo e il colonialismo, Herder inaugura con la sua teoria del Volkgeist, lo spirito del popolo, una sorta di razzismo culturale.

[53] Johann Friedrich Blumenbach De generis humani varietate nativa (1776). – Per lui il significato di razza è quello di tipo ideale, un’astrazione teorica. Suddivide l’umanità in cinque gruppi: caucasici, mongoli, etiopi, americani e malesi, sottolineandone le caratteristiche somatiche, piuttosto che quelle morali. Non ha dubbi che tutti gli esseri umani appartengano alla stessa specie, ma neppure sul fatto che sia quella caucasica la razza umana originaria, quella che presenta gli esemplari più belli be più giusti e che ha la forma del cranio più aggraziata.

[54] Christoph Meiners, Grundiss der Geschichte der Menscheit, 1785

[55] On the Points of Similarity between the Human Species, Quadrupeds, Birds, and Fish.

[56] In An Account of the Regular Gradation in Man, (1799) Charles White sostiene l’esistenza di quattro razze e ne definisce una precisa gerarchia, ponendo gli asiatici subito dopo gli europei in quanto a intelligenza.

[57] Immanuel Kant, Von der verschiendenen Racen der Menschen, 1775 – Kant distingue quattro razze: bianca, nera, mongolica e indù. Afferma che “si possono definire appartenenti ad una ‘razza’ quegli animali che conservano la loro purezza malgrado la migrazioni da una zono all’altra […] così i negri e i bianchi non sono certo due differenti tipi di specie, ma nondimeno due razze differenti”. Definisce i cinesi una “semirazza”, nelle vene della quale però scorre sangue unnico.

 

L’età d’oro del viaggio scientifico

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2017

Caratteri del viaggio scientifico. 1

L’esplorazione dei mari 10

L’esplorazione dei continenti 22

 

Caratteri del viaggio scientifico

Nelle precedenti conversazioni si è parlato di viaggi metaforici e di viaggi immaginari. Ripartiamo da questi ultimi, ma solo per dire che una componente immaginaria in realtà è presente in ogni viaggio, e soprattutto nel racconto che del viaggio si fa. Ed è molto presente, a dispetto di quanto verrebbe spontaneo pensare, anche nei resoconti di quella particolare tipologia di viaggio di cui mi accingo a parlare oggi: il viaggio scientifico.

Mi spiego. La componente “immaginaria” del viaggio agisce in più modi e in diversi momenti. Agisce nel momento stesso in cui si viaggia, e prima ancora in quello in cui si desidera e si progetta il viaggio. Le nostre aspettative rispetto ai luoghi che ci accingiamo a vedere o alle persone che andremo ad incontrare nascono infatti da un’immagine che abbiamo elaborato “a priori”, sulla scorta dei racconti di esperienze altrui o di qualsivoglia altra testimonianza. Noi quindi “prefiguriamo” il viaggio, ci attendiamo di vedere cose, di provare emozioni delle quali già assaporiamo il gusto. Nel corso del viaggio saremo molto condizionati da queste nostre attese, che ci porteranno a cogliere e a privilegiare alcuni aspetti del mondo che andiamo a conoscere, e a trascurarne, o addirittura ad ignorarne, altri. Anche nel caso in cui si facciano delle vere e proprie scoperte, o si provino delle grosse delusioni, tutto questo avviene in rapporto a quanto ci attendevamo. Siamo meravigliati, o delusi, perché non ci attendevamo quella, ma un’altra cosa. L’impressione che riportiamo, e il conseguente giudizio che diamo, sono tarati su quelle aspettative.

Sul racconto del viaggio agisce poi quella che potremmo definire la selezione della memoria, che in parte è inconsapevole, in parte no. Si racconta cioè ciò che ci ha maggiormente colpito, in negativo o in positivo, ma si racconta soprattutto ciò che ha corrisposto alle nostre aspettative o, al contrario, le ha deluse, oppure ci ha positivamente sorpresi e ci ha aperto ad una prospettiva, ad uno sguardo nuovo.

In sostanza potremmo dire, semplificando molto, che la componente immaginaria agisce sul viaggio e sul suo racconto in tre modi e in tre momenti: sulla motivazione, e quindi sulle aspettative, prima; sulla percezione, durante; sul racconto, dopo.

Questo vale per tutti i viaggi, anche paradossalmente per quelli non progettati, non desiderati ma imposti, come nel caso dell’esilio o della fuga, nei quali l’aspettativa è solo quella di una qualche salvezza. E vale, come si diceva in apertura, alla stessa maniera per il tipo di viaggio di cui parleremo oggi: il viaggio scientifico. Come, e in che misura, è quanto mi propongo di esemplificare, raccontandovi alcuni dei viaggi e degli uomini che del “viaggio scientifico” sono stati i protagonisti per antonomasia.

L’epoca eroica delle grandi scoperte geografiche si esaurisce nel breve volgere di un secolo. Ha il suo apice addirittura in un solo trentennio, quello che intercorre grosso modo tra il primo viaggio di Colombo e la prima circumnavigazione del globo da parte di Magellano, ed è poi seguita da una fase nella quale i rinvenimenti sensazionali lasciano il posto alla ricognizione delle coste e dei mari. Le terre casualmente incontrate sono ancora considerate, soprattutto dalle nazioni rimaste al palo nella fase iniziale, un ostacolo da superare piuttosto che una opportunità da sfruttare: e per tutto il XVI secolo questo rimane l’atteggiamento di fondo, anche se nella seconda metà gli oceani vecchi e nuovi sono ormai sistematicamente violati ed esiste una rete di approdi lungo tutte le coste occidentali del nuovo mondo. Il problema che aveva dato l’avvio a tutta la vicenda, l’individuazione di una via diretta per i paesi delle spezie, rimane in sostanza irrisolto.

Un diagramma ideale dei ritmi dell’attività esplorativa a partire dagli inizi del ‘600 evidenzierebbe un andamento discontinuo, con punte di vivace intensità che si alternano a prolungati momenti di stanca. Dopo i viaggi di Drake e di Cavendish[1], ad esempio, passa oltre un secolo prima che venga compiuta una nuova circumnavigazione completa del globo. E non sempre c’è concomitanza tra lo sviluppo della ricerca e una concreta politica di espansione. I primi decenni del XVII secolo, ad esempio, caratterizzati da un relativo rilassamento dell’attività esplorativa, vedono il decollo dell’espansionismo commerciale olandese. Al contrario, il risveglio dell’impulso alla scoperta nella seconda metà del secolo, legato per la Francia al trionfo dell’assolutismo e della politica mercantilistica e per l’Inghilterra all’assunzione in proprio da parte della corona del progetto politico coloniale, trova poi al di là degli oceani un debole corrispettivo in termini di volume dei traffici o di insediamenti. A cavallo tra il Seicento e il Settecento agiscono infatti in negativo la politica di Luigi XIV e le conseguenti guerre per l’egemonia nel vecchio continente, assorbendo e disperdendo le risorse economiche ed umane degli europei. La spinta si rinnoverà solo a partire dal terzo decennio del Settecento, sposandosi questa volta anche ad una coscienza scientifica assolutamente inedita.

Nel corso di questi duecento anni cambiano radicalmente sia i modi che i moventi della attività di esplorazione, così come le nazioni che le promuovono. E cambiano anche le direttrici lungo le quali essa si muove. Quelle classiche orizzontali, di levante e di occidente, sono in pratica esaurite dal ripetersi delle circumnavigazioni sul finire del ‘500. Esse hanno offerto le basi per una valutazione di massima delle dimensioni del globo e della reale estensione di continenti e oceani. Un secolo dopo il mondo è conosciuto anche nella gran parte dei contorni litoranei: le zone costiere sono state toccate al 90%, sia pure, spesso, da semplici ricognizioni periferiche, ed è possibile abbozzare un profilo riassuntivo della fisionomia terrestre. Il quadro va poi via via completandosi nel ‘700, fino ad assumere alla vigilia della rivoluzione francese un’immagine pressoché definitiva, spoglia anche degli ultimi residui di quella geografia fantastica che affondava le sue radici nella classicità, e che paradossalmente aveva tratto nuovi spunti proprio dalle scoperte rinascimentali. Ad essa si sostituiscono gradualmente i dati di una conoscenza più prosaica, scientifica, informata appunto all’ottica razionalistica del secolo. La scoperta settecentesca viene ad essere così altrimenti motivata, e non è casuale, ma perseguita, e in alcuni casi addirittura prevista.

È possibile quindi enucleare alcune specifiche caratteristiche che fanno dei secoli XVIII e XIX l’epoca d’oro del viaggio scientifico. I viaggi con finalità e con modalità scientifiche in realtà ci sono sempre stati. Erodoto e altri giramondo meno famosi di lui hanno viaggiato, dopo e qualcuno anche prima, con gli occhi ben aperti su aspetti particolari della natura e dell’antropologia. Ma quando si parla di viaggio scientifico ci si riferisce a spedizioni collettive o ad intraprese individuali esplicitamente e principalmente votate all’osservazione e allo studio, con protocolli e metodologie di osservazione ben definiti e universalmente accettati e adottati. E questo può avvenire solo dopo che siano stati redatti i protocolli stessi, sia stato dettato uno statuto della ricerca scientifica. Cioè dopo Bacone, dopo Galileo, dopo il secolo della rivoluzione scientifica.

Possono essere allora definiti “scientifici” i viaggi promossi, intrapresi e attuati sulla scorta di finalità e di metodologie di approccio dichiarate e condivise nel mondo scientifico, quali che siano poi gli altri fini, magari meno nobili e meno espliciti.

Riassumendo, le condizioni che permettono e che motivano questo tipo di intraprese sono:

  1. l’allargamento degli orizzonti conseguente le scoperte geografiche, e quindi la crescita degli appetiti e delle motivazioni sia politiche che economiche;
  2. la rivoluzione scientifica e l’affermazione delle scienze fisiche e naturali, e poco alla volta anche di quelle umane, come discipline autonome, svincolate dalla religione e dalla filosofia (almeno in apparenza, perché poi hanno una enorme valenza, positiva o negativa anche in questi ambiti);
  3. la nascita delle accademie e delle società scientifiche, sponsorizzate dagli stati nazionali o dall’iniziativa privata, ovvero dagli interessi coloniali dei primi e da quelli commerciali e produttivi dei secondi;
  4. l’esistenza di protocolli d’osservazione, di sperimentazione e di ricerca dettati dagli scienziati del XVII secolo e ormai consolidati, divenuti di uso comune e accettati universalmente dalla comunità scientifica;
  5. la disponibilità di una strumentazione scientifica, sia per la navigazione che per la rilevazione e l’osservazione, sempre più raffinati ed efficaci;
  6. la nuova intraprendenza degli scienziati, che una volta messo da parte Aristotele vogliono andare a toccare con mano, direttamente o tramite rappresentanti qualificati e accreditati della comunità scientifica.

