A spasso con Pietro

A spasso con Pietro copertinaa cura del C.A.I. di Ovada, 30 novembre 2014
Questa pubblicazione è stata curata da: Giorgio Bello, Angelo Cardona, Diego Cartasegna e Paolo Repetto.
Impaginazione a cura dei Viandanti delle Nebbie.

Si ringraziano per la collaborazione: tutti  gli amici della sezione CAI di Ovada, il Comune di Ovada, Mauro e Claudia Cavalleri.

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Introduzione

A spasso con Pietro Dipinti (1)Sono già trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Pietro Jannon. Scomparsa è in questo caso il termine più appropriato, perché Pietro improvvisamente si è eclissato alla vista degli amici e ha compiuto l’ultimo tratto del suo percorso in solitudine. Come, del resto, aveva sempre fatto: spariva a metà di una escursione o di un’ascesa, e te lo ritrovavi poi alla meta. Oppure non dava notizie per due mesi, e rivelava al ritorno di essere stato in Alaska. Ma la sua ricerca di solitudine non era misantropia: tutt’altro. Aveva solo un altissimo senso della discrezione, la praticava nei confronti degli altri e la chiedeva per sé. Alla fine ha voluto rimanere nel cuore e nella memoria di tutti coloro che avevano goduto della sua amicizia come il grande, inossidabile Pietro. Testardo com’era, è riuscito anche in questo. Ognuno di noi ha condiviso con lui alcune delle esperienze alpinistiche o escursionistiche più belle, o semplicemente splendide salite al Tobbio in qualsiasi stagione e da qualsiasi versante, e quelle si porta dentro. O ha in casa qualche sua opera, che lo dice lì, ancora presente.
Questa mostra e questo opuscolo vorrebbero contribuire, attraverso le immagini e le testimonianze degli amici, non solo a conservarne la memoria in chi lo ha conosciuto, ma anche ad accendere la curiosità nei suoi confronti in chi, più giovane, non ha avuto questa fortuna. Pietro è stato un’ottima persona, prima ancora che un singolare personaggio: un modello umano del quale i nostri ragazzi hanno oggi più che mai bisogno.

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Ci risiamo!

A spasso con Pietro08Ci risiamo. L’ho perso un’altra volta. Rallento e mi volto a cercarlo, ma già imma­gino cosa sta facendo: è parecchio indietro, si è fermato a scat­tare una foto. In una setti­mana ha fatto andare tre dozzine di rullini, ha fotografato ogni albero della Foresta Nera, ogni fontana, ogni casolare. Una volta a casa, se met­terà in fila tutte le dia scattate potrà ri­fare il per­corso per intero.
Poso lo zaino, mi siedo su un ceppo e accendo una sigaretta, mentre lo guardo cammi­nare a ritroso, fermarsi ancora, catturare un altro scorcio. La sta prendendo comoda. Siamo fuori di un’ora e mezza rispetto alla ta­bella concor­data, e la cosa si ripete immancabil­mente da otto giorni. E’ il primo trekking che facciamo assieme, ma credo sarà anche l’ultimo.
Adesso è nuovamente uscito dal sentiero. E’ scomparso nel bosco.
Quando rispunta sono alla terza sigaretta. Mi vede e fa cenno col brac­cio. Non ri­spondo. Continuo a fumare e a guardarlo. Non so se essere più irritato o sconfortato. Quasi due ore di ritardo dopo sole quattro di marcia.
Avanza tranquillo, si ferma, traffica con la Nikon, sostituisce il rul­lino. Se mi capita tra le mani, quella macchina, finisce in orbita. Final­mente mi rag­giunge, scarica lo zaino e siede lì vicino. Dev’essere foderato d’amianto, perché il mio sguardo non lo ustiona.
– C’era una piattaforma su un albero, laggiù. Penso la usino per os­ser­vare gli uccelli. Sono salito a scattare un paio di foto.
– Potevi aspettare un altro po’, magari avvistavi qualche tordo – ri­spondo acido.
Nemmeno se ne accorge. Inossidabile.
– No, c’era una vista magnifica, il bosco da sopra, le cime degli alberi.
Schiaccio con cura la cicca, ma non accenno ad alzarmi. Mi accorgo con sor­presa che la rabbia è già sbollita. Sto pensando a quanto deve essere bello que­sto bosco, visto da sopra. Io la piattaforma non l’avevo notata. Guar­davo avanti, e quando buttavo lo sguardo ai lati del sentiero i tronchi mi sembravano più o meno tutti uguali. Siamo in ritardo di due ore, ma su cosa? Mica abbiamo un appuntamento. Dobbiamo solo arrivare alla Ga­sthaus, che non si muove, è là da decenni, ci aspetta. Cambia niente ar­ri­vare alle cinque, alle sette o alle otto. E’ una giornata splendida, limpida, calma.
Osservo Pietro. Sta scartocciando una barretta di cioccolato. E’ tran­quillo e sod­di­sfatto, mi sta ancora raccontando della piattaforma. E mentre parla capisco finalmente la differenza. Pietro si muove come un uomo li­bero, come chi ha nes­suno che lo aspetti, e sce­glie quando e cosa vedere e chi incontrare. Io mi muovo sempre per arrivare in qualche posto. La parte più importante dello sposta­mento per me è la meta, non il viaggio. Per lui è esattamente il contrario.
E questo fa la differenza tra il viaggiatore e uno che cammina.

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DI SPALLE E CON LO ZAINO

Pietro Jannon 2Ogni volta che salgo il Tobbio trovo un pezzo di Pietro Jannon. Non ossa o brandelli di equipaggiamento, ché purtroppo non è morto dove gli sarebbe pia­ciuto, ma spezzoni di memoria, fotogrammi di sentieri percorsi assieme. È capi­tato anche ieri, quando a metà percorso mia figlia, senza nem­meno allungare troppo, mi ha lasciato ad ammirarne le spalle e il passo deciso e a meditare me­sto sul trascorrere del tempo. Ero chiaramente orgoglioso di lei, ma non na­scondo che ero anche un po’ avvilito, sia pure considerando il mezzo secolo che ci separa.
È proprio lì che all’improvviso, per una qualche recondita associa­zione d’idee, certamente non giustificata dal cielo terso e dal sole tiepido, mi sono rivi­sto salire nella nebbia di un umidissimo novembre di trent’anni fa.
Negli anni eroici del CAI ovadese per un intero autunno ci ritro­vammo ogni sabato, nel primo pomeriggio, al valico degli Eremiti, per tra­sferire in vetta sabbia, calce, cemento, taniche d’acqua, latte di impermea­bilizzante per il tetto del rifugio. Ciascuno si caricava in base alle sue forze e alla sua buona volontà: qualcuno aveva anche in più una motivazione “spor­tiva”. Come sempre, tra me e Pietro si era ingaggiata una tacita gara: caricavamo lo zaino con una latta ed un sacchetto di sabbia, per un peso dai trenta ai trentacinque chili. Pietro però aveva scovato per l’occasione delle staffe di ferro, che non si capiva bene a cosa potes­sero servire e che in effetti poi non servirono a nulla, ma facevano comun­que zavorra e fu­gavano ogni dubbio su chi portasse il carico maggiore.  Si par­tiva in una lunga colonna, che dopo dieci minuti era già sgranata, e si saliva per il ver­sante orientale, la via “classica”. Tutti, ma non Pietro. Non ho mai capito che percorso seguisse. Riusciva sempre a rimanere in coda e dopo i primi tre­cento metri era scomparso. Non credo intendesse accorciare, perché con trenta chili sulle spalle la direttissima è altamente sconsigliata, e comunque in genere arrivava contemporaneamente a noi. Solo, faceva un’altra strada.
Ecco, quando prima ho parlato di sentieri percorsi assieme mi sono allar­gato un po’ troppo. Potevi percorrere lo stesso sentiero, raggiungere lo stesso rifu­gio, ma non eri mai completamente “assieme” a Jannon. Diciamo che mante­neva le distanze, e non solo in senso metaforico. Senza alcuno snobismo, per carità: ma aveva bisogno di uno spazio suo. Possibilmente tanto.
Come camminatore, Pietro mi pativa. Non fisicamente, perché era due volte più forte di me, ma perché io avevo capito certe sue manie, certi suoi punti scoperti, e mi divertivo a spiazzarlo, a scombinargli i programmi, a stargli sul collo, ciò che lo costringeva a dimostrare qualcosa anche quando non aveva granché vo­glia e non era il caso: e dal momento che il gioco lo conducevo io, a volte si imponeva degli sforzi inutili. Credo che per certi versi fosse persino un po’ in soggezione.
Fino a quel giorno, quando, deposto il carico e cambiata la maglietta fradi­cia, ho buttato lì: Quasi quasi, torno giù di corsa e faccio un altro vi­aggio. Gli altri mi hanno mandato giustamente a stendere, ma Pietro no. Si è rimesso la cami­cia a quadri e senza battere ciglio mi ha fregato: Dai, che se ci muoviamo siamo nuovamente qui prima di notte.In effetti è andata così. Per stargli dietro quella volta ho dovuto mor­dere le rocce, perché davvero a metà salita non ne avevo più. Una volta in cima, dove per fortuna ci attendeva la stufa ancora accesa, ci siamo seduti uno di fronte all’altro, aspettando che arrivassero anche le nostre anime. Poi lui ha alzato gli occhi, mi ha guardato serio ed ha sbottato: Dì, ma noi due, saremo furbi?
Credo di aver riso per cinque minuti di seguito senza potermi tratte­nere, tanto ero stanco: e anche lui era scoppiato in una risata liberatoria. L’ho visto ri­dere così poche altre volte, e devo dire che rideva bene (io bado molto a queste cose: c’è gente che non sa nemmeno ridere).
E adesso capisco anche l’associazione d’idee. Io in fondo Pietro lo ri­cordo così: di spalle e con lo zaino. Mi pare giusto, perché tutti lo ab­biamo sempre vi­sto così, e non solo mentre salivamo Tobbio, ma anche quando lo incrociavamo al Posta, in libreria o al mercatino. C’era imman­cabilmente un impegno che lo chiamava da un’altra parte, una cornice, un libro, un pezzo di lamiera raccattato per strada che urgeva di essere portato altrove.
Mi manca, Pietro. Ci sono persone che toccano la tua vita apparente­mente solo di striscio, camminano ai suoi margini: però ti ci abitui, sono un riferi­mento, sai che se ti giri le trovi là. Anche se nel suo caso magari sarebbe meglio dire “sono appena passate di là”. Era quello che ti suggeri­vano le tracce improv­vise nella neve fresca, lungo il sentiero degli Eremiti, quando pensavi di essere il primo: o gli amici che lo avevano incontrato un attimo fa in via San Paolo, o la sera precedente al CAI. Poco alla volta que­sta inafferrabilità era en­trata nella sua leggenda, insieme alle sue manie e ad un fisico e un carattere egualmente roc­ciosi. Per un certo periodo, quando lo conoscevo meno, ho an­che pensato che la coltivasse voluta­mente. Invece era timidezza genuina, o se si vuole amore della solitudine.
Ci si vedeva raramente: per le mostre, per qualche ascensione, per un trek­king. Non mi andava di disturbare la sua riservatezza, probabilmente perché il mio riferimento era proprio quello. Non ero mai io a cercarlo. Però sapevo che c’era, con tutte le sue stranezze, eppure solido, affidabile. Forse un po’ lo invi­diavo, in positivo. Mi piaceva l’idea che qualcuno sa­pesse vivere come viveva lui, pur rimanendo consapevole che quello non era il mio stile. Pietro era una delle proiezioni nelle quali ambientavo le mie vite parallele. Probabilmente l’ho anche un po’ coltivato, come per­so­nag­gio, e sono sicuro che non gli spiacesse quando epicizzavo le sue av­ven­ture. Anzi, qui era lui a condurre il gioco, e al ri­torno dai suoi viaggi, quando mi telefonava o ci incontravamo in sede, mi but­tava lì dei trailers risicatissimi del futuro racconto, che rimandava immancabil­mente alla se­rata delle diapositive. Naturalmente le serate poi non c’erano, per­ché do­veva scegliere tra diecimila scatti per ogni viaggio, e io sono rimasto con frammenti di tête à tête con orsi grizzly, di discese dello Yukon in canoa e di ponti sospesi nelle Ande mai legati in una narrazione coerente.
Ciò che però ci ha avvicinato maggiormente, all’inizio, era il suo la­voro arti­stico. Per quella che è la mia concezione dell’arte Pietro era un arti­sta vero.
Era geloso delle sue opere. Le mostrava con riluttanza, e se ne staccava ancor più a malincuore. Salvo poi regalarti qualcosa per cui avevi manifestato un inte­resse particolare, quando sapeva che quell’opera sa­rebbe andata a vivere bene. Sarà una concezione minimalista, ma è una conce­zione genuina, così come minima­lista e genuino era anche l’approccio materico e segnico di Pietro. Pochi segni, ridotti all’osso, e quindi tanto più significativi ed evidenti. Ho alcune crea­zioni sue che non scambierei con un Van Gogh, e noto che tutti coloro che le vedono per la prima volta ne rimangono incantati. Non ci sono messaggi nelle sue opere: ci sono delle semplici constatazioni, ma tanto immediate ed evi­denti che ti chiedi come hai fatto a non renderti conto prima. Sul piano dell’arte, anzi­ché patirmi, mi cercava invariabilmente. Era sorpreso da quello che ve­devo in quadri che teneva ben riposti nel suo studio, nascosti dietro cu­muli di tele e compensati e cornici, e che riuscivo ad ammirare solo perché mi infischiavo tranquillamente dei suoi “meglio di no, è roba vecchia”. Li ri­pren­deva, li rigirava e rimirava, poi diceva: però, magari ritoccando, ag­giun­gendo…: ma era ben felice quando gli intimavo di non azzardarsi a rimet­terci mano. Dopo aver letto la prima presentazione che avevo scritto per una sua mo­stra mi telefonò la sera e disse semplicemente: “Io … gra­zie!” Non mi lasciò nem­meno il tempo di rispondergli: prego.
Avrei voluto fosse con noi, ieri. Avrebbe sorriso divertito, a vedermi in af­fanno dietro Elisa. E poi lo avrebbe raccontato, solo a quelli giusti: Ve­dessi la figlia di Paolo. Ci ha mollati a metà salita. E sarebbe stato or­goglioso, come se la figlia fosse sua.
Paolo Repetto, 2014

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A PIETRO

A spasso con Pietro10Quando penso a Pietro non posso fare a meno di ricordare l’inverno del 2000. Da parecchi fine settimana con il solito gruppo di amici del CAI di Ovada si or­ganizzavano gite domenicali, solitamente sull’appennino li­gure, comunque non lontano da Ovada, onde evitare, il mattino, il viaggio di avvicinamento. È noioso viaggiare la mattina presto nella cattiva sta­gione, specialmente se sei con la tua macchina, con ancora un po’ di sonno addosso, e i compagni appena saliti sono già riaddormentati, e tu, tra l’incazzatura della mancanza di compa­gnia e tutte le idee che circolano per la testa in queste occasioni, navighi per raggiun­gere la meta. Una volta arri­vato doverli svegliare ad uno ad uno e sen­tirti dire che hai posteggiato nel posto sbagliato, in quanto c’era un posteggio più vicino, là dietro l’angolo, che ci hai messo troppo tempo, che prendevi le curve troppo ve­loci, che la macchina è rumorosa e il riscaldamento non era sufficiente, op­pure era troppo alto, e altro ancora.
Un venerdì sera di metà gennaio come sempre ho raggiunto la sede del CAI per incontrare Beppe, la Susy, Angelo, Rinaldo, Rolando, ecc… Come sem­pre cer­cavo di arrivare tardi, per essere sicuro che ci fossero già tutti, aves­sero già de­ciso la meta, che a me sarebbe andata sicuramente bene, l’ora e il luogo della partenza: così potevo salutare e dirigermi al bar per il solito tarocco.
Quella sera, dopo aver concordato la salita al Tobbio per la domenica suc­ces­siva, motivata dal fatto che il tempo sarebbe stato buono, che il per­corso era ancora innevato, probabile la vista dei laghi del Gorzente, e forse anche del mare, arriva Pietro.  Saluta e chiede cosa abbiamo deciso per il week end.
“È Tobbio”, risponde qualcuno di noi, “è un pezzo che non andiamo”.
“Ah, bellissimo”, commenta. “Però il tempo sarà meraviglioso, ho sen­tito il meteo poco fa”.
“Appunto”, rispondo io, “così ci godiamo la vista dal Tobbio”.
“Si, però, la riviera… Portovenere dovrebbe essere bellissima, l’aria lim­pida ti­pica del periodo invernale, la chiesa di San Pietro con la isole di Palmaria e del Tino, i corbezzoli maturi, il profumo del timo…”
“Hai ragione”, ribatto, “però c’è da sbattersi”.
“Ma no” dice lui, “in macchina sino a Sestri Levante, in treno sino a La Spe­zia, pullman sino a Portovenere, tutto in coincidenza. Si, si deve par­tire un po’ pre­sto, però … Poi a piedi tutte le Cinque Terre. Di buona lena in 7 ore fac­ciamo tutto.”
Qualcuno di noi osa lamentare il disagio do­vuto alla lontananza e ai tempi di trasferi­mento, nonché il ritorno con la stanchezza accu­mulata.
“Ma no” taglia corto, “sarà una passeg­giata. Allora ci vediamo domenica mat­tina alle 6.00. Carlo, se siamo più di cinque vieni con la macchina”.
Ci guardiamo negli occhi, tutti, uno ad uno, con uno sguardo che va dall’incredulo al sorpreso. Tutti rispondiamo contemporanea­mente “Va bene”. Altri sguardi allibiti. Con quale facilità ci siamo fatti convincere.
Macché Tobbio: gita semplice, percorso breve, con ritorno nel primo pomerig­gio, ah.
Inutile dire che fu veramente uno spetta­colo, ci divertimmo un sacco, il cielo terso con il mare calmo sotto il nostro avido sguardo. Erano tre mesi e più che il cielo di Ovada quando era al meglio risultava grigio. Arri­vammo a casa stra­volti ma soddisfatti. Ancora una volta aveva vinto, negli sguardi si poteva co­gliere la gratitudine per Pietro. Averlo come compagno e seguirlo voleva dire essere avanti. Nei confronti di tutto. Scelte, esperienze, viva­cità e anche racco­gli­mento. Erano tipiche durante i trekking le sue fughe per restare solo e go­dere la natura come a lui piaceva. Nessuno, se non pro­vando, senza riuscirci, ad interpre­tare i quadri che dipingeva, sapeva esatta­mente cosa vedeva e cosa cer­cava. Avremmo voluto imparare da lui, ma era troppo avanti: non eravamo buoni discepoli, solo ottimi compagni. Grazie, Pietro.
Carlo Risso

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ORIZZONTI

A spasso con Pietro18Dice che va in Equador, ma poi depista e prende la corriera per Sil­vano d’Orba. Si prenota per un pellegrinaggio a Lourdes, poi segue i cante­rini della S.O.M.S a Riva Trigoso. A Vicenza si confonde con gli al­pini al raduno nazio­nale, partecipa ad una gara non competitiva e rag­giunge Bolzano, dove, per via della barba, lo scambiano per Messner e gli propongono un ottomila in apnea. A Francoforte, con un sorriso selvaggio, seduce una hostess della Lufthansa, che gli trova un posto sull’ala di un DC9 per un volo a Lisbona, poi Amsterdam e, finalmente, Quito. Qui, in canoa, scende le rapide del Napo, incontra gli in­dios che gli of­frono ba­nane e da lui impa­rano a dire “Ciao”. A Riobamba prende il trenino della Cordigliera Real (quello del caffè che suona la samba) e cono­sce tanti riobam­biti. Gli offrono la testa di un ne­mico surgelata, col lea­sing; rifiuta cor­tese­mente, insegna a dire “Ciao a tutti” e scende a Guayaquil.
Intanto prende appunti, e con un gruppo di stranieri d’assalto si im­barca per le Galapagos dove non mangia zuppa di tarta­ruga. Qui insegna dire “Arrive­derci”. Ri­torna sul continente, mangia ba­nane, mar­cia, perde chili, si brucia la barba, prende an­cora appunti.
Infine, dopo oltre un mese, capita, dome­nica otto, in Bunkerplatz Cere­seto, dove sono esposti i quadri sulla ricerca dell’oro. Si sente male, si adagia sulla pan­china e sospira: “Indios è meglio”. Per­ché lui arriva con la testa piena di cose, case, casini, sensazioni, suggestioni, graffiti, graffia­ture, affreschi, rinfre­schi, burra­sche, bonacce, imbarchi, approdi, decolli, atterraggi, albe, tramonti, conchi­glie, muretti, orizzonti.  Lui è uno di quelli che partono e tornano. Poi, solo, perfettamente solo come sa stare, lavora di segno e di materia. E poi trovi tutto appeso in galleria. Io penso siano ancora meglio dei B.O.T.

C. Pola

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A spasso con Pietro15Pietro Jannon potrebbe essere definito, con un riferimento di carattere lettera­rio, il pit­tore delle isole. Uno di quegli stravaganti personaggi dei ro­manzi di Conrad, che innamo­rato dei mari in bonaccia e delle brevi esili terre che qua e là vi galleggiano come immobili relitti di un naufragio, passano la loro vita vagabonda spostandosi di spiaggia in spiaggia, irretiti ogni volta di più, e ogni volta di più prigionieri, di un gioco di luci e di orizzonti altrove irreperibili. Erano, quelli di Conrad, personaggi alla ricerca della smemoratezza, i quali, lasciatisi alle spalle una civiltà non congeniale, solo sui mari e tra isole del Sud, a contatto con gli aspetti più elementari e violenti di una natura incontaminata dell’uomo, sembravano riacquistare il senso della propria esistenza. Che era un’esistenza vissuta epidermicamente, rinunciataria, talvolta fallimentare e consapevolmente condotta al di fuori di quegli schemi e imposizioni, e soprattuitto impegni, che le società costituite comportano. Ma al contrario di essi, dei vagabondi conradiani, Piero Jannon, pur manifestando anch’egli la vocazione a itinerari insulari e marini, non muove dalla stessa necessità di dimenticanza e di fuga: va anzi alla ricerca della nostra più antica memoria, là dove la civiltà mediterranea conobbe il punto più alto e irripertibile della propria espressione; dove ancora oggi, a distanza di millenni, le pietre e i colori ce ne conservano testimonianza, e l’aria e il paesaggio ce ne tramandano il clima. Il suo è infatti un viaggio che si ripete puntualmente sui mari greci dell’Egeo, tra Patmos e Samos, tra Rodi e Creta: e se, materialmente parlando, rispetta i ritmi lenti della vecchie navi a vapore o il respiro sonnolento delle risacche deserte, la sua cadenza vera, interiore, è sincronizzata su qualcosa di più di quanto l’occhio non consenta di abbracciare: procede all’indietro, verso le origini di ciò che fummo e che ancora oggi, grazie ad allora, siamo.  Alla scoperta, cioè, della nostra stessa identità. Su queste terre battute e inaridite dal sole, sprofondate in un silenzio da tragedia consumata, già crocevia di popoli e campi di battaglia, terre finalmente restituite alla quiete della stanchezza e del destino compiuto: su queste terre, Piero Jannon, ritornato alle radici della storia, sembra potercene interpretare – attraverso le immagini di superficie – le pieghe più riposte e segrete.

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Non a caso, soffermando lo sguardo sui pastelli che oggi ci offre, proviamo la curiosa sensazione come di un incontro già avvenuto altrove e in altre epoche. Perché, dietro i rossi cremisi delle sue sabbie, o dietro il grigio scuro delle sue acque, noi riascoltiamo vicende di intelligenza e di poesia, di amore e di morte, che sono parte di noi.

A spasso con Pietro Dipinti (4)A due anni di distanza dalla sua ultima mostra ovadese, Piero Jannon torna dunque a riconfermare la propria validità di pittore che, superando i limiti di un calligrafismo fine a se stesso, riesce a penetrare la sostanza medesima della materia. Il suo linguaggio, da allora, ha acquistato in essenzialità e, contemporaneamente, in spessore. Le sue isole desolate, i suoi mari cupi, le sue brucianti visioni, vengono a restituire anche a noi – insieme alla percezione fisica delle canicole e dei tramonti – il significato più vasto e più impalpabile del tempo: il significato, vale a dire, del nostro dramma quotidiano; la consapevolezza di ciò che è destinato a finire e di ciò che è destinato a sopravviverci. La supremazia di una natura che, in uno splendore di luci e di ombre, già racchiude in sé la compiutezza degli eventi stabiliti.

Marcello Venturi, Maggio 1978

A spasso con Pietro Dipinti (6)

Ovada, 27 Ottobre

Non sarà mai! Non sarà mai che di Jannon (tanto aperto quanto misterioso nella sua splendida prigione di meridiani e paralleli), dall’infinita serie di arrivi e partenze, non sarà mai che si veda qualcosa di quel “tirato giù” a cui tanti arti­sti si adattano…. No, il mattino si è chiuso con la gioia di un incontro cordiale, un po’ scherzoso, in Piazza Assunta: ho palpeggiato la tua spalla sinistra e tu, di colpo, ti sei volto a destra e con  naturalezza, mi hai salutato come niente fosse. Tutto qui? Eh no, c’è  ben altro! Il discorso è andato lungo di ricordi, richiami, progetti – di mostre fatte e da farsi…. Per l’appunto: un concertino di battute e affollate immagini di cose e casi da chiacchierare fino a mezzanotte…. e – at­torno a noi – la gente che va e viene tra il “Piaso” e via Cairoli, a fare incrocio con la strada dei Borghi e la “tua” Strada; rondine di lunghi percorsi che non conta né stagioni, né anni: sempre irrequieto, inaspettato, sempre nuovo.
Ed ecco che – come si voleva dimostrare – chi c’era c’è.
C. Pola

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LE VIE DI PIETRO

Sono convinto che i due si siano incrociati, da qualche parte. Per tipi come loro il mondo non è poi così grande. Magari si sono urtati nella calca di un suk, o si sono scambiati uno sguardo distratto, mentre stavano foto­grafando da sedici an­golazioni diverse uno stupa; oppure hanno viaggiato schiena contro schiena, im­mersi nella lettura e nei progetti di nuovi itine­rari, su un trenino delle Ande, stipato all’inverosimile di umanità varia, pol­lame e ortaggi. Insomma, opportu­nità di in­contrarsi ne hanno avute, in un trentennio di vagabondaggi paralleli su e giù per i cinque continenti. E comunque, se anche si fossero “fisicamente” man­cati, era inevitabile che prima o poi la loro prossimità spirituale si manife­stasse.
L’occasione arriva adesso, attraverso una serie di opere nelle quali Pietro Jan­non fonde la sua esperienza della varietà e dell’unicità del mondo con le sug­ge­stioni derivate dalla lettura di Bruce Chatwin. Il che non signi­fica, e meno che mai in questo caso, rileggere alla luce della pro­pria sensibi­lità le emozioni altrui, ma al contrario pescare dal proprio ba­gaglio sensazioni, stupori, nostalgie e smar­rimenti, e ravvivarli e riordi­narli nel confronto con un itinerario che viene sentito, pur nella sua diver­sità, come fortemente affine. Certo, un bagaglio oc­corre averlo, meglio se ha la forma e le dimensioni di uno zaino, e meglio an­cora se zeppo di giac­che a vento fradice, di calzini sudati e di scarponi pieni di polvere: e in quanto a scar­poni e giacche a vento e calzini e zaini non c’è dub­bio, Pietro ne ha consu­mati più di chiunque altro, Chatwin compreso. I dipinti di Jan­non non costitui­scono dunque un omaggio né un tributo (e questo, per chi ha con lui una certa con­suetudine è scontato), non ha nulla a che vedere con la forma di devozione po­stuma praticata nei confronti del grande viag­gia­tore in­glese da troppi orfani dell’avventura.  Pietro non è orfano né de­voto di nessuno: l’avventura l’ha sempre vissuta in proprio, con le sue formida­bili gambe, sulle sue spalle infaticabili e con la sua (durissima?) te­sta. Nel suo rapportarsi a Chat­win non c’è alcun sospetto di subalterna ri­verenza (subal­terno, Pietro?!): c’è in­vece un’attestazione di simpatia (in­tesa quest’ultima, letteralmente, come affi­nità del sentire), il saluto ad un coe­ta­neo riconosciuto come tale non solo per ra­gioni anagrafiche, ma per l’identità delle scelte, delle esperienze e soprattutto dell’interpretazione di quella metafora della vita che è il viaggio.
Il viaggio, appunto, il perenne movimento, la curiosità e il rispetto per il diverso: sono le stigmate di un’elezione, di un’irrequietudine che nel loro caso ha saputo positivamente disciplinarsi, come molla alla cono­scenza, invece di inaci­dirsi a pretesto per la fuga o per l’arroccamento. È una con­dizione, questa, che può talvolta trovare espressione anche in forme sti­molanti, e i libri di Chatwin e i dipinti di Jannon sono lì a testi­mo­niarlo, ma non può essere trasmessa, e meno che mai acquisita. Perché muo­versi, es­sere irrequieti, provare una curio­sità intelli­gente sono condi­zioni necessa­rie, ma non sono ancora sufficienti per individuare un per­corso originale, naturalmente proprio e al tempo stesso iscritto nella memo­ria più recondita della specie. Ciascuno a suo modo, Chatwin e Jannon hanno rin­tracciato i segni di questo percorso, l’hanno intrapreso e lungo esso si sono incon­trati. En­trambi hanno infatti seguito le loro “vie dei canti”, quei tracciati invisi­bili e pur così evidenti (almeno per chi ha occhi e orecchi per riconoscerli, e cuore e gambe per affrontarli) che cor­rono il globo in lungo e in largo, e se intersecano le rotte turistiche e commer­ciali è solo per lasciarle subito, e lungo i quali si muo­vono da sem­pre i depositari di un nomadi­smo ancestrale, istintivo e non condizio­nato da mode o necessità.
A spasso con Pietro Dipinti (10)Pietro Jannon appartiene a pieno titolo a questa categoria di nomadi, impre­vedibili, schivi, fieramente gelosi della propria indipendenza. Puoi incon­trarlo sul Tobbio, tra le rovine dell’Acropoli o sulla via di Katmandu e non ti dirà mai “sono venuto sin qui”, ma “stavo passando di qui”, e già solleverà lo zaino, di­retto da un’altra parte. Il suo viaggio è sempre in corso: non contempla punti d’arrivo, così come non suppone luoghi da cui fuggire. Non ne ha biso­gno, e non perché si so­stanzi dello spostamento in sé, ma perché in quest’ottica ogni luogo è altrettanto significativo nel rag­giungerlo come nel lasciarlo.
Nel corso dei suoi viaggi Jannon raccoglie immagini (tante!) e ricordi, di cui peral­tro fa partecipi solo pochi eletti, e con parsimonia: ma riporta soprattutto frammenti di segni, flash di colori o di profili, e anche di odori, o di suoni. Li cova nella memoria, li seleziona, lascia dapprima che reagi­scano al contatto con gli agenti esterni o interni più disparati (letture, im­magini, reminiscenze di altri viaggi già fatti o aspettative per quelli in pro­gramma) e poi ne leviga ogni connotazione spaziale e temporale, sino a tra­durli in simboli. Solo a questo punto li riversa infine sulla carta, sul le­gno o sulla tela. Quel che ne sortisce sono emozioni essenziali, rarefatte ma profonde, sedimentate e tuttavia mai fredde; perché i segni ritornano in se­rie di approssimazioni, appena leggermente variate, che producono un ef­fetto di mobilità, un percorso, appunto. Nessuna delle sue opere vuole chiudere in sé, fermare per intero il ricordo; tutte si iscrivono in sequenze, e pur riuscendo autoconclusiva ognuna già allude alle varia­bili e alle pos­sibilità altrove esplorate. Come i suoi piedi, anche la pittura di Jannon non può mai essere in quiete; rifiuta la staticità del reportage, i divani dell’introspezione e gli specchi dell’autocompiacimento, per esprimere in­vece una primordiale meraviglia al cospetto del mondo, e la voglia di rin­novarla costan­temente. Per questo, appena la mostra chiuderà i battenti, o forse anche prima, non perdete tempo a cercare Pietro. Sarà già altrove, lungo le vie dei canti, con uno zaino da duecento litri stipato di magliette, calze e suggestioni.
Paolo Repetto, 1998

A spasso con Pietro Dipinti (11)


ORIZZONTI

A spasso con Pietro Dipinti (12)Gli itinerari hanno sempre oriz­zonti. Brevi o ampi, sono il confine imma­gina­rio che si muove con noi. Le li­nee sono dunque il termine ed il pro­lunga­mento, ad un tempo, delle proie­zioni fantastiche, dei desideri, delle ambizioni. Spesso, tracce ap­pena percepibili tra cielo e terra, tra cielo e mare. Il mondo sensi­bile e il mondo celeste trovano l’effimera e mute­vole unione nel segno trac­ciato.
Jannon nel suo procedere scopre sempre nuovi orizzonti, cancella con­fini e al­tri ne costruisce. Nella sua opera più recente il segno non divide, non lacera, ma unisce due sistemi che, veritiera immaginazione, sono ele­menti dalla co­mune origine. I co­lori hanno il compito di accorparsi. Svani­sce la rappresenta­zione e ri­mane il profondo desiderio di repli­care il segno, di ripetere eterna­mente l’essenza che il ricordo tramanda. Oriz­zonti mobili spingono la mano di Jannon a lavorare per piani, per acco­stamenti. Nella ricerca dell’idea il se­gno va mutando, il desiderio si ap­paga e si ricrea.
Un peregrinare dolce e soffe­rente è la ragione di tutto, del tutto.
Vittorio Baretto

A spasso con Pietro Dipinti (5)

Nazca. Cinquemila anni. Forse più. Un uomo con le sue mani volta pie­tre nel deserto per tracciare linee interminabili e disegni fantastici che mai potrà ve­dere. Perché? Pietro non lo sa, come non lo sa nessuno.“Bisogna solo guardare”, mi dice. Come oggi io guardo senza chie­dermi nulla i suoi tratti e il suo modo “intuitivo” di tracciarli fantasti­cando quello che mi pare.
Angelo Maria Cardona

A spasso con Pietro20

DECLINO, CADUTA E NOSTALGIA DEL REGIME DEI DIVIETI

A spasso con Pietro Dipinti (20)In un’opera di Pietro Jannon, una delle più recenti, appartenente al ci­clo dei “divieti”, è possibile leggere la perfetta metafora della nostra attu­ale con­di­zione. Probabilmente la metafora non è del tutto consapevole, ma proprio que­sto è il bello e il mistero dell’arte: la capacità di dire parole non pronun­ciate e di trasmettere idee non pensate.
La composizione è rettan­go­lare, si estende in orizzontale e si presenta come un assieme unitario, ma a ben guar­dare risulta articolata in tre sezioni. La tec­nica è quella del col­lage su una su­perficie piana di materiali diversi, legno, car­tone e soprat­tutto vec­chi segnali direzionali o divieti di caccia e di raccolta, quelli bian­chi, di latta, con simboli o scritte in nero, che si trovavano una volta in­chiodati ai tronchi degli alberi o appesi a solitari paletti nelle campagne, quasi sempre sghembi e ricamati da rose di pallini. Le frecce, appena visi­bili, occu­pano il riquadro centrale, in un gioco di sovrapposizioni con altri brandelli di la­miera arrugginita e di cartone ruvido. I divieti, o quel che ne rimane, com­paiono invece nelle due sezioni laterali, anch’essi soffocati da strati irrego­lari di altri mate­riali, e consentono stentatamente di risalire all’autorità ema­nante: a sinistra la provincia di Ge­nova, a destra la Regione Piemonte. Nel riquadro di sinistra, in basso, mime­tizzata in un mosaico di vecchi fo­gli stampati o manoscritti, quasi ci sfugge la riproduzione di una rudimen­tale porticina lignea, chiusa, che reca stampigliata in lettere da im­ballaggio la scritta “nomade”. La tonalità domi­nante del trit­tico va dal gri­gio sporco all’ocra. L’insieme è, per chi vuol an­dare al di là dell’impatto visivo, deso­lante e ed inquietante.
È desolante perché questa rottamazione di ogni palinatura, questa disca­ri­ca aperta di regole e di segnali, è l’unico panorama spirituale (ma anche mate­riale) che questi anni ci offrono. È inquietante perché, al di là del casuale riferi­mento geografico, ma certamente con la sua complicità, sentiamo che ci ri­guarda molto da vicino. Nella rugosa terra di nessuno del pannello di centro, da quell’ideale spartiacque cancellato che guardava un tempo alle alpi e al mare, le frecce non indirizzano più da alcuna parte. Si spuntano contro la rug­gine, sbiadi­scono sotto i catramosi sedimenti del tempo. Assieme ai suggeri­menti, alle indicazioni, agli obblighi si stempe­rano, nella monocromia grigia­stra e marron­cina, anche i divieti, butterati da una foruncolosi endogena. Non è quell’ideale spartiacque cancellato che guardava un tempo alle alpi e al mare, le frecce non indirizzano più da alcuna parte. Si spuntano contro la rug­gine, sbiadi­scono sotto i catramosi sedimenti del tempo. Assieme ai suggeri­menti, alle indicazioni, agli obblighi si stempe­rano, nella monocromia grigia­stra e marron­cina, anche i divieti, butterati da una foruncolosi endogena. Non è valsa più nemmeno la spesa di impal­linarli, sono chimicamente scaduti dal pe­rentorio al patetico. Ma la loro estin­zione non prelude ad una nuova e con­sape­vole li­bertà, non è il segno di una maturità raggiunta. È solo il simbolo di una scon­fitta. Anzi, di una duplice sconfitta.
A spasso con Pietro Dipinti (13)La prima riguarda lo sforzo di edificazione di un sistema normativo uni­ver­sali­stico di diritti e di doveri (in contrapposizione a quello particola­ristico e consue­tudi­nario), e di un corredo etico, di imperativi e finalità ( in sostitu­zione di quello morale e religioso), prodotto nei secoli della moder­nità dalla cultura laica occidentale, e mirante in ultima analisi a uniformare a livello globale i com­porta­menti. Questa potrebbe in apparenza sembrare addirittura una vittoria, dal momento che tale sistema è nato e si è svilup­pato in funzione degli interessi dei gruppi o delle classi dominanti, e la sua sudditanza al po­tere non è in discus­sione: ma in realtà ci troviamo di fronte soltanto alla rimo­zione dell’impalcatura che è servita ad innalzare il pa­lazzo della cultura e del mercato (soprattutto del mercato) globali. L’impalcatura nascondeva l’oscenità architettonica e struttu­rale di quel la­ger immenso che si estende ormai su tutto il pianeta, ma in qual­che modo garantiva anche ai detenuti delle sicurezze, a volte delle vie di fuga. Ga­ran­tiva il riconoscimento della indivi­dualità, se non altro esortando all’assunzione di una responsabilità indivi­du­ale, o sanzionandola.
L’obsolescenza dei divieti testimonia invece la rag­giunta perfezione del si­stema di controllo: non è più necessario vietare, quando si è in grado di persua­dere, e non vale la pena sanzionare i singoli, badare ai miliardesimi, quando i conti si fanno all’ingrosso. La mia spiacevole sensazione è quella di aver combat­tuto con­tro qualcosa che oggi vorrei difen­dere, perché an­che una gabbia, quando il modello è quello della libera volpe in libero pol­laio, può offrire un rifu­gio a chi volpe non vuole essere: e che sia ormai troppo tardi anche per barri­carsi su que­ste posizioni di retroguardia.
L’altra sconfitta concerne le alternative. E questa è più cocente ancora, in­tanto perché ce la siamo costruita con le nostre mani, e poi perché ha az­ze­rato le speranze, ha tagliato le gambe ad ogni idealità. Per quanto sia duro ammetterlo, nessuno dei sistemi di pensiero antagonisti al modello capitali­stico è stato in grado di andare oltre la critica e di offrire alternative economi­che, politiche e so­ciali credibili. Un peccato d’origine le ha viziate tutte, e prime tra le altre quelle più marcatamente umanistiche: una pervi­cace presun­zione di ecceziona­lità e di uniformità della natura umana, dalla quale è di­sceso l’illusorio convinci­mento della origine sociale di ogni squili­brio. Oggi dobbiamo accet­tare, a denti stretti, l’idea che l’uomo è un animale sociale per convenienza, egoi­sta per istinto naturale; che i rischi della democrazia totali­taria non sono mi­nori di quelli del totalitarismo espli­cito; e soprattutto, che quelle istituzioni che bene o male costituivano un avversario visibile, un obiettivo contro il quale dirigere gli sforzi, non rappresentano più nulla, sono soltanto detriti lasciati dal capitale sul suo percorso di autonomizzazione.A spasso con Pietro Dipinti (14)
Questo si può leggere nell’opera di Jannon. Naturalmente è possibile leg­gervi qualunque altra cosa, magari di segno opposto, ed è probabile che lo stesso autore trovi una simile interpretazione fuorviante e forzata; ma è fuor di dubbio che qualcosa quei brandelli di segnaletica corrosi e sbiaditi ci vo­gliono comunicare, che una storia, o la fine di una storia, la vogliano raccon­tare. Io l’ho intesa così, come una storia malinconica. Perché quando viene meno, non­ché la volontà, anche ogni opportunità di tra(n)sgredire; quando non ci sono più luoghi, della terra e dello spirito, nei quali cercare un altrove ed un oltre; quando ogni illusorio nomadismo si spegne sulla soglia di una la­trina maleodo­rante (e segregazionista ): allora non rimane che l’immota so­spensione del limbo. E non è il caso di sgomi­tare: ci siamo già dentro
Paolo Repetto, 2000

A spasso con Pietro21

A spasso con Pietro Dipinti (16)Se dovessimo formulare una definizione di Pietro Jannon, diremmo che è un pittore mediterraneo; e non nel senso che la sua produzione trae alimento, in prevalenza, da un determinato paesaggio: ma nel senso che essa sembra racchiu­dere quasi naturalmente, di tale paesaggio, gli ele­menti più intimi e se­greti: quegli elementi contradditori e drammatici che soltanto una vocazione ed un’affinità riescono ad avvertire al di là dell’apparenza superficiale.  Eppure Jannon è un pittore del Nord, nato precisamente a Venasca, in provincia di Cu­neo (anno 1936), e vissuto tra le domestiche colline del Monferrato ovadese, che furono oggetto dei suoi primi tentativi fin dall’età di quindici anni.  Nato e vissuto, cioè, in un am­biente in cui i termini dello scontro non sussistono più, sussi­stono più, da quando l’uomo – sia pure attraverso anni di fatica – è riu­scito col lavoro a plasmare la materia a sua immagine e somiglianza. Ma forse fu proprio per questo, per questa insufficienza di contrasti, ch’egli si spinse a ricer­care altrove ciò che il suo temperamento di artista richiedeva per meglio esprimersi. E lo trovò lontano dalle pianure e dalle colline dei suoi luoghi di ori­gine, nelle isole: là dove – come lo stesso Jannon ricorda – le cose, so­spese tra terra e mare, tra mare e cielo, sembrano vivere più raccolte in se stesse, incon­taminate da fattori meccanici, e affidate nella loro vicenda, oggi come ieri, alla legge violenta delle stagioni.
Fu nel rapporto con gli scarni paesaggi di Lampedusa, di Stromboli o delle coste siciliane, dove le immagini e i colori appaiono evidenziati da un an­tico silenzio, che Jannon scoperse la parte più autentica di se stesso. Fu in que­sti elementi ridotti all’essenziale, pura forma priva di storia, impa­sto di atmo­sfera e di segni, che finalmente individuò una corrispon­denza al suo modo di es­sere e di sentire. Da allora egli ci viene propo­nendo, come variazioni sul tema, lo stesso discorso ininterrotto; dando­cene, ogni volta, un aspetto nuovo e diverso, più completo e profondo.
Marcello Venturi

A spasso con Pietro Dipinti (17)

RICORDO DI UN AMICO: PIETRO JANNON

A spasso con Pietro22Grande commozione nella sezione del CAI di Ovada per la scomparsa di Pietro Jannon, che ha avuto un ruolo determinante nella gestione della sede e dell’attività sociale negli ultimi vent’anni. Grande appassionato di ambienti naturali, pittore, fotografo, viaggiatore prima che il viaggio diventasse una moda, ti portava a scoprire l’Appennino con l’esperienza di chi ha visto il mondo: dall’Islanda alle Galapagos, dall’Alaska al Tibet.
La gita della domenica precedente, vista attraverso le sue “dia”, era un’altra gita, che faceva percorrere lo stesso itinerario scoprendo particolari che erano sfuggiti. Era totale l’impegno che metteva nel fare ogni cosa: partecipare ad una Marcialonga piuttosto che occuparsi dei lavori di ristrutturazione della sede, accompagnare gli amici nella sua Val di Susa o preparare quei magnifici “funghidipinosottolio”. Nulla era lasciato al caso. Le “Grandi Montagne” per Pietro non erano lontane, sulle Alpi o in qualche angolo del mondo da lui visitato. Erano quelle che poteva salire ogni giorno, appena un po’ di tempo libero glielo concedeva: il Tobbio, la Colma, che puoi vedere dalla finestra di casa e arrivarci sotto in mezz’ora. La sua presenza in sezione o alle gite sociali negli ultimi tempi s’era fatta sempre più rara, rendendo forse meno doloroso quel suo andarsene in punta di piedi.
Ma per chi lo ha conosciuto, il vuoto lasciato da un tipo “speciale” come Pietro rimarrà sempre incolmabile.
Alpennino, 2004

A spasso con Pietro26

A spasso con Pietro28Pietro Jannon era nato nel 1936 a Venasca, in Val Varaita. ed è approdato nell’ovadese nell’immediato dopoguerra, seguendo gli spostamenti della fami­glia. In Ovada ha frequentato le secondarie inferiori e un corso di disegno decorativo presso il maestro Resecco e ha successivamente lavorato come decora­tore per la Cristalvetro e come designer presso la LAI.
La sua attività artistica ha avuto inizio negli anni dell’adolescenza, quella alpi­nistica anche prima. Molto presto ha iniziato a viaggiare, accumulando col tempo un considerevole curriculum di globe-trotter: dalle Isole greche, dello Io­nio e dell’Egeo alla Palestina, dall’Alaska al Perù, con un salto alle Galapa­gos, dall’Islanda al ai parchi degli Stati Uniti, dalla Foresta Nera al Tibet. Il tutto debitamente documentato da migliaia di foto.
Negli anni settanta ha partecipato dapprima a mostre collettive di pittori ovadesi, ed ha tenuto la sua prima personale in Ovada (Dodecaneso – Grecia) nel 1978. Ad essa ne sono seguite altre nel 1985 (Orizzonti), nel 1998 (Le vie di Pietro) e nel 2000 (Divieti). Ha esposto anche a Brescia, sia in una personale che in diverse collettive, a Gardone e all’Arsenale di Iseo.
È stato una colonna del CAI di Ovada per decenni. Ha valicato il suo ul­timo colle nel marzo del 2005.

