Ritratti di famiglia

La storia è una galleria di quadri,
dove ci sono pochi originali e molte copie.

Ritratti di famiglia copertinaIn concomitanza con la mostra-rassegna delle loro attività (la prima, e con ogni probabilità anche l’unica) i Viandanti delle Nebbie offrono ai “followers” una strenna natalizia. L’idea iniziale prevedeva una plaquette sul modello dei vecchi calendarietti profumati dei barbieri, per i quali proviamo tanta nostalgia (per i libretti, ma anche per i barbieri): poi abbiamo optato per una linea meno frivola.
Distribuiremo quindi cinquanta libretti (il che significa presumere, molto ottimisticamente, un numero di lettori doppio rispetto a quelli del Manzoni) che vogliono suggerire da dove arrivano i Viandanti, chi c’è idealmente alle loro spalle. Certi dell’impunità, perché quasi tutti gli interessati non sono più in vita, ci siamo permessi di vantare nobili ascendenze.
Rispetto a molti dei personaggi evocati i gradi di separazione sono almeno quattro o cinque. Il sesto ci avrebbe portato direttamente a Gesù, e ci pareva un tantino esagerato. E tuttavia …

03 Quadri in mostraL’albero genealogico dei Viandanti è fittissimo e composito. Risalendo di due secoli (non abbiamo voluto andare oltre, era già abbastanza complicato così) si incontrano un po’ tutte le tipologie e le varietà umane: scrittori, artisti, esploratori, viaggiatori, rivoluzionari, filosofi, storici, fumettisti, ecc…). In un modo o nell’altro coloro che abbiamo rintracciato hanno contribuito a indicare percorsi, a suggerire svolte, a portare ristoro e a orientarci nella nebbia. Non sono gli unici, naturalmente, perché la nostra è una famiglia molto allargata. Potremmo citarne almeno altrettanti, e anzi, quella dei gradi meno prossimi di parentela potrebbe già essere un’idea per una strenna futura.

Abbiamo volutamente omesso ogni indicazione biografica o bibliografica relativa ai personaggi presentati. Il bello del gioco sta proprio qui: ciascuno potrà fare eventuali ricerche di approfondimento per conto proprio.
Questo è lo spirito dei Viandanti.

Nella Galleria non hanno trovato posto figure femminili. Chiamatelo maschilismo, se volete, ma di fatto non ci è venuta in mente alcuna protagonista significativa dei nostri percorsi culturali. Questo non significa che non abbiamo incontrato donne eccezionali: significa solo che queste donne non hanno lasciato il segno. Per un difetto nostro di sensibilità, indubbiamente: ma ci sembrava terribilmente ipocrita inserirne qualcuna solo in ossequio al politicamente corretto.01a Tin Tin

P.s: Il fatto che Tintin o Milù compaiano sia in prima che in quarta di copertina non è casuale: sono tra gli antenati più nobili, non potevano mancare all’appello.

04 Bustin in mostra

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

Isaiah Berlin

Camillo Berneri

Renzo Calegari

Albert Camus

Nicola Chiaromonte

Stig Dagermann. 12

Charles Darwin

Franz De Waal

Hans Magnus Enzensberger

Patrick Leith Fermor

Caspar David Friedrich

Piero Gobetti

Knut Hamsun

William Henry Hudson

Alexander von Humboldt 20

Pëtr Kropotkin

Furio Jesi

Toni Judt

Gustav Landauer

Giacomo Leopardi

Primo Levi

Jack London

Herman Melville

Albert Frederic Mummery

George Orwell

Hugo Pratt

Élisée Reclus

Mario Rigoni Stern

Albert Robida

J.D. Salinger

Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

George  Steiner

Robert Louis Stevenson

Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

Alexis De Tocqueville

Sergio Toppi

Alfred Wallace

Charles Waterton

Titn Tin con bandiera dei pirati con sfondo uniforme

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

08 Ken Parker06 Milazzo05 BerardiHo impugnato il fucile per tutta la vita, eppure, il mio popolo è stato distrutto, la mia sposa torturata a morte…
Se mio figlio vivrà dovrà trovare un altro modo di combattere…Addio, “Lungo fucile” …

Isaiah Berlin

12 Isaiah BerlinGarantire la libertà ai lupi significa condannare a morte le pecore.

Non esiste alcuna istanza primaria in base a cui la verità, una volta scoperta, debba per forza essere anche interessante

11 Isaiah Berlin

Camillo Berneri

14 Camillo BerneriL’anarchismo è il viandante che va per le vie della Storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca. Egli si sofferma per adagiarsi all’ombra avvelenata, per dissetarsi alla fontana insidiosa. Egli sa che il destino, che la sua missione è riprendere il cammino, additando alle genti nuove mete.

 

16 Camillo Berneri

Renzo Calegari

17 Renzo CalegariQuesta storia è finita come doveva, con dei vincitori e dei vinti … il mio guaio è che non appartengo né agli uni né agli altri.

19 Renzo Calegari

Albert Camus

21 Albert CamusPerché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Bisogna che si cambi in esempio.


Nicola Chiaromonte

25 Nicola ChiaromonteQuando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distogliere lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per pri-ma ci si articola nella mente è: Che cosa rimane?… Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati “belli”, direbbe Plotino… Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male, e non si può fare che sia diversa-mente (e non si deve fare che appaia diversamente).

24 Nicola Chiaromonte

La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine. 

Stig Dagermann

26 Stig DagermanLe auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà.

  27 Stig Dagerman

L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo sicuramente è vero.

 

Charles Darwin

30 Charles DarwinNella lunga storia del genere umano (e anche del genere animale) hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare ed a improvvisare con più efficacia.

  

 

32 Charles Darwin

Lo stadio più elevato di cultura morale si ha quando riconosciamo che dovremmo controllare i nostri pensieri.

 

Franz De Waal

33 Franz de WaalTutti sanno che gli animali hanno emozioni e sentimenti, e che prendono decisioni simili alle nostre. Gli unici a fare eccezione, sembrerebbe, sono alcuni universitari. 

35 Franz de Waal

Tutto conferma la mia visione della morale “venuta dal basso”. La legge morale non è né imposta dall’alto, né dedotta da principi accuratamente razionalizzati, ma nasce da valori ben radicati, presenti da tempo immemorabile. Il più fondamentale deriva dal valore della vita collettiva per la sopravvivenza. Il desiderio di appartenenza, la voglia di capirsi, di amarsi e di essere amati ci spingono a fare tutto ciò che possiamo per restare nel miglior rapporto possibile con le persone dalle quali dipendiamo.


Hans Magnus Enzensberger

38 Han Magnus EnzesbergerLa televisione è puro terrorismo. La parola scompare, e con la parola ogni possibilità di riflessione.

39 Han Magnus Enzesberger e Umberto Eco

Negli ultimi duecento anni le società più evolute hanno suscitato attese di uguaglianza che non si possono soddisfare; e al contempo hanno fatto sì che ogni giorno per ventiquattro ore la disuguaglianza venga dimostrata su tutti i canali televisivi a tutti gli abitanti del pianeta. Ragione per cui la delusione umana è aumentata con ogni progresso.

Al perdente, per radicalizzarsi, non basta quello che gli altri pensano di lui, siano essi concorrenti o sodali… Egli stesso deve metterci del suo; deve dirsi: io sono un perdente e basta. L’estinzione non solo di altri, ma anche di se stesso, è la sua soddisfazione estrema.

 

Patrick Leith Fermor

44 Patrick Leith FermorUna magica pace vive nelle rovine dei templi greci. Il viaggiatore si adagia tra i capitelli caduti e lascia passare le ore, e l’incantesimo gli vuota la mente di ansie e pensieri molesti e a poco a poco la riempie di un’estasi tranquilla.

45 Patrick Leith FermorNon si parte per andare da nessuna parte senza aver prima di tutto sognato un posto. E viceversa, senza viaggiare prima o poi finiscono tutti i sogni, o si resta bloccati sempre nello stesso sogno.

 

Caspar David Friedrich

47 Caspar David friedrichL’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un’opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio.

 

49 Caspar David friedrichPerché, mi son sovente domandato, scegli sì spesso a oggetto di pittura la morte, la caducità, la tomba? È perché, per vivere in eterno, bisogna spesso abbandonarsi alla morte.


Piero Gobetti

52 Piero GobettiIl fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

51 Piero Gobetti

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

Knut Hamsun

53 Knut HamsunQuando parlo con un uomo, non ho bisogno di guardarlo per seguire esattamente quello che dice; sento subito se egli mi dà a bere qualche cosa o me ne nasconde qualche altra; la voce, credetemi, è un apparecchio pericoloso

54 Knut Hamsun

  “Amo tre cose”, dico allora.
“Amo il sogno d’amore di un tempo, amo te e amo quest’angolo di terra.”
“E cosa ami di più?”
“Il sogno.”

 

William Henry Hudson

57 William Henry HudsonProvo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico,

58 William Henry Hudson


Alexander von Humboldt

61 Alexander von HumboldtCi sono popoli più acculturati, avanzati e nobilitati dall’educazione di altri, ma non esistono razze più valide di altre, perché sono tutte egualmente destinate alla libertà.

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La visione del mondo più pericolosa di tutte è quella di coloro i quali il mondo non l’hanno visto.

 

Pëtr Kropotkin

65 Petr KropotkinL’evoluzione non è lenta e uniforme come si vuol sostenere. Evoluzione e rivoluzione si alternano, e le rivoluzioni – i periodi cioè di evoluzione accelerata – appartengono all’unità della natura esattamente come i periodi in cui l’evoluzione è più lenta.

 

Non appena avrai scorto un’ingiustizia e l’avrai compresa – un’ingiustizia nella vita, una menzogna nella scienzao una sofferenza imposta da altri – ribellati contro di essa!  LottaRendi la vita sempre più intensa!

66 Petr Kropotkin

E così tu avrai vissuto, e poche ore di questa vita valgono molto di più di anni interi passati a vegetare.

 

 Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.

Furio Jesi

67 Furio JesiLa cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche  Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra.

68 Furio Jesi

Toni Judt

71 Toni JudtIl problema è che i socialisti hanno sempre nutrito una fiducia incondizionata nella razionalità degli uomini.

70 Toni Judt

Lo stile materialista ed egoísta della vita contemporánea non è inerente alla condizione umana. Gran parte di quello che a noi pare “naturale” data dalla decade del 1980: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le crescenti differenze tra ricchi e poveri. E, soprattutto, la retorica che li accompagna: un’acrítica ammirazione per i mercati sregolati, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione della crescita infinita.

 

Gustav Landauer

73 Gustav LandauerLo Stato non è qualcosa che si può distruggere con una rivoluzione, dato che esso esprime una condizione, una certa relazione tra gli esseri umani, una modalità del comportamento umano; lo possiamo distruggere solo contraendo altri tipi di relazioni, assumendo altri tipi di comportamento.

 L’anarchia non riguarda il futuro, riguarda il presente; non è questione di ciò che speri, è questione di come vivi.

 


Giacomo Leopardi

74 Giacomo LeopardiPasseggere: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo.

  La ragione è un lumela Natura vuol essere illuminata dalla ragionenon incendiata. 75 Giacomo Leopardi

Primo Levi

153ab Primo LeviPerché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

 

 Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.

 

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.

156 Primo Levi

Jack London

77 Jack LondonNon era della loro tribù, non poteva parlare il loro gergo, non poteva far finta di essere come loro. La maschera sarebbe stata scoperta e, per altro, le mascherate erano estranee alla sua natura.

78 Jack London

Dalla creazione del mondola barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progressoNel corso dei secolil’abbiamo soltanto ricoperta  con una mano di vernice, nient’altro.


Herman Melville

154 Herman MelvilleNoi non possiamo vivere soltanto per noi stessi. Le nostre vite sono connesse da un migliaio di fili invisibili, e lungo queste fibre sensibili, corrono le nostre azioni come cause e ritornano a noi come risultati.  

157 Herman Melville

Io sono tormentato da un’ansia continua per le cose lontane. Mi piace navigare su mari proibiti e scendere su coste barbare.

156 Herman Melville

Dell’amicizia a prima vista, come dell’amore a prima vista, va detto che è la sola vera.

 

Albert Frederic Mummery

81 Albert Frederic MummeryLa via più difficile alle cime più difficili è sempre la cosa giusta da tentare, mentre i pendii di sgradevole pietrisco vanno lasciati agli scienziati. Il Grépon merita di essere salito perché da nessuna altra parte l’alpinista troverà torrioni più arditi, fessure più selvagge, precipizi più spaventosi.
Assolutamente impossibile con mezzi leali.

 

George Orwell

85 George OrwellSapere dove andare e sapere come andarci sono due processi mentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessa personaI pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango.

  

Così come per la religione cristiana, anche per il socialismo la peggior pubblicità sono i suoi seguaci.

86 George Orwell

Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenzaA loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto.

 

 

Hugo Pratt

88 Hugo PrattQuelli che sognano ad occhi aperti sono pericolosi, perché non si rendono conto di quando i sogni finiscono.

89 Hugo Pratt - Corto Maltese

Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…

Élisée Reclus

92 Elisée ReclusL’Anarchia è la più alta espressione dell’ordine. 

93 Elisée Reclus

Se noi dovessimo realizzare la felicità di tutti coloro che  portano una figura umana e destinare alla morte tutti coloro che hanno un muso e che non differiscono da noi che per un angolo facciale meno aperto, noi non avremmo certo realizzato il nostro ideale. Da parte mia, nel mio affetto di solidarietà socialista, io abbraccio anche tutti gli animali.


Mario Rigoni Stern

159 Mario Rigoni SternI ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia. 

 

163 Mario Rigoni SternDomando tante volte alla gente: avete mai assistito a un’alba sulle montagne? Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura.

 

160 Mario Rigoni SternIl tempo, nella vita di un uomo, non si misura con il calendario ma con i fatti che accadono; come la strada che si percorre non è segnata dal contachilometri ma dalla difficoltà del percorso.

 

Albert Robida

96 Albert RobidaMio caro Mandibola – diceva quasi sempre Farandola terminando – abbandono definitivamente ogni idea di riforma sociale, e mi lancio con tutte le vele spiegate, nella più vasta industria. Gli affari, il commercio, ecco ciò che mi occorre; e dal momento che le grandi imprese sono necessarie alla mia salute, avanti con le gigantesche speculazioni commerciali! 

  Il vecchio telegrafo permetteva di comunicare a distanza con un interlocutore. Il telefono permise di sentirlo. Il telefonoscopio superò entrambi rendendo possibile anche vederlo. Che si può volere di più?

99 Albert Robida

J. D. Salinger

100 J D SalingerIo sono una specie di paranoico alla rovescia. Sospetto le persone di complottare per rendermi felice.

 

101 J D Salinger - Il giovane HoldenLa più spiccata differenza tra la felicità e la gioia è che la felicità è un solido e la gioia è un liquido.

 

Camillo Sbarbaro

103 Camillo SbarbaroSe potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.

 

 Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.

 Si comincia a scrivere per essere notati, si seguita perché si è noti.

105 Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

107 Erwin SchrödingerIl mondo è una sintesi delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e dei nostri ricordi. È comodo pensare che esista obiettivamente, di per sé. Ma la sua semplice esistenza non basterebbe, comunque, a spiegare il fatto che esso ci appare.

Se questi dannati salti quantici dovessero esistere, rimpiangerò di essermi occupato di meccanica quantistica.

  106 Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

110 Johann Gottfied SeumeCamminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa. 

113 Johann Gottfied Seume

In tutta la mia vita non mi sono mai abbassato a chiedere qualcosa che non abbia meritato, e nemmeno chiederò mai quel che ho meritato finché esistono in questo mondo tanti mezzi di vivere onestamente: e quando poi anche questi finissero, ne resterebbero alcuni altri per non vivere più.

115 Johann Gottfied Seume

 

George  Steiner

116 George SteinerTutta la metafisica è un ramo della letteratura fantastica.

Un genio degli scacchi è un essere umano che concentra doni mentali ampi e poco compresi, e lavora su un’impresa umana alla fine insignificante.

L’etichetta di homo sapiens, a parte pochi casi, probabilmente è solo un’infondata millanteria.

120 George Steiner

Robert Louis Stevenson

121 Robert Louis StevensonNon chiedo ricchezzené speranze, né amorené un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi.
Io non ho viaggiato per andare da qualche parte, ma per il gusto di viaggiare.
La questione è muoversi.

122 Robert Louis Stevenson

La politica è forse l’unica professione per la quale non viene ritenuta necessaria alcuna preparazione specifica.


Henry David Thoreau

125 Henry David ThoreauNon c’è valore nella vita eccetto ciò che scegli di mettere in essa e nessuna felicità in nessun posto eccetto ciò che gli apporti tu.

126 Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

128 Sebastiano TimpanaroScrivere significa svolgere un ragionamento che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze. Senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali. Seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni. Chi scrive offre al lettore la propria coerenza di ragionamento e lo invita ad analoga coerenza.


Alexis De Tocqueville

135 Alexis De TocquevilleSe cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?

137 Alexis De Tocqueville 

In una rivoluzione, come in un raccontola parte più difficile è quella di inventare un finale.

 

Sergio Toppi

138 Sergio ToppiIo detesto essere chiamato artista: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo.

 

139 Sergio ToppiIl suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai d’imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l’incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri.

 

Alfred Wallace

142 Alfred WallaceQuesta progressione, per piccoli passi, in varie direzioni, ma sempre controllata ed equilibrata dalle condizioni necessarie, soggette alle quali solo l’esistenza può essere preservata, può, si crede, essere seguita in modo da concordare con tutti i fenomeni presentati da esseri organizzati, la loro estinzione e successione nelle epoche passate, e tutte le straordinarie modificazioni di forma, istinto e abitudini che esibiscono.

146 Alfred Wallace

 

Charles Waterton

147 Charles WatertonMentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione.

Tin Tin si avvia

Il lato sinistro della storia3

(parte terza)

di Paolo Repetto, 6 aprile 2022

Da questo punto in poi mi avventuro in un racconto che paradossalmente, pur concernendo epoche sempre più vicine alla nostra, e quindi conoscenze relativamente più concrete, lascia maggiore spazio a interpretazioni già orientate o orientative. Intendo dire che la paleontologia e l’antropologia, a differenza delle scienze biologiche, concedono ampi margini alle letture “ideologizzanti”, ciò che riesce evidente dal persistere oggi ancora dell’annoso dibattito sulla “natura umana”. Cercherò di mantenermi per quanto possibile al margine di questo dibattito, basandomi sui dati di fatto piuttosto che sulle ricostruzioni edeniche o bestiali della nostra preistoria. Ma proprio l’aumento esponenziale dei dati, e delle relative interpretazioni che possono esserne desunte, mi costringe a questo punto a procedere per successive “scelte di campo”. Credo sia importante dunque che, trattandosi di un lavoro che ha non ha alcuna velleità “scientifica”, queste risultino quantomeno chiare.

3.4 Creare

L’uomo ha dunque esplorato tutte le strategie per garantirsi la sopravvivenza, e per farlo si è dotato degli strumenti opportuni. Lo ha fatto, come abbiamo visto, cominciando con l’emancipare alcune parti del suo corpo dalle loro originarie funzioni istintuali. Ma se già la possibilità di fare qualcosa con gli arti superiori mentre quelli inferiori compivano un movimento diverso favoriva lo sviluppo cerebrale, in quanto esigeva che più sistemi di controllo si attivassero in contemporanea, è stata però la creazione di utensili, il passaggio cioè alla “tecnica”, a spingere verso una qualità del pensiero (e della vita) radicalmente diversa.

La tecnica era per la mitologia antica un dono di Prometeo (da pro-mathéin, aver pensato prima): il regalo di un cervello che “pensa prima”, che “pensa più veloce”. Come sempre, il mito ci offre la sintesi e la spiegazione più efficaci di quanto è effettivamente accaduto. Il volume cerebrale degli umani, e quindi la loro capacità di risposta adattiva, cresce in concomitanza proprio con la produzione dei primi strumenti litici. La nascita della tecnica segna infatti l’avvento di un pensiero mirato ad uno scopo. Creare uno strumento significa prefigurare una situazione nella quale quello strumento potrà tornare utile: quindi programmare, e insieme immaginare. Immaginare ad esempio di poter incontrare nella savana, lontano da vie di fuga o da alberi su cui rifugiarsi, dei predatori, e procurare di essere sempre attrezzati alla difesa, scegliendo nodosi bastoni e scheggiando pietre per renderle taglienti, e magari innestando queste ultime sui bastoni.

Significa anche però imboccare una direzione “lineare obbligata”: l’uscita per la tangente dal ciclo dell’eterno ritorno. (uso questa formula nella consapevolezza che si tratta solo di una percezione e di una convenzione filosofico-letteraria, perché nella realtà sui tempi lunghi in natura nulla torna mai eguale a se stesso). La “cultura” indotta dalla tecnica diventa la specializzazione (oserei dire, la “specificità”) dell’uomo, ed è qualcosa che ridisegna totalmente sia le modalità che i tempi evolutivi. Per quanto lunghissimi, estremamente diluiti nel tempo e dispersi nello spazio, i passaggi sono ormai percettibili (naturalmente, a posteriori). I più antichi manufatti umani, costituiti da ciottoli scheggiati su una sola faccia (chopper), oppure a scheggiatura alterna o multidirezionale, compaiono in Africa a partire da circa due milioni e mezzo di anni fa, accanto ai resti fossili di Homo habilis, e sono ascrivibili alla più primitiva tecnologia litica, quella Olduvaiana. Un milione e quattrocentomila anni fa, sempre in Africa, associata stavolta ad Homo erectus, si affermala cultura Acheuleana, caratterizzata dalla produzione di utensili scheggiati su entrambi i lati in modo simmetrico (le amigdale, o bifacciali). In ultimo, verso la fine del Paleolitico inferiore, attorno a trecentomila anni fa, si diffonde in Europa la scheggiatura Levallois, che consente la fabbricazione di strumenti più vari e specializzati.

A quel punto per sopravvivere gli uomini sono già totalmente dipendenti dalla tecnica: prima di tutto dal controllo del fuoco e dal suo utilizzo come arma di difesa contro i predatori e per cuocere i cibi e riscaldarsi. E se gli utensili creati dall’erectus e dell’habilis erano rimasti pressoché inalterati per centinaia di migliaia di anni, con una evoluzione quasi impercettibile, dopo l’avvento dell’Homo sapiens il ritmo delle innovazioni conosce una progressione costante: un milione di anni separano i primi choppers dell’olduvaiano dalle amigdale dell’ acheuleano e mezzo milione queste ultime dai veri e propri attrezzi in pietra e legno del Musteriano, ma tra la pietra levigata e le tecniche più sofisticate dell’arco e degli attrezzi per colpire a distanza ne intercorrono meno di centomila. Di qui in poi le rivoluzioni si succedono con frequenze sempre più ravvicinate: dopo l’arco l’agricoltura, la domesticazione degli animali, la lavorazione dei metalli, la scrittura, la ruota, eccetera. Senza dimenticare, fondamentale, l’approdo ad una comunicazione verbale compiutamente strutturata. Tutto questo mentre, come abbiamo già visto, la base biologica del Sapiens e la sua anatomia rimangono in quegli ultimi centomila anni praticamente invariate.

Nello stesso periodo muta invece radicalmente la sua attitudine mentale: muta nei confronti dell’ambiente in cui è immerso, della natura, perché la progettualità implica un atteggiamento intrusivo, oltre che una percezione “temporalizzata”: ma muta anche nei confronti di chi lo circonda, dei suoi simili come degli altri ominidi e degli animali coi quali ha una parentela più o meno più o meno prossima: nonché nei confronti di se stesso. Si sviluppa una “coevoluzione” che riguarda in primo luogo il rapporto tra l’azione tattile e la facoltà del linguaggio. “Mani e parole sono, in primo luogo forme di intervento che modificano il contesto in cui si insediano. Hanno un impatto ecologico tale da richiedere spesso un’azione ulteriore dal carattere intrinsecamente ambivalente: sono riparazione, poiché cercano di rimediare al cambiamento provocato (ad esempio l’estinzione delle prede cacciate o l’impoverimento del terreno sfruttato attraverso l’agricoltura); sono ancora invasione poiché l’intervento umano (l’allevamento, oggi l’uso di fertilizzanti) non può non avere un effetto antropico, non può non comportare un cambiamento dell’ambiente a immagine e somiglianza dell’Homo sapiens.[1]

Il mondo non viene più dunque semplicemente vissuto dal sapiens, e passivamente subito, ma è indagato e saccheggiato e ricreato[2]. Il primo mutamento riguarda la curiosità nei confronti dell’ambiente. La curiosità è propria di ogni organismo animale, ma nella forma propriamente “conoscitiva” appartiene solo alle specie evolutivamente più complesse, e in quella performativa soltanto all’uomo. L’uomo è l’unico animale in grado di prevedere o quantomeno immaginare le conseguenze di una determinata azione: e quindi di pianificare il futuro, e di compiere all’occorrenza scelte che possono anche mettere in forse la sua sopravvivenza, andando contro i dettami dell’istinto, ma valutando o auspicandosi possibili futuri vantaggi. Questa capacità di costruire o immaginare situazioni alternative, di sganciarsi dal qui e ora, spiega la progressiva e inarrestabile diffusione della specie umana in ogni angolo del globo. Le migrazioni dei primi ominidi sono avvenute certamente sotto la spinta dei mutamenti ambientali, dell’ esaurimento delle risorse o delle pressioni esercitate da gruppi di consimili: ma sono state rese possibili dall’incredibile capacità di adattamento che la specie ha dimostrato in ogni condizione, dalle soluzioni tecniche e culturali che è stata capace di escogitare, e soprattutto, direi, dallo spazio mentale consentito alla funzione immaginativa, che diventava stimolo a esplorare e conoscere quel che c’era oltre l’orizzonte. Non si spiegherebbero altrimenti imprese incredibili come quelle degli ominidi che cinquantamila anni fa attraversarono bracci larghissimi di mare per approdare in Australia, o lande ghiacciate per passare sul continente americano.

Al di là degli spostamenti, però, ad essere percepita in maniera diversa è innanzitutto la quotidianità. I primi strumenti usati dai nostri antenati per raggiungere i loro obiettivi erano oggetti naturali: pietre, bastoni, ossi, ecc… Né più né meno come accade per altri animali, e particolarmente per i primati superiori. L’uso che ne facevano era immediato e spontaneo: si servivano della prima cosa che capitava loro a tiro. Dal momento però in cui questi oggetti hanno cominciato ad essere lavorati e adattati in vista di una ipotetica necessità futura, sono stati proiettati un contesto “culturale” che andava a sovrapporsi a quello naturale, a trascenderlo. Il discrimine sta proprio a questo punto: negli umani il ricorso allo strumento non rimane occasionale e dettato dal bisogno immediato, ma diventa consapevolezza della possibilità di un uso alternativo di fronte alle molteplici incognite ambientali, e questa consapevolezza continua ad essere presente alla memoria anche in assenza dell’occasione di applicarla. Diventa cioè funzionale ad una possibile strategia, nella quale finiscono per combinarsi diverse opportunità. L’uomo si scopre capace non solo di sfruttare l’occasione, ma di cercarla o di crearla. Acquisisce una coscienza temporale che non ricorda solo dei fatti, ma ricostruisce degli eventi, collocandoli nel passato o nel futuro.

3.5 Specchiarsi

Contrariamente all’immagine stereotipa dei nostri progenitori come cacciatori, l’economia dei primi ominidi era basata sulla raccolta itinerante di frutti e radici e sullo spolpamento delle carcasse lasciate dai grandi carnivori[3]. In un inseguimento era più probabile che recitassero la parte della preda. Ora, l’economia di raccolta comportava l’esplorazione di ampie distese poco alberate, nelle quali la postura eretta consentiva di muoversi più rapidamente e soprattutto di mantenere un maggiore campo visivo, per evitare i predatori. Essere però a propria volta più visibili esponeva a grossi rischi. Muoversi isolati era estremamente pericoloso, per cui divenne di vitale importanza rimanere in contatto visivo con altri membri del gruppo, sviluppare legami stabili tra i membri della comunità e progredire di conseguenza verso un’organizzazione sociale più articolata[4].

L’altro cambiamento fondamentale concerne dunque il rapporto con i propri simili. L’aiuto reciproco era imposto da necessità immediate di sicurezza e di sopravvivenza, cosa che accade del resto anche per i banchi di pesci o per le società degli insetti: ma gli umani non si sono fermati al livello della pura associazione istintuale. Per cooperare su progetti sganciati dalle ricorrenze e dai ritmi naturali era indispensabile che tra i diversi attori si aprisse un credito reciproco di fiducia: ciò che implicava il riconoscimento degli altri come propri simili[5]. Si scopriva cioè l’umanità altrui (anche se questo credito non va sopravvalutato, perché in un primo momento era riservato solo ai membri del proprio gruppo o della propria tribù). Questo riconoscimento non rimaneva confinato alla superficie. Scendeva in profondità, e portava ad attribuire agli altri le stesse intenzioni che animano noi: quindi ad accoglierne, o quanto meno a interpretarne, anche il punto di vista.

Ma quali meccanismi sono entrati in gioco perché tutto questo accadesse?

Per cooperare, si diceva sopra, è necessario agire in sintonia con gli altri: cogliere le loro intenzionalità, vedendoci agire al loro posto, così come essi cercheranno di cogliere le nostre. Oggi sappiamo che la nostra capacità empatica, la nostra compartecipazione e comprensione dell’altro scaturisce da una predisposizione presente in qualche maniera in noi sin dalla nascita, su base neurale. Che insomma la radice di questa sintonia è biologica, mentre gli sviluppi sono poi culturali: e lo sappiamo grazie alla recente individuazione dei neuroni specchio.

La scoperta non è avvenuta casualmente: da tempo si cercava di dare una spiegazione scientifica ad un meccanismo mimetico che era già stato individuato come esplicativo dei comportamenti animali da etologi ed antropologi (ad esempio da Konrad Lorenz, o da René Girard – ma prima ancora era stato genialmente anticipato da Giovanbattista Vico, e da Schopenhauer[6]). Del tutto casuali sono state invece le circostanze, una serie di test effettati sui macachi per studiare i meccanismi di attivazione cerebrale in corrispondenza di particolari azioni. In sostanza, si è scoperto che in alcune aree del cervello (denominate F5 e F4) operano dei neuroni che si attivano sia quando il soggetto compie un’azione che quando osserva altri individui compiere la stessa azione. Essi riflettono cioè direttamente nel cervello dell’osservatore le azioni realizzate dagli altri, ma anche da sé (per questo sono definiti neuroni specchio). E il meccanismo è attivo non solo nei primati o più in generale nei mammiferi, ma anche in altre classi dei vertebrati, sicuramente, ad esempio, negli uccelli.

Negli altri animali però i neuroni specchio non sono attivati da qualsiasi tipo di azione: lo sono, di norma, solo da quelle transitive (cioè rivolte a o ricadenti su un altro oggetto), quelle la cui intenzionalità è palese e immediata. Ciò non vale per l’uomo: nel sistema neuronale umano il sistema specchio non si attiva solo in presenza di azioni transitive (e in molti casi anche intransitive), ma si estende anche a quelle semplicemente mimate. Questo significa che il cervello umano è in grado di selezionare non solo rispetto alla tipologia di azione, ma anche rispetto alla sequenza di movimenti dai quali essa è composta. E può farlo perché ha una coscienza “diretta” di quei movimenti, indotta dalla consapevolezza del proprio corpo.

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Noi siamo infatti in possesso delle conoscenze motorie che regolano le rappresentazioni coinvolte, nelle azioni esecutive come nella comprensione. Il rapporto cervello-mano non è puramente istintuale e a senso unico, ma comporta un passaggio di informazioni bidirezionale, in ingresso e in uscita. I dati (prevalentemente visivo-uditivi) che raccogliamo dal mondo esterno li trasmettiamo al circuito sensoriale-motorio, dopo però che quei dati sono stati pre-selezionati dallo stesso sistema. Vale a dire che se vedo la maniglia di una porta la prima informazione che viene trasmessa al mio cervello non è relativa all’aspetto estetico, alla fattura o ai materiali, ma al modo in cui posso afferrare la maniglia (l’esempio più ricorrente nella letteratura scientifica è quello del manico della tazzina da caffè). In automatico i miei neuroni attivano la “disposizione” ad afferrare. L’attivazione del sistema specchio non avviene dunque sulla base delle informazioni visive, ma sulla base dell’anticipazione di uno “scopo”. La percezione di un oggetto, ma più in generale tutte le caratteristiche oggettive di un ambiente, ci inducono automaticamente ad agire in maniera appropriata rispetto a quell’ambiente o a quell’oggetto: che significa anche, a volte, non agire affatto.

Noi dunque istintivamente “sappiamo” cosa sta alla base di determinate azioni, nel senso che abbiamo una istintiva conoscenza del loro stretto rapporto con particolari stati mentali. Diamo quindi alle azioni compiute da un’altra persona un significato che si basa su ciò che abbiamo in mente noi quando compiamo la stessa azione. Ciò naturalmente vale anche per come sono interpretate le nostre azioni agli occhi degli altri. Ovviamente gli stimoli esterni vengono riconosciuti e compresi dall’osservatore solo se il modo in cui si configurano fa parte del suo bagaglio sensoriale-motorio. Certe azioni o comportamenti che sono peculiari di altre specie o ordini animali non attivano nell’uomo alcuna risposta neuronale, se non quella della pura percezione visiva. La attivano invece, e segnatamente, anche le espressioni facciali e le azioni comunicative dei suoi conspecifici. In altre parole, siamo in grado di partecipare delle stesse emozioni degli altri, in quanto la percezione delle emozioni di base negli altri coinvolge le stesse strutture cerebrali che si attivano quando esprimiamo le nostre.

A questo punto dovrebbe essere più o meno chiaro come sia possibile per l’essere umano comprendere le intenzioni e le emozioni altrui: e come, magari, proprio riflettendosi in questo specchio, sia pervenuto a prendere piena coscienza di sé, e di conseguenza possa aver sviluppato la capacità di pensare e di agire in sintonia con altri. Di dare vita, in sostanza, a forme di comunità e di socialità dapprima elementari e poi via via più complesse.