Analizziamo brevemente questi cinque presupposti:

  1. La curiosità nasce dalla diversità, e le scoperte geografiche che si rincorrono tra la fine del ‘400 e la prima metà del ‘500 di diversità ne offrono molte. Non solo diversità di etnie, di usi e costumi, di istituzioni politiche e di religioni, ma anche diversità della flora e della fauna, del panorama celeste, dei fenomeni naturali. Mentre procedono alla metodica penetrazione nei nuovi continenti disvelati, alla loro conquista, allo sfruttamento e spesso alla distruzione delle nuove popolazioni, o alla loro evangelizzazione, gli occidentali non possono fare a meno di rilevare queste differenze e di relazionarne. È questo allargamento stesso di orizzonti a far crollare i presupposti su cui si fondavano la scienza antica e quella medioevale, e a postularne una rifondazione.
  2. Questa rifondazione prende il nome di rivoluzione scientifica; è una trasformazione della mentalità che procede dal macrocosmo – la scoperta di altri emisferi e dell’altra metà della calotta celeste – verso il microcosmo (la vita microscopica) e che induce la necessità di fare ordine, di passare ad un certo punto dall’accumulo di nuove conoscenze alla loro sistemazione. Il viaggio scientifico appartiene appunto a questo secondo momento, è figlio di Linneo e di Buffon e nipote di Bacone, e si incarna in uomini come Cook e Humboldt, che applicano “sul terreno” le nuove tecniche matematiche di rilevazione, raccogliendo un’incredibile messe di misurazioni astronomiche e fisiche e sistemandole in un quadro organico. Nasce con essi la moderna geografia, con la quale conoscenze che ancora a metà del XVII secolo venivano distinte e considerate separatamente confluiscono in un’unica disciplina[2].
  3. Le Accademie Scientifiche nascono in pratica in contrapposizione alle Università e al tipo di sapere, prevalentemente umanistico e retorico, che queste coltivano. Le Università si danno come scopo quello della conservazione e diffusione di un sapere ritenuto già consolidato e compiuto, le Accademie sono invece finalizzate ad una nuova costruzione del sapere (nuovi metodi) e alla costruzione di un sapere nuovo (nuovi contenuti). Nascono anche col patrocinio e come espressione del nuovo modello di potere politico, le monarchie nazionali, ed economico, la borghesia, e dei loro interessi (economici, politici e militari), mentre le Università rientravano, sia pure con uno status di costante marginalità, nel quadro istituzionale pre-rinascimentale.
  4. Gli scienziati del XVII secolo cominciano a lavorare di concerto, mantenendo contatti epistolari o personali che consentono di superare le distanze, e non soltanto quelle fisiche. Lo scambio di informazioni diventa una prassi consolidata, crea le condizioni per l’instaurarsi di quella ecumene scientifica transnazionale che caratterizzerà soprattutto il Settecento. Perché questo scambio sia davvero efficace è necessario però che vengano condivisi i protocolli di osservazione, di sperimentazione e di comunicazione delle ricerche effettuate, e che la commensurabilità di queste ricerche sia garantita dall’adozione di strumenti comuni, tarati sugli stessi valori e utilizzati con le stesse procedure.
  5. In tal senso è disponibile una strumentazione scientifica, sia per la navigazione che per la rilevazione e l’osservazione, sempre più raffinata ed efficace. Fondamentale per la determinazione delle coordinate geografiche è ad esempio la sempre maggiore precisione dei misuratori di tempo. Il cronometro marittimo realizzato attorno alla metà del secolo da John Harrison (incentivato da un grosso premio in denaro messo in palio dalla Commissione inglese per la longitudine) ha un margine d’errore inferiore ai due minuti, il che significa mantenere la rotta per una traversata dell’Atlantico entro lo scarto di qualche chilometro. Ma si utilizzano poi anemometri, termometri, barometri, bussole di inclinazione e di declinazione, sestanti, teodoliti, igrometri, ecc…, e si dispone di accurate carte nautiche. Naturalmente, malgrado i progressi (il cronometro di Harrison è poco più grande di un orologio da taschino) l’equipaggiamento scientifico rimane molto ingombrante. L’attrezzatura di ricerca utilizzata da Humboldt nel suo viaggio, ad esempio, occupa due bauli ed è trascinata per migliaia di chilometri lungo foreste, in mezzo a paludi o attraverso le montagne. Ed ancora, gli strumenti sono estremamente delicati, fabbricati artigianalmente, e non c’è alcuna possibilità di reperire pezzi di ricambio.
  6. I nuovi protocolli impongono in primo luogo l’osservazione diretta (vedere di persona, e non conoscere per “sentito dire”, o per appreso dai testi sacri della religione o della sapienza antica), sorretta da rigore e da canoni ben precisi e definiti; e poi parametri comuni di misurazione, coordinate geografiche, quadri e tassonomie di riferimento. Se l’osservazione ha da essere compiuta di persona, la diffusione delle conoscenze postula al contrario un’impostazione rigorosa e standardizzata, che ha come presupposto l’uscita dell’osservatore dalla scena. Quindi l’assoluta imparzialità.

Gli scienziati vogliono dunque toccare con mano, osservare direttamente i fenomeni. È il nuovo imperativo di botanici, geologi e naturalisti in genere. Scandagliano laghi, mari, foreste, vulcani: e quando non possono farlo di persona, dettano le istruzioni per i loro inviati o corrispondenti. Nel corso del Settecento si diffondono dei veri e propri vademecum del viaggiatore, e nella fattispecie del viaggiatore “scientifico”, che codificano ambiti e modi dell’osservazione. Tra i compilatori più autorevoli e più famosi troviamo lo stesso Linneo e il geologo Woodword, e in Italia Lazzaro Spallanzani, che sono peraltro al tempo stesso anche viaggiatori in proprio.

La diffusione e il successo della letteratura di viaggio sono una conseguenza del moltiplicarsi dei viaggi, ma anche un volano per motivarli. La stampa permette da un lato una diffusione quantitativa, consente di raggiungere un vastissimo pubblico; dall’altro per la sua stessa capacità di fissare una tradizione testuale, di rendere possibile una distinzione chiara tra ciò che è dato come noto, come acquisito, e ciò che è ignoto alla letteratura tramandata, stimola a perseguire la novità. Il racconto di viaggio importante è quello che aggiunge qualcosa alle conoscenze ricevute.

A questo successo contribuiscono anche le nuove tecnologie. Il linotype consente di produrre e diffondere immagini realistiche e scientificamente corrette di ambienti, piante ed animali, oltre a carte dettagliate. Ma permette anche di togliere la briglia alla fantasia dell’immaginario iconografico, e di corredare i testi con rimandi suggestivi a mondi tutti da scoprire.

La nascita e la precoce diffusione di riviste scientifiche consente anche ad un platea sempre più vasta di seguire i progressi della ricerca. Quando poi nell’Ottocento si aggiungeranno i giornali specificamente dedicati ai viaggi, l’interesse si allargherà al grande pubblico. La vicenda della ricerca dei superstiti della spedizione di John Franklin è esemplare: una campagna di stampa fortemente voluta dalla moglie dell’esploratore induce il governo britannico ad uno sforzo eccezionale, e a mettere in campo addirittura dodici successive spedizioni.

Ad incrementare l’interesse e l’attenzione per le tematiche connesse al viaggio (le avventure, gli incontri, il confronto, l’esotismo) contribuiscono naturalmente anche le rielaborazioni romanzesche di vicende realmente accadute, o le narrazioni a carattere fantastico e satirico. I casi più clamorosi sono senz’altro costituiti dal Robinson di De Foe, dal Gulliver di Swift e dal Candide di Voltaire, ma un po’ tutta la letteratura del Settecento sembra prediligere le narrazioni di ambiente esotico.

 

Le tappe di questa evoluzione qualitativa e quantitativa del sapere geografico sono infine sintetizzate visivamente negli sviluppi della cartografia, anche se in realtà le rappresentazioni cartografiche dell’epoca risultano, dal confronto con i giornali di viaggio, poco aggiornate rispetto allo stato effettivo delle conoscenze. I ritardi nell’introdurre i dati nuovi o nell’escludere i miti della geografia immaginaria si spiegano con la propensione comune, ma diffusa soprattutto tra i portoghesi e gli olandesi (che pure sono all’avanguardia nella cartografia), ad un uso interno ed esclusivo degli aggiornamenti, coerente con la difesa monopolistica delle rotte commerciali. Fino a che non si impone l’attitudine scientifica settecentesca i più prodighi di informazioni restano i missionari, soprattutto i gesuiti, anche se spesso le loro relazioni, ricchissime sotto il profilo etnologico e antropologico, appaiono tutt’altro che precise per quanto concerne il riconoscimento geografico. Ciò è dovuto sia ad un effettivo difetto di basi scientifiche, sia anche, talvolta, ad una giustificata reticenza ad aprire popolazioni inermi alla “civilizzazione” materiale europea. È il caso, ad esempio, dei missionari operanti in Africa o nel cuore dell’America del sud, alle cui spalle si muovono negrieri e bandeirantes.

Sul piano tecnico, dopo la rivoluzione introdotta da Mercatore con l’uso delle proiezioni, un ulteriore perfezionamento viene dalle tavole di Keplero, che consentono di correggere gravi errori nei calcoli della longitudine (lo stesso conosciutissimo Mediterraneo è ridimensionato di più di mille chilometri). Per tutto il ‘600, comunque, i progressi appaiono molto lenti. Il Novus Atlas di Blaeuw (1658), redatto ad un secolo dai mappamondi di Mercatore e di Ortelius e destinato a godere a lungo di un crisma ufficiale di attendibilità, continua a dare per scontata l’esistenza dello stretto di Anian, leggendario canale che dovrebbe separare l’Asia dall’America all’altezza del 60° di latitudine nord, del quale nessun navigatore ha dato per un secolo riscontro; rappresenta inoltre la Corea come un’isola, non fa menzione della Siberia e riduce di molto rispetto al reale le dimensioni della penisola del Deccan e la massa continentale asiatica in generale. L’America del Nord conserva un profilo molto allungato, che le conferisce una estensione spropositata, mentre la parte meridionale del continente, più precisa nella fisionomia, è molto difettosa nelle proporzioni. Manca naturalmente del tutto l’Oceania, mentre la gran parte dell’emisfero australe è occupata dalla vastissima “terra australis nondum cognita”, per la quale si ipotizza uno sviluppo costiero alquanto accidentato.

Nel frattempo vanno però maturando le condizioni per una vera e propria rivoluzione nel campo della rilevazione cartografica. A propiziarle è il lavoro di Gian Domenico Cassini, già titolare della cattedra di astronomia a Bologna e chiamato in Francia da Colbert al fine esplicito di lavorare al calcolo della longitudine. Cassini sguinzaglia per il mondo diverse spedizioni incaricate di rilevare con la maggior esattezza possibile la longitudine e la latitudine di svariate località, dalla Guyana ai Caraibi, da Capo Verde all’Egitto, ma anche in Madagascar, in Siam e in Cina. La messe di dati raccolti viene scientificamente sistemata dal cartografo Guillaume De l’Isle, che adotta la proiezione conica e la levata astronomica come fondamento matematico dei rilevamenti. Le carte dello stesso De l’Isle, che lavora anche per Pietro il Grande, del suo successore Baptiste d’Anville, del danese Nieburh, sono frutto di un accurato lavoro di revisione critica dei calcoli e dei dati, molto spesso anche di rilevamenti compiuti in prima persona, e non esitano ad indicare con vaste macchie bianche le aree non esplorate. Anche questi spazi, comunque, appaiono destinati a coprirsi in tempi brevi dei nomi e dei simboli della nuova geografia empirica, cacciando dai suoi estremi rifugi quella millenaria del sogno.