A spasso con Pietro31

51 vedute del Monte Tobbio

iconografia e storia di una montagna sacra
catalogo essenziale di una mostra per amanti della natura, della montagna e della fatica

in ricordo di Piero Jannon

51 vedute del Monte Tobbio copertina

Introduzione

Perché una mostra dedicata al monte Tobbio?

Percorsi

Dati essenziali

Visibilità

Montagne sacre

Escursioni letterarie

Appunti di geologia sul Monte Tobbio e dintorni

Gli ambienti

La realtà attuale

Fauna

Flora

Qualche proposta per camminare

Il vento del Tobbio

Il piccolo santuario sul Tobbio  in onore della B.V. di Caravaggio

I registri, ossia, la scrittura del viandante

Tutti insieme, appassionatamente

La corsa 1971 – 1980

Bibliografia

Ringraziamenti

02 Tobbio Disegno da lontano

Introduzione

C’è qualcosa di nascosto. Va e trovalo.
Va, e cerca dietro le montagne.
C’è qualcosa di smarrito dietro le montagne.
È smarrito, e ti aspetta. Vai.
RUDYARD KIPLING

Questo catalogo è stato realizzato, con diciassette anni di ritardo, da Paolo Repetto e da Fabrizio Rinaldi. La mostra sul Tobbio venne ideata dai Viandanti delle Nebbie nella primavera del 1996, e fu allestita per la prima volta nel dicembre dello stesso anno presso la sala espositiva della Biblioteca di Ovada, in Piazza Cereseto. Era costituita da trentacinque tabelloni (di dimensioni 1 x 0,70) a sfondo nero. Al primo allestimento ne seguirono altri tre, a Lerma, a Novi Ligure e a Campo Ligure.

Nel Catalogo compaiono alcune immagini che non erano presenti nei tabelloni originali, in sostituzione di altre che sono andate perdute. Il riferimento “colto” della titolazione è naturalmente alle 101 vedute del monte Fuji, la splendida serie pittorica di Hokusai. Eravamo perfettamente consapevoli allora della distanza negli esiti, ma siamo ancora oggi convinti della prossimità negli intenti e nello spirito.

Le fotografie sono state scattate tutte dai Viandanti, da quelli ufficiali e da quelli in pectore. Anche i disegni, con l’eccezione di un paio di illustrazioni relative alla fauna, sono opera nostra. Sono state inserite inoltre alcune riproduzioni di dipinti che hanno per soggetto proprio il Tobbio: un piccolo assaggio di un’auspicabile futura mostra sul tema.

Per correttezza segnaliamo che già nei primi anni Novanta era stata organizzata quasi clandestinamente in Alessandria una rassegna pittorica dedicata al Tobbio (non un excursus iconografico sul tema, ma una sorta di estemporanea a tema, interpretata secondo le tecniche più diverse) Sino a qualche tempo fa, e segnatamente all’epoca della nostra iniziativa, non ne eravamo al corrente. Di quella rassegna non esiste un catalogo, ma dopo aver visionato alcuni dei materiali rimasti dobbiamo confessare che non ci sembra una gran perdita.

Infine, una dedica. Mentre la mostra era dedicata ad Andrea Longhetti, unica vittima per quanto ne sappiamo della passione per il Tobbio, questo catalogo è intitolato a Piero Jannon, proprio colui che ritrovò il corpo del giovane Andrea e che della passione per il Tobbio è stato e rimarrà l’interprete più genuino.

Perché una mostra dedicata al monte Tobbio?

La domanda suonerà superflua per chi il monte lo ha già salito, una o innumerevoli volte: o anche solo per chi è stato affascinato, nelle occasioni e dalle angolazioni più svariate, dall’inconfondibilità del suo profilo. Ma una spiegazione è dovuta a coloro che non hanno provato né l’una né l’altra emozione. Il Tobbio è diverso, è speciale: e intento della mostra, attraverso l’insistenza sulla sua immagine, è di celebrare una diversità da sempre avvertita, che ha rivestito di un’aura di sacralità e di leggenda una vetta accessibile e modesta.

L’eccezionalità del Tobbio è connessa ad un particolare rapporto tra la sua morfologia e la sua collocazione. La conformazione vagamente piramidale e l’escursione altimetrica tra le pendici e la vetta gli conferiscono un’estesa visibilità, pur in mezzo ad altre formazioni di altitudine pari o addirittura superiore. E questo nitido stagliarsi, sulla direttrice ideale che raccorda il mare alla pianura dell’oltregiogo, lo ha eletto a riferimento geografico, meteorologico e simbolico per eccellenza per le popolazioni di entrambi i versanti dell’appennino.

Incursioni nell immaginario2 Tobbio

AVVERTENZA: Il presente catalogo raccoglie integralmente i contributi e le documentazioni scritte che accompagnano la mostra in oggetto. L’iconografia è ripresa invece solo parzialmente, per le oggettive difficoltà tecniche.

Percorsi

Tobbio Paolo

Lo sviluppo perimetrale della mostra propone, a grandi linee, due diversi itinerari, che possono essere percorsi in parallelo o attuando costanti intersezioni. Il primo ci accompagna in una escursione iconografica a trecentosessanta gradi attorno al Tobbio, colto nei differenti abiti stagionali e meteorologici, e prosegue poi con un ribaltamento del punto di osservazione, trasferito sulla vetta stessa. Il secondo abbozza un excursus storico-scientifico sulle caratteristiche geologiche e naturalistiche del monte, e sul “culto” ad esso tributato. Ciascun pannello offre pertanto una sequenza di immagini corredate di riflessioni generali sul rapporto con la montagna o specifiche su quello col Tobbio, ed una sezione scientifico-documentaria, sviluppata orizzontalmente lungo l’intera mostra.

Noi ci permettiamo un paio di suggerimenti extra. Intanto, quello di percorrere questi itinerari non con il fardello di pignolerie fotografiche, naturalistiche, alpinistiche o che altro, ma in assetto leggero, per ritrovare quella fusione tra reale e fantastico che costituisce la particolare magia di ogni ascensione al Tobbio. Ma, soprattutto, quello di regalarsi un’appendice esterna alla mostra, guadagnando l’altura più vicina e godendosi, se la visibilità lo permette, il soggetto dal vero; o meglio ancora, facendo una puntatina in vetta, per ripercorrere queste immagini dopo aver rotto il fiato, col ritmo giusto per la salita.

Dati essenziali

Coordinate: 8° 48’ 00’’ Long. Est; 44° 35’ 30’’ Lat. Nord
Altitudine: mt. 1092 s.l.m.
Area complessiva: Km2 4.9
Ampiezza massima:   Nord – Sud (Eremiti – Nespolo) Km 3.1
Ovest – Est (Gorzente – P. Daiola) Km 1.8
Escursione altimetrica:        Dagli Eremiti (Nord) m. 533
Dalla Casc. Nespolo m. 587
Toponimo:        molto incerto. È possibile una derivazione dall’antico ligure (tribù dei Mentovini) togisonus (luogo impervio), da cui anticamente Toggio.

Visibilità

Caratteristica precipua del Tobbio è senz’altro la visibilità. Il suo profilo si distingue nettamente, provenendo da nord-est, sin dalle piane o dalle basse colline del pavese. Verso settentrione la sua visibilità non incontra ostacoli lungo tutta la larga fascia pianeggiante che arriva sino al gruppo del Rosa e alle Lepontine, da Ivrea al lago di Como. Da occidente è riconoscibile dai rilievi di tutto l’arco alpino, sino alle Marittime. Meno visibile risulta dal versante appenninico, tra sud-sud-ovest e sud-sud-est, dove il suo dominio trova un limite prossimo nella cresta del Figne, e si frange contro l’altitudine superiore della corona della Val Borbera. In condizioni di eccezionale limpidezza, però, anche chi bordeggi lungo la costa ligure può coglierlo, in uno scorcio ristretto, allineato a nord sulla direttrice del santuario della Guardia.

Appennino - Sergio Fava
Appennino (Sergio Fava)

Montagne sacre

La sacralità di una montagna non è proporzionale alle sue dimensioni, alla sua altitudine o alla sua inaccessibilità, ma piuttosto al significato che essa riveste per le popolazioni che vivono alla sua ombra o nel raggio della sua visibilità, o per gli individui che la salgono.

In questo senso, fatte le debite proporzioni e, soprattutto, assunto il termine con la dovuta “ironia”, la sacralità del Tobbio non ha nulla da invidiare a quella del Kailas o del Meru. E il difetto di esotismo è pienamente compensato dalla paterna confidenza, mista al senso di rispetto, che spira dai suoi costoni, e che ci infonde, ad ogni risalita, una rinnovata serenità.

Escursioni letterarie

Cosa si vede dalla vetta del Tobbio
“Sulla vetta, finalmente, se le nebbie o neri nuvoloni non ti fanno eventuale impedimento, il tuo occhio […] vede lontano lontano, e può contemplare un panorama vario e grandioso, dalla porpora dorata di uno splendido sorger di sole, o di un tranquillo tramonto, alla gradevole vista delle lontane e vaste pianure dell’Alessandrino e Tortonese, nonché delle ridenti colline di Torino, dell’Astigiano, del Monferrato […].

Taccio dei contrafforti dell’Antola, del Penna, della Polcevera; taccio del colle di Masone, della Bocchetta, dei Giovi, che se partitamente non si scorgono, di leggieri però col pensiero si abbracciano nella loro posizione geografica. Taccio del magnifico lago delle Lavezze, che ti fa illusione bella e grandiosa del mare. Taccio del vasto panorama delle Alpi lontane, che ora si levano al cielo in guglie acute come quella del Monviso e monte Bianco, ora si rompono in giogaie […], ora torreggiano come immense piramidi di ghiaccio, ora si disegnano in rupi merlate, in creste capricciose che le nevi intatte adornano di argentea corona. E cento e mille altre cose taccio che non potranno nascondersi ad ogni sguardo scrutatore, degna ricompensa della fatica sopportata per arrivare alla vetta.”
Sac. ERNESTO PITTO

04 Paolo viandante 100

Sì, tutto ci appare sommamente meraviglioso, quando per la prima volta lo abbracciamo con lo sguardo dall’alto del Brocken; da ogni lato il nostro spirito riceve nuove impressioni che, varie fino a contraddirsi, si combinano nella nostra anima in un sentimento grande, ancora confuso, ancora non compreso. Se riusciamo a coglierlo in un concetto, allora abbiamo capito qual è il carattere del monte.
HEINRICH HEINE

05 Tobbio da Campi della marca100

Una faticosa arrampicata simboleggia in primo luogo l’ascesi e la finale liberazione. Di fatto un’arrampicata strappa alle ugge, disperde le ossessioni, infrange il comune regime dalla mente. In cima si arriva emendati e si presterà quindi ascolto ad un succedersi di eventi tutto particolare: giochi di nebbie e schiarite; terse apparizioni del sole, della luna, delle stelle fiammeggianti; corse di sizze e nuvolaglie; paesaggi sottostanti che la prospettiva dall’alto sembra stia per capovolgere e far ruotare e infine, intime al punto che la mente se ne sente aggirata, vertigini che ghermiscono le viscere improvvisamente allo svelarsi di uno strapiombo. Momenti di fraseggio che le parole non saprebbero riferire.
ELEMIRE ZOLLA

Siamo stati ingannati dalle nuvole
Furenti nella fatica della salita
Nessun mare che brilli oltre i crinali
Di sassi che ignorano ormai ogni canto
di pernici e di altri miti lontani.

Ho portato con me le poche cose
Essenziali nella fatica in cui
Volontario mi affretto ad immolare
L’avanzo di questo giorno urbano
Urbanizzato, meglio, da cento vizi
Inutili come, lo so, sarà questa salita.

Di là guarderò i miei mille pezzi
Sparsi nella collina e nelle pianure
Uniti dal filo di un tempo sconosciuto.

Da sempre e per sempre.
EGIDIO GOLA

 Quando gli fu chiesto perché voleva scalare il monte Everest, George Mallory diede un’inconsueta risposta, che è diventata la più famosa e citata motivazione per scalare le montagne: “perché è lì”.
EDWIN BERNBAUM

09 Tobbio Sagoma

Il Tobbio è lì, lo vedo mentre leggo, mentre lavoro, persino quando riposo. Lo cerco tornando dalle vacanze estive; si distingue anche da lontano. Dal paese dove son nato appare, forse per la distanza, maestoso, con un grumo nero in vetta: non da moltissimo ho saputo che è la chiesa – rifugio.
Mi ci sono avvicinato lentamente, a tappe; sono, quasi, le tappe della mia vita. Ora lo conosco, da vicino; e mi piace, è un bel monte: fa parte delle cose buone, come le formidabili sudate per salire e per discendere, sempre all’inseguimento di qualcuno o qualcosa che sta davanti, come gli intensi, stratificati ricordi a lui legati. Ricordi …
Una sera d’autunno, nebbiosa e fredda, superammo l’ultimo costone; tra brandelli di nebbia la chiesa appariva e scompariva; dappresso due o tre ombre di muovevano. Ci avvicinammo; erano tre ragazzi; uno di loro, legato ad uno strano farfallone, un parapendio, prese silenziosamente la rincorsa sul costone e si lanciò nel vuoto …
O quella volta che, dopo una stentata nevicata, eravamo convinti di essere i primi a calpestare la neve, e non un’orma umana o divina appariva intorno alla chiesa. Eppure all’interno, la stufa accesa, un essere angelico sorridente, atletico, ci accolse …
Un monte di ricordi.
FRANCO VALLOSIO

Soprattutto, non perdete la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata … ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati … Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene.
SØREN KIERKEEGAARD

21 Tobbio Chiesetta tra neve e nubi

È un generale impulso che tutti gli uomini provano, benché non tutti lo notino, che sulle alte montagne, là dove l’aria è pura e sottile, si sente maggior facilità nella respirazione, maggiore leggerezza nel corpo, maggior serenità nello spirito; i piaceri vi sono meno ardenti, le passioni più moderate. Le meditazioni vi assumono non so qual carattere grande e sublime, proporzionato agli oggetti che ci colpiscono, e non so quale tranquilla voluttà che nulla ha di acre e di sensuale. Sembra che elevandosi al disopra delle abitazioni degli uomini, si lascino tutti i sentimenti bassi e terreni, e che man mano ci si avvicina alle regioni eteree l’anima assuma qualche cosa della loro purezza inalterabile.
JEAN JACQUES ROUSSEAU

Percorrendo la Direttissima, ad un certo punto ci si trova di fronte ad una cresta ripida, superata la quale la pendenza diminuisce, addolcendosi sino alla vetta del Tobbio; sicuramente questo è il tratto più impervio del sentiero. Mentre arranco sbuffando, un unico pensiero mi ronza in testa: vorrei che fosse già visibile il campanile. Continuo a camminare, un passo dietro l’altro: vorrei vederlo ORA, subito.
Questo desiderio di vedere ciò per cui fatichiamo, riguarda in questo caso la montagna e la vetta: ma non è raro che si riferisca ad altri ostacoli, ben più ardui, nei quali troppo spesso ci imbattiamo: alcuni la chiamano sindrome del “Sole nero”. È un male che morde dentro, un malessere dell’anima che non lascia tregua, per il quale non esiste cura se non la volontà di uscirne: ma il rischio di riammalarsi è sempre lì, basta niente per ricascarci. Mi piacerebbe sapere cosa sto affrontando, distinguerlo, guardarlo negli occhi.
Camminare, così come leggere, non offre la soluzione, ma è almeno un modo per non precipitare. Percorrere sentieri più o meno impervi ci aiuta a non farci sopraffare dalla pigrizia, ci induce a fissare delle mete.
Leggendo, poi, ci si rende conto che altri stanno soffrendo le nostre stesse angosce, che altri provano le stesse emozioni. È una consolazione relativa, anche amara, ma ci fa sentire meno soli.
Dall’anticima vedo finalmente stagliarsi il profilo del rifugio; ma è solo un attimo, il tempo di una folata di vento che alza la nube. Quando ci si porta dentro questo male oscuro, a volte la si intravvede appena la meta; poi torna la nebbia.
FABRIZIO RINALDI

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Le montagne dimorano sempre in pace e sempre camminano. Esaminate attentamente questa qualità delle montagne … Se dubitate della qualità camminatrice delle montagne, non conoscerete il vostro stesso camminare … Non sono né senzienti né insenzienti le verdi montagne, voi non siete né senzienti né insenzienti. A questo punto non potete dubitare che le montagne camminino.
DOGEN

08 Tobbio Nebbie

Ho capito che salire il Tobbio stava diventando per me un atto rituale quando ho cominciato ad amare la discesa. Lo confesso, ormai salgo al Tobbio soprattutto in funzione del piacere di tornare a valle. Scendo appagato, con la coscienza di chi ha compiuto il suo dovere e può vivere più serenamente quel che resta del giorno, o della settimana. Mi piace calarmi dalle nuvole, recuperare ai piedi l’asfalto, agli occhi ed alla mente gli orizzonti angusti della quotidianità. Mi piace perché scendo ogni volta dal Tobbio con una rinnovata carica di genuina intolleranza, di quella sana cattiveria che rimane l’unico antidoto per sopravvivere ai miasmi e ai tafani dell’imbecillità stagnante a fondovalle.
PAOLO REPETTO

Per la sua natura primordiale, per la sua elementarità, per la sua lontananza da tutto ciò che è piccolo mondo, dai pensieri e sentimenti dell’uomo moderno addomesticato e razionalizzato, la montagna invita anche spiritualmente ad un ritorno alle origini, ad un raccoglimento, alla realizzazione in sé di qualcosa che rifletta la semplicità, la grandezza, la forza pura e l’intangibilità del mondo delle vette gelate e lucenti. Che quasi ogni antica tradizione abbia conosciuto il simbolismo della montagna, concependo le altezze montane come la sede o di forze divine ed olimpiche, o di eroi e di uomini trasfigurati, questa è la conferma per il potere evocatorio or ora attribuito alla montagna.
JULIUS EVOLA

19 Tobbio sagoma e nebbie

Ecco, sono ai piedi del monte; metto in moto il mio corpo e comincio a salire. Passo dopo passo, respiro dopo respiro, pensiero dopo pensiero salgo. Aumentando la frequenza dei passi aumenta la frequenza dei respiri e diminuisce la frequenza dei pensieri: non è anche per questo che ascendo il monte? Aumentando ulteriormente il ritmo, corpo e mente si plasmano in funzione della roccia, diventano funzionali ad essa; il pensiero scompare.
Arrivo in vetta; rifiato. Il pensiero, come accade ad un ruscello in un fenomeno carsico, ricompare, sgorgando dai meandri più reconditi della mente dove si era rifugiato, più puro e più forte.
GIUSEPPE SCHEPIS

Non so come dovrei esprimermi perché ho quasi l’impressione che i pensieri s’arricchissero di grandezza, di sublimità, armonizzandosi con quanto l’occhio scorgeva vagando, quasi respirando una sicura gioia tranquilla, lontana da qualsiasi passione, da ogni sensualità.
È come se d’un tratto ci si sollevasse al di sopra delle dimore dei mortali, abbandonando ogni volgare sentimento terreno; è come se l’anima, avvicinandosi alle regioni eteree, assorbisse dalla loro sempre immutabile purezza. Un sentimento austero s’impadronisce di noi, senza mutarsi in malinconia; un sentimento di pace tuttavia alieno da ogni molle rilassatezza ci pervade e siamo felici di esistere, felici di pensare, felici di sentire. La veemenza delle passioni si smorza, perdono quel loro affilato aculeo che le rende dolorose, lasciando nel cuore una tenue e piacevole commozione. In tal modo le passioni, che altrimenti sono fonte di pena per l’uomo, si trasformano in fonte di felicità.
JEAN JACQUES ROUSSEAU

10 Tobbio tra la nebbia

Ci sono montagne nascoste nelle gemme; ci sono montagne nascoste nelle paludi e montagne nascoste nel cielo; ci sono montagne nascoste nelle montagne. C’è un’infinità di montagne nascoste nel nascosto.
DOGEN

Immaginate una bella giornata d’agosto. Due amici che decidono di salire sul Tobbio. Di questi, uno non c’è mai stato e l’altro è orgoglioso di accompagnarcelo, perché questo è il suo monte. Immaginate nessuno sul monte, non solo, neanche un alito di vento (ce ne vuole per immaginarlo!) I due siedono di faccia al sole di mezzogiorno. Parlano della vita, seduti sulla pietra calda. Sono nudi, la pelle arrostita dal sole, gli occhi socchiusi. E parlano, parlano. Potrebbe durare così mille anni. Il tono sarebbe sempre lo stesso, quello che hanno i sognatori.
Ora stanno lì, immobili, come fossero di pietra. Due uomini di pietra. Una leggenda boliviana narra che Dio, la montagna, creò i primi uomini così. Poi, perché non si sgretolassero come sabbia al vento, diede loro anche un cuore, un tenero cuore di pietra. Per alcuni istanti i due amici lo sentono palpitare nei crepacci segreti del monte, e vorrebbero tornare al tempo in cui dentro ogni uomo c’era una montagna. Scendono, i due amici, e i loro passi rimbombano giù nella valle, come ad annunciare un messaggio. Ma all’improvviso si fermano e si guardano in faccia, dubbiosi: chi potrà mai credere alla loro storia? Da troppo tempo gli umani non hanno più teneri cuori di pietra.
GIAN LUIGI REPETTO

Riflessioni sul monte Tobbio 01

E dovete camminare come il cammello, l’unico animale, così si dice, che rumina mentre cammina. Un viaggiatore una volta chiese alla domestica di Wordsworth di mostrargli lo studio del suo padrone, e lei rispose: “Questa è la biblioteca, ma il suo studio è là fuori, oltre la porta”. 
HENRY DAVID THOREAU

Nelle circostanze difficili della vita, vi parrà di essere ad una difficile salita. Un istante di viltà, di imprevidenza perde tutto. Il coraggio, la previdenza, la costanza, la lealtà può farvi vincere ogni cosa. Vi accorgerete allora del grande valor morale educativo dell’alpinismo.
Non vi accade mai che un pensiero non nobile venisse ad oscurarvi l’animo sopra una vetta alpina. Non vi hanno ivi che generose aspirazioni verso il buono, la virtù, la grandezza. Io non so se un quadro di grande artista, lo scritto di un sapiente, il discorso di un eloquente oratore possa produrre nell’animo umano impressioni così profonde e così elevate quanto lo spettacolo della natura sulle vette.
QUINTINO SELLA

11 Tobbio alba neve

Per il fatto che montagne si stagliano contro il cielo e l’ambiente circostante, richiamando l’attenzione sulle loro eccelse sommità, le visioni tendono a radunarsi e a modificarsi intorno a loro come le nubi intorno alle vette. Essendo l’aspetto più imponente del paesaggio naturale, quello che ci è possibile vedere e cogliere come un tutto unico, si prestano a giustapposizioni con immagini di unità e di completezza che in numerose tradizioni sono associate al concetto del sacro.
EDWIN BERNBAUM

[…] la luna stava nuda nei cieli, ad altezza
immensa sopra la mia testa, e sulla sponda
mi trovai di un grande mare di nebbia,

che, mite e silenzioso, giaceva ai miei piedi.
Cento colline alzavano i dorsi oscuri
per tutto il quieto oceano; più oltre,
molto più oltre, i vapori balzavano,
con forme di capi, lingue, promontori,
entro il mare, il mare vero […]

WILLIAM WORDSWORTH

Il seguire un percorso dal principio alla fine dà una speciale soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) […]. La necessità di comprendere in un’immagine la dimensione del tempo insieme a quella dello spazio è all’origine della cartografia. Tempo come storia del passato […] tempo al futuro: come presenza di ostacoli che s’incontreranno nel viaggio, e qui il tempo atmosferico si salda al tempo cronologico […]. La cartografia insomma, anche se statica, presuppone una idea narrativa, è concepita in funzione di un itinerario, è Odissea.
ITALO CALVINO

Luna piena. Aria fredda che brucia la pelle, e anche sotto.
Per poter salire senza accendere le torce ci spostiamo sul versante opposto agli Eremiti. Lo spettacolo rimarrà nella nostra memoria per un bel po’. La luce lunare fa risaltare particolari che altrimenti non percepiremmo. Ogni albero, ogni pietra, ogni canalone della montagna hanno una forma distinguibile e delineabile. Tutto viene percepito dai nostri occhi come una singolarità, non come un “complesso”.
A Giuseppe tornano in mente versi del “Canto notturno”. Un posticino nello zaino della nostra immaginazione Leopardi lo occupa sempre.
“Sorgi, la sera, e vai,
contemplando i deserti […]”
Paolo ci invita a fermarci, e al silenzio; stiamo camminando, anzi fluttuando in un sogno latteo. Il paesaggio che ci circonda avrebbe mandato in delirio qualsiasi poeta o pittore romantico.
Mi ritrovo a recitare silenziosamente la preghiera che i fedeli pronunciano mentre salgono al monte Fuji: “Sii pura … Conserva il tuo splendore, o montagna!”. E mentre proseguo mi abbandono al sogno, e lo popolo degli esseri fantastici che abitano la montagna: un unicorno mi passa accanto, talmente veloce che quasi mi fa cadere. Dalla cresta di una roccia un lupo bianco mi fissa con i suoi occhi luccicanti, poi ulula alla luna. Un brivido mi percorre la schiena.
Mi risvegliano le parole di Paolo: dalla vetta indica le luci a valle. Anche la realtà della pianura può essere bellissima, vista da quassù.
FABRIZIO RINALDI

14 Tobbio e Figne

Mi pongo questo problema. Il Tobbio, e la montagna in genere, la letteratura, e la cultura in genere, sono dunque solo dei compensativi, falsi scopi rispetto ad un’esistenza che si rivela man mano più vuota ed arida? Me lo pongo proprio mentre sto salendo al Tobbio, con calma, e discuto di letteratura con Franco. La risposta che mi do è che probabilmente le cose stanno così.
Pur tuttavia, dice Franco … (Franco non dice mai “pur tuttavia”, ma è come lo dicesse sempre). Dopo un altro paio di tornanti conveniamo che un senso tutto questo ce l’ha comunque, perché consente di trascorrere il tempo, riempiendolo bene o male, anziché lasciarlo passare, subendolo (patior). Trans-currere, correre attraverso, usato come transitivo, implica che mentre scalo, cammino, leggo, sono io ad agire, magari per interposta persona, o per spazi evocati: è un ex-sistere, sottrarsi all’immobilità omologante dell’essere, e non un ad-sistere, e meno ancora un recitare nello spettacolo. Non sono dunque tutti assimilabili i comportamenti dell’uomo: perché alcuni, quelli “attivi”, producono una consapevolezza (o ne sono frutto, il che è lo stesso) che si traduce in buona disposizione sociale, comprensione, ecc.: gli altri producono solo antagonismo e asocialità.
PAOLO REPETTO

Paolo e il Tobbio

È vero, siamo dei crociati miserabili, e lo sono anche quei camminatori che, ai giorni nostri, non affrontano imprese tenaci e di lunga durata. Le nostre spedizioni non sono altro che gite, e ci ritroviamo, la sera, accanto al vecchio focolare da cui siamo partiti. Per metà del cammino non facciamo che tornare sui nostri passi. Dovremmo avanzare, anche sul percorso più breve, con imperituro spirito di avventura, come se non dovessimo mai far ritorno.
HENRY DAVID THOREAU

19 Tobbio sagoma e nebbie

Scorrendo vecchie fotografie mi accorgo di una costante che ritorna, in primo piano, sullo sfondo, come un piccolo particolare: è il monte, il monte Tobbio a farla da padrone in quelle immagini incorniciate.
Molti volti lì impressionati sono ormai scoloriti nei miei ricordi, molte persone sono approdate su altri versanti, hanno raggiunto nuove vette. Chissà se sono tutte migliori di questa. Ma il Tobbio è sempre lì, sempre quello: immobile sacra collina dove ad ogni angolo credi (e speri) di incontrare un vecchio sciamano o un sacro portale aperto sul vuoto. Ed è salendo in questo vuoto che ritrovi te stesso e ritrovi anche gli altri, quelli “scoloriti”.
Forse perché – ma è solo un’idea – il Tobbio, come il cuore, conserva le orme di chi è passato anche una volta sola sui suoi sentieri. E a noi spetta (solo) il compito di ritrovarle e di saperle leggere, le orme. Troppo facile – ed inutile – sarebbe a questo scopo incamminarsi in pianura …
ANTONIO CAMMAROTA

16 Tobbio tra gli alberi

[…] Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave,
e quanto uom più va su, e men fa male.
Però quand’ella ti parrà soave
tanto, che il su andar ti fia leggiero,
come a seconda giuso andar per nave,
allor sarai al fin d’esto sentiero:
quivi di riposar l’affanno aspetta […]
DANTE (Purgatorio, 4)

Segnali di fumo 06 Tobbio nella nebbia

Resta un filo di fiato ferito
dove il passo è pensiero
tra il profilo del cuore
e lo sguardo che s’ impietra
e salendo per l’erta
che altera il sangue ineguale
lasci le parole, finalmente,
e il di più, e il chi e il quale,
come se fosse niente.
MARCELLO FURIANI

Comincio a camminare cercando di non impantanarmi nelle pozzanghere. Gli amici scelgono di salire per la Diretta. Come un mulo rassegnato li seguo, ma in un attimo le gambe diventano rigide, le ginocchia sembrano esplodere. Il fiato prima mi manca, poi si trasforma bruciandomi i polmoni.
No, io mollo, chi me lo fa fare? Torno giù, al bar, a bere, con gli altri, i sedentari, magari a sparlare di chi ama le assurde faticate.
Ma questi salgono senza lamenti, anzi, si scambiano battute. È una sfida, con loro, con il mondo, con me stesso.
Immagino d’essere qui, cinquant’anni fa, braccato dagli uomini in nero.
Lentamente il fiato si spezza, le gambe si fanno elastiche. Comincio persino a guardare oltre a dove poso i piedi. L’Inferno ha lasciato il posto al Purgatorio. Cammino riflettendo, faccio mille propositi. Dovrei cambiare vita, smetterla di sputtanarmi. Cerco nella nebbia della mia mente altre possibilità, immagino diverse situazioni. Gli occhi s’allargano negli orizzonti che mi trovo davanti, convincendomi che posso scalare anche altre cime.
In vista della Chiesetta, l’aria pare disegnarmi un paio d’ali. Le gambe scappano dai calzoni, ho voglia di correre.
Mi guardo attorno, respiro da ogni poro della pelle, mentre il cielo mi entra negli occhi … eccomi in Paradiso.
MAURO OLIVIERI

21 Tobbio Chiesetta tra neve e nubi

… E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fungendo al viver mio!
GIACOMO LEOPARDI

Insomma, se non riuscite a capire che vi è qualcosa nell’uomo che raccoglie la sfida lanciata da quella montagna e va ad affrontarla, che la lotta è la lotta della vita stessa verso l’alto, sempre più in alto, allora non capirete mai perché ci andiamo. Quello che otteniamo da un’avventura come questa è soltanto gioia pura. E la gioia, in fin dei conti, è il fine della vita. Non viviamo per mangiare e per far soldi. Mangiamo e facciamo soldi per godere della vita. Ed è questo il significato della vita ed è per questo che è fatta la vita.
GEORGE MALLORY

Il Tobbio è misura degli spazi dell’immaginario, diaframma tra i mondi nei quali sono cresciuto. Da ragazzino vivevo a Genova e il Tobbio era il luogo oltre il quale c’erano la campagna, i giochi sulla ghiaia con i cugini, le pentole fumanti della nonna. A sedici anni mi sono trasferito in cascina, ed era il Tobbio a nascondere la città con le sue luci, i “caruggi” strettissimi, l’università, le ragazze. Era allora la materializza­zione di uno spazio mentale capace di dividere le due realtà che, per diversi motivi, fuggivo ed anelavo confusamente, con un’incertezza determinata forse da quelle nuvole che così spesso annebbiano, con la cima del monte, anche i miei pensieri.
GIACOMO GOLA

Ho sempre pensato che una montagna non possa che essere splendidamente indifferente: ho sempre guardato alle credenze locali come a superstizioni da rispettare, e ho sempre cercato di fuggire alla tentazione di attribuire facoltà umane ad una montagna. Ma questa volta comincio a rendermi conto che nel rapporto fisico con una montagna molto dipendeva dalla disponibilità mentale.
PETER BOARDMAN

Salire la Montagna da soli procura sicuramente emozioni differenti dal farlo in compagnia. Anzitutto bisogna vincere la paura di non farcela che coglie coloro che, come me, non sono particolarmente allenati. Il Tobbio è una montagna imprevedibile, come ogni monte che si rispetti a volte ci spiazza con i suoi cambiamenti repentini. I sentieri che lo salgono sono impervi, impervi come quelli della vita. E l’amor proprio, l’orgoglio, quei fattori “propulsivi” che quando si sale con altri ci fanno tener duro, per non essere i primi a cedere, non servono a nulla. La decisione di mollare o proseguire spetta unicamente alla nostra volontà e testardaggine. La forza per vincere queste paure, gli stimoli per andare avanti quando le gambe tremano, si possono trovare solamente dentro, attingendo magari alla fantasia, immaginando avventure più o meno verosimili. Si può fingere di scalare montagne ardue e immense: oppure sfidare la tramontana come fosse un vento gelido del Polo Nord. O ancora, quando il sole cocente secca le labbra, possiamo trasferirci nel deserto cinese di Takla Makan.
Fantasie, che ci spingono avanti … avanti fino alla cima. Fino a guadagnare il “tetto del mondo”. (Insomma…!)
FABRIZIO RINALDI

Nelle montagne troverete il coraggio per sfidare i pericoli, ma vi imparerete pure la prudenza e la previdenza onde superarli con incolumità. Uomini impavidi vi farete, locché non vuol dire imprudenti ed imprevidenti. Ha gran valore un uomo che sa esporre la propria vita, e pure esponendola sa circondarsi di tutte le ragionevoli cautele.
QUINTINO SELLA

22 Tobbio Chiesa cielo azzurro e nubi

[…] la luna stava nuda nei cieli, ad altezza
immensa sopra la mia testa, e sulla sponda
mi trovai di un grande mare di nebbia,
che, mite e silenzioso, giaceva ai miei piedi.
Cento colline alzavano i dorsi oscuri
per tutto il quieto oceano; più oltre,
molto più oltre, i vapori balzavano,
con forme di capi, lingue, promontori,
entro il mare, il mare vero […]
WILLIAM WORDSWORTH

 Fluttuando al di sopra nelle nubi, materializzandosi fuori dalla nebbia, le montagne sembrano appartenere a un mondo totalmente differente da quello che conosciamo, facendoci percepire il sacro come l’assolutamente diverso.
EDWIN BERNBAUM

07 Tobbio Chiesetta

Le cose più degne di ammirazione sono quelle che non si possono esprimere, i ricordi indimenticabili non fanno esprimere epitaffi …”, così scriveva Herman Melville nel 1850, ripensando ai viaggi negli oceani effettuati per “scacciare la tristezza e regolare la circolazione”!
Quante volte, nella mente non estranea alla “dimensione sognante”, l’ansia di trasmettere emozioni vissute sulla propria pelle si risolve in un inutile affanno! Il pensiero sembra restare sospeso, come in un lampo magico che trascende parole scritte o dette. È questo il segnale più vivo, che dà la misura dei momenti magici. Come quelli che porti dentro da quando, come un vecchio mohicano incallito, lasci dietro le spalle percorsi frenetici e folli, costretti fra troppi “artifici” inutili e finti, per inseguire il richiamo antico e saggio che conduce alla “tua” Vetta. L’allusione iniziale apparirà, così, un po’ meno paradossale: in fondo, sono parole di chi ha saputo trovare il proprio “rifugio” personale – non importa poi tanto se fra gli orizzonti dei mari o fra i sassi di valichi e pendii. O, forse, volersi riprendere il giusto ritmo del tempo e dello spazio appartiene ormai soltanto al sogno? (il sogno è a due passi … ed esiste un linguaggio – proprio dei sogni che va al di là delle parole).
ENZO CAPELLO

La Montagna insegna il silenzio, la castità della parola e dell’espressione. Disabitua dalla chiacchiera, dalla parola inutile, dalle inutili, esuberanti effusioni. Essa semplifica ed interiorizza. Il segno, l’allusione sono qui più eloquenti di un lungo discorso.
JULIUS EVOLA

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Il Tobbio (Fabrizio Bruzzone)

Trovammo in una valletta del monte un vecchio pastore, che cercò di dissuaderci dal salire, narrandoci che cinquant’anni fa, preso dal medesimo nostro ardore giovanile, egli era salito sulla cima, e non ne aveva riportato che delusione e fatica … Mentre egli così si scalmanava, in noi – com’è nei giovani, restii ad ogni consiglio – cresceva per quel divieto il desiderio.
FRANCESCO PETRARCA

Salendo il Tobbio si ha una diversa percezione delle durate. Il tempo dell’ascesa e del ritorno non lo si quantifica nelle consuete ore d’auto, ma in inusuali ore di cammino. Così come leggere, camminare aiuta a prendere coscienza di una diversa scansione ed estensione temporale.
In un mondo nel quale è possibile sapere se in Cina, in questo preciso istante, fa caldo o freddo, il Tobbio esce dal computo. Lì il tempo si misura in passi, in soste per guardarsi attorno. Bisogna avere l’umiltà di rallentare la corsa. Chi sale sul Monte sa che trascorrerà del tempo prima che egli torni in valle, e questo tempo lo trascorrerà camminando, trascinato avanti solamente dalla sua volontà.
FABRIZIO RINALDI

Tobbio nelle nebbie da Grillano 01_11 _2012 01 3

Io sono un viandante, uno scalatore, disse egli al proprio cuore; io non amo le pianure e, a quanto pare, non posso starmene a lungo tranquillo.
E qualunque destino o esperienza mi tocchi, – in essi sarà sempre un peregrinare e un salire sulle montagne: alla fine non si esperimenta che se stessi.
FRIEDRICH NIETZSCHE

Secondo un mio vecchio chiodo l’alpinismo è cultura, è attività perfetta dell’uomo, dove l’uomo è uguale a Dio, perché è l’unica dove conoscere e fare sono una cosa sola.
MASSIMO MILA

Le montagne, l’aspetto eccelso e il più spettacolare del paesaggio naturale, possiedono lo straordinario potere di evocare il sacro. L’etereo sorgere di una cresta nella foschia, lo scintillio del chiarore lunare su una parete di ghiaccio, un bagliore dorato su una vetta lontana: questi istanti di trascendente bellezza possono rivelarci che il mondo in cui viviamo è un luogo di misteri e splendori inimmaginabili. Nella furiosa schermaglia degli elementi naturali che turbinano intorno alle loro vette – tuoni, folgori, venti e nubi – le montagne sono anche la personificazione di possenti forze ben al di fuori del nostro controllo, sono le espressioni fisiche di una realtà che ci può sopraffare con sentimenti di meraviglia e timore.
EDWIN BERNBAUM

Tobbio con nuvole

Se appartenessimo a culture diverse, lontane nello spazio e nel tempo, non avremmo osato violarne la cima: l’avremmo considerata sacra, abitata da divinità inaccessibili. Purtroppo (o per fortuna) il nostro atteggiamento dissacratorio nei confronti della natura, erede del cristianesimo e di Voltaire, fa sì che non esista più alcuna vetta vergine, alcun fazzoletto di terra sacro e inviolabile.
Proprio per questo, spenta ormai ogni sete di conquista e di record, possiamo riscoprire nell’ascesa al Tobbio, ai tanti Tobbio che esistono sulla terra, una dimensione diversa, più vera; possiamo cercare quella catarsi che il nostro tempo ci nega, e insieme ci impone.
Sono soprattutto i percorsi inventati sul momento, lungo le rughe del Tobbio, a farci scoprire dimensioni sempre nuove. Tra le asperità, le polle d’acqua sgorgano dal sottosuolo come da un impossibile fenomeno carsico, diventando talvolta tramite di involontari riti di purificazione. Poi, giunti alla vetta, è il vento ad accoglierci e a penetrarci: quel vento che, se ci volgiamo a sud, porta l’odore di salso che arriva dal mare.
FABIO MARCHELLI

I monti stanno immobili: ma noi, dove ci fermeremo?
FRIEDRICH HÖLDERLIN

Sali sulla montagna e cogline i doni. La pace della natura fluirà in te come il sole si infiltra tra gli alberi. Il vento ti infonderà tutta la sua freschezza, e la tempesta la sua energia, mentre gli assilli si staccheranno da te come foglie d’autunno.
JOHN MUYR

Basta un colle, una vetta, una costa. Che fosse un luogo solitario e che i tuoi occhi risalendolo si fermassero in cielo. L’incredibile spicco delle cose nell’aria oggi ancora tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati nel cielo, fossero dei fin dall’inizio.
CESARE PAVESE

Il Tobbio è un illusionista. Il suo fascino consiste nel far credere ciò che non è. La sua massa rocciosa, un po’ discosta dai “fratelli” dell’Appennino Ligure, illude sulla sua altezza. I suoi dirupi sono un miraggio di Alpi, la Chiesetta alla sua sommità poi da il tocco finale … In questi giochi d’immagini, non si finisce mai di conoscerlo.
DIEGO CARTASSEGNA

Il Tobbio - Francesco Pendibene
Il Tobbio (Francesco Pendibene)

 Il potere di una simile montagna è così grande eppure così sottile che gli uomini se ne sentono istintivamente attratti, da vicino e da lontano, come dalla forza di un’invisibile calamita; e saranno disposti a sopportare difficoltà e privazioni nel loro inesplicabile anelito di avvicinare il centro di quel sacro potere. Nessuno ha conferito tale sacralità a quella montagna, eppure tutti gliela riconoscono; nessuno deve difenderne la rivendicazione in quanto non c’è nessuno che ne dubiti; nessuno deve organizzarne il culto, perché chiunque si sente sopraffatto dalla mera presenza di una simile montagna e non è in grado di esprimere i propri sentimenti altro che con la venerazione.
GOVINDA

A chi ama cercare funghi, andare per more o semplicemente passeggiare per i nostri boschi, è sicuramente già capitato di smarrirsi, di perdere l’orientamento, anche per un solo istante.
In tale occasione ha alzato gli occhi dai suoi passi e ha cercato all’orizzonte l’inconfondibile profilo del Tobbio. È un gesto istintivo, non cerchiamo il Figne, il Tugello, la Colma, ma il Tobbio, proprio perché costituisce da sempre “il” punto di riferimento, perché sovrasta gli altri per imponenza e riconoscibilità. È lo Uluru dell’ovadese (Uluru è la definizione aborigena dell’Ayers Rock, in Australia, immenso monolite che i nativi considerano il tramite tra il mondo dei sogni e quello degli uomini).
Fin da bambini, quando col padre o col nonno ci si avventurava nei boschi, e invece di cercare funghi e raccogliere castagne, ci si perdeva nella scoperta dell’orizzonte, abbiamo fatto conoscenza con la Montagna, prima ancora che qualcuno ce ne dicesse il nome.
FABRIZIO RINALDI

Il Tobbio - Anselmo Carrea
Il Tobbio (Anselmo Carrea)