Il gruppo (in un secondo momento, la tribù) è una società cooperativa, ma a differenza di quelle che caratterizzano altre specie o altri ordini non è tale solo per via di una determinazione genetica. Nasce da una scelta, sia pure utilitaristica. Ci si associa “volontariamente” in funzione di un progetto comune, che va dalla battuta di caccia o di raccolta alla coabitazione ai fini della difesa. Molti occhi vedono anche ciò che può sfuggire a un paio d’occhi, e molti individui hanno un potere di dissuasione anche nei confronti di un aggressore temibile[7].

3.6 Comunicare

Per socializzare, e tanto più per programmare in gruppo, è però necessario comunicare. Anche gli animali comunicano, ma i segnali che inviano, indipendentemente dal loro livello di complessità, sono risposte meccaniche alle situazioni che stanno effettivamente vivendo (per loro si parla di una “cultura episodica”). Gli scimpanzé non convocano riunioni condominiali per il giorno o per la settimana seguenti, così come non si attrezzano di armi o altri bagagli in vista di uno spostamento. Reagiscono d’istinto, in maniera se vogliamo astuta, ma non programmano[8].

Gli umani, al contrario, sono in grado di sganciarsi dal presente e di proiettarsi a piacere nel tempo, ovvero nel passato e nel futuro, e nello spazio, di prefigurare situazioni a venire partendo dalle esperienze cumulate nel passato. Più o meno coscientemente, comunque non solo istintivamente, programmano il loro avvenire. Facendo però riferimento a situazioni, emozioni, accadimenti e oggetti che non sono qui e ora, gli umani entrano in una dimensione astratta, che può essere evocata solo in termini simbolici. E a questa dimensione astratta chiamano a partecipare i loro simili, introducendo una modalità di comunicazione non più limitata ai segnali essenziali. È questo che autorizza a parlare solo per la nostra specie di un vero e proprio linguaggio. “Non diversamente dalle scimmie antropomorfe, come oranghi e scimpanzé, anche i nostri antenati erano esseri sociali capaci di risolvere problemi grazie al pensiero. Ma erano in competizione fra loro e miravano soltanto ai propri scopi individuali. Quando i cambiamenti ambientali li costrinsero a condizioni di vita più cooperative, dovettero imparare a coordinare menti e azioni per perseguire obiettivi condivisi, e a comunicare i propri pensieri ai partner della collaborazione. In definitiva l’esigenza di lavorare insieme è ciò che rende possibile il linguaggio, le forme di pensiero complesse, la cultura.[9]

La creazione di un linguaggio complesso fu dunque il fattore che permise all’uomo di sganciare il legame tra la tecnologia e la propria evoluzione biologica. Le tecniche di costruzione e le modalità d’uso di strumenti semplici potevano essere apprese per semplice imitazione, ma di fronte all’imprevedibilità degli ambienti sempre nuovi guadagnati nelle migrazioni o di quelli consueti trasformati dalle variazioni climatiche dovevano essere aggiornate e trasmesse attraverso uno scambio di informazioni più costante e completo. L’evoluzione culturale esce dalla sua lunghissima fase di decollo e si alza in volo quando lo scambio non è più solo materiale (partecipazione collettiva alla caccia o eventuale spartizione dei frutti della raccolta), ma diventa immateriale, diventa scambio di informazioni. Di qualsiasi tipo. Questo scambio non ha più a che fare con la biologia: anzi, il suo effetto è semmai quello di rallentare l’azione selettiva della natura. Attraverso lo scambio di informazioni, anche i meno adatti hanno delle chanches di sopravvivenza. La conoscenza è un’arma sganciata dalla fisicità. Questo probabilmente spiega l’invarianza anatomica del sapiens negli ultimi centomila anni.

La forma primordiale di linguaggio (il protolinguaggio attribuito all’Homo erectus) era quella gestuale, mimetica, che passa appunto principalmente attraverso le mani, ma non solo, e utilizza modalità espressive visivo-motorie per dare una rappresentazione della realtà, o per costruirne una. Ora, questo passaggio non è indifferente. A ben considerare ci dice due cose importanti: la prima è che esiste una continuità tra le nostre capacità espressive e quelle di altre specie (anche le scimmie praticano forme elementari di comunicazione mimetica), ovvero che non c’è stato un salto, ma una evoluzione; la seconda è che l’avvento del linguaggio simbolico non è subordinato al carattere fonico della verbalizzazione. Anche il linguaggio dei segni è infatti soggetto nel tempo ad una semplificazione che poco conserva dell’originario rapporto mimetico con la realtà che si vuole rappresentare. In qualche misura ha già una valenza simbolica.

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Questa seconda informazione è a mio parere in diretto rapporto col tema delle dominanze dei due emisferi. La comunicazione mimetica passa infatti per i gesti della danza, per la mimica del linguaggio corporeo o del rito, per alcune forme di musica: ovvero per tutto ciò che rientra nel dominio di competenza dell’emisfero destro[10]. A rigor di termini, non è simbolica, ma iconica: nella sua funzione descrittiva, la natura combinatoria dei gesti e delle espressioni deve rispecchiare quella degli eventi descritti. Il margine consentito all’arbitrarietà è ancora molto ristretto. È invece questo a caratterizzare la comunicazione verbale: tranne i rarissimi casi nei quali si può risalire ad una origine onomatopeica, i suoni non hanno alcuna relazione diretta con gli oggetti o le azioni che designano. La comunicazione verbale è, almeno in questo senso, totalmente astratta e arbitraria. Anche se, naturalmente, non è indipendente da vincoli di carattere neurofisiologico e dall’ organizzazione anatomica della fonazione[11].

Quella gestuale-mimetica è stata dunque solo una tappa intermedia. Con ogni probabilità lo strumento vocale l’ha inizialmente affiancata per rispondere alle necessità di una comunicazione notturna, o comunque al di fuori della portata visiva, per la presenza di ostacoli o di macchie d’alberi. Solo molto più tardi l’ha soppiantata (non del tutto, però, in quanto gestualità ed espressione sono ancora una componente essenziale della comunicazione). Il salto di qualità decisivo è avvenuto solo con l’approdo ad una fonazione sintatticamente disciplinata e complessa. Questa a sua volta ha modificato il tratto vocale, coinvolgendo altre funzioni; per decodificare i segmenti linguistici, infatti, anche la percezione uditiva si è ulteriormente specializzata. Ciò è avvenuto in tempi molto recenti rispetto a quelli globali della nostra evoluzione. Ma è il percorso ad interessarci.

Se fino a qui ho parlato in termini di una evoluzione naturale della comunicazione umana, sia pure nella sua eccezionalità, a questo punto entrano invece in scena altri fattori: quelli sociali e culturali. Entra in scena la “convenzionalizzazione”. La comunicazione “mimetica” fa riferimento come si diceva ad una riconoscibilità oggettiva e immediata, alla diretta simulazione o indicazione di ciò che si vuole rappresentare. È indubbio che col tempo dalla primitiva semplicità del gesto puramente indicativo si sia approdati ad una funzione “rappresentativa”, con combinazioni in sequenza che possono formare una frase, o con la fissazione ritualizzata ad esprimere sentimenti e disposizioni particolari (i gesti di saluto, di accoglienza, di commiato, di amicizia, ecc…). Quella verbale, evidentemente, deve prescindere in toto da questa “riconoscibilità”. Può esistere solo se in qualche modo tra gli interlocutori esiste un accordo, una convenzione appunto, per cui un determinato suono, anziché un determinato segno, espressivo o gestuale, “rappresenta” l’oggetto, il luogo o l’azione cui ci si sta riferendo. Mentre il segno mostra, il suono evoca: e per evocare deve fare riferimento a qualcosa che è già presente nella mente e nella memoria di chi lo ascolta.

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3.7 Parlare

La faccenda si complica ulteriormente. La domanda che si pone ora è: come si configura precisamente il rapporto tra pensiero e linguaggio? È il primo a generare il secondo, o viceversa? Ovvero: come è possibile che il linguaggio sia in grado di trasmettere ciò che ci passa per la mente? E che fondamento comune ha, per poter essere condiviso con altri?

È difficile immaginare un accordo in merito a un qualcosa che non è presente o che ancora non esiste. È presumibile quindi che inizialmente il passaggio da un sistema iconico ad uno simbolico sia stato casuale. Possiamo ipotizzare ad esempio che un membro autorevole del gruppo abbia associato un suono specifico al segnale visivo che indicava un particolare pericolo (ciò che rientra ancora nell’ambito degli strumenti comunicativi animali). E che questo suono sia stato successivamente usato non per segnalare la presenza immediata di quel pericolo, magari di un predatore, ma per esorcizzarlo per il futuro, o per infondere coraggio rievocandone la sconfitta nel passato. Questo uso può aver dato origine ad un processo di ritualizzazione. D’altro canto, certi vocaboli, certe locuzioni, nascono ancora oggi allo stesso modo. Se durante una conversazione conio un termine nuovo, o ne uso uno già esistente traslandone il significato per esprimere una particolare situazione o emozione, e chi mi ascolta intende comunque ciò che voglio dire, qualora quel termine abbia significative caratteristiche di icasticità è possibile che venga adottato e ripetuto.

Oppure (e questa è un’ipotesi formulata non da me ma da eminenti linguisti), la transizione può essere avvenuta tramite i suoni adottati dalle madri per tranquillizzare i neonati[12]. C’è anche chi azzarda che la comunicazione verbale abbia avuto origine dai pettegolezzi tipici che nascono nei gruppi femminili. Ipotesi bizzarra, ma non del tutto inverosimile. “Se la nostra umanità dipende dal linguaggio, sono le chiacchiere della vita quotidiana a fare andare avanti il mondo, più che le perle di sapienza che possono cadere dalle labbra degli Aristotele e degli Einstein[13]. In effetti, è ipotizzabile ad esempio che, una volta domesticato anche il buio, la sera i nostri antenati sedessero attorno al fuoco, e che dai gesti e dai grugniti scambiati in quei convegni sia scaturita una forma di comunicazione linguistica che andava a incrementare la spinta alla cooperazione e alla socialità.

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Si può anche spiegare l’esistenza di tante lingue diverse. Occorre distinguere tra due livelli. Uno è quello che potremmo definire di conformità: tutti i linguaggi attingono le loro regole all’interno di una “grammatica universale”, che è frutto della selezione naturale. L’altro è quello dell’arbitrarietà, per cui ogni comunità di parlanti sceglie poi, all’interno del primo livello, proprie regole sintattiche e propri segni lessicali. E questo attiene invece ad una tradizione culturale. Tutti i bambini utilizzano in una prima fase sistemi comunicativi molto semplici, che rispondono ad uno standard pressoché comune: poi si sintonizzano sul codice particolare della comunità in cui vivono, ma questo non esclude che possano arrivare ad utilizzarne anche altri (imparare le lingue), proprio per l’esistenza di un comune sostrato. Ma questo ci porta già oltre.

Ci interessa piuttosto il passaggio precedente, quello da segno a linguaggio, che in realtà non può essere mai del tutto casuale. Può avvenire solo se la comprensione di segni nuovi (visivi o fonici che siano) è favorita da una loro lettura nel contesto: se cioè esiste già nell’ascoltatore una disposizione a “interpretare” il segno nuovo alla luce di quello che il comunicante vorrebbe dire, entro uno spettro ampio di possibilità di significato. Se cioè è in grado di attribuire a quel complesso di segnali diverse intenzionalità, desumibili dal tono di voce, ad esempio, dalle espressioni del volto o da uno stato di maggiore o minore eccitazione.

Questa disposizione di fondo può essere intesa in modi molto diversi. Si può parlare, come fanno Noam Chomsky e altri innatisti, di una “grammatica generativa” iscritta nella mente umana, di un “dispositivo” quindi, piuttosto che di una “disposizione”, di un organo di cui gli umani sono dotati al pari dei polmoni e della milza (ciò che non esclude una origine evolutiva, ma la lascia poi nel mistero, e postula comunque una discontinuità netta tra l’uomo e gli altri animali)[14]. Oppure si adotta una linea interpretativa molto più umile, quella che pone la specie umana in diretta continuità con tutte le altre, e che presenta a sua volta svariate sfumature, riconducibili poi sostanzialmente a due: una che sostiene la natura totalmente “culturalista” del linguaggio, ovvero ritiene che la comunicazione abbia sfruttato dispositivi cognitivi nati con altre finalità, e quindi si sia adattata per utilizzare quello che il cervello metteva a disposizione; l’altra che ritiene invece che il cervello e il linguaggio abbiano seguito un percorso coevolutivo, si siano cioè influenzati reciprocamente.

Nel primo caso, quello di Chomsky, si suppone chiaramente un primato del pensiero sul linguaggio: il linguaggio può esprimere il pensiero perché ne ricalca la forma. Io capisco il mio interlocutore e lui capisce me perché nelle nostre menti è presente, già a livello genetico, lo stesso modello sintattico di base, originato da una casuale e improvvisa ricombinazione delle funzioni cerebrali.

Nel secondo, quello dei culturalisti, si va nella direzione opposta: è stato il linguaggio a dettare le regole in base alle quali si articola il pensiero, e a sua volta il linguaggio risponde alle pressioni culturali provenienti dall’ambiente esterno, le raccoglie e le traduce in segni, dapprima gestuali e poi fonici, prima semplici e poi sempre più strutturati e complessi. Ciò indirizza la mente a organizzare le informazioni secondo gli schemi sbozzati dalle funzionalità percettive (vista, udito, tatto, ecc..) e messi a punto attraverso le esperienze “culturalmente” acquisite: questi schemi non hanno origine genetica, non sono dettati dall’istinto o da una modularità invariabile, ma si adeguano di volta in volta alle trasformazioni ambientali e alle necessità di risposta che queste inducono.

Nel terzo caso invece, quello del meccanismo coevolutivo, il linguaggio origina da una serie di mutamenti anatomici, fisiologici[15], che hanno creato un rapporto diverso dell’uomo con il mondo esterno, ma anche una diversa consapevolezza del proprio essere nel mondo. Dapprima denotativo, e poi comunicativo, il linguaggio diventa così strumento riflessivo. In fondo siamo costantemente impegnati in un monologo interiore, operiamo scelte continue tra le diverse pulsioni che ci agitano, e lo facciamo ponendoci domande e dandoci risposte che prescindono dall’immediatezza o meno dello stimolo. Parliamo prima con noi stessi, e solo in un secondo momento esternalizziamo, agendo o parlando, le conclusioni e le scelte cui siamo pervenuti.

Il lato sinistro della storia3 06Ma nel monologo interiore, in che lingua parliamo? Le variazioni nelle lingue dipendono quasi certamente da un utilizzo diverso dell’insieme dei meccanismi mentali, non dall’esistenza di dispositivi diversi. Per questo è importante comprendere che origine abbia il sostrato comune.

Il lato sinistro della storia3 07Il dibattito in proposito è vivacissimo, costantemente alimentato dalle scoperte paleontologiche, ma soprattutto da quelle neurofisiologiche. Non è un dibattito ozioso, perché suppone interpretazioni molto divergenti del posto dell’uomo nella natura, dalle quali scaturiscono letture completamente opposte della nostra storia. È comunque viziato a parer mio da alcune pregiudiziali, a volte ideologiche (è senz’altro il caso di Chomsky, di Marshall Shalins, ma anche di Steven Pinker), più spesso dettate proprio dal tipo di approccio professionale (Dennett, Fodor, ecc…). Un cognitivista, un paleontologo, un neuroscienziato, un antropologo, partono da punti di vista completamente diversi, e per quanti sforzi facciano di essere interdisciplinari si portano sempre appresso lo stigma del punto di partenza.

Il lato sinistro della storia3 08Non ho competenze sufficienti per entrare nel merito. Quella che a naso più mi convince è però la tesi della natura coevolutiva del linguaggio, che oltretutto si presta perfettamente alla prosecuzione del mio percorso. Chi la sostiene[16] parte da un assunto ineccepibile: le capacità cognitive sono strettamente dipendenti dallo sforzo che ogni organismo mette in campo per mantenersi in equilibrio con l’ambiente esterno. Questo sforzo, lo scriveva già Darwin ne L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, è prima di tutto uno sforzo di comprensione. Noi umani, quando nel corso di un ragionamento incontriamo un ostacolo, una difficoltà, aggrottiamo le sopracciglia, e ciò accade perché ci stiamo sforzando di ovviare alla rottura del filo del nostro pensiero. Oppure, come sottolineava ancora Darwin, somatizziamo e manifestiamo il nostro imbarazzo, la nostra emozione, arrossendo. Sono riflessi involontari, che costituiscono comunque una primordiale forma di comunicazione: sono segnali offerti all’interpretazione dell’interlocutore.

Naturalmente lo sforzo adattivo non è una peculiarità esclusiva della nostra specie. Tutti gli organismi si comportano in questa stessa maniera: di fronte ad ogni interruzione dell’abituale scorrere delle cose reagiscono adattando, modificando, magari anche solo temporaneamente, le proprie risposte istintive. La differenza sta nel fatto che per gli altri organismi, per tutte le altre specie, è di norma una condizione eccezionale, e comunque subita passivamente, nel senso che di ricomporla si occupa il meccanismo selettivo, mentre nel caso degli umani si tratta della condizione abituale, perché lo squilibrio è congenito alla loro condizione di “inadatti”.

Ma qui sta anche la loro eccezionalità. Perché un animale specializzato è adatto proprio in quanto viaggia su un binario che non consente deviazioni: o risponde a certe condizioni ambientali oppure si estingue. L’uomo invece non è predeterminato da alcuna specializzazione, è un animale costantemente “potenziale”, e ha quindi di fronte un campo di possibilità più vasto, teoricamente infinito. Ciò significa che vive in uno stato di perenne “tensione”, intesa come tendenza a radicarsi in un ambiente rispetto al quale è sempre meno “naturalmente” adatto, per via sia delle mutazioni anatomiche che delle migrazioni: e che per mantenere una relazione flessibile di stabilità con l’ambiente, ha sviluppato risposte adattive basate sulla cognizione anticipatoria, ovvero sulla capacità di proiettarsi in situazioni contestuali alternative a quella in cui è effettivamente immerso.

Questa capacità si esprime anche nel rapporto con altri soggetti, e nello specifico determina la possibilità del linguaggio. Sopra il primo livello comunicativo, quello dello scambio e dell’interpretazione di segnali elementari, la comunicazione è resa possibile dalla capacità di ciascun interlocutore di decrittare il messaggio trasmesso dall’altro attraverso la sua “contestualizzazione”, prima ancora che attraverso il riconoscimento dei suoni. E qui entra in gioco la lettura di segnali come l’arrossire o il corrugare la fronte. Non si attiva quindi solo un processo meccanico di decodifica, ma uno sforzo “cognitivo” di analisi del contesto nel quale il discorso si situa. “Lo sforzo della comunicazione è sotto gli occhi di tutti: è diverso seguire una lezione di filosofia analitica o ascoltare le confidenze sentimentali di un amico.[17] In questo senso condivido l’ipotesi coevolutiva: non postula una “grammatica universale”, non demanda in toto all’ambiente gli input per la creazione del linguaggio, ma considera appieno questo sforzo come forma di adattamento dell’organismo all’ambiente.

3.8 Collaborare

L’adattamento degli umani, però, per le ragioni che abbiamo già visto, non passa attraverso il semplice meccanismo della selezione naturale. O meglio, passa attraverso un tipo di selezione che nella individuazione del “più adatto” contempla a questo punto anche parametri diversi da quelli naturali. Si chiama “effetto reversivo” dell’evoluzione. Darwin questa componente l’aveva già considerata: “La selezione naturale non è più, a questo stadio dell’evoluzione, la forza principale che governa il divenire dei gruppi umani, avendo essa ceduto tale ruolo all’educazione […] Le qualità morali sono progredite, sia direttamente che indirettamente, molto più per effetto dell’abitudine, delle facoltà raziocinanti, dell’istruzione, della religione, ecc. che per la selezione naturale; sebbene a quest’ultima si possano sicuramente attribuire gli istinti sociali, che hanno costituito la base per lo sviluppo del senso morale[18].

Il “senso morale” rappresentava per Darwin un problema, un po’ come accadeva con la coda del pavone. La domanda era: se la selezione naturale premia i più adatti, ovvero coloro che riescono a creare le condizioni più favorevoli per riprodursi, come si spiega il persistere dell’altruismo[19]? Gli altruisti, in teoria, non dovrebbero lasciare alcuna eredità biologica, dovrebbero essere degli “inadatti”, degli umani mal riusciti che la selezione spazza via. Per Darwin non è così, e la soluzione sta nell’angolo prospettico dal quale ci si pone. Non è infatti la selezione individuale a dover essere considerata significativa, ma quella di gruppo. In questa ottica, per la salvaguardia e la sopravvivenza del gruppo, un altruista è molto più importante di un egoista. E a suo parere le regole morali improntate all’altruismo si sono a loro volta evolute a partire dalle cure parentali e dagli “istinti sociali”. Queste regole sono poi state premiate dalla selezione naturale perché si sono rivelate utili al rafforzamento del gruppo.

Darwin non conosceva le leggi di Mendel (che lo scienziato moravo aveva peraltro enunciato solo sette anni dopo la pubblicazione de L’origine della specie), non era quindi in grado di descrivere il meccanismo attraverso il quale i caratteri premiati dalla selezione naturale sono trasmessi alla generazione successiva. E infatti l’appunto critico più ricorrente che veniva rivolto alla sua teoria riguardava proprio l’insufficienza delle spiegazioni sull’origine della variabilità biologica. Probabilmente, se le avesse conosciute si sarebbe posto il problema se le regole morali sono “premiate” o sono invece “dettate” dalla selezione naturale. Che non è, come vedremo, esattamente la stessa cosa.

Dopo essere rimasta in sonno per decenni (solo gli anarchici, come Kropotkin[20], avevano sottolineato questo aspetto) la spiegazione di Darwin è stata rispolverata nel secolo scorso, questa volta rimodulando il concetto di “gruppo” e avvalendosi del supporto della genetica delle popolazioni e della biologia teorica, che applicando il coefficiente di parentela è approdata al calcolo della “fitness”[21]. Successivamente è stata ulteriormente corretta introducendo un altro valore, quello di “reciprocità”. In sostanza, la sua formulazione attuale si può riassumere così: “Se agisco altruisticamente nei confronti di parenti, che sono portatori, in percentuale diversa a seconda del grado di parentela, dei miei stessi geni, in termini di patrimonio genetico non andrò mai incontro ad una perdita secca. Se mi comporto in modo altruistico nei confronti di un estraneo, creo quantomeno le condizioni per un rapporto di reciprocità”.

Messo così naturalmente l’altruismo perde molto del suo valore “etico” e sembra ridursi a un puro calcolo economico consentito dallo sviluppo delle facoltà raziocinanti. In realtà, abbiamo visto che per Darwin esistevano, a monte, degli “istinti sociali” che erano stati selezionati naturalmente. E proprio sulla loro esistenza o meno verte oggi il dibattito sul “senso morale” degli umani, dibattito che è peraltro speculare a quello sul linguaggio, e spesso vede protagonisti gli stessi studiosi.

Anche in questo caso, infatti, da un lato c’è un modello che postula l’esistenza di una serie di istinti, principi e giudizi morali “innati”, determinati, sia pure in modo indiretto, dal nostro corredo genetico. Secondo questo modello quindi il nostro “senso morale” è universale, è inscritto nel cervello umano, è legato fattori ereditari e non è soggetto a condizionamenti sociali[22]. Ed è anche una caratteristica esclusiva della nostra specie. La versione esasperata di questa tesi (quella trasmessa e banalizzata dalla comunicazione pseudoscientifica) ipotizza l’esistenza di geni specifici delle varie attitudini, della timidezza, della paura, degli orientamenti sessuali, ecc…; quella più morbida, proposta ad esempio da Steven Pinker, è che «forse non abbiamo nel cervello una lista di regole “tu devi”, ma almeno qualche regola del tipo “se-allora”[23]».

Dall’altro lato c’è invece chi sostiene che nel nostro cervello non ci sono né grammatiche universali né una normativa morale specifica, ma che esso agisce secondo un programma di apprendimento che ci indica cosa dobbiamo imparare: in questo modo, a partire dalla primissima infanzia noi assorbiamo dall’ambiente, dalla società in cui siamo nati, i fondamentali per una impalcatura morale, sui quali poi andremo a costruire sulla base delle nostre esperienze. Quindi non si parla di innatismo e di fattori ereditari, ma di un condizionamento storico e ambientale, ovvero culturale. Qualcosa che dipende in toto dall’esperienza esterna (quella che l’etologo De Waal, e prima di lui Konrad Lorenz, chiamano imprinting)[24].

Questo intendevo quando accennavo alla differenza tra dettare e premiare. Nel primo caso si ritiene che la selezione abbia già operato a monte, definendo dei caratteri ereditari fissati una volta per tutte, che dettano il nostro comportamento morale. Per i secondi invece la capacità morale di noi umani si è evoluta a partire da una caratteristica che condividiamo con gli altri animali sociali, e segnatamente con gli altri primati, la capacità empatica, che nella misura in cui si è rivelata determinante nella mediazione dei conflitti interni al gruppo e nel promuovere la cooperazione sociale è stata premiata dalla selezione. In questo senso esiste un condizionamento, ma non è quello naturale, bensì quello sociale, quello dei modelli comportamentali e valutativi fissati dalla tradizione culturale.

C’è infine una terza posizione, che in fondo consegue a quanto sono venuto dicendo sino ad ora e appare senz’altro plausibile, sostenuta da Michael Tomasello. In sostanza: i mutamenti ecologici (glaciazioni, desertificazioni, ecc…) hanno portato a un aumento della naturale interdipendenza tra gli umani e allo sviluppo della loro capacità cooperativa, soprattutto col passaggio da una economia di raccolta a quella della caccia ad animali anche di grandi dimensioni. Questa capacità si differenzia da quella dei primati in quanto prevede, accanto a una base empatica che è comune a tutti i primati a noi più simili, la formazione di una morale dell’equità, che è più complessa ed esclusivamente umana: ovvero postula, oltre alla capacità di cooperare per lo stesso fine, quella di riconoscere l’uguaglianza tra sé e l’altro, obbligati dall’ambiente a procurarsi insieme il cibo e tenuti a dividerlo equamente.

Detto in termini pratici, coloro che si dimostravano più affidabili, non solo per le abilità, ma per la lealtà e la correttezza nel dividere la preda, erano quelli che si preferiva coinvolgere nelle cacce successive, e per non perderli li si trattava equamente e lealmente. Tali capacità hanno quindi selezionato nel tempo i più dotati e altruisti, a dispetto delle inclinazioni egoistiche presenti in tutti gli individui.

Questa spiegazione in fondo riesce a far coesistere tutto, dall’empatia innata (quella legata ai neuroni specchio) al condizionamento storico e ambientale (quindi all’esistenza di un dispositivo di apprendimento), dalla giustificazione evoluzionistica dell’altruismo all’importanza della reciprocità. E al di là delle sfumature sembra essere quella ormai universalmente accettata. Un altro eminente “grande vecchio”, Edward O. Wilson, nel suo saggio più recente, Le origini profonde delle società umane, partendo dall’idea di eusocialità, ovvero dal fatto che le grandi transizioni evolutive si sono verificate sempre quando ha prevalso all’interno di una specie la tendenza all’aggregazione, perché questo fa emergere un livello superiore di complessità biologica e porta enormi vantaggi in termini di sopravvivenza e di riproduzione, ha così definito le tappe di passaggio della socialità umana: cura della prole e difesa collettiva del nido; divisione del lavoro e gerarchia sociale; selezione all’interno del gruppo di quei geni e comportamenti che lo rendono più coeso e lo avvantaggiano nella competizione con gruppi rivali.

Il lato sinistro della storia3 09

Ora, quanto si è scoperto o ipotizzato negli ultimi trent’anni a livello di spiegazione dei comportamenti umani di base non fa che confermare su base biologica una lunga serie di anticipazioni che venivano soprattutto dal campo dell’antropologia, dal campo cioè di Hertz. Ad esempio, Marcel Mauss aveva individuato già nei primi decenni del Novecento, nel Saggio sul dono (1924), come base dello scambio arcaico il triplice obbligo, radicato nella mente umana, di dare, ricevere e restituire: ossia un principio di reciprocità, dal quale dipendono le relazioni di solidarietà tra individui e gruppi, mediante lo scambio di doni pregiati. E dopo di lui il tema era stato ripreso da Claude Levi-Strauss ne Le strutture elementari della parentela. Indagando la struttura invariante che sottostà a tutti i sistemi di parentela, Levi-Strauss arrivava a identificarla nella proibizione dell’incesto, perché questo rende disponibile una donna, cioè un bene pregiato, per altri gruppi sociali, consentendo di stabilire forme di reciprocità e di solidarietà che garantiscono la sopravvivenza del gruppo.

Non sono sicuro che le conclusioni di Levi-Strauss possano essere considerate sempre valide (presso alcune culture l’incesto non è affatto proibito): ma ciò che qui importa è che se valesse la pura contabilità genetica questa proibizione apparirebbe suicida, così come lo appare la pratica del dono, mentre introducendo il principio della reciprocità i conti cominciano a tornare. Il dono, di qualunque natura esso sia, crea un vincolo solidale e seleziona gli individui capaci di rispettarlo. Quando il vincolo funziona, quando cioè la reciprocità diventa il modello collettivo di comportamento, il gruppo si allarga, diventa più competitivo e aumenta la propria capacità di sopravvivenza.

3.9 Competere

Anche De Waal, Tomasello e Wilson, però, e prima di loro Lorenz, così come in fondo persino Pinkler, non dimenticano che al di là delle dinamiche altruistiche che si creano all’interno del gruppo la pulsione di base in ciascun individuo è quella egoistica, e che l’altruismo è appunto un “prodotto” dell’evoluzione, naturale o culturale che si voglia: crea un’alternativa, ma non sostituisce in toto l’istinto primordiale. Questo ci riporta all’azione dei neuroni specchio, e all’ipotesi interpretativa dei comportamenti umani cui volevo arrivare.

La coscienza di sé, come abbiamo visto, nasce dall’osservazione consapevole dell’altro, da un suo riconoscimento, e a sua volta poi sull’altro si riverbera. Si agisce, si reagisce, si progetta tenendo conto delle azioni e delle intenzioni altrui. Si sviluppa in questo modo una “intelligenza sociale”. Ma l’intelligenza sociale può funzionare, per quanto concerne le dinamiche relazionali interne al gruppo, tanto in positivo come in negativo. In positivo, la capacità di entrare nella mente altrui consente come abbiamo già visto una empatia, una progettualità comune, una convivenza allargata. Rende possibile quell’altruismo che è necessario alla sopravvivenza del gruppo, a difenderlo dalle minacce esterne, ambientali o arrecate da altri gruppi. E rende possibile appunto il linguaggio, una comunicazione complessa e sfumata, e dal linguaggio è a sua volta esaltata.

In negativo induce invece a quello che è stato definito, a proposito anche di altre scimmie antropomorfe, un “comportamento machiavellico”. A giocare dunque, anche all’interno del proprio gruppo, con l’inganno, la finzione, la menzogna, la competizione, l’invidia.

La conflittualità interna al gruppo è diffusa presso quasi tutte le altre specie (non negli imenotteri), sia pure in misure diverse: ma quella subdola perpetrata con l’inganno e quella gratuita che si traduce in crudeltà appartengono solo ai primati, e l’ultima solo agli antropomorfi. E tra questi, gli esseri umani e gli scimpanzé sono gli unici che si impegnano frequentemente in lotte fra conspecifici con esiti letali. È un aspetto di tutta questa vicenda che sinora ho volutamente lasciato in ombra, perché è quello che consente il raccordo con il resto della narrazione, e va trattato a parte. Del resto, è anche un aspetto comprensibile. La condizione precaria in cui i sapiens hanno vissuto fino ad almeno cinquantamila anni fa, esposti costantemente al pericolo e poco equipaggiati per la grande caccia, li ha resi particolarmente bellicosi. Si è sviluppata in loro anche la crudeltà. Ma questo sentimento non è solo frutto dell’azione ambientale. Nasce prima ancora da dentro. Il perché e il come ci aiuta a capirlo la “teoria mimetica” proposta dall’antropologo René Girard.

Dopo la lunga galoppata nella biologia e nella neurofisiologia il testimone passa dunque ora all’antropologia. (…)

NOTE

[1] Marco Mazzeo, Tatto e linguaggio (cit)

[2] L’indagine e la manipolazione sono a loro volta connessi, col progredire della “culturalizzazione”, a quella che si può definire “esperienza mediale”. Se la realtà viene esperita attraverso particolari media, tenderà anche ad organizzarsi attraverso regole imposte dai media stessi. Questo aspetto è particolarmente importante e visibile oggi, con una percezione che mescola sempre più indiscriminatamente realtà naturale e realtà virtuale.

[3] A differenza delle altre scimmie antropoidi, i nostri progenitori sono diventati, durante il processo di ominazione, carnivori e cacciatori. Per milioni di anni però hanno cacciato piccole prede e raccolto quel che potevano, e contemporaneamente sono rimasti esposti alla pericolosa attenzione dei predatori. La selvaggina di grossa taglia è entrata nella loro dieta solo 400.000 anni fa.

[4]Tra 4,4 e 3,8 milioni di anni fa, abbiamo a che fare con creature che si diffondono in nuovi ambienti come sponde di laghi, savane e praterie. L’unico modo in cui questi animali potevano farlo era grazie a una sofisticata cultura sociale. Nella savana, un bipede lento è un bipede morto: a meno che non abbia un sacco di amici con sé”. C. O. Lovejoy

[5] Darwin stesso, ne “L’origine dell’uomo”, scriveva: “Le comunità che racchiudono il più gran numero di membri più simpatici gli uni agli altri, prosperano meglio e allevano il più gran numero di rampolli”.

[6]Perciò è necessario che io partecipi del suo dolore come tale, che io senta il suo dolore come di solito sento il mio, e che perciò io voglia direttamente il suo bene come di solito voglio il mio. Ma ciò esige che io mi identifichi in qualche modo a lui, cioè che ogni differenza tra me e un altro, sulla quale si fonda il mio egoismo, sia, almeno in un certo grado, soppressa.” Arthur Schopenhauer, Il fondamento della morale

[7] Il “ragazzo del Turkana”, trovato in Kenya, si spostava di continuo in cerca di cibo e di nuovi spazi in branchi di una trentina di individui, quindi in gruppi già socialmente complessi; lasciava dietro di sé accampamenti già organizzati e forse aveva già il dominio del fuoco (i primi focolari accertati risalgono a 1,5 milioni di anni fa, in Sudafrica)

[8] Infatti, i vocalizzi dei primati interessano prevalentemente le aree sottocorticali (giro del cingolo, diencefalo, tronco encefalico), mentre nell’uomo nella produzione vocale sono coinvolte le aree corticali, in particolare l’area di Broca nel lobo frontale sinistro e il lobo temporale.