Le ricerche condotte dai cartografi portano anche alla risoluzione di un ultimo grande problema, quello relativo alla forma della terra. Una serie di discrepanze emerse nei rilevamenti induce infatti a dubitare che la terra sia una sfera perfetta. Le due ipotesi contrarie che ne derivano, quella di un allungamento e quella di uno schiacciamento ai poli, sono sostenute rispettivamente dal figlio di Cassini e da Newton. È l’Académie des Sciences a farsi carico di dare una risposta definitiva. Nel 1735 vengono inviate due spedizioni, l’una, affidata a Maupertuis, nell’Artide, l’altra, sotto la guida di Charles Marie de la Condamine, a Quito, sulla linea dell’Equatore. I risultati danno ragione a Newton: la terra è una sfera schiacciata.

 

L’esplorazione dei mari

Nei secoli XVII e XVIII le più significative imprese di esplorazione marittima mirano proprio a sciogliere gli ultimi grandi nodi ereditati dalla geografia fantastica: il passaggio, a nord-ovest o a nord-est, dall’Atlantico al Pacifico, e la “terra australis”. L’esistenza dell’introvabile passaggio è il postulato sotteso alla volontà e alla necessità di aprire una via più diretta alle Indie, e gli sforzi profusi nella ricerca, spesso con esito tragico, testimoniano di un potere di autoconvincimento capace di dare lo spessore della certezza ad un fantasma della speranza. Inglesi, olandesi, francesi, russi, coltivano con uguale ostinazione il progetto, arrivando infine a trasferirne il valore sul piano scientifico-sportivo quando sarà accertata la sua inattuabilità economica. Ma nel frattempo le loro ricerche consentono di acquisire conoscenze utili per la pesca, per la caccia alla balena e per il riconoscimento delle estreme propaggini settentrionali dei tre continenti interessati.

 

Dopo i tentativi cinquecenteschi di Frobisher e di Davis ad occidente e di Barents ad est, la corsa al passaggio continua cocciutamente nei primi decenni del XVII secolo. Henry Hudson, un tipico avventuriero inglese, della stoffa di Drake o di sir Walter Raleigh, negli ultimi cinque anni della sua vita guida quattro spedizioni sotto tre diverse bandiere. Nel 1607 e nel 1608 naviga per conto della Compagnia di Moscovia: punta dapprima ad ovest e poi a nord-est e raggiunge il punto più settentrionale dell’arcipelago delle Svalbard, a meno di seicento miglia dal Polo Nord, dove è fermato dai ghiacci. Nel 1609, passato alla Compagnia olandese delle Indie Orientali, esplora e cartografa tutta la costa orientale del Nord America, risalendo anche per un tratto il fiume che prenderà il suo nome. Nel 1610, dopo essere stato arrestato per tradimento al ritorno in Inghilterra, è nuovamente in mare, stavolta sotto bandiera inglese, per conto della Compagnia della Virginia. Raggiunto quello che sarà chiamato lo stretto di Hudson presso la punta settentrionale del Labrador, si inoltra nella baia omonima, cercando uno sbocco occidentale: ma al sopraggiungere dell’inverno, con la nave intrappolata tra i ghiacci, non gli resta che sbarcare e cercare di sopravvivere. Nella primavera del 1611 vorrebbe proseguire l’esplorazione, ma l’equipaggio ammutinato lo abbandona alla deriva in una piccola barca assieme al figlio. Di loro non si saprà più nulla.

Lo scopo dichiarato, il passaggio occidentale, non è stato raggiunto, ma la scoperta della baia avrà comunque un peso enorme per la futura politica coloniale inglese nell’America settentrionale. Battuti sul tempo dai francesi nell’esplorazione interna del Canada occidentale, i britannici potranno accampare i diritti acquisiti sull’immenso territorio canadese attraverso l’accesso da nord: quando ne entreranno in possesso, dopo la Guerra dei Sette Anni, la ricognizione di tutto il litorale settentrionale e della sua fascia interna, sino all’Alaska, sarà già stata completata.

Una delle spedizioni inviate alla ricerca di Hudson, guidata da William Baffin, giunge comunque nel 1616 all’imbocco di quella che effettivamente è la via d’acqua tra i due oceani e naviga sin oltre lo Stretto di Davis, scoprendo la baia a nord che ora porta il nome dell’esploratore e toccando 77° 45’ di latitudine Nord: rinuncia poi ad avanzare, nella convinzione di trovarsi di fronte ancora una volta ad un mare chiuso. Per qualche tempo quindi, in seguito a peggioramenti intervenuti nella situazione politica europea, il problema viene accantonato. Attorno alla metà del secolo tornano però a trovare credito, anche negli ambienti marittimi più informati, le voci dell’esistenza di uno stretto che separa l’America dall’Asia (il già citato stretto di Anian). Ciò sembra sciogliere ogni dubbio sulla possibilità di accedere da settentrione al Pacifico, al punto che in Inghilterra viene costituita la “Compagnia della Baia di Hudson” (1670) per la gestione del futuro commercio interoceanico sulla via del nord. Ma i diversi tentativi promossi dalla società si arrestano inevitabilmente di fronte alla banchisa di ghiaccio, fino a quando l’attività esplorativa non viene interrotta dallo scoppio delle ostilità anglo-francesi.

Nella prima parte del Settecento sopravviene un nuovo calo d’interesse, anche perché comincia ed essere evidente che una eventuale via a latitudini così alte avrebbe scarsa rilevanza commerciale. Pertanto le ultime spedizioni, rimesse in moto dalla scoperta dello stretto di Bering (1728)[3], avranno un carattere quasi esclusivamente scientifico. Nel 1776 Cook, al suo terzo viaggio, constata una volta di più la possibilità di aprirsi una via tra i ghiacci artici: ed esperienze analoghe faranno prima della fine del secolo anche La Pérouse ed Alessandro Malaspina. In effetti, bisognerà attendere fino agli inizi del nostro secolo perché il “passaggio a nord-ovest” venga effettivamente percorso per via marittima, ma a titolo ormai puramente sportivo.

Ad esiti ben diversi conduce invece la navigazione nei Mari del Sud. Qui si erano rifugiate ormai, agli inizi del ‘600, la sete di novità e la fantasia geografica, dopo che per un secolo il globo era stato percorso in lungo e in largo, e più volte circumnavigato. Solo le alte latitudini dell’emisfero australe non erano state raggiunte e potevano riservare ancora qualche sorpresa. I geografi, dal canto loro, non avevano dubbi. La presenza di una vasta massa continentale, superiore a quella di tutti gli altri continenti conosciuti, era già stata ipotizzata da Ipparco di Nicea e ripresa da Claudio Tolomeo, sulla base di una argomentazione semplice quanto, evidentemente, convincente. Per equilibrare il peso del blocco euroasiatico nell’emisfero settentrionale, stante la differenza di peso della terra e del mare, era necessario un altro continente nell’emisfero opposto: per l’appunto, la terra australis incognita. La tesi era stata accolta e sviluppata dai geografi arabi, e quindi da quelli europei del medioevo. Ancora nel 1520, facendo riferimento ad una relazione di viaggio portoghese (della quale non rimane in verità alcuna altra notizia: ma tanto i portoghesi quanto gli spagnoli tenevano il più possibile segrete le loro scoperte), l’astronomo tedesco Johann Schröner disegna un globo che riporta attorno all’odierna Antartide un’enorme massa terrestre, separata dall’Africa e dall’America del Sud solo da brevi tratti di mare. Il viaggio di Magellano sembra confermare questa ipotesi, dal momento che la spedizione ha doppiato il continente americano forzando lo stretto tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, e quest’ultima è stata interpretata come la punta più settentrionale del continente sconosciuto. Di lì a qualche anno un’ulteriore conferma sembra venire dalla casuale scoperta della Nuova Guinea operata da Dom Jorge de Mendes e da una prima incompleta ricognizione costiera dell’isola effettuata nel 1527 da Alvaro de Saavedra. A questo punto i portoghesi, impegnati a consolidare i loro avamposti in india e a Malacca e a difendere il loro monopolio sulla rotta circumafricana, abbandonano la ricerca.

L’incarico di sciogliere anche questo enigma se lo assumono invece gli spagnoli, che si considerano i grandi esclusi dall’estremo Oriente, e che a partire dalla metà del secolo hanno iniziato a gettare un ponte sul Pacifico partendo dalle loro basi americane e prendendo possesso delle Filippine. Nel 1567 Alvaro de Mendana salpa dal Perù con il preciso mandato di scoprire la Terra Australe, ma nel corso di una rapida e tormentata esplorazione del Pacifico meridionale riconosce soltanto una serie di arcipelaghi, tra cui le Salomone; in un tentativo molto più tardo, durante il quale troverà la morte, arriverà alle Marchesi (1595). Qualche anno dopo il suo vecchio pilota, Pedro de Quiros, crede di aver realmente realizzata la scoperta, toccando terra alla più bassa latitudine sino ad allora raggiunta: si tratta invece delle isole Ebridi. Quiros è costretto a tornare indietro a causa di un ammutinamento, ma un suo ufficiale, Torres, prosegue con una seconda nave sino a traversare lo stretto di mare tra Australia e Nuova Guinea, senza però rendersi conto che quella che lascia alla sua sinistra è una massa continentale.