Appunti di geologia sul Monte Tobbio e dintorni

Vediamo di capire quali sono gli eventi geologici che nel corso di milioni e milioni di anni hanno interessato la zona su cui sorge oggi il Monte Tobbio.
La zona del Parco delle Capanne di Marcarolo, benché geograficamente sia inserita per intero nell’Appennino Ligure, geologicamente si trova nella zona di contatto tra le Alpi e l’Appennino. Proprio in quest’area, infatti, passa la linea Sestri-Voltaggio, che separa complessi rocciosi di tipo alpino, di cui il Tobbio fa parte, da rocce appartenenti alla zona appenninica. Il Monte Tobbio appartiene alla formazione alpina del Gruppo di Voltri, e più precisamente al gruppo Erro-Tobbio, che di questa formazione fa parte.
All’inizio del Triassico (225 milioni di anni fa), nella zona più o meno corrispondente alle attuali Liguria e Piemonte si estendeva un mare relativamente poco profondo, che si stava lentamente ampliando e approfondendo; favorite dalla profondità modesta delle acque e dal clima caldo di quel periodo si svilupparono scogliere analoghe a quelle delle attuali barriere coralline. Il graduale e progressivo sprofondamento dei bacini marini era dovuto alla separazione dell’antica crosta continentale in due blocchi divergenti che si muovevano in direzione opposta.
La separazione e l’allontanamento dei due blocchi, causati dai movimenti del Mantello (lo strato più denso, sul quale “galleggiano” le rocce più leggere della Crosta Continentale), era accompagnata dalla risalita di rocce profonde e di magmi dovuti a processi di fusione del mantello stesso. Le rocce che risalivano come frammenti solidi del mantello sono di natura prevalentemente lherzolitica, di cui troviamo esempi sul nostro Monte Tobbio.
Queste masse rocciose erano giunte a formare il pavimento di quello che era ormai un vero e proprio oceano, la cui larghezza massima al passaggio Giurassico-Cretaceo (150-120 milioni di anni fa) è stimata di circa 250-500 km. Possiamo immaginare una situazione simile a quella che si sta verificando nelle zone del Mar Rosso, che prelude all’apertura di un bacino oceanico.
All’inizio del Cretaceo superiore (160 milioni di anni) i blocchi continentali che si erano precedentemente separati invertirono la direzione del loro spostamento ed iniziarono un movimento che li avrebbe portati a collidere. Sotto l’azione compressiva dei blocchi continentali la crosta oceanica subì uno sprofondamento che la fece scorrere sotto la crosta continentale (subduzione). Durante lo sprofondamento le rocce subirono un lento progressivo riscaldamento (fino oltre 450° C), accompagnato da un rapido aumento della pressione (circa 10 Kbar, pari ad una profondità di 30 Km); le rocce vennero inoltre deformate dalle energiche spinte conseguenti al movimento dei blocchi. Con il procedere delle fasi orogenetiche anche le rocce subdotte a grandi profondità vennero coinvolte nelle fasi di ripiegamento e sollevamento che portarono alla formazione delle catene alpine, di cui il Gruppo di Voltri fa parte.
L’unità Erro-Tobbio risulta quindi costituita quasi esclusivamente da peridotiti tettoniche. Le rocce peridotitiche di questa unità sono non di rado profondamente serpentinizzate ed interessate da eventi deformativi. Sul Monte Tobbio e nei suoi dintorni possiamo trovare esempi di queste rocce sotto forma di lherzoliti.
A partire dall’Eocene superiore (circa 40 milioni di anni) le rocce coinvolte nelle complesse vicende tettoniche e metamorfiche sopra descritte affiorarono a costituire terre emerse.
Con l’Oligocene inferiore (circa 35 milioni di anni) il mare iniziò ad avanzare sulle terre emerse per formare un bacino che corrispondeva in gran parte all’attuale versante padano, mentre verso l’attuale versante tirrenico predominavano le terre emerse.
Quindi, immaginando ipoteticamente di trovarci sulla cima del Tobbio circa 30 milioni di anni fa, con lo sguardo rivolto verso Nord, dove oggi vediamo la pianura avremmo ammirato il mare.
Gli eventi tettonici sopra descritti hanno generato le rocce che oggi costituiscono il Tobbio. Queste rocce, avendo subito intensi processi deformativi, risultano intensamente fratturate, e tale frantumazione la possiamo sperimentare quando, accingendoci a brevi arrampicate sulle sue asperità, ci troviamo spesso di fronte al venir meno di appigli che poco prima avevamo creduto sicuri.
Fabio Marchelli

Tobbio aaa

Gli ambienti

Le nostre montagne e le nostre valli dovevano apparire, al viaggiatore che le avesse attraversate secoli orsono, magari in epoca pre-romana, certamente molto diverse da come noi, oggi, le vediamo. Cerchiamo di immaginare una vastissima foresta che ricopra gran parte dell’Europa, un bosco immenso che colleghi il Mare del Nord con le tiepide acque del Mediterraneo, non conoscendo altri ostacoli al di fuori di quelle zone – al di sopra di una certa altitudine – in cui le condizioni ambientali fossero troppo difficili per permettere la vita degli alberi. Niente città, solo minuscoli villaggi di poche case, campi coltivati più simili a piccoli orti che alle estese coltivazioni cui oggi siamo abituati. Un viandante che fosse passato nei pressi del Monte Tobbio, avrebbe dovuto attraversare l’esteso bosco di rovere che ne ricopriva le pendici, sfumando a faggio solo nelle zone più alte e ad esposizione più fresca del monte, e ad altre essenze – orniello, ciliegio, olmo, farnia – man mano che ci si avvicinava alla pianura: forse avrebbe ricevuto ospitalità presso qualche cascina, probabilmente avrebbe incontrato il lupo, l’orso, la lontra, la lince o il cervo. Tale situazione non si è protratta a lungo. In ragione dell’aumento della popolazione umana, è stato giocoforza nel corso dei secoli cercare nuovi spazi da colonizzare, ove aprire radure, coltivare, costruire villaggi, permettere il pascolo agli animali domestici. Il bosco assunse al contempo un’importanza fondamentale: da esso l’uomo ricavava nutrimento, legname per costruire le case, per riscaldarsi, strame per il bestiame. L’introduzione del castagno, avvenuta presumibilmente in età romana, rappresentò un momento cruciale, divenendo ben presto tale pianta il fulcro stesso dell’economia rurale. Più tardi le esigenze di Genova, potenza navale che veniva proprio in queste zone a rifornirsi di legname per costruire la propria flotta, e delle nascenti attività protoindustriali – ferriere e vetrerie – dei fondovalle, contribuirono non poco all’impoverimento definitivo della risorsa “bosco” locale.
All’inizio del XX secolo questi luoghi appaiono profondamente diversi da come li avevamo conosciuti all’inizio del nostro viaggio. Ampi pascoli e zone brulle si sono sostituiti alla foresta ed il bosco, ove è riuscito a sopravvivere, è ridotto ad un insieme deperiente di alberi ceduati per fornire legna da ardere, spesso tagliati ad intervalli troppo brevi. La minaccia del dissesto idrogeologico, più che mai concreta, suggerisce di tentare di ricostruire la copertura boschiva perduta: ecco iniziare le opere di rimboschimento, che, a partire dai primi anni del secolo, ricoprono intere pendici dei monti con specie del tutto estranee alla nostra realtà, quali il pino nero ed il pino marittimo.
Il resto è storia dei nostri giorni: tutti abbiamo sentito parlare di spopolamento dei monti, di abbandono delle attività agricole; del dissesto idrogeologico del nostro territorio abbiamo invece menzione solo in occasione di qualche alluvione…

Tobbio da Moglioni - Fabri

La realtà attuale

Come già sottolineato, gli ambienti che il monte sa offrire al suo visitatore appaiono profondamente segnati dall’impronta dell’uomo. La cessazione – ormai da qualche decina di anni – di ogni attività antropica permette peraltro la continua evoluzione degli ecosistemi che, spontaneamente, tendono a rinaturalizzarsi, a divenire cioè ecologicamente stabili, con un processo che dura diverse decine di anni.
Il principale fautore di tali trasformazioni è il cosiddetto “bosco pioniero”, formato cioè da alcune specie di alberi ed arbusti che, per primi, in virtù delle proprie ristrette esigenze ecologiche, riescono ad occupare un terreno. Ricordiamo, tra tali specie, il sorbo montano (Sorbus aria), per queste zone di estrema importanza e diffusione e la frangola (Frangula alnus).
Tale bosco costituisce il presupposto per l’insediamento di un’altra formazione, detta “climax”, che risulta la più stabile ed equilibrata in rapporto alle potenzialità del sito. Essa è, di fatto, un ecosistema in grado di perpetuarsi e continuamente rigenerarsi all’infinito, caratterizzato, in genere, da un’elevata biodiversità, da un gran numero cioè di specie animali e vegetali, tra le quali assume predominanza, per queste zone, la già citata rovere (Quercus petraea). Relativamente al Monte Tobbio, tale essenza ne ricopre le pendici occidentali, ove è presente in boschi un tempo ceduati ed ora non più tagliati, ove, di fatto, è in via di conversione naturale alla fustaia.
Inoltriamoci ora nella pineta che ricopre la porzione orientale del versante nord del monte. Come ricorderemo, l’origine di tale bosco è artificiale, essendo il frutto di rimboschimenti effettuati in prevalenza con essenze – pino marittimo (Pinus pinaster) e pino nero (Pinus nigra) – da noi estranee. Non mancheremo di notare come tale formazione forestale, apparentemente in buone condizioni, in realtà non riesca a riprodursi, a dar vita ed avvenire cioè ad un numero sufficiente di nuove piantine che possano rimpiazzare quelle mature, man mano che queste moriranno. Comprenderemo facilmente che tale bosco non può avere avvenire e che il suo destino è, da qui a qualche decina di anni, segnato; ammiriamo però l’avanzata del bosco pioniero, che, in talune zone, tende ad occupare gli spazi disponibili.
Così come per la pineta, anche l’origine delle zone aperte che ammantano le pendici più alte del monte, è da far risalire alla mano dell’uomo. Nel passato, la necessità di terreni ove far pascolare il bestiame e di legname ha portato infatti alla creazione di radure e pascoli sempre più ampi. Ora non più pascolati, tali terreni tendono ad essere invasi da essenze pioniere, costituite in una prima fase da rose e rovi, poi da arbusti più consistenti, sorbo, frangola, spinocervino. Se lasciata a se stessa, tale evoluzione porterà, anche se in tempi piuttosto lunghi, alla ricostituzione del bosco climax, cioè della fustaia di rovere.
Di grandissima importanza fu, in passato, la presenza del castagno (Castanea sativa), il quale rappresentò per il sapere contadino una fonte inesauribile di risorse: castagne, legname, fogliame, tutto era utilizzato dai nostri avi. Tale essenza era governata prevalentemente a fustaia, costituita da alberi innestati con varietà di gran pregio alimentare, che raggiungevano negli anni dimensioni monumentali. Alcune epidemie funginee cui possiamo attribuire vere e proprie stragi, ridussero nel corso del nostro secolo in modo drastico le estensioni a castagno da frutto e consigliarono la conversione degli alberi al ceduo, più resistente alle malattie. Questa storia può essere facilmente letta nella zona circostante le cascine Nespolo e Tobbio, ove ai resti di antichi castagni da frutto, ora simili a familiari fantasmi, si affiancano estese zone a ceduo, di futuro davvero incerto.

Tobbio Fauna 1

Fauna

27 Biancone

Tra gli animali che vivono in montagna, i grossi mammiferi come il capriolo, la volpe ed il cinghiale, per sfuggire alla persecuzione che da secoli l’uomo esercita nei loro confronti, si sono adattati ad una vita seminotturna. Per questo motivo, quando si fanno delle camminate, si potranno trovare impronte lasciate sul terreno, giacigli di riposo e resti di pasti, ma difficilmente si avrà la fortuna di incontrare una di queste specie selvatiche. Gli uccelli, invece, possono essere osservati con più facilità, e spesso, grazie al canto, possono essere individuati anche dai meno esperti. Si è pensato allora di presentare quelle specie che, con un po’ di attenzione, si possono con buone probabilità incontrare durante un’ascesa al Tobbio.
Il prispolone (Anthus trivialis) è un piccolo uccelletto dalle dimensioni di un passero, che trova l’ambiente di elezione nelle zone aperte con alberi radi. Ha un piumaggio marrone chiaro sul dorso e biancastro punteggiato nelle parti inferiori. Il nido viene costruito sul terreno intrecciando sottili erbe. Passa l’inverno al di là del Mediterraneo e torna in Europa per nidificare a primavera inoltrata. Il suo arrivo è segnalato dalle manifestazioni amorose che compie sin dai primi giorni. Canta prima dalla cima di un albero per qualche secondo, poi si alza in volo di alcuni metri, sempre cantando, ed infine si lascia cadere verso il terreno con le ali e la coda spiegate a mò di paracadute, emettendo dei ripetuti fischi acuti “… fiu … fiu … fiu …”.
La cincia dal ciuffo (Parus cristatus) è un grazioso uccello di piccole dimensioni che deve il suo nome alle caratteristiche penne rialzate del capo. Ha un mantello grigio-marrone sul dorso e più chiaro nelle parti inferiori. È legata in modo particolare ai pini, ed a seguito dei rimboschimenti che sono stati fatti sull’Appennino con questa essenza arborea, ha ampliato il suo areale anche al di fuori dell’arco alpino. Non essendo migratrice può essere osservata anche in inverno. È gregaria e nidifica sui rami degli alberi nei quali può essere individuata grazie al richiamo che emette in modo ripetitivo “… crrr … crr …”.
Il luì bianco (Phylloscopus bonellii) è un piccolissimo uccello del peso di pochi grammi e dal caratteristico ventre che alla luce diretta del sole appare chiarissimo. Nelle giornate di maggio può essere osservato mentre è intento a cantare dalla cima di un pino.
Il codirossone (Monticola saxatilis) è un coloratissimo uccello delle dimensioni di un merlo. Per evitare i rigori dell’inverno migra in Africa, al pari della gran parte dell’avifauna che nidifica nell’Appennino. È ormai diventato molto raro e il Tobbio è uno degli ultimi suoi rifugi. Il maschio ha una livrea rosso-blu molto intensa. Vive nelle zone rocciose nelle quali, sul terreno, depone il nido. Ha un canto flautato molto particolare, simile a quello dell’affine passero solitario.
La tottavilla (Lullula arborea) è una specie strettamente imparentata con l’allodola con la quale può essere confusa, essendo di aspetto molto simile e condividendo con essa gli stessi ambienti aperti. Il canto, costituito da una cascata di melodiose frasi “… lulu … lulu …”, permette di distinguerla con certezza. Viene emesso durante i voli che compie al di sopra del territorio di nidificazione, e a volte canta da tanto in alto da non consentire all’occhio umano di individuarla.
Il biancone (Circætus gallicus) è un grosso uccello da preda (l’apertura alare della femmina può arrivare fino a 180 cm.), specializzato nella cattura dei rettili, ed in particolar modo, dei serpenti. Pratica una particolare tecnica di caccia detta “spirito santo”, che consiste nel perlustrare da una posizione immobile a mezz’aria, il terreno sottostante. Da marzo a settembre, i versanti aperti del Tobbio, sono spesso frequentati da questo eccezionale predatore che giunge dall’Africa dove trascorre l’inverno.
Il gheppio (Falco tinnunculus) è un piccolo falco (spesso viene indicato col nome di falchetto comune) che non supera gli 80 cm. di apertura alare. Come il biancone è un rapace, anche se non così specializzato. Si ciba infatti di piccoli mammiferi ed insetti che cattura sul terreno. Nidifica nelle zone rocciose in una cavità. È molto frequente durante tutto l’anno.

Flora

29 Astro alpino

Il Monte Tobbio è uno dei luoghi del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo ove, per ragioni legate alla natura delle rocce e dei suoli (quindi del tipo di substrato sul quale si trovano a dover crescere i vegetali) e delle particolari condizioni climatiche che lo interessano, si sono da tempo concentrate le attenzioni di quei botanici che hanno fatto di queste zone appenniniche il loro campo di studi. Una trattazione sistematica delle specie vegetali che s’inerpicano sulle falde di questa massiccia piramide montuosa risulterebbe, tuttavia, alquanto noiosa e specialistica, risolvendosi in un lungo elenco floristico. Si è scelto perciò di illustrare le caratteristiche di alcune specie fiorifere particolarmente belle e facilmente visibili all’escursionista che si avventurasse per questi sentieri, munito di macchina fotografica per catturarne l’immagine o semplicemente animato dal desiderio di godere di scorci “fioriti” di grande impatto emotivo.
Le specie descritte sono tutelate dalla L.R. n. 32 del 2 novembre 1982, che ne vieta la raccolta, la detenzione ed il danneggiamento, e godono anche del regime di protezione che interessa tutte le specie vegetali, senza eccezioni, derivante dall’istituzione del Parco (L.R. n.52 del 31 agosto 1979). Al di là degli aspetti normativi, tuttavia, sembra quasi superfluo ricordare che il semplice rispetto per gli ambienti naturali che si visitano e per i viventi che li popolano dovrebbe già costituire un freno sufficientemente forte alla raccolta di erbe e fiori. Forse un piccolo, innocente mazzolino, può non apparire come un danno, ma bisogna sempre pensare che non siamo soli e provare a moltiplicare il mazzolino per il numero dei visitatori (e sono tanti!) che potrebbero essere tentati di imitarci.
L’astro alpino (Aster alpinus L.) è una pianta perenne erbacea, appartenente alla famiglia delle Composite, alta 6-15 cm, che caratterizza con la sua fioritura assai vistosa i pascoli alpini e le zone sassose montane. I fusti sono striscianti e legnosi, terminanti in rosetta, gli scapi (i “gambi” del fiore) ascendenti sono leggermente pelosi, così come, ma più fittamente, sono pelose le foglie basali, di forma lanceolata-spatolata. Ogni scapo porta un fiore chiamato, in termini botanici, capolino e costituente, in realtà, un’infiorescenza, cioè un insieme di più fiori. In questo caso si parla di fiori ligulati (a forma di linguetta dentata all’estremità), disposti esternamente e di colore violetto, e di fiori tubulosi (a forma di piccolo tubicino), di colore giallo-aranciato, disposti al centro del capolino, a formare una sorta di morbido cuscinetto dorato. Ne risulta un singolare contrasto di colori. Di particolare pregio, dal punto di vista estetico, risultano individui dallo scapo ramificato, con 2-5 capolini, nei quali il botanico Brügger credette di identificare una nuova specie; si tratta, in realtà, dell’effetto della variabilità casuale nella morfologia di una stessa specie, così come tra gli esseri umani, ad esempio, variano il colore dei capelli o la statura.
Sul Monte Tobbio si verifica una condizione molto particolare, comune anche ad altre piante di ambito alpino che vegetano nel territorio del Parco: l’abbassamento della quota minima alla quale è possibile rinvenire esemplari di questa specie, dai 1.500 m. mediamente riscontrati in Italia agli 800 m.
La dafne o cneoro (Daphne cneorum L.) è chiamata anche Dafne odorosa, a cagione dell’intenso e dolcissimo profumo che emanano i suoi piccoli fiori, avvertibile anche ad alcuni metri di distanza dalla pianta. Questo è il motivo per il quale, purtroppo, questo grazioso arbusto è stato oggetto di intense raccolte a scopo commerciale e della sua progressiva rarefazione, che ne ha motivato l’inclusione nella lista delle specie a protezione assoluta. La famiglia alla quale questa specie appartiene, quella delle Timeleacee, è caratterizzata dal fatto che i suoi fiori vengono impollinati esclusivamente ad opera delle farfalle. Si presenta come un arbusto dal portamento strisciante, alto 10-20 cm, con getti giovani resi vellutati da una morbida peluria e getti vecchi dalla corteccia bruna. Le foglie sono lineari, a forma di spatola, con una nervatura centrale molto evidente, coriacee; i fiori, profumatissimi, sono di colore rosso-porporino e crescono riuniti in fascetti di 8-12. La diffusione di questa specie riguarda le pinete ed i pendii aridi delle zone montuose dell’Italia settentrionale, molto raramente la si rinviene anche in pianura. Come serpentinofita preferenziale (cioè come specie ben adattata ai substrati costituiti da rocce serpentinose) risulta perfettamente “a suo agio” sui ripidi ed erosi pendii del Monte Tobbio.

Tobbio 1974 (pastello su carta) di Pietro Jannon 06_09 _2013 09 bis
Il Tobbio (Piero Jannon)

Qualche proposta per camminare

La sommità del Monte Tobbio è raggiungibile percorrendo 4 diversi itinerari, tutti a carattere escursionistico. Solo alcuni degli itinerari proposti sono stati segnalati a cura del F.I.E. con segnavia geometrici di colore giallo; nel corso del 1996, il Parco Naturale si farà carico del completamento della segnaletica. Ricordiamo ancora la possibilità di acquistare la cartina 1:25.000 ed il libro “Il Parco Naturale Capanne di Marcarolo”, editi dallo S.C.I. di Genova.

… dal Valico Eremiti

Due percorsi tra quelli presentati partono dal Valico Eremiti, posto alla quota di m. 559 s.l.m. ed importante crocevia tra la valle del Rio Eremiti, che scende verso il Gorzente e quella del Rio Morsone, che invece va ad immettersi nel Lemme, nei pressi di Voltaggio. Al valico è presente una piccola Chiesetta edificata nel XIX secolo e vi è limitata possibilità di parcheggio (occorre spesso, nelle giornate affollate, posteggiare lungo la strada).
La località è raggiungibile, con auto privata, da:

  • Voltaggio, seguendo la S.P.166 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 5,2 da Voltaggio);
  • Bosio, seguendo dapprima la S.P.170 in direzione Mornese/Lerma ed arrivati al bivio, immettendosi sulla S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 11,1 da Bosio);
  • Lerma, seguendo la S.P. 170 in direzione Bosio e, oltrepassata Mornese, imboccando la S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 16,0 da Lerma);
  • Capanne di Marcarolo, seguendo la S.P. 165 in direzione Bosio (Km 10,8 da Capanne di M.).

Itinerario A1: Valico Eremiti / P.sso Dagliola
Segnavia: al momento inesistente, in futuro tratto e 2 punti
Quota partenza: Valico Eremiti, m. 559 s.l.m.
Quota arrivo: P.sso Dagliola, m. 856 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 297 m.
Principali toponimi toccati: Valico Eremiti, Passo della Dagliola
Caratteristiche: itinerario molto frequentato; si svolge su mulattiera piuttosto rovinata dall’erosione, a pendenza sempre modesta. È sicuramente consigliabile per gli scorci paesaggistici sulle valli circostanti e sulla pianura alessandrina; dal passo è consigliabile proseguire, con il sentiero percorso dagli itinerari A2 ed L1, fino alla cima del Monte Tobbio.
Descrizione dell’itinerario: da località Valico Eremiti, si segue la vecchia pista forestale, ora mulattiera, che parte a sinistra della Chiesetta; dopo il primo tornante, il sentiero si unisce, per un tratto di 50 m. circa, con l’itinerario A2, con relativo segnavia. Tralasciato il percorso A2, che prosegue sulla destra, si continua lungo il sen­tiero, a tratti decisamente sconnesso, che si inerpica, con larghi tornanti, sul versante settentrionale del Monte Tobbio sino ad incrociare l’itinerario L1 proveniente da Voltaggio (m. 740 s.l.m. – 0 h 25’ dalla partenza) con il quale si unisce.
Ancora qualche tratto in salita e, con un ultimo lungo traverso, si perviene al Passo della Dagliola (m. 856 s.l.m. – 0 h 45’ dalla partenza), ampia insellatura erbosa tra la valle del Rio Lavezze ed i bacini del Rio Vergone / Gorzente.
Discesa: La discesa può avvenire lungo l’itinerario A1 di salita (0 h 40’ dal passo al Valico Eremiti), oppure, dalla cima del Tobbio, lungo l’itinerario A2

Itinerario A2: Valico Eremiti / Monte Tobbio
Segnavia: cerchio sbarrato giallo
Quota partenza: Valico Eremiti, m. 559 s.l.m.
Quota arrivo: Monte Tobbio, m. 1092 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 533 m.
Principali toponimi toccati: Valico Eremiti, Monte Tobbio
Caratteristiche: l’itinerario si svolge sull’ampio e severo versante settentrionale del Monte Tobbio attraversando, sempre con larghi tornanti, dapprima l’estesa pineta a pino nero e marittimo ed in seguito aspre zone di prateria intervallate da balze rocciose.
Descrizione dell’itinerario: dalla cappelletta del Valico Eremiti, seguire il sentiero di destra (guardando la costruzione) il quale, dopo un amplissimo tornante, va a congiungersi per un tratto di circa 50 m. con l’itinerario A1. Tralasciatolo sulla sinistra, il sentiero si inerpica sul versante nord del monte, attraversando la pineta. Verso gli 800 m. di quota la vegetazione arborea tende a cedere il passo ai pascoli ed alle zone rocciose che rendono, in questo tratto, l’ambiente quanto mai suggestivo. Con un ultimo traverso verso est, l’itinerario si congiunge alfine con il sentiero percorso dall’itinerario L1, che congiunge il Passo della Dagliola con la cima del Tobbio (m. 985 s.l.m. – 1 h 20’ dalla partenza). Seguendolo si perviene, con ancora qualche tornante, sulla cima del monte (m. 1092 s.l.m. – 1 h 35’ dalla partenza).
Discesa: si può discendere lungo il medesimo itinerario (1 h 10’ dalla cima alla cappelletta del Valico Eremiti), oppure seguire l’itinerario L1 fino al Passo della Dagliola e, da qui, scendere per l’itinerario A1.

La Direttissima
La via più breve alla vetta, non segnalata ma decisamente segnata dalla costante frequentazione, cavalca il costolone che si diparte da nord-nord est, e che può essere guadagnato salendo in verticale dalla cappelletta degli Eremiti. È la via preferita da chi sale in assetto sportivo (tempi di percorrenza da 35’ a 50’), ma anche, decisamente, la più dura.

… dal Ponte Nespolo

Un altro interessante itinerario si diparte dal Ponte Nespolo, posto sulla S.P. 165 al suo incrocio con il torrente Gorzente, ad una quota di m. 488 s.l.m. Luogo estremamente frequentato durante il periodo estivo dai numerosi bagnanti, ritrova la propria dimensione “naturale” da metà settembre fino a giugno. Nelle immediate vicinanze non sono disponibili parcheggi: occorre pertanto posteggiare lungo la strada (facendo attenzione ai divieti di sosta presenti) oppure usufruire dei parcheggi posti in prossimità della Casc. Merigo, ad una distanza di Km 1,9. La località è raggiungibile, con auto privata, da:

  • Voltaggio, seguendo dapprima la S.P. 166 fino al Valico Eremiti, poi la S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 10,1 da Voltaggio);
  • Bosio, seguendo la S.P. 170 in direzione Mornese/Lerma, poi immettendosi sulla S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo; oltrepassare il Valico Eremiti e, con una lunga serie di curve, pervenire alla località (Km 16 da Bosio);
  • Lerma, seguendo la S.P. 170 in direzione Bosio e, oltrepassata Mornese, immettendosi sulla S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo, in comune con il percorso da Bosio (Km 20,9 da Lerma);
  • Capanne di Marcarolo, seguendo la S.P. 165 in direzione Bosio (Km 5,9 da Capanne di M.).

Itinerario B1: Ponte Nespolo / Casc. Nespolo / P.sso Dagliola
Segnavia: 2 rombi pieni gialli
Quota partenza: Ponte Nespolo, m. 507 s.l.m.
Quota arrivo: Passo della Dagliola, m. 856 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 351 m.
Principali toponimi toccati: Ponte Nespolo, Casc. Nespolo, Casc. Tobbio, Passo della Dagliola
Caratteristiche: itinerario completamente esposto a meridione, dunque sconsigliabile nel periodo estivo. Se percorso in inverno, esso risulta al contrario gradevolissimo. Dal passo è consigliabile proseguire, con il sentiero percorso dagli itinerari A2 ed L1, fino alla cima del Monte Tobbio.
Descrizione dell’itinerario: da Ponte Nespolo traversare il Gorzente e risalire lungo la S.P. 165; percorse poche decine di metri dal ponte, girare sulla destra per accedere alla piccola area attrezzata. Traversata l’area, salire lungo il costolone del monte, accedendo allo sterrato che conduce alla Casc. Nespolo (m. 625 s.l.m. – 0 h 30’ dalla partenza). Passare a sinistra della cascina, ammirando i suggestivi resti dei castagni secolari, e, arrivati ad un bivio, tralasciare il sentiero che si inoltra in piano, per inerpicarsi a sinistra nel casta-gneto. Arrivati ai resti della Casc. Tobbio (m. 685 s.l.m. – 0 h 40’ dalla partenza), la si lascia sulla destra e si esce poco dopo dal bosco. Da qui, la vista si apre improvvisamente sull’alta Valle del Gorzente e sul Monte Figne. Con percorso in leggera salita, traversare lungamente il versante sud-est del Monte Tobbio e pervenire, infine, al Passo della Dagliola (m. 856 s.l.m. – 1 h 15’ dalla partenza).
Discesa: dal passo, riprendere l’itinerario si salita che, in 1h 05’ riporta al Ponte Nespolo.

… da Voltaggio

L’ultima delle proposte parte da Voltaggio, importante centro della Val Lemme, posto ad una quota di m. 353 s.l.m. e raggiungibile sia con auto privata, che con mezzi pubblici, con partenze da Novi Ligure o Busalla, entrambe servite da linee ferroviarie.
Il punto di partenza dell’itinerario è posto in Piazza Garibaldi.

Itinerario L1: Voltaggio / Monte Tobbio
Segnavia: triangolo pieno giallo
Quota partenza: Voltaggio, m. 353 s.l.m.
Quota arrivo: Monte Tobbio, m. 1092 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 739 m.
Principali toponimi toccati: Voltaggio, Bric Brughé, Costa Cravara, Passo della Dagliola, Monte Tobbio
Caratteristiche: percorso particolare, che si diparte dalla piazza di Voltaggio per inoltrarsi, man mano, in zone meno affollate e sempre più selvagge. Molto belli, nella parte alta dell’itinerario, gli scorci che si godono sui valloni del Rio Lavezze e del Rio Morsone.
Descrizione dell’itinerario: da Piazza Garibaldi seguire in direzione sud per circa 350 m. Via S. Giambattista de Rossi e Via C. Anfosso, sino a raggiungere la Chiesetta, in corrispondenza di Piazza De Ferrari. Davanti alla Chiesetta, svoltare a destra e proseguire sulla stradina asfaltata fino a Villino Stagno: qui a destra si imbocca il sen­tiero, all’inizio alquanto ripido. Dopo poche decine di metri si perviene ad un bivio e si segue il sentiero che, sulla destra, va ad attraversare il bosco misto, con pendenza costante. Si raggiunge in breve una strada sterrata sulla quale è collocato un percorso ginnico (m. 445 s.l.m. – 20’ dalla partenza), che segue la strada in costante salita, per un tratto costeggiando una recinzione. Trascurata una prima diramazione sulla sinistra, si prosegue dritti e, ora con tratti in piano, si attraversa il versante settentrionale del Bric Brughé. Sulla sinistra, una radura indica il luogo ove è sita Cascina. Colletta, ora abbandonata; qui ha termine la strada sterrata e si dipartono due sen­tieri (m. 580 s.l.m. – 45’ dalla partenza). Trascurare quello sulla destra e continuare diritti, seguendo il tracciato che riprende ora a salire, mantenendosi sul versante meridionale della costa, pochi metri sotto la cresta. Un breve tratto in piano permette di raggiungere il confine del Parco (m. 635 s.l.m. – 1 h dalla partenza), lungo il quale si proseguirà ora per un buon tratto. Una breve discesa permette di avvicinarsi al Pulpito del Diavolo, caratteristica formazione rocciosa davvero severa. Sempre continuando a costeggiare il confine del Parco, il sentiero corre lungo la Costa Cravara, mantenendosi perlopiù sul suo versante settentrionale, alternando tratti in salita ad altri pressoché piani. Ancora un tratto sul filo dell’ampia cresta e si giunge al punto di unione con l’itinerario A1, proveniente dal Valico Eremiti (m. 740 s.l.m. – 1 h 35’ dalla partenza); lungo questo si prosegue fino al Passo della Dagliola, che si raggiunge con ancora qualche tratto in salita (m. 856 s.l.m. – 1 h 55’ dalla partenza). Dall’insellatura del passo l’itinerario prosegue effettuando un lungo traverso in direzione nord, fino a raggiungere il punto di unione con il sentiero A2. Da qui, ancora qualche ampio tornante permette di raggiungere la sommità del Monte Tobbio (m. 1092 s.l.m. – 2 h 30’ dalla partenza).
Discesa: il ritorno segue il percorso di salita, in circa 2 ore.
I Guardiaparco Giacomo Gola, Giampaolo Palladino, Cristina Rossi

Il vento del Tobbio

Alessio Franzone è il partigiano “Arrigo”, ma anche – e nello stesso tempo – il cacciatore, il gran camminatore, colui che ha ben presente in sé, per esperienza diretta, la puntuale geografia del territorio dell’Oltregiogo su cui va organizzandosi, all’indomani dell’8 settembre 1943, il movimento di Liberazione. È così che il libro di Arrigo ci restituisce, accanto a una serie di importanti avvenimenti legati alla lotta partigiana, il quadro di un ambiente che egli ama e conosce come pochi altri. Con lui si percorrono fiumi e ruscelli, boschi e sentieri pieni di vita e di bellezza.
Ciò che forse risulta straordinario per un libro di memorie della Resistenza è che l’orrore di quegli accadimenti, inevitabili e presenti in tutte le pagine, non riesce tuttavia a prevalere sul forte senso di vita e speranza che Arrigo probabilmente trae, anche nei momenti più drammatici, dal profondo rapporto con questi monti.
Gli eventi della lotta partigiana che hanno per teatro l’area circostante al Tobbio sono tristemente noti. La Benedicta con i suoi giovani trucidati dai nazisti e i molti deportati è la tragica testimonianza del prezzo pagato alla lotta di Liberazione.
Una eco angosciosa di quei giorni si reperisce tra le carte che riguardano la Cappelletta del Tobbio. Colpisce l’espressione usata in una lettera della Curia genovese al parroco di Voltaggio, per riferirsi al drammatico evento appena compiuto. La data è quella del 17 aprile 1944, pochissimi giorni dopo la strage: “… in seguito agli ultimi avvenimenti dato lo stato miserando della cappella [si dispone] […] che la festa, solita a farsi nella Cappella del Monte Tobbio, sia quest’anno sospesa”.
Eugenia Fera e Massimo Angelini

Claudio Balostro, giovane scrittore nativo di Arquata Scrivia. La sua memoria non è più quella del testimone diretto ma è filtrata dalle immagini dei parenti più prossimi. Uno zio, “lo zio G.”, è un sopravvissuto della Benedicta il cui nome di battaglia è proprio quello di “Tobbio”: «Rimanemmo lì a combattere, fino alla fine. Mi chiesero un nome di battaglia, perché venivo dal Tobbio dissi quello. Mi piacque, perché è grande e asciutto, duro e ardente d’estate, bianco e soffice di neve d’inverno. Dissi quello e c’è ancora in giro chi mi chiama così», da Lo strano dell’idea di cavalli, romanzo inedito.
Alessio Franzone

Il piccolo santuario sul Tobbio in onore della B.V. di Caravaggio

Così recita il titolo dell’opuscolo stampato nel 1917 in “San Pier D’Arena”, presso la scuola tipografica Don Bosco, a cura del sacerdote Ernesto Pitto, già Prevosto di San Remigio di Parodi e membro dell’amministrazione dello stesso santuario.
Il volumetto è stato ristampato in anastatica nel 1988 dall’Associazione “Amici del Tobbio”, in occasione dei centodieci anni di ricorrenza della “prima idea di erigere un tempio mariano sull’alto e impervio monte”.
Il Pitto è noto autore di diversi volumi dedicati alla storia dei santuari liguri, compilati secondo un modello di storiografia didascalica tardo-ottocentesca, in cui la storia diventa pretesto per celebrare la devozione di coloro che si sono adoperati per l’erezione dei santuari e per stimolare i fedeli a continuare a mantenere in vita l’opera dei predecessori.

4 settembre 1899: inaugurazione della Cappella sul Tobbio in onore della N.S. di Caravaggio

Secondo l’autore, l’idea del santuario del Tobbio ha origine nel 1878 quando un sacerdote di Mornese, don Rocco Mazzarello, in occasione di una visita a Spessa Parodi (attuale comune di Bosio) propone l’impresa ad alcuni conoscenti, senza però riceverne la sperata adesione.

Solo diciotto anni, dopo la medesima proposta, ripetuta ancora da don Mazzarello nello stesso luogo, riceve la fattiva adesione di “Lombardo Giovanni della villa di Spessa di condizione contadino” che proprio nel 1896 comincia a raccogliere fondi per la realizzazione dell’impresa.

In undici mesi di lavoro veniva ultimata la strada carrabile aperta per collegare la località Eremiti alla cima del Tobbio: “trovati operai fra i quali molti gratuitamente […] e non furono soltanto i buoni figli di S. Pietro e Marziano (Parrocchia di Spessa Parodi) a prestare l’opera loro gratuita, ma anche parecchi delle Capanne e di Voltaggio”.
Nel 1897 cominciano i lavori per la costruzione della cappella inaugurata il 4 settembre 1899, il giorno seguente il trasporto della statua di N. S. di Caravaggio a cui sarà dedicata: “… malgrado il cattivo tempo si fece festa per tre giorni consecutivi con un crescendo consolante di divoti pellegrini, e con entusiasmo indescrivibile”.

Cappella con attiguo rifugio, di cui ora rimangono solo i riduri

La cappella sarà “soggetta alla giurisdizione del M. R. Parroco pro-tempore dei SS. Pietro e Marziano di Spessa Parodi”, ma verrà amministrata dall’arciprete di Gavi, dai parroci di Voltaggio e di Capanne di Marcarolo, dal prevosto di S. Remigio di Parodi e del “Sig. Lombardo Giovanni di Spessa Parodi”. Nel 1909 si decide di ingrandire l’edificio della cappella poiché essa “risultò subito insufficiente al bisogno perché numerosi erano i pellegrini che nella solennità si portavano sull’alta vetta, ma pochi tutto al più una cinquantina potevano stare nella Cappella [che ora] […] è capace di contenere oltre trecento persone, è provvista di sacrestia, è fiancheggiata da un robusto campanile […] insomma parmi che nulla manchi da poter essere chiamato: un piccolo santuario”.
Da allora, ogni, anno, sulla vetta del Tobbio vengono celebrati – prima con grande “concorso di popolo”, adesso meno solennemente – il 26 maggio, ricorrenza dell’apparizione di N. S. di Caravaggio e il 4 settembre, giorno dell’inaugurazione della cappella.
L’edificio conoscerà vicende alterne e più volte, a partire dai primi anni Trenta, si dovrà provvedere a opere di restauro eseguito con l’intervento della Curia e, soprattutto, il volontario contributo dei fedeli. Grazie agli assidui interventi dei volontari, la cappella oggi è ancora agibile, è invece scomparso il rifugio costruito agli inizi del secolo nelle sue vicinanze e ancora aperto agli inizi degli anni Quaranta.

I registri, ossia, la scrittura del viandante

Immaginare una salita e quanto ci si porta appresso: la fatica dei muscoli, la sete, la fame, il caldo il freddo, le zanzare, i fiori, l’amore lasciato a casa o perduto, gli amici attorno a sé, l’uomo o la donna da conquistare, l’amico da stupire, il bimbo da trasportare a spalle, la sfida con i propri anni o la malattia, la gara con se stessi, la rabbia, la gioia, Dio nel cuore o da bestemmiare oppure, semplicemente, solo il proprio nome. Tutto questo e ancora molto altro viene trasportato da chi sale al Tobbio e riversato nei quaderni che si presentano a chi arriva sulla vetta come un grande orecchio in cui depositare il proprio fardello per poi liberi, finalmente, ridiscenderne un po’ più leggeri.
Vero zibaldone di umani sentimenti e di stili narrativi, genere non riducibile alla corrente tipologia letteraria, i quaderni restituiscono a chi li scorre una straordinaria mescolanza di generazioni, classi sociali di appartenenza, quindi di gusti, passioni – stili insomma – diversamente inconciliabili tra loro e tuttavia per una volta uniti in maniera forte (non fosse altro per il pezzo di carta che li contiene) dalla comune condivisione di un’esperienza – unica per ciascuno questo è certo – ma anche universale perché a tutti gratuitamente si propone la stessa strada, perché tutti si partecipa di un’unica volontà di ascesa.
Portofranco di letterati e illetterati, di guastatori e costruttori, di moralisti e goliardi, di folli e di saggi, il quaderno posto sulla cima del Tobbio potrebbe anche se parzialmente essere accostato agli scritti carnascialeschi, là dove il mondo finalmente si rovescia e il principe, per un momento, può diventare bifolco e il bifolco re. Luogo liberatorio, dunque, come appunto si addice a ogni intento di ascesi.
Ma i quaderni ci propongono anche molto altro come, per esempio, lo scambio di messaggi malinconici tra amici che in essi ormai soltanto si rincontrano; il diario di bordo che annota le condizioni climatiche attraverso cui gli esperti di montagna e di mare non mancano di ostentare la conoscenza della qualità dei venti e della loro forza; sfoghi di amanti delusi o inappagati, di mogli e mariti che per evitare risse famigliari sono venuti di corsa in cima al Tobbio a placare gli istinti più violenti. C’è chi non scrive ma disegna. I bimbi, in genere, amano segnalare la loro età e il sesso: “siamo tre femmine e due maschi …”, le suore ringraziano Dio per il creato, altri non esitano, poche righe sotto, quasi senza soluzione di continuità, di bestemmiarlo come se, provocati all’argomento dalle lodi precedenti, si ricordassero che anche loro ogni tanto pensano a Dio. Anche questo, più in generale, è un aspetto ricorrente nei quaderni: spesso accade che un argomento, specie se provocatorio, di­venti per persone diverse comune occasione di considerazioni e divagazioni, una sorta di filo rosso che ritroviamo per più pagine, segno eloquente che la provocazione ha raggiunto il segno.
I quaderni reperiti cominciano nel maggio 1985. Anni non privi di vuoti lasciati dalle pagine strappate forse per la necessità assoluta di accendere un fuoco, forse per puro vandalismo o forse per il più comprensibile gesto di chi ha trovato in esse l’ultima traccia di un amico o un parente poi prematuramente scomparso.

Tutti insieme, appassionatamente

Dopo la fatica della salita, bere e mangiare, scherzare, giocare a carte, conoscere chi è arrivato prima o poco dopo è corollario quasi inevitabile di ogni gita che abbia escluso la scelta della “solitaria” assoluta.
I registri del Tobbio abbondano di minuziose descrizioni di menù, più o meno raffinati, di citazioni dei vini consumati, di lazzi giochi ed elenchi più o meno reverenti di partecipanti, ma tutti, allo stesso modo, desiderosi di comunicare il benessere provato nello stare assieme.
Le processioni che portavano al Tobbio i fedeli a celebrare due volte all’anno le solennità del piccolo santuario si chiudevano con un’allegra mangiata. Per l’occasione il parroco di Voltaggio, alla fine degli anni Venti, chiedeva la dispensa alla Curia di Genova per poter permettere il consumo di cibi di grasso, nonostante il consueto divieto dei giorni solenni, anche a ragione del notevole sforzo fisico chiesto ai partecipanti.
Oggi, le occasioni di convivialità ritrovano al Tobbio diverse espressioni: al Tobbio per Capodanno, per Natale, per il primo maggio, per celebrare i compleanni (magari anche quello del nonno), ma c’è anche chi al Tobbio sale per sposarsi. Due i matrimoni fino ad oggi celebrati lassù. Il primo nel giugno del 1970 di due sposi dell’Alta Val Lemme, il secondo, vent’anni dopo nel 1992, di due giovani di Ovada.
Ritrovarsi insieme dopo la comune fatica, condividere la soddisfazione di aver raggiunto la meta, guardare per un momento al mondo dall’alto, e il piacere di stare insieme sono gli ingredienti forti che garantiscono ai partecipanti delle feste sul Tobbio la felice scoperta della gioia davvero non sempre facilmente raggiunta dai convivi di fondovalle.

La corsa 1971 – 1980

Ma al Tobbio non si va solo per passeggiare e chiacchierare amabilmente con gli amici. Al Tobbio si va anche di corsa e non necessariamente per placare umori iracondi.
La polisportiva di Voltaggio ha organizzato per dieci anni, sempre nel mese di settembre, un’appassionante gara aperta ad atleti e a semplici amatori e, a partire dal 1976, riservata ai soli soci FIDAL. Nelle primissime edizioni essa proponeva un percorso di circa otto chilometri, allungato poi nell’edizione del 1977 a dieci, con un dislivello di 766 metri. Sempre a partire dal 1977 la manifestazione assume carattere nazionale e da allora è stata dichiarata prova selettiva di campionato italiano di corsa in montagna.
L’organizzazione, curata dalla Polisportiva di Voltaggio, ha raccolto per anni l’adesione del volontariato giovanile del paese e ha ricevuto l’aiuto del CAI sezioni di Ovada e Novi Ligure: nel solo 1979 circa novanta persone. Segnalare il percorso con le bandierine, allestire e gestire i diversi punti di servizio, questi ed altri sono gli oneri assunti dai volontari, nonostante le condizioni climatiche spesso, considerata la stagione, affatto clementi. Uno dei responsabili evocava tra le situazioni particolarmente stressanti ma non prive di divertimento che caratterizzavano il lavoro, la “corsa dei volontari” che dovevano provvedere a destinare sulla cima del Tobbio le tute tolte dagli atleti pochi minuti prima del via, precedendo, è ovvio, il loro arrivo. Le tute venivano trasportate a gran velocità in auto fino alla località Eremiti dalla quale, sempre di corsa, si procedeva a piedi, con le tute nello zaino, fino alla vetta. Il 1980 è l’ultimo anno della corsa del Tobbio. Dal 1981 infatti non si corre più verso la montagna ma gli atleti si cimentano in una prova di corsa individuale podistica, il “circuito di Voltaggio”, che prevede 11.480 chilometri di corsa attorno al paese. E il Tobbio resta ancora a guardare …
Eugenia Fera e Massimo Angelini

Bibliografia

Anche il Tobbio vanta una sua, pur modesta, bibliografia. Gli sono stati dedicati libri, opuscoli, articoli vari. Si fregia addirittura di un omaggio in tedesco, redatto da un gruppo di giovani escursionisti teutonici. Abbiamo raccolto solo il materiale più facilmente rintracciabile, ma vorremmo fosse questa l’occasione per aggiornamenti e integrazioni. Se conoscete pubblicazioni o articoli inerenti in qualche modo il Tobbio, segnalatele nel “libro di vetta”: ve ne siamo anticipatamente grati.