[9] Michael Tomasello, Unicamente Umano. Storia naturale del pensiero, Il Mulino 2014

[10] Si ipotizza che nel corso dell’evoluzione la specie Homo habilis comunicasse attraverso una elementare forma di proto-linguaggio gestuale e che la specie Homo erectus fosse forse in grado di produrre atti motori mimico-gestuali, mentre la specie Homo sapiens presentava già strutture cerebrali (specialmente nelle aree dell’emisfero sinistro) che avrebbero consentito di sviluppare, assieme alle modalità di comunicazione gestuale, anche le prime articolazioni vocali (Michael Corballis, La verità sul linguaggio, Corbaccio 2009).

[11]Il linguaggio e l’abilità manuale si sviluppano insieme e questa evoluzione si riproduce nello sviluppo odierno dei bambini.” (A. Woods e T. Grant, La rivolta della ragione. Filosofia marxista e scienza moderna, AC Editoriale 1997)

[12] Dean Falk, Lingua Madre. Cure materne e origini del linguaggio, Boringhieri 2011. La Falk, antropologa e neuroscienziata, propone una spiegazione molto semplice dell’origine del linguaggio, rintracciandola nel rapporto madre/infante. Quando è impegnata nella raccolta la madre deve staccare dal proprio corpo il neonato, e per fargli comunque sentire la propria vicinanza comincia a fare dei versi e dei vocalizzi, e successivamente a parlargli.

[13] Robin Dunbar, Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue, Longanesi 1998

[14] In pratica sarebbe intervenuta, in tempi evolutivamente recenti (30 o 40 mila anni fa), per motivi ancora sconosciuti, una vera e propria mutazione genetica che ha totalmente innovato il cablaggio del cervello. È anche quanto sostengono gli assertori della la teoria della mente modulare. J. A. Fodor (Mente e linguaggio, Laterza 2003) ha definito i moduli come “sistemi cognitivi funzionalmente specializzati”. Ma anche Steven Pinker (L’istinto del linguaggio, Mondadori 1998) sostiene che la facoltà umana del linguaggio è un istinto, un comportamento innato, sia pure modellato dalla selezione naturale e adattato alle esigenze comunicative dell’uomo.

[15] L’apparato di fonazione “moderno”, con la laringe posta sopra la trachea e con la conseguente possibilità di modulare una quantità enorme di suoni, è apparso circa 300.000 anni fa. Alcuni geni, per esempio il FOXP2, coinvolti nell’articolazione del linguaggio, hanno assunto la loro forma attuale non più di 200.000 anni fa. Ciò fa presumere che il linguaggio complesso sia effettivamente nato con l’Homo sapiens. Ma è probabile che non abbia raggiunto una compiutezza “grammaticale”, sia pure elementare, prima di trentamila anni fa.

[16] Tutto un filone della ricerca filosofica/psicologica/linguistica (la linguistica cognitiva) sostiene che i nostri stesso modi di apprendere, decodificare e interpretare la realtà, sono processi mediati dalle caratteristiche del nostro corpo, a partire dalle percezioni. Per un approfondimento vedi: Francesco Ferretti, Alle origini del linguaggio umano, Laterza 2010

[17] F. Ferretti, cit.

[18] Charles Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1872)

[19] Il problema in realtà è legato all’espressione “sopravvivenza del più adatto”, che Darwin peraltro non usò mai: “il più adatto” non è “il migliore di tutti”, non comporta una connotazione morale. In natura “il più adatto” è chi risulta vincente in particolari circostanze. E spesso chi sopravvive nella lotta per l’esistenza è, secondo i parametri etici oggi correnti, proprio il peggiore.

[20] Cfr, ad esempio, Il mutuo appoggio: fattore dell’evoluzione, Eléuthera 2020

[21] Introdotto dal biologo inglese William Donald Hamilton. La “fitness” considera il numero di discendenti prodotti da un singolo soggetto in relazione al numero medio di figli prodotti dai soggetti della popolazione cui appartiene. È positiva se il soggetto produce più discendenti rispetto alla media; è negativa quando il numero di figli è inferiore al valore medio.

[22] Questo modello è proposto, con sfumature diverse, dagli psicologi J. Haidt, Steven Pinker e Marc Hauser, e da ultimo anche dal biologo R. Dawkins.

[23] Steven Pinker, Tabula rasa, Mondadori 2014

[24] Sulla linea dell’origine “culturale” delle regole morali troviamo soprattutto gli etologi, da Konrad Lorenz ad Irenaus Eibl Eibensfeldt e a Franz De Waal.

Per strada senza ombrello

di Paolo Repetto, 13 ottobre 2021

Rievocare a puntate i vagabondaggi letterari estivi (cfr. L’estate tra i ghiacci) è senz’altro più pratico per me e probabilmente meno faticoso per chi mi legge, ma rischia di diventare anche ingombrante. Una volta avviata l’operazione di ripescaggio, dal pozzo della memoria torna su qualsiasi cosa, e riesce difficile ributtarla, o stabilire se davvero conservi un qualche interesse. L’idea di avere a disposizione uno spazio teoricamente illimitato mi spinge a salvare in maniera indiscriminata impressioni, intuizioni, riscoperte e reminiscenze, da depositare poi su carta per sottrarle alla scopa del tempo.

Finisce però che questo accumulo, a fronte di una capacità mnemonica e di un rigore archivistico sempre più ridotti, anziché giovare alla manutenzione del ricordo aumenta solo la confusione. E allora il modo migliore per garantire un minimo di ordine mentale è viaggiare sul sicuro, passando da un classico all’altro. Avevo chiuso la puntata precedente con Cervantes (semplicemente rimandando il discorso ad altra occasione): riprendo ora con Stevenson.

Di Robert Louis Stevenson credevo di aver letto, o almeno di conoscere, praticamente tutto, romanzi, novelle, saggi letterari e più ancora i libri di viaggio. Invece qualche settimana fa, nel corso di una delle ultime incursioni a Borgo d’Ale, mi è capitata tra le mani una Filosofia dell’ombrello della quale non avevo notizia. Sono stato anche incerto se prendere il libretto, dubitavo si trattasse di una raccolta di pezzi ritagliati qui e là e assemblati sotto un titolo d’occasione. Ho dovuto ricredermi. È sì un’opera giovanile, composta negli anni universitari, ma contiene già tutto quel che di Stevenson mi piace, l’ironia, l’immediatezza, Calvino direbbe la “leggerezza” (che non è mai banalità).

Per strada senza ombrello 02È anche uno Stevenson precursore: il breve pezzo che dà il titolo alla raccolta, ad esempio, anticipa di almeno vent’anni La teoria della classe agiata di Tornstein Veblen. Anziché nella cravatta, come faceva Veblen, Stevenson identifica il simbolo della rispettabilità borghese tardo-ottocentesca nell’ombrello. L’ombrello è al tempo stesso una barriera opposta alla natura e lo strumento per mantenere in ogni situazione un certo decoro. Risponde ad un’etica dell’attivismo che nulla, nemmeno la pioggia, può fermare: ma al pari della cravatta di Veblen non è compatibile col lavoro manuale. È diventato “l’indice riconosciuto della posizione sociale”, perché “il suo insito simbolismo s’è sviluppato nel modo più naturale”. Un vero e proprio sigillo di classe. D’altro canto, fa notare Stevenson, non è un caso che in alcuni paesi come il Siam l’uso ne sia riservato solo al re e agli alti dignitari. Non ci avevo mai pensato: eppure poco tempo fa, leggendo la storia del rientro del Negus in Etiopia durante la seconda guerra mondiale, ho scoperto che il dubbio sollevato dai suoi alleati inglesi sull’opportunità che si presentasse ai sudditi con l’ombrello reale (quello che gli inglesi stessi gli avevano regalato, coperto di medaglie e fregi d’oro) aveva quasi indotto l’imperatore a rinunciare al loro aiuto.

Anche un altro breve saggio, Una difesa dei pigri, è precorritore. Arriva dieci anni prima de Il diritto alla pigrizia di Paul Lafargue. Per Stevenson però l’ozio non è semplicemente l’opposto della “strana malattia” delle società capitalistiche, quella “passione per il lavoro” che per il genero di Marx è causa di degenerazione intellettuale e delle peggiori miserie individuali e sociali. Lo scrittore inglese rifiuta l’ideale stesso di una vita che deve essere per forza “attiva”, e le oppone non lo studio, che anzi, soprattutto nelle Università produce a suo parere solo degli “utili idioti”, ma l’otium come inteso dagli antichi: qualcosa che va dalla contemplazione della natura al vagare senza mete precise con la mente (e magari anche con le gambe). “L’attività frenetica, che sia a scuola o all’università, in chiesa o al mercato, è sintomo di mancanza di vitalità; mentre il saper oziare implica un appetito universale e un forte senso d’identità personale

Certo, presi così possono sembrare puri esercizi retorici, nemmeno troppo originali e animati dalla giovanile presunzione di avere già capito tutto. Ma è la schiettezza a fare in Stevenson la differenza. Non pretende di scuotere le coscienze, si limita a constatare come la frenetica attività umana, tutto questo sforzo (e segnatamente, nella sua epoca, quello inglese) per conquistare e dominare e trasformare il mondo, sia privo di senso.

Persino chi come me l’etica del lavoro l’ha succhiata col latte (ma non quella borghese, pastorizzata e sterilizzata, che punta al successo, bensì quella contadina mirata alla sopravvivenza), si rende conto che le argomentazioni di Stevenson sono piene di buon senso. E soprattutto sa che sono state poi tradotte coerentemente in pratica dall’autore in ogni momento della sua vita, che peraltro è stata attivissima, ma sempre in una direzione opposta rispetto a quella che da lui ci si attendeva.

Per strada senza ombrello 03Questo è il punto. Stevenson non rivendica la “passività”, come farà ad esempio alla sua paradossale maniera Jerome K. Jerome (che nei Pensieri oziosi di un ozioso ne erige a simbolo la pipa), ma ritiene che tutto il nostro attivismo vada incanalato nella costruzione di noi stessi, anziché di imperi politici o di fortune economiche. E questo lo ribadisce ovunque in questi saggi, quale ne sia l’argomento, e, a rileggerla bene, in tutta la sua opera successiva. In Pulvis et umbra ad esempio chiama Darwin a sostegno della constatazione che la vita umana non ha uno scopo, una finalità, un destino che la sottraggano alla legge naturale. Al contrario di molti darwiniani della sua e anche della nostra epoca aveva capito benissimo dove non va a parare l’evoluzione.

Mi chiedo allora perché, pur sentendo che queste idee sono fondate, non riesco a farle mie fino in fondo. Credo che la differenza stia nel fatto che Stevenson coglieva l’irrilevanza dell’esistenza umana attraverso una lente terribilmente potente: l’infermità da cui era affetto riduceva drasticamente le sue aspettative di vita e stroncava sul nascere ogni possibilità di sognare. Hai voglia a dire che teoricamente questo vale per tutti, ma il peso è ben diverso quando si è costretti a rimanerne costantemente consapevoli. Attraverso quella lente si leggono anche l’esperienza sociale, i rapporti con gli altri, e l’ipocrisia che in genere li caratterizza (e che in una società come quella vittoriana assurgeva a norma) è ancor meno sopportabile. È comprensibile allora come a questo sguardo ogni sforzo dell’essere umano per “fare il bene” apparisse vano, e venisse meno anche quel lumicino di speranza, quella volontà di crederci, che persino Leopardi cercava di tenere acceso.

Io, che so le stesse cose che sapeva Stevenson, mi rendo conto di aver potuto continuare a ribellarmi a questa consapevolezza, sia pure senza mai perderla, proprio perché il mio corpo mi ha consentito ogni tanto di distrarmi. Tanto più ammirevole e straordinaria trovo dunque la capacità di Stevenson di trasmetterci il gusto del sogno e dell’avventura.

È comunque singolare che, pur avendo costantemente davanti agli occhi una percezione tanto lucida della precarietà del suo stato, uno poi giri il mondo come ha fatto Stevenson. In genere i viaggiatori sembrano essere immuni dal tarlo della consapevolezza ultima: tendono ad immergersi il più possibile nel presente senza darsi troppo pensiero del futuro e del perché. Il fatto è che Stevenson non era un viaggiatore, ma un fuggiasco. Tutto il suo vagabondare non è in fondo che un continuo disperato inseguimento della salute perduta. E infatti, più che raccontarci mondi reali ci restituisce mondi immaginari, le isole del tesoro che tutti abbiamo sognato.

Che la sua fosse sostanzialmente una fuga, con tutto il bagaglio di rimpianti che ciò comporta, lo dimostra un altro saggio compreso nel volumetto, dal titolo: Come apprezzare i luoghi sgradevoli. Non è affatto un omaggio agli stereotipi del sublime cari alla letteratura romantica, perché rivela una sensibilità molto originale per i paesaggi nordici. Stevenson non parla infatti di ambienti spettacolari, montagne, dirupi, foreste, cascate, ma dei panorami piatti, spogli e spazzati dal vento delle coste o delle isole scozzesi. Questi luoghi temprano alla fatica e alle intemperie le persone che li abitano, ma offrono a suo dire anche una sensazione di pace, quella che si prova nel sentirsi al riparo e al caldo dentro un’abitazione, o al sicuro in una cala protetta. Lo stesso concetto avevo trovato tempo fa in una sua opera più tarda, Gli accampati di Silverado, dove scrive: «Non c’è alcuna speciale gradevolezza in quella terra grigia, con il suo arcipelago vessato dalla pioggia e dal mare: le sue catene di montagne scure; i suoi luoghi inospitali neri come il carbone […] Io non so neppure se mi piacerebbe vivere lì. Eppure mi par di sentire di lontano una voce familiare che canta: “oh, perché ho lasciato la mia casa?”» E lo scrive nel bel mezzo del racconto di un luna di miele (la sua) durante la quale il rapporto con una natura solare, piena di luci, suoni e profumi, lontana dal mondo civilizzato, fa sentire i due sposi come vivessero una fiaba, in un regno incantato.

Lo ribadirà anche in seguito, pur continuando a dichiararsi innamorato della natura e degli abitanti dei mari del Sud. Sarà sempre in preda a quell’irrequietezza che nasce dal “non sentirsi a casa”. Le isole del tesoro si incontrano solo fuori della realtà: e alla lunga, annoiano.

Non è dunque a Stevenson che dobbiamo rivolgerci se vogliamo intraprendere ancora qualche viaggio di pura esplorazione e di scoperta, magari retrodatato ai tempi pretelevisivi in cui la scoperta era ancora possibile. Io di viaggi di questo tipo durante l’estate ne ho fatti un paio, affidandomi a due guide molto diverse e tuttavia accomunate dalla capacità di non riflettersi costantemente su ciò che li circonda come fosse uno specchio.

Per strada senza ombrello 05Il primo è una vecchia conoscenza, Patrick Leigh Fermor, del quale davvero posso dire a questo punto di aver letto tutto, o almeno tutto ciò che è stato pubblicato in italiano, perché finalmente è stato edito anche da noi Rumelia. Non credo che gli estimatori di Fermor, che nel frattempo si sono moltiplicati, saranno affascinati da questo libro come lo sono stati da Tempo di regali. Rumelia si situa piuttosto sul solco di Mani, l’opera che ha inaugurato la riscoperta di Fermor in Italia (erano già stati tradotti, alla fine degli anni cinquanta, L’albero del viaggiatore e I violini di Saint Jacques, ma non avevano suscitato alcuna attenzione: erano gli anni della letteratura “impegnata”). A dispetto della notorietà ormai raggiunta dall’autore credo che anche questo libro sarà apprezzato in una nicchia piuttosto ristretta. In termini di settima arte Rumelia non sarebbe un film, ma un documentario, sia pure avvincente. Fermor non racconta infatti un’avventura, un pellegrinaggio iniziatico, come nella sua trilogia più famosa, ma una esplorazione culturale: e se la forza della sua narrazione rimane pur sempre negli incontri, gli incontri si vivono molto diversamente quando diversa è la condizione del narratore.

A metà degli anni cinquanta Fermor è ormai un uomo più che scafato, ha alle spalle esperienze straordinarie, già trasposte addirittura in un film, è considerato dai greci un eroe nazionale, e non si muove alla ventura ma ha in mente un obiettivo preciso. Questo non è un libro di scoperta, ma di conferma. Dopo aver raccontato in Mani il mondo ancora arcaico del Peloponneso, l’autore si inoltra stavolta nella parte più sconosciuta della Grecia continentale, quella del confine – molto incerto – con l’Albania e con la Macedonia: e ci porta a conoscere le ultime sopravvivenze di una cultura nomade sopravvissuta sino a metà del secolo scorso, riuscendo a farcela cogliere attraverso una profonda capacità empatica.

L’intento è immediatamente chiaro: «La Grecia [quella da lui conosciuta venti anni prima, quando i monasteri delle Meteore spuntavano dalle nuvole “come avamposti in una landa polare”] sta cambiando velocemente, e anche il più aggiornato resoconto è, in una certa misura, superato al momento stesso della sua pubblicazione. Il racconto di questi viaggi, compiuti ormai qualche anno fa e tutti ispirati da astrusi motivi personali, sarebbe una guida ingannevole. Comode corriere hanno rimpiazzato gli sgangherati torpedoni di campagna, ampie strade fendono il cuore dei più remoti villaggi e sono spuntati alberghi in quantità. Monasteri e templi che praticamente ieri si potevano raggiungere solo con impegnative scarpinate solitarie sono ora mere occasioni di una breve sosta per un turismo di massa organizzatissimo e privo di difficoltà. Per la prima volta dai tempi di Giuliano l’Apostata si innalzano fumi tra le colonne, e il viaggiatore deve addentrarsi nei recessi dell’entroterra per sfuggire alle radiolina».

Per strada senza ombrello 06Quel che resta della Grecia d’anteguerra, che era poi rimasta la stessa negli ultimi dieci o quindici secoli, viene fermato con una accuratezza quasi etnologica. E il racconto parte subito, senza ulteriori preamboli. Non abbiamo nemmeno il tempo di curiosare un po’ in quegli “astrusi motivi personali”, dobbiamo correre appresso a Patrick per non perderci nulla dei suoi incontri.

In questo caso è mancato poco perché il percorso letterario si traducesse in un itinerario reale. Avevo già programmato un viaggio “sulle tracce di”, ma il tutto è stato vanificato dalle emergenze sanitarie, dalle mie più ancora che da quella pandemica. Il che mi fa dubitare possano esserci probabilità anche in futuro di dargli corso. Dovrò tenermi caro Rumelia, e rileggerlo con calma.

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Un’autentica scoperta (ahimè, molto tardiva) è venuta invece con La polvere del mondo. Nei primi anni Cinquanta due ragazzi poco più che adolescenti, Charles Bouvier e Thierry Vernet, si mettono in viaggio da Belgrado alla volta dell’Afghanistan (in realtà, alla volta di un imprecisato Oriente), a bordo di una Topolino. Ora, è vero che oggi c’è gente che fa il giro del mondo in monopattino, e la cosa nemmeno fa più notizia, ma la situazione rispetto a settant’anni fa è molto diversa, e così pure il significato che un viaggio simile assume.

Non voglio dire che oggi le cose siano più facili. All’epoca senza dubbio i confini erano meno impenetrabili, si potevano attraversare tutta la zona del Caucaso e l’Asia Minore senza troppi impedimenti di carattere politico: e anche sulla fattibilità pratica c’erano precedenti illustri, perché addirittura mezzo secolo prima l’Itala di Barzini e Borghese, appartenente alla generazione preistorica dell’automobile, aveva portato a termine percorrendo più o meno le stesse strade un raid da Pechino a Parigi. Ma nella maniera in cui i due lo hanno intrapreso, senza un minimo di organizzazione logistica e senza avere idea dei percorsi (ma neppure della meta), il viaggio era comunque un salto nel regno assoluto dell’imprevisto, con possibilità di comunicare e di ricevere soccorso praticamente nulle. In una condizione del genere, e in barba a tutti gli intoppi e agli incidenti, i nostri eroi la spuntano. Non celebrano una performance, non hanno stabilito alcun primato, ma hanno fatto un’esperienza che li segnerà per sempre, che cambierà la loro vita. In questi casi si fa presto a dire che non è la meta a contare quanto piuttosto il viaggio, ma ciò diventa vero solo quando il viaggio è affrontato con una libertà di spirito incondizionata.

Fermor e Bouvier sono la dimostrazione di quanto dicevo poco sopra: l’uno e l’altro sono totalmente immersi nel presente, con una differenza: Fermor sa in partenza cosa sta cercando, e lo trova proprio perché lo sa, oserei quasi dire che ce lo porta lui: Bouvier non ha la minima idea di dove la sua avventura lo possa condurre, e questo lo rende aperto a tutto, tutto concorre alla sua meraviglia, al suo stupore. In qualche modo realizza il modello di Stevenson, fa qualcosa che in superficie, secondo i parametri produttivistici, è perfettamente inutile, mentre in profondità incide un’esperienza irripetibile e totale.

“È la contemplazione silenziosa degli atlanti, a pancia in giù su un tappeto, tra i dieci e i tredici anni, che mette la voglia di piantare tutto. Pensate a regioni come il Banato, il Caspio, il Kashmir, alle musiche che vi risuonano, agli sguardi che vi si incrociano, alle idee che vi aspettano … Quando desiderio resiste anche oltre i primi attacchi del buonsenso, si inventano ragioni. E ne trovate, ma non valgono niente. La verità è che non sapete come chiamare quello che vi spinge. Qualcosa in voi cresce e molla gli ormeggi, fino al giorno in cui, non troppo sicuri, partite davvero.

Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che basta a se stesso. Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa, o vi disfa.”

Non aggiungo altro. Non è un libro che si possa raccontare, occorre entrarci dentro. Ovvero leggerlo.

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Per il consueto gioco associativo, il viaggio verso Oriente di Bouvier e del suo sodale mi hanno fatto riandare ad Hermann Hesse: non perché abbia riscontrato delle affinità, ma perché avevo appena trovata su una vecchia rivista una convincente stroncatura, o almeno un ridimensionamento, dell’opera dello scrittore tedesco (era tedesco, non svizzero), scritta proprio all’epoca della sua assunzione a guru della new-age. Fresco della gioiosa semplicità de La polvere del mondo ho provato a riprendere in mano il suo Dall’India, semplicemente per verificare quanto fosse mutato in quarant’anni, e con due guerre devastanti di mezzo, l’atteggiamento di fondo nei confronti sia del viaggio che dell’oriente. É chiaro che si tratta di esperienze non comparabili, svoltesi in epoche diverse, con differenti modalità di svolgimento. Hesse viaggia via mare, Bouvier si muove lungo le strade del continente. In comune hanno solo il fatto che entrambi viaggiano in compagnia di un pittore, e che nessuno dei due in India poi ci arriva). Ma qualcosa ci possono dire.

Per strada senza ombrello 09Infatti. Quando si imbarca per l’India, nel 1911, Hesse vagheggia un ritorno alle radici, perché sia il nonno che il padre, ministri del culto pietisti, avevano esercitato proprio lì la loro missione, e di quella esotica esperienza avevano riportato in Europa e trasmesso ai familiari un ricordo pieno di fascinazioni. Ma anche perché un significativo settore della cultura tedesca, da Herder a Goethe, a Schlegel e a Schopenhauer, aveva guardato nel corso dell’Ottocento all’India come alla culla della civiltà occidentale (non a caso, anche Gozzano, in fuga come Stevenson dalla tisi, titolerà il diario del suo breve viaggio della speranza sulle coste indiane Verso la cuna del mondo).

Hesse non è affatto in fuga, se non dalle crisi depressive della moglie. Il suo è un pellegrinaggio. Le cose girano però da subito per il verso sbagliato. Lo scarno diario di viaggio parla costantemente di inconvenienti, insonnie, caldo tremendo, disturbi alimentari, mal di mare, nonché della scarsa igiene e dei prezzi sorprendentemente alti. ecc… Non stupisce che i due amici ad un certo punto abbiano deciso di lasciar perdere l’esotismo e rientrare al più presto a casa (credo che il più intollerante fosse comunque proprio Hesse). Il viaggio si risolve pertanto in una veloce toccata e in un ancora più veloce dietrofront. Dura meno di tre mesi, compresi l’andata e il ritorno dall’oceano indiano, e tocca Ceylon, Sumatra e l’arcipelago malese: sull’India continentale, cancellata senza troppi rimpianti dal programma, Hesse non mette piede.

Quel che ha visto gli è però sufficiente per capire qualcosa di importante. La rivelazione arriva naturalmente dall’alto, dalla cima della vetta più elevata di Ceylon, il Pedrotallagalla (uso il toponimo che usava Hesse: ma è più noto come Picco d’Adamo), al momento del congedo.

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Tutto era senz’altro molto bello, però non era proprio ciò che mi ero intimamente immaginato, e temevo già che alle non poche delusioni indiane oggi se ne dovesse aggiungere un’altra (…) Questo grandioso paesaggio primordiale parlò al mio animo più forte di qualsiasi altra cosa io abbia visto in India. Le palme e gli uccelli del paradiso, le risaie e i templi delle ricche città costiere, le vallate dei bassopiani tropicali trasudanti fertilità, tutto questo, e persino la foresta vergine, era bello e magico, ma mi è sembrato sempre estraneo e singolare, mai del tutto vicino e mio. Solo quassù, nell’aria fredda e tra i banchi caotici delle nubi, mi resi conto con chiarezza di come tutto il nostro essere e la nostra civiltà nordica affondino le loro radici in paesi più rozzi e più poveri.

Noi veniamo al Sud e in Oriente spinti da un presagio oscuro e grato di patria, e qui troviamo il paradiso, la ricchezza e la dovizia di tutti i doni della natura, troviamo gli uomini del paradiso semplici, schietti, infantili. Ma noi stessi qui siamo diversi, siamo stranieri e senza diritto di cittadinanza, abbiamo perduto da tempo immemorabile il paradiso, e quello nuovo che possediamo e vogliamo costruire non si trova all’equatore e nei caldi mari d’Oriente, ma è dentro di noi e nel nostro futuro di uomini nordici.

Solo qualche anno dopo, commentando in Ricordo dell’india i quadri del suo compagno di viaggio Hans Sturzenegger, riaggiusta il tiro: “Mi è rimasta l’esperienza di un viaggio favoloso nella terra appartenuta a lontani progenitori, di un ritorno alle mitiche condizioni di fanciullezza dell’umanità e un profondo rispetto per lo spirito dell’oriente che, nelle sue caratteristiche indiane e cinesi, da allora mi sarebbe parso sempre più affine sino a diventare uno spirito consolatore e profetico. A noi figli invecchiati dell’Occidente non sarà mai concesso di riacquisire la primigenia umanità e l’innocenza paradisiaca dei popoli primitivi …

Ne traggo un paio di considerazioni spicciole. Intanto, alla luce di queste righe, gli estasiati lettori di Siddharta parrebbero non aver capito granché. La transumanza verso gli ashran indiani degli anni settanta e ottanta, le cantilene degli Hare Krishna, la medicina ayurvedica, erano bollate da Hesse per quel che sono, capricci modaioli o palliativi per dipendenze identitarie, già nel 1911: siamo stranieri a quella cultura, dice chiaramente, a quel modo di pensare. Il nostro è un futuro di “uomini nordici”.

Questo induce però a riconsiderare anche tutto l’armamentario di filosofia e di misticismo indiano del quale trasudano i suoi scritti. A me ricorda la suppellettile che ha ornato per qualche tempo, negli ultimi decenni del secolo scorso, certi salotti progressisti (elefantini di varie misure, pagode miniaturizzate, gong, cineserie, ecc). Paccottiglia, per essere chiari. Ma questa paccottiglia è stata presa sul serio da un sacco di maîtres à penser che l’hanno spacciata per modelli di vita e di pensiero alternativi a quello occidentale. O, peggio, è stata anche usata, e ancora lo è, per miscele tossiche che vanno dall’esoterismo nazista agli integralismi alimentari al complottismo.

Dalle notazioni del diario balza inoltre evidente che gli “abitanti del paradiso”, per quanto semplici e schietti, a Hesse fanno un po’ schifo (al contrario di Stevenson, che con gli abitanti di Upolu strinse un’amicizia profonda, ed era da quelli addirittura venerato). Non rispondono a ciò che si era “intimamente immaginato”. É quel che accade un po’ a tutti coloro che scendono dai piani alti per mescolarsi al “popolo” (e possibilmente per guidarlo): un popolo dal quale si attendono genuinità, spirito solidale, rifiuto dei lustrini del consumismo, e che naturalmente li delude. Hesse è fuggito velocemente dall’India (e non c’è mai più tornato) per poter mantenere intatta l’immagine idealizzata che gli era stata trasmessa da bambino, e coltivarla senza essere disturbato dalla realtà.

E infine, a proposito della circolarità della memoria, per cui alla fine tutto in un modo o nell’altro ritorna e si tiene lungo un filo unico, mi viene in mente che anche Hesse ha scritto su L’arte dell’ozio. A modo suo, naturalmente.

Lo sfondo di quell’arte orientale che ci avvince con tanta magia, è semplicemente l’indolenza orientale, vale a dire l’ozio che si è sviluppato fino a diventare arte, dominato e goduto con piacere. […] Proviamo di continuo un senso di desiderio e di invidia: questa gente ha tempo! Un mucchio di tempo! Sono milionari per quanto riguarda il tempo, vi attingono come da un pozzo senza fondo, senza darsi pensiero per la perdita di un’ora, di un giorno, di una settimana. […] Da noi, nel povero occidente, abbiamo sminuzzato il tempo in piccole e piccolissime parti, ognuna delle quali ha però ancora il valore di una moneta.

In sostanza è quel che diceva già Stevenson a poco più di vent’anni, in maniera più semplice e senza tirare in ballo l’Oriente. Solo che il modello Stevenson poteva essere fatto proprio in fondo da chiunque fosse disponibile a rinunciare a una qualsivoglia forma di successo, mentre per Hesse “noi artisti che in mezzo alla grande bancarotta della civiltà abitiamo in un’isola in cui le condizioni di vita sono ancora sopportabili, dobbiamo seguire, ora come in passato, leggi diverse. […] Gli artisti hanno avuto sempre bisogno, sin dalle origini, di momenti d’ozio, sia per chiarire a se stessi nuove acquisizioni e portare a maturazione il lavoro inconscio, sia per avvicinarsi ogni volta, con dedizione disinteressata, al mondo della natura, per ridiventare bambini, per sentirsi di nuovo amici e fratelli della terra, della pianta, della roccia, della nuvola”.

Non ricordavo più perché Hesse non mi avesse mai entusiasmato. Ora mi è chiaro.

A questo punto però devo constatare che si sta avverando proprio quello che temevo: il flusso dei ricordi, una volta avviato, tende a non fermarsi più. Per seguirlo avrò bisogno di altre pagine, e dovrò ulteriormente rimandare il faccia a faccia con Cervantes. Per questo chiudo ancora una volta con un (continua)

 

P.S. Nel frattempo – lo scrivo per completezza di informazione – l’estate del riscatto nazionale si è ulteriormente arricchita: abbiamo vinto nella pallavolo e persino nella Parigi-Roubaix. Ma non è tutto: si chiude con un Nobel per la Fisica, come a dire che non corriamo solo con le gambe. Siamo uno strano popolo: non facciamo miracoli, anzi: ma i miracoli ogni tanto ci accadono.

Sono arrivate, dopo cinque mesi di siccità, pure le piogge, ma qui la cosa prende un’altra piega, perché sono state subito rovinose. Le piogge no, ma le rovine che portano ce le siamo cercate. Ormai andiamo a bagno al primo stormire dell’autunno.

Dimenticavo. In attesa di celebrare il centesimo anniversario della marcia su Roma i fascisti hanno fatto outing e si sono portati avanti, riappropriandosi delle piazze e assaltando le Camere del Lavoro. Ma questo non sorprende, perché non erano mai scomparsi. La vera sorpresa è che ancora esistessero le Camere del lavoro.

 

Due brevi appendici

  1. Ho citato nel testo Jerome K. Jerome. É stato in assoluto il primo “saggista” che io abbia letto. Mi sembra simpatico offrire un assaggio dell’incipit del suo panegirico dell’ozio.