Intanto cominciano a muoversi anche i nuovi inquilini del sud-est asiatico, gli olandesi. Per evitare la caccia delle flotte portoghesi e spagnole che incrociano nell’Oceano Indiano, e che dopo il 1581, a seguito della riunificazione delle corone nella persona di Filippo II, conducono una guerra congiunta ai Paesi Bassi, gli olandesi una volta doppiato il Capo di Buona speranza mantengono una rotta molto meridionale, all’altezza del quarantesimo parallelo (i famosi “40 ruggenti”). Ciò consente loro di sfruttare correnti marine favorevoli, risparmiando mesi di viaggio rispetto alla rotta circumafricana degli iberici, e ad impattare inevitabilmente il continente sconosciuto. Per incarico della Compagnia Olandese delle indie Orientali, nata solo dieci prima, Willelm Jenszoon tocca già nel 1605 le coste della Nuova Guinea e dell’Australia nordorientale, ritenendole parte di un unico continente. Dopo di lui, in rapida successione, Hendrick Brouwer (1611), Dirk Hartog (1616), Frederik Hauptman (1619), Willem de Vlamingh (1624) e Peter Nuyts (1627) approdano sul litorale australiano occidentale. Questi viaggi confermano l’esistenza di una vasta piattaforma continentale, ma hanno anche l’effetto di raffreddare alquanto gli entusiasmi, poiché le terre rinvenute appaiono tutt’altro che ricche ed accoglienti, ben lontane dalla favolosa immagine che della terra australis avevano costruito geografi e poeti. Per questi navigatori, che sono spinti essenzialmente da interessi commerciali, esse non sembrano offrire alcuna prospettiva, tanto più che il litorale occidentale, molto lineare, non consente di individuare baie adatte ad accogliere eventuali porti. Comunque, prima di sospendere le ricerche la Compagnia organizza ancora un viaggio esplorativo nel 1642, affidandolo ad Abel Tasman. Partendo da Batavia la spedizione scende a toccare quella che oggi è appunto la Tasmania, costeggia la Nuova Zelanda e risale poi lungo la Nuova Guinea. Ha modo di verificare che questa è separata dalla massa continentale meridionale, e che pertanto tra il continente asiatico ed altre eventuali piattaforme terrestri a sud c’è una grossa distanza.

Gli inglesi si spingono alle latitudini meridionali solo nel 1686, con William Dampier, che tocca la costa nord-occidentale australiana. In un secondo viaggio (1699-1700) l’ex filibustiere[4] percorre lo stretto di Torres, che separa la Nuova Guinea da quella che viene chiamata Nuova Olanda, esplora le coste settentrionali australiane e si ferma soltanto quando trova lo sbarramento della grande barriera corallina. Guida poi altre due spedizioni nei Mari del Sud nel 1703 e nel 1708, compiendo un ricognizione accurata dello sviluppo costiero dell’Australia e scoprendo la Nuova Britannia e la Nuova Irlanda. Al di là dell’effettiva rilevanza delle sue scoperte, e del fatto che conferma in pie-no l’impressione negativa già riportata dagli olandesi, Dampier ha il merito di aver saputo creare interesse attorno ai mari tropicali con le sue avventurosissime relazioni (soprattutto con A New Voyage round the World, del 1697), conquistando anche il grosso pubblico dei non specialisti alla letteratura e ai problemi geografici. Ciò avrà molta importanza nel creare una favorevole spinta dell’opinione pubblica per le spedizioni scientifiche della seconda metà del secolo.

Agli inizi del Settecento, comunque, la confusione sui dati geografici di quest’area è ancora enorme. Le coste della terra australis sono state respinte a latitudini meridionali sempre più alte; ma essa è tutt’altro che rimossa dai miraggi di avventurieri e navigatori. Lo conferma la spedizione dell’olandese Jacob Roggeveen, che a dispetto del veto della Compagnia olandese delle Indie, poco disposta a tollerare iniziative private in una zona che considera di suo monopolio, tenta in proprio la ricerca nel 1722. Roggeveen giunge sino all’isola di Pasqua, prima di essere bloccato dai suoi compatrioti e costretto a rientrare.

Al disinteresse olandese si contrappone invece la crescente attenzione dei francesi per i Mari del Sud. La Compagnia francese delle Indie, che attraversa un felice momento commerciale, affida nel 1738 a Jean Baptiste Bouvet de Lozier l’incarico di cercare la terra australe. Bouvet si spinge sino al 54° parallelo, naturalmente senza trovare traccia di masse continentali. Ormai è gara aperta tra Francia ed Inghilterra. Nel 1764 sono gli inglesi ad armare una spedizione esplorativa al comando di John Byron: essa punta sull’Atlantico meridionale, esplora le coste della Patagonia e della terra del Fuoco, spingendosi anche nel Pacifico, ma non riesce a toccare la costa antartica. Due anni dopo un’altra spedizione, al comando di Samuel Wallis, fa vela verso i mari dell’Oceania, arrivando sino a Tahiti[5]. Anche Louis Antoine de Bougainville, partito nel dicembre dello stesso 1766, tocca l’isola nel 1768. La sua circumnavigazione del globo è la risposta francese non solo a Wallis, ma anche alla sconfitta subita nella guerra dei Sette Anni (della quale tra l’altro Bougainville è stato un protagonista, combattendo valorosamente prima in Canada e poi sul Reno). Cacciata dall’America settentrionale e dall’India, la Francia cerca nuovi spazi di espansione in Oceania. Dopo una tappa al Rio della Plata e una sosta a Rio de Janeiro, Bougainville ha guadagnato il Pacifico attraverso lo stretto di Magellano ed ha esplorato l’arcipelago delle Tuamotu e le isole del Vento. Lasciata Tahiti tocca ancora le Samoa, si spinge a sud alla ricerca della Terra Australis, scopre la grande barriera corallina, che gli impedisce la ricognizione delle coste australiane orientali, risale alle Salomone e all’arcipelago della Sonda (dove scopre di essere stato preceduto di pochi mesi, nella scoperta di Tahiti, da Wallis). Riapproda in patria nel marzo del 1769, e due anni dopo pubblica il diario del viaggio de La Boudeuse e de L’Etoile (Voyage autour du monde), che darà un grosso contributo alla diffusione dell’immagine del “buon selvaggio”.

Questo crescente impegno nelle missioni esplorative, sia nell’uno che nell’altro paese, consente ai navigatori e ai geografi di accumulare un importante bagaglio di esperienze che daranno modo nei decenni successivi di affrontare con determinazione scientifica il problema. Nel 1768 salpa infatti da Londra un’altra spedizione, al comando di James Cook. È un’intrapresa a carattere eminentemente scientifico, patrocinata dalla Reale Società Geografica londinese con lo scopo preciso di ottenere dei rilevamenti astronomici da un punto di osservazione privilegiato, proprio Tahiti, in occasione di una eclissi totale di Sole[6].

Cook è arrivato al comando relativamente tardi, perché ha trascorso tutta la giovinezza in campagna ed è entrato nella marina reale solo a ventisette anni, nel 1755, partendo come semplice marinaio. Di lì in poi però la sua carriera è stata rapidissima, e il giovane è stato notato dalla Royal Society per le sue eccezionali qualità di cartografo. In effetti da tutti i suoi viaggi ha poi riportato una mole impressionante di informazioni di carattere naturalistico, cartografico e storico, per la gran parte raccolte e annotate di persona. La nave di Cook, l’Endeavour, è stata per l’occasione attrezzata a vero e proprio laboratorio scientifico, con biblioteca, gabinetto di studio e serre per la conservazione delle specie vegetali tropicali. Fanno parte della spedizione due botanici, due naturalisti, un astronomo e un disegnatore specializzato. Cook approda a Tahiti nel marzo 1769, compie i rilevamenti richiesti e fa rotta sulla Nuova Zelanda; la circumnaviga e dopo aver superato l’ostacolo della barriera corallina esegue una ricognizione sulle coste orientali australiane, dove individua la localizzazione del primo futuro insediamento inglese nella Botany Bay.

Quindi fa vela verso l’Europa. Sia pure decimata dalle febbri tropicali, la spedizione giunge a Londra nel 1771. I risultati sono eccezionali dal punto di vista scientifico, ma anche da quello geografico. Intanto si restringe ulteriormente l’area di ricerca del fantomatico continente australe, e si tracciano carte precise degli arcipelaghi polinesiani e della Nuova Zelanda: ma soprattutto è importante il fatto che le osservazioni di Cook relativamente all’Australia sono favorevoli, e inducono il governo a prendere in considerazione un progetto di colonizzazione. Ciò giustifica la sollecitudine con cui viene armata una seconda spedizione, ancora affidata a Cook, che ha con sé una nuova equipe di scienziati[7]. L’accertamento dell’esistenza della terra australis, già compreso nelle istruzioni del primo viaggio, costituisce questa volta lo scopo primario. Cook naviga per quattro mesi in direzione orientale senza fare scalo, ad una latitudine molto alta (circa 67 gradi). Giunge ad una settantina di chilometri dalla piattaforma continentale ma non riesce a raggiungerla, essendo indotto a desistere dal pericolo degli iceberg. Nell’estate del 1773 raggiunge e supera il circolo polare, scopre la Nuova Caledonia e torna a Londra nel 1775.

Sotto l’aspetto della conoscenza geografica è questo il suo viaggio più fruttuoso. Oltre alle numerose isole scoperte o riscoperte, esso cancella ogni residua illusione sulla esistenza di un ulteriore continente australe abitabile, e sposta definitivamente l’attenzione inglese sull’Australia. Rende conto inoltre, per la prima volta, dell’esistenza dell’Antartide.

Risolto l’enigma australe, l’Inghilterra appare decisa ormai a dare soluzione anche a quello settentrionale. Cook viene incaricato nel 1776 della ricerca del passaggio a nord-ovest, tentandolo però dal versante del Pacifico. Dopo aver costeggiato il continente americano fin oltre l’Alaska, ed aver toccato i 70° di latitudine Nord, l’esploratore constata l’impossibilità di avanzare e torna indietro per svernare alle Hawaii, dove è ucciso dagli indigeni nel 1779.

Il confronto tra Cook e Bougainville è particolarmente significativo. Mentre il primo è figlio di un bracciante agricolo, e ha scalato con la sola forza della sua intelligenza i gradi che lo portano al comando di una nave, Bougainville appartiene alla più alta nobiltà ed ottiene l’autorizzazione a compiere la circumnavigazione del globo, primo francese, per i suoi meriti ma soprattutto per il suo rango. Le differenze si vedono nello stile adottato dai due nel condurre le rispettive spedizioni. Cook è incredibilmente determinato, mentre Bougainville sfiora più volte la scoperta eccezionale, ma o è battuto per pochissimo sul tempo (a Tahiti, da Samuel Wallis) o rinuncia quando è già in vista dell’obiettivo (l’Australia, raggiunta e rivendicata solo l’anno successivo proprio da Cook).

Ma anche i risultati scientifici conseguiti sono molto diversi. Cook è capace di mappature incredibilmente precise e dettagliate. Il materiale raccolto nelle sue spedizioni darà lavoro per anni ai naturalisti e ai cartografi, rivoluzionando le conoscenze botaniche e riempiendo la gran parte degli ultimi spazi bianchi sulle mappe marittime.

Bougainville riporta invece soprattutto delle impressioni, la convinzione di avere trovato a Tahiti una sorta di paradiso terrestre nel quale è ancora presente l’innocenza originaria, e le affida al suo Voyage au tour du monde, destinate ad alimentare il dibattito filosofico (Diderot scrive un Supplement au Voyage de Bougainville che diverrà molto più famoso dell’originale) e il mito del buon selvaggio. Bada molto più alla dimensione umana che non a quella scientifica, ed è questo forse che gli consente di chiudere la sua circumnavigazione, durata due anni e mezzo, avendo perso solo sette uomini su oltre duecento. Anche nelle spedizioni di Cook i costi umani sono molto bassi, ma ciò è dovuto più che all’umanità del polso alla dieta alimentare comprendente agrumi e crauti, che il comandante impone e che previene lo scorbuto.