Libri e opuscoli:

  • FRANZONE ALESSIO – Vento del Tobbio – Genova, 1952
  • PITTO Sac. ERNESTO – Il Piccolo Santuario sul “Tobbio” – Sampierdarena, Don Bosco, 1917
  • VV. – Pfingstfahrt Im Regen Monte Tobbio 1992 – Gengenbach, 1992

Articoli:

  • BASSIGNANA ENRICO – Un sentiero sul Tobbio – su TUTTO CITTÀ’ 95 – Alessandria e Provincia – STET 1995, Torino
  • CARREGA MARIO – Il Monte Tobbio e la sua flora – su IL NATURALISTA, giugno 1989, Museo Civico di Storia Naturale – Stazzano
  • LEARDI ERNESTO – Lontani ricordi, istanze recenti a proposito della chiesa-rifugio sita sul Monte Tobbio – su ALPENNINO n.3/1994, Casale Monferrato
  • MASSONE ENRICO – Sul Tobbio con vista sul mare – su PIEMONTE PARCHI 25, settembre/ottobre 1988 – Torino
  • MASSONE ENRICO – È il Tobbio il misterioso monte sul quale sorgeva l’abbazia del Nome della Rosa – su LA PROVINCIA DI ALESSANDRIA, 1 tri. 1989 – Alessandria

Non riteniamo inutile, infine, un rimando alle opere concernenti la montagna alle quali si è attinto nella scelta delle citazioni:

  • BELTRAMI VANNI – Breviario per nomadi – Biblioteca del Vascello, Roma 1995
  • BERNBAUM EDWIN – Le montagne sacre del mondo – Leonardo, Milano 1991
  • BOARDMAN PETER – Montagne sacre – dall’Oglio, Milano 1983
  • DAUMAL RENÉ – Il monte analogo – Adelphi, Milano 1968
  • EVOLA JULIUS – Meditazioni delle vette – Ed. Del Tridente, La Spezia 1974
  • GOETHE W.G. – Viaggio in Italia – Rizzoli, Milano 1991
  • HEINE H. – Il viaggio nello Harz – Marsilio, Milano 1994
  • MILA MASSIMO – Scritti di montagna – Einaudi, Torino 1992
  • MOTTI GIAN PIERO – La storia dell’alpinismo – Vivalda, Torino 1994
  • THOREAU H.D. – Camminare – Mondadori, Milano, 1991
  • ZOLLA ELEMIRE – Lo stupore infantile – Adelphi, Milano 1994

Ringraziamenti

Hanno ideato e concretamente realizzato la mostra i Viandanti Delle Nebbie. Hanno collaborato: Eugenia Fera e Massimo Angelini del Centro di Documentazione della Storia e della Cultura Locale; CRISTINA ROSSI, GIACOMO GOLA e GIANPAOLO PALLADINO del Parco Naturale Capanne di Marcarolo.

Non potendo elencare tutti gli appassionati che hanno contribuito alla realizzazione, riteniamo di dover far giungere loro il nostro ringraziamento attraverso le organizzazioni e i gruppi di riferimento, dal CAI di Ovada agli Amici del Tobbio. Un grazie particolare lo dobbiamo però a Pietro Jannon, autore della maggior parte delle immagini utilizzate, e praticante indefesso del culto del Tobbio. Vorremmo infine che in questo omaggio al monte fosse implicito un tributo alla memoria di Andrea Longhetti, che dell’amore per il Tobbio è rimasto tragicamente vittima.

Il lato sinistro della storia3

(parte terza)

di Paolo Repetto, 6 aprile 2022

Da questo punto in poi mi avventuro in un racconto che paradossalmente, pur concernendo epoche sempre più vicine alla nostra, e quindi conoscenze relativamente più concrete, lascia maggiore spazio a interpretazioni già orientate o orientative. Intendo dire che la paleontologia e l’antropologia, a differenza delle scienze biologiche, concedono ampi margini alle letture “ideologizzanti”, ciò che riesce evidente dal persistere oggi ancora dell’annoso dibattito sulla “natura umana”. Cercherò di mantenermi per quanto possibile al margine di questo dibattito, basandomi sui dati di fatto piuttosto che sulle ricostruzioni edeniche o bestiali della nostra preistoria. Ma proprio l’aumento esponenziale dei dati, e delle relative interpretazioni che possono esserne desunte, mi costringe a questo punto a procedere per successive “scelte di campo”. Credo sia importante dunque che, trattandosi di un lavoro che ha non ha alcuna velleità “scientifica”, queste risultino quantomeno chiare.

3.4 Creare

L’uomo ha dunque esplorato tutte le strategie per garantirsi la sopravvivenza, e per farlo si è dotato degli strumenti opportuni. Lo ha fatto, come abbiamo visto, cominciando con l’emancipare alcune parti del suo corpo dalle loro originarie funzioni istintuali. Ma se già la possibilità di fare qualcosa con gli arti superiori mentre quelli inferiori compivano un movimento diverso favoriva lo sviluppo cerebrale, in quanto esigeva che più sistemi di controllo si attivassero in contemporanea, è stata però la creazione di utensili, il passaggio cioè alla “tecnica”, a spingere verso una qualità del pensiero (e della vita) radicalmente diversa.

La tecnica era per la mitologia antica un dono di Prometeo (da pro-mathéin, aver pensato prima): il regalo di un cervello che “pensa prima”, che “pensa più veloce”. Come sempre, il mito ci offre la sintesi e la spiegazione più efficaci di quanto è effettivamente accaduto. Il volume cerebrale degli umani, e quindi la loro capacità di risposta adattiva, cresce in concomitanza proprio con la produzione dei primi strumenti litici. La nascita della tecnica segna infatti l’avvento di un pensiero mirato ad uno scopo. Creare uno strumento significa prefigurare una situazione nella quale quello strumento potrà tornare utile: quindi programmare, e insieme immaginare. Immaginare ad esempio di poter incontrare nella savana, lontano da vie di fuga o da alberi su cui rifugiarsi, dei predatori, e procurare di essere sempre attrezzati alla difesa, scegliendo nodosi bastoni e scheggiando pietre per renderle taglienti, e magari innestando queste ultime sui bastoni.

Significa anche però imboccare una direzione “lineare obbligata”: l’uscita per la tangente dal ciclo dell’eterno ritorno. (uso questa formula nella consapevolezza che si tratta solo di una percezione e di una convenzione filosofico-letteraria, perché nella realtà sui tempi lunghi in natura nulla torna mai eguale a se stesso). La “cultura” indotta dalla tecnica diventa la specializzazione (oserei dire, la “specificità”) dell’uomo, ed è qualcosa che ridisegna totalmente sia le modalità che i tempi evolutivi. Per quanto lunghissimi, estremamente diluiti nel tempo e dispersi nello spazio, i passaggi sono ormai percettibili (naturalmente, a posteriori). I più antichi manufatti umani, costituiti da ciottoli scheggiati su una sola faccia (chopper), oppure a scheggiatura alterna o multidirezionale, compaiono in Africa a partire da circa due milioni e mezzo di anni fa, accanto ai resti fossili di Homo habilis, e sono ascrivibili alla più primitiva tecnologia litica, quella Olduvaiana. Un milione e quattrocentomila anni fa, sempre in Africa, associata stavolta ad Homo erectus, si affermala cultura Acheuleana, caratterizzata dalla produzione di utensili scheggiati su entrambi i lati in modo simmetrico (le amigdale, o bifacciali). In ultimo, verso la fine del Paleolitico inferiore, attorno a trecentomila anni fa, si diffonde in Europa la scheggiatura Levallois, che consente la fabbricazione di strumenti più vari e specializzati.

A quel punto per sopravvivere gli uomini sono già totalmente dipendenti dalla tecnica: prima di tutto dal controllo del fuoco e dal suo utilizzo come arma di difesa contro i predatori e per cuocere i cibi e riscaldarsi. E se gli utensili creati dall’erectus e dell’habilis erano rimasti pressoché inalterati per centinaia di migliaia di anni, con una evoluzione quasi impercettibile, dopo l’avvento dell’Homo sapiens il ritmo delle innovazioni conosce una progressione costante: un milione di anni separano i primi choppers dell’olduvaiano dalle amigdale dell’ acheuleano e mezzo milione queste ultime dai veri e propri attrezzi in pietra e legno del Musteriano, ma tra la pietra levigata e le tecniche più sofisticate dell’arco e degli attrezzi per colpire a distanza ne intercorrono meno di centomila. Di qui in poi le rivoluzioni si succedono con frequenze sempre più ravvicinate: dopo l’arco l’agricoltura, la domesticazione degli animali, la lavorazione dei metalli, la scrittura, la ruota, eccetera. Senza dimenticare, fondamentale, l’approdo ad una comunicazione verbale compiutamente strutturata. Tutto questo mentre, come abbiamo già visto, la base biologica del Sapiens e la sua anatomia rimangono in quegli ultimi centomila anni praticamente invariate.

Nello stesso periodo muta invece radicalmente la sua attitudine mentale: muta nei confronti dell’ambiente in cui è immerso, della natura, perché la progettualità implica un atteggiamento intrusivo, oltre che una percezione “temporalizzata”: ma muta anche nei confronti di chi lo circonda, dei suoi simili come degli altri ominidi e degli animali coi quali ha una parentela più o meno più o meno prossima: nonché nei confronti di se stesso. Si sviluppa una “coevoluzione” che riguarda in primo luogo il rapporto tra l’azione tattile e la facoltà del linguaggio. “Mani e parole sono, in primo luogo forme di intervento che modificano il contesto in cui si insediano. Hanno un impatto ecologico tale da richiedere spesso un’azione ulteriore dal carattere intrinsecamente ambivalente: sono riparazione, poiché cercano di rimediare al cambiamento provocato (ad esempio l’estinzione delle prede cacciate o l’impoverimento del terreno sfruttato attraverso l’agricoltura); sono ancora invasione poiché l’intervento umano (l’allevamento, oggi l’uso di fertilizzanti) non può non avere un effetto antropico, non può non comportare un cambiamento dell’ambiente a immagine e somiglianza dell’Homo sapiens.[1]

Il mondo non viene più dunque semplicemente vissuto dal sapiens, e passivamente subito, ma è indagato e saccheggiato e ricreato[2]. Il primo mutamento riguarda la curiosità nei confronti dell’ambiente. La curiosità è propria di ogni organismo animale, ma nella forma propriamente “conoscitiva” appartiene solo alle specie evolutivamente più complesse, e in quella performativa soltanto all’uomo. L’uomo è l’unico animale in grado di prevedere o quantomeno immaginare le conseguenze di una determinata azione: e quindi di pianificare il futuro, e di compiere all’occorrenza scelte che possono anche mettere in forse la sua sopravvivenza, andando contro i dettami dell’istinto, ma valutando o auspicandosi possibili futuri vantaggi. Questa capacità di costruire o immaginare situazioni alternative, di sganciarsi dal qui e ora, spiega la progressiva e inarrestabile diffusione della specie umana in ogni angolo del globo. Le migrazioni dei primi ominidi sono avvenute certamente sotto la spinta dei mutamenti ambientali, dell’ esaurimento delle risorse o delle pressioni esercitate da gruppi di consimili: ma sono state rese possibili dall’incredibile capacità di adattamento che la specie ha dimostrato in ogni condizione, dalle soluzioni tecniche e culturali che è stata capace di escogitare, e soprattutto, direi, dallo spazio mentale consentito alla funzione immaginativa, che diventava stimolo a esplorare e conoscere quel che c’era oltre l’orizzonte. Non si spiegherebbero altrimenti imprese incredibili come quelle degli ominidi che cinquantamila anni fa attraversarono bracci larghissimi di mare per approdare in Australia, o lande ghiacciate per passare sul continente americano.

Al di là degli spostamenti, però, ad essere percepita in maniera diversa è innanzitutto la quotidianità. I primi strumenti usati dai nostri antenati per raggiungere i loro obiettivi erano oggetti naturali: pietre, bastoni, ossi, ecc… Né più né meno come accade per altri animali, e particolarmente per i primati superiori. L’uso che ne facevano era immediato e spontaneo: si servivano della prima cosa che capitava loro a tiro. Dal momento però in cui questi oggetti hanno cominciato ad essere lavorati e adattati in vista di una ipotetica necessità futura, sono stati proiettati un contesto “culturale” che andava a sovrapporsi a quello naturale, a trascenderlo. Il discrimine sta proprio a questo punto: negli umani il ricorso allo strumento non rimane occasionale e dettato dal bisogno immediato, ma diventa consapevolezza della possibilità di un uso alternativo di fronte alle molteplici incognite ambientali, e questa consapevolezza continua ad essere presente alla memoria anche in assenza dell’occasione di applicarla. Diventa cioè funzionale ad una possibile strategia, nella quale finiscono per combinarsi diverse opportunità. L’uomo si scopre capace non solo di sfruttare l’occasione, ma di cercarla o di crearla. Acquisisce una coscienza temporale che non ricorda solo dei fatti, ma ricostruisce degli eventi, collocandoli nel passato o nel futuro.

3.5 Specchiarsi

Contrariamente all’immagine stereotipa dei nostri progenitori come cacciatori, l’economia dei primi ominidi era basata sulla raccolta itinerante di frutti e radici e sullo spolpamento delle carcasse lasciate dai grandi carnivori[3]. In un inseguimento era più probabile che recitassero la parte della preda. Ora, l’economia di raccolta comportava l’esplorazione di ampie distese poco alberate, nelle quali la postura eretta consentiva di muoversi più rapidamente e soprattutto di mantenere un maggiore campo visivo, per evitare i predatori. Essere però a propria volta più visibili esponeva a grossi rischi. Muoversi isolati era estremamente pericoloso, per cui divenne di vitale importanza rimanere in contatto visivo con altri membri del gruppo, sviluppare legami stabili tra i membri della comunità e progredire di conseguenza verso un’organizzazione sociale più articolata[4].

L’altro cambiamento fondamentale concerne dunque il rapporto con i propri simili. L’aiuto reciproco era imposto da necessità immediate di sicurezza e di sopravvivenza, cosa che accade del resto anche per i banchi di pesci o per le società degli insetti: ma gli umani non si sono fermati al livello della pura associazione istintuale. Per cooperare su progetti sganciati dalle ricorrenze e dai ritmi naturali era indispensabile che tra i diversi attori si aprisse un credito reciproco di fiducia: ciò che implicava il riconoscimento degli altri come propri simili[5]. Si scopriva cioè l’umanità altrui (anche se questo credito non va sopravvalutato, perché in un primo momento era riservato solo ai membri del proprio gruppo o della propria tribù). Questo riconoscimento non rimaneva confinato alla superficie. Scendeva in profondità, e portava ad attribuire agli altri le stesse intenzioni che animano noi: quindi ad accoglierne, o quanto meno a interpretarne, anche il punto di vista.

Ma quali meccanismi sono entrati in gioco perché tutto questo accadesse?

Per cooperare, si diceva sopra, è necessario agire in sintonia con gli altri: cogliere le loro intenzionalità, vedendoci agire al loro posto, così come essi cercheranno di cogliere le nostre. Oggi sappiamo che la nostra capacità empatica, la nostra compartecipazione e comprensione dell’altro scaturisce da una predisposizione presente in qualche maniera in noi sin dalla nascita, su base neurale. Che insomma la radice di questa sintonia è biologica, mentre gli sviluppi sono poi culturali: e lo sappiamo grazie alla recente individuazione dei neuroni specchio.

La scoperta non è avvenuta casualmente: da tempo si cercava di dare una spiegazione scientifica ad un meccanismo mimetico che era già stato individuato come esplicativo dei comportamenti animali da etologi ed antropologi (ad esempio da Konrad Lorenz, o da René Girard – ma prima ancora era stato genialmente anticipato da Giovanbattista Vico, e da Schopenhauer[6]). Del tutto casuali sono state invece le circostanze, una serie di test effettati sui macachi per studiare i meccanismi di attivazione cerebrale in corrispondenza di particolari azioni. In sostanza, si è scoperto che in alcune aree del cervello (denominate F5 e F4) operano dei neuroni che si attivano sia quando il soggetto compie un’azione che quando osserva altri individui compiere la stessa azione. Essi riflettono cioè direttamente nel cervello dell’osservatore le azioni realizzate dagli altri, ma anche da sé (per questo sono definiti neuroni specchio). E il meccanismo è attivo non solo nei primati o più in generale nei mammiferi, ma anche in altre classi dei vertebrati, sicuramente, ad esempio, negli uccelli.

Negli altri animali però i neuroni specchio non sono attivati da qualsiasi tipo di azione: lo sono, di norma, solo da quelle transitive (cioè rivolte a o ricadenti su un altro oggetto), quelle la cui intenzionalità è palese e immediata. Ciò non vale per l’uomo: nel sistema neuronale umano il sistema specchio non si attiva solo in presenza di azioni transitive (e in molti casi anche intransitive), ma si estende anche a quelle semplicemente mimate. Questo significa che il cervello umano è in grado di selezionare non solo rispetto alla tipologia di azione, ma anche rispetto alla sequenza di movimenti dai quali essa è composta. E può farlo perché ha una coscienza “diretta” di quei movimenti, indotta dalla consapevolezza del proprio corpo.

Il lato sinistro della storia3 02

Noi siamo infatti in possesso delle conoscenze motorie che regolano le rappresentazioni coinvolte, nelle azioni esecutive come nella comprensione. Il rapporto cervello-mano non è puramente istintuale e a senso unico, ma comporta un passaggio di informazioni bidirezionale, in ingresso e in uscita. I dati (prevalentemente visivo-uditivi) che raccogliamo dal mondo esterno li trasmettiamo al circuito sensoriale-motorio, dopo però che quei dati sono stati pre-selezionati dallo stesso sistema. Vale a dire che se vedo la maniglia di una porta la prima informazione che viene trasmessa al mio cervello non è relativa all’aspetto estetico, alla fattura o ai materiali, ma al modo in cui posso afferrare la maniglia (l’esempio più ricorrente nella letteratura scientifica è quello del manico della tazzina da caffè). In automatico i miei neuroni attivano la “disposizione” ad afferrare. L’attivazione del sistema specchio non avviene dunque sulla base delle informazioni visive, ma sulla base dell’anticipazione di uno “scopo”. La percezione di un oggetto, ma più in generale tutte le caratteristiche oggettive di un ambiente, ci inducono automaticamente ad agire in maniera appropriata rispetto a quell’ambiente o a quell’oggetto: che significa anche, a volte, non agire affatto.

Noi dunque istintivamente “sappiamo” cosa sta alla base di determinate azioni, nel senso che abbiamo una istintiva conoscenza del loro stretto rapporto con particolari stati mentali. Diamo quindi alle azioni compiute da un’altra persona un significato che si basa su ciò che abbiamo in mente noi quando compiamo la stessa azione. Ciò naturalmente vale anche per come sono interpretate le nostre azioni agli occhi degli altri. Ovviamente gli stimoli esterni vengono riconosciuti e compresi dall’osservatore solo se il modo in cui si configurano fa parte del suo bagaglio sensoriale-motorio. Certe azioni o comportamenti che sono peculiari di altre specie o ordini animali non attivano nell’uomo alcuna risposta neuronale, se non quella della pura percezione visiva. La attivano invece, e segnatamente, anche le espressioni facciali e le azioni comunicative dei suoi conspecifici. In altre parole, siamo in grado di partecipare delle stesse emozioni degli altri, in quanto la percezione delle emozioni di base negli altri coinvolge le stesse strutture cerebrali che si attivano quando esprimiamo le nostre.

A questo punto dovrebbe essere più o meno chiaro come sia possibile per l’essere umano comprendere le intenzioni e le emozioni altrui: e come, magari, proprio riflettendosi in questo specchio, sia pervenuto a prendere piena coscienza di sé, e di conseguenza possa aver sviluppato la capacità di pensare e di agire in sintonia con altri. Di dare vita, in sostanza, a forme di comunità e di socialità dapprima elementari e poi via via più complesse.

Il gruppo (in un secondo momento, la tribù) è una società cooperativa, ma a differenza di quelle che caratterizzano altre specie o altri ordini non è tale solo per via di una determinazione genetica. Nasce da una scelta, sia pure utilitaristica. Ci si associa “volontariamente” in funzione di un progetto comune, che va dalla battuta di caccia o di raccolta alla coabitazione ai fini della difesa. Molti occhi vedono anche ciò che può sfuggire a un paio d’occhi, e molti individui hanno un potere di dissuasione anche nei confronti di un aggressore temibile[7].

3.6 Comunicare

Per socializzare, e tanto più per programmare in gruppo, è però necessario comunicare. Anche gli animali comunicano, ma i segnali che inviano, indipendentemente dal loro livello di complessità, sono risposte meccaniche alle situazioni che stanno effettivamente vivendo (per loro si parla di una “cultura episodica”). Gli scimpanzé non convocano riunioni condominiali per il giorno o per la settimana seguenti, così come non si attrezzano di armi o altri bagagli in vista di uno spostamento. Reagiscono d’istinto, in maniera se vogliamo astuta, ma non programmano[8].

Gli umani, al contrario, sono in grado di sganciarsi dal presente e di proiettarsi a piacere nel tempo, ovvero nel passato e nel futuro, e nello spazio, di prefigurare situazioni a venire partendo dalle esperienze cumulate nel passato. Più o meno coscientemente, comunque non solo istintivamente, programmano il loro avvenire. Facendo però riferimento a situazioni, emozioni, accadimenti e oggetti che non sono qui e ora, gli umani entrano in una dimensione astratta, che può essere evocata solo in termini simbolici. E a questa dimensione astratta chiamano a partecipare i loro simili, introducendo una modalità di comunicazione non più limitata ai segnali essenziali. È questo che autorizza a parlare solo per la nostra specie di un vero e proprio linguaggio. “Non diversamente dalle scimmie antropomorfe, come oranghi e scimpanzé, anche i nostri antenati erano esseri sociali capaci di risolvere problemi grazie al pensiero. Ma erano in competizione fra loro e miravano soltanto ai propri scopi individuali. Quando i cambiamenti ambientali li costrinsero a condizioni di vita più cooperative, dovettero imparare a coordinare menti e azioni per perseguire obiettivi condivisi, e a comunicare i propri pensieri ai partner della collaborazione. In definitiva l’esigenza di lavorare insieme è ciò che rende possibile il linguaggio, le forme di pensiero complesse, la cultura.[9]

La creazione di un linguaggio complesso fu dunque il fattore che permise all’uomo di sganciare il legame tra la tecnologia e la propria evoluzione biologica. Le tecniche di costruzione e le modalità d’uso di strumenti semplici potevano essere apprese per semplice imitazione, ma di fronte all’imprevedibilità degli ambienti sempre nuovi guadagnati nelle migrazioni o di quelli consueti trasformati dalle variazioni climatiche dovevano essere aggiornate e trasmesse attraverso uno scambio di informazioni più costante e completo. L’evoluzione culturale esce dalla sua lunghissima fase di decollo e si alza in volo quando lo scambio non è più solo materiale (partecipazione collettiva alla caccia o eventuale spartizione dei frutti della raccolta), ma diventa immateriale, diventa scambio di informazioni. Di qualsiasi tipo. Questo scambio non ha più a che fare con la biologia: anzi, il suo effetto è semmai quello di rallentare l’azione selettiva della natura. Attraverso lo scambio di informazioni, anche i meno adatti hanno delle chanches di sopravvivenza. La conoscenza è un’arma sganciata dalla fisicità. Questo probabilmente spiega l’invarianza anatomica del sapiens negli ultimi centomila anni.

La forma primordiale di linguaggio (il protolinguaggio attribuito all’Homo erectus) era quella gestuale, mimetica, che passa appunto principalmente attraverso le mani, ma non solo, e utilizza modalità espressive visivo-motorie per dare una rappresentazione della realtà, o per costruirne una. Ora, questo passaggio non è indifferente. A ben considerare ci dice due cose importanti: la prima è che esiste una continuità tra le nostre capacità espressive e quelle di altre specie (anche le scimmie praticano forme elementari di comunicazione mimetica), ovvero che non c’è stato un salto, ma una evoluzione; la seconda è che l’avvento del linguaggio simbolico non è subordinato al carattere fonico della verbalizzazione. Anche il linguaggio dei segni è infatti soggetto nel tempo ad una semplificazione che poco conserva dell’originario rapporto mimetico con la realtà che si vuole rappresentare. In qualche misura ha già una valenza simbolica.

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Questa seconda informazione è a mio parere in diretto rapporto col tema delle dominanze dei due emisferi. La comunicazione mimetica passa infatti per i gesti della danza, per la mimica del linguaggio corporeo o del rito, per alcune forme di musica: ovvero per tutto ciò che rientra nel dominio di competenza dell’emisfero destro[10]. A rigor di termini, non è simbolica, ma iconica: nella sua funzione descrittiva, la natura combinatoria dei gesti e delle espressioni deve rispecchiare quella degli eventi descritti. Il margine consentito all’arbitrarietà è ancora molto ristretto. È invece questo a caratterizzare la comunicazione verbale: tranne i rarissimi casi nei quali si può risalire ad una origine onomatopeica, i suoni non hanno alcuna relazione diretta con gli oggetti o le azioni che designano. La comunicazione verbale è, almeno in questo senso, totalmente astratta e arbitraria. Anche se, naturalmente, non è indipendente da vincoli di carattere neurofisiologico e dall’ organizzazione anatomica della fonazione[11].

Quella gestuale-mimetica è stata dunque solo una tappa intermedia. Con ogni probabilità lo strumento vocale l’ha inizialmente affiancata per rispondere alle necessità di una comunicazione notturna, o comunque al di fuori della portata visiva, per la presenza di ostacoli o di macchie d’alberi. Solo molto più tardi l’ha soppiantata (non del tutto, però, in quanto gestualità ed espressione sono ancora una componente essenziale della comunicazione). Il salto di qualità decisivo è avvenuto solo con l’approdo ad una fonazione sintatticamente disciplinata e complessa. Questa a sua volta ha modificato il tratto vocale, coinvolgendo altre funzioni; per decodificare i segmenti linguistici, infatti, anche la percezione uditiva si è ulteriormente specializzata. Ciò è avvenuto in tempi molto recenti rispetto a quelli globali della nostra evoluzione. Ma è il percorso ad interessarci.

Se fino a qui ho parlato in termini di una evoluzione naturale della comunicazione umana, sia pure nella sua eccezionalità, a questo punto entrano invece in scena altri fattori: quelli sociali e culturali. Entra in scena la “convenzionalizzazione”. La comunicazione “mimetica” fa riferimento come si diceva ad una riconoscibilità oggettiva e immediata, alla diretta simulazione o indicazione di ciò che si vuole rappresentare. È indubbio che col tempo dalla primitiva semplicità del gesto puramente indicativo si sia approdati ad una funzione “rappresentativa”, con combinazioni in sequenza che possono formare una frase, o con la fissazione ritualizzata ad esprimere sentimenti e disposizioni particolari (i gesti di saluto, di accoglienza, di commiato, di amicizia, ecc…). Quella verbale, evidentemente, deve prescindere in toto da questa “riconoscibilità”. Può esistere solo se in qualche modo tra gli interlocutori esiste un accordo, una convenzione appunto, per cui un determinato suono, anziché un determinato segno, espressivo o gestuale, “rappresenta” l’oggetto, il luogo o l’azione cui ci si sta riferendo. Mentre il segno mostra, il suono evoca: e per evocare deve fare riferimento a qualcosa che è già presente nella mente e nella memoria di chi lo ascolta.

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3.7 Parlare

La faccenda si complica ulteriormente. La domanda che si pone ora è: come si configura precisamente il rapporto tra pensiero e linguaggio? È il primo a generare il secondo, o viceversa? Ovvero: come è possibile che il linguaggio sia in grado di trasmettere ciò che ci passa per la mente? E che fondamento comune ha, per poter essere condiviso con altri?

È difficile immaginare un accordo in merito a un qualcosa che non è presente o che ancora non esiste. È presumibile quindi che inizialmente il passaggio da un sistema iconico ad uno simbolico sia stato casuale. Possiamo ipotizzare ad esempio che un membro autorevole del gruppo abbia associato un suono specifico al segnale visivo che indicava un particolare pericolo (ciò che rientra ancora nell’ambito degli strumenti comunicativi animali). E che questo suono sia stato successivamente usato non per segnalare la presenza immediata di quel pericolo, magari di un predatore, ma per esorcizzarlo per il futuro, o per infondere coraggio rievocandone la sconfitta nel passato. Questo uso può aver dato origine ad un processo di ritualizzazione. D’altro canto, certi vocaboli, certe locuzioni, nascono ancora oggi allo stesso modo. Se durante una conversazione conio un termine nuovo, o ne uso uno già esistente traslandone il significato per esprimere una particolare situazione o emozione, e chi mi ascolta intende comunque ciò che voglio dire, qualora quel termine abbia significative caratteristiche di icasticità è possibile che venga adottato e ripetuto.

Oppure (e questa è un’ipotesi formulata non da me ma da eminenti linguisti), la transizione può essere avvenuta tramite i suoni adottati dalle madri per tranquillizzare i neonati[12]. C’è anche chi azzarda che la comunicazione verbale abbia avuto origine dai pettegolezzi tipici che nascono nei gruppi femminili. Ipotesi bizzarra, ma non del tutto inverosimile. “Se la nostra umanità dipende dal linguaggio, sono le chiacchiere della vita quotidiana a fare andare avanti il mondo, più che le perle di sapienza che possono cadere dalle labbra degli Aristotele e degli Einstein[13]. In effetti, è ipotizzabile ad esempio che, una volta domesticato anche il buio, la sera i nostri antenati sedessero attorno al fuoco, e che dai gesti e dai grugniti scambiati in quei convegni sia scaturita una forma di comunicazione linguistica che andava a incrementare la spinta alla cooperazione e alla socialità.

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Si può anche spiegare l’esistenza di tante lingue diverse. Occorre distinguere tra due livelli. Uno è quello che potremmo definire di conformità: tutti i linguaggi attingono le loro regole all’interno di una “grammatica universale”, che è frutto della selezione naturale. L’altro è quello dell’arbitrarietà, per cui ogni comunità di parlanti sceglie poi, all’interno del primo livello, proprie regole sintattiche e propri segni lessicali. E questo attiene invece ad una tradizione culturale. Tutti i bambini utilizzano in una prima fase sistemi comunicativi molto semplici, che rispondono ad uno standard pressoché comune: poi si sintonizzano sul codice particolare della comunità in cui vivono, ma questo non esclude che possano arrivare ad utilizzarne anche altri (imparare le lingue), proprio per l’esistenza di un comune sostrato. Ma questo ci porta già oltre.

Ci interessa piuttosto il passaggio precedente, quello da segno a linguaggio, che in realtà non può essere mai del tutto casuale. Può avvenire solo se la comprensione di segni nuovi (visivi o fonici che siano) è favorita da una loro lettura nel contesto: se cioè esiste già nell’ascoltatore una disposizione a “interpretare” il segno nuovo alla luce di quello che il comunicante vorrebbe dire, entro uno spettro ampio di possibilità di significato. Se cioè è in grado di attribuire a quel complesso di segnali diverse intenzionalità, desumibili dal tono di voce, ad esempio, dalle espressioni del volto o da uno stato di maggiore o minore eccitazione.

Questa disposizione di fondo può essere intesa in modi molto diversi. Si può parlare, come fanno Noam Chomsky e altri innatisti, di una “grammatica generativa” iscritta nella mente umana, di un “dispositivo” quindi, piuttosto che di una “disposizione”, di un organo di cui gli umani sono dotati al pari dei polmoni e della milza (ciò che non esclude una origine evolutiva, ma la lascia poi nel mistero, e postula comunque una discontinuità netta tra l’uomo e gli altri animali)[14]. Oppure si adotta una linea interpretativa molto più umile, quella che pone la specie umana in diretta continuità con tutte le altre, e che presenta a sua volta svariate sfumature, riconducibili poi sostanzialmente a due: una che sostiene la natura totalmente “culturalista” del linguaggio, ovvero ritiene che la comunicazione abbia sfruttato dispositivi cognitivi nati con altre finalità, e quindi si sia adattata per utilizzare quello che il cervello metteva a disposizione; l’altra che ritiene invece che il cervello e il linguaggio abbiano seguito un percorso coevolutivo, si siano cioè influenzati reciprocamente.

Nel primo caso, quello di Chomsky, si suppone chiaramente un primato del pensiero sul linguaggio: il linguaggio può esprimere il pensiero perché ne ricalca la forma. Io capisco il mio interlocutore e lui capisce me perché nelle nostre menti è presente, già a livello genetico, lo stesso modello sintattico di base, originato da una casuale e improvvisa ricombinazione delle funzioni cerebrali.

Nel secondo, quello dei culturalisti, si va nella direzione opposta: è stato il linguaggio a dettare le regole in base alle quali si articola il pensiero, e a sua volta il linguaggio risponde alle pressioni culturali provenienti dall’ambiente esterno, le raccoglie e le traduce in segni, dapprima gestuali e poi fonici, prima semplici e poi sempre più strutturati e complessi. Ciò indirizza la mente a organizzare le informazioni secondo gli schemi sbozzati dalle funzionalità percettive (vista, udito, tatto, ecc..) e messi a punto attraverso le esperienze “culturalmente” acquisite: questi schemi non hanno origine genetica, non sono dettati dall’istinto o da una modularità invariabile, ma si adeguano di volta in volta alle trasformazioni ambientali e alle necessità di risposta che queste inducono.

Nel terzo caso invece, quello del meccanismo coevolutivo, il linguaggio origina da una serie di mutamenti anatomici, fisiologici[15], che hanno creato un rapporto diverso dell’uomo con il mondo esterno, ma anche una diversa consapevolezza del proprio essere nel mondo. Dapprima denotativo, e poi comunicativo, il linguaggio diventa così strumento riflessivo. In fondo siamo costantemente impegnati in un monologo interiore, operiamo scelte continue tra le diverse pulsioni che ci agitano, e lo facciamo ponendoci domande e dandoci risposte che prescindono dall’immediatezza o meno dello stimolo. Parliamo prima con noi stessi, e solo in un secondo momento esternalizziamo, agendo o parlando, le conclusioni e le scelte cui siamo pervenuti.

Il lato sinistro della storia3 06Ma nel monologo interiore, in che lingua parliamo? Le variazioni nelle lingue dipendono quasi certamente da un utilizzo diverso dell’insieme dei meccanismi mentali, non dall’esistenza di dispositivi diversi. Per questo è importante comprendere che origine abbia il sostrato comune.

Il lato sinistro della storia3 07Il dibattito in proposito è vivacissimo, costantemente alimentato dalle scoperte paleontologiche, ma soprattutto da quelle neurofisiologiche. Non è un dibattito ozioso, perché suppone interpretazioni molto divergenti del posto dell’uomo nella natura, dalle quali scaturiscono letture completamente opposte della nostra storia. È comunque viziato a parer mio da alcune pregiudiziali, a volte ideologiche (è senz’altro il caso di Chomsky, di Marshall Shalins, ma anche di Steven Pinker), più spesso dettate proprio dal tipo di approccio professionale (Dennett, Fodor, ecc…). Un cognitivista, un paleontologo, un neuroscienziato, un antropologo, partono da punti di vista completamente diversi, e per quanti sforzi facciano di essere interdisciplinari si portano sempre appresso lo stigma del punto di partenza.

Il lato sinistro della storia3 08Non ho competenze sufficienti per entrare nel merito. Quella che a naso più mi convince è però la tesi della natura coevolutiva del linguaggio, che oltretutto si presta perfettamente alla prosecuzione del mio percorso. Chi la sostiene[16] parte da un assunto ineccepibile: le capacità cognitive sono strettamente dipendenti dallo sforzo che ogni organismo mette in campo per mantenersi in equilibrio con l’ambiente esterno. Questo sforzo, lo scriveva già Darwin ne L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, è prima di tutto uno sforzo di comprensione. Noi umani, quando nel corso di un ragionamento incontriamo un ostacolo, una difficoltà, aggrottiamo le sopracciglia, e ciò accade perché ci stiamo sforzando di ovviare alla rottura del filo del nostro pensiero. Oppure, come sottolineava ancora Darwin, somatizziamo e manifestiamo il nostro imbarazzo, la nostra emozione, arrossendo. Sono riflessi involontari, che costituiscono comunque una primordiale forma di comunicazione: sono segnali offerti all’interpretazione dell’interlocutore.

Naturalmente lo sforzo adattivo non è una peculiarità esclusiva della nostra specie. Tutti gli organismi si comportano in questa stessa maniera: di fronte ad ogni interruzione dell’abituale scorrere delle cose reagiscono adattando, modificando, magari anche solo temporaneamente, le proprie risposte istintive. La differenza sta nel fatto che per gli altri organismi, per tutte le altre specie, è di norma una condizione eccezionale, e comunque subita passivamente, nel senso che di ricomporla si occupa il meccanismo selettivo, mentre nel caso degli umani si tratta della condizione abituale, perché lo squilibrio è congenito alla loro condizione di “inadatti”.

Ma qui sta anche la loro eccezionalità. Perché un animale specializzato è adatto proprio in quanto viaggia su un binario che non consente deviazioni: o risponde a certe condizioni ambientali oppure si estingue. L’uomo invece non è predeterminato da alcuna specializzazione, è un animale costantemente “potenziale”, e ha quindi di fronte un campo di possibilità più vasto, teoricamente infinito. Ciò significa che vive in uno stato di perenne “tensione”, intesa come tendenza a radicarsi in un ambiente rispetto al quale è sempre meno “naturalmente” adatto, per via sia delle mutazioni anatomiche che delle migrazioni: e che per mantenere una relazione flessibile di stabilità con l’ambiente, ha sviluppato risposte adattive basate sulla cognizione anticipatoria, ovvero sulla capacità di proiettarsi in situazioni contestuali alternative a quella in cui è effettivamente immerso.

Questa capacità si esprime anche nel rapporto con altri soggetti, e nello specifico determina la possibilità del linguaggio. Sopra il primo livello comunicativo, quello dello scambio e dell’interpretazione di segnali elementari, la comunicazione è resa possibile dalla capacità di ciascun interlocutore di decrittare il messaggio trasmesso dall’altro attraverso la sua “contestualizzazione”, prima ancora che attraverso il riconoscimento dei suoni. E qui entra in gioco la lettura di segnali come l’arrossire o il corrugare la fronte. Non si attiva quindi solo un processo meccanico di decodifica, ma uno sforzo “cognitivo” di analisi del contesto nel quale il discorso si situa. “Lo sforzo della comunicazione è sotto gli occhi di tutti: è diverso seguire una lezione di filosofia analitica o ascoltare le confidenze sentimentali di un amico.[17] In questo senso condivido l’ipotesi coevolutiva: non postula una “grammatica universale”, non demanda in toto all’ambiente gli input per la creazione del linguaggio, ma considera appieno questo sforzo come forma di adattamento dell’organismo all’ambiente.

3.8 Collaborare

L’adattamento degli umani, però, per le ragioni che abbiamo già visto, non passa attraverso il semplice meccanismo della selezione naturale. O meglio, passa attraverso un tipo di selezione che nella individuazione del “più adatto” contempla a questo punto anche parametri diversi da quelli naturali. Si chiama “effetto reversivo” dell’evoluzione. Darwin questa componente l’aveva già considerata: “La selezione naturale non è più, a questo stadio dell’evoluzione, la forza principale che governa il divenire dei gruppi umani, avendo essa ceduto tale ruolo all’educazione […] Le qualità morali sono progredite, sia direttamente che indirettamente, molto più per effetto dell’abitudine, delle facoltà raziocinanti, dell’istruzione, della religione, ecc. che per la selezione naturale; sebbene a quest’ultima si possano sicuramente attribuire gli istinti sociali, che hanno costituito la base per lo sviluppo del senso morale[18].

Il “senso morale” rappresentava per Darwin un problema, un po’ come accadeva con la coda del pavone. La domanda era: se la selezione naturale premia i più adatti, ovvero coloro che riescono a creare le condizioni più favorevoli per riprodursi, come si spiega il persistere dell’altruismo[19]? Gli altruisti, in teoria, non dovrebbero lasciare alcuna eredità biologica, dovrebbero essere degli “inadatti”, degli umani mal riusciti che la selezione spazza via. Per Darwin non è così, e la soluzione sta nell’angolo prospettico dal quale ci si pone. Non è infatti la selezione individuale a dover essere considerata significativa, ma quella di gruppo. In questa ottica, per la salvaguardia e la sopravvivenza del gruppo, un altruista è molto più importante di un egoista. E a suo parere le regole morali improntate all’altruismo si sono a loro volta evolute a partire dalle cure parentali e dagli “istinti sociali”. Queste regole sono poi state premiate dalla selezione naturale perché si sono rivelate utili al rafforzamento del gruppo.

Darwin non conosceva le leggi di Mendel (che lo scienziato moravo aveva peraltro enunciato solo sette anni dopo la pubblicazione de L’origine della specie), non era quindi in grado di descrivere il meccanismo attraverso il quale i caratteri premiati dalla selezione naturale sono trasmessi alla generazione successiva. E infatti l’appunto critico più ricorrente che veniva rivolto alla sua teoria riguardava proprio l’insufficienza delle spiegazioni sull’origine della variabilità biologica. Probabilmente, se le avesse conosciute si sarebbe posto il problema se le regole morali sono “premiate” o sono invece “dettate” dalla selezione naturale. Che non è, come vedremo, esattamente la stessa cosa.

Dopo essere rimasta in sonno per decenni (solo gli anarchici, come Kropotkin[20], avevano sottolineato questo aspetto) la spiegazione di Darwin è stata rispolverata nel secolo scorso, questa volta rimodulando il concetto di “gruppo” e avvalendosi del supporto della genetica delle popolazioni e della biologia teorica, che applicando il coefficiente di parentela è approdata al calcolo della “fitness”[21]. Successivamente è stata ulteriormente corretta introducendo un altro valore, quello di “reciprocità”. In sostanza, la sua formulazione attuale si può riassumere così: “Se agisco altruisticamente nei confronti di parenti, che sono portatori, in percentuale diversa a seconda del grado di parentela, dei miei stessi geni, in termini di patrimonio genetico non andrò mai incontro ad una perdita secca. Se mi comporto in modo altruistico nei confronti di un estraneo, creo quantomeno le condizioni per un rapporto di reciprocità”.

Messo così naturalmente l’altruismo perde molto del suo valore “etico” e sembra ridursi a un puro calcolo economico consentito dallo sviluppo delle facoltà raziocinanti. In realtà, abbiamo visto che per Darwin esistevano, a monte, degli “istinti sociali” che erano stati selezionati naturalmente. E proprio sulla loro esistenza o meno verte oggi il dibattito sul “senso morale” degli umani, dibattito che è peraltro speculare a quello sul linguaggio, e spesso vede protagonisti gli stessi studiosi.

Anche in questo caso, infatti, da un lato c’è un modello che postula l’esistenza di una serie di istinti, principi e giudizi morali “innati”, determinati, sia pure in modo indiretto, dal nostro corredo genetico. Secondo questo modello quindi il nostro “senso morale” è universale, è inscritto nel cervello umano, è legato fattori ereditari e non è soggetto a condizionamenti sociali[22]. Ed è anche una caratteristica esclusiva della nostra specie. La versione esasperata di questa tesi (quella trasmessa e banalizzata dalla comunicazione pseudoscientifica) ipotizza l’esistenza di geni specifici delle varie attitudini, della timidezza, della paura, degli orientamenti sessuali, ecc…; quella più morbida, proposta ad esempio da Steven Pinker, è che «forse non abbiamo nel cervello una lista di regole “tu devi”, ma almeno qualche regola del tipo “se-allora”[23]».

Dall’altro lato c’è invece chi sostiene che nel nostro cervello non ci sono né grammatiche universali né una normativa morale specifica, ma che esso agisce secondo un programma di apprendimento che ci indica cosa dobbiamo imparare: in questo modo, a partire dalla primissima infanzia noi assorbiamo dall’ambiente, dalla società in cui siamo nati, i fondamentali per una impalcatura morale, sui quali poi andremo a costruire sulla base delle nostre esperienze. Quindi non si parla di innatismo e di fattori ereditari, ma di un condizionamento storico e ambientale, ovvero culturale. Qualcosa che dipende in toto dall’esperienza esterna (quella che l’etologo De Waal, e prima di lui Konrad Lorenz, chiamano imprinting)[24].

Questo intendevo quando accennavo alla differenza tra dettare e premiare. Nel primo caso si ritiene che la selezione abbia già operato a monte, definendo dei caratteri ereditari fissati una volta per tutte, che dettano il nostro comportamento morale. Per i secondi invece la capacità morale di noi umani si è evoluta a partire da una caratteristica che condividiamo con gli altri animali sociali, e segnatamente con gli altri primati, la capacità empatica, che nella misura in cui si è rivelata determinante nella mediazione dei conflitti interni al gruppo e nel promuovere la cooperazione sociale è stata premiata dalla selezione. In questo senso esiste un condizionamento, ma non è quello naturale, bensì quello sociale, quello dei modelli comportamentali e valutativi fissati dalla tradizione culturale.

C’è infine una terza posizione, che in fondo consegue a quanto sono venuto dicendo sino ad ora e appare senz’altro plausibile, sostenuta da Michael Tomasello. In sostanza: i mutamenti ecologici (glaciazioni, desertificazioni, ecc…) hanno portato a un aumento della naturale interdipendenza tra gli umani e allo sviluppo della loro capacità cooperativa, soprattutto col passaggio da una economia di raccolta a quella della caccia ad animali anche di grandi dimensioni. Questa capacità si differenzia da quella dei primati in quanto prevede, accanto a una base empatica che è comune a tutti i primati a noi più simili, la formazione di una morale dell’equità, che è più complessa ed esclusivamente umana: ovvero postula, oltre alla capacità di cooperare per lo stesso fine, quella di riconoscere l’uguaglianza tra sé e l’altro, obbligati dall’ambiente a procurarsi insieme il cibo e tenuti a dividerlo equamente.

Detto in termini pratici, coloro che si dimostravano più affidabili, non solo per le abilità, ma per la lealtà e la correttezza nel dividere la preda, erano quelli che si preferiva coinvolgere nelle cacce successive, e per non perderli li si trattava equamente e lealmente. Tali capacità hanno quindi selezionato nel tempo i più dotati e altruisti, a dispetto delle inclinazioni egoistiche presenti in tutti gli individui.