L’ozio
Questo è un argomento che mi vanto di conoscere profondamente.
Il buon uomo che, quand’ero giovane, mi abbeverò alla fonte della sapienza per nove ghinee all’anno (senza straordinari), soleva dire che in vita sua non aveva mai conosciuto un ragazzo che in maggior tempo riuscisse a fare meno lavoro; e ricordo che la mia povera nonna mi fece una volta osservare incidentalmente, durante l’istruzione sull’uso del libro di preghiere, che era assai improbabile che in avvenire avrei fatto molte cose che non avrei dovuto fare, ma che era convintissima, senza il minimo dubbio, che avrei lasciato da fare quasi tutte le cose che avrei dovuto fare.
Temo di avere smentito metà della profezia di quella cara vecchia. Il Cielo mi aiuti! Ho fatto molte cose che non avrei dovuto fare, a dispetto della mia infingardaggine; ma è certo che ho pienamente confermato l’esattezza del suo giudizio in quanto ho trascurato di fare molte cose che avrei dovuto fare.
L’ozio è sempre stato il mio punto forte. Non me ne faccio un merito: è un dono di natura. Pochi lo possiedono. Vi sono milioni di fannulloni, una quantità di pigroni, ma un ozioso genuino è una rarità. Egli non è un uomo che se ne sta tutto il giorno con le mani in tasca. Al contrario, la sua precipua caratteristica è quella di essere sempre occupatissimo. È impossibile godersi completamente l’ozio quando uno non ha niente da fare. Non c’è piacere a far niente quando non si ha nulla da fare. Perdere il tempo diventa allora un’occupazione non indifferente.
L’ozio, come i baci, perché sia dolce dev’essere rubato.
                                                                            (Da “I pensieri oziosi di un ozioso”)

  1. Parlando di Stevenson ho detto che fu “sempre in preda a quell’irrequietezza che nasce dal non sentirsi a casa”. In realtà, forse più per necessità che per scelta, in prossimità della morte finì per sentirsi a casa nelle isole Samoa. O almeno, così volle fosse scritto sulla sua tomba:

Under the wide and starry sky
Dig the grave and let me lie
Glad did I live and gladly die
And I laid me down with a will
This be the verse you grave for me
Here he lies where he longed to be
Home is the sailor, home from the sea
And the hunter home from the hill

(Sotto il cielo ampio e stellato
Scava la tomba e lasciami giacere
Ho vissuto felice e felicemente muoio
E mi sono sdraiato di buon grado
Questo sia il verso che incidi per me
Qui egli giace dove desiderava essere
A casa è il marinaio, a casa dal mare
E il cacciatore a casa dalla collina)

 

Endogenesi delle cause o eterogenesi dei fini

di Nicola Parodi, 21 dicembre 2020

Ho letto le riflessioni di Carlo Prosperi esposte ne “La luce fredda dell’Utopia”. Condivido in gran parte le sue osservazioni, in particolare quando parla delle “aberrazioni della cancel culture, quella che, per political correctness, pretende di correggere la storia”. Per una sorta di reazione istintiva mi sento tuttavia in dovere di difendere il valore della razionalità come strumento di conoscenza. Carlo sostiene che quelle aberrazioni sono i frutti perversi dell’Aufklärung. E aggiunge: “È ben vero che il sonno della ragione produce mostri, ma non meno mostruosi sono i parti dell’insonnia della ragione”. Qui non riesco a seguirlo, e mi sembra strano che ci arrivi per un percorso che in realtà almeno fino ad un certo punto è esattamente il mio, quando ad esempio afferma: “La razionalità non può sostituirsi a ciò che è frutto, in gran parte inconscio, di millenni di tentativi, per prove ed errori; non può impunemente sovvertire la tradizione (che non è un fossile) e pretendere di fare tabula rasa dell’esistente nella presunzione di costruire un mondo perfetto”. Sono d’accordo su tutto, tranne che sul soggetto iniziale della frase, o meglio, sull’uso che Carlo fa dei termini “ragione” e “razionalità”: quindi, mentre faccio mio il drastico giudizio sul sorgere di una nuova religione laica, che come le altre religioni ha la pretesa di definire ciò che è bene e ciò che è male, vorrei chiarire che le aberrazioni cui giungono gli adepti di questa neo-religione non sono il frutto di una fredda analisi razionale, il più scientifica possibile, ma sono generati e guidati dalle emozioni e dai sentimenti,  e soprattutto sono condizionati dalle mode culturali.

Vorrei partire da alcune idee proposte da Richard Dawkins[1] (*). Prendendo spunto dalla convinzione di Lorenz che un modello di comportamento può essere trattato come un organo anatomico, Dawkins propone la teoria del fenotipo esteso. Con il termine fenotipo si intende la forma che assume un organismo sviluppato; in questa accezione il concetto di fenotipo viene esteso, oltre che alla forma dell’organismo, anche ai prodotti delle sue azioni nell’ambiente esterno (azioni che sono indotte dai geni).

Faccio un esempio. La trappola a forma di buca conica scavata dal formicaleone[2] è l’espressione di un comportamento determinato geneticamente, così come lo sono tutte le varie tipologie delle ragnatele. Tutto questo lo diamo ormai per scontato, perché quando esaminiamo il comportamento degli insetti sociali siamo psicologicamente disponibili a riconoscere che è determinato geneticamente. Allo stesso modo, con un minimo sforzo intellettuale in più realizziamo che anche le dighe costruite non da un singolo castoro, ma da un gruppo, rispondono ad analoghi criteri e quindi rientrano nella definizione di fenotipo esteso (*).

Continuando a salire di livello nella scala della complessità animale, riusciamo ancora ad accettare, sia pure con un po’ di difficoltà, che persino la “cultura” e l’organizzazione sociale dei primati possa rientrare nella definizione di “fenotipo esteso”. Ma quando facciamo un passo ulteriore, saliamo di un altro gradino, ecco che nasce il problema. L’idea di considerare la cultura umana e le sue realizzazioni tecnologiche ed artistiche come fenomeni rientranti nel concetto di “fenotipo esteso” urta la sensibilità di quanti ritengono l’uomo qualcosa di speciale. Diciamo che di primo acchito la reazione è comprensibile: in fondo sembra esserci una bella differenza tra chi è riuscito ad andare sulla luna e chi continua a salire e scendere dagli alberi. Eppure, se accettiamo come valida la definizione di cultura data da Luigi Luca Cavalli Sforza, per il quale “la cultura va intesa come insieme di conoscenze che acquisiamo e comportamenti che sviluppiamo durante la nostra vita; questi due elementi (conoscenze e comportamenti) creano la cultura sulla base dell’azione congiunta della nostra eredità biologica, cioè il programma genetico di istruzioni del DNA che dirige il nostro sviluppo, e dei numerosissimi contatti individuali e sociali di qualunque natura vissuti da qualunque gruppo sociale”, dovrebbe essere più facile accettare le realizzazioni della società umane come espressioni del “fenotipo esteso”[3].

Anche se Cavalli Sforza non è affatto entusiasta della cosa, ultimamente in assonanza al termine “gene” è stato coniato (*) il termine “meme”, che sta ad indicare un’unità di trasmissione culturale o un’unità di imitazione. Nelle società umane la diffusione dei memi è molto rapida, in virtù delle molteplici modalità di trasmissione che abbiamo escogitato, e con l’avvento di internet si rischia addirittura che la loro trasmissione, pressoché immediata, sfugga a quella sorta di selezione naturale che ne misura la capacità di funzionare positivamente per la sopravvivenza della società in cui si diffondono. Vale a dire che tendono a circolare liberamente, fuori controllo, sia gli input positivi che le stupidaggini e le bufale: il che comporta una gran confusione, e il rischio (molto concreto, per quanto è dato vedere oggi) che le false informazioni, in genere più facilmente “digeribili” da spiriti pigri, finiscano per prevalere e mettere a repentaglio tutto ciò di buono che sino ad oggi si è costruito.

Vedo di spiegarmi meglio. Il fatto che le culture evolvano comporta l’esistenza un qualche meccanismo di selezione darwiniana. Questo permette la sopravvivenza delle culture (e quindi delle società che quella determinate culture esprimono) che meglio rispondono alle esigenze di riproduzione degli individui che ne fanno parte, in determinati luoghi e periodi; inoltre ci costringe a prendere atto che il “valore” che attribuiamo al modello culturale a cui apparteniamo è, nelle migliori delle ipotesi, valido per un più o meno breve lasso di tempo.  Ora, ogni cervello animale tratta le informazioni servendosi di moduli mentali che sono frutto di un’evoluzione durata centinaia di milioni di anni: ha insomma un programma di risposte già pronte, adattabili alle singole situazioni, e in questo modo risolve i problemi che l’individuo si trova ad affrontare, aumentando le sue probabilità di sopravvivere e riprodursi. In questa operazione la rapidità nella risposta agli stimoli esterni è un requisito essenziale, anche se va a scapito della precisione. I moduli mentali che utilizziamo noi umani sono dunque quelli che si sono dimostrati più efficaci alla luce dei meccanismi evolutivi, anche se, in base al principio di precauzione, a volte ci facevano fuggire di fronte a un pericolo non concreto.

Il discrimine sta qui. Per una serie di processi che non possono essere approfonditi in questa sede i membri della specie Homo sapiens sapiens hanno finito per ritrovarsi dotati, oltre che di moduli cognitivi automatici, anche di un processo cognitivo più lento ma più riflessivo[4]. Ovvero, noi non reagiamo in base al puro istinto, ma a seguito di una ponderata riflessione. Questa modalità di trattare le informazioni implica naturalmente la possibilità di errori di sistema, e anche il nostro modello riflessivo può essere soggetto a condizionamenti emozionali e culturali. Quindi la cautela è d’obbligo. Se è vero che, come abbiamo visto sostenere da Cavalli Sforza, gli aspetti più importanti del nostro sviluppo risultano da una complicata interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura, per capire qualcosa di come ci comportiamo e come funzionano le società di cui facciamo parte è indispensabile una analisi razionale di questi aspetti. L’eterogenesi dei fini di cui parla Carlo è solo frutto, a mio parere, di una nostra insufficiente capacità di condurre a fondo questa analisi.

Proviamo a trasporre tutto questo sul piano dell’agire sociale e politico. Giustamente diffidiamo delle pretese di chi vuol costruire un mondo migliore sulla base di convinzioni religiose o ideologiche, al fondo delle quali c’è la certezza dell’esistenza di un vero e di un giusto assoluti. Non siamo in grado di conoscere con sufficiente dettaglio i meccanismi sociali per progettare riforme con la certezza che i risultati corrispondano alle aspettative. Nemmeno la scienza è in grado di dare risposte certe a problemi di tale complessità: ci ha provato sinora solo la fantascienza, con Asimov, inventando la “psicostoria”.

È pur vero però che se in un gruppo di cacciatori-raccoglitori non è necessario intervenire per modificare ciò che regola i rapporti fra gli individui,  stante la sostanziale “immobilità” sociale, in una società complessa, le cui principali regole non sono ormai più quelle selezionate dall’evoluzione e codificate geneticamente, ma quelle di origine culturale definite storicamente, di fronte a modifiche dell’equilibrio sociale,  per degrado intrinseco o al presentarsi di condizioni socio/economiche nuove,  si rendono indispensabili interventi che modifichino l’organizzazione tradizionale. E dovendo agire è necessario farlo con la maggiore razionalità possibile, che consiste anche nel cercare di modificare il minimo indispensabile. Soprattutto, nessuna riforma può funzionare se le regole nuove contrastano con i dettami morali codificati geneticamente.

Insomma, voglio dire che se alcuni grandi riformatori del passato sono riusciti (magari solo parzialmente) nel loro intento, sono sicuramente molti di più i tentativi di riforma che non hanno funzionato. E i fallimenti sono venuti di norma da una voluta o colpevole ignoranza degli effetti di quella complessa interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura di cui parla Cavalli Sforza.  Ovvero dal fatto che quei progetti non erano sufficientemente razionali. Sarebbe semmai poi da aprire un dibattito su ciò che intendiamo per “razionale”, perché troppo spesso trovo l’aggettivo è usato nella sola valenza di “efficace, efficiente, capace di produrre risultati”, ma il suo significato non può certo esaurirsi in questo. Se così fosse, Himmler avrebbe realizzato una delle operazioni più razionali della storia. Per quanto mi riguarda, è razionale ciò che “funziona” tanto nella prospettiva individuale che in quella della specie (e non sempre le due cose coincidono: posso fare un sacco di soldi e moltiplicare le mie possibilità di sopravvivere e riprodurmi producendo scorie inquinanti, ma per la specie sono solo un danno): ciò quindi che riesce a mantenere un equilibrio tra le mie pulsioni egoistiche istintuali e la mia disposizione altruistica acquisita. Sono d’accordo con Carlo quando rievoca i Terrori generati dall’idolatria della Ragione, dai sogni degli utopisti, dalla forzatura radicale di Marx, ma mi sembra dimentichi quali altri terrori sono stati ingenerati da chi ad esempio si è fatto “interprete” monopolistico e ufficiale dell’insegnamento cristiano. Ora, la lettera del Vangelo detta ben altro che le stragi degli eretici o degli infedeli, allo stesso modo in cui la Ragione non prevede i campi di sterminio e la ghigliottina. La Ragione è uno strumento, come lo è la Religione: e come ogni strumento può capitare nelle mani sbagliate, ed essere usato malamente.  Ma questo può valere anche per una padella, o una forchetta: significa che dovremmo mangiare cibi crudi, e con le mani?

Per il resto, sono d’accordo (almeno in parte) sulla lettura in negativo delle rivoluzioni. Diciamo che sono piuttosto un tiepido riformista, anche se può sembrare una brutta cosa, perché “Occorre fare le riforme” è purtroppo lo slogan di moda fra la classe dirigente attuale. Non sono pregiudizialmente contrario alle riforme se e quando necessarie, ma mi  piace  ricordare quanto sostiene Montesquieu nelle Considerazioni sulle cause della grandezza e decadenza dei Romani:   “Quando il governo ha una forma stabilita da tempo e le cose sono disposte in un certo modo, è quasi sempre prudente lasciarle come sono, perché le ragioni, spesso complicate e ignote, per cui una tale situazione si è mantenuta, fanno si che essa duri ancora; ma quando si cambia il sistema totale, si può rimediare soltanto agli inconvenienti che si presentano nella teoria, tralasciandone altri che solo la pratica può far scoprire”.

NOTE

[1] (*) Richard Dawkins, Il fenotipo esteso, Zanichelli 1986 – Il gene egoista, Mondadori 2017

[2]Per il formicaleone scavare trappole è ovviamente un adattamento per catturare le prede. I formicaleoni sono insetti, larve neuroptere, con l’aspetto e il comportamento di mostri spaziali. Sono predatori pazienti che scavano nella sabbia soffice trappole con le quali catturano formiche e altri insetti terricoli. La trappola ha una forma quasi perfettamente conica, con le pareti talmente inclinate che la preda non può arrampicarsi per uscire, una volta caduta dentro. Tutto quello che fa il formicaleone è di stare sul fondo della trappola, dove con le sue mandibole stritola, come in un film dell’orrore, qualsiasi cosa gli capiti a tiro” da Richard Dawkins, Il fenotipo esteso

[3] Cavalli Sforza aggiunge anche “Purtroppo nella maggior parte dei quotidiani e dei settimanali le pagine dedicate alla cultura limitano il loro interesse quasi esclusivamente a film, romanzi e in genere agli spettacoli. Intendiamoci, sono anche loro importanti, in quanto contribuiscono in modo non indifferente ai piaceri della vita, ma vi sono molti aspetti del nostro sviluppo che sono ancora più importanti e che risultano da una complicata interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura, intesa nel senso più vasto su cui quest’opera è basata” (Luigi Luca Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice ed. 2010)

[4] Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori 2020

Carl Bodmer. Uno svizzero al paese dei Blakfoot

di Paolo Repetto, 7 novembre 2020 – dall’Album “Carl Bodmer. Uno svizzero al paese dei Blakfoot

Non sempre il tempo è “giusto di gloria dispensiere”. Se andate a cercare notizie di Johan Carl Bodmer sul web, per trovare una sua stringatissima biografia in italiano dovete saltare alla quarta pagina. Eppure Bodmer realizzò il primo vero e proprio reportage iconografico sulle popolazioni native americane (per usare il politicamente corretto. Altrimenti leggi: pellerossa), anche se nelle storie della pittura del West viene quasi sempre citato come un epigono del ben più famoso George Catlin o addirittura come un imitatore di Charles Bird King, che gli indiani li ritraeva nel suo studio a Washington.

In realtà Bodmer visitò il West esattamente negli stessi anni in cui vi soggiornò Catlin, e lo percorse per ventotto mesi, senza averne avuto precedentemente la minima esperienza. Era nato a Zurigo nel 1809, nello stesso anno e nello stesso mese di Darwin, ed esattamente come Darwin a ventitré anni incontrò uno di quei colpi di fortuna che ti cambiano totalmente la vita. Nipote di artisti e talento precoce, venne infatti invitato dal principe Massimiliano di Wied-Neuwied, scienziato ed etnologo, a partecipare ad una spedizione scientifica nel Nord America come illustratore. Scopo della spedizione era esplorare i bacini dei maggiori fiumi, partendo dal Golfo del Messico e risalendo il Mississippi, il Missouri e l’Ohio. Karl ripagò ampiamente la fiducia che gli era stata accordata: nel corso del viaggio produsse più di 400 disegni ed acquerelli, nei quali erano raffigurati con precisione scientifica i membri di diverse tribù indiane, nei loro abbigliamenti e nelle loro acconciature distintive, e poi i villaggi, le sepolture, i costumi, le danze, oltre agli animali e ai paesaggi offerti dal West. L’insieme costituisce un corpo documentale etnografico eccezionale, la principale testimonianza della cultura e dell’ambiente di vita degli indiani a quell’epoca. È anche Arte con la maiuscola? Molto probabilmente Bodmer questo problema non se lo poneva (ce lo poniamo noi, condizionati come siamo da un’estetica che è ormai solo un’appendice del Mercante in fiera). Il suo compito era di supportare iconograficamente quello che il suo amico e committente relazionava per iscritto: avesse posseduto una macchina fotografica lo avrebbe fatto con quella (e infatti più tardi, divenne un ottimo fotografo). Di fatto, le opere realizzate nella maturità, dopo che si trasferì in Francia ed entrò in contatto con la scuola di Barbizon, non le ricorda nessuno, mentre i suoi acquerelli americani hanno fatto conoscere all’Europa una immagine completamente nuova dei pellerossa e hanno contribuito in maniera determinate a ribaltare l’attitudine nei loro confronti.

Gli amerindi di Bodmer si presentavano infatti con caratteristiche inedite. Sono ad esempio sempre elegantemente e riccamente vestiti, mentre l’iconografia tradizionale, dalle incisioni di Theodor de Bry in poi, li presentava in genere seminudi, a sottolinearne la selvatichezza e la barbarie. Sono ritratti in atteggiamento pacifico, in posa, né più né meno che i gentiluomini europei loro contemporanei, e inseriti nel contesto della loro quotidianità, della vita e dei costumi dei loro villaggi, anziché in istantanee di agguati e di scontri feroci. Vengono evidenziate la fierezza e la bellezza dei loro tratti, e sono sottolineate le differenze somatiche esistenti tra l’una e l’altra tribù, mentre in precedenza erano accomunati in una tipologia fisiognomica indifferenziata.

Diverso è anche lo sguardo che Bodmer ha per il paesaggio. A differenza dei pittori americani della scuola dell’Hudson, portati ad esaltare e qualche volta ad esasperare colori e dimensioni, a “drammatizzare” il paesaggio con rilievi scoscesi e cascate e fiumi impetuosi, Bodmer sembra colpito piuttosto dalla vastità, in certo qual modo anche monotona, dei panorami che ha di fronte. Gli orizzonti dei suoi dipinti non sono mai chiusi da imponenti catene montuose, quelle che ad esempio in Bierstadt o in Thomas Moran evidenziano la frontiera: lo sguardo scivola su corsi d’acqua che percorrono piatti e tranquilli immense vallate.

Va sottolineata infine un’altra cosa. Pochissimi anni prima che vi penetrassero Catlin e Bodmer il West era stato visitato da due intellettuali, anche in questo caso un americano, Washington Irving, e un europeo, Alexis de Tocqueville, che ne avevano riportato una immagine molto diversa. I nativi che avevano incontrato, appartenenti a tribù da tempo a contatto con la “civilizzazione” occidentale, erano ridotti ormai a larve prive di ogni dignità e di ogni fierezza, sporchi, alcoolizzati, costretti ad uno stile di vita per il quale erano assolutamente inadatti.

A chi credere? Forse sono vere entrambe le immagini, forse Bodmer e Catlin si erano spinti più a occidente. Noi preferiamo credere ai loro occhi e ai loro pennelli, che hanno ritratto l’America un attimo prima che iniziasse l’era Trump.

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Darwin e la Via del camminare

di Marco Moraschi, 5 febbraio 2019

Nel 1836, tornato da 5 anni e mezzo di viaggio sulla nave Beagle, passati a osservare la storia naturale del Sudamerica e del Pacifico, Charles Darwin si trasferì in una casa nel centro di Londra, in una posizione certamente favorevole allo scambio di idee con il mondo scientifico dell’epoca. Dopo 6 anni, però, nel 1842, con la moglie Emma, si rifugiò in una tranquilla casa nella campagna inglese, pur rimanendo abbastanza vicino a Londra per essere accessibile agli amici e avere notizie sugli ultimi studi e ricerche. Il suo intento era quello di mettere su famiglia e sfuggire alle distrazioni cittadine. Nella villa vive ancora oggi uno dei discendenti del grande scienziato, che si occupa di curare la casa e la proprietà intorno. È grande e bianca, con un ampio giardino che si estende nel parco e poi nella campagna circostante, occupando uno spazio di oltre sette ettari. Darwin aveva acquisito il terreno da un vicino, ci aveva piantato noccioli, betulle, cornioli, carpini e altri alberi e aveva creato un sentiero di terra battuta per camminare nella sua proprietà, un viale alberato che gira tutto intorno alla “Down House”.

Quasi ogni giorno, Darwin percorreva questo viale, il “Sandwalk”, pensando ai non pochi problemi che la formulazione della teoria dell’evoluzione certamente gli poneva. Il suo metodo era questo: appena aveva un’idea, iniziava a sottoporla a tutte le possibili obiezioni finché non ne trovava tutte le spiegazioni e la poteva considerare a prova di confutazione. A ogni giro del Sandwalk, spostava un ciottolo del sentiero sul bordo della strada. Quando aveva risolto il problema, guardava quanti ciottoli aveva accumulato, quindi quanti giri aveva fatto pensando alla soluzione. In questo modo catalogava l’importanza e la difficoltà dei problemi che andava affrontando e risolvendo. Per quasi quarant’anni, Darwin percorse questo sentiero di circa quattrocento metri in lungo e in largo, meditando sulle proprie idee, in uno dei periodi più fruttuosi della sua vita.

Sul lato nord della proprietà aveva fatto costruire un muro di cinta alto circa tre metri, sollevando il terreno, piantando nuovi alberi e abbassando la strada che correva intorno alla casa, realizzando un altro muro con le pietre estratte durante i lavori.
L’obiettivo era quello di non subire interruzioni imprevedibili, evitando i pettegolezzi e le distrazioni della mondanità per avere un posto tranquillo dove dare forma ai propri pensieri. Nella sua villa apportò con il tempo anche altre modifiche, costruendo una serra e dedicando parte del giardino alle sue ricerche, osservando l’ecologia locale e notando cose interessanti che, a suo dire, gli altri finivano per perdersi. Down House divenne quindi la sua stazione scientifica personale, ma anche un luogo in cui amplificare la propria mente e ritrovare la concentrazione.
Secondo i biografi del noto scienziato, gli anni trascorsi alla Down House sono stati fondamentali tanto quanto quelli trascorsi in giro per il mondo sul Beagle.

Quando altri amici o scienziati lo andavano a trovare, chiacchieravano percorrendo a piedi il Sandwalk, a ulteriore dimostrazione della connessione che c’è tra camminare e pensare. In Darwin così come in molti altri pensatori, scienziati e personaggi illustri, la camminata assume un ruolo fondamentale per la riflessione e la creatività. Camminare stimola il pensiero, offrendo uno stacco dalle attività che richiedono grande concentrazione, pur senza distrarre del tutto la mente, ma offrendole anzi uno spiraglio per rimettersi a fuoco. Nelle passeggiate che Darwin faceva sin da bambino, egli ha probabilmente trovato forza e conforto, riuscendo a instaurare una connessione permanente tra cammino e contemplazione. Accumulando ciottoli a lato del sentiero a ogni nuovo giro, camminare diventava quindi un modo non solo per tenere traccia della complessità di un problema, ma per avanzare fisicamente a piedi verso la sua risoluzione.

Dal Sandwalk ai boschi di Thoreau, l’esigenza di uno spazio contemplativo semplice e contrastante, accessibile, ma distante dalla comodità della stagnazione, crea uno stato in cui azione e contemplazione non si escludono mutuamente, ma si uniscono in una dolce sinfonia.
La prossima volta che vi sentite stanchi o faticate a concentrarvi, anziché bere l’ennesimo caffè nella speranza di curare la mente svuotata, uscite a camminare. Se imparerete a farlo ogni giorno, scegliendo con attenzione lo spazio in cui immergervi, occupando la mente cosciente e lasciando il vostro inconscio libero di vagare senza sforzo, avrete trovato anche voi l’unica vera Via che l’umanità abbia mai conosciuto.

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Hamsun, o della natura

di Paolo Repetto, 2014

E questo ci riporta al discorso del rapporto nordeuropeo con la natura. Il tema è talmente scivoloso che non arrischio nemmeno l’arrampicata. Butto lì però un paio di riflessioni maturate a pelle, senza dubbio semplicistiche, forse anche irritanti, ma non del tutto prive di fondamento (almeno, credo).

Dobbiamo tornare indietro parecchio. Nella cultura tedesca, e per irradiamento in quella scandinava, una vocazione “ambientalista” matura assai precocemente. O meglio, esiste una tradizione che affonda le sue radici nel paganesimo, che resiste alla cristianizzazione e che sopravvive poi in età moderna anche alle trasformazioni prodotte dal nuovo modo di produzione industriale, assumendo evidenza proprio per contrasto. Dall’ultimo passaggio esce però essa stessa profondamente trasformata. All’indomani della rivoluzione francese, quando sul continente il processo della rivoluzione industriale è ancora all’alba, Ernest Moritz Arndt scrive in Sulla cura e conservazione delle foreste: “Cespugli, vermi, piante, esseri umani, pietre, niente primo o ultimo, ma tutto una sola singola unità”. Una cosa del genere avrebbero potuto scriverla già Giordano Bruno o Spinoza, o il loro epigono e suo connazionale Schelling. La novità è che Arndt sta parlando di vermi, piante ed esseri umani rigorosamente tedeschi: il suo ambientalismo è nazionalismo, difesa del suolo e del popolo germanici. Quindi è anche difensore della purezza teutonica, xenofobo e assolutamente contrario alle mescolanze razziali (che sarebbero contro natura): ovvero razzista, e antisemita. Dietro questa visione totalizzante e organicistica c’è un quarto di secolo di sconquassi che hanno bruscamente scaraventata la Germania nel presente. Siamo negli anni venti dell’Ottocento, gli ebrei hanno appena ottenuta una parziale emancipazione, la cultura tedesca è permeata dello strabismo romantico, un occhio carico di nostalgia al passato agreste e l’altro in cerca di identità e potenza al futuro. Tutto, e la natura in primis, viene letto e interpretato e piegato a questa volontà identitaria. Non è un caso isolato, anche se quello della Germania è forse il più eclatante: alle origini del moderno ambientalismo ci sono anche queste contaminazioni inquietanti.

Vanno operati però dei distinguo. Come abbiamo visto, anche in Inghilterra si sviluppa una sensibilità particolare per l’ambiente, a partire appunto dai primi dell’Ottocento. In questo caso l’acuirsi della sensibilità è ampiamente giustificato dalle trasformazioni economiche che hanno ormai investito, sia pure in misura diversa a seconda delle regioni, tutto il paese: miniere, canalizzazioni, recinzioni, trasformazione delle culture, deforestazione. Anche gli eccentrici errabondi inglesi, ad esempio personaggi come Jeffries, professano una attenzione ed una nostalgia per il vecchio mondo rurale, per ambienti incontaminati e per la forma di socialità che a quegli ambienti era legata, anticipando Hamsun e Jensen. Quella che non si manifesta nella cultura inglese è invece la componente nazionalistica e xenofoba (anzi, l’interesse per gli zingari, almeno per quanto concerne la letteratura, va in direzione contraria): e anche il rifiuto della modernità ha altre sfumature.

Una delle spiegazioni, non certo l’unica, di questo differente atteggiamento è legata ai tempi della trasformazione, intesi sia come durate che come momenti storici. In Inghilterra il grosso dei cambiamenti e delle innovazioni ha avuto luogo nel XVIII secolo, in pieno clima illuministico, di esaltazione delle tecniche. Nel secolo successivo le novità bene o male sono già state digerite, la situazione si è stabilizzata, anche se il processo di industrializzazione continua a viaggiare ad un ritmo formidabile. I romantici inglesi conoscono una natura che già è stata sottoposta al saccheggio e alla devastazione, mentre sono di converso stati identificati dei santuari naturalistici da salvaguardare. I continentali vedono invece arrivare le trasformazioni dopo aver subito lo shock della rivoluzione francese, e identificano con quella la modernità. I tedeschi poi, in particolare, debbono ancora digerire l’onta della conquista e della soggezione napoleonica. Il loro attaccamento alla terra è, prima ancora che passione per la natura, religione del suolo.

Un altro elemento differenziante può essere costituito dal fatto che i britannici hanno maggiore facilità ad acquisire consuetudine con la natura dell’intero globo. Sono più cosmopoliti, non tanto nel senso di una appartenenza al mondo intero quanto per la convinzione che tutto il mondo appartenga loro. I più motivati non hanno difficoltà a sparpagliarsi in giro, più o meno direttamente al servizio del nascente imperialismo inglese. Per capire la differenza è sufficiente mettere a confronto le vicende di Darwin e di Wallace con quelle di Humboldt: quest’ultimo riesce a compiere le sue esplorazioni solo perché gode di mezzi propri.

Arndt comunque in Germania fa scuola. Un suo allievo, W.H. Riehl, è un oppositore a tutto campo della modernità (Campi e foreste, del 1853). Industrializzazione e urbanizzazione sono le sue bestie nere, e il suo integralismo ambientalista si spinge sino ad invocare la difesa delle terre incolte. Anche in questo caso, naturalmente, lo scopo finale è che “la vita del popolo continui a battere, e la Germania resti tedesca”. Ciò significa che è antisemita, in nome dei valori morali contadini che vengono erosi dalla cultura giudaico-razionalista, e che auspica una Germania rurale, di contadini guerrieri, e unita. Un Reich, insomma.

Su queste premesse nella seconda metà dell’800 si sviluppa il movimento völkisch (“etnico”, “popolar-nazionale”). Presenta analogie col populismo russo, ma sono molte di più le differenze; i russi cercano la valorizzazione-conservazione dell’esistente con lo sguardo rivolto al futuro, mentre i tedeschi lo volgono al passato per tenere in vita una situazione sociale ed economica che è ormai in avanzata trasformazione. I völkisch teorizzano un romanticismo agrario: ritorno alla terra, alla vita semplice del mondo contadino, all’armonia totale con la natura, di contro al cosmopolitismo, al razionalismo e alla cultura tecnologica predicata dagli Illuministi. E naturalmente anche per loro ogni portato negativo, cultura urbana, pensiero razionale, industrialismo e dissoluzione dell’identità nazionale, è frutto del dilagante giudaismo.

A supportare queste idee arriva nell’ultimo trentennio del secolo anche la versione tedesca del darwinismo, quella rielaborata e diffusa da Ernest Haeckel, che mescola ecologismo (sarà tra i primi ad utilizzare il termine), misticismo, darwinismo sociale, eugenetica e razzismo. Uno dei cardini di questo ambientalismo reazionario è l’antiumanesimo. L’uomo è visto nella sua insignificanza di contro all’immensità del cosmo e alla potenza della natura. In base alle “leggi della vita” l’ordine naturale determina l’ordine sociale. Come scrive Haeckel, “la civiltà e la vita delle nazioni sono governate dalle stesse leggi che prevalgono in tutta la natura e la vita organica”. Il che implica che il passaggio da una società agraria ad una industriale determini il declino della razza. Si badi che trent’anni prima un britannico, Herbert Spencer, appellandosi alle stesse leggi, anzi, formulandole in anticipo persino su Darwin, arrivava a conclusioni opposte. Anche questo non è casuale.

La circolazione presso il grande pubblico di queste idee trova il suo veicolo ideale in un movimento giovanile esploso ai primi del novecento, i wandervögel (“uccelli migratori”, da interpretarsi come “spiriti liberi vagabondi”). Il movimento nasce come organizzazione studentesca delle gite scolastiche, ma si arricchisce ben presto di suggestioni diverse, in molti casi anche contradditorie, come quella del libertarismo pedagogico di Gustav Wyneken. Parte da Berlino e poco a poco dilaga per tutto il paese, assumendo dimensioni nazionali e connotazioni le più svariate: nel primo decennio del secolo diventa una vera febbre. Le idealità propugnate combinano la riscoperta dell’animo popolare, che avviene soprattutto attraverso i canti (Volkslied), al ritorno ad un rapporto genuino e quasi mistico con la natura, la scoperta delle filosofie orientali alla rivalutazione della medicina e dell’alimentazione naturali, il nudismo al culto della forma fisica, il nazionalismo, l’antipartitismo e l’antiparlamentarismo ad un socialismo vagamente tolstoiano. Per i wandervögel l’avvento delle macchine è la prima causa dell’involuzione spirituale dell’umanità: per contrapporsi al mondo della materia e del potere tecnocratico è necessario rivalutare la cultura romantica e medievale, purificare l’umanità dalle incrostazioni del progresso tecnologico, dalle ciminiere industriali, dall’ipocrisia del mondo borghese. È questo anche il periodo nel quale nasce il mito ariano, e si comincia a cercare nell’Asia centrale il ceppo indoeuropeo originario delle popolazioni germaniche.

All’atto pratico, comunque, i giovani tedeschi fuggono dalle città alla riscoperta della vita semplice e spontanea: sciamano per le foreste, passano le notti presso le rovine di antichi castelli, intonano attorno ai fuochi o sulle cime dei monti vecchi canti popolari e sviluppano il culto di una fisicità che si modella nel contatto, anzi, nella totale immersione nella natura. Con una significativa contraddizione: a dispetto della totale ripulsa del modernismo, esiste poi tra i wandervögel un diffuso culto dell’immagine, in particolare di quella fotografica. Ciò che induce a sospettare che molta di quella filosofia sia puro atteggiamento.

Nel 1913 il movimento celebra la sua apoteosi con un favoloso raduno nell’Alto Meissner, una montagna a sud di Kassel, nella Germania centrale, carica di suggestioni legate alle fiabe popolari. In quell’occasione tutte le diverse associazioni regionali e locali si fondono in un unico blocco. La manifestazione anticipa di vent’anni altre adunate tristemente famose, e di oltre mezzo secolo quella altrettanto mitica di Woodstok: e questo duplice possibile apparentamento è già indicativo delle ambiguità che il movimento si porta appresso.

Proprio per questo raduno viene scritto da Ludwig Klages il saggio L’uomo e la terra. Klages è l’autore più significativo della temperie spirituale dominante in Germania alla vigilia del primo conflitto mondiale, e per certi versi anche dopo. Ne L’uomo e la terra le tematiche ecologiche sono proposte in termini decisamente attuali: vanno dalla deforestazione avanzante all’estinzione delle specie e delle popolazioni aborigene delle zone più remote del globo, dall’urbanizzazione crescente e incontrollata alla distruzione degli equilibri ambientali. Sono soprattutto identificate le responsabilità: nell’ordine, cristianesimo, capitalismo, utilitarismo, consumismo, ideologia del progresso, persino il turismo: e a condensare il tutto, il pensiero razionale, e per traslato, il giudaismo. Per recuperare, visto che la ragione non solo non consente di difendere la natura e di ripristinare un giusto rapporto con l’uomo, ma è all’origine della distruzione dell’una e dell’altro, occorre diffidare del portato politico del razionalismo, la democrazia e il suo strumento parlamentare. Ergo, passare ad una dittatura ecologista.