 

Il successo dei viaggi di Cook induce la Francia a intensificare gli sforzi di esplorazione. Luigi XVI invia nel 1785 Jean Francois Galaup de la Pérouse a completare le esplorazioni inglesi nel Pacifico meridionale, a prendere possesso delle terre nuove scoperte e a tentare ancora una volta il passaggio a nord-ovest dal versante occidentale. Come quella di Cook, la spedizione di La Pérouse ha un imponente corredo di strumenti, laboratori, volumi scientifici, e naturalmente di astronomi, naturalisti, meteorologi ecc… L’esito è tragico, perché entrambe le navi vanno disperse: ma nel corso del viaggio l’esploratore ha potuto inviare in patria una interessante messe di osservazioni e di rilevamenti.

Un’altra spedizione scientifica è organizzata negli stessi anni dalla corona spagnola e affidata all’italiano Alessandro Malaspina. Composta di naturalisti e cartografi, essa compie con le corvette Descubierta e Atrevida (equivalente spagnolo di Discovery e Resolution, i nomi delle navi dell’ultima spedizione di Cook) una ennesima ricognizione del Pacifico, durata quasi cinque anni, e suggella un secolo di esplorazioni con un ultimo, e ormai quasi simbolico, tentativo di forzare il nord-ovest. Al suo rientro Malaspina è ricompensato con un’accusa di tradimento (motivata dal fatto che si espresso in favore di una maggiore autonomia da concedersi ai territori coloniali) e con dieci anni di detenzione. Anche i risultati, davvero eccezionali, tanto dal punto di vista cartografico, per l’accuratezza e la quantità dei rilevamenti costieri, quanto più in generale per l’enorme messe di dati scientifici, oceanografici, geologici, botanici e antropologici raccolti, giaceranno purtroppo sepolti per oltre un secolo negli archivi segreti dell’ammiragliato[8].

Il Settecento si chiude comunque sull’onda di una spinta esplorativa rilevante e di segno nuovo, che sgombra definitivamente il campo dai vecchi miti e da quell’attitudine avventuriera, individualista e disordinata che aveva caratterizzato l’epoca eroica dell’espansione marittima.

È il clima culturale settecentesco, indubbiamente, a spingere verso una autonomia di significato dell’esplorazione, verso l’affermazione della curiosità scientifica come suo movente primario: ma vi concorrono anche le mutate condizioni politiche ed economiche, il subentrare dello stato nella gestione della politica coloniale, l’attenuarsi dell’urgenza dei fattori commerciali dopo che le correnti di traffico principali si sono stabilizzate, nonché l’apporto di uomini come Cook, capaci di far tesoro delle esperienze di tre secoli e di tradurle in capacità organizzative e in efficienza. È fondamentale anche la riorganizzazione che quasi tutti gli stati, spinti dalle nuove esigenze colonialistiche, intraprendono nel campo della marina militare, alla quale competono ormai funzioni non più limitate al campo bellico, ma allargate alla sperimentazione tecnica e alla ricerca scientifica. Queste ultime costituiscono anzi spesso la giustificazione, di fronte ai contribuenti, per il mantenimento di un elevato potenziale e di un alto livello di efficienza.

Gli stimoli alla ricerca vengono come abbiamo già visto dai progressi delle varie scienze, soprattutto dell’astronomia e della biologia. Le Accademie scientifiche sorte nel Seicento sotto il patrocinio e a spese dei sovrani caldeggiano rilevamenti sempre più accurati di dati meteorologici ed idrografici, chiedono raccolte e descrizioni di esemplari di fauna e flora tropicali, aggiornano le mappe astronomiche coi cieli degli antipodi. L’impulso iniziale legato alla competizione commerciale e militare (non è un caso che sia proprio un sovrano come Pietro il Grande a dare tra i primi l’esempio di una gestione diretta dell’attività di esplora-zione) si trasferisce alla competizione scientifica. Il destino ed il significato della scoperta mutano radicalmente, essa trae valore dalla priorità, e quindi dalla divulgazione immediata: alla segretezza e alla diffidenza subentra la pubblicità e la collaborazione. Inglesi e russi si incontrano ai limiti del circolo polare artico, impegnati nella stessa ricerca, si festeggiano e si scambiano informazioni. Esploratori francesi fanno tappa negli insediamenti britannici, in piena guerra tra i due paesi, per rifornimenti. L’Europa e le sue beghe sono diventate troppo piccole per chi sta allargando i confini del mondo.

I successi straordinari delle imprese di esplorazione del secondo Settecento nascono infine anche da ragioni tecniche. Le protagoniste di questi viaggi sono imbarcazioni di nuova concezione, dalla sagoma agile e veloce, adatte tanto alla navigazione in alto mare come a costeggiare. Sono fregate, corvette, golette, che si sostituiscono ai pesanti galeoni spagnoli, alle caravelle portoghesi, alle tozze caracche mediterranee[9]. I perfezionati criteri di costruzione garantiscono l’impermeabilità delle connessure, la resistenza all’erosione della salsedine e la compattezza generale della chiglia. L’applicazione di ricoperture di rame sulle chiglie, per limitare il formarsi di incrostazioni di alghe o di teredini, nonché il disegno più basso ed allungato degli scafi comportano, oltre ad una migliore penetrazione e quindi ad una aumentata velocità di crociera, un maggiore equilibrio di galleggiamento, ciò che permette l’utilizzo di alberi più alti e quindi di una velatura più ampia.

Queste ed altre soluzioni, compresa una serie di accorgimenti che garantiscono un minimo di sicurezza nelle manovre, permettono di governare la nave con un equipaggio ridotto e con turni meno massacranti. Il minore affollamento consente a sua volta di alloggiare gli equipaggi in ambienti più salubri, pur se ancora tutt’altro che confortevoli. Cambia anche il sistema di reclutamento degli ufficiali, sino al secolo precedente ristretto ai soli appartenenti alle classi nobiliari, e ciò permette a uomini capaci come Cook, figlio di contadini, di arrivare ad esercitare il comando.

La strumentazione nautica si arricchisce di apparecchi di riflessione e di cronometri, che consentono di determinare la longitudine in mare con margini d’errore sempre più contenuti, di bussole di rilevamento, di carte nautiche reticolate con meridiani e paralleli. Miglioramenti considerevoli si hanno anche nelle condizioni umane dei viaggi: grazie alla scoperta delle proprietà delle verdure e degli agrumi per combattere lo scorbuto, e più in generale alla maggior cura del vitto e dell’igiene, sia Bougainville che Cook riescono a compiere circumnavigazioni della durata di due o tre anni con costi umani ridottissimi.

 

L’esplorazione dei continenti

Accanto all’attività di esplorazione marittima prosegue intanto quella terrestre di penetrazione dei nuovi continenti e di ricognizione delle zone sconosciute dell’Asia e dell’Africa.

Nell’America del Nord gli spagnoli risalgono lungo le sierre dell’alto Messico, fino alla penisola di California. Missionari e avventurieri ripercorrono gli itinerari di Coronado e di Cabeza de Vaca, fermandosi però a nordovest davanti alle Montagne Rocciose e ai deserti dell’Arizona, ad est ai primi contraffarti degli Allegheny e al Mississippi. Più a settentrione, invece, i francesi dilagano dai loro primi insediamenti sul San Lorenzo, in una foga di esplorazione alla quale non è estranea la speranza di trovare un passaggio via terra per l’Oriente. Non appena Champlain ha rafforzato la colonia canadese cominciano a percorrere come cacciatori o commercianti di pellicce i territori dell’interno, spingendosi tra il 1650 e il 1660 fino alla Baia di Hudson e riconoscendo tutta la zona dei grandi laghi. Quest’area è già battuta nel secondo decennio del secolo dal giovane Etienne Brulé, che raggiunge l’Ontario e il Lago Superiore, ma finisce poi ucciso (e secondo la leggenda, cucinato) dagli indiani. Negli anni Quaranta Jean Nicollet, sempre alla ricerca del mitico passaggio, rinfocolata dai racconti indiani sull’esistenza di una “grande acqua”, si spinge sino al lago Michigan, mentre Chouart e Radisson esplorano nel decennio successivo il Wisconsin.

Negli anni Settanta sono Luois Joillet e Jacques Marquette a completare il quadro, identificando il Lago Eire e scendendo il tratto superiore del Mississippi, fino a convincersi che il fiume non li sta conducendo al Pacifico, ma all’oceano orientale. A seguirne il corso sino alla foce e a prendere possesso della regione retrostante gli Appalachi è invece, tra il 1779 e il 1784, Robert Cavalier de la Salle (assieme all’italiano Enrico Tonti). Prima della fine del secolo una cintura di forti e di stazioni di scambio collega il Canada con il golfo del Messico, e sulle coste di quest’ultimo viene fondata Nouvelle Orléans, a suggellare l’espansione della Louisiana.

L’interesse francese però, soprattutto negli ultimi due decenni di regno di Luigi XIV e durante quello del suo successore, è tutto concentrato sull’Europa. Non essendoci alle spalle un progetto significativo di colonizzazione le iniziative sono lasciate ai singoli. Così anche quando nel 1731 Pierre de La Vérendrye ed i suoi figli puntano dritto ad ovest, toccano il lago Winnipeg e arrivano alle pendici delle Montagne Rocciose, la loro ricognizione non ha alcuna ricaduta pratica.

Gli inglesi, dal canto loro, conservano a lungo un’idea alquanto imprecisa dell’estensione del continente. All’estremo nord, mentre i francesi si muovono lungo la direttrice di terra, i britannici portano avanti soprattutto la ricognizione costiera. Esplorano la baia scoperta da Hudson nel 1610 e sessant’anni dopo, nel 1668, fondano la Compagnia omonima, che ha nella carta costitutiva due scopi espliciti: cercare il varco marittimo per il mar della Cina e dare sviluppo al commercio delle pellicce. Lungo la costa settentrionale la Compagnia stanzia avamposti fortificati, dai quali partono poi le esplorazioni dell’interno. In pratica si crea una sorta di terra di tutti e di nessuno, nella quale si giocano le rivalità tra le diverse compagnie nazionali. La lotta per assicurarsi il monopolio sulle pellicce si svolge senza esclusione di colpi, destabilizza l’equilibrio già precario dei rapporti tra le varie le tribù indiane e trova una soluzione solo dopo la metà del Settecento, al termine della guerra dei Sette Anni.

A questo punto infatti l’iniziativa rimane tutta nelle mani degli inglesi. Molte colonie si sono viste riconoscere sulla carta di fondazione il diritto all’espansione illimitata in profondità, basato sul presupposto di una relativa vicinanza dell’oceano Pacifico: ma solo dopo la guerra di successione di Spagna e la pace di Utrecht si è dato inizio ad una attività esplorativa, e solo attorno alla metà del ‘700 questa attività comincia a produrre risultati, soprattutto nella fascia settentrionale. Antony Hendry ripercorre nel 1754 l’itinerario tracciato da La Vérendrye, mantenendosi leggermente più a nord e risalendo il corso del fiume Saschastkevan sino a raggiungere le Montagne Rocciose. Nel 1770 Samuel Hearne, anch’egli partendo dalla baia, risale verso nord-ovest fino al Mar Glaciale Artico e scopre il Grande Lago degli Schiavi. La sua ricognizione conferma l’impossibilità di arrivare dalla baia di Hudson al mar della Cina per via d’acqua, anche se, come vedremo, non chiude definitivamente il capitolo.