Questa spiegazione in fondo riesce a far coesistere tutto, dall’empatia innata (quella legata ai neuroni specchio) al condizionamento storico e ambientale (quindi all’esistenza di un dispositivo di apprendimento), dalla giustificazione evoluzionistica dell’altruismo all’importanza della reciprocità. E al di là delle sfumature sembra essere quella ormai universalmente accettata. Un altro eminente “grande vecchio”, Edward O. Wilson, nel suo saggio più recente, Le origini profonde delle società umane, partendo dall’idea di eusocialità, ovvero dal fatto che le grandi transizioni evolutive si sono verificate sempre quando ha prevalso all’interno di una specie la tendenza all’aggregazione, perché questo fa emergere un livello superiore di complessità biologica e porta enormi vantaggi in termini di sopravvivenza e di riproduzione, ha così definito le tappe di passaggio della socialità umana: cura della prole e difesa collettiva del nido; divisione del lavoro e gerarchia sociale; selezione all’interno del gruppo di quei geni e comportamenti che lo rendono più coeso e lo avvantaggiano nella competizione con gruppi rivali.

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Ora, quanto si è scoperto o ipotizzato negli ultimi trent’anni a livello di spiegazione dei comportamenti umani di base non fa che confermare su base biologica una lunga serie di anticipazioni che venivano soprattutto dal campo dell’antropologia, dal campo cioè di Hertz. Ad esempio, Marcel Mauss aveva individuato già nei primi decenni del Novecento, nel Saggio sul dono (1924), come base dello scambio arcaico il triplice obbligo, radicato nella mente umana, di dare, ricevere e restituire: ossia un principio di reciprocità, dal quale dipendono le relazioni di solidarietà tra individui e gruppi, mediante lo scambio di doni pregiati. E dopo di lui il tema era stato ripreso da Claude Levi-Strauss ne Le strutture elementari della parentela. Indagando la struttura invariante che sottostà a tutti i sistemi di parentela, Levi-Strauss arrivava a identificarla nella proibizione dell’incesto, perché questo rende disponibile una donna, cioè un bene pregiato, per altri gruppi sociali, consentendo di stabilire forme di reciprocità e di solidarietà che garantiscono la sopravvivenza del gruppo.

Non sono sicuro che le conclusioni di Levi-Strauss possano essere considerate sempre valide (presso alcune culture l’incesto non è affatto proibito): ma ciò che qui importa è che se valesse la pura contabilità genetica questa proibizione apparirebbe suicida, così come lo appare la pratica del dono, mentre introducendo il principio della reciprocità i conti cominciano a tornare. Il dono, di qualunque natura esso sia, crea un vincolo solidale e seleziona gli individui capaci di rispettarlo. Quando il vincolo funziona, quando cioè la reciprocità diventa il modello collettivo di comportamento, il gruppo si allarga, diventa più competitivo e aumenta la propria capacità di sopravvivenza.

3.9 Competere

Anche De Waal, Tomasello e Wilson, però, e prima di loro Lorenz, così come in fondo persino Pinkler, non dimenticano che al di là delle dinamiche altruistiche che si creano all’interno del gruppo la pulsione di base in ciascun individuo è quella egoistica, e che l’altruismo è appunto un “prodotto” dell’evoluzione, naturale o culturale che si voglia: crea un’alternativa, ma non sostituisce in toto l’istinto primordiale. Questo ci riporta all’azione dei neuroni specchio, e all’ipotesi interpretativa dei comportamenti umani cui volevo arrivare.

La coscienza di sé, come abbiamo visto, nasce dall’osservazione consapevole dell’altro, da un suo riconoscimento, e a sua volta poi sull’altro si riverbera. Si agisce, si reagisce, si progetta tenendo conto delle azioni e delle intenzioni altrui. Si sviluppa in questo modo una “intelligenza sociale”. Ma l’intelligenza sociale può funzionare, per quanto concerne le dinamiche relazionali interne al gruppo, tanto in positivo come in negativo. In positivo, la capacità di entrare nella mente altrui consente come abbiamo già visto una empatia, una progettualità comune, una convivenza allargata. Rende possibile quell’altruismo che è necessario alla sopravvivenza del gruppo, a difenderlo dalle minacce esterne, ambientali o arrecate da altri gruppi. E rende possibile appunto il linguaggio, una comunicazione complessa e sfumata, e dal linguaggio è a sua volta esaltata.

In negativo induce invece a quello che è stato definito, a proposito anche di altre scimmie antropomorfe, un “comportamento machiavellico”. A giocare dunque, anche all’interno del proprio gruppo, con l’inganno, la finzione, la menzogna, la competizione, l’invidia.

La conflittualità interna al gruppo è diffusa presso quasi tutte le altre specie (non negli imenotteri), sia pure in misure diverse: ma quella subdola perpetrata con l’inganno e quella gratuita che si traduce in crudeltà appartengono solo ai primati, e l’ultima solo agli antropomorfi. E tra questi, gli esseri umani e gli scimpanzé sono gli unici che si impegnano frequentemente in lotte fra conspecifici con esiti letali. È un aspetto di tutta questa vicenda che sinora ho volutamente lasciato in ombra, perché è quello che consente il raccordo con il resto della narrazione, e va trattato a parte. Del resto, è anche un aspetto comprensibile. La condizione precaria in cui i sapiens hanno vissuto fino ad almeno cinquantamila anni fa, esposti costantemente al pericolo e poco equipaggiati per la grande caccia, li ha resi particolarmente bellicosi. Si è sviluppata in loro anche la crudeltà. Ma questo sentimento non è solo frutto dell’azione ambientale. Nasce prima ancora da dentro. Il perché e il come ci aiuta a capirlo la “teoria mimetica” proposta dall’antropologo René Girard.

Dopo la lunga galoppata nella biologia e nella neurofisiologia il testimone passa dunque ora all’antropologia. (…)

NOTE

[1] Marco Mazzeo, Tatto e linguaggio (cit)

[2] L’indagine e la manipolazione sono a loro volta connessi, col progredire della “culturalizzazione”, a quella che si può definire “esperienza mediale”. Se la realtà viene esperita attraverso particolari media, tenderà anche ad organizzarsi attraverso regole imposte dai media stessi. Questo aspetto è particolarmente importante e visibile oggi, con una percezione che mescola sempre più indiscriminatamente realtà naturale e realtà virtuale.

[3] A differenza delle altre scimmie antropoidi, i nostri progenitori sono diventati, durante il processo di ominazione, carnivori e cacciatori. Per milioni di anni però hanno cacciato piccole prede e raccolto quel che potevano, e contemporaneamente sono rimasti esposti alla pericolosa attenzione dei predatori. La selvaggina di grossa taglia è entrata nella loro dieta solo 400.000 anni fa.

[4]Tra 4,4 e 3,8 milioni di anni fa, abbiamo a che fare con creature che si diffondono in nuovi ambienti come sponde di laghi, savane e praterie. L’unico modo in cui questi animali potevano farlo era grazie a una sofisticata cultura sociale. Nella savana, un bipede lento è un bipede morto: a meno che non abbia un sacco di amici con sé”. C. O. Lovejoy

[5] Darwin stesso, ne “L’origine dell’uomo”, scriveva: “Le comunità che racchiudono il più gran numero di membri più simpatici gli uni agli altri, prosperano meglio e allevano il più gran numero di rampolli”.

[6]Perciò è necessario che io partecipi del suo dolore come tale, che io senta il suo dolore come di solito sento il mio, e che perciò io voglia direttamente il suo bene come di solito voglio il mio. Ma ciò esige che io mi identifichi in qualche modo a lui, cioè che ogni differenza tra me e un altro, sulla quale si fonda il mio egoismo, sia, almeno in un certo grado, soppressa.” Arthur Schopenhauer, Il fondamento della morale

[7] Il “ragazzo del Turkana”, trovato in Kenya, si spostava di continuo in cerca di cibo e di nuovi spazi in branchi di una trentina di individui, quindi in gruppi già socialmente complessi; lasciava dietro di sé accampamenti già organizzati e forse aveva già il dominio del fuoco (i primi focolari accertati risalgono a 1,5 milioni di anni fa, in Sudafrica)

[8] Infatti, i vocalizzi dei primati interessano prevalentemente le aree sottocorticali (giro del cingolo, diencefalo, tronco encefalico), mentre nell’uomo nella produzione vocale sono coinvolte le aree corticali, in particolare l’area di Broca nel lobo frontale sinistro e il lobo temporale.

[9] Michael Tomasello, Unicamente Umano. Storia naturale del pensiero, Il Mulino 2014

[10] Si ipotizza che nel corso dell’evoluzione la specie Homo habilis comunicasse attraverso una elementare forma di proto-linguaggio gestuale e che la specie Homo erectus fosse forse in grado di produrre atti motori mimico-gestuali, mentre la specie Homo sapiens presentava già strutture cerebrali (specialmente nelle aree dell’emisfero sinistro) che avrebbero consentito di sviluppare, assieme alle modalità di comunicazione gestuale, anche le prime articolazioni vocali (Michael Corballis, La verità sul linguaggio, Corbaccio 2009).

[11]Il linguaggio e l’abilità manuale si sviluppano insieme e questa evoluzione si riproduce nello sviluppo odierno dei bambini.” (A. Woods e T. Grant, La rivolta della ragione. Filosofia marxista e scienza moderna, AC Editoriale 1997)

[12] Dean Falk, Lingua Madre. Cure materne e origini del linguaggio, Boringhieri 2011. La Falk, antropologa e neuroscienziata, propone una spiegazione molto semplice dell’origine del linguaggio, rintracciandola nel rapporto madre/infante. Quando è impegnata nella raccolta la madre deve staccare dal proprio corpo il neonato, e per fargli comunque sentire la propria vicinanza comincia a fare dei versi e dei vocalizzi, e successivamente a parlargli.

[13] Robin Dunbar, Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue, Longanesi 1998

[14] In pratica sarebbe intervenuta, in tempi evolutivamente recenti (30 o 40 mila anni fa), per motivi ancora sconosciuti, una vera e propria mutazione genetica che ha totalmente innovato il cablaggio del cervello. È anche quanto sostengono gli assertori della la teoria della mente modulare. J. A. Fodor (Mente e linguaggio, Laterza 2003) ha definito i moduli come “sistemi cognitivi funzionalmente specializzati”. Ma anche Steven Pinker (L’istinto del linguaggio, Mondadori 1998) sostiene che la facoltà umana del linguaggio è un istinto, un comportamento innato, sia pure modellato dalla selezione naturale e adattato alle esigenze comunicative dell’uomo.

[15] L’apparato di fonazione “moderno”, con la laringe posta sopra la trachea e con la conseguente possibilità di modulare una quantità enorme di suoni, è apparso circa 300.000 anni fa. Alcuni geni, per esempio il FOXP2, coinvolti nell’articolazione del linguaggio, hanno assunto la loro forma attuale non più di 200.000 anni fa. Ciò fa presumere che il linguaggio complesso sia effettivamente nato con l’Homo sapiens. Ma è probabile che non abbia raggiunto una compiutezza “grammaticale”, sia pure elementare, prima di trentamila anni fa.

[16] Tutto un filone della ricerca filosofica/psicologica/linguistica (la linguistica cognitiva) sostiene che i nostri stesso modi di apprendere, decodificare e interpretare la realtà, sono processi mediati dalle caratteristiche del nostro corpo, a partire dalle percezioni. Per un approfondimento vedi: Francesco Ferretti, Alle origini del linguaggio umano, Laterza 2010

[17] F. Ferretti, cit.

[18] Charles Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1872)

[19] Il problema in realtà è legato all’espressione “sopravvivenza del più adatto”, che Darwin peraltro non usò mai: “il più adatto” non è “il migliore di tutti”, non comporta una connotazione morale. In natura “il più adatto” è chi risulta vincente in particolari circostanze. E spesso chi sopravvive nella lotta per l’esistenza è, secondo i parametri etici oggi correnti, proprio il peggiore.

[20] Cfr, ad esempio, Il mutuo appoggio: fattore dell’evoluzione, Eléuthera 2020

[21] Introdotto dal biologo inglese William Donald Hamilton. La “fitness” considera il numero di discendenti prodotti da un singolo soggetto in relazione al numero medio di figli prodotti dai soggetti della popolazione cui appartiene. È positiva se il soggetto produce più discendenti rispetto alla media; è negativa quando il numero di figli è inferiore al valore medio.

[22] Questo modello è proposto, con sfumature diverse, dagli psicologi J. Haidt, Steven Pinker e Marc Hauser, e da ultimo anche dal biologo R. Dawkins.

[23] Steven Pinker, Tabula rasa, Mondadori 2014

[24] Sulla linea dell’origine “culturale” delle regole morali troviamo soprattutto gli etologi, da Konrad Lorenz ad Irenaus Eibl Eibensfeldt e a Franz De Waal.

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(parte seconda)

di Paolo Repetto, 18 febbraio 2022

  1. Una immersione nella biologia

A questo punto, ad uno che di neuroscienze ha un’infarinatura men che dilettantesca il buon senso imporrebbe di fermarsi: ma se avessi tutto questo buon senso non mi sarei imbarcato in una simile avventura, e allora tanto vale procedere. Anche perché temo davvero di aver già dilapidato buona parte del mio patrimonio neuronale, e di dover sfruttare per tempo quel che ne rimane. Lo farò utilizzando le poche nozioni che possiedo sul funzionamento del nostro cervello, che ritengo comunque sufficientemente fondate, e semplificando il più possibile la descrizione dei processi. Spero solo di metterli in riga correttamente, partendo da quelli elementari (anche se darò per scontate le conoscenze di base delle neuro-scienze), e di non riuscire troppo noioso né del tutto insensato.

 

3.1 Emisferi

Il cervello umano è diviso nella sua parte anteriore (o neocorteccia) in due emisferi, destro e sinistro, che sono funzionalmente simmetrici (almeno in linea generale, come tutti gli altri doppioni anatomici, dagli arti ai polmoni, ai reni, agli occhi, ecc…), ma non identici. Le simmetrie riguardano, ad esempio, il controllo incrociato dei movimenti delle due metà del corpo: la corteccia motoria dell’emisfero destro governa i muscoli della metà sinistra, quella dell’emisfero sinistro i muscoli della metà destra. Per il resto i due emisferi sono caratterizzati da lateralizzazioni funzionali, ovvero da specializzazioni diverse.

L’emisfero sinistro è quello della mente cosciente, della linearità, della catalogazione, della memoria verbale e del ragionamento consecutivo, e ha un ruolo dominante nei processi linguistici, sia scritti che orali, oltre che nel calcolo matematico[1]. Consente una percezione analitica della realtà, coglie la successione degli eventi, li concatena, gestisce ed elabora le informazioni allineandole in un discorso sequenziale. Presiede insomma alla nostra coscienza temporale, quella che si allarga al passato e al futuro, e soprattutto raggruppa gli stimoli, in primis quelli visivi, in base alla funzione cui possono servire, elaborando una risposta pratica.

L’emisfero destro controlla invece la nostra parte subconscia, è concentrato sul presente ed è specializzato nelle capacità connesse allo spazio, come quelle artistiche: disegno, musica, canto, danza. Potremmo dire che vede il mondo a colori e presiede alla comunicazione gestuale, alla sfera emozionale. È sede dell’intuito e della memoria visiva, percepisce la realtà in modo globale e sintetizza le percezioni in una visione d’insieme, in schemi generali. Non privilegia le differenze e le distinzioni, ma le somiglianze.

In linea generale, quindi, l’emisfero sinistro è utilizzato preferenzialmente per analizzare gli stimoli ambientali e tenerli sotto il controllo di un comportamento standardizzato, mantenendo un’attenzione molto focalizzata, mentre quello destro è sensibile alle novità e agli stimoli minacciosi (ad esempio, i predatori), ai quali reagisce prevalentemente con risposte di fuga, ed è responsabile dell’espressione di emozioni intense. Questa lateralizzazione non è specifica del cervello umano. A un basso livello di specializzazione queste differenze erano già presenti nei primi vertebrati[2] e si sono poi accentuate nell’uomo in modi e misure diversi attraverso l’evoluzione.

Le attitudini che ho elencato sopra hanno una storia che si perde in un passato remotissimo e che è stata scritta da mutazioni adattive, intervenute a livello sia genetico che epigenetico: sono modelli percettivi, cognitivi e comportamentali affinatisi nei tempi e verificabili oggi sperimentalmente, con strumenti sofisticatissimi. Costituiscono ormai per la scienza un dato acquisito. Meno acquisite sono invece le cause della diversificazione: la spiegazione più plausibile è che l’aumento delle dimensioni del cervello assoluto abbia esteso la distanza tra i due emisferi, riducendone la cooperazione e definendone le asimmetrie[3]. Per quanto concerne poi lo sviluppo più accentuato del lobo sinistro, o quantomeno la concentrazione in questa area di alcune funzioni primarie, dipende probabilmente dalla differenza di flusso e di pressione sanguigna tra lato sinistro e destro nelle arterie carotidi, responsabili della circolazione a livello cerebrale[4]. Ma questo già esula dagli ambiti del mio discorso.

Va precisato comunque che se le specializzazioni dei due emisferi esistono, non esiste tra essi un confine netto: c’è invece uno scambio continuo di informazioni che passano attraverso il “corpo calloso”. In realtà nessuno dei due funziona mai in maniera totalmente autonoma. Piuttosto, ci sono momenti di dominanza dell’uno o dell’altro, in relazione al tipo di attività che il cervello è chiamato a svolgere. Se leggo, scrivo, discuto o faccio di conto la temporanea dominanza sarà dell’emisfero sinistro, se disegno, ascolto musica, guardo un’immagine o mi perdo nel sogno sarà di quello destro. E, soprattutto, occorre ricordare che tutto ciò che accade nella corteccia transita anche, o almeno è in stretta relazione, per la parte più antica del cervello, costituita dal tronco encefalico (o cervello rettiliano) e dal sistema limbico, che controllano le funzioni corporali essenziali e le risposte emozionali connesse alla sopravvivenza (e alla riproduzione). In sostanza, per quanto evolutivamente specializzati dobbiamo sempre fare i conti con l’eredità del cervello pre-umano dal quale siamo partiti. Con la crescita di volume di quest’ultimo, e nella fattispecie della parte occupata dalla corteccia, è aumentata però la discrezionalità nelle risposte, sempre meno vincolate ad imboccare una direzione obbligata.

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Viene spontaneo a questo punto chiedersi quali effettivi vantaggi comporti la specializzazione degli emisferi. Uno sta senz’altro nel fatto che la lateralizzazione consente di aumentare le capacità neuronali: svolgendo funzioni distinte, gli emisferi specializzati evitano inutili duplicazioni, con un gran risparmio di tessuto neuronale. Un altro è che la lateralizzazione impedisce che due impulsi assolutamente incompatibili si trovino in contrasto nell’elaborazione di uno stimolo, e impediscano o rallentino la risposta. I vantaggi, insomma, ci sono, e a quanto pare compensano ampiamente gli svantaggi (perché ci sono anche quelli).

Ora, i nostri progenitori non sono scesi dagli alberi con il cervello già strutturato in questo modo, ma sono diventati “umani” proprio attraverso il processo di diversificazione e specializzazione degli emisferi: e questo processo è stato consentito dal fatto che il loro cervello era una struttura plastica, che rispondeva adattandosi agli stimoli ambientali, e traeva vantaggio tanto dalle esperienze maturate quanto dalle mutazioni intervenute a livello genetico per banali errori di replicazione del DNA.

3.2 Camminare

Parto proprio di qui, dalla discesa dagli alberi. Semplificando all’osso, si può dire che tutto ha avuto inizio con l’acquisizione della deambulazione eretta. Sul come e quando (senz’altro più di tre milioni di anni fa, qualcuno ipotizza addirittura sei, subito dopo la separazione della linea umana da quella degli scimpanzé) e perché ciò sia avvenuto le teorie si sprecano: di sicuro c’è comunque che i nostri più remoti antenati non scelsero di camminare eretti per un primordiale calcolo di opportunità, ma furono necessitati a farlo dal puro istinto di sopravvivenza: e che il cambiamento della modalità di locomozione ha comportato, direttamente o come effetto collaterale, una radicale ristrutturazione anatomica[5].

È questo l’evento cruciale, perché i reperti fossili ci dicono che gli Ominidi sono diventati bipedi molto tempo prima di essere dotati di un cervello di dimensioni superiori rispetto a quello delle altre scimmie antropomorfe: che è stato quindi il bipedismo a favorire lo sviluppo cerebrale, e non viceversa[6].

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Non è il caso di fare tutta la storia delle trasformazioni anatomiche che tale evento ha determinato: devo però citare almeno le più eclatanti. La postura eretta ha creato innanzitutto le condizioni per la liberazione e specializzazione degli arti superiori. È vero che gli umani non sono gli unici a usare questi arti per scopi diversi dalla locomozione, ma le differenze funzionali, ad esempio nei confronti delle scimmie, sono sostanziali. Le “mani” delle scimmie sono geneticamente adattate a svolgere mansioni specifiche, quelle umane sono invece forme plastiche, che introducono una dimensione inedita nel regno animale, quella della “techné”, e quindi in sostanza quella del lavoro. Anche gli scimpanzé creano strumenti, puliscono ad esempio i famosi rametti per “pescare” nei termitai, ma questo è un comportamento accessorio, perché in realtà sono organismi così specializzati che possono tranquillamente sopravvivere anche senza i rametti. “Gli strumenti animali sono tali esclusivamente in virtù della loro efficacia di prestazione immediata (potenza); quelli umani lo sono in virtù della loro flessibilità d’uso (potenzialità).[7] L’uomo invece, senza il suo strumentario “culturale” (abiti per difendersi dal freddo, case e ricoveri per proteggersi dai pericoli, fuoco per difendersi, per riscaldarsi, per cuocere i cibi, per illuminare le tenebre, armi per la caccia, ecc…) non sopravvivrebbe.

Le mani dell’ominide sono dunque diventate disponibili per attività di tipo consapevolmente “tecnico”, come la produzione di utensili o la domesticazione del fuoco, per il trasporto della prole o del cibo per nutrirla, e anche come strumento principale di difesa, oltre che, per un lungo periodo, della comunicazione[8]. Volendo banalizzare, si potrebbe dire che sono diventate le “protesi” organiche della parte anteriore del cervello, in quanto sempre meno condizionate alla risposta meccanica e istintuale dettata dal tronco encefalico e sempre più soggette invece al controllo da parte della corteccia. Col tempo sono poi diventate il tramite per la creazione e l’utilizzo di vere e proprie protesi inorganiche.

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Lo sviluppo di ciascuna di queste attività a sua volta implicava ulteriori ricadute. Il trasporto, il combattimento, la necessità di dilaniare le prede, tutti questi compiti sono passati dalla bocca alle mani, e ciò ha modificato radicalmente le regole del gioco[9]. Il percorso è stato lunghissimo, e gli adeguamenti sono stati necessariamente lenti e graduali: se i canini dei nostri antenati, ad esempio, si fossero ridotti di dimensioni prima che questi avessero imparato a fabbricare utensili per combattere, essi si sarebbero trovati pressoché disarmati. La bocca si è dunque specializzata in altre attività, quella della masticazione e quella della fonazione, tramite un concorso di fattori apparentemente indipendenti ma in realtà strettamente collegati l’uno con l’altro[10].

In primo luogo, per equilibrare il peso della testa, che nella postura eretta si trova direttamente in cima alla colonna vertebrale, si è rivelato “adattivo” un graduale spostamento in avanti del foro occipitale, quello che mette in comunicazione la scatola cranica con il canale vertebrale. Ciò ha comportato che si riducesse il ruolo dei muscoli del collo per tenere la testa in posizione, e quindi anche l’area nella quale i muscoli si attaccano alla parte posteriore del cranio: e questa riduzione ha liberato a sua volta uno spazio che è rimasto disponibile per l’ampliamento del cervello, consentendo a quest’ultimo di espandersi anche anteriormente senza disturbare l’equilibrio[11].

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Ma la riduzione della massa muscolare del collo ha inciso anche sul funzionamento dell’apparato masticatorio, che per la seconda legge fisica delle leve è stato reso più efficiente (ed energeticamente meno dispendioso) dall’arretramento delle arcate dentarie sotto la scatola cranica, e quindi da una pressione delle mascelle esercitata verticalmente: cosa che ha aperto la possibilità di adottare diete alimentari diverse. In pratica, si sono create le condizioni perché l’uomo diventasse onnivoro.

Tali condizioni sono state poi pienamente realizzate più tardi (almeno un milione di anni fa), con la domesticazione del fuoco. Oltre a costituire un ottimo strumento di difesa contro i grandi predatori e contro il freddo, il fuoco consentiva la cottura dei cibi: rendeva cioè digeribili alimenti che non avrebbero potuto essere altrimenti consumati, e permetteva di assimilarli molto più rapidamente, ampliando considerevolmente la gamma della dieta e il suo potere nutrizionale, ma stabilizzando anche il livello di attenzione (lo sforzo della digestione intorpidisce le facoltà sensoriali: un leone sazio diventa più lento e distratto) e moltiplicando quindi le opportunità di sopravvivenza. Tra l’altro, l’accorciamento dell’intestino indotto dalla semplificazione del metabolismo e i tempi abbreviati di questa funzione significavano una riduzione in termini di consumo energetico da parte dell’organismo, e l’energia risparmiata poteva essere dirottata al cervello, che sotto il profilo energetico è particolarmente dispendioso[12].

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Non ultima tra le conseguenze, per importanza, è stata la discesa della laringe[13], che era posizionata originariamente più in alto, rispetto alla trachea, per consentire una migliore deglutizione del cibo. La masticazione più efficace e la minore durezza dei cibi cotti hanno comportato la riduzione del diametro del canale tracheale per il quale transitava il bolo, e lo slittamento della laringe verso il basso. Tutto questo complesso riassetto anatomico, operato attraverso il meccanismo della selezione, era funzionale ad adeguare ai cambiamenti di cui ho parlato sino ad ora gli apparati della nutrizione e della respirazione. Il fatto che le variazioni strutturali della bocca e della laringe siano poi risultate funzionali a rimodellare anche l’apparato fonatorio è una sorta di effetto collaterale. Eppure questo fattore imprevisto, intervenuto secondo le stime più caute tra i duecentomila e i trecentomila anni fa, è stato fondamentale per lo sviluppo del linguaggio[14].

Si può in effetti ipotizzare una ricostruzione del percorso abbastanza attendibile: “Ci sono prove che la lateralità manuale destra dell’uomo discende dai primati primitivi. Infatti la preferenza per la mano destra si manifesta in molte scimmie, comprese quelle antropomorfe, come gli scimpanzé, che di solito afferrano il cibo con la mano destra. Gli scienziati credono quindi che nell’uomo il controllo della parola e del linguaggio ad opera dell’emisfero cerebrale sinistro sia da collegare evolutivamente con la preferenza dell’uso della mano destra nel comportamento alimentare dei primati. L’uso della parola nell’uomo potrebbe essere riconducibile all’evoluzione della sillaba, cioè un’alternanza tra consonante e vocale. Se pronunciamo, per esempio, la sillaba “mama” iniziamo con il pronunciare una consonante sollevando la mascella e poi una vocale abbassandola…lo stesso movimento della masticazione! Gli scienziati quindi hanno ipotizzato che il movimento di masticazione, controllato dalla parte sinistra del cervello fin dall’evoluzione dei primi vertebrati, si sia evoluto nell’uomo nel movimento di vocalizzazione della prima sillaba ed è per questo motivo che il linguaggio umano è controllato dalle aree di Broca e Wernicke che si trovano nella parte sinistra del nostro cervello[15].

Col che, mi sono già spinto sin troppo avanti. Quelli che sto elencando sono comunque tutti esempi eclatanti di adattamento selettivo: ci dicono che l’organismo è in grado di riorganizzarsi costantemente in funzione della massima efficienza, e di attivare nuove funzioni adattando al bisogno vecchie strutture anatomiche[16].

Ma non è tutto: la riduzione dell’apparato muscolare di sostegno della testa e la trasformazione di quello masticatorio hanno comportato modifiche anche nella forma e nel peso di quest’ultima. Mentre in basso si creavano condizioni diverse per la fonazione, il cervello stesso veniva orientato a svilupparsi soprattutto in quelle zone (lobi temporali e lobi frontali) a struttura ossea più plastica che sono a diretto contatto con i muscoli facciali: zone nelle quali hanno trovato successivamente sede il controllo della parola e il pensiero logico.

La postura eretta determina infine l’assunzione di un ruolo primario della vista nella percezione. Nella savana gli spazi si dilatano immensamente e si sottraggono al tipo di esperienza eminentemente uditiva e olfattiva che veniva praticata nella foresta: ora è l’occhio a doversi adeguare per garantire il controllo del territorio e l’incolumità. Ma esercita anche un’altra funzione. Gli arti liberati dai compiti di locomozione vengono utilizzati tanto per difendersi che per modificare l’ambiente, e questo avviene attraverso un coordinamento sempre più sviluppato del meccanismo mano-occhio. Sono gli occhi a guidare le mani alla presa e alla manipolazione degli oggetti. Per sopravvivere nella savana è necessario velocizzare l’esecuzione di ogni gesto, sia di fuga che di attacco, e con l’aumento della velocità diventa essenziale il coordinamento tra agilità e precisione nel movimento[17].

Ciò significa che la percezione visiva induce una rappresentazione dell’ambiente in cui ci muoviamo di tipo essenzialmente pragmatico, e non semplicemente contemplativo. “Noi vediamo perché agiamo, e possiamo agire proprio perché vediamo”. Di ogni oggetto percepito cogliamo immediatamente le proprietà fisiche che ci consentono di interagire con esso, quindi lo traduciamo in potenziale motorio e di azione.

Il prevalere della percezione visiva non ha tuttavia conseguenze solo ai fini pratici, operativi. Determina anche il modo in cui noi “organizziamo” la rappresentazione mentale della realtà che ci circonda. I quattro quinti delle informazioni che il nostro cervello riceve arrivano dalla vista: e la percezione visiva coglie un quadro d’insieme strutturandolo spazialmente. Percepisce innanzitutto lo spazio, e in subordine percepisce il movimento come spostamento degli oggetti all’interno dello spazio. Non solo: il nostro campo visivo è determinato dalla posizione degli occhi rispetto al corpo. Vediamo lontano perché gli occhi sono posizionati molto in alto. L’orizzonte si allontana, il mondo diventa molto più ampio. Si rivelano nuovi scenari, spazi sconosciuti da percorrere, da scoprire e da occupare, e questi spazi sono pieni di cose da manipolare, di difficoltà ambientali da superare, di pericoli dai quali guardarsi, di presenze inedite alle quali rapportarsi.

Nella nuova realtà che la percezione visiva rivela, o entro il nuovo modo di percepire quella già conosciuta, la funzione uditiva viene ad assumere un ruolo diverso. Affina la sua organizzazione temporale, costringendo il pensiero ad articolarsi sia nei modi dell’acquisizione (a porre cioè le cose prima e dopo) che in quelli della esposizione, per rendere comunicabile agli altri quanto percepito. L’udito opera nel tempo, e quindi lavora immediatamente per sequenze. Per questo, come vedremo, il linguaggio è in stretta connessione con l’udito.

La comparsa della scrittura comporterà poi, molto più tardi, un altro rivoluzionamento nel rapporto tra i sensi, sovrapponendo alla “globalità” visiva la linearità “uditiva”. L’alfabeto è infatti composto da segni che corrispondono a suoni e che vanno ordinati secondo una certa linearità. Questo modifica ulteriormente la disposizione percettiva, per cui esiste una differenza fondamentale tra le culture alfabetizzate e quelle puramente orali. Ma non spingiamoci troppo avanti.

Piuttosto, per capire correttamente in quale cornice questi mutamenti sono avvenuti, dobbiamo considerare quanto la realtà ambientale con la quale si confrontavano i primi homo, e tutti i loro discendenti almeno fino al tramonto del medioevo, fosse diversa rispetto all’attuale. Oggi cogliamo un mondo in costante velocissimo movimento: la percezione preistorica e in sostanza anche quella antica si esercitava su movimenti lentissimi (ciò che spiega anche la capacità di avvertire, ad esempio, spostamenti astrali minimi). Di un ambiente immobile si coglie ogni minima mutazione (tracce sul terreno, un fruscio, ecc…), mentre di fronte ad un ambiente sempre in movimento si colgono solo le variazioni macroscopiche, e per poterlo mantenere sotto controllo lo si inquadra entro linee, figure e volumi geometrici. Attivando l’emisfero sinistro.

Ho cercato sin qui di rappresentare un effetto a cascata: a mano a mano che il cervello cresce[18] le sue diverse aree si differenziano e si specializzano: diminuendo ad esempio la capacità olfattiva (che oggi appare quasi totalmente atrofizzata) si restringe anche la zona corticale corrispondente, mentre quella auditiva, sempre meno utilizzata per percepire rumori e sibili, si abilita a decodificare suoni e linguaggio. Conseguentemente si incrementa proprio la zona preposta all’articolazione della parola (area di Broca) e alla sua ricezione e decodificazione (area di Werneke), che come abbiamo visto è anche quella che controlla le abilità manipolatorie, e più genericamente si sviluppano i lobi frontali.

Tutto questo avviene nel corso di milioni anni. Poi, circa centomila anni fa, la crescita sembra arrestarsi: l’anatomia e la struttura cerebrale dei primi sapiens sono in linea di massima già quelle attuali. Forse centomila anni sono uno spazio temporale troppo esiguo, se rapportati ad un percorso evolutivo prettamente biologico. O forse sono invece cambiati i modi stessi dell’evoluzione, condizionati dalle pratiche “culturali” degli umani e dalle modifiche che questi portano all’ambiente. È quanto vorrei chiarire.

3.3 Sopravvivere

Il percorso evolutivo che ho sintetizzato alla meno peggio non spiega nel dettaglio le cause e modi della lateralizzazione del cervello, ma può almeno farcene scorgere le premesse e cogliere la portata. Ma non è finita: volevo infatti arrivare ad indagare l’origine e la funzione del linguaggio. Devo perciò tornare nuovamente alla deambulazione eretta e alle sue immediate conseguenze.

Per ragioni aerodinamiche il bipedismo ha selezionato in positivo le femmine con i fianchi più stretti. Questa caratteristica consentiva loro di camminare meglio, di reggere a spostamenti più lunghi e di coprire quindi aree più vaste nell’attività di raccolta del cibo, ma soprattutto di fuggire più velocemente davanti ai predatori: in sostanza garantiva maggiori probabilità di sopravvivenza. Ma comportava anche grossi problemi al momento di partorire, perché la circonferenza cefalica dei neonati era incompatibile con un restringimento del canale vaginale, tanto più in presenza di un lento ma costante accrescimento delle dimensioni del cervello. A tale problema la specie rispose selezionando ulteriormente tra le femmine quelle con maggiore propensione al parto prematuro. Noi umani siamo dunque sin dall’origine frutto di un problema e di una soluzione che potremmo definire “innaturali”, e ci portiamo dietro il marchio di questa differenza, tanto che qualcuno (Gunther Anders, per la precisione) è arrivato a dire che l’uomo è figlio di un tragico errore della natura.

Il che è fondamentalmente vero, magari con qualche riserva per il “tragico”: ma è anche vero che il marchio è quello di un salto di qualità, quale che sia l’interpretazione che di questo salto si vuole dare. Vediamo perché.

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Nella specie umana il parto avviene sempre “prematuramente”, prima cioè che il nascituro sia perfettamente formato, ma soprattutto prima che l’ossatura del suo cranio si sia richiusa. Il neonato viene così al mondo in una condizione di assoluta “inadeguatezza” e la sua sopravvivenza dipende totalmente, per un periodo molto lungo, caratterizzato dalla persistenza di caratteri infantili e da uno sviluppo morfologico, fisiologico e nervoso particolarmente lento, dalla protezione e dalle cure parentali. In quello stesso periodo però il suo cervello continua a crescere, può espandersi anteriormente e rimane dotato di una particolare elasticità, risultando così disponibile all’apprendimento di tipo ambientale, “culturale”. E quanto appreso va a depositarsi, per processi epigenetici, influenze comportamentali o trasmissione simbolica, in aree diverse del nuovo spazio cerebrale conquistato[19].

Questo processo continua ad essere riassunto e ripercorso nelle prime fasi di ogni singola esistenza umana (l’ontogenesi ricapitola la filogenesi), perché al momento della nascita le aree del cervello connesse all’uso di strumenti e del linguaggio sono unite. La separazione avviene dopo i due primi anni di vita. Di lì in poi, in parallelo con l’acquisizione di abilità deambulatorie e manipolatorie sempre più complesse, il nostro cervello “specializza” i due emisferi e sviluppa in essi competenze diverse: in particolare, come abbiamo visto, le funzioni cerebrali deputate alla risposta motoria sono localizzate nell’emisfero sinistro, lo stesso nel quale hanno sede anche i centri responsabili del linguaggio e della abilità manuale. Insomma, l’immaturità, la “sprovvedutezza biologica” dell’animale umano di cui parla Arnold Gehlen, si risolve in un carattere indefinito e plastico, e tale presupposto genetico fa insorgere la necessità di rimedi culturali. Le lacune vanno colmate, le debolezze compensate. Questo fa sì che la somiglianza tra i comportamenti culturali umani e quelli non umani, a dispetto anche di evidenti continuità (sto pensando alle abilità “tecniche” degli scimpanzé, ad esempio) sia in realtà solo superficiale. Perché i primi sono indispensabili alla sopravvivenza, i secondi no.

Il bipedismo ha infatti rivoluzionato anche i comportamenti sessuali degli ominidi. Camminando verticali le femmine della specie homo nascondono la manifestazione dell’estro, che tra gli altri primati avviene attraverso un rigonfiamento o una coloritura particolare della zona genitale, oltre che tramite segnali olfattivi[20].

Questo fatto, associato ad altre trasformazioni fisiologiche e comportamentali femminili che sono andate consolidandosi nel tempo, ha favorito la nascita di rapporti più personalizzati tra individui di sesso diverso, facendo saltare le vecchie regole. In sostanza: in quasi tutti i primati l’accoppiamento durante i periodi di fertilità è riservato ai dominanti, i maschi alfa, mentre agli altri è precluso o consentito solo nei periodi in cui la femmina è infeconda. La scomparsa nella femmina umana dei segnali visivi dell’estro e la riduzione di quelli olfattivi ha disattivato tutto il sistema di controllo e di monopolio dei dominanti, offrendo anche agli altri maschi la possibilità di accoppiarsi e di trasmettere il proprio patrimonio genetico, e li ha indotti di conseguenza ad una diversa “assunzione di responsabilità” nei confronti dei propri discendenti, per assicurarne la sopravvivenza. In realtà, l’origine di quella che potremmo definire una “paternità responsabile” è legata alla “selezione per scelta sessuale” della quale parla già (sia pure con cautela) Darwin, ovvero alla preferenza accordata dalle femmine per l’accoppiamento ai maschi che garantivano maggiore continuità di presenza, capacità di procurare cibo e disponibilità a condividerlo. Ai più adatti, insomma, non solo a sopravvivere, ma a prendersi cura di una prole totalmente dipendente per un lungo periodo[21].

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La “condizione neotenica” costituiva oggettivamente un grave problema, per il neonato come per i genitori: ma l’astuzia evolutiva lo ha tradotto alla fine in un vantaggio[22]. Per affrontarlo dovettero infatti modificarsi anche i comportamenti parentali. Si creò dapprima un nuovo modello di legame di coppia, poi per una sorta di effetto alone, di abitudine alla convivenza continuativa, l’interazione non rimase limitata ai soggetti coinvolti nella riproduzione o nella cura della prole, ma si allargò per motivi di opportunità collaborativa agli individui più prossimi, segnatamente a quelli maggiormente portati alla socializzazione. Dalla vita animale del branco si passò a quella specificamente umana del gruppo, nella quale, come vedremo, oltre ai rapporti di collaborazione si sviluppano presto anche quelli di sfruttamento o di antagonismo.

Daniel Dennett riassume così la situazione: “È dallo stato di cronica indigenza di un corpo neotenico che sorge la necessità di stabilire legami emotivi, instaurare tradizioni storiche, tessere pratiche sociali […]. La mancanza di armi naturali di un corpo nudo e la plasticità di mani senza compiti percettivi prefissati si rivelano alla nascita come handicap insuperabili senza il sostegno, la collaborazione e il calore di altri umani adulti. L’animale umano costituisce infatti l’incarnazione per eccellenza della neotenia, quel fenomeno biologico che permette alla specie di mantenere anche in età avanzata i tratti morfologici dell’età infantile: una immaturità cronica che ci consente di apprendere fino agli ultimi giorni della nostra vita e che, al contempo, mette in costante pericolo gli equilibri raggiunti dalla nostra esistenza. L’essere umano è costretto a trovare nella precarietà della sua condizione una sicurezza labile e una stabilità sempre revocabile. Il nostro corpo ci permette di trovare percorsi individuali, di uscire dalle rigidità della programmazione istintuale, di evadere da una nicchia ecologica specifica. Per questa ragione vedremo che l’uso di strumenti nella specie umana riveste un valore biologico decisivo: è ciò che le consente di sopravvivere[23].

(continua, naturalmente)

Note

[1] Nel 93% dei destrimani, l’emisfero dominante nell’emissione di parole e di frasi è il sinistro, il 6% possiede meccanismi per il linguaggio nell’emisfero destro e l’l % ha il coinvolgimento di entrambi gli emisferi cerebrali nella produzione di parole. Nei mancini le cose stanno invece in questo modo: nella produzione del linguaggio il 70% rispetta la dominanza sinistra, mentre. solo il 17% vede dominante l’emisfero destro; nei rimanenti casi (13%) ambedue gli emisferi sono forniti di meccanismi della parola. L’area di Wernicke, comunque, una delle più importanti per la lingua, è sempre localizzata a sinistra.

[2] L’asimmetria cerebrale è presente in una varietà di specie diverse come rane, uccelli canori, rettili, topi, macachi, ecc. Tutte queste specie, compreso l’uomo, mostrano una dominanza delle strutture cerebrali di sinistra nel controllo della produzione di specifiche vocalizzazioni. Non è dunque il possesso del linguaggio verbale a determinare asimmetria tra i lobi cerebrali dell’uomo. Piuttosto, anche numerose specie di uccelli mostrano un uso preferenziale di un arto che è paragonabile alla dominanza manuale umana.

[3] La crescita delle dimensioni cerebrali è avvenuta per un incremento sia in altezza che di raggio della calotta cranica. Nell’homo di Neanderthal l’incremento riguardava soprattutto il raggio, mentre nel sapiens c’è stato un incremento maggiore dell’altezza. In linea teorica, con l’aumento del volume cerebrale, in particolare con quello della corteccia, le asimmetrie dei lobi temporali dovrebbero risultare ridotte: soprattutto nei destrimani, però, a livello del Planum temporale di sinistra (è l’area corticale appena posteriore alla corteccia uditiva, nel cuore dell’area di Wernicke) esse permangono molto marcate.

[4] Nell’uomo la carotide comune di sinistra origina dall’arco aortico; la destra è una delle biforcazioni dell’arteria anonima. Il flusso sanguigno proveniente dalle carotidi interne è rivolto in prevalenza alla cerebrale media, che ne costituisce la diretta continuazione. L’assenza di comunicazioni tra le carotidi interne dei due lati comporta la persistenza di minime differenze quantitative di flusso nelle cerebrali medie, che nelle parti iniziali hanno calibro identico a quello delle carotidi interne da cui si originano.

[5] Non sempre priva di inconvenienti, anche se vantaggiosa. Il cambiamento posturale e la nuova locomozione ne hanno creati diversi. Per distribuire meglio il peso del corpo sugli arti posteriori la pianta del piede s’inarcò, il tallone s’ingrandì, il tendine di Achille si allungò e le gambe diventarono più lunghe e più robuste delle braccia. Per mantenere l’equilibrio, comparvero le due curvature della colonna vertebrale che portano indietro il centro di gravità del tronco, ma sono spesso causa di mal di schiena. Anche i dolori della zona cervicale sono da imputarsi alla rotazione della testa all’indietro per mantenersi bilanciata sul collo. Le articolazioni del ginocchio e del femore sono diventate più soggette a usura, per il maggiore peso che sostengono. Per migliorare la postura e l’equilibrio sono anche cambiate la posizione e le dimensioni del bacino che ruotò all’indietro: mentre il cinto pelvico diventò più piatto e il pavimento pelvico si rafforzò per sostenere il peso e la pressione degli organi addominali, alla rotazione dell’anca conseguì il restringimento del canale del parto.

[6] I paleontologi Brian G. Richmond e William L Jungers  affermano che Orrion tugenensis, scoperto in Kenia nel 2001, aveva già andatura bipede oltre sei milioni di anni fa. Comunque, i fossili scheletrici, insieme alle orme di Laetoli, dimostrano senza alcun dubbio che già Australopithecus afarensis, aveva adottato, 3.5 milioni di anni fa, la postura eretta. I primi strumenti di pietra lavorata risalgono invece a circa 2,5  milioni di anni fa, e sono associati ai fossili di Homo habilis.

[7] Marco Mazzeo, Tatto e linguaggio. Il corpo delle parole, Editori Riuniti 2003

[8] Al contrario che nelle scimmie, che sono quadrumani, la differenziazione funzionale degli arti superiori negli ominidi è molto accentuata: per la prensione il rapporto è di due ad uno negli ominidi e di uno a quattro nelle scimmie antropomorfe.