Nel primo dopoguerra le idee di Klages vengono naturalmente riprese ed inserite tra i fondamenti del movimento nazista. I vari gruppi giovanili sono assorbiti, sia pure con qualche resistenza, nelle organizzazioni del nazionalsocialismo: le idee vengono tradotte in proposta politica da alcuni esponenti di quest’ultimo che arrivano ai vertici del regime, primo tra tutto Walther Darré, ministro dell’Agricoltura per nove anni. Darrè scrive nel 1930 un libro altrettanto fondamentale di quello di Klages, se non altro per verificare come in vent’anni il pensiero ambientalista si sia evoluto decisamente in direzione nazional-imperialistica. Il libro è La nuova nobiltà di Sangue e Suolo, lo slogan che lo riassume è “Deve essere restaurata l’unità di sangue e suolo”. Questa mistica unità è per Darré tipica e originaria del popolo tedesco: ricrearla significa ruralizzare totalmente la Germania e, sul lungo periodo, l’Europa intera, creare una base sociale di piccoli coloni proprietari, difendere la purezza razziale da un lato e l’integrità ambientale dall’altro. Darré non è affatto un isolato, anche nei vertici nazisti: Hess, Himmler, lo stesso Hitler, e tra gli ideologi Rosemberg, ne condividono le convinzioni ecologiste.

Dove vado a parare, con questo raffazzonato riassunto delle puntate precedenti? Non ne traggo alcuna conclusione, ma un problema me lo pongo. Il problema è: sarà un caso che una certa sensibilità “ambientalista”, soprattutto nella sua estrema ramificazione “animalista”, si sposi sovente, molto sovente, ad una insensibilità umanistica? Che la mia collega attivista della LIPU che chiedeva firme per la tutela della cinciallegra rifiutasse poi di sottoscrivere qualsiasi campagna di Amnesty International? So che vado a pescare dei casi limite, paradossali, ma è proprio attraverso questi che si può aprire la cerniera dell’apparente normalità e verificare cosa c’è dietro.

Ho parlato essenzialmente dell’ecologismo germanico, ma come si è visto a proposito di Hamsun l’assunzione di responsabilità nei confronti della natura, che nasce dall’attesa di una risposta alla insignificanza dell’esistere che arrivi proprio da quest’ultima (e qui si potrebbe dire che tutta questa tematica è riassunta nella filosofia di Heidegger), è comune all’intera area nordeuropea. O meglio, in quest’area, per una combinazione di motivi storici e sociali e di fattori culturali (c’entra anche quello religioso, ma soprattutto c’entra il fatto che proprio dalla Scandinavia, da Linneo e dai suoi discepoli, parte il grande progetto di studio e di sistemazione tassonomica della natura), si diffonde precocemente un atteggiamento mentale che oggi, in varie misure e sfumature, sembra comune a tutto l’occidente. Quanto poi esso rappresenti un effettivo mutamento della coscienza ambientale o sia invece solo frutto di mode, e debba essere ascritto a quel contenitore dell’indifferenziato che è la new age, è un altro discorso. A me interessano, in questa breve riflessione, gli esiti. Ovvero: mi chiedo fino a quale livello può arrivare la sensibilità nei confronti del problema ecologico senza indurre un atteggiamento antiumanistico, e senza che questo a sua volta si traduca poi in un integralismo intollerante e potenzialmente dispotico.

Penso in realtà che il problema stia a monte: stia cioè non nel livello quantitativo, ma nei modi in cui questa sensibilità si sviluppa. E Hamsun offre a mio parere l’esempio perfetto dell’inghippo. Lo abbiamo visto trasformarsi improvvisamente in contadino a cinquant’anni, con una scelta apparentemente tutta di cuore, in realtà tutta di testa. Voleva essere coerente con quello che era andato per anni scrivendo e maturando, e con gli esiti ai quali questo percorso lo aveva condotto. Si scontra col fatto che la sua testa non viaggia affatto agli stessi ritmi della natura, e che se cerchi significato annullandoti in questa non puoi al contempo voler riuscire visibile: ciò che risulta fortemente visibile, all’interno di un quadro naturale, è una anomalia. Se sei parte del quadro, non devi risaltare. La contraddizione di Hamsun è la spia di una contraddizione che è insita in tutta la cultura, e non solo in quella contemporanea. La cultura, per forza di cose, è altro dalla natura: coltivare significa addomesticare, piegare alle proprie esigenze. Nel momento stesso in cui teorizzi o racconti una totale identificazione con l’ambiente naturale realizzi un falso. Pretendi di vivere e di vederti vivere ad un tempo (i wandervögel e la fotografia). E nel momento in cui ti guardi vivere eserciti una critica, esprimi un giudizio, tenti degli aggiustamenti: falsi cioè tutta intera la tua adesione. Allora, tanto vale dichiarare subito la propria posizione, essere onesti con se stessi e con ciò che si ha di fronte. Non fingere di non sapere che il fatto stesso di porsi il problema dell’atteggiamento da assumere nei confronti della natura significa avere già operato lo strappo ed esclude ogni possibilità di tornare ad essere natura. Riconoscere cioè la singolarità e l’eccezionalità non degli uomini ma della loro condizione: perché stanno contemporaneamente dentro e fuori del quadro, lo vivono e lo guardano.

Nel caso dell’animalismo odierno la contraddizione a mio parere esplode. Non è in discussione il presupposto: e cioè che siamo qui con gli stessi diritti degli altri animali. Sono in discussione gli esiti. Perché non ha senso affermare che non dobbiamo considerare il mondo una nostra proprietà: ogni animale vede il mondo in funzione propria: quello è il suo diritto. Semmai ha senso dire che proprio perché lo consideriamo un dominio nostro dovremmo averne una cura diversa, ma senza fingere di ignorare che anche altri animali, quando è loro dato, devastano il loro ambiente (si veda il comportamento degli elefanti). Non è la stessa cosa che sacralizzarlo, sulla base poi di una visione che, quella si, è invece l’applicazione di occhiali umani ad occhi animali. Sulla base di un integralismo naturalistico, qual è il diritto del leone e quale quello della gazzella? Posso contestare il diritto del gorilla o della tigre cui ho rapito un cucciolo di farmi a pezzi? E se no, perché dovrei negare a qualsiasi genitore della nostra specie di fare altrettanto? Ma questo ci porterebbe su una china pericolosa: meglio lasciar perdere.

Ho fatto a tempo a conoscere nell’infanzia un mondo in cui i lavori agricoli, trasporti, aratura erano eseguiti tutti con l’ausilio degli animali: la mia famiglia è arrivata ad avere in stalla sino a quattro bovini, oltre a una miriade di animali da cortile, e ai maiali. Gli animali faticavano, e gli uomini dietro di loro: era normale trattare bene un animale, era un bene prezioso, non si poteva rischiare di comprometterlo; ma era anche considerato naturale che faticasse, come lo era per gli umani. Abitavano con noi. Mio nonno passava più tempo in stalla a governarli che in casa, e si sentiva anche. Le rarissime occasioni in cui lo udii esprimere un giudizio su qualcuno riguardavano proprio il modo in cui venivano trattati gli animali. Sul trattamento riservato alle mogli non metteva becco, erano un po’ affari loro, ma sugli animali si sbilanciava. Di un vicino che aveva preso un calcio da un mulo disse semplicemente: “Era ora”.

Voglio dire che ho conosciuto un mondo nel quale c’erano senz’altro eccessi di crudeltà, e non solo nei confronti degli animali, ma la norma erano l’equilibrio e il rispetto, perché con gli animali si viveva in pratica in simbiosi (c’erano ancora case, e parlo di sessant’anni fa, e di cose che ho visto, nelle quali le galline vivevano in cucina, fungevano da spazzini. E a Natale finivano in pentola). Ciò cui assisto oggi mi sembra invece davvero una deriva “culturalista”, ma tutta nel segno di una malintesa concezione della cultura, e per indotto, della natura. Torna la distinzione tra adorazione della natura e passione per la terra di cui si parlava sopra. Io ho la passione per la terra e credo in un rapporto laico con la natura. La laicità, in questa accezione, nasce da una conoscenza profonda, e la conoscenza a sua volta è per forza di cose utilitaristica: ogni conoscenza, al fondo, è tale. Conosci la terra e le sue vene se l’hai zappata, e la rivolti per ricavarne nutrimento, come del resto fanno i cinghiali e le talpe: gli alberi se li hai potati, allo stesso scopo, gli animali se hai condiviso con loro la fatica e la durezza del vivere, e in qualche modo anche il foraggio. Non ti sogneresti mai di mutilare una pianta per spregio, o di inquinare una sorgente, o di torturare un animale per puro sadismo. Certo, c’è purtroppo un sacco di gente che si comporta in questo modo: c’è sempre stata, ma la sua moltiplicazione odierna è il risultato di una perdita generalizzata del senso e del valore delle cose, è lo scotto terrificante che paghiamo al mito della “crescita” ad ogni costo. Non sarà certo sanata dall’istituzionalizzazione del diritto animale, cosa che, anzi, comporta uno snaturamento del concetto stesso di diritto.

Il diritto è un’invenzione tutta culturale, tutta umana, nasce come strumento di difesa all’interno di una specie che non interagisce più in termini di zanne e artigli, ed ha a che fare con una attribuzione ed una assunzione di responsabilità. Se regoliamo i nostri rapporti con gli animali sulla base del diritto torniamo all’epoca nella quale gli animali erano considerati moralmente responsabili, e si celebravano processi a bestie che avessero causato la morte di esseri umani, o fossero implicati con essi in commerci sessuali. Per favore, un po’ di buon senso! Sono il primo a pensare che alcuni animali sono più intelligenti di tanti uomini, anche perché ci vuole poco; persino Engels sosteneva, e ne era convinto, che alcuni di essi pensano come noi e non parlano solo perché non hanno l’apparato fonatore adatto. Ma detto questo, non mi sembra sensato, e mi pare anzi pericoloso, perdere la misura di una distanza che non giustifica alcuna crudeltà, che non ci dà alcun diritto che non sia quello del succitato leone o di un caimano in agguato all’abbeverata, ma che esiste, e va tenuta ben presente. Pena l’arrivare pericolosamente a non fare più alcuna distinzione tra cespugli, vermi, piante, esseri umani, pietre, come chiedeva Arndt e come si sforzava di sentire Glahn (che pure era un cacciatore) e riportare tutto ad una sola singola unità: magari, secondo l’interpretazione di Himmler, sotto la specie di cenere.

 

La fortuna di Mister Wallace

di Paolo Repetto, 30 settembre 2012

L'importante è non nascere adatti WallaceIl mio interesse per Wallace dura da lunga data, ma era rimasto sino a qualche tempo fa piuttosto epidermico, legato più ad una sua presunta appartenenza al mio album dei “perdenti” che ad una effettiva conoscenza della complessità del personaggio. Devo il cambiamento radicale di attenzione alla bellissima biografia pubblicata da Ferruccio Focher nel 2006, “L’uomo che gettò nel panico Darwin”, alla quale questo scritto vorrebbe essere solo un’introduzione.

 

Al mondo c’è qualcosa di meglio da fare
che affannarsi ad accumulare denaro.
Alfred Russel Wallace

Nascendo in coda a nove fratelli, in Galles e ai primi dell’Ottocento, si avevano due possibilità: o uno la prendeva male, perché capiva che non gli sarebbe toccato niente, oppure cercava di vedere il lato positivo della faccenda, e cioè l’immensa libertà che una simile condizione avrebbe potuto regalargli, dal momento che quasi subito tutti si sarebbero dimenticati di lui. I figli di Thomas Wallace, indipendentemente dall’ordine di nascita, non ebbero nemmeno l’imbarazzo della scelta; il padre si piccava di avere il pallino degli affari ma era in realtà un pasticcione, e provvide da solo con una serie di investimenti sbagliati a bruciarsi una già modesta rendita e a ridurre la famiglia praticamente sul lastrico. Ciò significava tra l’altro dover cambiare continuamente residenza, alla ricerca di sistemazioni sempre più rurali ed economiche.

Come si diceva, situazioni come questa hanno in genere opposti risvolti: nel nostro caso quello positivo era rappresentato da un’infanzia trascorsa in piena libertà, a pesca nei torrenti o a zonzo per i boschi, e conseguentemente dall’imprinting di un forte rapporto con la natura, mentre quello negativo fu la necessità di uscire assai precocemente dall’infanzia. I fratelli Wallace dovettero infatti ingegnarsi molto presto a guadagnare la pagnotta: lo fece il primogenito William, il quale cominciò a lavorare giovanissimo come agrimensore: lo fece John, che trovò impiego a Londra come carpentiere, e lo fece di lì a poco anche il penultimo figlio, Alfred Russel, nato nel 1823, che a quattordici anni raggiunse William e insieme a lui riallacciò quello stretto contatto con la natura che avrebbe caratterizzato tutta la sua esistenza.

La sfortunata condizione di nascita si rivelò quindi per un verso una manna per il ragazzo, che non dovette sorbirsi il nonnismo e la monotonia imperanti nelle scuole superiori inglesi, e mantenne così intatto l’entusiasmo per la cultura, mentre acquisiva sul campo le cognizioni pratiche che ne fecero un grande naturalista: ma sottraendolo anzitempo agli studi regolari ne condizionò anche fortemente la carriera scientifica, decretandogli una sorta di apartheid o comunque di scarsa considerazione da parte degli ambienti accademici, e in ultima analisi negandogli quel riconoscimento di co-paternità della teoria dell’evoluzione che gli sarebbe invece spettato.

Queste righe non vogliono però essere un contributo alla rivalutazione della figura di Alfred Russel Wallace, che non ne ha certo bisogno: vorrebbero invece indagare sul peso che hanno realmente il successo e il riconoscimento per un animo nobile e per uno studioso e ricercatore entusiasta, e verificare che magari è piuttosto limitato.

Per intanto seguiamo le vicissitudini di Wallace, il cui apprendistato alla vita, seppur precoce, non è in realtà così tribolato o drammatico (niente a che vedere, per capirci, con i suoi coetanei raccontati da Dickens). Per sette anni, dal 1837 al 1844 il nostro lavora a fianco del fratello: in giro per campi e boschi sei giorni la settimana, occupato in un’attività che lo accomuna idealmente ad altri grandi di ogni parte del mondo, da Niebhur a Thoreau, sguinzagliati a tracciare confini e a mappare proprietà pubbliche e private.[1]

Il lavoro gli piace moltissimo: scrive ad un amico, elencando i pro e i contro della sua occupazione (ma soprattutto i primi): “è incantevole in una bella giornata estiva tagliare in lungo e in largo la campagna, ammirare le bellezze della natura, respirare la fresca e pura aria delle colline e infine, nella calura del mezzogiorno, gustarsi il pranzo a base di pane e formaggio in una valle ridente, sulle rive di un ruscello gorgogliante. … Quelli che se ne stanno in casa tutto il giorno non hanno idea del piacere che si prova a sedersi davanti ad una buona cena e sentirsi tanto affamati da mangiare fondina, piatto e tutto il resto”.

L'importante è non nascere adatti Wallace (2)Visto che nel frattempo è diventato un giovanottone lungo e magro, non c’è da dubitarne. La sera poi, e le domeniche e qualsiasi altro momento libero, sono dedicati allo studio appassionato di materie che davvero lo interessano, a letture che lo entusiasmano. Con i primi soldi guadagnati si procura testi naturalistici d’ogni genere, tra i quali gli Elementi di Botanica di Lindley, e in pratica li manda a memoria, applicando ogni nuova conoscenza alle osservazioni sul campo. È in effetti il fratello ad occuparsi delle questioni pratiche e dei rapporti con i committenti, e Alfred si trova a godere della libertà di un lavoro che svolge come un gioco e che gli consente di coltivare e approfondire ciò che più gli interessa. Anche quando dovrà interromperlo, per un calo delle richieste, e adattarsi senza molto entusiasmo a fare per un paio d’anni il maestro di scuola a Leicester, continua a scoprire e a leggere i naturalisti. Divora con passione i Viaggi alle regioni equinoziali di Humboldt e il Diario della “Beagle” di Darwin, ma conosce anche Vestigia della storia naturale della creazione[2]., un testo divulgativo che propone un’interpretazione evoluzionistica del mondo e che suscita alla sua uscita, nel 1844, molto interesse e diverse polemiche Legge inoltre il Saggio sul principio della popolazione di Malthus, che avrà sulla sua futura svolta evoluzionistica lo stesso effetto sortito su Darwin: insomma, conosce le cose giuste al momento giusto. Wallace è in sostanza un autodidatta di genio, come quasi tutti coloro di cui ho raccontato, da Dolomieu a Raimondi, allo stesso Darwin e a Leopardi (il che offrirebbe un interessante argomento di dibattito sul ruolo della scuola. Un altro tema di indagine potrebbe essere costituito dall’influenza esercitata da Humboldt sugli animi più avventurosi nella prima metà dell’Ottocento).

Il giovane Wallace ricorda quel personaggio dei fumetti d’anteguerra che alla fine di ogni storia ribaltava situazioni sfortunatissime, guadagnandoci sempre un milione. A Leicester non vince un milione, ma trova in compenso un amico. Il suo colpo di fortuna è rappresentato infatti in questa occasione dall’incontro con Henry Walter Bates, che si rivela decisivo per il suo futuro. Bates è un altro “dilettante” di genio come lui, un entomologo della domenica (gli altri giorni della settimana lavora sodo come apprendista magazziniere) che si è già creata una non trascurabile collezione privata, e che gli trasmette immediatamente il gusto e la passione per la vita degli insetti. In realtà è molto più che un dilettante, e avrà modo di dimostrarlo. È uno che si prepara meticolosamente, e una volta sul campo mostrerà una tenacia, un coraggio, una capacità di adattamento e di sopportazione dei disagi assolutamente insospettabili, soprattutto in un giovane gracile, affetto da ogni sorta di malattia articolare e dalla necessità di portare lenti spesse un dito.[3]

Nello stesso periodo, a dire il vero, Wallace contrae anche altre passioni, quella per l’occultismo e per il soprannaturale da un lato, e quella per l’impegno sociale dall’altro. Partecipa ad alcune sedute spiritiche e rimane impressionato dai fenomeni connessi al mesmerismo, convincendosi di essere in possesso di facoltà magnetiche particolari. Per un appassionato della natura la cosa è quanto meno singolare: ma la personalità vulcanica e onnivora di Wallace riesce a far convivere (non sempre pacificamente) le due cose. Al momento, comunque, non mescola i due ambiti, e quello dello spiritismo rimane in secondo piano.

Si mescola invece agli interessi naturalistici la sensibilità per le ingiustizie e l’aspirazione ad una società più equa. Il lavoro di agrimensore gli ha fatto toccare con mano, attraverso l’ostilità che i contadini riversano su lui e sui suoi colleghi, le devastanti conseguenze della legge sulle recinzioni (Enclosures Act) Si rende conto che sta collaborando ad “una rapina legalizzata a danno dei poveri”. E questo avrà un peso determinante nella sua scelta di abbandonare la professione.

I due giovani ed entusiasti naturalisti devono a questo punto decidere il grande passo. L’orizzonte inglese è palesemente troppo stretto per le loro ambizioni e per la loro sete di conoscenza, ma i vincoli di tipo familiare o economico non consentono di guardare realisticamente oltre. Almeno fino a quando a smuovere la situazione arriva un evento luttuoso. William muore nell’inverno del 1846, il che complica per Alfred la possibilità di tornare a esercitare la professione di agrimensore e va a sommarsi ai dubbi e agli scrupoli sociali. Non è comunque questo ciò che vuole dalla vita. L’amicizia con Bates si rafforza e si trasforma in complicità, che è quella condizione nella quale si ha un progetto comune e si cerca di realizzarlo assieme. A scalpitare maggiormente, sull’onda dell’entusiasmo procuratogli dalle letture, è Wallace, ma anche Bates, che pure ha un carattere più riflessivo, non intende ammuffire nel magazzino e prende molto sul serio la cosa. Sono proprio le discrete credenziali che quest’ultimo si è conquistato negli ambienti scientifici come collezionista a consentir loro di ottenere il patrocinio del direttore dei giardini botanici di Kew e del conservatore della sezione naturalistica del British Museum: in questo modo i due trovano anche un intermediario per la vendita dei futuri esemplari raccolti.

 

Il momento non potrebbe essere migliore. In Inghilterra, ma in sostanza in tutto il mondo occidentale, sta giungendo a compimento una profonda trasformazione del gusto, in particolare per quel che concerne la percezione della natura. Questa trasformazione ha radici complesse, che affondano un po’ in tutte le direzioni, dalla riforma protestante alla rivoluzione scientifica e a quella industriale, dall’esplorazione del mondo al conseguente confronto con altre culture, e quindi all’adozione di nuove abitudini alimentari e voluttuarie e allo scambio di specie e di essenze. Sta cambiando insomma radicalmente il modo di rapportarsi all’ambiente naturale, con un decorso anche molto contradditorio, perché si è partiti dal “per dominare la natura occorre conoscerla” di Bacone per arrivare al “se conosci davvero la natura ti passa la voglia di dominarla” di Wordsworth e dei romantici. È un esito testimoniato ad esempio dall’inedita curiosità per le montagne e per i luoghi “selvatici”, dalla compassione per gli animali[4], dalla tendenza a difendere e conservare le zone boschive, ed è a sua volta contraddittorio, perché le montagne poi le si scala e i luoghi selvatici diventano mete turistiche, allo stesso modo in cui la scoperta di nuove specie è spesso solo il preludio alla loro estinzione.

Per quanto concerne l’attenzione “scientifica” per la natura c’è un effetto volano. La scoperta e l’introduzione in Europa di nuove specie, soprattutto botaniche, all’inizio ha finalità pratiche, alimentari o farmaceutiche o ornamentali,[5] ma induce ad un certo punto la necessità di riordinare un po’ le idee, perché le vecchie conoscenze sono state completamente sovvertite. Il nuovo modello conoscitivo è fornito da Linneo, che delinea uno schema ed elabora una griglia tassonomica di lettura; la classificazione alimenta a sua volta la voglia di riempire o ampliare l’album delle specie, nonché gli interstizi tra l’una e l’altra. La curiosità destata da piante e animali totalmente sconosciuti si traduce quindi ben presto in passione collezionistica, magari motivata più dall’attrazione per le “forme notevoli” che dallo spirito scientifico, e si trasferisce dai grandi musei e dagli orti botanici anche alle dimore private: naturalmente viene subito monetizzata con la fioritura di un commercio, spesso clandestino e tutt’altro che privo di pericoli, che fa affluire in Europa prodotti sempre più nuovi per nicchie sempre più specialistiche. Ci sono importatori che accumulano vere e proprie fortune, sguinzagliando in giro per il mondo avventurieri o sponsorizzando entusiasti naturalisti che individuano le specie incognite e le contrabbandano nel vecchio continente. Uno di questi è Samuel Stevens, abilissimo a propagandare i nuovi arrivi divulgando presso il pubblico dei collezionisti, attraverso un uso sapiente e mirato della stampa, le lettere e le avventure dei suoi “cacciatori di specie”. Diverrà il referente in patria di Wallace e di Bates, e quest’ultimo sarà in assoluto il suo miglior fornitore.

 

Nella primavera del 1848, galvanizzati dai più recenti resoconti di altri naturalisti-viaggiatori (l’ultimo in ordine di tempo è A Voyage up to Amazon, di W.H. Edwards, uscito l’anno prima), i due si imbarcano per il Brasile. Per i primi quattro mesi bazzicano assieme le foreste lungo il rio Parà, un fratello minore dell’Amazzoni. Poi decidono di separarsi, per ampliare il raggio d’azione e le specie di interesse. Risalgono fino a Manaus e lì si dividono: Wallace setaccerà il bacino del Rio Negro, Bates quello dell’Amazzoni. A metà dell’anno successivo Wallace è raggiunto dal fratello minore Herbert e con lui prosegue le missioni di esplorazione-ricerca, peraltro non molto fruttuose. Il fratello decide quindi dopo un paio di mesi di rientrare, ma proprio nel porto in cui attende l’imbarco si ammala di febbre gialla e muore in pochi giorni.

Sul Britannia, il brigantino che ha portato in Brasile lo sfortunato Herbert, viaggiava anche Richard Spruce. Spruce è destinato a rimanere in Amazzonia quindici anni e a diventare il più importante botanico specialista nella flora di quell’area[6]. Ha alle spalle una storia di autodidatta molto simile a quella dei nostri eroi, e una salute malferma che lo apparenta a Bates. Li incontra una prima volta a Santarem, reduci da un giro di esplorazione di nove mesi, in una serata molto alcoolica promossa da pittoresco commerciante inglese. Rivedrà poi il solo Wallace tre anni dopo, e faticherà alquanto a riconoscerlo.[7]

Dopo il triste intermezzo dell’arrivo e della morte del fratello Wallace ha infatti ripreso le sue spedizioni in solitaria. Risale il rio Negro sino al punto di minor distanza dal bacino dell’Orinoco, e raggiunge quest’ultimo, probabilmente lungo lo stesso itinerario percorso in senso inverso da Humboldt. In questa occasione viene mollato in mezzo alla foresta dai suoi assistenti indigeni e deve cavarsela da solo (a Bates va anche peggio: i suoi lo rapinano e gli portano via persino gli stivali). Torna quindi a Manaus, ma per ripartire quasi subito: questa volta punta sullo Uaupés, un affluente del rio Negro, mai percorso prima da viaggiatori bianchi. È però allo stremo: la malaria gli provoca un collasso, e i suoi indigeni lo riportano indietro quasi in fin di vita. È in questo stato che lo ritrova Spruce, il quale organizza il suo trasporto a valle e raccoglie il testimone dell’esplorazione dell’Uaupés e del Rio Negro.

Nel corso di questi tre anni Wallace ha accumulato un discreto numero di esemplari interessanti, ma ha la piena consapevolezza di quanto il suo bottino sia modesto rispetto all’enorme ricchezza ancora nascosta nella foreste. Dispone di mezzi e di tempo limitati, e deve forzatamente accontentarsi di ciò che è a portata immediata. A differenza di Bates, più rilassato e meticoloso, capace di soggiornare per anni nello stesso luogo e di setacciarlo a tappeto, ha un approccio veloce all’esplorazione (e questo spiega probabilmente anche la loro decisione di separarsi). Gli interessano, non fosse altro per motivi economici, gli esemplari da raccolta, ma gli importa forse più cogliere le peculiarità e le differenze tra zona e zona, e indagare i meccanismi che le producono. Ciò comporta coprire l’area più vasta possibile, e disporre di elementi diversi da comparare.

I problemi logistici connessi ad una esplorazione di questo tipo sono naturalmente molto più grandi. È ad esempio difficile assicurare il regolare invio in patria del materiale raccolto. Accade così che al termine di quattro anni, quando è costretto dalla salute e dalla necessità di far fruttare il lavoro svolto a rientrare in patria, la gran parte delle sue collezioni sia ancora imballata ad attenderlo nel porto di partenza brasiliano.

Ciò che ne segue è una vicenda che avrebbe stroncato qualsiasi spirito appena meno forte e positivo di quello di Wallace. La nave sulla quale si imbarca con le sue collezioni trasporta gomma e resine infiammabili, non adeguatamente protette, che ad un certo punto si comportano come era prevedibile. L’intero scafo va a fuoco, e l’equipaggio fa appena a tempo ad allontanarsi su due scialuppe. Wallace recupera solo qualche schizzo e un orologio, mentre sulla nave bruciano e poi si inabissano il suo diario, innumerevoli disegni, ma soprattutto il materiale che rivenduto avrebbe dovuto assicurargli una piccola fortuna, oltre ad una collezione privata “che comprendeva centinaia di nuove specie che avrebbero reso il mio gabinetto di storia naturale uno dei più ricchi d’Europa”.

E non finisce qui. I naufraghi sono in salvo, ma rimangono in completa balìa dell’Oceano, a circa settecento miglia dalle Bermude. Vagano così per dieci giorni, con viveri ed acqua scarsissimi, fino a quando non vengono tratti in salvo da una nave di passaggio. Naturalmente si tratta di una vecchia carretta, appena in grado di galleggiare e a corto a sua volta di viveri. I disagi rimangono quelli già patiti sulle scialuppe, e in più ci si aggiungono un paio di tempeste tropicali dalle quali la nave esce per puro miracolo, semi devastata.

La vicenda si chiude per fortuna senza ulteriori drammi, anche se l’approdo in terra inglese avviene a rischio di un naufragio nella Manica, spazzata per l’occasione da una burrasca di insolita violenza. Alfred ringrazia il cielo per lo scampato pericolo e comincia, una volta cessata la paura, a realizzare l’entità delle sue perdite; eppure, cinque giorni dopo il suo ritorno in Inghilterra sta già meditando su quale sarà la sua prossima meta.

Vista con gli occhi di oggi la vicenda delle collezioni di Wallace potrebbe apparire da oscar della sfortuna. Per certi versi senz’altro lo è, ma all’epoca non sarebbe certamente entrata nel Guinnes. L’eventualità di perdere tutto durante il viaggio era sempre ben presente ai naturalisti, come del resto a tutti coloro che dovevano affidare qualche merce all’oceano, tanto che in genere cercavano di diversificare il più possibile gli invii. E l’aneddotica dei naufragi è ricchissima di casi a fronte dei quali la sfortuna di Wallace impallidisce.

L’ornitologo e botanico francese Jules Verreaux, per citarne uno, aveva collezionato esemplari per ben tredici anni in Africa. Quando si decise a riportarli a casa la nave incappò in una tempesta proprio davanti al porto di La Rochelle, e naufragò. Lo stesso Verreaux riuscì a raggiungere la riva a nuoto, unico superstite: ma forse avrebbe preferito affogare.

Stamford Raffles, uno dei pionieri dell’impero britannico, fondatore di Singapore e governatore di Sumatra, era anche un appassionato di scienze naturali e accanito collezionista. Dopo una vita trascorsa in Oriente e dopo aver perso quattro figli in un anno per malattie decise di tornare in Inghilterra con la moglie e l’unica figlia superstite, oltre che con tutte le sue preziose collezioni, dagli uccelli impagliati alle conchiglie, ai serpenti sotto spirito: ma la nave che li imbarcava andò a fuoco dopo due giorni di viaggio. Perse tutto, tranne la famiglia.

Non parliamo poi dei cacciatori di specie finiti in fondo all’oceano assieme alle loro collezioni, o di quelli che non arrivarono neppure ad imbarcarsi per il ritorno, dal momento che cadute, malattie, sabbie mobili, serpenti, rinoceronti o cacciatori di teste li fermarono prima. Il tributo di esistenze versato alla scienza in questo campo è davvero impressionante.

Ma c’erano anche altri modi, sotto certi aspetti ancora più maligni, di essere malamente ripagati degli sforzi e dei sacrifici di anni. Dopo aver riportato sana e salva dall’Africa una splendida collezione di uccelli e di pelli di altri animali, William Burchell non trovò nessun privato o istituzione disponibili ad accoglierle e classificarle: il frutto delle sue ricerche rimase dimenticato e imballato per oltre un secolo, prima di essere riesumato ed esposto in un museo di storia naturale. Il povero Burchell naturalmente non ebbe il minimo riconoscimento, e consumò gli ultimi anni della sua vita in una crescente disperata rassegnazione.

 

Wallace quanto meno riporta a casa la propria pelle, anche se un po’ malconcia. Pur essendo abituato a vivere a contatto con la natura ha sofferto moltissimo il clima tropicale, che stranamente sembra debilitare soprattutto quelli più robusti, mentre risveglia le forze di gente come Bates e di Spruce, che in patria avevano grossi problemi di salute[8]. Le vicissitudini del viaggio hanno fatto il resto. Appena sbarcato manda un messaggio ai suoi, avvertendoli che lo troveranno parecchio malmesso, ma che non devono preoccuparsi. In effetti, come si è visto, non ci mette molto a riprendersi.

Una volta tornato a Londra però ricomincia a scalpitare. Ormai non c’è più nulla che lo trattenga in patria. Della grande famiglia sono rimaste solo la madre e una sorella; il denaro ricavato dalla vendita delle poche collezioni inviate durante il primo anno si assottiglia rapidamente: prospettive di impiego presso gli enti scientifici non se ne vedono, e dal canto suo Wallace non fa molto per procurarsele. La prima volta che è chiamato a raccontare in pubblico la sua esperienza amazzonica, con una conferenza sulle scimmie americane presso la Linnean Society, lamenta il fatto che da parte dei curatori delle collezioni non venga in genere indicata con precisione l’area di provenienza degli esemplari. Lo afferma senza alcuna presunzione o volontà polemica, nell’intento di contribuire a migliorare i criteri di classificazione e nell’ottica di un quadro della distribuzione delle specie che comincia a fasi strada nella sua mente. Ma alle orecchie di molti dei convenuti suona come una implicita rivendicazione di scientificità alla sola ricerca sul campo e come un atto di accusa a tutto l’establishment naturalistico. Una posizione simile susciterebbe reazioni anche se fosse assunta da un accademico, figuriamoci da un outsider come Wallace. Nei suoi confronti scatta un sottile ostracismo, manifestato con reazioni infastidite dalla componente più conservatrice, ma sotto sotto condiviso un po’ da tutto l’ambiente (e la vicenda dei suoi rapporti con Darwin, ma soprattutto con l’entourage di quest’ultimo, lo conferma). Anche il resoconto delle sue peripezie americane, pubblicato nel 1853 col titolo A narrative of travels on the Amazon and Rio Negro, incontra un’accoglienza molto tiepida, per non dire nulla.