La situazione cambia ancora una volta nell’ultimo quarto del Settecento. Lo scontro tra le colonie e la madrepatria introduce sulla scena una nuova rivalità, e quando le prime ottengono l’indipendenza la corsa riparte con finalità diverse. I britannici devono giocare d’anticipo per arginare future pretese statunitensi di espansione verso occidente, e il riconoscimento geografico del territorio conferisce una sorta di diritto di prelazione. Prima ancora che il nuovo stato abbia trovato un assetto istituzionale definitivo Alexander Mackenzie, funzionario della Compagnia del Nord-Ovest, che ha rimpiazzato quella della Baia di Hudson, compie una serie di viaggi esplorativi terrestri con l’esplicito intento di raggiungere il Pacifico. Nel 1789 un primo tentativo lo conduce, con la discesa del fiume che oggi porta il suo nome, a sbucare sul Mar Glaciale Artico molto più ad ovest del punto raggiunto da Hearne. Nel 1793 riparte dal lago Atabasca, mantiene una direzione più meridionale e arriva, dopo aver superate le montagne Rocciose, a toccare l’oceano a nord dell’isola di Vancouver. È la prima traversata continentale compiuta a nord dell’odierno Messico, in pratica lungo la linea che costituirà il futuro confine tra gli stati uniti e il territorio canadese.

Una volta affermata la priorità della scoperta, sulle orme di Mackenzie si organizza a partire dai primi dell’800 un vero e proprio servizio di ricognizione topografica. Un altro funzionario della compagnia, Simon Frazer, arriva al Pacifico ad una latitudine inferiore, seguendo il fiume che da lui prenderà il nome sino di fronte all’isola di Vancouver. David Thompson rileva in una campagna ventennale di esplorazioni tutti i principali fiumi e i grandi laghi tra il 50° e il 60° parallelo, arrivando a superare più volte le Montagne Rocciose attraverso valichi diversi e scendendo al Pacifico lungo il bacino del Columbia (1801). La sua opera viene proseguita, molto più a nord, da John Franklin, che nel 1819 è incaricato di completare il riconoscimento costiero del mar Glaciale artico e della zona a nord del 60° parallelo. La prima spedizione rientra dopo aver trascorso due inverni a terra e aver perso molti membri, ma nel 1825 Franklin è nuovamente sulle rive dell’Artico. Altre spedizioni si spingono sino a discendere la prima parte del corso dello Yukon, arrestandosi però di fronte alla reazione di un’altra compagnia per il commercio delle pellicce: l’Alaska è infatti di competenza russa.

Nel frattempo anche gli Stati Uniti cominciano a muoversi. Nel 1783 con la pace di Parigi hanno annesso tutti territori tra gli Appalachi e il Mississippi: nel 1803 comprano da Napoleone la Louisiana. Si tratta di territori non del tutto ignoti, già in parte percorsi da spagnoli e francesi, abitati da popolazioni bellicose: un’immensa tavola piatta, poco protetta dalle masse d’aria provenienti da nord e da sud, quindi soggetta ad un clima marcatamente continentale, e il cui confine occidentale è definito solo dalla barriera naturale delle Montagne Rocciose. È quasi automatico che le iniziative di esplorazione siano volte soprattutto a superare queste ultime, a trovare vie d’accesso per la fascia costiera del Pacifico. Ed è anche sintomatico del mutamento intervenuto negli scopi il fatto che queste iniziative siano tutte affidate a militari.

Nel 1804 il governo statunitense incarica i capitani Meriwether Lewis e William Clark di risalire il Missouri, il maggior affluente del “padre delle acque”, per riconoscerne le sorgenti ma soprattutto per individuare possibili vie di accesso al Pacifico. La spedizione ha pieno successo. I due capitani arrivano nell’estate successiva a bagnarsi i piedi nelle acque dell’oceano e nel corso del viaggio stabiliscono contatti con le diverse nazioni indiane, individuano quelle potenzialmente ostili e stringono rapporti con quelle meglio disposte, assolvendo ad un ruolo che va ben oltre quello puramente esplorativo. Sulla via del ritorno si dividono per effettuare una ricognizione a più ampio raggio dei possibili percorsi alternativi, e a due anni dalla partenza sono nuovamente a Washington. È la risposta statunitense a Mackenzie, ed è rimasta tanto nell’immaginario quanto nella storiografia nordamericana come “la spedizione” per antonomasia.

Lewis e Clark sono però solo i primi e i più famosi di una fitta schiera di esploratori a stelle e strisce. Mentre ancora i due sono impegnati lungo il Missouri il tenente Zebulon Pike attraversa tutta la pianura centrale, arriva alle falde delle Rocciose, devia verso sud, segue il Rio Grande, spingendosi in profondità in territorio messicano, e torna poi attraverso il Texas. Il nuovo stato è ancora in fasce, e già sgomita in tutte le direzioni.

Dopo la guerra che li oppone nel 1812 agli Inglesi diventa ancora più pressante per gli Stati Uniti l’esigenza di riconoscere tutti i territori di confine col Canada, soprattutto di individuare lo spartiacque dal quale ha origine il bacino del Mississippi. Nel 1823 il maggiore Samuel Long esplora l’area degli odierni Wisconsin e Minnesota, nella quale dovrebbero essere rintracciabili le sorgenti del fiume: a questa spedizione si aggrega anche un italiano, Giacomo Agostino Beltrami, che ad un certo punto proseguirà la sua avventurosa ricerca da solo e si convincerà di aver trovato le sorgenti.

All’estremo ovest, su e giù per le Montagne Rocciose, tra il Grande Lago Salato e i fiumi Columbia e Colorado, si snodano le esplorazioni di Jededya Smith, che identifica tutte quelle che diverranno le vie classiche d’accesso alla California.

Ma il più grande sforzo esplorativo organizzato è quello che tra il 1842 e il 1853 vede il maggiore J. C. Freemont battere a tappeto con una serie di percorsi orizzontali tutto il Far West, l’Oregon e la California. Freemont è un valente cartografo, formatosi alla scuola del francese Nicollet. Le sue rilevazioni e le sue carte sono definitive. L’esplorazione dell’America settentrionale, a questo punto, è conclusa.

Tra il XVII e il XVIII secolo prosegue nel continente meridionale la penetrazione di portoghesi e spagnoli (per un certo periodo, tra il 1580 e il 1640, congiuntamente, per l’unificazione delle corone). Dal punto di vista geografico si tratta di completare un quadro del quale sono state sbozzate solo le linee generali, anche se gli itinerari della conquista hanno tagliato in lungo e in largo il continente. Le aree inesplorate rimangono in realtà vastissime, e in esse trovano ancora rifugio le fantasie medioevali che dalla scoperta hanno tratto nuovo alimento, dal mito dell’Eldorado a quelli delle Sette città di Cibola e delle donne guerriere. In un primo periodo sono però soprattutto i missionari, francescani e gesuiti, a battere la pista verso l’interno, alla ricerca di anime da convertire, il più possibile lontane dalla contaminazione europea. Alla fine del secondo decennio del ‘600 due francescani ripetono le imprese di Orellana e di Aguirre, discendendo il Rio delle Amazzoni su una canoa, dal Perù sino alla foce. Pochi anni dopo, nel 1637, è invece il portoghese Pedro Teixeira a risalire il fiume alla guida di una grande spedizione (quaranta imbarcazioni e circa 2.500 uomini), partendo dalla foce e riguadagnando dopo due anni l’oceano rifacendo a ritroso il percorso. Paradossalmente questa poderosa ricognizione, invece di sfatare una volta per tutte le leggende, contribuisce ad alimentarle. I gesuiti che accompagnano Teixeira e redigono la cronaca della spedizione riportano infatti gli accenni a luoghi e popoli favolosi come voci di seconda mano, ma non le mettono affatto in dubbio. Nella stessa zona compie invece interessanti rilevamenti idrografici, a cavallo tra il Seicento e il Settecento, un loro confratello tedesco: Samuel Fritz redige la prima carta attendibile del percorso del fiume ed apre la strada alla seconda ondata di esploratori, quella degli scienziati-naturalisti.

Nel 1743 è un francese, Charles Marie de la Condamine, inviato alcuni anni prima in Perù per una misurazione astronomica, a discendere in tutta la sua lunghezza la grande via d’acqua brasiliana. Con i risultati di questa esperienza De la Condamine aggiorna e completa le carte di Fritz, e individua alcuni problemi dei quali lascia ai posteri la soluzione, contribuendo in questo modo a suscitare ulteriore curiosità geografica in numerosi giovani scienziati. Il primo, e il più famoso, è il prussiano Alexander von Humboldt, che nel corso di un viaggio di esplorazione intrapreso in compagnia del pittore e botanico francese Aimée Bompland proprio alla fine del secolo attraversa diagonalmente la fascia più settentrionale del Sudamerica. Dopo aver risalito l’Orinoco sino alle sorgenti e aver appurato l’esistenza di una comunicazione fluviale diretta tra questo e il bacino delle Amazzoni, i due partono dal Venezuela, attraversano le Ande, arrivano sino al Perù e scendono poi al Cile, per tornare infine ad esplorare il Messico e l’isola di Cuba. Oltre ad effettuare rilevazioni scientifiche di straordinaria importanza (viene ad esempio scoperta la corrente fredda che lambisce le coste cilene e sale verso il nord), ne riportano dopo cinque anni vastissime collezioni di nuove specie animali ed erbari sterminati. I viaggi di Humboldt contribuiscono a fissare definitivamente la fisionomia del continente: ma come quello di De la Condamine, e più ancora di quello, data la risonanza che avranno negli ambienti scientifici europei, aprono una infinità di altre prospettive.

Di conseguenza, per tutta la prima metà dell’800, e anche oltre, sulle orme del barone prussiano e del pittore francese si muoveranno innumerevoli naturalisti e ricercatori scientifici di diverse nazionalità, favoriti dalle progressive indipendenze conquistate dei paesi latinoamericani e quindi dalla facilità di accesso. Saranno loro, personaggi come lo zoologo francese Alcide d’Orbigny che per sette anni vagabonda tra il Brasile e la Patagonia, o il tedesco R.H. Schomburgk, che ripercorre e amplia gli itinerari di Humboldt tra Gujana e Venezuela, o un altro francese, il conte Francois de Castelnau, che tra il 1843 e il 1847 va e viene tra il Mato Grosso, il Gran Chaco e gli altipiani andini (perdendo nell’ultimo viaggio tutto il materiale scientifico raccolto) a riempire gli ultimi spazi bianchi rimasti sulle carte del Sudamerica[10]; o ancora, l’entomologo inglese H. W. Bates, inizialmente compagno di avventura di Alfred Wallace, che esplora lungo undici anni tutto il bacino delle Amazzoni, e Richard Spruce, che in Amazzonia rimane quindici anni e ne riporta una collezione di quasi trentamila piante, di cui settemila sconosciute; o infine, l’italiano Antonio Raimondi, che intraprende un più che ventennale lavoro di mappatura del territorio peruviano, percorrendolo praticamente tutto a piedi[11].