[9]Nel pensiero occidentale la mano subisce uno strano destino. Per un verso nella nostra cultura, profondamente visiva e legata alla scrittura, la mano rappresenta lo strumento per verifiche ultime e accertamenti senza appello. «Toccare con mano» significa conoscere direttamente, andare a capire di persona, non lasciare spazio all’inganno. Per un altro verso, però, nella tradizione occidentale la mano sembra vivere una condizione di completa inferiorità rispetto alla vista: il tatto è senso del limite in un modo del tutto diverso. Proprio perché legata alla presa diretta e al contatto con la materia, la conoscenza manuale è considerata di solito approssimativa, grezza, poco efficace. La mano, secondo questa idea, non coglie un limite ma vive un limite: deve tastare per successioni un mondo che non conosce nella sua interezza e mai completamente. La mano è senso del limite perché ristretto è il suo raggio d’azione e deficitaria la sua forma di conoscenza.” (Mazzeo, cit)

[10] Anche quando l’andatura bipede si era ormai definitivamente affermata, il volume del cervello dei primi homo continuava a rimanere più o meno simile a quello delle altre scim-mie antropomorfe (sotto i 500 cc). L’accrescimento della scatola cranica è iniziato almeno un milione di anni dopo, in concomitanza con le prime tracce della lavorazione della pietra, datate circa 2,5 milioni di anni fa, e ha raggiunto il massimo circa 100.000 anni fa.

[11] Per dirla in termini più semplici: in un quadrupede il cranio è all’estremità di un asse orizzontale, quindi il suo volume e il suo peso non possono andare oltre un certo limite, pena uno squilibrio strutturale e uno sbilanciamento nei confronti del resto del corpo. In un bipede è invece posto in cima ad un asse verticale, quindi il peso scarica direttamente a terra, senza creare scompensi. Ergo: possibilità di uno sviluppo (quasi) illimitato del cranio, e del cervello da questo ospitato.

[12] Pur occupando solo il 2% del peso corporeo, il cervello umano consuma oltre il 25% del budget energetico di tutto l’organismo.

[13]Nell’Australopiteco, la laringe, organo situato alla fine della trachea e contenente le corde vocali, si trovava in una posizione più elevata nel canale respiratorio, permettendo così un maggiore spazio per la deglutizione del cibo ma impedendo l’articolazione dei suoni e, conseguentemente, il linguaggio. L’emissione di suoni che un australopiteco poteva produrre era probabilmente molto simile a un latrato. Il processo evolutivo ha dato vita a un mutamento genetico grazie al quale la laringe si è abbassata, il canale fonatorio si è allargato, la lingua è arretrata diventando più mobile e flessibile e favorendo così la modulazione dei suoni.” (A. Pennisi, A. Falzone, Il prezzo del linguaggio, Il Mulino 2010)

[14] Altri ricercatori segnalano tracce di una faringe di tipo moderno già in Homo ergaster, quindi quasi 2 milioni di anni fa, mentre un cranio di Homo heidelbergensis rinvenuto in Etiopia testimonierebbe che questa caratteristica aveva raggiunto l’aspetto attuale già 600.000 anni fa. In tal caso (tutto da verificare) un apparato vocale capace di produrre i suoni di linguaggio articolato sarebbe stato acquisito nella specie umana più di 500.000 anni prima delle più antiche testimonianze dell’uso del linguaggio dei nostri antenati.

[15] MacNeilage PF, Rogers LJ, Vallortigara G (2009), L’evoluzione del cervello asimmetrico, Le Scienze 493

[16]L’aumento incrementale del volume cerebrale negli ultimi due milioni di anni ha progressivamente accresciuto il controllo della corteccia sulla laringe, e fu quasi certamente insieme causa ed effetto del crescente uso della simbolizzazione vocale. […] il maggiore uso della vocalizzazione in epoche successive dell’evoluzione del cervello avrebbe inevitabilmente imposto una selezione sulla struttura del tratto vocale ad accrescerne in quello stesso periodo la controllabilità.” (Terrence Deacon, La specie simbolica, Fioriti 2001)

[17] La pianificazione dei movimenti balistici da parte del cervello, ad esempio, prerogativa dei primi ominidi, potrebbe aver facilitato lo sviluppo della corteccia cerebrale specializzata nella sequenza e coinvolta nell’ascolto del linguaggio parlato (area di Wernicke), promuovendo non solo il linguaggio, ma anche la capacità musicale e l’intelligenza.

[18] La capacità cerebrale passa da 800 cm3 nell’homo erectus a circa 1350 cm3 nell’homo sapiens sapiens in circa 700.000 anni. L’incremento del volume del cranio ha determinato il rimodellamento del cervello, con lo sviluppo della neocorteccia, in particolare dell’area di Broca, nella quale è riposta l’attività inerente il pensiero e il linguaggio dell’uomo moderno.

L’aumento del volume cerebrale aveva avuto però inizio già con homo habilis, che presenta una capacità cranica media di circa 760 cc. Il primo reperto che mostra chiari segni di un maggiore livello cognitivo, associato a una considerevole espansione della scatola cranica (fino a 1000 cc) e ad un’asimmetria tra i due emisferi, segno di un uso preferenziale della mano destra, è di circa 1,6 milioni di anni fa. Si tratta di un esemplare ben conservato, soprannominato il “ragazzo del Turkana”, trovato nella zona del lago omonimo, in Kenia.

[19] La definizione di Epigenesi, introdotta da Conrad Hal Waddington, potrebbe essere “tutti i processi di cambiamento durante il ciclo vitale di un organismo le cui istruzioni non siano contenute nella sequenza del DNA”. In altre parole, durante lo sviluppo noi acquisiamo delle informazioni dall’interazione fra i componenti di base dell’organismo (geni, proteine e altre sostanze) e fra questi e l’esterno, Le influenze comportamentali sono quelle riassunte nel termine di imprinting, processi di “canalizzazione” del comportamento che derivano da stimoli esterni nelle prime fasi di vita e addirittura a partire dalla nostra permanenza in utero. La trasmissione simbolica è quella che avviene appunto per via culturale. Le prime due modalità di informazione non vanno ad incidere sul DNA, ma agiscono a livello cellulare, e diventano ereditabili.

[20] C. O. Lovejoy ipotizza che la mutazione sia avvenuta con la comparsa di femmine prive dell’estro, e che questo apparente svantaggio evolutivo si sia poi risolto in una condizione vincente. (C.O. Lovejoy, Levoluzione degli ominidi. Preominidi e australopiteci, JacaBook, Milano 1989)

[21] Questo passaggio è raccontato molto bene in Luigi Zoja, Il gesto di Ettore, Bollati Bo-ringhieri, 2000

[22] Non esiste in realtà alcuna “astuzia dell’evoluzione”: quest’ultima non persegue remote o superiori finalità. Uso il termine a significare che i meccanismi selettivi non creano le condizioni migliori per la sopravvivenza, ma selezionano entro quelle esistenti le più favorevoli. Certe caratteristiche, positive in una particolare situazione ambientale, possano poi rivelarsi inutili o addirittura dannose in un altro contesto.

[23] Daniel Dennett, L’idea pericolosa di Darwin, Boringhieri 2004

Introduzione a “Walk in progress”

di Paolo Repetto, 30 giugno 2021

Walk in progress CopertinaC’è una ragione se gli inglesi definiscono “Work in progress” quello che da noi è indicato con la dicitura di “Lavori in corso” (sarei curioso di sapere come lo segnalano i cinesi). In effetti, un cartello con su scritto “in progress” per i lavori sulla Salerno-Reggio Calabria sarebbe imbarazzante, rischierebbe di alimentare un eccessivo ottimismo o di essere inteso come sarcastico. “In corso” fotografa invece bene la situazione, ed è abbastanza indefinito da cancellare paradossalmente sul nascere ogni possibile fraintendimento. I lavori ci sono, e rimangono tali. Non si tratta di una condizione transitoria, ma di una situazione stabile.

Nel campo del sapere, della conoscenza, il poter contare su strade completate o su interventi rapidi di manutenzione è senz’altro importante. Consente di procedere più velocemente e in sicurezza, di arrivare prima a capire le cose. Di muoversi insomma senza intoppi in costante “progress”. Ma questa comodità condiziona anche a seguire percorsi quasi obbligati, proprio perché più rapidi, precludendo la possibilità di deviazioni o l’opportunità di soste, anche quelle non volute, che inducano a guardarsi un po’ meno frettolosamente attorno. È chiaro che se il viaggio, il percorso, è solo il mezzo per raggiungere una meta, e quella meta è solo il punto di partenza per intraprendere immediatamente un altro viaggio, i lavori mai completati e la cattiva condizione delle strade sono un ostacolo, che non può riuscire che irritante.

Se il viaggio invece diventa in sé lo scopo, cade la tirannia del tempo di percorrenza e diventa più importante la conoscenza dello spazio percorso. E cade quindi l’obbligo a usare il mezzo più veloce. Per andare da Milano a Parigi in aereo impiegherò due ore, ma di tutto lo spazio che sta in mezzo avrò una conoscenza, quando va bene e non si vola sopra le nuvole, ristretta a ciò che vedo da un minuscolo oblò a sei-settemila metri d’altezza, vale a dire la stessa che potrei ricavare da una carta geografica in scala ridotta: se vado a piedi impiegherò invece un mese, ma dello spazio che si stende ai lati della mia linea di percorso imparerò a conoscere ogni angolo, ogni dislivello, ogni odore, ogni sfumatura nel colore della terra e degli alberi.

È chiaro che se devo andare a Parigi per lavoro un mese di viaggio non me lo posso permettere. Ma il cammino nella conoscenza non è un lavoro. Può anche diventarlo, ma questa, per quanto mi riguarda, è solo una condizione aggiuntiva, marginale. Non avendolo mai considerato tale, ho scelto di muovermi alla velocità dei piedi. E forse, più ancora che di viaggiare, di vagabondare: ciò significa che a Parigi, anziché in un mese, ci si arriva in un anno, o forse nemmeno ci si arriva, e si dimentica persino, lungo il tragitto, che quella era la meta. 

Il camminare (to walk) può essere tanto una condizione transitoria come una coazione compulsiva, e di questo abbiamo già parlato altrove. Ma si può camminare anche in senso figurato, e allora è una scelta di vita. Mi riferisco ad un costante procedere mentale alla ricerca di un senso, inteso come direzione, non come meta. Questo intendo con Walk in progress. Ma i diversi usi lessicali hanno ancora molto altro da insegnarci in proposito. Ad esempio: procedere per i latini era progredi: andare avanti. In italiano solo una sfumatura distingue il procedere dal pre-cedere, stare davanti, arrivare prima. La distinzione latina tra un intransitivo e un transitivo nei suoni del lessico italiano quasi scompare. Ma se ci pensate è invece assolutamente discriminante. Procedere implica un percorso ininterrotto (andare avanti, continuare) a visitare nuovi spazi di conoscenza (muoversi in avanti): precedere comporta la competizione, il confronto con gli altri non sul piano dello scambio ma su quello valutativo (stare davanti, arrivare prima).

Tutto questo polverone per dire una cosa poi molto semplice. Gli scritti raccolti in questo volume sono quelli di un viaggiatore nella conoscenza che ha percorso sempre, un po’ per scelta, un po’ per necessità, strade secondarie, dissestate, tutt’altro che rettilinee, spesso e volentieri sterrate: e che a dispetto di tutto, anche se talvolta ha dovuto irritarsi per le interruzioni o rammaricarsi per i ritardi accumulati, si è incredibilmente divertito.

Ecco, questo solo vorrei in qualche misura trasmettere attraverso le pagine che seguono: la convinzione che ogni percorso conoscitivo, se intrapreso con la giusta miscela di entusiasmo, di curiosità e di serietà nei confronti di se stessi e di ciò che desidera conoscere, non può che essere divertente, a prescindere dal livello dei risultati raggiunti. Perché come in ogni gioco che si rispetti il divertimento non sta nei risultati, ma nel fatto in sé di giocare. Non vorrei che questo suonasse come un indizio di superficialità o di faciloneria, ma la vita va davvero affrontata come un gioco. Diversamente, l’unica possibilità alternativa è viverla come una tragedia. E non ne vale la pena.[1]

[1] Queste pagine sono state inserite quale prefazione al volume sesto (Un’etica per taglie forti) dell’edizione delle Opere Complete e altri scritti.

Namaste

Nepal e Tibet

di Stefano Gandolfi, 8 gennaio 2021, vedi l’Album 

​ PARTE PRIMA – KATHMANDU

​ Namaste!

​ Overdose di emozioni

​ Pashupatinath

​ Bodhanat

​ PARTE SECONDA – LE MONTAGNE

​ Prossima fermata: Indiana Jones City

​ L’inizio di un trekking

​ Big foot ai piedi dell’Everest

​ Round Annapurna Trekking, relazione tecnica ed esperienza umana

​ PARTE TERZA – IL TIBET

​ Un medico a 4500 metri di quota

​ Vent’anni dopo

​ Tibet, ultima frontiera

N.d.A.: per una mia scelta personale, ho deciso di non mettere didascalie alle fotografie, per sottolineare la sensazione che abbiamo ripetutamente provato di conoscere, attraversare e amare luoghi senza tempo, senza spazi fisici, quasi privi di una dimensione materiale definita; infine magari anche per indurre un po’ di curiosità che sarò ben felice di soddisfare! 

PARTE PRIMA – KATHMANDU

Namaste!

Buon risveglio, se così si può definire il graduale passaggio da quel fastidioso e precario stato di dormiveglia che ha caratterizzato le lunghe ore del viaggio aereo in Nepal alla riacquisizione della consapevolezza della realtà.

La realtà di un non-luogo quale è questa scatola volante sospesa a 10,500 metri sul livello del mare, dove i tempi e la vita sono scanditi dai campanelli per chiamare le hostess, dai pianti dei bambini inconsolabili dalle loro madri, dal passaggio del carrello con i suoi acri e fastidiosi aromi che preannunciano l’arrivo della colazione plastificata e iperlipemica. Se state arrivando per la via più breve, direttamente dall’Europa e dalla penisola arabica, avrete la fortuna, se il cielo non è immerso nelle nuvole, di vedere alla vostra sinistra l’Annapurna e il Dhaulagiri, i primi due “ottomila” himalayani, e questa visione, mentre starete spalmando un po’ di burro su una fetta di pane scongelato e sulle vostre arterie, vi libererà una scarica di adrenalina pura, perché vi verranno in mente i miei racconti, le storie dei nostri meravigliosi viaggi sospesi fra sogno e realtà nelle terre che sfidano il cielo, dove tutto appare incredibile e allo stesso tempo plausibile. Mentre berrete un po’ di caffè sintetico ed un orange-juice ipersaturo di conservanti nell’inutile tentativo di scrollarvi di dosso l’apatia delle quattordici ore di immobilità forzata, mentre farete la coda per andare in bagno prima che il 747 cominci a scendere inchiodandovi alle cinture di sicurezza, mentre respirerete ancora un po’ l’aria viziata e depressurizzata (grossolano surrogato dell’aria sottile che vi ripulirà i polmoni nel lungo trekking nella valle del Khumbu) vi staranno tornando in mente tutti i motivi per cui avete intrapreso questa avventura.

E quando scenderete le scalette del Boeing e toccherete il suolo del vecchio e decrepito “Tribhuvan International Airport”, (N.d.A.: attualmente, nel 2020, ristrutturato e moderno!) e sarete accolti da un pugno nello stomaco di afa e malessere da fuso orario, intruppati nella ressa per il check insieme a decine di trekkers, alpinisti e turisti di ogni dove, per prima cosa cercherete disperatamente traccia di quella spiritualità che nei giorni successivi cambierà definitivamente i vostri cuori, perché se vi ho fatto venire fin qui, e se ora vi sto aspettando fuori dai cancelli, l’ho fatto nella sicurezza che dopo questo viaggio nulla sarà più come prima. E allora mettetevi con tranquillità in coda ai banconi, fidatevi di me, tenete a portata di mano i vostri passaporti e cinquanta dollari per il visto, ne varrà la pena…

E allora “welcome in Kathamandu, good morning, namaste!”

“Namaste”. Quante volte lo sentirete …

… e altrettante volte lo ripeterete. All’inizio vi sembrerà un po’ forzato, forse anche ridicolo, vi sembrerà di scimmiottare i locali per sembrare integrati all’atmosfera e alle loro usanze, poi pian piano diventerà naturale, non solo la parola, ma tutti i significati che nascondono queste sette lettere, ciao, buongiorno, benvenuto, ma anche, scendendo in profondità, “saluto la scintilla che è in te”, e allora già questo vi farà capire da un saluto qualcosa di chi vi starà di fronte, di chi come una meteora vi sfiorerà nel lungo cammino, magari con la schiena piegata da un carico di fascine o da assi di legno, con la testa bassa in segno di rassegnazione per il peso della vita, ma anche di rispetto per l’ospite che incontra, questo strano personaggio venuto da un altro mondo per cercare di capire dalla loro misera vita come si può vivere meglio nel loro mondo. Un mondo dove mai nessuno si sognerebbe di camminare per le strade del centro di Milano vestito di stracci spingendo un carretto pieno di legna, un mondo dove a quarant’anni si è nel pieno della vitalità e non già al termine di una breve, faticosa esistenza. Eppure noi vogliamo andare a casa loro a cercare risposte: che assurdità, vero?

I soliti occidentali benestanti, annoiati dalla vita, che perseguono il richiamo del misticismo orientale alla ricerca del santone che li porti al traguardo della spiritualità, possibilmente in quindici giorni perché poi bisogna tornare al lavoro? No, ne sono già passati tanti, hanno preso le loro pillole di saggezza, hanno fumato le loro canne, hanno portato a casa i sandali e le tuniche arancioni, adesso ben nascoste in qualche armadio, hanno “cambiato vita” senza cambiare nulla, hanno ripreso i loro ritmi, le loro usanze, i loro riti.

Non li condanno, non è facile fare la rivoluzione, fuori e dentro di sé, tutt’al più riesci a fare un po’ di casino, a cambiare look, a passare qualche serata con gli amici con un CD di musica misticheggiante e con un po’ di erba di quella buona, e poi al lunedì ricominci a produrre!

 

Ma allora …? È tutto inutile? Siamo venuti qui per nulla? Non ci sono risposte?

Ci sono, ci sono, non è facile trovarle, questo no… ma le cose facili… che gusto c’è? Ci sono un po’ di ostacoli da superare, robetta… soltanto mille luoghi comuni, la spiritualità il misticismo, il mito del “buon selvaggio” applicato genericamente a tutti i popoli del terzo e quarto mondo, la fretta e la superficialità della nostra cultura e del nostro stile di vita, la lingua, la comprensione della loro religione… la nostra sempre minore attitudine ai rapporti umani (anche fisici..) che ci rende goffi e impacciati anche nelle espressioni più semplici di relazione con gli altri, mettiamoci anche un po’ (tanta..) repulsione iniziale alla sporcizia, agli odori, a tutto ciò che è intenso per gli occhi, le orecchie, il naso e la pelle.. un po’ di fatica fisica all’inizio della marcia, la necessità di abituarsi al loro cibo.

Vabbe’, che sarà mai? Ci facciamo intimorire?

No! Credetemi, ne varrà la pena… se è una sfida, non vediamo l’ora di metterci alla prova, vero? Le risposte ci sono, basta solo avere gli occhi e il cuore per cercarle. E allora cerchiamole, dove cominciamo?

OK, avete passato i cancelli dell’aeroporto, decine di folcloristici (e un po’ molesti) ragazzini vogliono impossessarsi del vostro bagaglio per indirizzarlo al taxi o alla jeep del loro cugino/fratello/amico… non preoccupatevi, c’è uno scassatissimo pulmino coreano che ci aspetta con il mio amico Paisang che ci porterà nel cuore dell’inferno, entreremo, fisicamente e metaforicamente, nell’anima della città, questo straccio lacero e sanguinante che pulsa di una vita inimmaginabile.

Non lasciatevi prendere dai pregiudizi o dall’angoscia, inizia un viaggio dentro le strade di Kathmandu, ma soprattutto un viaggio dentro noi stessi, senza GPS!!

Capitolo primo

Overdose di emozioni

(N.d.A.: attualmente, nel 2020, molte cose sono cambiate; a Thamel, il centro urbano di Kathmandu, vige la zona pedonale e alla sera non c’’è più traffico motorizzato, dopo il terremoto si sono fatti molti sforzi per modificare gli aspetti più drammatici dell’inquinamento e per ammodernare le infrastrutture).

Cosa andiamo a cercare in questa moltitudine di stradine con gli scarichi a cielo aperto, con lo sterrato al posto dell’asfalto anche in pieno centro, con le migliaia di moto giapponesi che ti passano anche sui piedi, se non sei pronto a scansarti, ma sempre con estrema cortesia ed un sorriso stampato sugli occhi del folle guidatore, con i micro-taxi coreani incolonnati in un assurdo serpentone, con l’autista che dispone di almeno quattro mani perché due sono sul volante, una sul cambio e una perennemente impegnata a suonare il clacson (N.d.A.: dal 2017 è stato vietato per legge il suono del clacson, forse qualcosa sta cambiando), non si capisce bene se per abitudine, per noia, per salutare gli altri guidatori, per intimorire i pedoni o semplicemente perché c’è (il clacson!), con il codice stradale sfidato, sbeffeggiato, interpretato, ma con un numero di incidenti, tamponamenti e scontri incredibilmente basso rispetto a quanto sarebbe lecito aspettarsi, con lo sbiadito ricordo dell’austero regolamento inglese, con la guida a sinistra che non disdegna traiettorie anche al centro, a destra, sui marciapiedi, ovunque cioè vi sia spazio fisico per conquistare strada e continuare a spingersi avanti, non si sa bene dove e perché, ma comunque sempre avanti..

E poi cosa cerchiamo quando finalmente, frastornati, con gli occhi e le narici già impastati dalla polvere, riusciamo ad entrare in una stradina così stretta da non permettere l’ingresso delle auto o dei camion (ma loro ci tentano lo stesso, con effetti devastanti sulle fiancate dei mezzi!) e scopriamo che è ancora più pericoloso di prima perché il fondo stradale è totalmente ricoperto di frutta e verdure marcite cadute dalle bancarelle, che si vanno a mischiare con il perenne strato di unto che ricopre il selciato, nonché con gli avanzi dei cibi mangiati e consumati per strada a qualunque ora del giorno e della sera dagli abitanti di Kathmandu.

Forse andiamo a cercare lezioni di stili di vita? Vogliamo vedere se mangiano più sano di noi? O se sono più adattati di noi a sopravvivere a smog, inquinamento, fogne a cielo aperto, germi, virus, parassiti, spore, muffe, tutto ciò che basterebbe a sterminare in un giorno un esercito di igienisti, infettivologi e brave persone rispettose dell’igiene e delle buone e vecchie regole del buon senso insegnateci dalla nonna?

Fermiamoci un attimo, respiriamo, smettiamo di pensare, sì, perché da quando abbiamo fatto i primi metri fuori dall’aeroporto non avremo smesso nemmeno per un secondo di andare fuori giri coi neuroni; non dite di no, è inevitabile, succede a tutti: cominciano a venire in mente i racconti degli amici che sono stati in India e nel sud-est asiatico, in Africa o in qualunque altro paese del terzo o quarto mondo, tutte le letture di viaggio e di avventura, i film, i video in rete o sui canali di National Geographic. Un po’ pensiamo di esserci abituati, ma la prima regola del viaggiatore dice che nulla di ciò che ci è stato raccontato, descritto, fatto vedere, può anche solo lontanamente reggere il peso della realtà e del contatto diretto con essa: questo vale per la natura, per gli animali nei safari, per i capolavori dell’uomo (vuoi mettere un Monet visto dal vero o su un libro d’arte?), c’è troppo di più: il contatto fisico, il caldo, il freddo, l’afa, gli odori.

Gli odori… non potrei pensare di essere stato veramente in Tibet se non mi portassi dentro per sempre il ricordo dell’odore del burro di yak rancido che ti prende alla gola e poi al cervello, come un crack, quando entri in un monastero buddhista: lo senti, non lo vedi, ma è appiccicato alle pareti, è dentro gli enormi bracieri dove alimenta le fiammelle dei lumini votivi, è sui pavimenti unti i e lisciati da migliaia di passi dove rischi di scivolare e farti male, è nelle mense dei monaci dove costituisce l’alimento più abbondante e calorico della loro alimentazione, è addosso ai vestiti ed all’epidermide dei pellegrini, da decenni in perenne movimento sulle strade della loro fede.. è mescolato al loro sudore, alla polvere, alla loro stessa vita, inscindibile…

Signori scienziati, maestri della tecnologia, avete costruito meravigliose macchine fotografiche e videocamere, quando riuscirete ad inventare qualcosa che catturi gli odori? Che ci permettano di non impazzire quando, nel gelo del nostro inverno climatico e mentale, guardando le foto ed i video full HD con gli amici, cercheremo inutilmente di spiegare a loro, e di ricordare a noi stessi, quegli acri, fastidiosi, asfissianti, nauseabondi, eppure meravigliosi, vitali, stimolanti odori? Senza i quali ci sembrerà di essere dei ciechi che vogliono ricordare i colori di un temporale sulla steppa tibetana o dei sordi che tentano di far risuonare nella mente i mantra dei monaci buddhisti. Sì, fermiamoci un attimo e fermiamo i pensieri, i giudizi: non si può adesso, adesso si può solo vedere, sentire, immagazzinare dati; non creiamo un conflitto con le nostre menti, con la nostra cultura, con i nostri pregiudizi; poi, forse, verrà il momento della sintesi e dell’elaborazione. È troppo presto, adesso, per cominciare a entrare nel conflitto fra il bene ed il male, fra la povertà ed il benessere, fra l’igiene e la sporcizia, fra lo spreco della ricchezza e la frugalità obbligata della miseria, fra le malattie dell’eccesso e le malattie della privazione: è inutile arrovellarsi per i classici sensi di colpa alla vista dei primi bambini poveri che chiedono l’elemosina (ma non sempre..) e che sguazzano nel rudo in mezzo alla strada (sempre!): è inutile andarsi a ripassare velocemente il capitolo della Lonely Planet dove ti spiega se è meglio dare degli spiccioli agli scugnizzi piuttosto che delle biro; la cioccolata e le caramelle no (fanno venire la carie), i quaderni senz’altro sì, i cappellini e le magliette sì ma senza esagerare (poi si convincono che tutto gli è dovuto..): accidenti, se parti a 200 all’ora tutto diventa subito complicatissimo, anche fare del bene, e allora? Allora imbottiamoci di una adeguata dose di cinismo, mettiamoci una corazza per i primi giorni, non facciamoci sopraffare dai sensi di colpa (non salviamo nessun bambino con i nostri sensi di colpa…) e rimandiamo ogni nostra partecipazione attiva a quando perlomeno ci saremo abituati ad ogni marciapiede che calpestiamo ed alla vista di ogni suo occupante.

Capitolo secondo

Pashupatinath

Un vecchio autobus di linea indiano arranca tra le moto giapponesi e i taxi coreani in un continuo slalom fra bancarelle di ogni genere disseminate fra strade e marciapiedi, il mantra ossessivo del clacson pigiato nell’inutile tentativo di disciplinare le colonne di pedoni che un po’ camminano, apparentemente senza meta, un po’ si fermano a curiosare fra i carretti degli ambulanti e le botteghe seminascoste dalle loro stesse masserizie che occupano quasi tutto lo spazio della porta d’ingresso; i bambini giocano nella polvere, vacche sacre pitturate di sgargianti colori per una delle molteplici feste induiste stazionano indifferenti a tutto questo spettacolo di varia umanità; l’odore acre della vita che ricomincia ostinatamente ogni mattina, l’odore acre dei cibi piccanti che danno ristoro alla gente fin dalle prime ore del giorno; un senso profondo di inquietudine alla visione di questa sporcizia quasi ostentata e comunque accettata; un santone avvolto in una tunica giallo-arancione, con le unghie grottescamente lunghe e la barba incolta, accovacciato nella classica posizione di meditazione a gambe incrociate, dispensa ipotetiche formule di saggezza nei punti nevralgici del traffico dei turisti; chiede poche rupie per una fotografia, uno scatto rubato e non pagato è sufficiente per smascherare la sua apparente imperturbabilità.

Donne di origini indiane, dai lineamenti nobili, austere e senza età, indossano i loro bellissimi “sari” rossi con il portamento fiero di una modella occidentale; mentre attraversiamo il ponte sul Baghmati che ci conduce nel cuore di Pashupatinat, una bellissima ragazza di non più di vent’anni, appoggiata sulla balaustra con lo sguardo perso sulle torbide acque marroni, ci mostra lo splendore dei tratti genetici del suo miscuglio di cromosomi indiani, cinesi, mongoli e chissà quale sangue ancora. Giovani madri lavano i panni nelle acque del fiume, indifferenti alle molitudini di topi e scimmie che sguazzano liberamente sulle rive; altre donne sciacquano pentole e stoviglie; nugoli di bambini si tuffano, riemergono, nuotano e sputano via l’acqua dalla bocca, uomini di ogni età praticano nelle acque sacre del fiume le loro rituali abluzioni purificatorie. Poco oltre, la riva del fiume si apre su un largo piazzale con acciottolato di pietra, sul quale a distanza regolare di poche decine di metri l’una dall’altra sorgono numerose piattaforme di pietra di un metro e mezzo d’altezza; molte di esse sono seminascoste da una fitta cortina di fumo ed emanano uno strano odore agro-dolce, potrebbero sembrare, ad un osservatore superficiale o semplicemente disorientato, le ennesime bancarelle di cibi fritti cucinati all’istante; molte persone si affaccendano intorno ad esse, sembrano serene, metodiche nell’allestimento di questo strano “banchetto”, chiacchierano, adulti, vecchi, i bambini stranamente tranquilli; gli uomini del gruppo accatastano fascine di legna ed alimentano la fiamma con oli profumati e grassi opportunamente spalmati sui corpi inanimati dei loro familiari; il funerale rituale induista sta per avere inizio, le pire si infiammano ed i corpi bruciano lentamente, al termine verranno adagiati su cataste di legna ed affidati alle correnti del fiume; la vita finisce e ricomincia così, senza domande sul senso delle cose: non ci si pone domande su questioni prive di risposta, si accetta quanto tramanda la tradizione e quanto insegnano i saggi.

Per noi tutto questo non è sufficiente, non accettiamo passivamente l’ineluttabile, dobbiamo ostinarci a dare una spiegazione, non solo, ma cerchiamo anche con tutta la potenza della scienza di contrastare il destino; forse vogliamo esorcizzare la morte, forse vogliamo dimostrare quanto la tecnologia può interferire con il corso naturale delle cose, forse semplicemente non ci rassegniamo a perdere tutto quanto l’uomo, il “padrone” del pianeta, ritiene di possedere per diritto naturale o per diritto divino.

Capitolo terzo

Bodhanat

La prima cosa che percepisci, ancora prima di varcare i cancelli sempre aperti dell’ingresso principale, è quella nenia continua; all’inizio, quando sei sul marciapiede della strada, nel centro di Kathmandu, è ancora confusa con il rumore del traffico, poi, varcata la soglia, ti entra nella testa e sovrasta il brusio dei pellegrini, l’allegro vociare dei bottegai che cercano di richiamare la tua attenzione, i commenti emozionati dei tuoi compagni di viaggio di fronte all’improvviso cambiamento psicologico della situazione.. alla fine domina su tutto e diventerà, non solo per oggi ma anche per tutto il resto del viaggio, la colonna sonora della nostra permanenza in Himalaya. “om mani padme hum”: decine di musicassette e di CD suonano incessantemente il mantra, in ossequio allo stupa più sacro in territorio nepalese, ovvero il più importante tempio del buddhismo tibetano al di fuori dal Tibet, meta di pellegrini e di turisti da tutto il mondo; “om mani padme hum”: ovviamente c’è anche una precisa motivazione commerciale finalizzata alla vendita dei CD di musica sacra e tradizionale e di tutti i souvenir tipici del luogo; il sacro e il profano si mischiano con pacifica accettazione e tutto questo non sembra nemmeno stonare eccessivamente, forse la compenetrazione fra la religione e la vita quotidiana rende più plausibile un atteggiamento che altrimenti sarebbe francamente fastidioso: per la popolazione locale non vi è nessun contrasto fra la spiritualità ed il commercio, perché sono due espressioni dello stesso modo di essere, sono due aspetti altrettanto importanti e necessari per la loro sopravvivenza. “om mani padme hum”. Saluto il gioiello nel fiore di loto. Una frase il cui significato simbolico va ben al di là della traduzione letterale. Inizialmente per le nostre menti laiche e razionaliste sembra tutto un po’ ridicolo e stonato, tutt’al più lo accettiamo come elemento folcloristico e interessante dal punto di vista antropologico, ovvero tentiamo subito di riportare il fatto alla dimensione “scientifica” tralasciando quella spirituale. Dopo un po’ di tempo diventa fin quasi fastidioso, ossessivo nella sua ripetitività; sicuramente è ipnotizzante e ti obbliga ad entrare in sintonia con la moltitudine che cammina, sempre rigorosamente in senso orario, attorno al grande tempio circolare; attorno all’anello pedonale sono disposte, lungo tutta la circonferenza, le botteghe dei mercanti di ricordi, mescolati ai quali, magari più discretamente ai piani superiori, si trovano anche venditori di materiale più pregiato, dai “thangka”, i tipici dipinti su tela con i simboli della religione buddhista, a pregevoli pezzi di antiquariato che dopo azzardate transazioni commerciali vengono spediti direttamente a domicilio, in tutto il mondo.

Una pausa, anche mentale, con riso e verdure, Coca-Cola e birra San Miguel (N.d.A.: adesso, nel 2020, si può bere la birra Everest, di gran lunga migliore), comodamente seduti sulla terrazza panoramica di qualche ristorantino, con la spettacolare veduta dei tetti della case al di là del recinto sacro, della cupola dello stupa con le file di bandierine di preghiera e con le mattonelle bianche immacolate verniciate di giallo dalle colate di zafferano che vengono buttate giù a secchiate in coincidenza di qualche solennità religiosa. Alcuni giovani monaci si riposano e meditano, in una mano la ruota di preghiera, in un’altra il telefonino, innocente concessione alla modernità. Sotto di noi, l’incessante pellegrinaggio, e centinaia di mani che fanno girare i grandi cilindri di preghiera posizionati sulle pareti dello stupa; i sottili rotoli di carta avvolti attorno ad un rullo di legno dentro il cilindro di rame, quando questo viene mosso, fanno salire nel cielo le preghiere scritte in minuscoli caratteri; e in questo modo non mancherà mai, in alcun istante, una preghiera che silenziosamente verrà trasportata dal vento nell’aria sottile degli altipiani himalayani. Poi si ritorna giù e si ricomincia a girare attorno al tempio, con le note del mantra che oramai sono entrate nelle sinapsi nervose come in un corto circuito mentale che non riesci più a disinnescare; ma forse, tutto sommato, non ti dispiace nemmeno… Ti costa quasi fatica ammetterlo, ma sei soggiogato da questa atmosfera allo stesso tempo mistica e materiale, da questo “non-luogo” a pochi metri di distanza dalle strade della città teatro della quotidiana lotta per la sopravvivenza; vorresti fermarti a lungo e lasciare libera la mente, rilassarti fuori dal flusso della vita. “Om mani padme hum”, è quasi una droga; in fin dei conti ci vuole ben poco, per il viaggiatore occidentale, spesso in fuga da se stesso, a farsi catturare da qualcosa che lo riporti in un’altra dimensione spirituale; confusamente, superficialmente, ma comunque anni-luce dal suo vissuto quotidiano. Non ti stupisci del fatto che Kathmandu sia stata per decenni un approdo per migliaia di giovani (e meno giovani), alla ricerca di qualcosa che non sapevano bene cosa fosse e sicuramente non l’hanno mai trovata, anzi si sono fatti trovare ben facilmente da altre sirene più insidiose, spesso mortali, sotto forma di pipe e di siringhe. Al tardo pomeriggio sei ancora lì, ai piedi dello stupa, la luce calda del tramonto incendia i colori della fede, gli occhi del Buddha dipinti di bianco, rosso e blu sulla cupola, le bandierine di preghiera gialle, verdi, azzurre, ocra, le tuniche amaranto dei monaci, i logori vestiti variopinti delle pellegrine, i thangka nelle vetrine dei negozi… “Om mani padme hum”. Esci da Bodhanat, ti volti indietro un’ultima volta, sulla città comincia a fare buio, il mondo è tutto sulla strada, indifferente ad ogni cosa. Decidi di non salire sul pulmino per tornare in albergo, vuoi camminare un po’ da solo con i tuoi pensieri, conosci bene Kathmandu, ci sei già stato tante volte, fai un po’ di stradine secondarie, fuori dal flusso turistico; non ci sono più negozi di souvenir, solo squallide case fatiscenti, botteghe di alimentari per i locali, venditori ambulanti che raccolgono le mercanzie, cumuli di rifiuti.

Sul marciapiede un gruppo di bambini di non più di 7-8 anni, riversi per terra, sniffano colle e vernici. Non hanno i soldi per permettersi le droghe dei ricchi. Hai qualche difficoltà a scavalcarli per non inciampare nell’immondizia.

Hai qualche difficoltà a capire il senso della vita.

Kathmandu, Nepal, 2001, 2004, 2008, 2016, 2017, 2018

 

PARTE SECONDA – LE MONTAGNE

Capitolo quarto

Prossima fermata: Indiana Jones City

In ogni viaggio impegnativo, in ogni trekking in montagne selvagge, in qualunque situazione al di fuori della cosiddetta civiltà tecnologica, ci sono alcune circostanze che sembrano create ad arte dal tour operator di turno per poter stupire gli amici al ritorno raccontando di avventure mirabolanti, di rischi pazzeschi, di pericoli oggettivi che ti hanno posto, magari solo per qualche istante, a diretto contatto con la possibilità di morire.

Sono quelle situazioni che, se sciaguratamente finiscono male, tutti i mass-media, i presenzialisti di salotti-TV alla Bruno Vespa, bollano come “gratuita ricerca del brivido” da parte di turisti ricchi, snob, annoiati, o peggio ancora frustrati dalla vita di tutti i giorni e che cercano riscatto nella facile avventura per fare colpo sui colleghi dell’ufficio, sugli amici e sui parenti nella rituale serata di diapositive o di videoproiezione.

Invece nessuno si rende conto che certe situazioni non te le vai a cercare e ti si presentano davanti all’improvviso quando nulla lo fa presagire, magari quando sei seduto su un pulmino in Nepal, dopo la deviazione dalla “statale” Kathmandu-Pokhara, sulla strada secondaria che ti porta all’inizio del trekking e tutt’al più sei un po’ impensierito perché domani inizierà un’impresa sportiva molto impegnativa: 14 giorni a piedi su sentieri ad alta quota fra il Manaslu, l’Annapurna e il Daulaghiri, le tre grandi cime da 8000 metri dell’Himalaya occidentale, la salita alpinistica su ghiacciaio ad una cima di 6100 metri di altitudine, l’attraversamento di un colle a 5400 metri percorso da non più di dieci persone all’anno…

Magari in quel momento pensi di essere inadeguato, che i tuoi compagni sono super-allenati e hanno già percorso tutte le montagne del mondo, la guida alpina è un tipo che è salito sul K2 scendendone vivo nell’estate tragica del 1986. quando grandi alpinisti di ogni nazionalità sono rimasti sepolti sotto i ghiacciai nella tormenta di neve, pensi che un altro del gruppo è salito sul Mutzagh Ata a 7500 metri, pensi che non ce la farai a stare al passo degli altri, che magari soffrirai la quota e sarai l’unico a fallire… Dunque tutt’al più hai questo tipo di preoccupazioni, quando all’improvviso senti le urla dei tuoi compagni cha hanno “la sfiga” di essere seduti sulla fila di sedili del lato destro del pulmino, e per l’ennesima volta hanno visto le ruote posteriori slittare sul pietrisco al bordo della strada in bilico sopra un pendio ripido di almeno quaranta metri: tu stai seduto a sinistra e non hai la percezione di quello che succede, al di là del disagio per il caldo, per il pulmino anni ’50 pieno all’inverosimile di quattordici trekkers, la guida, almeno venti portatori, qualcuno seduto sul tetto, come vedi abitualmente per le strade sulle corriere di linea, qualcuno in precario equilibrio sugli scalini delle porte di salita e discesa; lo zaino sulle ginocchia a ridurre ulteriormente lo spazio vitale, odori indescrivibili di sudore, sporcizia, umanità….. ma a parte tutto ciò, e a parte i sobbalzi bestiali sulla cosiddetta “strada” per Besisahar e Bhulbhule (alcune guide la definiscono una buona strada carrozzabile, alcune più realisticamente esortano a diffidarne..), una infame sterrata percorsa a 3-4 chilometri orari, a parte questo, dunque, tutto sembra andare abbastanza bene, poi gli amici del lato di destra ancora urlano, letteralmente, che vogliono scendere e fare gli ultimi chilometri a piedi, anche se ormai è quasi buio nel tardo pomeriggio, vedi i loro sguardi e capisci che sono spaventati e incazzati neri, che in quel momento non stanno pensando alla bella avventura da raccontare agli amici, le videocamere sono spente e non hanno nessuna voglia di immortalare con immagini l’epico “raid” fuoristradistico!

Per un attimo consideri anche che non sono dei pivellini, dei “tipi da spiaggia”, sono tutta gente che ha girato il mondo e in circostanze sempre da viaggiatori veri, non inclini alle crisi isteriche gratuite di fronte alla minima avversità… e allora scendi anche tu, un po’ per solidarietà, ma anche perché nel frattempo le ruote hanno slittato altre due-tre volte… e dopo che sei sceso e che il pulmino ti passa lentamente davanti, ti rendi conto ancora di più di come vengano clamorosamente sfidate le leggi della fisica e della gravità da parte di quella primordiale unità uomo-macchina costituita dall’autista, imperturbabile ad ogni protesta, e dall’inverosimile pulmino e dalle sue ruote di destra costantemente sull’orlo del baratro!

Arrivi finalmente al lodge al buio, il solito casino bestiale, i borsoni da trekking maltrattati e sbattuti giù dal tetto del pulmino a riempirsi di polvere, zaini, portatori, polli, maiali, cani, odore di cibo non ben definibile, frasi incomprensibili in anglo-italico-nepalese, la ricerca delle lampade frontali per capire dove sei finito e cercare la tua sistemazione… Entri nella tua stanzetta e vedi sulla parete appena sopra il cuscino un ragno di circa 18 centimetri di diametro, stai per ammazzarlo quando Daniele, forte arrampicatore friulano e vero viaggiatore, ti ferma e ti dice, serio: ”aspetta, magari tiene famiglia”, al che lo infila delicatamente in un sacchetto di plastica, lo porta fuori e lo getta nel prato davanti al lodge…

A quel punto scoppi a ridere, perché il trekking, la fatica, l’ipossia, le notti insonni, non sono ancora cominciate, siamo solo ai preliminari, e quando gli amici del lato destro del pulmino si sono tranquillizzati e ricominciano a sorridere, alla fine ti viene quel famoso pensiero in mente: “QUESTA È DAVVERO UNA BELLA AVVENTURA DA RACCONTARE AGLI AMICI!”

Pokhara, Nepal, 2008

Capitolo quinto

L’inizio di un trekking

Inizia il cammino, siamo a bassa quota, 840 metri sul livello del mare, e appena spunta il sole fa un caldo bestiale, c’è afa e sudi solo a respirare, la visione del Manaslu appena dopo aver girato dietro al lodge ti fa per un attimo trascurare quel leggero fastidio che ti prende all’inizio di ogni trekking.

I giorni precedenti ti hanno allentato la tensione e comunque ti hanno consumato energie per il fuso orario, i bioritmi sballati, le venti ore di aereo passando da Bangkok per poi ripiegare su Kathmandu…

La cremazione dei cadaveri sulle rive del Bagmati a Pashupatinat secondo le tradizioni induiste, nonostante già vissuta in precedenti viaggi, rimane uno spettacolo impressionante e ti brucia molte energie psichiche, perché il mestiere del viaggiatore è molto differente da quello dell’alpinista o del trekker, e la cosa migliore sarebbe poter fare il “turista” al termine dell’impresa sportiva, quando ti puoi rilassare, mangiare quintali di bistecche di yak per ripristinare le masse muscolari, scattare centinaia di foto, bere litri di birra e scherzare con gli amici… ma a Kathmandu devi sempre fermarti almeno un giorno per organizzare la logistica, il trasporto fino a Pokhara, i portatori, comprare l’attrezzatura mancante e farti l’ultima doccia… Poi entri in un’altra dimensione.

Ma che czz… Siamo venuti per andare in alto e ci ritroviamo a camminare così bassi che nemmeno sull’appennino ligure, abbiamo fatto colazione all’aperto e al primo raggio di sole abbiamo subito cominciato a sudare, da fermi; gli zaini sembrano pesantissimi, anche se la maggior parte del bagaglio è trasportato in spalla dai portatori, contenuto nei sacconi da viaggio, e noi ci portiamo solo le cose della giornata, un ricambio, il guscio anti pioggia e vento, bottiglie dell’acqua, reflex e videocamera.

Non si riesce a trovare il ritmo, il passo giusto, ma soprattutto non ci siamo ancora con la testa, ieri mattina ci siamo svegliati spossati nell’afa di Kathmandu, poi sono successe mille cose che già riempirebbero un viaggio: il pulmino per uscire dallo stretto cancello d’ingresso dell’albergo ha dovuto fare una curva ad angolo retto per immettersi nella stretta stradella del Thamel, il quartiere centrale, e solo per questa manovra sono passati tre quarti d’ora, poi altre tre ore per arrivare alla periferia occidentale della città, imbottigliati in un traffico demenziale che ci ha fatto capire come la vita si svolge totalmente nelle strade, senza regole e senza controllo; la strada per Pokhara correva sinuosa in un meraviglioso paesaggio verde e lussureggiante nella fascia di mezzo del Nepal, ricca di coltivazioni e di foreste, ma il contrappasso erano le infinite curve cieche lungo le quali, ostinatamente, tutti i conducenti, compreso il nostro, gareggiavano a sorpassarsi con gimkane al limite continuo dello scontro frontale.