A dispetto di tutto ciò Wallace partecipa alla vita della comunità scientifica, e gli viene comunque dato accesso alle riunioni delle maggiori società naturalistiche. Ma si sente ancora un intruso: lui stesso ritiene di non essersi guadagnato credenziali sufficienti. E soprattutto c’è il richiamo della foresta, motivato ormai non tanto dalla caccia agli esemplari da collezione quanto dal desiderio di trovare sul terreno il supporto alle idee che confusamente gli stanno maturando in testa. Sceglie stavolta l’oriente, e nello specifico l’arcipelago della Sonda, perché è molto meno battuto dai suoi colleghi e perché è necessario suffragare la nascente teoria con prove raccolte in aree diverse e lontane tra loro. Sulla scelta influisce anche il fatto che le isole malesi sono terra di oranghi, una specie che era già stata oggetto di attenzione e di dibattito nel Settecento e un paio di esemplari della quale avevano destato una forte impressione a Londra (tanto da finire anche nelle storie di Sherlock Holmes). Prima della scoperta e degli studi sui gorilla e sugli scimpanzé gli oranghi erano le antropomorfe che più si avvicinavano all’uomo, e che potevano avvalorare l’ipotesi di una parentela.

Ancora una volta trova l’appoggio giusto, nella persona del presidente stesso della Royal Geographic Society, e riesce ad ottenere un passaggio gratuito per Singapore, via Mediterraneo, con traversata di un pezzo di deserto e reimbarco a Suez. Nel luglio del 1854 è a Singapore. Per acclimatarsi raccoglie esemplari di insetti nelle foreste della penisola di Malacca, assieme ad un giovanissimo assistente, Charles Allen, che lo ha seguito da Londra. Le sue aspettative sulla ricchezza faunistica ed entomologica dell’area trovano piena conferma. Nel corso degli otto anni successivi collezionerà qualcosa come centoventicinquemila esemplari, non solo di insetti, ma anche di mammiferi di grossa taglia e di uccelli. E questa volta si preoccupa di scaglionare i suoi invii, potendo fare affidamento sul sistema rapido e sicuro di trasporti marittimi messo in piedi dagli olandesi.

Anche la qualità delle sue scoperte è di altissimo livello. Non raccoglie nessuna nuova specie particolare, ma studia dettagliatamente nel loro ambiente e nei loro comportamenti animali che in Europa erano conosciuti solo per le fantasiose descrizioni di qualche viaggiatore. Alleva persino per qualche mese un cucciolo di orango, “un piccolo orfano” scrive “ che si è aggiunto alla mia famiglia”.

Nel 1855 è a Sarawak, ospite del famoso sir James Brook, il “rajà bianco”, quello raccontato da Salgari come il più implacabile nemico di Sandokan (il che è storicamente vero, fatta salva la figura della tigre della Malesia, perché James Brook diede una caccia spietata ai pirati della Sonda). E proprio a Sarawak, dove il rajà lo tratta con tutti gli onori, per il piacere di avere come ospite un interlocutore brillante sul piano scientifico, Wallace condensa in un breve saggio le conclusioni cui è pervenuto dopo aver avuto la possibilità di confrontare realtà naturalistiche tanto simili per un lato ma tanto lontane tra loro per altri. “Sulla legge che ha regolato l’introduzione di nuove specie” viene pubblicato nello stesso anno su un’autorevole rivista scientifica inglese. Pur nella sua essenzialità l’articolo è una pietra miliare nell’avvicinamento ad una teoria compiuta dell’evoluzione. Wallace elenca i fatti geologici e geografici sui quali si basa l’evidenza evolutiva e parla apertamente di nuove speciazioni, ossia della discendenza di specie affini da un antenato comune: “… la successione naturale delle affinità rappresenta anche l’ordine secondo il quale le varie specie sono venute alla luce, ciascuna come diretta discendente di un antetipo rappresentato da una specie strettamente affine esistente al tempo della sua origine.” Riassume il suo ragionamento in una legge che afferma: “Ogni specie ha avuto un’origine coincidente sia nello spazio che nel tempo con una specie preesistente strettamente affine”, e suggerisce anche chiavi di lettura che verranno sviluppate oltre un secolo dopo (ad esempio, quella di un processo che conosce brusche impennate e lunghi momenti di stasi – gli equilibri punteggiati di Gould ed Eldredge – anziché uno sviluppo lento e costante.

Alla base della sua riflessione ci sono le esperienze comparate dell’Amazzonia e della Malesia. L’importanza della distribuzione geografica degli animali, quella già sottolineata con forza nella conferenza sulle scimmie amazzoniche, è ormai diventata il suo chiodo fisso. E come succede in questi casi, diventa il filtro attraverso il quale leggere l’insieme dei fenomeni, il sensore che si accende davanti ad ogni elemento di conferma. Nel caso specifico è determinante il fatto di proseguire le ricerche in un ambiente per molti versi simile (la foresta tropicale) ma nel quale si sviluppano forme di vita diverse: il che porta allo scoperto i limiti della teoria di Lamarck, e prova che alla base dell’evoluzione c’è qualcosa di più del condizionamento ambientale. Quale sia questo fattore Wallace non è ancora in grado di dirlo, ma la strada all’intuizione è ormai aperta. Per intanto getta le basi di quella che verrà conosciuta come “biogeografia”[9] e formula la domanda chiave: “… in ogni caso le specie più affini si trovano geograficamente vicine. La domanda che si pone ad ogni mente pensante è: perché è così?

Ci si attenderebbe che il lavoro di Wallace faccia fare salti sulla sedia ad un sacco di gente, di entusiasmo o di dispetto a seconda delle diverse convinzioni naturalistiche. Invece non accade praticamente nulla. Lo scritto non viene ignorato, lo stesso Darwin lo legge e lo segnala a Lyell, ma a quanto pare non lo trova particolarmente interessante (Lyell, al contrario, che professava convinzioni fissiste, ne è turbato, e intravvede quegli sviluppi che in effetti si daranno di lì a pochi anni). È probabile che a indisporlo sia il linguaggio. Wallace ha infatti volutamente evitato la terminologia evoluzionistica, usando ad esempio il termine “create” anziché “evolute” quando parla di nuove specie. Questo accorgimento non gli giova granché neppure negli ambienti ufficiali, accademie o società scientifiche, dove prevale piuttosto il fastidio per un “cacciatore di specie” che si mette a formulare teorie rivoluzionarie. L’unico a manifestare entusiasmo è Bates, il vecchio compagno di avventure, ancora in piena attività in Amazzonia, che profetizza a Wallace: bravo, hai centrato in pieno il problema e hai dato spiegazione di tutto. Peccato soltanto che il mondo scientifico “che conta” non sia affatto pronto a capire quello che dici.

Wallace deve constatare che il suo compagno ha visto giusto. Riceve, si, una paio di lettere di complimenti da Darwin, che ribadisce peraltro quanto Bates aveva già detto: ma tutto finisce lì. Almeno per il momento.

 

Nelle lettere di risposta a Wallace Darwin accenna allo stato delle proprie ricerche, dicendo che c’è ancora molto da fare e che occorreranno anni per arrivare ad una proposta teorica saldamente fondata. Di anni in realtà Darwin se ne è già presi parecchi, se si considera che le prime riflessioni sulla selezione naturale e sui possibili fattori evolutivi risalgono almeno al 1838, a ridosso immediato del viaggio del Beagle, e che un abbozzo della teoria era già stato dato in lettura ad alcuni amici nel 1844. Perché non arriva ad una conclusione?

Darwin è in realtà frenato da due diversi timori. Intanto, è una persona decisamente “solida” nel modo di pensare: come tale, alle teorie vuole che corrispondano i fatti, anzi, vuole che le prime discendano dai secondi; e anche se la stragrande maggioranza dei fatti confermano il suo modello teorico, rimangono comunque alcune zone oscure che potrebbero rendere fragile e attaccabile l’insieme dell’edificio teorico. Darwin non ama il rischio: vuole certezze, e vuole trasmetterle.

In secondo luogo, è il primo ad essere spaventato dalle conseguenze delle sue scoperte. Non ne è turbato per motivi religiosi, ma senz’altro per quella che potrebbe essere la ricaduta etica. Capisce benissimo che gli spiriti alti non possono che essere gratificati da una conoscenza nuova, ma non è affatto sicuro che la cosa valga per tutti. Teme che la sua teoria possa essere strumentalizzata, come in effetti avverrà, e piegata a giustificare posizioni politiche e morali che in essa non sono affatto implicite. Per questo passerà il resto della sua vita a prendere le distanze da qualsiasi interpretazione non scientifica dell’evoluzionismo. Teme insomma che la verità che emerge dai suoi studi possa essere sentita come troppo cruda da chi non ha gli strumenti e l’apparato per digerirla. Per questo sta cincischiando, e continua a raccogliere materiali su materiali, quasi a dare alla sua teoria una consistenza inattaccabile, a schiacciare sotto il peso della documentazione qualsiasi obiezione.

Wallace ha un carattere diverso. Mentre veleggia su e giù per l’arcipelago, alla ricerca dell’uccello del paradiso (compie tre spedizioni, alle isole Aru nel 1857, alle Molucche l’anno successivo e in Nuova Guinea nel 1860; verranno descritte nel 1862 in Narrative of Search after Birds of Paradise), continua a rimuginare sull’ultima parte ancora scoperta della sua teoria, quella che dovrebbe rispondere alla domanda: in che modo avviene l’evoluzione? “Il saggio che scrissi a Sarawak mi aveva convinto che la trasformazione della specie doveva aver luogo per una naturale successione genealogica: lentamente o velocemente una specie si trasforma in un’altra. Tuttavia l’esatto processo della trasmutazione e le cause che lo rendevano possibile erano totalmente sconosciute, tanto da sembrare quasi inconcepibili.[10] Per trovare la risposta deve attendere un accesso febbrile (ancora la malaria) che da un lato lo costringe ad un forzato riposo, dall’altro gli induce evidentemente uno stato di eccitazione mentale particolare. Gli capita più o meno quello che è accaduto a Cartesio, che da un letto di infermo ha rivoluzionato la percezione e la rappresentazione dello spazio. La folgorazione è attivata dall’improvvisa reminescenza del saggio di Malthus sulla popolazione. La chiave è lì, nei freni alla crescita demografica che Malthus elenca e nella capacità di sopravvivenza di coloro che riescono meglio ad adattarsi. Vista ora, sembra la scoperta dell’acqua calda: è ovvio che chi è più adatto sopravvive meglio: ma pensiamo a che salto comporta rispetto alla convinzione che gli dei chiamino a sé prematuramente i migliori, che una morte in battaglia o un martirio per fede valgano mille vite, convinzione che in varie versioni e riletture aveva dominato tanto la cultura classica quanto quella cristiana, ed era tornata in auge col romanticismo. È una bella doccia gelata per la presunzione di superiorità e unicità spirituale dell’uomo, visto che la legge vale per lui come per ogni altro animale.

Come racconterà nella sua autobiografia, Wallace scrive di getto, in una sola sera, un articolo che poi mette in bella copia nei due giorni successivi; e lo spedisce immediatamente a Darwin, certo di fargli una cosa enormemente gradita. Il saggio arriva al destinatario quasi quattro mesi dopo, e per poco non gli procura una sincope. È la versione riassunta in venti pagine di quanto Darwin sta mettendo assieme da vent’anni[11].

È forse utile precisare che quando si parla per Wallace di una improvvisa folgorazione e per Darwin di un lento e ponderato percorso, questi non concernono l’idea di evoluzione, ma la spiegazione dei meccanismi evolutivi. Il frutto dei due diversi approcci è insomma una teoria fondata sull’osservazione diretta dei fenomeni e sull’assemblaggio e la rielaborazione meditata dei loro significati. Nessuno dei due “scopre” l’evoluzione: scoprono entrambi, più o meno contemporaneamente e pressoché negli stessi termini, come l’evoluzione funziona.

Una visione evoluzionistica della vita era in realtà presente, a livello però semplicemente intuitivo, da moltissimo tempo; addirittura potremmo risalire al pensiero dei “fisiologi” della scuola ionica di Mileto, i filosofi-naturalisti pre-socratici. Già nella prima metà del VI secolo Anassimandro postulava l’esistenza di un processo evolutivo delle specie animali (uomo compreso)[12], e tracce di una concezione “evolutiva”, almeno per quanto concerne il livello di civiltà umana, le troviamo anche in Democrito; tracce che attraversano tutta l’epoca classica e riemergono in Epicuro e in Lucrezio (anche qui, però, in connessione con una generica idea di progresso)

Un altro ionico, Anassagora, aveva sottolineato la funzione evolutiva di alcuni organi, primo tra tutti la mano. Malgrado questa osservazione fosse stata poi sconfessata e oscurata dal magistero di Aristotele, che imponeva il fissismo, la sua eco permane evidentemente anche nella tarda antichità e nel pensiero cristiano, se Gregorio Nisseno nella seconda metà del IV secolo torna sul tema della mano per spiegare la superiorità dell’uomo rispetto agli altri animali, e dice che ad un certo punto la natura dotò l’uomo della mano (si badi bene, la natura, non Dio), o addirittura che le zampe si evolsero in mano.

A cercarli, gli indizi di una concezione evolutiva carsicamente riemergente si troverebbero anche nella filosofia medioevale: ma è nella seconda metà del seicento che essa comincia a trovare formulazioni esplicite e concrete fondamenta scientifiche, prendendo spunto soprattutto dalla “rivoluzione” delle teorie geologiche innescata da Thomas Burnet[13] e portata a compimento da Hutton[14] e da Lyell. L’input arriva dai primi studi sui fossili. Nicola Stenone inferisce dalla successione stratigrafica di quelli che erano stati in precedenza liquidati come “divertimenti divini” un mutamento costante che interessa le specie[15]. L’idea di una trasmutazione vera e propria viene sostenuta da Benoit de Maillet[16], mentre Pierre–Louis de Maupertuis parla di sopravvivenza del più adatto[17] e Buffon abbraccia decisamente l’idea di un lento processo di nuove speciazioni[18]. Nei dialoghi che segnano la nascita del materialismo moderno Diderot si fa assertore della continua rinascita dei diversi organismi in forme nuove.[19] Lo stesso nonno di Darwin, Erasmus, applica una concezione evoluzionistica ai suoi studi di botanica e di genetica [20]

Nella prima metà dell’ottocento il concetto di evoluzione è quindi, almeno a livello scientifico, ormai acquisito. La prima compiuta formulazione teorica arriva con Jean-Baptiste Lamarck, che fonda il processo evolutivo sulla ereditarietà dei caratteri acquisiti[21]. È un serio tentativo di identificare quei meccanismi che rendono possibile lo sviluppo delle differenze all’interno di una specie, e sul lungo periodo la nuova speciazione. Il limite, giustificabilissimo in base alle conoscenze dell’epoca, è quello di postulare che un agente esterno possa indurre nell’organismo modificazioni ereditabili. In Inghilterra si procede con maggior cautela: si accumulano mattoni di varia provenienza in vista della costruzione finale. William Charles Wells, ad esempio, studia l’adattamento degli organismi al clima, mentre Patrick Mattews parla chiaro e tondo di “selezione” dei più adatti e Charles Lyell nel campo della Geologia fissa definitivamente il concetto di trasformazione costante della cresta terrestre[22]. Nel 1844 addirittura, come abbiamo già visto, Robert Chambers anticipa una compiuta teoria evoluzionistica, che non ha il supporto di intuizioni scientifiche innovative (l’assunto è lamarkiano, il presupposto è creazionista) ed è finalizzata soprattutto a giustificare l’idea di un progresso sociale, ma azzarda comunque un disegno globale[23]. A questa farà riferimento nel decennio successivo la filosofia evoluzionistica di Herbert Spencer,[24] che nel suo Sistema di filosofia generale si richiama a Darwin, ma ha già adottato un approccio evoluzionistico almeno a partire dal 1851.

Insomma, l’evoluzionismo non è solo nell’aria, ha già fondamenta solide ed è ormai radicato nella cultura anglosassone. A questo punto manca soltanto l’enigmista in grado di unire i puntini degli indizi e delle evidenze e ricavarne un concetto che riassuma i meccanismi evolutivi. Il concetto è quello di selezione naturale, o sopravvivenza del più adatto, e nel 1858 gli enigmisti sono addirittura due.

 

In quell’anno va infatti in scena una vicenda che ha molti aspetti ambigui, ma che tutto sommato mi pare edificante, per la lealtà e la dirittura morale mostrata da entrambi i protagonisti.

Quando si riprende dallo shock che la lettura dello scritto di Wallace gli ha procurato Darwin non sa che pesci pigliare. L’articolo riassume quasi esattamente il suo pensiero, gli è stato inviato con la preghiera di farlo leggere a Lyell e di renderlo pubblico, inoltrandolo alla Linnean Society, e tecnicamente è la prima comunicazione ufficiale di una teoria che spieghi i meccanismi dell’evoluzione. L’idea di ignorarlo non lo sfiora nemmeno: onestamente ritiene che a Wallace debba essere riconosciuto il suo merito, e medita di inoltrare subito lo scritto ad alcune riviste scientifiche. Dall’altro lato, però, ci sono i vent’anni spesi nella costruzione del proprio edificio teorico. Si rivolge quindi a Lyell, che già conosce il percorso di Wallace e ne aveva intuiti i possibili esiti, e si affida a lui. Lyell, assieme ad un altro corrispondente e amico di Darwin, il botanico Joseph Hooker, trova la soluzione che salva capra e cavoli. Viene organizzata una presentazione congiunta alla Linnean Society, nella quale è data lettura sia di un manoscritto che Darwin aveva fatto circolare tra alcuni amici nel 1844, che contiene il primo abbozzo della teoria, assieme ad una lettera sullo stesso tema indirizzata al naturalista americano Asa Gray nel 1857, sia del breve saggio di Wallace. Darwin non presenzia nemmeno alla seduta: proprio in quei giorni sta infatti vivendo il dramma della perdita di un figlio. La scelta di presentare il manoscritto del 1844, invece che un estratto dell’opera in gestazione, ha comunque un ben preciso scopo: si sancisce una primogenitura, si brevetta l’idea originale. Nel contempo Darwin, che per uno scrupolo etico continua a nutrire riserve sulla soluzione adottata, viene stimolato ad uscire dai dubbi e dal torpore, e comincia a lavorare a tempo pieno per pubblicare il prima possibile almeno una parte di quanto ha già scritto.

Anche questa volta sulle prime la comunicazione congiunta non suscita grosse reazioni: ma è una bomba a reazione ritardata, e ad accelerare l’innesco provvedono proprio gli amici di Darwin, in particolare Thomas Huxley[25], che creano una particolare aspettativa attorno all’opera tanto annunciata. A Wallace viene comunicato come si è proceduto, e ne è addirittura entusiasta. L’idea di essere stato messo alla pari con un’autorità riconosciuta come Darwin non gli pare vera. E poi, è perfettamente conscio che la priorità morale, almeno per quanto concerne i tempi e la quantità degli studi dedicata, spetta a quest’ultimo. “Naturalmente non solo fui d’accordo, ma sentii che essi mi avevano onorato e riconosciuto maggior credito di quanto meritassi, nell’equiparare la mia fulminea intuizione – scritta in fretta e sottoposta subito al parere di Darwin e Lyell – al lungo lavoro di Darwin, il quale aveva raggiunto lo stesso risultato vent’anni prima di me.”

In realtà, il risultato non è esattamente lo stesso. Le due teorie non sono identiche. Per Wallace la selezione degli inadatti è operata dall’ambiente, mentre Darwin parla piuttosto di competizione tra gli individui. Sullo sfondo ci sono due “culture politiche” diverse, perché Wallace ha una formazione socialisteggiante e crede nella natura positiva dell’uomo, convinzione che come vedremo è rafforzata dal contatto con le fiere popolazioni malesi, laddove Darwin, più conservatore, ha in mente lo stato miserabile di brutalità in cui durante il viaggio del Beagle ha visto vivere i fuegini. Per Wallace, inoltre, la selezione persegue un fine superiore, la realizzazione di un uomo perfetto, e conseguentemente di una società giusta: Darwin sottolinea invece che l’evoluzione non è necessariamente un “progresso”, ma essenzialmente una successione di stati.

Quando l’anno successivo esce “L’origine delle specie” l’ambiguità della situazione si risolve da sola. Wallace è lontano, in Nuova Guinea, in cerca di esemplari dell’uccello del paradiso: è preso da altre cose, e proprio in questo periodo invia alla Linnean Society un altro lungo articolo, “Sulla zoologia geografica dell’arcipelago malese” che viene apprezzato e che può essere considerato l’atto di fondazione della biogeografia evoluzionistica.

La battaglia si scatena quindi tutta attorno all’opera e al pensiero di Darwin. Il nome di Wallace, nell’infuocato dibattito successivo, non compare nemmeno. Egli stesso ritiene che sia giusto così, e continuerà a ribadirlo sino alla fine: «È stato affermato… che io e Darwin abbiamo simultaneamente scoperto la selezione naturale: anzi, alcuni commentatori hanno dichiarato che fui io il primo a scoprirla e ad aprire la strada a Darwin. Credo sia opportuno riportare i fatti oggettivi nel modo più semplice e chiaro. L’unico fatto che mi associa a Darwin è che l’idea di ciò che oggi chiamiamo “selezione naturale” o “sopravvivenza del più adatto”, insieme alle sue pregnanti conseguenze, ci venne in mente indipendentemente. Quello che invece viene spesso dimenticato è che tale idea venne a Darwin nel 1838, ovverossia quasi vent’anni prima che a me, e che durante tutti quei vent’anni egli aveva continuato a raccogliere prove … Perché così sono andati i fatti, io non avrei avuto alcun motivo di lamentarmi se da allora i nostri rispettivi contributi fossero stati stimati proporzionalmente al tempo che ciascuno di noi aveva dedicato al problema, il che sarebbe come dire vent’anni contro una settimana”[26]».

Quindi Wallace non si aspetta, quando finalmente nel 1862 rientra in patria, dopo otto anni di permanenza “sul campo”, di trovare attorno a sé un particolare interesse. Gli è sufficiente sapere di essere stato lo strumento inconsapevole che ha smosso Darwin dalle sue incertezze. D’altro canto Darwin lo apprezza, Huxley e Lyell lo ricevono a casa loro, forse anche perché si sentono un po’ in colpa: tutto sommato ritiene di non avere di che lamentarsi, dal momento che ormai, grazie anche a queste conoscenze, è entrato a pieno titolo nel novero dei naturalisti degni di considerazione.

 

Nel frattempo il clamore delle polemiche accese dall’opera di Darwin non accenna a spegnersi. Nel 1863 Huxley getta ulteriore benzina sul fuoco con la pubblicazione de Il posto dell’uomo nella natura, nel quale abbandona ogni cautela e parla senza mezzi termini di discendenza dell’uomo da un antenato scimmiesco (mentre Darwin ne “L’origine” aveva accuratamente evitato di toccare l’argomento, ancorché la cosa fosse implicita). La rottura del tabù sull’origine dell’uomo incoraggia anche Wallace a trarre delle conclusioni dalle sue esperienze di viaggiatore-esploratore: nel 1864 pubblica un saggio su “L’origine delle razze e l’antichità dell’uomo”, che riscuote stavolta una grossa attenzione e che assieme ai diari offre il destro per valutare la sua posizione sul tema delle razze umane e il suo atteggiamento nei confronti delle culture primitive con le quali è venuto a contatto. Per seguire lo sviluppo del suo pensiero, che è piuttosto tortuoso, è opportuno però tornare all’esperienza amazzonica.

La terza e più inattesa sensazione di sorpresa (le prime due riguardano la maestosità della foresta vergine e la strabiliante varietà e squisita bellezza delle farfalle e degli uccelli) e di gioia fu il mio primo incontro e la vita a contatto con l’uomo allo stato di natura, con selvaggi assolutamente incontaminati” scrive nella sua autobiografia[27]. Quello del “selvaggio incontaminato” è un topos che ricorre in tutti i resoconti di viaggio dei naturalisti-esploratori, da Humboldt a Darwin, da Beltrami a Boggiani. “…Quegli autentici indios selvaggi non avevano nulla di ciò che noi chiamiamo vestiti, ma solo bizzarri ornamenti … ma erano soprattutto il loro aspetto complessivo e i loro modi di essere differenti, i loro lavori e i loro svaghi, per i quali andavano tutti di qua e di là, non avevano nulla a che vedere con l’uomo bianco e con le sue abitudini: camminavano con il passo sciolto dell’indipendente uomo della foresta e non facevano la benché minima attenzione a noi, puri stranieri di una razza aliena …”. Non è più il “buon selvaggio” del Settecento, né quello filosofo di Chateaubriand, ma non è neanche il “bruto” della gerarchia razziale positivista. “Erano uomini autentici che contavano solo sulle proprie forze, senza alcuna dipendenza dalla civilizzazione, e che riuscivano benissimo a vivere a modo loro, come avevano fatto per innumerevoli generazioni”.

Il confronto tra l’abbrutimento morale e anche fisico degli indigeni “civilizzati” e la dignitosa fierezza di quelli “bravos” induce le più amare considerazioni sugli effetti corruttori della “civilizzazione”. “Mi è sempre sembrata una vergogna della nostra civiltà il fatto che quelle brave genti non siano mai state salvaguardate, nemmeno in un caso, dalla corruzione dovuta ai vizi e alle follie delle nostre classi più degradate …Quello che abbiamo fatto, o lasciato che non venisse fatto, avendo avuto come risultato la degradazione e il lento sterminio di un così bel popolo, è una delle tragedie più tristi della nostra civiltà.”

Considerazioni analoghe sono suggerite a Wallace dall’incontro con le popolazioni malesi. Mentre nel primo villaggio di cui è ospite sulle isole Aru constata che “una grande monotonia e una piatta uniformità caratterizzano la vita quotidiana … la loro mi sembrò un’esistenza veramente misera”, quando si inoltra nella foresta vergine e arriva ad un villaggio tradizionale, lontano dai contatti con la civiltà, sente che “ … più ne approfondivo la conoscenza, più cresceva in me l’interesse per questa gente che rappresentava un chiaro esempio della popolazione autoctona delle Aru: veri selvaggi praticamente immuni da mescolanze forestiere…. Gli indigeni di razza pura hanno una migliore qualità di vita, come risulta dal fatto che godono di maggior salute, hanno fisici più prestanti e in genere la pelle più pulita” [28].

Queste osservazioni vengono sviluppate in chiave teorica ne L’origine delle razze, ma per certi aspetti ne risultano anche contraddette. Andiamo con ordine. Wallace si inserisce nel dibattito tra poligenisti e monogenisti, reso incandescente dalla questione della schiavitù e, proprio in quegli anni, dalla guerra civile americana[29]. Lo fa adottando una posizione molto sfumata. Parte sottolineando le differenze esistenti tra le società animali e quelle umane, anche quelle rimaste ad un livello di civiltà più basso. In queste ultime, dice, esistono comunque fenomeni di cooperazione, di “mutuo soccorso” e di divisione del lavoro, che non sono presenti nelle prime. Esiste anche la competizione, come vuole Darwin, ma si svolge tra gruppi, piuttosto che tra individui. Il salto è netto: a livello di specie non ci sono posizioni intermedie, da attribuirsi a “creazioni” o a “evoluzioni” separate. C’è invece una sola specie originaria, che a sua volta si è differenziata in diverse razze per opera dei meccanismi naturali, in primis la selezione.

La selezione ha continuato infatti ad operare a livello di modificazioni fisiche, determinando prima la speciazione, poi all’interno della specie le differenti caratteristiche morfologiche dei gruppi, sino a quando gli uomini non hanno sviluppato facoltà superiori, vale a dire intellettive e morali: da quel momento in poi la pressione ambientale si è trasferita sulle menti. “Dal momento in cui la prima pelle venne adoperata come coperta, la prima rozza lancia venne forgiata per essere usata nella caccia, il primo seme interrato o il primo germoglio piantato, una grande rivoluzione si realizzò nella natura … perché era comparso un essere non più inevitabilmente costretto a modificarsi al mutare dell’universo – era nato un essere che, in un certo senso, era superiore alla natura, visto che sapeva come controllarne e regolarne l’azione, e che poteva mantenersi in armonia con essa non tanto modificandosi nel corpo, quanto progredendo con la mente”. Questa rivoluzione non concerne quindi solo il rapporto con la natura, ma anche quello tra gli individui: induce cioè la nascita di sentimenti morali e sociali, primo tra tutti quello della solidarietà. Ora, proprio i gruppi più capaci di cooperazione sono quelli destinati a trionfare, mentre gli altri finiscono per estinguersi. Ma perché tale capacità si è sviluppata maggiormente in alcune razze piuttosto che in altre, determinando livelli diversi di civilizzazione? Wallace la spiega così: “Dal momento in cui quel potere, che fino ad allora aveva manipolato il corpo, trasferì la sua azione sulla mente, le razze sarebbero migliorate e progredite solo grazie alla severa disciplina di un suolo sterile e di stagioni inclementi … Non è forse vero che in tutte le epoche e in tutti gli angoli della terra gli abitanti dei paesi temperati sono sempre stati superiori a quelli che vivevano nelle regioni tropicali?” Il che parrebbe portarci, a dispetto del fatto che il termine razza venga usato in una accezione culturale e non biologica, pericolosamente vicini al confine che separa i sostenitori di una insuperabile diversità dagli assertori di una sfumata differenza.

Ma le cose non stanno così. Alla luce di una pubblicazione successiva, lo studio su I limiti della selezione naturale applicata all’uomo(1870), si capisce dove Wallace vada veramente a parare. Come vedremo, l’intento del saggio è dimostrare che al di là della selezione, per quanto concerne l’uomo, “qualche altra legge è stata all’opera”. Ciò che però qui ci interessa è che dall’analisi delle comparazioni craniometriche e dal confronto tra le facoltà raziocinanti, linguistiche, estetiche e morali dell’uomo civilizzato e del selvaggio Wallace deduce che “ogni significativo sviluppo di queste facoltà sarebbe per il selvaggio inutile o persino dannoso, poiché potrebbe in qualche modo interferire con la supremazia di quelle facoltà percettive e istintive sulle quali egli fa spesso affidamento proprio per sopravvivere all’aspra battaglia che deve condurre contro la natura e contro i propri simili. Tuttavia, in nuce, tutte queste potenzialità e questi sentimenti esistono sicuramente in lui … Possiamo concludere che esse sono sempre latenti e che il suo grande cervello è sovradimensionato per le reali richieste della sua condizione di selvaggio”.

Nulla a che vedere quindi con differenze biologiche, e ciò si riconcilia in qualche modo con la considerazione positiva dei “selvaggi”, e ci riporta nell’ambito non di una forma di razzismo, ma piuttosto di un ambiguo differenzialismo: magari poco in sintonia con la tendenza dell’epoca, ma senz’altro molto attuale.

 

Una volta riambientatosi nella “civiltà” Wallace cerca di recuperare il tempo perduto, e a quarantatré anni sposa una ragazza che ne ha venticinque di meno. Nel giro di cinque anni nascono tre figli, due dei quali sopravvivono. La vita sentimentale e familiare sarebbe serena, non fosse per i problemi economici. La reputazione, sia pure relativa, che i suoi studi gli hanno creato e la frequentazione degli ambienti ufficiali non bastano ad assicurargli una sistemazione decorosa. Non riesce a trovare un impiego (alla Royal Geografic Society è in concorrenza proprio con Bates, e gli viene preferito quest’ultimo), cerca invano di ottenere la direzione di qualche museo, si improvvisa progettista di parchi pubblici, ma senza alcun risultato. Riesce persino ad imbarcarsi in alcune speculazioni sbagliate, che danno fondo a quel che rimane del piccolo gruzzolo accumulatogli da Stevens durante la campagna di ricerca in Malesia. Sembra di rivedere il film della sua infanzia: inanella una serie infinita di traslochi (l’ultimo ad ottant’anni), ogni volta ricominciando da capo. Darwin e gli altri suoi corrispondenti scientifici non sanno mai da dove arriverà la prossima missiva.

È proprio Darwin, infine, nel 1881, a perorare e ad ottenere in suo favore il conferimento di una pensione per meriti scientifici. Non è molto, ma è sufficiente a garantirgli una certa tranquillità. Tutt’altro che tranquilla è invece l’attività intellettuale e scientifica di Wallace (il che probabilmente spiega anche le difficoltà a trovare un impiego fisso). Con l’articolo sull’origine delle razze umane ha infatti inizio la sua fase “revisionista” (una “metamorfosi in direzione retrograda”, la definisce Darwin). In realtà non sconfessa nulla di quanto ha scritto in precedenza, ma ritiene che occorra andare oltre. L’evoluzionismo e la selezione naturale spiegano tutto, ma si fermano di fronte all’uomo. Quell’oltre non ha più nulla a che vedere con la selezione naturale e con gli altri meccanismi evolutivi. Quell’oltre è lo spirito.

In un primo momento, in realtà, sono piuttosto “gli spiriti”. L’attrazione per l’occulto e il paranormale, sopita dalle esperienze di ricerca negli angoli più remoti del globo, si riaccende una volta tornato a Londra. Partecipa a sedute spiritiche e ad esperimenti di ipnotismo, e si fa apostolo di queste pratiche. Propone una partecipazione persino ad Huxley, il “mastino di Darwin”, e par di vedere quest’ultimo mentre gli risponde senza mezzi termini che sono cose per matti o per dementi. Scrive anche una serie di saggi su “L’aspetto scientifico del soprannaturale”, che lasciano seriamente imbarazzati gli amici, primo tra tutti Darwin. Ma l’imbarazzo diventa profonda delusione quando nel già citato saggio apparso nel 1870 mette in questione “I limiti della selezione naturale applicati all’uomo”. Qui non si tratta più di stramberie: è in gioco la credibilità dell’intera teoria evoluzionistica, tanto più che Darwin è uscito allo scoperto ed è in procinto di pubblicare, l’anno successivo, “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale”.

Il ragionamento dal quale muove Wallace è il seguente: “Se troviamo nell’uomo dei caratteri che, in base a tutte le prove in nostro possesso, mostrano di essere stati veramente dannosi al primo momento della loro comparsa, o degli organi specializzati del tutto inutili per l’uomo, o il cui utilizzo non è proporzionato all’effettivo grado di sviluppo, ciò potrebbe significare che non sono stati prodotti dalla selezione naturale … che qualche altra legge o qualche altra forza è stata all’opera. Se poi ci accorgessimo che proprio queste modificazioni, ancorché nocive o inutili al tempo della loro comparsa, divennero molto più tardi estremamente vantaggiose, e sono ora essenziali per il pieno sviluppo morale e intellettuale della natura umana, dovremmo dedurne l’azione di una mente che prevede e lavora per il futuro”. Parte in fondo dalla stessa constatazione che tanto turbava Darwin, quella della comparsa e soprattutto del persistere inspiegabile di caratteri non solo inutili, ma oggettivamente d’impaccio nella lotta per la sopravvivenza (la famosa coda del pavone): e tiene anche conto correttamente del fatto che la positività o negatività di un carattere va giudicata sul lunghissimo periodo, nell’ottica di possibili trasformazioni ambientali. Tutto questo, però, solo per dedurne che se compare un carattere la cui utilità o funzione non è immediata, e questo carattere non viene spazzato via dalla selezione naturale, ciò accade perché esiste un preciso disegno finalistico-teleologico nel quale ogni mutazione è iscritta. Ciò, agli occhi di un darwiniano ortodosso, che assume il caso a motore unico dell’evoluzione, suona come una resa e come un’eresia.