In Asia giunge a compimento nei corso del XVII secolo la progressiva conquista russa della Siberia. Essa aveva preso l’avvio già negli ultimi decenni del secolo precedente, durante il regno di Ivan il Terribile, ma i contatti risalivano ad un’epoca più antica, immediatamente successiva alla cacciata dei Tartari, ed erano legati ai commercio delle pellicce. Mercanti e cacciatori avevano iniziato molto presto a varcare gli Urali, seguiti dopo la metà del ‘500 da bande cosacche che avevano sconfitto e sottomesso le tribù siberiane occidentali. Su questo slancio si era immediatamente inserito lo stato moscovita, organizzandolo in un disegno preciso di penetrazione a tappe forzate. La prima parte di questa avanzata è lineare, e mira a raggiungere velocemente l’oceano Pacifico, isolando la parte settentrionale del continente ed evitando lo scontro con le forti popolazioni del Turkestan. Essa si muove principalmente lungo i grandi fiumi che sfociano nell’oceano Glaciale Artico, che corrono per lunghi tratti in direzione longitudinale e sono facilmente navigabili. Non incontra ostacoli di sorta, né naturali né umani, trattandosi di una immensa landa semi pianeggiante e pressoché disabitata. Le varie tappe sono scandite da altrettante città, fondate sulle rive dei fiumi via via raggiunti: Tobolsk nel 1587 sull’Ob, Turkhansk nel 1607 sullo Jenissei, Jakustk nel 1632 sulla Lena. Nel 1649 è raggiunto l’oceano Pacifico, sulle cui coste viene fondata Okostk. Mentre è tracciato l’asse di penetrazione alcuni esploratori si spostano perpendicolarmente ad esso, compiendo peripli di ricognizione lungo i bacini fluviali: Poliarkov e Kabarov verso il sud, Stadovkin e Denjev a nord-est, fino all’estrema propaggine continentale. Denjev nel 1648 attraversa sul ghiaccio lo stretto di Bering, dando inizio all’interesse russo per l’Alaska.

L’espansione avviene senza clamori, e gli europei si accorgono di avere un nuovo concorrente affacciato sul Pacifico solo alla fine del Seicento, quando russi e cinesi tentano una definizione dei confini, dopo gli iniziali dissapori creati dall’ostilità cinese per la nuova inquietante vicinanza.

La conquista a quest’epoca è compiuta ancora soltanto sulla carta, anche se le basi effettive sono state poste. La maggior parte delle popolazioni nomadi e delle tribù kirghise sono tutt’altro che dome. Esse continuano ad incontrarsi nelle poste commerciali e nelle grandi fiere estive con i mercanti della Russia, ma si oppongono alle esazioni fiscali, all’introduzione della legislazione russa, alla conversione al cristianesimo. La messa in valore dell’immenso territorio non si fonda comunque sulle popolazioni indigene: essa è demandata alla colonizzazione contadina. Migliaia di servi della gleba cominciano a scegliere ogni anno di valicare gli Urali, alla conquista della libertà e di una terra propria. Con essi numerosi sono i dissidenti religiosi, appartenenti al raskol dei “Vecchi Credenti”, ferocemente perseguitato nella seconda metà del ‘600. Come il Nord-America, la Siberia sembra consentire nella sua immensità, nella sua natura desertica, la fuga verso la libertà e la possibilità di vivere in armonia con le proprie convinzioni. Ma a differenza di là, qui lo stato è presente e intende farsi sentire, almeno dove può giungere. La sua presenza si caratterizza quasi subito nell’aspetto più repressivo, in quanto la Siberia comincia ben presto ad ospitare i bagni penali, diventando così il simbolo stesso dell’oppressione autocratica.

Nel Settecento, soprattutto a partire dal 1720, Pietro il Grande organizza l’esplorazione siberiana in modo più sistematico. Sul continente Atlassov percorre la Kamchatka, completando così il profilo generale siberiano. Sul mare il danese Titus Bering è incaricato di cercare il passaggio che consenta la comunicazione diretta con la Cina attraverso i mari settentrionali (1728). Nel corso di questa spedizione scopre lo stretto che porta il suo nome e che separa l’Asia dall’America. In un viaggio successivo tocca le Aleutine, dove qualche anno dopo i cacciatori russi di pellicce fisseranno una loro stazione; ma il passaggio a nord-ovest rimane inviolato, anche se nel corso del secolo quasi tutta la costa bagnata dall’oceano Glaciale Artico viene riconosciuta sia da terra che per via marittima.

A dispetto dell’interesse che l’Europa del Seicento e del Settecento manifesta nei confronti della Cina e della sua civiltà, i rapporti diretti col grande impero rimangono in tutto questo periodo alquanto limitati. Dopo il tramonto della potenza portoghese e fino agli inizi del XVIII secolo le frontiere cinesi sono chiuse ai commercio occidentale, e soltanto alcune missioni gesuitiche ottengono agli inizi del Seicento di poter svolgere all’interno dell’impero la loro opera di evangelizzazione. Proprio questi gesuiti, portati dalla loro attività missionaria a percorrere gran parte del territorio cinese, raccolgono i dati più significativi della loro esperienza nel Nuovo Atlante della Cina (1655), che offre un quadro generale dei costumi e del pensiero cinese, oltre che della geografia del paese, e che viene aggiornato vent’anni dopo nella Cina Illustrata di padre Athanasius Kircher. Nella seconda parte del ‘700 questa opera di esplorazione e di divulgazione ha termine, per la polemica insorta all’interno stesso dell’ordine e ripresa poi dalle autorità ecclesiastiche, sulla tolleranza nei confronti dei riti cinesi, in particolare del culto degli antenati e di Confucio. Il riassunto globale delle conoscenze acquisite è comunque riversato nella prima carta moderna della Cina, che Jean-Baptiste D’Anville redige nel 1735.

Nel 1685 viene creata a Canton una dogana marittima per l’approdo di navi straniere, e nel 1699 gli inglesi ottengono di aprire in città un ufficio commerciale. Di lì a poco la stessa concessione sarà rilasciata ai francesi (1734), e nel 1784 addirittura alla neonata repubblica statunitense. Quando però le potenze occidentali cercano di forzare la mano, come nel caso della missione inglese guidata da lord George Mc Cartney nel 1783, l’imperatore ostenta uno sprezzante disinteresse[12]; salvo poi accettare, solo due anni dopo, un’analoga proposta per l’avvio di scambi commerciali e culturali da parte dell’emissario della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, Isaac Titsingh[13].

L’atteggiamento cinese è dunque estremamente contradditorio: da un lato si manifesta un sostanziale disinteresse per quanto l’Occidente ha da offrire, tanto sul piano culturale come su quello economico, dall’altro vengono commissionate ai gesuiti intraprese scientifiche o artistiche di grande rilievo[14]. Quello occidentale rimane invece sempre improntato a grande curiosità, e le relazioni e le immagini riportate anche da missioni sostanzialmente fallimentari come quella di Mc Cartney, che annovera nel suo seguito anche due pittori, contribuiscono ad alimentare l’interesse e la moda delle “cineserie”.

Una notevole curiosità suscita anche in questo periodo la regione del Tibet, che dopo essere stata visitata e descritta nel Trecento da Oderico da Pordenone non era più stata toccata da alcun europeo. Dalla relazione del viaggiatore francescano si ricava la suggestiva immagine di una società fondata su basi essenzialmente religiose, e ciò costituisce un ulteriore stimolo per i gesuiti. Essi risalgono dall’India, fondano una prima missione alle falde dell’altipiano e nel 1661 sono ricevuti anche a Lhasa. Ma i rapporti non tardano a guastarsi in seguito ad una ondata xenofoba causata dagli attriti tra i tibetani e l’impero cinese, ed anche questa regione torna a rifiutare per secoli l’approccio dell’occidente.

Decisamente più misterioso rimane anche nel XVIII secolo il Giappone. Per tutto il periodo Edo, dal 1639 sino alla metà dell’Ottocento, viene perseguita dagli shogun la politica del sakoku, l’isolamento totale. La popolazione non deve avere alcun contatto con la cultura occidentale. A tal fine viene anche inasprita la caccia ai nuclei cristiani creati dalla evangelizzazione cinquecentesca dei gesuiti, e gli unici occidentali ad avere accesso ad uno scalo portuale (a Nagasaki) per l’importazione e l’esportazione sono gli olandesi[15]. Eppure, anche durante questo periodo, nonostante la chiusura nei confronti del mondo esterno, in Giappone si studiano le scienze e la tecnica dell’Occidente, soprattutto le discipline geografiche, astronomiche, mediche, naturalistiche e astronomiche, nonché la fisica, e in particolare la meccanica.

Il resto del continente asiatico non è interessato nei due secoli in esame da importanti iniziative di esplorazione. Progredisce, naturalmente, la conoscenza geografica dell’India, in ragione del peso prima commerciale e poi politico che la regione va assumendo per gli europei. Si tratta comunque di un’area le cui caratteristiche generali erano già note fin dall’antichità. Assai meno conosciuta è invece la penisola indocinese, al cui interno penetrano soltanto alcune spedizioni missionarie francesi nella seconda metà del ‘600.

Infine, una prima relazione a carattere scientifico sulle regioni araba ed iranica si ha nella seconda metà del ‘700, ad opera del danese Carsten Niebuhr, protagonista di un viaggio avventuroso e tragico[16]. La spedizione di cui fa parte, promossa dalla corona danese, muove nel gennaio 1761 alla volta della penisola arabica, passando per l’Egitto. Dopo due anni, e dopo aver visitato lo Yemen e le coste occidentali dell’India, dei cinque scienziati che ne facevano parte rimane in vita il solo Niebuhr, che rientra in patria con un viaggio terrestre di tre anni attraverso l’Oman, la Persia, l’Iraq, la Siria, la Palestina e la penisola anatolica[17].


[1] Francis Drake aveva circumnavigato il globo con un viaggio durato tre anni, dal 1577 al 1580, intrapreso a fini militari piuttosto che esplorativi. Thomas Cavendish fu invece il primo navigatore a proporsi coscientemente, a soli 26 anni, di compiere l’intero periplo, ad imitazione di Drake e con finalità quasi sportive. Non mancò tuttavia, durante il viaggio, di dare la caccia alle navi spagnole e di impadronirsi delle immense ricchezze del Galeone di Manila (1586-1588).

[2] Bernardo Varelio, nella Geographia Generalis (1650), distingueva tra geographia generalis, “che studia i caratteri o qualità della terra”, geographia specialis, “che studia la configurazione e posizione di ogni paese” e una geografia “civile”, che studia le forme di governo e l’azione degli uomini sull’ambiente naturale.