La pausa per il pranzo in un paesino lungo la strada, poche casupole lungo la “main street”, un piazzale di sosta per pullman di linea, camion carichi di ogni genere di merce, rare auto private; tutti dentro un povero locale con una decina di tavoli di legno, una ventola inutilmente accesa in mezzo al soffitto, un arredo molto minimalista! La cucina a ridosso dei cessi con qualche difficoltà a distinguere i due locali, per lo meno dal punto di vista igienico… le solite fisime di noi occidentali, schizzinosi e fragili nel nostro stile di vita tecnologico, il pranzo non era peggio di tanti altri, riso e verdure, un po’ di stufato, tante spezie piccanti (e, si sperava, disinfettanti per l’intestino..), Coca-Cola a volontà, poi via, di nuovo in viaggio per staccarci dopo un’ora dalla strada principale ed avvicinarci alle montagne; la deviazione per immetterci nella strada secondaria è stata anch’essa un capolavoro di ingegno umano nel trovare un varco fra le colonne interminabili di mezzi lunghi e pesanti nei cui confronti noi dovevamo apparire invisibili, tanto poco si degnavano di lasciarci passare; tanto siamo stati fermi in mezzo alla strada che un ragazzino di non più di dieci anni è riuscito a salire sul nostro pulmino con un rudimentale strumento musicale di legno con tre corde, che pizzicava con un piccolo archetto suonando in modo peraltro molto delicato un tipico ritornello religioso buddista; ci ha allietato per qualche chilometro, poi, dopo aver raccolto qualche spicciolo, con il suo sguardo malinconico e distante, silenzioso come quando è salito, è saltato giù sparendo nella polvere della strada… infine, l’avventura raccontata poco fa, insomma una giornata tranquilla nella quale abbiamo raccolto energie per l’inizio del trekking!

Dunque un inizio lento, attraversando villaggi di una povertà dignitosa, sicuramente toccati da un modesto benessere (per i loro parametri) legato alla elevata frequentazione dei turisti: si tratta di una delle due zone di trekking di gran lunga più rinomate e frequentate del Nepal, insieme alla valle del Khumbu che porta al cospetto dell’Everest, e il ricordo di questa nostra prima avventura vissuta quattro anni prima, ci ha fatto accendere la scintilla per superare l’apatia della prima giornata di cammino.

La prima sosta per pranzare, con uova sode, cosce di pollo fredde, un pezzo di formaggio e una mela, la facciamo davanti ad una pozza d’acqua ai piedi di una cascatella, ben in ombra e con un fresco piacevolissimo; si riparte e si scopre una regola ferrea di tutte le guide locali, che neanche il nostro accompagnatore, prestigioso alpinista di fama mondiale, riesce a contrastare: per motivi del tutto inspiegabili, le soste pranzo vengono sempre effettuate ai piedi di una salita, in genere molto ripida e rigorosamente esposta al sole del primo pomeriggio, e la perfidia ancora maggiore è che ti fanno fermare alla curva immediatamente prima, in un tratto pianeggiante, di modo che non hai nemmeno la possibilità di accorgertene e di protestare… cosi che, alla ripresa della marcia con lo stomaco ben pieno, si rischia la sincope, dopo pochi minuti il cuore batte a 140 pulsazioni al minuto e viene un affanno che nemmeno al colle sud dell’Everest. I motivi? Incomprensibili, perlomeno a noi; tutto questo sia che si tratti di pranzo al sacco, sia che i portatori ed il cuoco lo preparino loro nella cucina di un lodge lungo il percorso; se chiedi perché c’è una vaga risposta legata all’ora, al diritto sindacale di riposarsi, all’opportunità di introdurre calorie prima dello sforzo impegnativo della salita… E qui ci si mette a ridere pensando a quanta attenzione poniamo, nelle nostre salite sulle Alpi, a non toccare cibo (salvo barrette energetiche e un po’ di cioccolato), fino a quando non si è rigorosamente arrivati in vetta e non si ha più neanche un metro di dislivello in salita… Alla fine accettiamo il fatto, anche questo fa parte del gioco, ci adeguiamo alle usanze locali e dopo una decina di giorni siamo allenatissimi a ripartire in salita con la digestione in atto.

Nei primi giorni di marcia dormiamo nei lodge, finché non ci stacchiamo dal percorso del trekking dell’Annapurna non ci sono difficoltà a trovarne; alcuni sono molto spartani e fanno rimpiangere le tende nelle quali staremo senz’altro più comodi nelle tappe successive in alta quota; altri sono gradevoli, con un po’ d’acqua calda nelle docce e talvolta anche con l’energia elettrica fino a tarda sera; nelle prime tappe, fino a tremila metri di quota si sente ancora il caldo e di notte si abbandona ben presto il sacco pelo di piuma e si dorme scoperti, seminudi; siamo a venti gradi di latitudine nord, molto più a sud rispetto alle nostre alpi, per cui, come già nella valle del Khumbu, continuiamo a lungo ad attraversare paesaggi verdi, piacevoli e rilassanti; ed il clima, in autunno inoltrato, è quello della piena estate da noi; le grandi montagne sono ancora distanti, le cime da 4000-5000 metri che ci sovrastano nella marcia sembrano modeste collinette. Dopo l’apparizione del Manaslu al primo giorno, dobbiamo aspettare cinque giorni prima di vedere l’estremità orientale dell’Annapurna Range: le distanze sono enormi, gli spazi sembrano richiedere una quarta dimensione per poter essere giustificati e compresi, le differenze dalle nostre montagne sono tante, ma una cosa appare subito in tutta la sua evidenza: l’enormità delle dimensioni. Forse solo i massicci del Monte Bianco e del Rosa possono, parzialmente, avvicinarsi a questa misura, ma in un contesto molto più antropizzato e addomesticato. Non a caso Leslie Stephen già nel diciannovesimo secolo lo aveva definito il terreno di gioco dell’Europa; in Himalaya, (perlomeno fino a che non arriveranno i capitali cinesi con cui costruire alberghi a cinque stelle al campo base dell’Everest ed autostrade a quattro corsie per arrivarci comodamente in jeep), tutto è enormemente più vasto e primordiale, appena ci si allontana dai percorsi dei trekking (dove si è ancora lontani dalla vera alta montagna), si percepisce, psicologicamente e materialmente, la distanza dalla civiltà.

Qui non si tratta di rinnegare che sia un fatto positivo la graduale introduzione del soccorso con l’elicottero che lentamente si sta organizzando anche in Nepal, grazie al Soccorso Alpino Svizzero e a virtuosi singoli personaggi come Simone Moro, però è un dato di fatto che per ancora molto tempo, nella stragrande maggioranza dei casi, bisogna essere autonomi ed autosufficienti anche per un’esperienza tutto sommato scarsamente pericolosa ed impegnativa come un trekking di questo tipo, fra i 5000-6000 metri di quota e con pochi, banali passaggi su nevai e ghiacciai.

Quando ci saranno i soccorsi di routine come da noi, tutto sarà più rassicurante, però sarebbe un gravissimo errore pensare che si possano trascurare i rischi oggettivi, tanto poi col telefono satellitare si risolve tutto. Nel frattempo, come dicono sempre le vecchie generazioni a quelle più giovani, le esperienze maturate prima da qualcun’altro, sono irripetibili (nel bene e nel male..), proprio perché le circostanze mutano talmente in fretta che anche il viaggio dello scorso anno può già essere irrimediabilmente diverso da quello di oggi e tutto ciò che si ha avuto il privilegio di vivere in prima persona può sparire per sempre: per qualcuno può essere un vantaggio ed un segno di progresso, per altri una perdita, difficile totalmente inutile dire chi ha ragione: forse la vera tragedia è non poter vivere mai esperienze di questo tipo, né prima né poi…. e quindi rimane un grande privilegio averle vissute ancora in un certo modo, e soprattutto di poterle ancora raccontare!

Pokhara, Nepal, 2008

Capitolo sesto

Big foot ai piedi dell’Everest

Gli Sherpa della regione nepalese del Khumbu, la valle più famosa della regione himalayana, ai piedi di sua maestà il Sagarmatha (il nome nepalese dell’Everest), sono per costituzione mediamente più piccoli e più bassi rispetto agli indoeuropei; ciò non costituisce di certo un problema per loro, da secoli abituati e perfettamente adattati alle quote estreme, all’ipossia e a condizioni di vita inimmaginabili per noi occidentali; hanno ovviamente anche i piedi più piccoli e più corti dei nostri, ma il mio unico lettore starà pensando che anche questa non sembra una notizia memorabile, esisteranno senz’altro connotazioni più interessanti e degne di nota in merito a questo straordinario popolo di montagna… perché parlare del numero di scarpe?

Effettivamente non varrebbe la pena parlarne, se non fosse per il curioso inconveniente che alla fine del trekking del Khumbu ha rischiato di farmi imbarcare all’aeroporto di Lukla per tornare a Kathmandu calzando solo un paio di logori (per non dire altro…) calzettoni da montagna!

Uno dei molteplici motivi per cui un trekking in Himalaya è un’esperienza unica, è sicuramente costituito dalla possibilità di conoscere e instaurare un rapporto di amicizia e di stima con gli sherpa; definirli dei semplici portatori è riduttivo e quasi offensivo, da molti decenni ormai si sono trasformati da semplici “manovali” della montagna, utili per il loro adattamento all’alta quota, la tolleranza allo sforzo e lo straordinario allenamento naturale di cui sono dotati, a dei veri e propri accompagnatori di alta montagna, l’equivalente delle nostre guide alpine, e molti di loro sono paragonabili, in termini di capacità tecnica alpinistica, ai più famosi e celebrati fuoriclasse europei, americani ed asiatici; certo, magari non in alcuni ambiti specifici quali l’arrampicata sportiva sui gradi estremi o il drytooling (arrampicata su terreno misto di ghiaccio e roccia con ramponi e piccozze), ma sicuramente si nel contesto dell’alpinismo tradizionale di altissima quota.

Una consolidata e virtuosa abitudine fra coloro che fanno alpinismo o trekking in Himalaya è quella di lasciare in omaggio, alla fine della spedizione, indumenti, scarpe, attrezzatura di montagna: qualunque oggetto è ben apprezzato e non c’è nemmeno motivo di offendersi se il regalo non viene indossato o utilizzato: per loro è talmente prezioso che spesso, anziché usarlo essi stessi, preferiscono a loro volta venderlo innescando un micro-commercio locale vantaggioso per tutti: in questa logica il regalo non va interpretato in modo personale come da noi perché in ogni caso, chiunque ne sia il destinatario finale, l’oggetto donato sarà utilizzato e sfruttato fino a sfiancamento e distruzione totale… a prescindere dal numero di persone a cui sarà passato per mano.

Si era quindi deciso, come sempre, di portare magliette, pantaloni, pile, giacche a vento già usati ma (specialmente per i loro standards) ancora perfettamente validi; io e Augusta avevamo deciso di lasciare anche le scarpe, cosa che oltretutto ci avrebbe permesso al ritorno di avere più spazio e meno peso nel borsone da viaggio, per poterlo quindi riempire con oggetti e regali comprati in loco; l’unico problema poteva essere il mio piede, certamente più grosso del loro, ma, come mi spiegò subito la guida, questo piccolo dettaglio si superava agevolmente con due o tre paia di calze, quindi potevo stare sicuro che non avrei avuto difficoltà a trovare uno sherpa interessato al dono, cosa che effettivamente avvenne al primo giorno e alla prima ora di trekking, tanto che il prescelto per due settimane non distolse mai lo sguardo dal futuro oggetto di possesso…

Io d’altra parte sarei tornato da Lukla a Kathmandu col paio di scarpette leggere che mi portavo dietro come scarpe da riposo e per camminare nei tratti meno impegnativi a bassa quota; senonché sulla via del ritorno scoprii che le scarpette erano scomparse dal borsone: superfluo chiedersi come mai, qualunque fosse il motivo non potevo certo ritrovarle; potevo averle perse durante una delle tante soste in cui aprivo il bagaglio, scaricandolo dal dorso dello yak addetto al trasporto, magari quando dovevo prendere il borsino di primo soccorso per curare, in itinere, qualche sherpa o qualche abitante dei villaggi attraversati che soffriva di congiuntivite e aveva bisogno di un collirio, o per qualche problema di febbre o infezione da trattare con antibiotici e antiinfiammatori, o per qualche portatore che si procurava vaste abrasioni se non addirittura piaghe da decubito alle spalle ed alla schiena a cause delle cinghie utilizzate per sistemarsi il carico addosso. Può darsi che avessi perso le scarpe tirandole fuori in una di quelle occasioni; può darsi che me le abbiano rubate, e la cosa non mi scandalizza più di tanto perché viste le circostanze ed i luoghi sarebbe stato comunque un regalo con altre modalità!

Fatto sta che all’ultimo giorno di trekking, ritornati a Lukla, quando avremmo dovuto reimbarcarci sull’aereo per Kathmandu e quindi dire addio agli sherpa lasciando a loro i regali preventivati, io ero senza scarpe perché puntualmente il beneficiario dei miei scarponi aveva riscosso quanto promesso, lasciandomi metaforicamente in mutande, ovvero con i soli calzettoni ai piedi (se fosse dipeso da lui si sarebbe presi anche quelli, senza troppe remore per lo stato di pulizia e di conservazione, ma viste le circostanze, me li tenni stretti ai piedi!).

Nelle due ore di attesa della partenza dell’aereo, provai a girare per i tanti negozietti che vendevano materiale da montagna alla ricerca di un paio di scarpette da ginnastica, ma ben presto capii che la mia taglia (fra il 44 e il 45) non era facile da trovarsi; provai a chiedere anche a tutti i venditori improvvisati dei mercatini e delle bancarelle sulla strada principale (o per meglio dire, l’unica) di Lukla, ma non saltò fuori nulla; il mio problema cominciava però a destare una certa curiosità nella popolazione locale, per cui si cominciò a formare un piccolo corteo di persone che mi seguivano passo a passo, discutendo animatamente sulla lunghezza dei miei piedi e sull’inadeguatezza delle scarpe che mi venivano proposte; la mia situazione suscitava umana simpatia ma anche un certo interesse economico perché tutti sembravano ambire a diventare i fortunati venditori del modello giusto; il dibattito e la processione, nel frattempo sempre più consistente, proseguirono fino al piccolo piazzale davanti all’ingresso del minuscolo aeroporto di Lukla, demenziale struttura, unica al mondo, con una pista di 200 metri costruita in pendenza su un ripido pendio in modo tale che gli aerei decollano in discesa per poter prendere velocità ed atterrano in salita per poter frenare senza distruggere le case, i negozi e gli alberghetti costruiti a ridosso della pista stessa… Dunque, davanti a questo prodigio dell’aeronautica, stavo perdendo le ultime speranze di tornare alla civiltà con qualcosa di solido ai piedi, quando nella calca ormai formatasi per seguire l’evento, spuntò fuori un ragazzino di forse undici-dodici anni che timidamente mi chiese in anglo-nepalese che numero di scarpa portassi:

“forty-four, forty-five… it’s the same….” “wait a moment, wait a mo-ment, sir… ” e sparì nella folla; dopo circa dieci minuti tornò trionfante con una scatola dalla quale tirò fuori, incredibilmente un paio di Adidas taroccate di una lunghezza spropositata, che probabilmente giacevano da anni nella cantina di casa…

Perfette, incredibile, nemmeno me le avesse fatte su misura un calzaturificio veneto!! La folla esplose in grida di giubilo e grandi applausi, il ragazzino saltò dalla gioia, sicuramente quella sera a casa avrebbe avuto doppia razione di stufato di yak con patate, tutti si dispersero orgogliosi perché il piccolo paese di Lukla aveva risolto il problema del turista occidentale, io salii sull’aereo con le scarpette più pulite che avessero mai calcato i sentieri della valle del Khumbu: più tardi, in volo, durante gli innumerevoli “vuoti d’aria” con inevitabili acrobatiche evoluzioni del pilota che più volte sfiorò i crinali delle valli sorvolate a non più di trenta metri di quota dai tetti delle case e dalle teste dei contadini, pensai con sollievo che se l’aereo si fosse sfracellato, almeno mi avrebbero riportato in Italia con un paio di scarpe nuove ai piedi…

Lukla, Khumbu Valley, Nepal, novembre 2004

(nella foto la pista di atterraggio in salita del piccolo aeroporto, unico al mondo nel suo genere!)

Appendice

Round Annapurna Trekking, relazione tecnica ed esperienza umana

In Italia abbiamo montagne bellissime, fin quasi superfluo citarle, le Dolomiti ove io e Augusta abbiamo percorso i nostri primi sentieri lasciandoci il cuore, la più vicina Valle d’Aosta che è diventata, anche per motivi di maggior vicinanza, la nostra seconda casa, dapprima solo in senso metaforico, poi anche letterale; l’appennino ligure appena girato l’angolo per veloci sgroppate di allenamento fra terra, cielo e mare; poi appena fuori, le amatissime Alpi Slovene conosciute grazie a cari amici triestini, e ancora l’Oberland Bernese, l’Ecrin, i Pirenei…

Eppure, negli spiriti irrequieti, forse un po’ romantici, forse vagabondi nella mente prima ancora che sul mappamondo, il richiamo dell’Himalaya prima o poi attira come un vortice al quale non si può sfuggire, se le circostanze permettono di assecondarlo; ed ecco perché, dopo un lontano viaggio esplorativo in Tibet e Nepal, dopo il primo trekking nella valle del Khumbu con la salita al Kala-Pattar al cospetto di sua maestà il Sagarmatha (il nome nepalese dell’Everest), dopo una divagazione extra-himalayana in vetta al Kilimanjaro con la stranissima emozione di camminare in mezzo ai penitentes sull’orlo del cratere di un vulcano spento a quasi 6000 metri con l’Africa ai tuoi piedi, ecco che nel 2008 siamo tornati in Nepal per una terza grande avventura: il trekking attorno all’Annapurna con due varianti tutt’altro che banali, ovvero la salita a una vetta di 6060 metri nel gruppo del Manang Himal e, sulla via del ritorno, una selvaggia variante al classico colle di Thorung, con il periplo del Tilicho Lake e l’attraversamento di due colli glaciali a più di 5300 metri di quota, una variante percorsa pressoché da nessuno (e si capisce anche il motivo!), ma che permette di camminare per due giorni a ridosso della maestosa Grande Muraille, con la suggestione di ripercorrere a ritroso il percorso inesplorato ed erroneo di Maurice Herzog e compagni, nel 1950, nell’infruttuoso tentativo di scoprire la via di salita all’Annapurna che poi in realtà era da tutt’altra parte (ma ci misero un bel po’ a scoprirlo!).

Eccoci dunque, di nuovo, a Kathmandu, con Giorgio e Annalisa, i due cari amici di Padova con cui abbiamo condiviso numerose esperienze di viaggio e di montagna, altri dieci compagni italiani conosciuti sul momento, con la guida di Martino Moretti dell’agenzia Lyskamm 4000 di Alagna Valsesia, prestigioso alpinista con al suo attivo, fra le altre cose, anche il K2 senza ossigeno nel 1986. Sbrigate le pratiche di rito, dopo il rituale tuffo nelle molteplici facce della città, che vale da sola un viaggio per tutti i suoi aspetti sportivo-alpinistici, religiosi, artistici e umani, ci si sposta con un pullman di linea verso ovest in direzione Pokhara, fino a quando si abbandona la strada principale per puntare decisamente a nord, con una stradella tortuosa e sempre più accidentata, percorsa su di un pulmino ancora più piccolo e sgangherato del primo, finché non si arriva finalmente a Bhulbule, 840m s.l.m., ove ha inizio il trekking. Si comincia quindi a camminare a una quota inverosimilmente bassa, in mezzo a un paesaggio dolce, verdissimo, fertile, ricco di acqua nel profondo solco glaciale della Marsyangdi Khola; si cammina sudando, quasi nell’afa, (nemmeno si salisse sul Tobbio d’estate!), attraversando villaggi non ricchi, ma ove si respira già un diverso livello di “benessere”, per le popolazioni locali, derivante dai guadagni correlati ai trekking; la stessa sensazione che si prova, lì ancora più evidente, nella valle del Khumbu; non a caso sono le due regioni di massimo afflusso escursionistico e alpinistico del Nepal, e già si vedono in entrambe, purtroppo, i primi segni di esagerazione in termini di sovrabbondanza di infrastrutture, di offerte sempre più comode e turistiche, di compromessi legati più al business che non che alla stringente necessità di comfort. Ma va bene così, perché noi veniamo dalle montagne più antropizzate del mondo e tutto ci sembra comunque più primordiale, selvaggio, immenso: gli spazi, il cielo, i ghiacciai ancora lontani.

In tre giorni si arriva a 2600 m s.l.m., si prende il passo, si respira, ci si assesta gli zaini sulle spalle, ci si libera dalle tossine della civiltà, ci si commuove vedendo i bambini, sporchi, miseri, sani e felici; qualcuno gli regala biro e matite, quaderni, qualcuno palloncini da gonfiare, nessuno caramelle e cioccolato perché provocano la carie; poi piano piano cambia qualcosa, si fa una gigantesca curva “a sinistra”, un po’ come quando in Val d’Aosta a Chatillon si va a ovest verso il Monte Bianco, si lascia ad est il massiccio del Manaslu, visione quasi irreale, seminascosto nell’afa e nelle nuvole, e si comincia a intravedere la colossale catena degli Annapurna, con almeno quattro cime secondarie sopra i 7500 metri, si entra nel cuore della Marsyangdi Khola, enormi pareti lisciate dal ghiaccio, valle ad “U” glaciale da manuale di geologia; si comincia a rimanere storditi, non tanto per l’aria sottile, che pure di notte a qualcuno dà fastidio, sopra i 3000, ma soprattutto per le dimensioni: enormi, lasciano increduli, te lo aspetti ma comunque non sei preparato alla vastità fisica e spirituale dei luoghi; a occhi puntati in alto ti annichiliscono le montagne, a occhi bassi respiri la filosofia di vita di queste popolazioni, di gran lunga in prevalenza buddiste, qui al confine con il Tibet; a ogni paesino un tempietto di ingresso con simboli e rituali di benvenuto; sulla “main street” lunghi muretti nel mezzo della strada con i cilindri di preghiera, da girare in senso rigorosamente orario per far salire in cielo le preghiere scritte a caratteri minuscoli su sottili rotoli di carta avvolti dentro ai cilindri stessi; mai preghiera appare più “laica”, adatta ad ogni spirito pellegrino a prescindere dalla religione d’origine, senza imposizioni né regole da rispettare se non quelle universali dell’umanità e della tolleranza.

Al quinto giorno a Humde (3300m) si abbandona il percorso principale del trekking e si punta decisamente a nord, con ripida, costante salita in avvicinamento alla catena del Chulu, ove si cela la nostra meta; vegetazione sempre più rada, scarna, non più afa, bensì vento, freddo di notte nelle tende che finalmente si montano abbandonando i lodge più o meno confortevoli che finora si trovavano sul percorso; si fa fatica, si va in montagna, ti prende un po’ di inquietudine, sei isolato, conti solo su te stesso, sugli sherpa, sui compagni, su Martino: ecco la vera differenza, a due soli giorni dal flusso continuo dei trekkers, al di là delle difficoltà tecniche che pure sono minime. Primo campo a 3990 m, al giorno 6° campo a 4800m, ancora sull’asciutto, pietraie moreniche aride, poca vegetazione tipo steppa, molto sottozero di notte, finalmente i sacchi a pelo “himalayani” comprati dall’amico Chicco cominciano a fare il loro lavoro! Un amico del gruppo sta male, cefalea, vertigini, sbandamento nella marcia: sintomi pericolosi, lo dico a Martino, che si fa? Se lo dici tu che sei medico, lo mandiamo giù senza esitazione, con uno sherpa, è la decisione migliore, starà male ancora 48 ore, poi tutto OK e potrà riprendere il cammino.

Arriva il settimo giorno ma non ci si riposa, finalmente si tocca la neve, il primo ghiacciaio, le scarpette si mettono nei sacchi e si calzano gli scarponi veri, ma poi ti guardi indietro e vedi gli sherpa che hanno ancora ai piedi le infradito e ti chiedi se loro sono dei marziani oppure tu un pigro e rammollito figlio del benessere: entrambe le cose ovviamente, un po’ ti vergogni, un po’ vorresti essere San Francesco e abbandonare il mondo occidentale, un po’ semplicemente li invidi e vorresti riuscire a resistere come loro alle intemperie… tanti pensieri confusi, bisognerebbe scrivere un libro solo su questo, e passare nottate intere a parlarne con gli amici più cari e con i compagni di montagna. Qui non si tratta più solo di salire su una montagna, qui c’è di mezzo la vita, quella vera. La tua e la loro. Ci pensi, ci pensi e ci ripensi. E intanto sali.

Campo a 5300 sul ghiaccio. Notte tremenda: una compagna del gruppo sta male, un problema serio, affanno, rantoli, per me la diagnosi è facile, edema polmonare in fase iniziale. Sono medico, appassionato di montagna, studio da anni la fisiopatologia d’alta quota e sono socio della Società Italiana di Medicina di Montagna; non sono il medico della spedizione, solo un privato partecipante, ma ovviamente non fa differenza; ho con me i farmaci che servono. Desametazone endovena e intramuscolo, gocce di nifedipina sotto la lingua; purtroppo non basta, continua a star male, per fortuna l’organizzazione nepalese ha nel budget la sacca di Gamow, la camera iperbarica portatile. La ficchiamo dentro, pompiamo aria, si riporta dentro alla sacca una pressione atmosferica equivalente a 2500m circa; avanti due ore a pompare, poi fra la sacca ed i farmaci sta un po’ meglio, quel tanto che basta ad aspettare l’alba e non essere costretti a farla portare giù in piena notte sulle spalle di due portatori. Altri due hanno cefalea, nausea e vertigini, nonostante l’acclimatazione la quota picchia: cerco di fare qualcosa anche per loro, tutta la notte dentro fuori la mia tenda e la loro, Augusta mi aiuta. Mi passa i farmaci, mi prepara le iniezioni, nella concitazione una distrazione fatale: lasciamo i suoi scarponi nell’abside della tenda, si congelano.

Alle cinque di mattina si decide: il bollettino medico è più rassicurante; chi sta male scende con gli sherpa o è già sceso, chi sta bene parte per la vetta; siamo già in ritardo di un’ora e mezza, dai; freddo, vento, siamo stanchi, io, Augusta e Martino ovviamente abbiamo passato tutta la notte svegli e in piedi; Augusta paga la sua generosità con gli scarponi ed i piedi freddissimi a causa degli eventi descritti, dopo un’ora torna, teme un congelamento; che rabbia, lei sta benissimo e salirebbe in cima di corsa! Si va un po’ troppo veloci, a strappi, non si riesce a tenere un ritmo armonico, qualcun altro deve tornare indietro perché non si riesce a trovare il passo giusto. Tre pendii ghiacciati ripidi successivi, pendenza fino a 43-45°. Io, Martino e altri quattro “superstiti” arriviamo in vetta al CHULU FAR EAST, 6059m s.l.m. Davanti, dietro, a sinistra, a destra, solo Himalaya. A ovest il Mustang, a est il Manaslu, a nord il Tibet, a sud un rettangolino dietro l’Annapurna Range, riguardando le foto lo identifico come la cima vera dell’Annapurna, fino ad allora ancora invisibile.

Foto di vetta, un abbraccio. Sono salito su una cima himalayana insieme ad un uomo che è stato sul K2: scendendo mi ha ringraziato per il lavoro che ho fatto nella notte con chi stava male. Questa è la montagna, la sua follia, la sua bellezza.

Mi spiace per Augusta e per gli amici che non ce l’hanno fatta. Se la notte passava tranquilla, arrivavamo tutti in cima. In compenso tutti sono tornati giù, e per come si sono messe le cose, questa è stata la vera conquista della vetta. Rimangono una manciata di foto, uno sguardo sul mondo, una piccozza lasciata in cima da un compagno di Udine in memoria dell’amico morto in montagna. Le cose che leggiamo sempre sui libri, che vediamo nei film, che sentiamo raccontare alle serate dei nostri eroi. Ma questa volta vissute davvero, in prima persona. Ti lasciano il segno. BERG HEIL.

Si scende molto velocemente al campo a 4800m, la mattina dopo colazione all’aperto, si guada un torrentello semi-ghiacciato e quasi di corsa, si scende ancora fino al fondo valle: fine della giornata? Macché, per arrivare a Manang, praticamente su sentiero sempre in piano, ci mettiamo due ore (sempre la solita storia delle grandi distanze himalayane…); una bottiglia di Coca-Cola ghiacciata comprata sulla strada da un bambino vale più di uno champagne d’annata!

Manang, 3500 m s.l.m. L’ultimo paradiso degli hyppies e dei giramondo stile anni ’60, in fuga da una Kathmandu non più tanto tollerante; si mescolano bene ai trekkers che passano un giorno di completo relax: chi si lava gli indumenti, chi si taglia la barba, chi cerca di accaparrarsi un turno di acqua calda sotto la doccia del lodge, chi dorme tutto il giorno, chi gira a caccia di foto e di atmosfere. Alla sera tutti cercano di mangiare più carne di yak possibile dal menù del cuoco, che in realtà sembra sempre molto parsimonioso.

Per fortuna c’è anche un’ottima pasticceria tedesca molto apprezzata!

La compagna che è stata male non si è ancora ripresa e, in accordo con i medici americani dell’ambulatorio per i disturbi d’alta quota, non prosegue il trekking e scende a dorso di cavallo con uno sherpa fino a Bhulbule, da lì fino a Pokhara in bus, dove la ritroveremo in buona salute. Noi ripartiamo. Alla fine del paese, in un vicoletto, due cartelli per le due direzioni possibili: uno è per la via “normale” del giro dell’Annapurna, per il passo di Thorung; l’altro è per la via più difficile, percorsa solo fino al lago di Tilicho ove però quasi tutti tornano indietro; noi invece proseguiremo, per valicare ancora in alta quota e scendere a Jomosom in totale solitudine. Sarà un’avventura. Si parte rilassati, con un panorama piacevolissimo, la Marsyangdi Khola nella sua parte centrale, più aperta e con visioni bellissime sul gruppo dell’Annapurna, ma in realtà si capisce ben presto che sarà dura; si deve arrivare al Tilicho Base Camp, teoricamente 600m di dislivello, in realtà sono 900 a causa di saliscendi interminabili, lungo un vallone secondario sempre più chiuso fra pareti dirupanti di detriti e sfasciumi franosi, sembra quasi di essere in Dolomiti ma anche sulle Grigne, con guglie, torri, pinnacoli dalle forme bizzarre e dai colori rossicci, calcare eroso dai millenni, dal ghiaccio e dal vento. Un piccolo monastero, isolato e solitario a 4000m, è commovente con il suo unico custode. Si arriva al lodge tardi, il sole è già scomparso dietro la Grande Muraille, freddo glaciale a 4150metri. Ai lodge non si prenota, speravamo di trovare posti, ma un gruppo di francesi ci ha preceduto: domani andranno al lago e poi torneranno a Manang; allora si montano le tende, e viste le condizioni del lodge tutto sommato è meglio così, a parte il freddo e l’umidità. Si riparte all’alba di una giornata meravigliosa, si sale a lungo su pendii morenici e finalmente si arriva su un pianoro ghiacciato a 4800m, la Grande Muraille si tocca quasi con le mani! Poi, dopo un’altra ora, finalmente il Tilicho Lake, 4950metri, uno dei più alti laghi naturali del mondo, 3,5 km di lunghezza e 1,5 di larghezza nel punto più largo, acque blu cristalline, due chilometri più in alto incombe il Tilicho Peak con la sua parete nord-est, verticale sopra il lago. La bellezza del luogo è indescrivibile, nessuno riesce a parlare, e non solo per l’aria sottile. Questo è l’Hiamalaya, bellezza! I trekkers tornano indietro, noi cominciamo ad aggirare il lago sulla destra, su ripidi pendii ghiacciati; qualcuno calza i ramponi, diamo le piccozze ai portatori i quali, incredibile, ma vero, camminano ancora con ai piedi le infradito o tutt’al più con qualcosa di simile alle Superga da basket in tela (in versione nepalese, ovviamente). II lago è poco più giù, una scivolata nelle sue acque sarebbe fatale per lo shock termico. Si supera l’Eastern Pass a 5340m (in totale 1200m di dislivello nella giornata) con ripidi passaggi su roccia sporca e friabile, si devono usare le mani per l’equilibrio, ora bisogna solo andare giù eppure impieghiamo tutto il pomeriggio per ridiscendere fino a un pianoro sopra l’estremità opposta del lago ove, a 5200m, dormiremo. Arriviamo al buio e sotto la neve, montiamo con grande fatica le tende, si mangia poco e contro voglia nella tenda-mensa, più che altro per scaldarsi un po’, poi si cerca di dormire, ma per tutta la notte ogni due ore si dovrà buttare giù la neve dal tetto della tendina per non rimanerne schiacciati (mi sembra anche questa di averla già letta da qualche parte!). Alba a meno 15 gradi, un incredibile cielo blu che sembra finto, sole, la Grande Muraille scintillante e ghiacciata: una foto, un ricordo, un’emozione indelebile che compensa la notte poco riposata, basterebbe da solo questo momento per giustificare il viaggio. Colazione all’aperto mentre gli sherpa smontano il campo, la tazza bollente serve a scaldare le mani prima che lo stomaco. Un momento di estasi, ma solo un momento, si riparte, c’è qualche incertezza sulla direzione, la neve ha sparigliato le carte ed i punti di riferimento; Martino decide di non fare il Mesokanto La, ma di puntare a nord verso il New Tilicho western Pass (o Tilicho tourist La), lo ha già percorso alcuni anni addietro; gli sherpa non sono di grande aiuto, per cui si affida alla memoria. La neve è pesante, la traiettoria è diretta e quindi anche decisamente ripida, ancora ramponi e piccozze per arrivare finalmente al passo a 5480metri. Alla nostra sinistra, a sud-ovest, l’elegante gruppo del Nilgiris; ancora oltre fa capolino il triangolo sommitale dell’Annapurna, ma a un certo punto compare in tutta la sua maestosità il Daulaghiri con il suo versante nord-est: il terzo ottomila del trekking, il più vicino, il più impressionante, non ci abbandonerà più fino all’ultimo giorno. Se fossimo in un museo, ci sarebbe da temere la sindrome di Stendhal. Qui, in più, c’è anche l’ipossia!

Si scende ancora su pendii ripidi ghiacciati, dopo un’ora, come un sogno, si comincia a toccare la roccia e a calpestare qualche rado arbusto. Ci si spoglia al sole, la temperatura è salita di almeno 20 gradi. Si scende al campo successivo a 4215 metri, ma bisogna guadagnarselo anche questo, con i soliti terribili saliscendi insensati e interminabili e con ultimo salitino spacca gambe. Ma si dorme in tenda all’asciutto, comodi e rilassati come dei re. Il tredicesimo e ultimo giorno di trekking si dovrebbe “solo” scendere fino a Jomosom. Cento metri di dislivello in salita e 1600 in discesa; arriviamo sull’ultimo spuntone roccioso da cui si domina il paesino poco (?) più sotto, alla sua destra il magico Mustang: è fatta, emozione, rilassatezza, si pregustano birre e Coca-Cola, ma tutto questo ben di Dio ci sarà concesso dopo le ultime due interminabili ore di discesa che avrebbero dovuto essere non più di trenta minuti; l’ultimo ricordo “fisico” delle dimensioni himalayane! Il resto è una doccia calda, una cena fra quattro mura coi sandali ai piedi, una atroce torta a forma di montagna preparata dal cuoco, volenteroso ma solo quello!, il solito rituale, commovente, delle mance ai portatori con una lotteria per tutti i vestiti e capi tecnici che si lasciano in regalo, come sempre alla fine di una spedizione o di un trekking, l’ansia di riuscire a prendere il volo per Pokhara la mattina successiva, dopo tre ore di attesa in cui ci sono passati davanti centinaia di trekkers sui dieci aerei precedenti, il nostro è l’undicesimo e ultimo, rischia di non atterrare (e non ripartire) per il vento, ma il pilota, pazzo e bravissimo, vuole mangiare a casa con la famiglia e non ha nessuna intenzione di farsi turbare dalle raffiche (noi invece sì, ma che importa?). Il resto è, ancora, una monumentale bistecca di yak con una montagna di patate fritte e un po’ di birre ghiacciate, un po’ di relax a Pokhara, un’alzataccia all’alba per farsi portare dalle barche al centro del Phewa Lake per vedere i primi raggi di sole illuminare il versante sud del gruppo dell’Annapurna e, soprattutto, il Machapuchare, incredibile piramide che incombe sulla città. Forse uno dei più belli e famosi fra i tanti “Cervini” sparsi in giro per il mondo.

E poi il ritorno a Kathmandu, e in Europa. Voglia di ritornare e di non dimenticare.

Nepal, novembre 2008

PARTE TERZA – IL TIBET

Un medico a 4500 metri di quota

(Una storia vera sotto forma di racconto)

Steve viaggiò molto, dentro e fuori se stesso, nel mondo e nel proprio caos interiore.

Non viaggiò tanto come i viaggiatori di professione, come i cacciatori di visti sul passaporto, come i collezionisti di dogane e frontiere. Le vere frontiere da superare forse si riesce una sola volta nella vita a varcarle veramente, ed ancora più difficile risulta il non tornare più indietro. Viaggiò comunque a sufficienza da stampare nel proprio DNA emozioni e ricordi che solo la dissoluzione della mente, l’Alzheimer o la morte potranno sottrargli.

Si trovò anche ad attraversare, in momenti e circostanze che ancora adesso oscillano fra sogno e realtà, i maestosi altipiani tibetani in un lungo raid su fuoristrada da Lhasa a Kathmandu, sempre al limite tra terra e cielo, a quote che a casa nostra sono dominio delle nevi e dei ghiacci.

Conobbe strani e meravigliosi personaggi che gli spiegarono in una lingua sconosciuta ma perfettamente comprensibile come sia possibile avvicinarsi alle risposte cercate invano per tutta la vita, ammesso che qualcuno abbia dentro di sé almeno ancora la volontà di porsi certe domande.

Conobbe la saggezza in volti devastati dall’ipossia, dalla fame, dalla brutalità dell’invasione cinese: in quegli occhi vide ostinatamente, spudoratamente la gioia, la serenità, l’accettazione del proprio destino, la consapevolezza che nel fluire del tempo e della vita il singolo individuo è un frammento insignificante che non può e non deve sprecare energie per cercare di cambiare ciò che è infinitamente superiore al più forte degli esseri umani: ovvero il significato del proprio viaggio che fin dalla nascita corre su binari prefissati e con una meta sconosciuta ma scritta nel codice genetico prima ancora di iniziare la fatica di vivere.

Ovviamente non poté assolutamente capire né accettare queste risposte, tanto erano estranee al modo di vivere al quale era stato educato e cresciuto e dal quale cercava di fuggire, ma senza avere gli strumenti per poterlo fare veramente.

Conobbe le montagne straordinarie dell’Himalaya, che toccò con mano, calpestò fin dove le circostanze del viaggio gli permisero di fare. Le vide dall’aereo di linea nel volo dal Nepal al Tibet, le vide dalle polverose piste sterrate della trans-himalayana, dai finestrini delle Toyota Land Cruiser che viaggiavano indifferenti fra valichi a 5300 metri di quota ed altipiani infiniti e misteriosi, tra cime maestose e senza nome perché non aveva senso dare loro un nome, salvo che per gli alpinisti cinesi ed europei, americani e giapponesi accomunati dalla frenesia di poter scalare vette ancora vergini e prestigiose per il proprio curriculum.

Le vide da un piccolo aereo turistico pilotato da un folle aviatore nepalese che lo portò così vicino al suo amato Everest da fargli temere per un attimo di atterrare in modo poco convenzionale al colle Sud ad ottomila metri di quota: ma una virata incredibile a 180 gradi quando erano ormai a non più di due chilometri in linea d’aria dalla parete sud gli permise di imprimersi in modo irreversibile nella mente l’immagine della “sua” montagna e di tornare incolume all’aeroporto di Kathmandu.

Vide le limacciose, sacre acque del Bhagmati, affluente del Bramhaputra, attraversare il quartiere induista di Kathmandu per raccogliere le ceneri dei cadaveri bruciati su cataste di legna e poi affidati al fiume nel loro ultimo viaggio; e vide la gente lavarsi nel fiume e raccogliere l’acqua per bere e per cucinare, la vide fare bucato nel fiume accanto alle pire fumanti.

Vide i bambini degli altipiani, figli delle tribù di nomadi e pastori, giocare con gli yak e con palle di stracci; indossavano maglie, felpe, pantaloni di incredibili e sgargianti colori con scritte occidentali, regali dei turisti che gli portavano gli abiti dei loro figli.

Li vide con la pelle scura, perché non avevano mai conosciuto il sapone. Ma erano sani e sembravano felici. Li vide aspettare in disparte, silenziosi, che alla fine dei pic-nic dei turisti si offrisse loro qualcosa da mangiare: e Steve si adattò a mangiare sotto il loro sguardo discreto, educato ed incuriosito dallo strano cibo degli occidentali, dal grana padano e dallo speck portato di scorta nel caso che il cibo locale non fosse di troppo gradimento.

Vide i templi ed i monasteri buddisti, distrutti dai bombardamenti cinesi e ricostruiti ostinatamente pietra su pietra dai monaci e dalle popolazioni dei villaggi vicini. Calpestò i loro pavimenti di legno, scivolosi e lisciati dal passaggio di migliaia di pellegrini, respirò l’odore del burro di yak, utilizzato per ogni scopo, come fondamento della loro alimentazione e come combustibile da bruciare nelle lampade votive: enormi recipienti di rame accoglievano centinaia di lumini che creavano un irreale, tenue illuminazione in ambienti privi di finestre e di corrente elettrica, e sullo sfondo le enormi statue delle divinità buddiste troneggiavano con quei sorrisi rassicuranti ma al tempo stesso inquietanti e così difficili da comprendere nel loro significato simbolico.

Vide i cieli incredibilmente azzurri come si possono vedere solo dove l’aria è estremamente rarefatta ed i colori sono così saturi, intensi da sembrare artificiali.

Vide i cilindri di preghiera, e Steve non si stancò mai di farli girare perché così anche lui contribuiva a far salire in cielo le preghiere contenute dentro di essi.

Vide il Potala, la residenza del Dalai Lama fino al giorno in cui dovette fuggire in India per proseguire in modo libero ad esercitare la sua influenza morale sul popolo tibetano. E rimase come tutti sgomento e senza fiato davanti alla maestosità dell’edificio: aveva paura di un impatto emotivo indebolito dalle centinaia di foto e di filmati visti e rivisti sul palazzo e su Lhasa, ma si rese conto subito che esserci veramente davanti annulla ogni immagine vista a casa ed ogni descrizione letta a tavolino. La stessa sensazione che aveva avuto in Perù visitando Machu-Picchu: pensava di conoscere ogni singola pietra del villaggio Inca e di non potersi emozionare più di tanto a vederlo dal vivo, invece l’impatto fu straordinario. Questo fa la differenza fra il viaggiare con la fantasia ed esserci davvero.

Vide i militari cinesi pattugliare armati la piazza del Jokhang, e comprese che lì, davanti al tempio più sacro del buddismo, avvennero fatti molto più sanguinosi che a Tien-an-Men, ma praticamente nessuno al mondo se ne accorse o volle accorgersene. Su quella piazza, a distanza di anni dal tentativo di resistenza tardivo, quasi patetico del popolo tibetano ma soffocato con violenza inaudita dai “liberatori”, ancora adesso era vietato “radunarsi” in gruppi di più di tre-quattro persone, pena il materializzarsi di una guardia del popolo a far cessare subito l’adunata sediziosa.

Vide molte altre cose e tante persone, ognuna delle quali meriterebbe un racconto ed una citazione, ma tutto ciò rimane indelebilmente nella sua memoria e questa è cosa più importante: “ricordati tutto ciò che hai visto, perché tutto ciò che dimentichi ritorna a volare nel vento” disse un saggio apache.

Al termine di un’ennesima lunga, faticosa e straordinaria giornata consumata su piste sterrate al limite dell’impraticabilità, dopo il guado di diversi torrenti ed infinite deviazioni per visitare un minuscolo monastero in uno dei villaggi più solitari e suggestivi dell’altipiano tibetano, la piccola carovana di Land Cruiser arrivò, come mai più in quel viaggio, vicina all’Everest.

Steve riuscì a convincere i compagni di viaggio a cambiare destinazione per la notte, d’accordo con la guida, e sul tardo pomeriggio arrivarono a Tingri. Villaggio di poche decine di case, a 4500 metri di altitudine, esattamente di fronte alla parete ovest dell’Everest. Il destino volle che della grande montagna non si vedesse nulla: nuvole basse coprivano completamente l’orizzonte e non si dissolsero né per il tramonto né la mattina dopo. Ma non aveva importanza: tutti sapevano che essa era là davanti a loro, non si poteva, forse, pretendere di averla a disposizione così facilmente. E forse l’averla sognata così intensamente ha lasciato nell’immaginazione di tutti un ricordo ancora più nitido e vivo che se la si fosse potuta vedere veramente.

Un piccolo “lodge”, una via di mezzo fra un rifugio alpino in stile tibetano ed un bed &breakfast molto spartano, diede ospitalità a Steve, a sua moglie Augusta ed ai loro compagni. Piccole stanze, tutte al piano terreno, disposte su tre lati di una corte quadrata, rigorosamente senza luce elettrica e con un unico bagno comune che difficilmente svanirà dal ricordo degli ospiti: praticamente cinque-sei latrine separate da murettini alti si e no mezzo metro; l’ultima, più appartata, era più larga per esigenze specifiche il che creava anche il rischio di caderci dentro se di notte, al buio, con una lampada frontale in testa e con una feroce emicrania da ipossiemia il coraggioso fruitore non stava ben attento a divaricare adeguatamente le gambe…

Dentro alle stanze, una candela accesa: una sfida all’intelligenza degli occidentali poco acclimatati; perché non si capì subito che anche il poco ossigeno consumato dalla candela era meglio conservarlo per irrorare il cervello. Un lavabo stile nostre campagne del secolo scorso ed un grosso recipiente termico per conservare l’acqua calda (riscaldata dall’enorme stufa della cucina) completavano l’arredo delle stanze: tutto l’essenziale, nulla di superfluo. Il pagliericcio non era neanche poi scomodo.