Non è la fine della carriera scientifica di Wallace, che come abbiamo visto continua a fornire contributi di valore nel campo della biogeografia. I suoi scritti sull’argomento, La distribuzione delle piante (1876) e Island Life (1880), sono entusiasticamente recensiti da Darwin, e ancora a metà degli anni ottanta Huxley propone di chiamare “linea di Wallace” la linea di demarcazione tra l’est e l’ovest dell’arcipelago malese, dove il naturalista aveva maturato le sue prime osservazioni sulla distribuzione e sull’evoluzione delle specie zoologiche. Ma è indubbiamente un grosso colpo alla sua credibilità come evoluzionista, e viene percepito come un disconoscimento di paternità, anche se Wallace continua coerentemente a sostenere, per tutto il mondo animato tranne che per l’uomo, la validità della selezione naturale come spiegazione del meccanismo evolutivo (tanto da pubblicare nel 1889 un trattato sulla selezione naturale con il titolo “Darwinismo”).

 

Confesso che ho una spiccata tendenza a liquidare ogni discorso sullo spiritismo e il paranormale, ma anche sul soprannaturale in genere, come “temporanea apparizione mentale”, per usare un eufemismo; provo irritazione e una notevole riluttanza anche solo a parlarne. Nel caso di Wallace sento però di poter fare un’eccezione. Non è questione di simpatia di pelle, che a tutto mi indurrebbe tranne che a giustificare queste inclinazioni: è che ci scorgo dietro qualcosa di più di una semplice mania o debolezza psicologica, e soprattutto non mi sembra in contraddizione più di tanto rispetto al filone serio del suo pensiero.

Mi spiego. Ho letto gli scritti di Wallace sullo spiritismo e sul paranormale, e li ho trovati, come già avevano fatto Darwin e Huxley, imbarazzanti, patetici nella pochezza e nel candore col quale si ostinano a perorare una causa assurda e a tentare di darne spiegazione su basi scientifiche, partendo dall’assunto che la scienza deve indagare proprio i misteri, e non rigettarli a priori. “L’esistenza di tali intelligenze preter-umane, – afferma – qualora provata, aggiungerebbe solo un ulteriore esempio, il più strabiliante di qualsiasi altro finora osservato, di quanto minima sia la porzione del grande cosmo che i nostri sensi ci permettono di conoscere” Wallace ritiene che l’uomo sia “una dualità, consistente in una forma spirituale organizzata, evolutasi in permeante coincidenza con il corpo fisico, e dotata di sviluppo e organi corrispondenti”, che “la morte scinde questa dualità senza produrre sullo spirito alcun cambiamento, né morale né intellettivo” e che “gli spiriti possono comunicare con i vivi attraverso individui dotati di capacità medianiche”. E aggiunge: “Noi siamo circondati da una schiera di parenti e amici partiti prima di noi, che hanno un certo potere di influenzare, e in certi casi persino di determinare, le azioni dei vivi”. Ora, è comprensibile che possa essere consolante per lui sentirsi accanto il fratello William, che gli aveva fatto da padre, o Herbert, per la morte del quale un po’ si sentiva responsabile, oppure il piccolo Herbert Spencer, il suo primogenito morto a sei anni: ma conoscendo i suoi articoli sulla selezione naturale vien rabbia a pensare che tanta intelligenza e acutezza possano essersi sprecate su simili argomenti. E tuttavia …

Tuttavia nel caso di Wallace ci sta; nel senso che è almeno spiegabile. Intanto c’è una motivazione “esterna”, quella che meno giustifica, ma che va comunque tenuta in considerazione: spiritismo, occultismo e paranormale sono molto di moda nel secondo Ottocento, soprattutto nell’Inghilterra vittoriana (e sono spiritisti addirittura i maggiori grandi rappresentanti del pragmatismo americano, William James e Charles Peirce). Questa potrebbe sembrare semmai un’aggravante – anche Darwin e Huxley vivono nell’Inghilterra vittoriana, ma di spiriti non vogliono sentir parlare – mentre in realtà rivela che Wallace è in fondo più moderno dei due granitici positivisti, perché è già permeato dallo spirito, appunto, del decadentismo. Il che non è un gran merito, almeno ai miei occhi, ma rivela una sensibilità più complessa.

C’è però dell’altro, e questo mi pare importante. A dispetto del campo delle sue ricerche e degli esiti di queste ultime Wallace non è mai stato un materialista convinto. La sua curiosità per lo spiritismo risale come abbiamo visto al periodo di Leicester, e già dai tempi dell’Amazzonia alcuni esperimenti di comunicazione mentale compiuti con gli indigeni, dei quali racconta nel suo diario, rivelano una concezione “psichica” dell’universo, l’idea che esista una dimensione ulteriore, nella quale gli spiriti degli uomini d’ogni tempo sopravvivono alla corruttibile materialità, e che costituisce una impalpabile e rassicurante rete comunicativa. Tutto questo parrebbe esulare dalla concezione evoluzionistica, ma per Wallace ne è invece il compimento: in sostanza, tutto il processo evolutivo, tutte le leggi che lo governano, sarebbero finalizzate al raggiungimento di questo stadio di perfezione. Non solo: è ipotizzabile, anzi, è certo che prima o poi anche tale dimensione immateriale possa essere indagata con gli stessi criteri di scientificità con i quali si è fatta luce sui meccanismi dell’evoluzione (non arriva a tempo a conoscere gli esiti filosofici della psicoanalisi, ma certamente lo avrebbero intrigato).

Ciò comporta naturalmente l’idea di una eccezionalità umana, di un destino speciale per la nostra specie. Antropocentrismo, si dirà. Fino ad un certo punto. Nella concezione di Wallace c’è spazio per tutti, con eguale dignità: “Pensai alle lunghe epoche del passato, durante le quali generazioni e generazioni di questa piccola creatura avevano f atto il loro corso, di anno in anno, nascendo, vivendo e morendo nel fitto di scure e tenebrose foreste, senza che nessun occhio intelligente ne osservasse lo splendore. A quanto pare un inutile spreco di bellezza. …. Tale considerazione ci porta inevitabilmente a negare l’assunto secondo il quale tutti gli esseri viventi furono fatti per l’uomo. … La loro felicità e i loro piaceri, i loro amori e odi, le loro lotte per la sopravvivenza … sembrano avere direttamente a che fare solo con il loro benessere individuale e la loro riproduzione.[30] D’altro canto tutti hanno la stessa origine: ma allo stesso modo in cui da una specie ne nasce un’altra, compiendo un salto qualitativo, può essere ipotizzato un salto qualitativo all’interno della specie stessa. E questo salto l’uomo, secondo Wallace, lo ha fatto. Scrive nella introduzione al saggio sui limiti della teoria della selezione: “Credo di aver provato che, non appena l’intelletto umano ebbe raggiunto un grado di sviluppo al di sopra di una soglia minima, il corpo dell’uomo avrebbe cessato di essere materialmente influenzato dalla selezione naturale, in quanto lo sviluppo delle sue facoltà mentali avrebbe reso inutili significative modifiche della sua forma e della sua struttura”. Non è un argomento banale.

D’altro canto, non è l’unico a sostenerlo: nello stesso periodo lo dice anche Marx (Engels ne è un po’ meno convinto) quando sostiene che per quanto concerne l’uomo ad un certo punto la storia naturale ha lasciato il posto a quella culturale. I modi e i percorsi che poi ne derivano sono per i due molto diversi, ma la finalità, in fondo, è la stessa: il progresso e il perfezionamento dell’uomo. Questo è il motore dell’eresia di Wallace: l’idea che tutta quell’immane vicenda di nascite e crescite ed estinzioni che lui stesso ha contribuito a chiarire debba aver uno scopo ben più nobile del puro perpetuarsi della vita. Non accetta le conseguenze di ciò che ha capito, e questo lo porta, visto che razionalmente non ci sono vie d’uscita, a buttarsi tra le braccia dell’irrazionale. È una debolezza, certo, ma è indotta da un entusiasmo persino eccessivo per ciò che lo ha appassionato, al punto di non consentirgli di accontentarsi del risultato.

 

Con l’articolo del 1858 Wallace sente di aver raggiunto solo uno scopo parziale, quello scientifico. Ha risposto alla domanda: come accade? Non è svuotato, ma al contrario di Darwin, che continua a girare attorno al suo edificio teorico e produrrà tutte le sue ulteriori opere a suffragio e completamento de L’Origine, non lo sente più come l’interesse prioritario. Probabilmente ha anche la coscienza di non possedere i mezzi per andare oltre nella spiegazione. Il suo contributo lo ha dato, agli altri (agli specialisti come Huxley e Hooker) sta ora il compito di portarlo avanti.

Non per questo abbandona l’idea di evoluzione. Semplicemente la sposta, dalla biologia allo studio dei comportamenti e dei problemi sociali. Entra nel campo davanti al quale la biologia si arresta. Si pone la domanda: perché?

La risposta che concepisce induce anche un cambio di atteggiamento per quanto concerne la presenza pubblica. Schivo e sin troppo modesto, Wallace è rimasto senza troppi problemi nell’ombra, sino a quando si è trattato di studiare la natura. Ora, dopo che il suo interesse si è trasferito decisamente sul problema della società umana, sente il dovere di esporsi pubblicamente, magari facendo valere le sue credenziali scientifiche: non certo per trarne qualche vantaggio o celebrità, ma per giovare alla causa dei suoi simili. Sempre più frequentemente quindi interviene nel dibattito pubblico, e non c’è causa sociale che non lo veda schierato.

Wallace non può essere ascritto ad alcun movimento politico specifico. Si professa apertamente socialista (“Sono assolutamente convinto che il socialismo non solo sia perfettamente attuabile, ma sia anche l’unica forma di società degna di uomini civili. Solo esso infatti può assicurare all’umanità un contino avanzamento intellettuale e morale ….”), ma il suo socialismo che non ha nulla a che vedere con il marxismo o con le altre varianti del progressismo riformatore o rivoluzionario: non prende spunto da Marx ma dai romanzi utopistici di Bellamy[31]. Sarebbe forse più corretto definirlo in negativo, come un anticapitalista. Il socialismo è per lui “l’organizzazione del lavoro per il bene di tutti”. “Che economia si avrà quando tutte le industrie di un intero paese saranno uniformemente strutturate per il bene comune, quando tutti gli impieghi assolutamente inutili o non necessari saranno aboliti – come le miniere d’oro o di diamanti, o come i nove decimi degli avvocati e di tutti i faccendieri e i giocatori di borsa? È chiaro che in un sistema così organizzato un lavoro di tre o quattro ore al giorno per cinque giorni la settimana, svolto da tutte le persone di età compresa tra i venti e i cinquant’anni, produrrebbe in abbondanza e per tutta la popolazione tutto il necessario per vivere in agiatezza, con tutte le raffinatezze e i sani piaceri della vita.” È una visione utopistica della società che discende direttamente, come abbiamo visto, dalla fiducia totale nella perfettibilità dell’uomo.

Wallace è anche un ecologista, fervido sostenitore ante-litteram del “piccolo è bello”. In un articolo contro l’adozione del libero scambio scritto nel 1879 preconizza i rischi di un mondo globalizzato. Lo fa alla sua maniera, immaginando piccole comunità semiautonome, quasi villaggi dei Puffi, localizzate in un territorio poco fertile ma ricco nel sottosuolo, i cui componenti “si godono l’aria pura e le bellezze del paesaggio, e una buona percentuale è impegnata in salutari lavori all’aria aperta”. Questo idillio è rovinato dalla scoperta che si possono acquistare i prodotti alimentari a prezzi più bassi dai vicini, mentre si possono sfruttare ed esportare le ricchezze minerarie, naturalmente sconvolgendo tutto il territorio. Wallace sembra raccontare una favoletta, mentre non fa altro che descrivere quanto è veramente accaduto nel corso dell’ultimo secolo nella sua Inghilterra, soprattutto nel suo Galles (fatta la debita tara ai “salutari lavori all’aria aperta”, che in genere erano più salutari di quelli in miniera o nelle industrie, ma non impedivano alla popolazione di morire di fame). È tra l’altro una favoletta che avrà un grosso successo in Germania (sarà una delle icone del nazismo), ed è in fondo la condizione di partenza (e di arrivo) della componente più pura e originaria dell’anarchismo. Ma è anche un modello che, nelle tenebre della crisi che ci illudiamo oggi di attraversare e che in realtà ci sta inghiottendo, torna con insistenza sempre maggiore a ripresentarsi, non più come sogno utopico, bensì come unica alternativa minimamente plausibile alla catastrofe (purtroppo, forse davvero solo immaginabile).

Nella terra ideale di Wallace non si parla però di comunismo o di proprietà collettiva dei mezzi di produzione: meno che mai di dittatura del proletariato. “La maggior parte delle persone rifiuta persino l’idea di socialismo perché pensa che una società socialista si possa instaurare solo con l’imposizione. Se così fosse ripugnerebbe anche a me. Infatti io credo nell’organizzazione volontaria per il bene comune: anzi, sono quasi sicuro che noi abbiamo bisogno di un periodo di sano individualismo – di competizione in condizioni di perfetta uguaglianza per sviluppare tutte le energie e tutte le nostre migliori qualità, così da predisporci a quella volontaria organizzazione che adotteremo con profitto quando saremo pronti, ma che non potrà esserci imposta con la forza, prima di allora”. Qui, al di là dell’ingenuità sulla perfetta uguaglianza, non si parla di rigettare la selezione naturale, ma di ripulire il terreno di gara per garantire una competizione leale e davvero mirata al perfezionamento. La condizione è che tutti abbiano pari opportunità di realizzare appieno le loro potenzialità: perché “senza pari opportunità per tutti non può esistere vero individualismo, nessuna leale competizione”.

Da buon naturalista Wallace pensa che il primo campo nel quale la competizione deve essere riformata sia quello della selezione sessuale. Il sistema capitalistico, creando differenze di classe, induce infatti le donne a scegliere sulla base della convenienza economica, lasciando da parte le spinte istintuali e spirituali. Questo inibisce il potere selettivo della natura, spingendole nelle braccia di uomini che non desiderano e che magari sono affetti da tare fisiche e morali trasmissibili. C’è un fondo di eugenetica nella visione di Wallace (apprezza molto i lavori sul “genio ereditario” di Francis Galton), mitigato dalla introduzione di fattori di scelta legati anche alla sintonia spirituale. L’idea di una selezione che agisse anche secondo criteri di scelta sessuali era stata avanzata da Darwin ne “L’origine dell’uomo”, ma in quel contesto era stata rifiuta da Wallace: non gli piaceva naturalmente il fatto che la scelta fosse pensata in termini di semplice egoismo riproduttivo, di puro istinto materiale. Ora invece rientra dalla finestra quando il tema è affrontato in termini sociali. Nella sua versione i “mariti più desiderabili” non sono solo quelli che danno migliori garanzie riproduttive, ma quelli che vengono liberamente scelti dalle donne secondo criteri estetico-spirituali: il che è possibile solo se le donne hanno le stesse opportunità economiche e sono emancipate dai secolari pregiudizi e vincoli che sono stati costruiti loro addosso.

Quindi il socialismo, come affermazione progressiva delle pari opportunità, naturalmente non solo di genere, ma per tutte le classi sociali, va inteso come strumento per consentire la migliore attuazione del processo evolutivo e come tappa fondamentale della “spiritualizzazione” di questo processo.

 

La sensibilità sociale di Wallace non si esaurisce comunque nelle teorizzazioni sulle pari opportunità e sul socialismo venturo. Si concretizza in un impegno continuativo e diretto nelle cause umanitarie più disparate: Wallace diventa presidente (beninteso, senza percepire senza alcun gettone) della Società per la nazionalizzazione delle terre, si occupa dei problemi della disoccupazione (che in qualche misura lo concernevano direttamente), milita nelle associazioni anticolonialistiche e nel movimento contro la vaccinazione antivaiolosa. Ha tempo per tutto e per tutti, e la cosa ancor più straordinaria è che non lo ruba alla famiglia o alle amicizie: ha capito perfettamente quali siano i veri valori, e questo gli consente di coltivarli armoniosamente.

La frase che ho posto in esergo mi aveva colpito non per una particolare originalità (un sacco di altri prima di lui hanno detto, e qualcuno anche pensato, la stessa cosa), ma perché si attagliava perfettamente al poco che sapevo del personaggio. Posso anzi dire che proprio quella frase è all’origine di questo schizzo biografico. È probabile che tale filosofia di vita sia stata trasmessa a Wallace dal padre, costretto a fare di necessità virtù, dal momento che di accumulare denaro, e nemmeno di tenersi quel poco che aveva, proprio non gli riusciva. O può essere stata elaborata dal figlio stesso, visto come andavano le cose al padre e forte poi delle esperienze proprie. Sta di fatto che Alfred Russel Wallace questa massima l’ha applicata per tutta la vita con perfetta coerenza, e che il paio di volte che ha provato a fare un’eccezione è stato subito ricondotto dalla sorte sulla retta via.[32] Anzi, ne ha esteso il significato facendo rientrare nel superfluo anche l’accumulo di onorificenze e di riconoscimenti. Il che non significa che gli spiacesse veder riconosciuti i suoi meriti, non sarebbe umano: semplicemente non si avviliva più di tanto quando questo non accadeva (e non accadeva quasi mai). Altri suoi colleghi, altrettanto e forse più sfortunati, ne fecero delle vere e proprie malattie, con tutte le ragioni di questo mondo: Wallace non cessò invece di pensare che in fondo andava bene così, che l’importante era il trionfo della scienza, e non quello dei suoi ministri.

Questo atteggiamento non gli rovinò il fegato, non gli compromise la digestione e non gli fece perdere il sonno, così che il nostro campò come Humboldt sino a novant’anni, e soprattutto ci arrivò perfettamente lucido e ancora proteso verso il futuro.A novant’anni era capace di saltare su una sedia o sul divano per raggiungere un libro riposto su un alto ripiano dello scaffale, o di muoversi svelto nello studio in cerca di un articolo che intendeva citare”. I suoi figli lo ricordano così, costantemente indaffarato a progettare parchi e giardini per le sue nuove case, ad apportare modifiche e migliorie, che magari non sempre riuscivano tali, ma appagavano la sua sete perenne di miglioramento, la sua volontà di partecipare in ogni modo al grande disegno di perfezionamento: in fondo procedeva come la natura, per tentativi, con lo scopo della perfezione. In questo era coadiuvato (e sotto l’aspetto pratico, pare, guidato) dalla moglie Annie, figlia non a caso di un illustre botanico, con la quale convisse felicemente, a dispetto ella differenza d’età, per quarantasette anni (Annie gli sopravvisse solo un anno). Appena era possibile li trascinava tutti, con qualsiasi tempo, in lunghissime passeggiate escursionistiche, a caccia di stupendi panorami o delle singolarità di un insetto o di una pianta; ed educava i figli ad ignorare le recinzioni e i divieti d’accesso che si moltiplicavano nella campagna inglese, in nome di un diritto universale a godere dei beni e delle bellezze della natura. Teneva libero nello studio uno strano lucertolone inviatogli dalla California da suo fratello John, andava pazzo per i nonsense e i giochi di parole di Lewis Carrol e li condivideva con i figli, amava cucinare ed era in grado di cavarsela egregiamente in ogni attività pratica, dalla costruzione di un muro al rammendo dei calzini e dei pantaloni.

Lo stesso atteggiamento positivo e propositivo Wallace lo trasferiva pari pari nell’impegno sociale, anche quando perorava le cause più strampalate, come quella dello spiritismo e del paranormale. Un vicino di casa (di una delle ultime case) scrive di lui: “Un’ardua lotta per una causa impopolare, meglio se del tutto impopolare, o qualunque argomento in favore di una tesi generalmente disprezzata, avevano per lui un fascino al quale non poteva resistere”. Il che non significa che fosse un bastian contrario. Wallace prendeva posizioni scomode su questioni che erano date per scontate, non curandosi del fatto che potessero rovinare la sua immagine di scienziato progressista, e spesso ne coglieva risvolti che sarebbero venuti poi alla luce solo molto più tardi, allo stesso modo delle sue intuizioni non ortodosse relative ai modi dell’evoluzione. Ne è un esempio la lunga battaglia condotta contro la vaccinazione antivaiolosa. Non sosteneva che questa fosse inutile, sosteneva che non fosse più utile nella seconda metà dell’Ottocento, quando il morbo si era quasi estinto, e il vaccino risultava più pericoloso della malattia stessa. E non affermava queste cose per partito preso, ma sulla scorta di cifre e di quadri statistici accuratissimi, mantenendo comunque sempre il massimo rispetto per le opinioni altrui (cosa che non sempre avveniva nei confronti delle sue). È comunque innegabile che molte delle sue “cause perse”, così come i caratteri recessivi di molti individui all’interno della specie, siano tornate a distanza di tempo a far rumore (la contestazione dei vaccini è più che mai attuale, e la battaglia di Wallace ha quanto meno contribuito a renderli più sicuri).

Questo personaggio, che a tutta prima, paragonato ai suoi illustri contemporanei e colleghi scienziati appare così ingenuo ed ottimista da sembrare persino un sempliciotto, che è curioso di tutto e di tutto si occupa in un’epoca che consacra la specializzazione, che è spesso in contraddizione con se stesso e quasi sempre con il suo tempo, che parla di spiriti nell’età incipiente del materialismo, che crede nella bontà intrinseca degli uomini mentre avvalora la legge della lotta per la sopravvivenza, che considera felici i “selvaggi” a dispetto della sua fede nel progresso, che immagina (e nel suo piccolo cerca di creare) oasi di ruralità mentre attorno trionfa l’industrializzazione, questo personaggio risulta, quando lo si conosce un po’ più in profondità, incredibilmente attuale, e persino ancora abbastanza scomodo da crearci qualche inquietudine, qualche dubbio. Non è un post-moderno, perché per lui i valori forti esistono eccome, anche se rispetta i modi e i credi altrui: piuttosto trascende ogni modernità, perché è un modello di uomo e di scienziato che apparentemente viene sconfitto in tutte le epoche, ma torna poi immancabilmente a riproporsi, per inocularci quel vaccino contro la paralizzante sfiducia nella natura umana del quale abbiamo costantemente bisogno.

 

Wallace si presta quindi benissimo a testimoniare la possibilità di una vita vissuta (nel suo caso è più che legittimo dire: paradossalmente) fuori dagli schemi che ci vogliono egoisti e competitivi. Il teorico dell’operato della selezione parrebbe la persona meno adatta alla sopravvivenza e all’agone riproduttivo, sia a quello biologico che a quello culturale: e invece risulta alla fin fine un vincitore, nell’uno e nell’altro campo. Come uomo appare pienamente realizzato. Un matrimonio felice, figli che lo adorano e gli rimangono accanto, una giovinezza all’insegna dell’avventura e una vecchiaia attiva e lucidissima sino all’ultimo istante, una vita intera dedicata a quel che più gli piaceva. Come scienziato, ha la tranquillizzante coscienza di aver fatto, e bene, la propria parte, a dispetto di condizioni di partenza sfavorevoli; e nutre anche la consolante speranza che il lavoro verrà portato avanti da altri, che il progresso delle conoscenze scientifiche non si arresterà.

Non credo abbia lasciato ai figli una consistente eredità, se non di affetti: ma ha senz’altro lasciato a noi un patrimonio di intuizioni che si rivelano oggi più che mai stimolanti e di conoscenze che hanno cambiato radicalmente il nostro modo di pensare: e più ancora, l’esempio di una vita spesa in ciò che davvero importa.

Direi che la cosa, soprattutto oggi, merita più di una riflessione.

L'importante è non nascere adatti Wallace (1)

Bibliografia 

Ecco alcuni riferimenti per chi volesse approfondire la conoscenza di Wallace.

BARSANTI, G. – Una lunga pazienza cieca – Einaudi 2005

CONNIFF, R. – Cacciatori di specie – Le Scienze 2012

DESMOND, A. – MOORE, J. – Darwin – Boringhieri 2009

FOCHER, F. – L’uomo che gettò nel panico Darwin – Boringhieri 2006

GREENE, J. C. – La morte di Adamo – Feltrinelli, 1971

PIEVANI, T. – La teoria dell’evoluzione – Il Mulino 2006

PIEVANI, T. – In difesa di Darwin– Bompiani 2007

WITHE, T. – Cacciatori di piante – Rizzoli

VON HAGEN, V. – Scienziati–esploratori nell’America Meridionale – Rizzoli

Non esiste una traduzione italiana dei suoi diversi scritti, tranne che di quelli sullo spiritismo, scaricabili da LiberLiber.

Esistono invece diverse recenti biografie in inglese:

JOHN G. WILSON – The Forgotten Naturalist: In Search of Alfred Russel Wallace – Australian Scholarly Publishing Pty Ltd, 2000

PETER RABY – Alfred Russel Wallace: A Life – Princeton University Press, 2001

JANE CAMERINI – The Alfred Russel Wallace Reader: A Selection of Writings from the Field – The Johns Hopkins University Press, 2002

 

 

[1] In Inghilterra sono in questo periodo in piena espansione le enclosures ed è stato rivoluzionato il regime degli affitti terrieri, per cui un incredibile numero di giovanotti inglesi di media condizione e di una qualche istruzione si trova nella prima metà dell’Ottocento a sbarcare il lunario con questo mestiere.

[2] Vestiges of the Natural History of Creation uscì anonimo. Solo nel 1871, e solo dopo che erano state fatte le più svariate ipotesi, si conobbe la vera identità dell’autore, Robert Chambers, un estroso editore e divulgatore scientifico. Nel frattempo Chambers era morto.

[3] Nel corso della sua campagna amazzonica, che dura undici anni, Bates raccoglierà e spedirà in Inghilterra quasi quindicimila esemplari, la metà dei quali appartenenti a specie sconosciute. Ha anche notevoli intuizioni, soprattutto per quanto concerne l’adattamento di alcune specie, e afferma: “La natura scrive su una tavoletta la storia delle modificazioni della specie”. Questo molto prima della comparsa del libro fondamentale di Darwin. Lo stesso Darwin lo stimolerà poi a scrivere un diario-saggio, Un naturalista sul rio delle Amazzoni, che rimarrà a lungo la migliore descrizione esistente dell’Amazzonia. Dalle sue esperienze non trarrà però alla fine alcuna conclusione teorica: anche perché al ritorno in patria, fisicamente spossato dalle privazioni (le malelingue dicono anche dalla frequentazione delle giovani indigene) e psicologicamente prostrato dai lunghi periodi di semi-solitudine trascorsi in mezzo agli indios, abbandona la ricerca scientifica attiva. A trentaquattro anni ottiene un modesto impiego alla Royal Geografic Society, e si eclissa. Gli rimane addosso una struggente nostalgia dell’Amazzonia: “…lunghi crepuscoli grigi …le ciminiere delle industrie e le folle di operai sporchi che di primo mattino si affrettano a correre al lavoro … preoccupazioni artificiose, convenzioni sociali schiavizzanti. Tornavo in mezzo a questo mondo opaco, lasciando un paese dall’estate perenne” (e soprattutto le ragazze indigene sempre sorridenti).

[4] È sintomatica la posizione assunta da Jeremy Bentham, nella sua “Introduzione ai principi della morale e della legislazione”, dove afferma che degli animali non dovremmo chiederci se sanno parlare o ragionare, ma se possono soffrire.

[5] Si pensi a vicende come quelle dei tulipani, dei gigli e delle dalie, o del thé, per rimanere nel campo della botanica, e a quella dei bachi da seta e di specie rare di uccelli per la zoologia.

[6] Prima di lui avevano raccolto piante nella zona La Condamine, Humboldt e Bompland, i loro emuli von Martius e von Spix, Edward Popping e Francois de Castelnau. Nessuno però aveva intrapreso un lavoro sistematico quale quello che sarà portato a termine da Spruce.

[7] I due rimarranno amici per tutta la vita, e alla morte di Spruce sarà Wallace a curare l’edizione dei suoi diari.

[8] Una rapida e limitatissima ricerca mi ha indotto a pensare che esista una diretta relazione tra le affezioni tipiche dell’emisfero boreale e la resistenza ai climi tropicali. Forse gli anticorpi poco efficaci per le prime, ma comunque attivati, si rivelano invece efficientissimi rispetto alle malattie indotte dai secondi

[9] La “biogeografia” ha dei padri nobili: il modello potrebbe essere individuato nello studio della distribuzione delle piante già portato avanti da Humboldt. Lo specifico delle diversità biologiche viste in rapporto alla loro distribuzione erta stato anticipato invece da Geoffroy Saint-Hilaire.

[10] A. R. WALLACE –My lif.e. A record of Events and Opinions- Londra 1905

[11] Questa storia (anzi, entrambe le storie, perché anche Darwin ha un approccio alla scienza tutt’altro che specialistico) conferma che le grandi intuizioni non scaturiscono mai dagli specialisti, troppo chiusi nel loro orticello, gelosi delle interferenze e impermeabili alle suggestioni provenienti da altri campi. Si potrebbe parlare di una sorta di divisione del lavoro: ci sono quelli che portano i semi delle idee, e li raccolgono perché viaggiano in spazi più ampi (in questo caso, sia metaforicamente che concretamente), e quelli che poi li piantano e li coltivano nelle serre dei laboratori. Alla prima schiera appartengono, almeno fino alla metà dell’ottocento, i grandi savants enciclopedici, gente come Humboldt o Goethe, destinati nella seconda metà del secolo ad essere soppiantati dalla specializzazione positivistica. E tuttavia i savants non sono scomparsi senza eredi: il modello, se non quello di un sapere enciclopedico almeno quello di una conoscenza “trasversale”, si sta riaffermando oggi, proprio in virtù delle nuove tecnologie dell’informazione, che permettono un accesso velocissimo a conoscenze un tempo riservate a pochi. C’entra anche comunque la constatazione che la specializzazione estrema conduce a strade senza sbocco.

[12]dall’acqua e dalla Terra riscaldate nacquero pesci o animali simili; entro di loro si generarono feti umani che crebbero fino alla pubertà; poi, spezzate le loro membrane, ne uscirono uomini e donne che erano ormai in grado di nutrirsi autonomamente». Censorino, De die natali, 4, 7

[13] Thomas Burnet,

[14] James Hutton, Theory of the eart (1788)

[15] Nicolai Stenonis, Elementorum myologiae specimen, seu museuli descriptio geometrica (1667)

[16] Benoit de Maillet, Telleamed (1748, ma scritto nel 1715)

[17] Pierre–Louis de Maupertuis Vénus Phisique, 1745)

[18] George-Louis Leclerc de Buffon, Histoire naturelle

[19] Denis Diderot, Le reve de d’Alambert, (1769)

[20]Erasmus Darwin, The botanic Garden (1789)

[21] Jean-Baptiste Lamark, Philosophie zoologique (1809)

[22] Charles Lyell, Principles of geology, 1833. La lettura di quest’opera fu importante per Wallace quanto lo era stata per Darwin

[23] Robert Chambers, Vestiges of the natural history of creation, 1844. Il libro ebbe un’enorme importanza per il successo di pubblico che ottenne, essendo scritto in una forma facile e divulgativa. A dispetto della fragilità delle spiegazioni, ebbe il merito di far circolare l’idea di evoluzione presso il grande pubblico. Anche Chambers prese lo spunto per le sue idee dalla lettuira di Lyell.

[24] Herbert Spencer, First Principles (1862)

[25] Biologo, coetaneo di Wallace, diverrà il più convinto assertore della causa evoluzionista. È lui a sostenere, in rappresentanza del riluttante Darwin, il famoso dibattito di Oxford con il vescovo Wilberforce.

[26] Dal discorso pronunciato da Wallace in occasione del cinquantesimo anniversario della lettura congiunta, presso la Linnean Society, nel luglio del 1908

[27] My Life.

[28] A. R. Wallace – The Malay Archipelago, the Land of the Orang-utan and the Bird of Paradise; a Narrative of Travels with Studies of Man and Nature – Londra 1869

[29] Gli sudi e le posizioni dei poligenisti, che affermano una differenziazione razziale ab origine, sono finanziati dalla lobby schiavista, ma trovano molti sostenitori anche al nord. Il più famoso degli scienziati poligenisti è Agassiz, ma la maggior messe di dati fu fornita dai “misuratori di crani”, come Samuel George Morton.

[30] The Malay Archipelago (1869)

[31] Edward Bellamy, Nell’anno duemila (1882) ed Equality (1886)

[32] È emblematico l’episodio della scommessa. Wallace vinse una scommessa di 500 sterline con un ricco (ed evidentemente molto ignorante) aristocratico che sosteneva che la terra fosse piatta, dimostrandogli il contrario. Ci mise dieci anni a riscuoterla, e alla fine si era mangiata in spese legali una cifra molto superiore a quella riscossa.

 

 

Darwin disperso sulla Colma

di Paolo Repetto, 1975 e 2010

Più di quaranta anni fa (mi pare fosse il sessantasette o il sessantotto) i boschi che coprono la schiena del monte Colma conobbero una breve ed improvvisa celebrità. Nel decennio precedente il boom e la fuga verso la città li avevano completamente spopolati, riportandoli alla condizione medioevale di selva oscura. Poi, di colpo, quell’estate cominciarono ad affluire gruppi di ragazzi e ragazze giovanissimi, che occupavano i cascinali deserti, praticavano un convinto naturismo e sperimentavano i primi acidi, d’importazione o fatti in casa, aprendo la strada alla strinatura cerebrale di un’intera generazione. Quella torma di sbandati sarebbe poi stata raccontata nelle immancabili rievocazioni anniversarie come la più grande comune hippie italiana.