[3] Vitus Bering era un ufficiale della marina danese, che dopo aver maturato diverse esperienze nei mari artici venne incaricato da Pietro il Grande di scoprire se l’America e l’Asia fossero collegate e nel 1728 identificò lo stretto che ne reca il nome e che separa la Siberia dall’Alaska. Bering morì nel corso della spedizione, assieme alla gran parte dei membri del suo equipaggio.

[4] William Dampier è davvero un personaggio da romanzo. Ebbe una vita avventurosissima, che lo portò anche a militare tra i pirati della filibusta. Ispirò a Swift la figura di Gulliver, e proprio il suo ritratto compariva nella copertina della prima edizione dei famosissimi Viaggi.

[5] Wallis circumnavigò il mondo tra il 1766 e il 1768 con l’HMS Dolphin. Attraverso lo Stretto di Magellano si inoltrò nel Pacifico toccando Tahiti, quindi attraversò sino a Batavia, e tornò in patria doppiando il Capo di Buona Speranza. Fu il precursore di Cook, e diversi uomini del suo equipaggio navigarono anche con quest’ultimo.

[6] Il Settecento è il secolo nel quale la “repubblica delle lettere” creatasi all’insegna della comune causa dell’Illuminismo tra gli scienziati e gli uomini di cultura di tutto l’occidente stimola la collaborazione nella ricerca. In questo caso, per l’eccezionalissimo doppio transito di Venere da-vanti al sole, nel 1761 e nel 1769, vennero inviate spedizioni in ogni parte del globo, dalla Norvegia al Capo di Buona Speranza, da Terranova a Tahiti e al Madagascar, per consentire agli astronomi inglesi, francesi, russi e tedeschi di seguire il pianeta e determinare, attraverso il confronto dei dati rilevati, la misura della distanza della Terra dal Sole. Non sempre però le cose andarono bene. L’astronomo Christian Mayer, che doveva osservare il transito a San Pietroburgo, trovò il cielo annuvolato per un mese di fila. Ma l’oscar della sfortuna va al francese Guillaume Le Gentil, che viaggiò per otto anni per tentare di osservare entrambi i passaggi, non ci riuscì e venne dato per morto, perdendo anche la moglie, che si risposò.

[7] I botanici sono questa volta i tedeschi Georg Foster e suo padre Johan. Georg, una volta rientrato in patria, pubblica il suo Viaggio attorno al mondo, che otterrà in Germania un enorme successo e influenzerà von Humboldt.

[8] Per completezza devo però ancora citare almeno altri tre navigatori-esploratori inglesi, attivi nella prima metà del XIX secolo, animati più dallo spirito pragmatico di un Cook che da quello illuministico di un Bougainville. Dietro le loro imprese ci fu sempre la figura e la determinazione del secondo segretario dell’ammiragliato, John Barrow, che alla esplorazione artica riuscì a conquistare per quarant’anni l’entusiasmo del paese e notevolissimi finanziamenti.

La prima delle spedizioni varate all’indomani della fine delle guerre napoleoniche (che avevano selezionato ufficiali particolarmente capaci) venne affidata a John Ross, e l’obiettivo era per l’ennesima volta il passaggio a nord-ovest. Si interruppe per una controversa decisione del comandante nello stretto di Lancaster, che in effetti avrebbe dato accesso al passaggio, e l’insuccesso sembrò chiudere la carriera di Ross. Questi aveva però cominciato ad intuire le potenzialità delle più recenti innovazioni meccaniche, e raccolse finanziamenti per una spedizione privata da effettuarsi su una piccola imbarcazione, la Victory, attrezzata con un motore a vapore.

Le peripezie di questa nuova spedizione durarono quattro anni, con altrettanti inverni trascorsi intrappolata dai ghiacci sull’isola di King William, e superati solo con l’aiuto degli inuit. Il risultato più importante fu forse in definitiva l’incredibile (stante la situazione) contenimento delle perdite: solo tre uomini.

Un partecipante alla prima spedizione di Ross, William Parry, fu incaricato di ripercorrerne l’itinerario e di spingersi il più possibile ad occidente, cosa che fece toccando i 110º di longitudine O. Ciò in pratica provava l’esistenza del famoso passaggio. Anche lui fu costretto dai ghiacci a svernare oltre il circolo polare artico, e ne approfittò per organizzare una spedizione esplorativa sulla terraferma. Nei dieci anni successivi fu poi a capo di altre tre spedizioni, l’ultima delle quali in direzione del Polo Nord.

Il nipote di John Ross, James Clark, che aveva cominciato a navigare a undici anni, partecipò sia alle spedizioni dello zio che a quelle di Parry. Ebbe quindi modo di maturare sin da giovanissimo un’enorme esperienza delle zone e delle condizioni artiche, oltre a conoscenze scientifiche che gli consentirono di determinare la posizione del polo magnetico boreale. Ciò indusse poi il governo britannico ad affidargli il comando di una spedizione nell’Antartico, che non conseguì lo stesso risultato ma portò alla conferma che al di là della barriera di ghiaccio si stendesse la terraferma.

[9] Dal galeone secentesco, caratterizzato da imponenti so¬vrastrutture a più piani (i ca¬stelli) a prua e a poppa e da un rapporto lar¬ghezza-lunghezza di 4 a 1 (di norma, qua¬ranta metri per dieci), si passa ai primi del Settecento al vascello, che abbassa o elimina del tutto i castelli, mentre innal-za notevolmente gli alberi – uno dei vascelli più fa¬mosi, la HSM Victory, che combatté anche a Trafalgar, era alto dal pelo dell’acqua alla cima dell’albero maestro più di 60 metri – e triplica o qua¬druplica il tonnellaggio; per arrivare poi, nella se¬conda metà del secolo, alla fregata, che aumenta il rapporto lunghezza-larghezza a 5 a 1, rendendo più snello lo scafo, conserva un solo ponte e aggiunge una quarta vela ai primi due alberi e velacci e controvelacci anche a quello di mez¬zana. Da rilevare che in una caracca come la Santa Maria di Colombo il rapporto era pari o di poco superiore a 3 a 1.

[10] Ma vanno ricordati anche i due più diretti discepoli tedeschi di Humboldt, Karl von Martius e Johann von Spix, che risalgono tra il 1819 e il 1821 il Rio delle Amazzoni ed esplorano il baci-no del Rio Negro: e, subito dopo la metà del secolo, i francesi Jules Crévaux e Henri Coudreau, che mappano gli affluenti di destra e di sinistra del Rio.

[11] Altri italiani sono affascinati dall’Amazzonia. Gaetano Osculati ripete tra il 1846 e il 1848 il viaggio di Orellana. Ermanno Stradelli dedicherà invece, a cavallo tra Otto e Novecento, i due terzi della sua esistenza all’esplorazione dei bacini idrografici maggiori del Sudamerica, quelli del Parà, dell’Orinoco e dell’Amazzoni.

[12] Quando la delegazione inglese ottenne udienza, trovò soltanto il trono vuoto e un messaggio dell’imperatore Qianlong, che definendo “barbari” gli occidentali faceva seccamente presente come la Cina, “terra del centro”, non avesse alcun bisogno dei beni da loro offerti. Avendo poi rifiutato di prosternarsi davanti all’imperatore, i britannici dovettero lasciare la Cina alla chetichella, senza aver concluso alcun trattato.

[13] Che, al contrario di Mc Cartney, non ebbe problemi a prosternarsi. Titsingh aveva maturato in decenni di servizio per la VOC, una lunga esperienza di confronto con le culture orientali, prima in Giappone, poi in India e in Indonesia. Fu ricevuto con tutti gli onori ed ebbe anche modo di attraversare in pieno inverno mezza Cina, vedendo luoghi che nessun occidentale aveva mai visto prima.

[14] Come la compilazione di un nuovo calendario (redatto dal padre Johann Adam Shall von Bell) o la composizione di enormi dipinti celebrativi delle imprese degli imperatori (grandi rotoli, fino a sessanta metri di lunghezza, pensati e coordinati da Giuseppe Castiglione.

[15] Che si sono guadagnati il privilegio bombardando da una loro nave un castello nel quale si era-no asserragliati i cristiani.

[16] Un affascinante racconto del viaggio è fornito in Arabia Felix, di Thorkild Hansen.

[17] Una ricognizione minuziosa del territorio (ma anche dei costumi, dell’archeologia e dell’etnologia) dell’impero ottomano e dell’area mediorientale viene offerta nella seconda metà del Seicento nel Libro dei Viaggi, opera sterminata (10 volumi) dell’erudito turco Evliyã Çelebi, che non sarà però conosciuta in occidente prima della fine dell’Ottocento.

 

L’Italia a piedi

di Paolo Repetto, 30 gennaio 2015

Camminare è l’attività più libera e indipendente,
niente vi è di peggio che star seduti
troppo a lungo in una scatola chiusa.
Johann Gottfried Seume

1. Sui prussiani pesa un vecchio pregiudizio e, dal momento che quasi nessuno sa dove si trovi effettivamente la Prussia, il pregiudizio ha finito per essere esteso a tutte le popolazioni della fascia più orientale e settentrionale della Germania.

Forse è colpa di Federico II, o di Von Clausewitz e di Bismarck (che peraltro erano tra gli uomini più intelligenti del loro tempo), sta di fatto che il termine “prussiano” evoca immediatamente un’enorme caserma abitata da milioni di militari, tutti ugualmente ottusi, tirati su a bastonate, pronti a scattare agli ordini e a marciare al passo dell’oca.

In Italia questa immagine l’ha diffusa Vittorio Alfieri, ben prima degli odierni detrattori della Merkel. Nella Vita scritta da esso racconta:

All’entrare negli stati del gran Federico, che mi parvero la continuazione di uno stesso corpo di guardia, mi sentii raddoppiare e triplicare l’orrore per quell’infame mestier militare, infamissima e sola base dell’autorità arbitraria […] Uscii da quella universal caserma prussiana verso il mese di novembre, aborrendola quanto bisognava […] perché quei perpetui soldati, non li posso neppur ora, tanti anni dopo, ingoiare senza sentirmi rinnovare lo stesso furore che la loro vista mi cagionava in quel punto.

In Francia, dove i prussiani li hanno sempre patiti in maniera particolare (e a ragion veduta, se si guarda alla storia degli ultimi tre secoli), un’identica considerazione era già radicata da un pezzo, così come nei paesi del Baltico e nella stessa Germania (si vedano gli sprezzanti giudizi di Goethe o di Heine, o le battute che ancora negli anni trenta del secolo scorso Leigh Fermor raccoglie attraversando la Baviera).

Malgrado Alfieri e il gran Federico, però, questo stereotipo è falso. I prussiani famosi che mi vengono in mente si chiamano Kant, Herder, i fratelli Humboldt, Jacobi, Hoffmann, Schopenhauer, Nietzche. Nessuno di costoro era un guerrafondaio,