Io ricordo solo una massa di cittadini sprovveduti, che dopo qualche settimana erano inebetiti dalla fame più che dai fumi e straparlavano di ritorno alla terra e alla natura senza saper distinguere una pigna da un carciofo. In una delle cascine seminarono il quintale di patate che avevo procurato loro di sfrodo in un fazzoletto di terra sassosa lungo il fiume, che non ne avrebbe potuti ricevere dieci chili e non ne avrebbe restituiti nemmeno cinque (ma il problema non si pose, perché per fortuna le disseppellirono pochi giorni dopo per mangiarle). La comune fu dissolta in un batter d’occhio dai primi freddi di metà ottobre e dai carabinieri sguinzagliati dalle famiglie. Delle quasi settecento persone che si erano insediate nella valle del Piota rimasero solo una dozzina di irriducibili: ma questa è una storia, tra l’altro anche avventurosa, che merita di essere raccontata a parte.

L’aneddoto da cui intendo prendere le mosse si riferisce invece all’antefatto. Quell’invasione ebbe infatti le sue avanguardie, piccoli gruppi pittoreschi che erano comparsi l’estate precedente, suscitando perplessità e inquietudine in paese. Avendo già letto Kerouack, ed essendo curioso per natura di ogni esperienza “alternativa”, non potevo non farmi coinvolgere: finì quindi che mi trovai una sera di settembre a cenare, assieme ad un paio di amici, con i componenti del nucleo originario, se non erro alla cascina Binella. Cenare è un eufemismo, perché mangiammo quel poco di pane e di salame che uno dei miei soci aveva sottratto in casa, e bevemmo il vino che avevo portato io. In compenso ci offrirono il thè, dentro vecchi barattoli da conserva che a quanto pare costituivano le uniche stoviglie in dotazione, ma non per questo erano tenute e lavate con particolare cura.

Si trattava di quattro ragazzi e tre ragazze; si spacciarono per appartenenti ad una formazione musicale che faceva capo a Mario Schifano. O forse ricordo male, forse era un gruppo di artisti, perché non mi risulta che Schifano fosse anche musicista. Comunque, poco importa: io avevo giusto vent’anni, dell’arte mi fregava poco (non sapevo affatto chi fosse Schifano) ed ero intrigato invece dalle implicazioni o complicazioni sessuali della vita di comunità: finii dunque per far scivolare il discorso sulle combinazioni relazionali interne al gruppo. Il primo ragazzo mi disse che stava con la ragazza x, il secondo con la ragazza y e il terzo con la ragazza z. Mi rivolsi allora con un po’ d’imbarazzo all’ultimo, il quale mi confidò, serafico: io studio filosofia indiana.

La risposta mi mise in agitazione. In quel periodo ero iscritto a Lettere, con pencolamenti verso Filosofia, ma più ancora verso un qualsiasi lavoro che mi consentisse di sbarcare il lunario. Inoltre, a dispetto di un innegabile impegno la mia educazione sentimentale lasciava molto a desiderare: ero un romanticone immaturo, di quelli che aspirano all’infinito e incontrano sempre cose, e non avevo neppure la consolazione della sapienza orientale. Quella serata non fece che consolidare la personalissima interpretazione delle matrici della cultura che stavo elaborando e che mi ha poi accompagnato a lungo, nella quale applicavo confusamente il poco di Freud e il quasi nulla di Darwin che avevo letto per dovere, senza affatto digerirli, alle altrettanto confuse esperienze di competizione maturate nel gioco dello struscio paesano, nelle sale da ballo o nelle aule scolastiche.

La teoria era molto semplice: in sostanza, pensavo, la cultura è un frutto spurio dell’evoluzione naturale, il prodotto della sublimazione di chi viene escluso dal gioco sessual-riproduttivo. Postulavo l’esistenza di due percorsi distinti nella storia della specie umana, uno naturale-riproduttivo, l’altro innaturale-creativo. Del primo vedevo protagonisti gli individui che possiedono doti più spiccate di prepotenza, di affermazione di sé, di capacità di spettacolarizzarsi, ecc… : quelli che secondo parametri etici dovremmo definire pessimi. Il secondo raccoglieva i timidi, gli schivi, quelli dotati di sensibilità più acuta, che creano disturbo con la loro sola esistenza perché incarnano la possibilità di un modello umano diverso. Costoro avevano ben poche chanches nell’agone sessuale (che io preferivo leggere come “sentimentale”) a dispetto di un potenziale affettivo enorme: e finivano per riversare questa energia, sotto forme diverse di cultura, sull’umanità intera. Tra l’altro, questo spiegava anche molto bene il superiore apporto culturale degli omosessuali, che si autoescludono dal primo percorso.

Magari, pensavo, non tutta la cultura è prodotta dagli esclusi, così come non tutti gli esclusi producono cultura, e l’esclusione non è condizione né necessaria né sufficiente: ma le eccezioni mi sembravano pochine, se guardavo al significato “alto” del termine. Vuoi per scelta, vuoi per costrizione, di norma coloro che avevano dato un grosso contributo culturale non avevano conosciuto un altrettale successo riproduttivo. Va tenuto presente che i miei riferimenti ideali erano all’epoca (e per tanti versi sono rimasti) Leopardi, Spinoza, ed Evariste Galois, tutta gente che per un motivo o per l’altro non ha diffuso geni, ma conoscenza.

Il fatto che ciò nonostante, nonostante cioè prevalga la trasmissione dei geni dei più incolti, la cultura abbia continuato ad esistere, e ad evolversi, favorendo nel contempo le condizioni di successo riproduttivo dell’intera specie, lo spiegavo col ripetersi in ogni generazione del medesimo fenomeno di esclusione dalla competizione riproduttiva dei più miti e dei più sensibili, ai quali non era stato difficile sintonizzarsi sulla sensibilità dei colti precedenti e continuarne l’opera. Inoltre nelle società del passato, sino agli albori dell’era contemporanea, la cultura aveva escogitato un suo stratagemma di regolazione, che bene o male assicurava un certo margine di potenzialità riproduttiva anche ai “miti”. Questo stratagemma era costituito dalla consuetudine contrattuale del matrimonio, dall’usanza diffusa nella maggior parte delle società di combinare matrimoni a tavolino, già al momento della nascita dei futuri coniugi. Ciò aveva messo fuori gioco, almeno in parte, i fattori di “prepotenza genetica” di cui sopra, e assicurato in qualche modo un equilibrio, all’interno del quale anche coloro che sarebbero rimasti esclusi in un gioco normale finivano per avere delle chances. Anziché rivelarsi negativo, questo correttivo della tendenza naturale aveva garantito una maggiore varietà nei caratteri genetici delle successive generazioni.

Con l’introduzione del libero mercato matrimoniale, della scelta cioè sulla base della pura attrazione individuale, l’equilibrio era stato decisamente sconvolto. I miti, i timidi, gli alieni dalla spettacolarizzazione di sé erano stati esclusi automaticamente dalla corsa riproduttiva e nessun meccanismo correttivo poteva più rimetterli in gioco. Un grandissimo patrimonio genetico di bontà, di serietà, di intelligenza veniva disperso, sacrificato alla legge della discoteca. I peggiori, i più villani, gli ignoranti potevano prevalere e trasmettere geni negativi, destinati ad incattivirsi ulteriormente nell’agone riproduttivo aperto. Nel giro di due o tre generazioni la percentuale degli idioti era andata visibilmente aumentando, e aveva imposto modelli sociali e culturali che sempre più spostavano a margine la razionalità, la tolleranza, la mitezza. La crescita appariva esponenziale, e nulla lasciava presagire che potesse un giorno fermarsi. Tutto questo lo interpretavo come una vendetta della natura, o meglio, come un intervento riequilibratore; la natura che correggeva un errore commesso nella selezione, qualche milione di anni fa, quando aveva consentita la crescita e la perpetuazione di un animale intelligente.

Mi sembra doveroso precisare, prima di procedere oltre, che la mia teoria raccontava solo in parte di me. A vent’anni avevo già vinta, almeno in superficie, la timidezza innata, mi ero forgiato una discreta faccia tosta e avevo spalle abbastanza larghe da permettermi di non subire prepotenze da nessuno: non mi stavo costruendo una filosofia ad personam, e solidarizzavo con Leopardi non perché lo sentissi come un compagno di sventura, ma perché ne ammiravo il coraggio di guardare dritta in faccia la verità. Semmai la mia solidarietà andava a tutti coloro che sapevo, perché c’ero passato vicino, vivere una ricchissima vita interiore ed essere poco o niente considerati esteriormente. Da Saffo al giovane Holden, tutta la letteratura di cui ero imbevuto raccontava la stessa storia.

C’era poi anche un’altra motivazione, questa si personalissima: sapevo che il matrimonio dei miei nonni materni era stato combinato, come quasi tutti nel mondo contadino fino a metà novecento, e mi chiedevo quali chanches avrebbe avuto diversamente mio nonno, che era un uomo buono ed estremamente schivo: con ogni probabilità non sarei mai nato.

Devo confessare infine che tutto ciò che avete letto sin qui l’ho ripreso pari pari da un pezzo buttato giù in epoca molto vicina ai fatti raccontati. Per questo ho ancora così chiare le mie convinzioni di quel tempo. Ho solo coniugato i verbi al passato, il che non significa prendere le distanze, ma “storicizzare”.

Ci torno su infatti, a un quarto di secolo di distanza, perché mi accorgo che malgrado abbia risciacquato le idee nel darwinismo ortodosso e nel neo-darwinismo, qualcosa di quella interpretazione mi è rimasto appiccicato. Sarà che i modelli hanno continuato ad essere gli stessi o quasi, e che distinguo tra l’ “altruismo culturale” e la genialità, che è invece quasi sempre legata ad un egoismo feroce: sta di fatto che continuo a pensare che la cultura vera sia quella creata dagli “esclusi” (o almeno dagli “autoesclusi”, da chi non si esibisce nel circo mediatico), da chi lavora nell’ombra e si sforza di mantenere moralmente pulito e vivibile quel pezzettino di mondo che gli è toccato di abitare. Penso di poter dire che è cambiato l’ordine dei fattori, e forse il tipo stesso di operazione, ma il prodotto finale è rimasto grosso modo lo stesso.

Vediamo dunque di ricostruirlo quest’ordine. Ci sono tre aspetti in particolare della teoria evoluzionistica che contrastano con i miei assunti giovanili. Uno è darwiniano doc, e concerne i modi della selezione sessuale. L’altro riguarda il problema dell’altruismo, ed è darwiniano solo a livello di intuizione. L’ultimo è uno sviluppo più recente della teoria, e riguarda l’interpretazione della cultura come “coda di pavone”, strategia competitiva ai fini della riproduzione.

La teoria espressa ne “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale” provocò a suo tempo (nel 1872) un enorme scandalo, superiore anche a quello creato da “L’origine della specie”. Lo stesso Darwin ebbe molte titubanze ad enunciarla, ma poi, in nome di quel rigore intellettuale che ne ha contraddistinto tutta la vita e l’opera, decise di uscire allo scoperto. In pratica, ponendosi il problema del persistere di caratteri che non paiono affatto adattivi, nel senso che risultano addirittura un ostacolo nella lotta per la sopravvivenza (la famosa coda del pavone, che era diventata quasi un’ossessione. Diceva: “La vista di una piuma della coda di un pavone, ogni volta che la guardo, mi fa star male”), Darwin spostò l’attenzione da quest’ultima alla competizione riproduttiva. Pur senza avere alcuna idea della trasmissione genetica, intuì che la selezione non va interpretata in termini di successo individuale, ma di continuità della specie. Gli individui non competono semplicemente per sopravvivere, per esercitare il potere, per affermarsi economicamente. Fanno tutto questo per assicurare spazio alla propria discendenza. Un maggiore successo riproduttivo garantisce una maggiore diffusione dei propri caratteri: e se questi sono “evolutivi”, garantisce la continuità e il successo della intera specie. Fin qui a dire il vero c’ero arrivato; non fosse che, per come la pensavo io, il successo arride in realtà ai peggiori, e quindi l’evoluzione si ha a dispetto di questo tipo di selezione.

Le cose però – avrebbe ribattuto Darwin – non stanno proprio così. In primo luogo che siano i peggiori lo diciamo noi, in base a nostre personalissime scale di valori: e se anche utilizzassimo un criterio universalmente condiviso dagli umani (cosa che non è), sempre di una scala umana si tratterebbe, e non naturale. Ma su questo torneremo. In secondo luogo, quando si parla di sopravvivenza del più adatto, concetto che peraltro Darwin non ha mai formulato, almeno in questi termini, non ci si riferisce all’esito di una guerra aperta ed esplicita di tutti contro tutti. Il successo riproduttivo è senz’altro legato alla prestanza fisica: ma questo non significa che il ruolo attivo sia assegnato ai maschi che riescono ad imporsi ai rivali con la violenza (il maschio dominante della gran parte dei gruppi di mammiferi, dai gorilla ai lupi) o comunque con la prestanza fisica (quello dal piumaggio o dai colori più brillanti e quello da discoteca del sabato sera): il maschio lotta o si esibisce, ma la scelta è operata dalle femmine, ed è motivata da ragioni solo apparentemente “estetiche”.

È questo il vero nodo, e non a caso fu questo tra i lettori di Darwin il vero motivo di scandalo: l’idea che sia il gentil sesso a condurre il gioco, e che le sue scelte vengano effettuate sulla base non delle pure apparenze, ma di solidi criteri pratici. In pratica, la coda del pavone non lo agevola certamente quando deve sfuggire alla volpe; ma l’individuo dotato di una coda vistosa e capace malgrado questo di arrivare sino all’età riproduttiva dimostra di non essere uno sprovveduto, e garantisce quindi geni robusti e intelligenti alla prole. Questi criteri pratici che guidano la scelta femminile si ricollegano, sia chiaro, alla scala naturale dei valori, e non a quella culturale. Ma solo sino ad un certo punto, come vedremo.

Tutto ciò sferra un primo huppercut alla mia teoria, anche se ancora non la manda al tappeto. In fondo sempre di esibizionismo, attivo o passivo, si parla, e anche ammettendo che si tratti di una competizione naturale, nella quale i valori morali non c’entrano, come si spiega che possa esserci stato un qualsivoglia avanzamento proprio nel campo etico, se l’etica non è evolutivamente remunerativa?

All’epoca non avevo presente che Darwin, da bravo inglese, aveva letto Hobbes. Anzi, a dire il vero non avevo proprio in mente Hobbes, perché da buon liceale italiano avevo studiato solo la formuletta dell’homo homini lupus, e non avevo collegato. Adesso che Hobbes l’ho letto capisco invece da dove arriva la teoria darwiniana.

Gli uomini, dice Hobbes, saranno anche lupi, ma non sono cretini: e quando capiscono che a viver come lupi, cioè secondo la pura legge naturale, non c’è una gran convenienza (e lo capiscono proprio perché chi più chi meno “evolvono”, si differenziano dagli animali, si umanizzano, cioè producono cultura) preferiscono sacrificare un po’ della loro libertà ad una condizione di maggiore sicurezza, diciamo di giustizia. Sviluppano un ethos “sociale”, ovvero “altruistico”, che si contrappone o si sovrappone all’istinto naturale. Questo è quanto dice Hobbes, sulla base naturalmente di un approccio solo meccanicistico. Alla sua epoca era impossibile andare più in là.

Con la teoria della selezione naturale Darwin accetta in sostanza la visione di Hobbes, ma risale più addietro, a prima dello sviluppo di quelle facoltà logiche sulle quali può fondarsi una presunta eticità (Darwin la chiama “moralità”, perché la considera come una funzione di gruppo, piuttosto che individuale). Considera i comportamenti cooperativi come frutto di un “istinto sociale” che non appartiene originariamente alla specie, ma si acquisisce attraverso la selezione naturale, e si diffonde a livello di comunità. La cooperazione produce un vantaggio per il gruppo, quest’ultimo risulta più attrezzato alla sopravvivenza rispetto ad altri nei quali non si coopera. La selezione naturale fa il suo corso.

Questo per quanto concerne la competizione tra gruppi: ma all’interno del gruppo, la domanda gli si pone negli stessi termini in cui me la ponevo io, alla cascina sulla Colma o nella biblioteca universitaria, quando non trovavo il coraggio di agganciare una ragazza che mi interessava. Se gli individui più generosi, proprio perché altruisti, si riproducono meno, com’è che la selezione non spazza via il carattere cooperativo?

Darwin in realtà una risposta a questa domanda non la fornisce, e preferisce insistere sull’“istinto sociale”. Tentativi di spiegazione sono invece stati avanzati nel secolo scorso, applicando la genetica dei comportamenti e quella delle popolazioni. In pratica oggi la soluzione più accreditata è quella fornita dai genetisti della “grande sintesi”: l’altruismo è un allele, il risultato di una mutazione genetica, che si diffonde perché la perdita di competitività riproduttiva individuale è largamente compensata a livello di gruppo. Del gruppo parentale, naturalmente; anche se poi, al sesto grado, siamo tutti parenti.

Darwin e i suoi innumerevoli esegeti ritengono insomma che per qualsiasi specie l’assunzione di un comportamento “cooperativo” sia remunerativa, e che quindi lo sia anche per la nostra già al momento dell’ominazione; anzi, lo è da prima ancora della speciazione che ci stacca dai nostri cugini antropomorfi e tanto più lo diventa nella fase successiva, quella dell’elaborazione di “attitudini culturali”, che si possono riassumere nella capacità di insegnare e di imparare.

Dove ci porta tutto questo? Intanto al fatto che la “progressione etica”, se così vogliamo chiamarla, c’è per via di questo modo di selezione e non, come ritenevo io, a suo dispetto: e poi al fatto appunto che non di un miglioramento (che ha in sé una valenza qualitativa), ma di una progressione (che ha una valenza solo quantitativa) si tratta. Per quanto riguarda inoltre la scelta sessuale operata dal sesso “debole”, il criterio sul quale questa scelta si basa non è soltanto quello della trasmissione di “buoni geni”, ma anche quello della loro salvaguardia: cioè della garanzia di una cura parentale, ergo di un atteggiamento altruistico-cooperativo da parte del maschio.

In sostanza, non sono poi quelli più bulli ad essere scelti, ma quelli che offrono migliori garanzie di saper poi proteggere un investimento riproduttivo che per la femmina ha limiti ben più stretti e costi ben più alti che per un maschio. Queste “garanzie” per le altre specie animali possono essere fornite dal controllo di un territorio di caccia, da una attitudine alla monogamia, ecc: per la nostra vengono in genere esibite attraverso il successo economico, il potere, ecc… Ma possono anche trovare altre strade. E qui entra in scena il terzo elemento di critica alla mia teoria.

Una ventina d’anni fa le interpretazioni relative alle strategie riproduttive e ai criteri di scelta femminile cominciarono a moltiplicarsi. In sostanza, si estendeva il concetto di strategia riproduttiva dalle armi naturali a quelle culturali. Oggi sembra persino banale, ma prima degli anni ottanta non lo era affatto (e questo almeno in parte giustifica la rozzezza della mia interpretazione). È stato necessario liberarsi dell’indigestione di Freud per poter rileggere a mente sgombra Darwin. Freud in fondo dava ragione a me: la cultura è libido repressa e incanalata al di fuori della lotta, della competizione. E invece, è esattamente l’opposto. Oggi biologi, psicologi e paleontologi ribaltano il rapporto e dimostrano che la cultura, in una prospettiva evolutiva, può essere considerata una mutazione come un’altra, uno strumento volto prioritariamente ad acquisire vantaggi nell’agone riproduttivo: in qualunque forma si manifesti e si concretizzi, da quella economica a quella politica a quella religiosa, da quella letteraria a quella artistica. Anche in queste ultime due espressioni, in quella declinazione “umanistica” che parrebbe la più lontana da finalità utilitaristiche (e che ha sempre rivendicata una sua speciale “purezza”), la cultura è una particolare coda di pavone, che al contrario di quella originale non comporta un handicap per la sopravvivenza, ma solo vantaggi. Naturalmente, trattandosi di una mutazione molto particolare ha finito per autonomizzarsi, per emanciparsi dai meccanismi di selezione naturale e creare un suo sistema autoconservativo che risponde ad altri criteri che non quelli della selezione. Ed è questa la parte che rimane in vista, come negli iceberg: quella che risponde al dettame naturale non la vediamo, la diamo in qualche modo per scontata o la rinneghiamo.

Di nuovo, questo dove ci porta? Ci porta a prendere atto da un lato che la spettacolarizzazione non è solo quella del modello da discoteca, e che la prepotenza genetica può essere esercitata anche attraverso armi non fisiche. Quindi che la cultura non è prodotta solo dagli esclusi, ma anzi, è prodotta dai competitori. E non è detto che sia volta al “miglioramento” collettivo: magari questo miglioramento c’è stato, e non mi sembra il caso di negare che quanto ad aspettativa di vita dei singoli e a condizioni generali le cose vadano meglio per noi che per i Cro-Magnon. Ma anche questa è una nostra percezione, voglio dire una percezione “culturale”, e soprattutto è una percezione della porzione occidentale, minoritaria, dell’umanità. Per i bambini del Darfour l’aspettativa di vita è forse minore che per i loro antenati di trentamila anni fa.

Dall’altro lato, questa cultura bene o male qualcosa di particolare, rispetto alla nostra specie, lo ha fatto. L’impressione è però che oggi stia ristagnando: che la spettacolarizzazione da discoteca stia prevalendo su quella magari da palcoscenico, ma comunque sorretta da qualche abilità. A dispetto degli stupefacenti successi della scienza e delle strabilianti innovazioni tecnologiche, si direbbe che sia in corso un imbarbarimento di ritorno. Ragion per cui qualche ragione l’avevo anch’io, quando pensavo che fosse in atto un processo reversivo di rincoglionimento generale, e che andassero difesi alcuni “correttivi” culturali.

Al di là della puntualizzazione sui meccanismi della selezione naturale, rispetto ai quali comunque la confusione, non solo mia, è ancora grande, qualcosa credo di aver imparato davvero in questi venticinque anni. Credo di aver capito che non era un problema di risposte sbagliate che mi davo, ma di domande sbagliate che mi ponevo. La mia domanda “perché sono i peggiori a prevalere?” in effetti non aveva senso. In natura non ci sono peggiori: ci sono adatti e meno adatti, e anche i primi non ci mettono molto a passare nel numero dei secondi. Non c’è uno scopo, una finalità che retrospettivamente spieghi e giustifichi tutto: queste sono interpretazioni religiose, il male necessario del cristianesimo, o teleologie laiche, le astuzie della storia di Hegel, con tutto quello che ne consegue in termini di giustificazione delle brutalità e delle sofferenze della storia. No, in natura non c’è finalità, quindi non c’è alcuna giustificazione che tenga. C’è solo cambiamento, mutazione. È vera però senz’altro la faccenda dello sbaglio, almeno sul breve termine: la natura ha consentito lo scatenamento di un meccanismo, quello culturale, che apparentemente sfugge al suo controllo, si sottrae. Ma ripeto, questo avviene solo sul breve termine, in rapporto ai tempi nostri. La natura ha altri tempi, anzi, in natura il tempo non esiste.

E questo sembrerebbe liquidare il problema: siamo noi a presumere, in base a parametri “culturali” e non naturali, che le cose debbano andare in una certa direzione, e ad incavolarci se poi non vanno così. È sbagliata la nostra prospettiva.

Ma, una volta capito questo, non è che almeno sul breve termine possiamo decidere di sforzarci perché vadano davvero come vorremmo? Non è che anche sapendo che si tratta di una domanda sbagliata dobbiamo comunque assumerci la responsabilità di quell’incredibile potenziale che per qualche gioco del caso ci è capitato addosso?

Per questo dicevo che qualcosa di quei convincimenti giovanili resiste. Ho fatto un giro molto largo, mi sono dato spiegazioni diverse, molto più serie e con qualche base scientifica, e sono arrivato alla conclusione che è stupido addossare responsabilità alla natura per qualcosa che non ha che fare con scelte o fini. Sono arrivato esattamente alle conclusioni dell’islandese delle Operette Morali, ovvero là da dove ero partito. Ma con una diversa serenità. Non è un problema se le cose non vanno come vorrei, ma ho la responsabilità, nei confronti miei, degli altri, di sforzarmi comunque perché vadano per il meglio: per me, per il mio prossimo, ovvero per i miei contemporanei, per la specie, ovvero per coloro che verranno. E per coloro che prima di me ci hanno creduto, e hanno creato le condizioni perché anch’io potessi capire e crederci.

Quindi: tanta filosofia, e direi meglio se occidentale piuttosto che indiana.

Per la cronaca, sono poi rimasto a Lettere ed ho avuto tre figli. Evidentemente non ero abbastanza mite.

 

Si, viaggiare!

di Paolo Repetto, aprile 2010, da In Novitate

Queste pagine di coda di INJ rischiano di trasformarsi in una rubrica fissa. Non sarebbe neppure una cattiva idea, a patto che non debba essere sempre io a riempirle e che vengano utilizzate per trasmettere un po’ di ottimismo – quello salutarmene critico, non quello acriticamente idiota – rispetto allo svaccamento generalizzato in corso. Abbiamo un gran bisogno di buone notizie, di piccole “scosse” culturali (non di “eventi”) che rompano il tracciato piatto dell’elettroencefalogramma collettivo.

Questa volta la segnalazione positiva riguarda la Biblioteca Civica di Novi Ligure. Nella seconda metà di ottobre, nell’ambito di “Librin-Mostra”, la biblioteca ha organizzato una serie di incontri dedicati al viaggio e alla letteratura di viaggio. La notizia è doppiamente buona, perché conferma la vocazione propositiva di questa istituzione ma soprattutto perché ci dice dell’interesse intelligente per un tema che si presta in genere ad uno sfruttamento ben diverso. Nel corso degli incontri novesi si è viaggiato da Dante a Pavese, da Salgari a London, a piedi, in barca e in bicicletta, in compagnia di esperti o di dilettanti della letteratura e della storia odeporica. Si è parlato di viaggio metaforico, di viaggio immaginario, di viaggio scientifico, di come e quando e quanto viaggiare, e del perché. Ce n’era per tutti i gusti. E tutto ha funzionato bene.

O quasi.

Lo so. Sono incontentabile. E quindi sento di dover fare qualche considerazione sulla perfettibilità dell’iniziativa, fermo restando il suo successo. Magari partendo dal fondo, dai destinatari. Gli incontri sono stati organizzati pensando principalmente ad un pubblico di studenti. E si è ritenuto, con molto coraggio, di proporre una fruizione “libera”; per intenderci, niente classi spostate come mandrie e usate per fare numero, solo studenti motivati da un genuino interesse o da semplice curiosità, debitamente autorizzati e giustificati dalle scuole di appartenenza. Pochi, insomma, ma buoni. Sotto questo profilo però le cose non sono andate come avrebbero dovuto, o potuto. Il pubblico non è mancato, ma non era esattamente quello che ci si attendeva. Come mai? Scarsa motivazione? Mi permetto di avere qualche dubbio; dove l’iniziativa è stata propagandata e spiegata a dovere le adesioni sono fioccate spontanee, e che fossero davvero tali lo dimostra la partecipazione agli incontri fissati in orario non curricolare. Credo invece che abbiano giocato contro, tra le altre cose, le resistenze più o meno esplicite di parte del corpo insegnante. Di fronte a proposte come queste c’è sempre chi ha paura che i ragazzi “perdano delle ore”, e di non riuscire a “portare a termine il programma”. Sacrosanti timori, che inducono però qualche riflessione. Intanto: cos’è un programma? Ha qualcosa a che vedere con l’esistenza concreta degli studenti, e quindi ci piaccia o no va rapportato, parametrato sulle loro capacità reali e sulle loro attese, oppure è un’entità trascendentale, una e immutabile, della quale il docente è ministro terreno? Il disgraziato che si perde la pace di Aquisgrana o il correlativo oggettivo, avrà una vita segnata dall’ignominia?

E poi: abbiamo un’idea di cosa siamo davvero tenuti ad offrire a questi ragazzi? Non ha forse una sufficiente valenza educativa far sapere loro che tra il deserto cerebrale del “Grande fratello” e la fisica del neutrino c’è un’ampia terra di mezzo, e che la possono esplorare, magari anche abitare? È chiaro che questo impone di vagliare ciò che viene proposto, di nuotare tra la schiuma delle “offerte culturali speciali” che investono quotidianamente la scuola e riversano su questi poveracci le iniziative più peregrine: ma appunto, è necessario farsi anche un po’ coinvolgere, mettersi in gioco, inventare di volta in volta il programma e riadattarlo costantemente. È certamente più impegnativo che non riproporre anno dopo anno la stessa scansione liturgica dei tempi e gli stessi argomenti, o addirittura le stesse verifiche. Ma forse chi non si riesce fare a meno di certi rituali avrebbe dovuto intraprendere un’altra carriera.

Il secondo punto di riflessione concerne invece le modalità dell’offerta. Si può fare meglio, anche se molto è già stato fatto. Per capire di cosa parlo è necessario risalire un po’ a monte. Le conferenze sul viaggio avevano in origine una diversa destinazione. Dovevano rientrare nell’ambito di un convegno di studi, una o due giornate di confronto su un tema sviluppato da diverse angolazioni. Si sa come funziona un convegno: si susseguono in tempi stretti più relatori, si fa la pausa con l’assalto al buffet, si ricomincia nel pomeriggio e si tira sino a tardi, magari per più giorni. Uno sceglie le cose che lo interessano, segue quelle, poi esce a farsi due passi, fuma una sigaretta, prende il caffè e rientra. Se non è inchiodato al tavolo dei relatori se la cava senza eccessive sofferenze. Nel nostro caso si è deciso, a giochi già iniziati, di cambiare il target, come si dice oggi, di provare ad allargare il campo di utenza distribuendo in più giorni gli interventi e riformulandoli ad uso di un pubblico di non addetti ai lavori. È rimasto però intatto lo schema che prevedeva più relatori in successione, con il risultato di tempi troppo brevi per ciascun relatore e di blocchi frontali di tre o quattro ore per gli studenti. Per fortuna non ci sono stati svenimenti in sala, i ragazzi hanno retto sin troppo bene, ma è chiaro che è stato chiesto loro troppo. Non occorre essere tabagisti come me per provare, dopo un’ora di conferenza, la sindrome da sedia scomoda e l’irrefrenabile impulso a catapultarsi fuori, ci fosse anche Benigni a raccontarti il viaggio di Colombo. Per il futuro dovremo tenere maggiormente conto del fatto che la soglia di attenzione dei giovani, così come la nostra, si è di molto abbassata, e che tempi superiori all’ora sono difficilmente sostenibili.

Ma non è tutto. Dobbiamo anche prendere atto che le modalità della fruizione sono notevolmente cambiate, che questi ragazzi sono abituati, quando va bene, ad una informazione culturale sul modello di “Atlantide”, per citarne uno positivo, quindi ad una “spettacolarizzazione” del racconto. Ora, non si tratta qui di mettersi in competizione con i mezzi di comunicazione di massa, di giocare sul loro terreno, perché in questo caso saremmo battuti in partenza, ma di cercare di piegare al nostro fine, per quel che è possibile, i loro trucchi. In termini pratici significa, ad esempio, ricorrere alle immagini per dare corpo concreto e supportare visivamente i concetti, a slides riassuntive per evidenziare i nodi della trattazione, a strutture espositive aperte che consentano ai ragazzi stessi di inserirsi e suggeriscano loro direzioni di ricerca molteplici. Farlo diventare insomma un gioco nel quale tutti possono sentirsi attori. Capisco che detto così sembri il format di “Amici”, ma è un’altra cosa.

Una terza riflessione nasce invece dallo specifico del tema trattato, quello del viaggio. Con tutto quello che di tremendo ci circonda, con tutti i guai e i problemi che ci angustiano, la fame per un buon terzo dell’umanità e l’effetto serra per tutta, il terrorismo, le guerre, il razzismo strisciante, per non parlare di quelli propri del nostro paese, la maleducazione che imperversa, l’arroganza e la pochezza del potere, con tutte queste urgenze ed emergenze che ci rimbalzano sul piatto ogni sera all’ora di cena, ha senso parlare ai ragazzi del viaggio? Verrebbe da rispondere con un’altra domanda: ha senso mettere in piedi carrozzoni sulla cittadinanza attiva e consapevole e sull’educazione alla legalità, quando è poi sufficiente un qualsiasi telegiornale o dibattito televisivo a mostrare loro come funzionano realmente le cose e da chi sono rappresentate e incarnate le nostre istituzioni? Ma sarebbe troppo facile.

Parlare del viaggio ha un senso, di qualunque viaggio si parli, perché si parla quantomeno di un segnale positivo di vita. Si viaggia alla ricerca di qualcosa, o in fuga da qualcosa: si viaggia quando non ci basta ciò che abbiamo, siano ricchezze o conoscenze, o non si sopporta la condizione in cui viviamo. Quando si è capaci di curiosità e di desiderio, e prima ancora di speranza. Parlare del viaggio significa quindi trasmettere un po’ di quella voglia di utopia che abbiamo frettolosamente azzerato e sostituito con una desolante realtà virtuale. E poi, gli orizzonti verso i quali si possono indirizzare gli sguardi e le menti sono infiniti. A volte non è nemmeno il caso di muoversi, per viaggiare: lo spostamento non avviene solo nella dimensione spaziale. C’è anche il tempo: si può zigzagare a ritroso sui libri, per capire qualcosa di ciò che siamo, e del perché siamo così, e di come potremmo essere. Magari si ha l’impressione che ai ragazzi non possa fregare di meno: ma è un’impressione che si presta un po’ troppo a creare facili alibi, dietro i quali trincerare la nostra indolenza e la nostra incapacità di proporre delle alternative al nulla, e prima ancora di perseguirle.

Due righe infine sul tema trattato nell’occasione dal sottoscritto, quello del viaggio scientifico. Non mi illudo che dei ragazzi tra i sedici e i diciotto anni, svezzati a botte di “X factor”, possano entusiasmarsi alle vicende di Alexander von Humboldt, di Darwin o di Cook, soprattutto se vengono loro ammannite come le portate di un banchetto ufficiale del sapere. Ma penso che se i loro viaggi vengono proposti come metafora di un modo di concepire la vita, di una curiosità onnivora di conoscenza che non ti fa considerare mai sazio, del piacere di conquistarsi questa conoscenza con un po’ di fatica, e se si riesce a far avvertire che in questo modello almeno un po’ ci si credi, beh, qualcuno potrebbe anche esserne intrigato. E allora, vale la pena.