Ad un’estremità della corte, la grande stanza con la cucina, un’enorme stufa in mezzo ed il locale comune per mangiare, proprietari ed ospiti tutti insieme. Niente sedie; tappeti e cuscini per terra tutt’attorno a un lungo tavolo quasi al livello del pavimento; così che si finiva per mangiare comodamente e mollemente coricati in posizione orizzontale. Acqua e birra tibetana, cibo a volontà e probabilmente in quello sperduto lodge ad altissima quota Steve e soci mangiarono meglio che in qualunque albergo di standard di lusso per i parametri cinesi, con un’ospitalità che andava ben oltre i doveri dei gestori di un locale a pagamento. Ma prima di mangiare, una ben strana esperienza toccò Steve nel cuore.

Entrando nella grande sala, già con la mente un po’ annebbiata dall’ipossia, dalla stanchezza della giornata passata sui fuoristrada e dalle birre tibetane bevute poco prima, Steve venne accolto da Pino, il ragazzo di Torino che accompagnò il gruppo per tutto il viaggio.

Pino era un personaggio eccezionale, amava il Tibet, la filosofia buddista in modo totale ed era riuscito nel non facile obiettivo di coniugare la grande passione della sua vita con il lavoro, diventando accompagnatore turistico nella regione himalayana per conto di un importante tour operator italiano: da dieci anni passava almeno sei mesi all’anno fra Nepal e Tibet.

Conosceva perfettamente la lingua nepalese e tibetana, parlava con i monaci e si permetteva il lusso di spiegare loro alcuni aspetti della dottrina religiosa che essi stessi non conoscevano. Recitava i “mantra” insieme ai pellegrini che continuamente si incontravano nei villaggi e nei monasteri e spesso ne insegnava loro di nuovi. Era amico personale del Dalai Lama e più volte gli fece da interprete nelle sue visite in Italia. Aveva proposto a Steve un trekking intorno al Kailash, la montagna sacra dei tibetani, per vivere un’esperienza mistica e sportiva allo stesso tempo. Visitare quei luoghi con Pino era un privilegio che trasformava un viaggio turistico in una full-immersion nella più straordinaria filosofia di vita che Steve avesse mai conosciuto.

Dunque Pino aspettava Steve nella grande sala da pranzo, e gli chiese, quasi con imbarazzo, se non voleva fare qualcosa per la figlia più piccola dei proprietari: era malata, e i loro genitori sarebbero stati onorati se un medico venuto da così lontano avesse avuto la compiacenza di visitare la loro bambina.

Steve rimase sgomento: un medico occidentale, con tutto il suo bagaglio di grandi conoscenze scientifiche ma privo di ogni strumento, per non parlare della possibilità di effettuare o prescrivere esami, si sente istintivamente inadeguato nel suo compito e si trova di fronte, quasi con violenza, alla povertà spirituale della propria condizione, basata su presupposti fondamentalmente tecnologici. E quando ti ritrovi a disporre solo delle tue mani, degli occhi, della mente e forse del cuore, un grande disagio ti pervade.

Anche perché, Steve lo capì subito, per i suoi interlocutori lui era più di un medico, era un marziano, qualcuno venuto da un altro pianeta, probabilmente alla stregua di un dio, tanta era la differenza culturale, psicologica, tecnologica fra questi due mondi che si incontravano davanti alla grande madre di tutte le montagne: e la differenza non significava assolutamente inferiorità di qualcuno o superiorità di qualcun altro, significava semplicemente due modi totalmente diversi di vivere.

E mentre Steve masticava faticosamente questi concetti, si ritrovò davanti a tutta la famiglia riunita in cucina: la mamma teneva in braccio una bambina spaventatissima; poteva avere sei o sette anni, era visibilmente denutrita, aveva un aspetto sofferente, il colore della pelle era grigio, impossibile dedurre dalla cute o dagli occhi segni di itterizia o di anemia.

La bambina doveva essere visitata in braccio alla mamma, se no avrebbe pianto istantaneamente alla vista di questo stregone venuto da un altro mondo. E Steve, nei limiti del possibile, le toccò la pancia, le mise un orecchio sul cuore e sul torace, le guardò le sclere, cercò di valutare il tono muscolare e dei riflessi articolari, cercando di immaginare cosa avrebbe fatto un suo collega dell’ottocento, quali ragionamenti avrebbe sviluppato in una situazione forse normale per l’epoca…

La pancia era gonfia: “potrebbe avere un problema al fegato, chissà quale infezione intestinale, una malattia del sangue, un disturbo congenito del cuore.” disse a Pino affinché traducesse, ma più che altro per spezzare la tensione, per dire qualcosa, per non sembrare completamente impotente. Perché effettivamente così era.

“Bisognerebbe portarla al più presto a Shigatze, la città più vicina, perché possa effettuare degli esami in un ospedale cinese” aggiunse Steve (almeno a qualcosa si rendano utili, gli invasori, disse dentro di sé): Pino riferì e la risposta fu sconcertante: “fra cinque-sei mesi, quando sarà finito l’inverno e andranno in città per fare acquisti ai mercati, di cibo e di ogni altra cosa, porteranno la bambina all’ospedale”.

“Se sarà ancora viva…” Steve lo pensò solamente, ma era evidente la perplessità nei suoi occhi.

“Non giudicarli male – replicò subito Pino – so cosa stai pensando, ma devi capire cos’è il loro mondo e il loro modo di vivere: da secoli in queste terre si nasce, si vive, si muore nella totale indifferenza dell’umanità e nessun fattore esterno può influenzare, se non in male, la loro esistenza. Invasioni di popoli stranieri, dominazioni che cambiavano solo nella lingua e nell’aspetto dei nemici, istinto di sopravvivenza radicato ma anche realismo ed accettazione del proprio destino. Nessuno ti regala nulla né offre alcuna possibilità di cambiare la tua vita. Questi genitori amano sicuramente la loro bambina più di se stessi, ma sono perfettamente consapevoli che non possono modificare il suo destino. La loro vita è scandita da comportamenti, abitudini, eventi immutabili da molto prima che nascessero loro e i loro genitori, e che rimarranno tali anche dopo la loro morte.

Per loro andare nella grande città al di fuori del tempo previsto e dei motivi abituali costituisce non solo uno sforzo economico al di fuori delle loro possibilità, ma anche un cambiamento psicologico nelle loro tradizioni inconcepibile. Lo so che per noi occidentali tutto questo è inaccettabile, ma non possiamo neanche permetterci di venire qui per due-tre settimane e pensare di cambiare il loro modo di essere né tanto meno di giudicare le loro azioni.

Ti sono infinitamente riconoscenti per aver visitato la loro bambina, tu rimarrai impresso nei loro ricordi per tutta la vita per avergli concesso questo onore, ma loro con i soldi che spenderebbero per portare la bambina a Shigatze a farla curare dai cinesi garantiranno per almeno un anno la sopravvivenza agli altri figli, la possibilità di farli studiare e di dargli una chance di migliorare la loro vita.

Ma ora dobbiamo onorare i cibi che hanno preparato per noi: per loro sono l’equivalente di un banchetto nuziale, di una cerimonia straordinaria, non dobbiamo deluderli”.

Steve non disse nulla, ma meditò a lungo sulla concezione della vita nel suo mondo: si arrivano a spendere cifre incredibili per salvare la vita ad ultraottantenni affetti da almeno cinque-sei malattie croniche degenerative, la maggior parte delle quali correlate allo stile di vita di una società ricca che si può permettere il lusso di rovinarsi la salute per il troppo mangiare, la sedentarietà, il fumo, l’obesità e l’opulenza, bisogna sprecare risorse per curare gli eccessi e non le carenze. Poi capiti dall’altra parte del mondo e resti indignato se una bambina è destinata a morire nell’indifferenza e nell’accettazione di un destino che non è mai stato né mai sarà benigno. Quella sera bevve molta birra tibetana prima di riuscire a tornare in sintonia con i suoi compagni, poi cominciò ad immergersi nel personaggio che doveva interpretare e raccontò, come tutti si aspettavano, la storia della conquista dell’Everest. Steve era un narratore affascinante e catturò a lungo l’attenzione di tutti con la struggente ed eroica sfida di George Mallory a quel pezzo di roccia proteso verso il cielo.

Alla fine della cena le donne del gruppo presero da parte le figlie più grandi della famiglia e valorizzarono la loro bellezza utilizzando tutte le armi della cosmesi occidentale. Per la prima volta, e forse unica nella loro vita, poterono truccarsi e non credettero ai loro occhi quando si specchiarono e si guardarono fra di loro. Le risate di tutti risuonarono fino a tardi e la felicità pervase la grande sala da cucina in questo strano connubio tra due mondi. Nessuno vide più né seppe più nulla di quella bambina.

La vita riprese il suo corso ordinario, dopo gli strani eventi di quella sera passati a tentare di vedere l’Everest in mezzo alle nuvole ed a cercare il senso della vita stando attenti a non sprofondare in una latrina tibetana pagando il dazio alle troppe birre bevute.

La mattina dopo, all’alba, con l’Everest sempre sdegnosamente nascosto, i potenti motori dei Land Cruiser portarono lontano gli occidentali, a toccare il cielo sui valichi più alti del mondo, fra centinaia di file di bandierine di preghiera e di sciarpe di seta bianca lasciate in segno di devozione là dove la terra compie un ultimo sforzo per avvicinarsi agli dei prima di ripiegarsi verso il basso per buttarsi a capofitto verso le foreste nepalesi, verso il confine fra due mondi, verso la mitica incredibile frontiera fra il Tibet, ovvero la Cina, ed il Nepal, ovvero l’avamposto della società occidentale a ridosso della grande potenza orientale.

I cinesi, come tutti i dominatori, si permettono anche un distorto senso dell’ironia. E così hanno deciso di chiamare “ponte dell’amicizia” quello stretto precario nastro di cemento sospeso sopra la gola del Dude-Khosi che in realtà separa fisicamente e militarmente due universi.

Il paesaggio sembrava assecondare, con i suoi cambiamenti, quella crescente inquietudine che pervadeva l’animo dei viaggiatori man mano che ci si avvicinava a Zangmu, paese di frontiera, avamposto del nulla, monumento all’assurdità della condizione umana: se Francis Ford Coppola avesse avuto bisogno di qualche ulteriore fonte di ispirazione, oltre al “Cuore di tenebra” di Conrad, per ambientare il suo “Apocalipse Now”, sicuramente poteva attingere a piene mani a Zangmu, alla sua popolazione, alla sua atmosfera.

Dopo il dissolversi nel nulla della cortina di ferro e lo smantellamento del muro di Berlino, nessuno può capire cos’è una frontiera se non passa da Zangmu e dal Ponte dell’Amicizia. (N.d.A.: dopo il terremoto del 2015 il valico di Zangmu è tuttora impraticabile e l’unico percorso via terra fra Tibet e Nepal è il valico di Kirong, che noi abbiamo percorso nel 2018, ancora più accidentato e sconnesso di quello di Zangmu).

Dopo giorni interi sui grandi altipiani, dove l’orizzonte ed i pensieri del viaggiatore corrono verso l’infinito, quasi all’improvviso la terra si ripiega su se stessa aprendosi in una selvaggia profonda ferita provocata dallo scorrere delle acque del Dude-Khosi: un’enorme gola, con le pareti che cadono a picco, quasi verticali, verso il fiume che a malapena si riesce a distinguere centinaia di metri più in basso. Sul lato orientale della gola, i cinesi ed i nepalesi hanno costruito un’arditissima pista sterrata (chiamarla strada è decisamente esagerato) che con infiniti tornanti perde quota scendendo verso le foreste a sud dello spartiacque himalayano.

I cinquanta chilometri da percorrere in territorio cinese sono degni di un Camel Trophy: la parete della montagna frana continuamente e la pista, già di per sé stretta, spesso si riduce a permettere a malapena il passaggio di un veicolo con la ruote sull’orlo del baratro, zigzagando fra cumuli di detriti ammucchiati ai bordi della strada; diventò ben presto un’abitudine non vedere altro che il vuoto dai finestrini per i passeggeri seduti sul lato destro dei Land Cruiser; rivoli d’acqua che scendevano dalla parete non di rado si trasformavano in vere e proprie cascate ed il massimo divertimento dei piloti era di fermarsi proprio sotto questi diluvi per lavare i fuoristrada dalla polvere e dalla sabbia accumulati nel viaggio. Ma la cosa più straordinaria era il fatto che la pista, ovviamente, non era a senso unico, costituendo l’unica arteria stradale fra il Nepal e la Cina: di conseguenza ogni dieci-quindici metri si verificava un incrocio fra fuoristrada, camion, pulmini, mezzi militari e rare automobili civili che percorrevano ininterrottamente la strada dai due lati.

Un fluire lento, quasi immobile ma ostinatamente in movimento di veicoli che sfidava ogni legge della fisica e del buon senso. Vedere due enormi camion carichi all’inverosimile di masserizie, generi alimentari e quant’altro affiancarsi là dove lo sterrato accennava appena ad allargarsi, salire letteralmente sul fianco della montagna con due ruote, al limite del ribaltamento ed incrociarsi con le lamiere che stridevano toccandosi fu uno spettacolo indimenticabile che proseguì per ore, perché in queste circostanze si percorrevano a malapena dieci-quindici chilometri orari.

All’improvviso cominciarono ad apparire sui bordi della strada le prime case di Zangmu, abbarbicate alla parete della montagna lungo gli interminabili tornanti che tagliavano il fianco della gola. Quando la densità delle costruzioni aumentò, la pista sterrata diventò sempre più stretta, trasformandosi in un rivolo melmoso che raccoglieva a cielo aperto gli scarichi delle abitazioni e dove al caos del traffico di veicoli si sovrapponeva la costante presenza di bambini, polli, maiali, cani, uomini e donne indaffaratissimi e del tutto indifferenti agli inutili, continui, disperati suoni di clacson effettuati più per abitudine che per la speranza di ottenere strada.

Alberghetti di infimo livello, ristorantini per tutte le tasche, scambiatori di valuta clandestini ma che lavoravano tranquillamente sotto gli occhi di tutti, prostitute sulla soglia delle case, sui marciapiedi, venditori ambulanti di qualunque cosa in mezzo alla strada: questa la fotografia che ci si portava a casa da Zangmu.

Ma il vero capolavoro dell’assurdo si raggiungeva solo all’inizio della “no man’s land”: la cosiddetta terra di nessuno, un poco plausibile territorio neutro, non più cinese ma non ancora nepalese ove i fuoristrada tibetani erano obbligati a fermarsi ed a scaricare repentinamente gli stralunati viaggiatori con tutti i loro bagagli nel caos più totale.

Frotte di bambini e ragazzini erano pronti a precipitarsi sulle valigie e sugli zaini per trasportare il tutto, ovviamente a pagamento, fino alla dogana cinese, distante due-tre chilometri. Ed ogni turista od escursionista doveva stare attento a non perdere di vista il proprio “facchino” per evitare brutte sorprese ai bagagli, mentre si faceva largo nella melma fra polli, maiali ed umanità varia.

La dogana cinese incuteva timore e si percepiva la vera dimensione politica della situazione: pur facendo parte di un viaggio organizzato il minimo disguido, un documento mancante, un cavillo interpretato male dai funzionari poteva in un istante creare problemi inimmaginabili e bloccare per ore l’intero gruppo in quella bolgia dantesca.

Per fortuna Pino, ben addentro ai meccanismi burocratici, riuscì a gestire bene il controllo dei passaporti e dei visti e finalmente Steve e compagni attraversarono, a piedi, il “ponte dell’amicizia”. Sul versante nepalese della “no man’s land” rivissero una situazione quasi speculare, anche se con minor tensione; purtuttavia i doganieri nepalesi, per non essere da meno dei colleghi cinesi, fecero di tutto per esasperare ogni dettaglio ed esaminare al microscopio ogni documento.

Dopo due ore finirono i controlli doganali e nuovamente furono tre chilometri da percorrere a piedi con i propri bagagli passati in una staffetta dai bambini cinesi a quelli nepalesi. Solo allora Steve comprese la vera dimensione del traffico commerciale fra i due paesi: una fiumana ininterrotta, per chilometri, di camion carichi di qualunque genere di alimenti, vestiti, elettrodomestici attendevano forse da giorni il sospirato visto per transitare verso la Cina. Decine di modestissime locande davano ospitalità a chi poteva permettersi il privilegio di non dormire nella cabina del camion; gli sguardi rassegnati ed annoiati degli autisti accompagnarono il percorso dei viaggiatori fino ai pulmini che li attendevano più a valle per iniziare la discesa verso Kathmandu.

E fu, all’improvviso, la foresta sub-tropicale monsonica, verde, esuberante, inquietante dopo le pietraie desolate ed infinite degli altipiani tibetani.

E fu all’improvviso la guida a sinistra sulle strade nepalesi, retaggio della colonizzazione britannica: sempre dominazione straniera, diversa, ma dominazione.

E furono tredici ore passate a percorrere centocinquanta chilometri, ma potevano essere anche i cinque anni-luce per raggiungere Alpha-Centauri.

E fu, alla sera, una doccia calda in un lussuosissimo (o sembrava tale?) lodge nepalese poco a nord di Kathmandu.

E fu, per pochi, interminabili ed indimenticabili secondi, il più stupefacente tramonto rosso fuoco sulla catena himalayana che turista od alpinista potesse mai aver visto nella sua vita.

E il Tibet, già era diventato un sogno.

Tibet-Nepal, ottobre 2001

Vent’anni dopo

(lo aveva già detto Dumas?)

Dopo quasi vent’anni (19 per la precisione) siamo tornati in Tibet, per rivederlo dopo l’esperienza del 2001 e dopo il mancato viaggio del 2015 quando, in conseguenza del rovinoso terremoto in Nepal cinque giorni prima della nostra partenza, era ovviamente impossibile spostarsi in Tibet; siamo tornati per visitare alcune zone che non avevamo potuto esplorare (le remote regioni occidentali) per andare al monastero di Rongbuk e al campo base nord dell’Everest, per valutare, con molta apprensione, come era cambiato dopo tanti anni di ulteriore dominazione cinese, nella speranza che i cambiamenti seppure inevitabili non alterassero completamente la memoria di quanto avevamo visto e conosciuto. Già in condizioni normali dopo vent’anni una nazione cambia per effetto del tempo, ovunque, a maggior ragione se i mutamenti sono forzati, imposti da un’autorità e non corrispondono al “fisiologico” progredire dello sviluppo compatibile con la cultura e le tradizioni del popolo che ci vive. Ma la bellezza, la “grande bellezza” di un paese e di un popolo, rimane e compensa tutto il resto. Ne valeva la pena. Tuttavia chi vuole visitarlo ci vada in fretta: ogni giorno, settimana, mese (non parliamo nemmeno di anni) che passa, irrimediabilmente si perde qualcosa, per sempre.

Tibet, ultima frontiera

Anche questo forse non è un titolo molto originale, ma rispecchia bene le molteplici chiavi di lettura di questa nazione e di questo popolo straordinari.

FRONTIERA POLITICA: uno dei posti più ardui al mondo da raggiungere, impossibile o quasi andarci da soli, e anche con viaggio organizzato è obbligatorio avere guida, autista e un dettagliato e rigido piano di viaggio da rispettare e non sgarrare. Il confine con il Nepal è tutt’ora un’avventura da vivere con la sensazione che non sia solo un gioco, un’emozione che richiama i film anni ’70 da spy-story, ma una esperienza vera molto seria, specialmente se qualcosa gira male in termini di permessi e visti, o semplicemente per la luna storta o lo zelo di qualche guardia frontaliera. E se anche tutto è in regola ti ritrovi in una “no man’s land”, una terra di nessuno di 1-2 chilometri dove non è più Cina ma non ancora Nepal, dove le auto e le guide non ti possono più accompagnare, e dove ti ritrovi su un ponte di 200-300 metri con zaini e bagagli a mano, devastati dai controlli e richiusi alla meglio, da trascinare fino all’altra parte dove per altre tre o quattro volte nel giro di pochi chilometri subiranno altrettante riaperture e devastazioni da parte di guardie che non si fidano dal controllo precedente e dei loro colleghi di pochi passi più indietro. E poi anche le strade di accesso sono da ultima frontiera, soprattutto in Nepal, dove dal confine di Kirong a Kathmandu per percorrere 130 km di una sterrata ai limiti dell’impraticabilità anche per un fuoristrada, soprattutto nella parte alta, abbiamo impiegato dieci ore al netto delle soste: e siamo stati ancora fortunati, perché potevano essere quattordici o quindici.

FRONTIERA SPIRITUALE: è uno dei confini più evidenti e tangibili fra un popolo e un paese che anelano alla propria libertà religiosa e spirituale e l’invadenza di un regime politico che fa uso indiscriminato della bandiera dell’ateismo e del materialismo storico per soggiogare sei milioni di persone. È un confine simbolico e materiale non solo con la Cina, ma anche con un mondo occidentale sempre più impoverito da uno stile di vita improntato alla ricchezza economica e al benessere materiale e un altro mondo che propone modelli di comportamento interiore e di vita che sempre di più noi cerchiamo di scoprire e di recuperare.

FRONTIERA FISICA, GEOGRAFICA, SCIENTIFICA: è una nazione al limite delle altitudini estreme, con le montagne più alte del mondo, con gli altipiani costantemente sopra i 4000 metri stabilmente abitati, analogamente alle alte terre andine del Perù e della Bolivia, ma a differenza di queste, con una straordinaria capacità genetica, sviluppatasi nei millenni, di adattarsi in modo vantaggioso all’alta quota e all’ipossia, cosa che da anni viene studiata a livello scientifico chiedendosi perché solo i tibetani sono riusciti a modificare il loro DNA, a differenza dei popoli sudamericani delle Ande. E ancora frontiera meteorologica, fra gli aridi altipiani quasi desertici con scarsissime precipitazioni a nord per lo sbarramento della catena himalayana, e la rigogliosa foresta pluviale del Nepal appena a sud e oltre il confine; due mondi, in tutti i sensi, a poche decine di chilometri di distanza.

E INFINE ANCHE UNA FRONTIERA TEMPORALE: chi va in Tibet può simultaneamente compiere un viaggio nel tempo sia nel passato che nel futuro: chi va per la prima volta viaggia nel passato, perché prevalgono le testimonianze di una vita che può essere, in molte regioni, ancora paragonabile a quella di due o tre secoli fa, ma chi come noi ritorna dopo precedenti viaggi, è catapultato drammaticamente nel futuro, dovendo prendere atto dei colossali cambiamenti tecnologici, ambientali e infrastrutturali apportati dai cinesi; cambiamenti che non sono del tutto negativi, ma che certamente non sono stati effettuati a vantaggio dei tibetani, o perlomeno non principalmente a questo scopo. Si potrebbe parlare a lungo della questione sino-tibetana, sicuramente non è questa la sede adatta, sicuramente non si può generalizzare su quanto viene fatto dai cinesi che, come è doveroso dire, apportano anche sviluppi positivi, come quelli relativi alla piantumazione nelle steppe erose dalla siccità e dal vento al fine di prevenire la desertificazione, come l’impulso all’utilizzo di moto e di auto elettriche per prevenire quell’inquinamento che peraltro è molto più drammatico in Cina che non nel Tibet, enorme e poco antropizzato rispetto alla repubblica popolare cinese. Hanno fatto costruzioni incredibili, la ferrovia Pechino-Lhasa che passa a 5000m di quota e con un vagone-infermeria dotato di bombole di ossigeno per chi soffre di mal di montagna, gallerie di chilometri scavate nelle montagne himalayane, ponti, strade a due o quattro corsie perfettamente asfaltate che corrono su passi di montagna a 5300 metri di quota, dove d’inverno le temperature scendono anche a -15/ -20 gradi. Poi magari tutto questo serve al trasporto di truppe e mezzi militari dell’esercito per espandere il proprio controllo anche nelle zone più remote del paese. Sicuramente giova ai turisti e ai viaggiatori che possono percorrere tratte molto più lunghe in minor tempo, come abbiamo fatto noi, che nel 2001 ci spostavamo a 30-40km orari mentre ora potevamo viaggiare anche a 100km/h fino alla soglia dei 4500metri. Nel viaggio di andata verso il “far west” abbiamo rallentato per lunghi tratti di lavori in corso nei quali erano impegnati centinaia di operai e di mezzi meccanici, pale, escavatori, bulldozer e quanto necessario con spiegamenti di macchine e di lavoratori straordinari; dopo una settimana, ritornando sulla stessa strada, dove sette giorni prima c’erano decine di chilometri di lavori in corso, era tutto miracolosamente costruito ed asfaltato. Da questo punto di vista i cinesi sono insuperabili!

Purtroppo hanno fatto molte altre cose i cinesi: abbiamo visto interi villaggi rasi al suolo, abitanti sradicati dalle loro tradizionali abitazioni semipermanenti, tipo le yurta mongole, e costretti a vivere in condomini di 4-5 piani, parallelepipedi di cemento dotati di W.C., antenna per la TV ma totalmente estranei alla loro vita seminomade; abbiamo visto Lhasa, la capitale, sempre più dominata da grattacieli e megacondomini per la popolazione cinese immigrata, sempre più preponderante, con il centro storico e sacro della capitale sempre più piccolo, circoscritto e pressoché assediato dalla nuova città cinese; abbiamo visto il Pothala, una delle grandi meraviglie del pianeta, l’antica residenza del Dalai Lama, trasformata in una specie di attrazione turistica per i turisti cinesi, con bar, ristoranti, enoteca, ma con il divieto per i tibetani di poterne visitare più del 50%, ovvero tutte le stanze più sacre e con le divinità più rappresentative; il tutto con la ciliegina sulla torta della bandiera cinese che troneggia sui tetti dell’edificio. Abbiamo visto i monasteri, quasi tutti distrutti da MaoTseTung e dai suoi successori, ricostruiti per permettere ai visitatori occidentali di visitarli, ma sotto un controllo strettissimo delle Guardie Rosse, con i monaci ed i loro superiori totalmente soggiogati all’autorità cinese. Abbiamo visto al monastero di Rongbuk, a 5000 metri al cospetto dell’Everest, una camionetta della Polizia sbarrare con soldati armati la prosecuzione del cammino verso il campo base nord dell’Everest, percorribile solo da chi ha il visto di 6000 euro per la scalata in vetta, rimanendo con il rimpianto di non vedere una località di grande valore simbolico per gli appassionati di montagna e di alpinismo.

Ma abbiamo visto anche molto altro: gli altipiani aridi, desolati, semi-desertici, battuti incessantemente dal vento, pervasi da un’atmosfera quasi surreale dove sensazioni fisiche e psichiche si alternavano e mescolavano, ora prevalendo la fatica cronica della respirazione a causa dell’ipossia, ora l’eco non reale, quasi allucinatorio, di tutte le preghiere buddiste lanciate nell’aria dalle bandierine e dai cilindri di preghiera dei pellegrini incontrati per strada. Abbiamo visto mandrie di yak ed i cow-boy tibetani, con i loro cappelli a tese larghe identici a quelli dei cow-boy texani, altrettanto bravi come i loro omologhi dei film western. Abbiamo visto cieli e montagne dai colori psichedelici, senza il filtro dell’atmosfera delle quote basse, abbiamo visto vestigia e rovine monumentali di antichi reami religiosi e militari, nel lontano e ancora adesso poco accessibile “far west” tibetano, al confine con il Ladakh indiano. Abbiamo visto cime da 7000 e 8000 metri, quelle famosissime e quelle sconosciute e forse anche senza nome, perlomeno finché non gliene danno uno gli alpinisti occidentali o cinesi. Abbiamo sentito raccontare dalla nostra guida quanto gli piacerebbe uscire dal Tibet, venire in Europa sulle nostre alpi, ma di non poterlo fare perché il governo cinese non concede il passaporto ai tibetani fino al compimento del 60° anno di età. Abbiamo incontrato pochi viaggiatori europei coi quali si è subito creata quella affinità e familiarità fatta di racconti di viaggio di posti lontani, esotici e quasi immaginari se non nella realtà di chi li ha visitati.

Abbiamo camminato alle pendici del monte Kailash, la montagna sacra di quattro religioni: buddismo, induismo, giainismo e Bon, la montagna nei cui paraggi, ai quattro punti cardinali, nascono quattro dei più grandi fiumi dell’Asia: il Bramaputra, il Gange, la Sutley ed il Karnali. Abbiamo visto i pellegrini buddisti percorrere il periplo completo della montagna secondo il rigoroso rituale della prostrazione, che prevede tre passi in piedi e poi di inginocchiarsi e prostrarsi completamente faccia braccia e tronco per terra, per poi rialzarsi: tutto questo per cinquantadue km, da 4500 a 5700m di altitudine, in un tempo variabile dai 10 ai 15 giorni. Per arrivare al punto culminante di tutto il pellegrinaggio, il passo di Drolma, a 5650m, dove si entra in nuova vita lasciandosi alle spalle la precedente. Abbiamo ammirato il versante nord-ovest dell’Everest, quello dei mitici primi tentativi di salita da parte di George Mallory e dei suoi coraggiosi ed incoscienti compagni, vestiti, nel 1922 e 24, come in una scampagnata sulle montagne scozzesi, con giacche di gabardine, pantaloni alla zuava di fustagno con giri di bende attorno alle gambe per isolarle dal freddo, e con giri di sciarpa di lana grezza intorno al collo e alla testa: riuscendo, in queste condizioni e con bombole di ossigeno non funzionanti, se non del tutto privi di queste, ad arrivare fino a 8600 metri e forse, ma questo non lo si saprà mai, addirittura in vetta senza più tornarne vivi. Siamo arrivati, su una strada con un manto di asfalto liscio come un circuito di Formula 1, fino a 5300 metri davanti allo Shishapangma, l’unico 8000 in territorio completamente tibetano, meta affascinante per noi alpinisti in quanto di relativa difficoltà tecnica ed ambientale, salvo il permesso da richiedere al governo cinese.

Abbiamo bevuto fiumi di the, mangiato monotoni piatti di noodles con verdure cotte al vapore ed insipide se non con l’aggiunta di salse piccantissime, abbiamo avuto i piatti inondati da quintali di riso servito come companatico universale per ogni portata si richiedesse. Abbiamo ascoltato e meccanicamente recitato anche noi i mantra buddisti, “Om mane padme hum” che diventava un ritornello che ci girava ormai inconsciamente nelle circonvoluzioni sottocorticali.

Questo e molto altro, che ogni tanto affiora dai ricordi e nei dettagli delle immagini portate a casa.

Prima di arrivare in Tibet abbiamo fatto scalo a Chengdu, la sesta metropoli più grande della Cina con oltre cinque milioni di abitanti, dove si percepisce la dimensione dei problemi ambientali della nazione: inquinamento e smog a livelli altissimi, tutta la popolazione che indossa mascherine sul volto per proteggersi dalle polveri, un esercito di moto elettriche prodotte e vendute a prezzi accessibili per limitare l’uso dei carburanti; grandi problemi e grandi tentativi per risolverli: una caratteristica peculiare di questa nazione. Volevamo fermarci una notte a Chengdu perché, a 10 chilometri dalla città, volevamo visitare il centro per le ricerche e per la protezione dei panda giganti: un’oasi di natura ai limiti della megalopoli ove vivono, sono monitorati e accuditi circa 200 esemplari di questi cugini degli orsi, a grave rischio di estinzione. Non è uno zoo cittadino né uno zoo-safari, è un’area naturale protetta e recintata con grandi spazi per gli animali e la possibilità per i milioni di visitatori che entrano ogni anno di osservarli da vicino. Sono animali straordinari che passano il loro tempo a dormire, giocare e mangiare enormi quantità di canne di bambù. Anche questo un esempio di cosa possono fare i cinesi se mettono la loro tecnologia al servizio di obiettivi virtuosi.

Al rientro in Nepal via terra, dopo la terribile stradaccia di centotrenta chilometri dal confine col Tibet, il consueto caos di Kathmandu, come sempre bellissima, straziante per la povertà, l’inquinamento, i postumi del terremoto seppur con molte opere di ricostruzione avviate, la baraonda infernale di mezzi motorizzati di ogni tipo e la solita umanità che vive per strada ad ogni ora del giorno e della notte. Una città rivisitata per la settima volta con la stessa identica passione e lo stupore sempre immutato. Una città che si ama o si odia ma non lascia mai indifferenti, che può essere vissuta e interpretata a seconda dei momenti in chiave artistica, spirituale, sportiva essendo il centro nevralgico per i trekking e l’alpinismo di altissima quota; una città dove ci si sente a casa e dove ti capita di uscire dall’albergo e dopo pochi minuti ritrovarti fianco a fianco a bere un caffè con un grande alpinista, a salutare una guida con cui hai viaggiato anni addietro, a mangiare una pizza e bere innumerevoli birre fino a notte fonda con un italiano che vive e lavora in Nepal da oltre trent’anni e ti racconta aneddoti e storie incredibili ma vere di quanto successo in tutto questo tempo; dove ti sembra ancora di respirare ciò che rimane dei fiumi di marijuana consumati dagli hippies degli anni sessanta e settanta in cerca di risposte a domande che probabilmente non si erano mai nemmeno posti o che nel frattempo si erano già dimenticati. Una città dove ti senti libero e al di fuori dal tempo e dallo spazio nei quali si vive a casa nostra, insoddisfatti e alla continua ricerca utopistica di una alternativa. Una città dove puoi anche darti da fare per aiutare altra gente, come facciamo noi da quattro anni con la nostra attività di volontariato. E questo sarà un ottimo spunto per i prossimi racconti.

Tibet, Nepal, maggio 2018

Eventi

di Paolo Repetto, 17 settembre 2019

Non si devon mai scambiare
gamberetti con zanzare.
(proverbio africano)

Penso che anche questa meriti d’essere raccontata.

Da qualche anno, verso la fine dell’estate, partecipo ad una passeggiata notturna di otto o dieci chilometri che si svolge nelle campagne attorno a San Salvatore, ogni volta su sentieri diversi. La cosa è organizzata dalla biblioteca e da un gruppo di lettura e ciascuna edizione è intitolata ad un qualche percorso letterario: ma si tratta chiaramente solo di un pretesto, direi piuttosto efficace in termini di richiamo, visto che sino ad oggi la partecipazione è andata crescendo, per dare un certo tono alla faccenda. Il tutto è comunque giocato in maniera molto soft, senza alcuna pretenziosità, e le pause dedicate alla lettura o alla recitazione, affidate a umilissimi volontari (per qualche anno, quando ero a Valenza, anche a studenti del mio istituto) sembrano finalizzate soprattutto a ricompattare il gruppo, che durante la passeggiata tende naturalmente a sfilacciarsi. Per il resto, c’è il piacere di rivedere vecchi amici e conoscenti, di riallacciare contatti e di guadagnare il rinfresco finale, offerto da volonterose massaie indigene.

Tutto ciò ha funzionato egregiamente sino a quest’anno, sino a quando cioè qualcuno degli organizzatori ha pensato fosse giunto il momento del salto di qualità, di adeguarsi all’andazzo generale e di mettere alla guida della passeggiata un vip della cultura o dello spettacolo. Non ha tardato a trovarlo, perché ultimamente i vip, come un tempo i populisti russi, hanno scelto di portare la cultura al popolo e si esibiscono anche nelle sagre paesane e nelle feste patronali: o forse perché la concorrenza è ormai tale che devono esibirsi (naturalmente a cachet) dove trovano. Sia come sia, all’arrivo a San Salvatore scopro che nostro mentore sarà quest’anno Giuseppe Cederna, attore cinematografico (Mediterraneo), teatrale e televisivo, e anche scrittore (Il grande viaggio), nonché figlio di Antonio Cederna (fondatore di Italia Nostra) e nipote di Camilla Cederna, che non occorre spieghi chi fosse.

Ora, Cederna jr è una sorta di Terzani in sedicesimo, è stato in India, ha visto non la madonna ma la Trimurti, fa lunghe pause di meditazione in un ashram alternate a cicli di analisi, frequenta probabilmente i circoli lacaniani in Francia: insomma, ha tutte le caratteristiche che mi inducono, anche quando si presentano singolarmente, a stare alla larga dai soggetti portatori. Ma tanto valeva, ormai ero lì, ero con amici, avevo intravvisto il buffet e mi era parso eccezionalmente sostanzioso: mi sono dunque avviato, procurando di starmene almeno trecento metri indietro, in modo da non sorbirmi le pause di riflessione.

Invece sentite come è andata. Lo schema è stato quello di una via crucis, ma una via crucis vissuta dall’interno, nel ruolo del protagonista principale, da tutti i partecipanti. Come è sparito il crepuscolo, quando ancora non eravamo a metà del percorso, si è scatenato un attacco di zanzare mai visto. Sembrava un film di Hitchcock, una punizione divina, l’ottava piaga d’Egitto. Io stesso, che in genere non vengo punto (dicono che ho sangue cattivo) e che comunque tollero abbastanza tranquillamente le punture, non sapevo più a che santo votarmi. Immaginate dunque la scena: centocinquanta persone (il nome di richiamo aveva funzionato), al buio, in mezzo alla campagna, che si agitano come forsennate, bestemmiano, piangono, si asfaltano inutilmente di Autan, indossano felpe col cappuccio (la temperatura era ancora sui trenta gradi), ma non c’è felpa che tenga, e allora cercano di affumicarsi e rischiano di mandare a fuoco tutto il Monferrato accendendo le stoppie del grano: e in mezzo Cederna che, essendo stato pagato, e per non rischiare che il tutto vada a monte e salti il rimborso, pretende di fare le pause, mentre le zanzare lo mangiano vivo, e che tutti siedano a cerchio attorno a lui, su balle di paglia disposte ad anfiteatro in mezzo a un campo, per ascoltare le poesie della Szymborska o le parole di Pia Pera (tra l’altro introdotte con “è una poetessa che probabilmente non conoscete”, “è una scrittrice che senz’altro vi è ignota” e altre presuntuose stronzate del genere). E nemmeno le legge o le recita bene, quelle poesie: ma questo si può capire, credo che le zanzare l’abbiano punto persino nella trachea e nell’esofago. Ma c’è di più: aggiunge il commento suo, racconta la sua vita, la sua depressione di uomo che ha conosciuto il successo e pensava di non poterne più fare a meno, e che poi ne è uscito perché, complice l’India, ha scoperto la semplicità della natura. Non la sto esagerando: quasi mezz’ora di sbrodolamenti di questo tipo, nel pieno dell’attacco zanzaresco (le zanzare sono molto sensibili alle sbrodolate: mi sto convincendo che quell’aggressione non sia stata casuale). E poi, quando il bombardamento è diventato meno intenso, e noi pellegrini tutti tumefatti abbiamo velocemente guadagnato il ristoro, qualcuno per la fretta anche sbagliando strada e trovandosi a vagare al buio nei campi, ha aggiunto che quell’aggressione di violenza inusitata era stato in fondo un modo per metterci alla prova, per ricordarci che la natura è varia, e va colta positivamente in ogni suo aspetto. Lo ha detto mentre stavo facendomi largo nella ressa con due piatti e un bicchiere di plastica in mano, altrimenti lo avrei sotterrato.

Dunque: io nella natura ci sono nato, l’ho goduta e l’ho sofferta, e da quando avevo dieci anni ho anche lottato per addomesticarla, e mi sento raccontare da uno che non distinguerebbe un salice da un palo del telefono come devo approcciarla, e quanto sono felici coloro che hanno lasciato il posto da dirigente ministeriale o d’azienda per allevare pecore o coltivare zafferano. Sono cresciuto in una famiglia che non poteva permettersi la spesa di un gelato o di una gassosa, e devo sentirmi spiegare cos’è il proletariato e come si fa la lotta di classe da figli di papà stressati dal successo o dai soldi. O ascoltare gente che, a gettone, vuole convincermi di quanto sia importante superare l’attuale logica del profitto e opporsi alla mercificazione della cultura. Ne ho davvero sin sopra i capelli. Non ce l’ho con Cederna in particolare, è solo uno dei tanti che ultimamente percorrono le ville e i contadi, i festival filosofico-letterari e quelli scientifici, per dispensare anche ai poveri di spirito pillole del loro sapere. Non sopporto più questi marchettari ipocriti, ma non avendo né il tempo né la voglia di arrabbiarmi faccio l’unica cosa sensata che mi resti: li evito.

Il giorno seguente, un sabato sera, avevo a cena un piccolo gruppo di amici. Nessun discorso troppo impegnato, abbiamo parlato di sciocchezze o affrontato in maniera irriverente gli argomenti seri. Abbiamo fatto fuori quasi un chilo di trofie al pesto (sono l’unica mia specialità, trovo ottime quelle di Barilla). Quando ci siamo congedati uno di loro, uno nuovo del giro, mi ha detto: mi spiaceva un po’ perdere Cardini (Franco Cardini si esibiva quella sera in una lectio magistralis nella suggestiva atmosfera del castello di Casaleggio, a un paio di chilometri di distanza), ma ora ti garantisco che non lo rimpiango affatto. Non so se per via delle trofie, o del clima assieme acceso e rilassato nel quale si era discusso, ma credo che anche lui, come e più di Cederna, abbia visto la via della salvezza. E senza andare sino in India.


 

Darwin e la Via del camminare

di Marco Moraschi, 5 febbraio 2019

Nel 1836, tornato da 5 anni e mezzo di viaggio sulla nave Beagle, passati a osservare la storia naturale del Sudamerica e del Pacifico, Charles Darwin si trasferì in una casa nel centro di Londra, in una posizione certamente favorevole allo scambio di idee con il mondo scientifico dell’epoca. Dopo 6 anni, però, nel 1842, con la moglie Emma, si rifugiò in una tranquilla casa nella campagna inglese, pur rimanendo abbastanza vicino a Londra per essere accessibile agli amici e avere notizie sugli ultimi studi e ricerche. Il suo intento era quello di mettere su famiglia e sfuggire alle distrazioni cittadine. Nella villa vive ancora oggi uno dei discendenti del grande scienziato, che si occupa di curare la casa e la proprietà intorno. È grande e bianca, con un ampio giardino che si estende nel parco e poi nella campagna circostante, occupando uno spazio di oltre sette ettari. Darwin aveva acquisito il terreno da un vicino, ci aveva piantato noccioli, betulle, cornioli, carpini e altri alberi e aveva creato un sentiero di terra battuta per camminare nella sua proprietà, un viale alberato che gira tutto intorno alla “Down House”.

Quasi ogni giorno, Darwin percorreva questo viale, il “Sandwalk”, pensando ai non pochi problemi che la formulazione della teoria dell’evoluzione certamente gli poneva. Il suo metodo era questo: appena aveva un’idea, iniziava a sottoporla a tutte le possibili obiezioni finché non ne trovava tutte le spiegazioni e la poteva considerare a prova di confutazione. A ogni giro del Sandwalk, spostava un ciottolo del sentiero sul bordo della strada. Quando aveva risolto il problema, guardava quanti ciottoli aveva accumulato, quindi quanti giri aveva fatto pensando alla soluzione. In questo modo catalogava l’importanza e la difficoltà dei problemi che andava affrontando e risolvendo. Per quasi quarant’anni, Darwin percorse questo sentiero di circa quattrocento metri in lungo e in largo, meditando sulle proprie idee, in uno dei periodi più fruttuosi della sua vita.

Sul lato nord della proprietà aveva fatto costruire un muro di cinta alto circa tre metri, sollevando il terreno, piantando nuovi alberi e abbassando la strada che correva intorno alla casa, realizzando un altro muro con le pietre estratte durante i lavori.
L’obiettivo era quello di non subire interruzioni imprevedibili, evitando i pettegolezzi e le distrazioni della mondanità per avere un posto tranquillo dove dare forma ai propri pensieri. Nella sua villa apportò con il tempo anche altre modifiche, costruendo una serra e dedicando parte del giardino alle sue ricerche, osservando l’ecologia locale e notando cose interessanti che, a suo dire, gli altri finivano per perdersi. Down House divenne quindi la sua stazione scientifica personale, ma anche un luogo in cui amplificare la propria mente e ritrovare la concentrazione.
Secondo i biografi del noto scienziato, gli anni trascorsi alla Down House sono stati fondamentali tanto quanto quelli trascorsi in giro per il mondo sul Beagle.

Quando altri amici o scienziati lo andavano a trovare, chiacchieravano percorrendo a piedi il Sandwalk, a ulteriore dimostrazione della connessione che c’è tra camminare e pensare. In Darwin così come in molti altri pensatori, scienziati e personaggi illustri, la camminata assume un ruolo fondamentale per la riflessione e la creatività. Camminare stimola il pensiero, offrendo uno stacco dalle attività che richiedono grande concentrazione, pur senza distrarre del tutto la mente, ma offrendole anzi uno spiraglio per rimettersi a fuoco. Nelle passeggiate che Darwin faceva sin da bambino, egli ha probabilmente trovato forza e conforto, riuscendo a instaurare una connessione permanente tra cammino e contemplazione. Accumulando ciottoli a lato del sentiero a ogni nuovo giro, camminare diventava quindi un modo non solo per tenere traccia della complessità di un problema, ma per avanzare fisicamente a piedi verso la sua risoluzione.

Dal Sandwalk ai boschi di Thoreau, l’esigenza di uno spazio contemplativo semplice e contrastante, accessibile, ma distante dalla comodità della stagnazione, crea uno stato in cui azione e contemplazione non si escludono mutuamente, ma si uniscono in una dolce sinfonia.
La prossima volta che vi sentite stanchi o faticate a concentrarvi, anziché bere l’ennesimo caffè nella speranza di curare la mente svuotata, uscite a camminare. Se imparerete a farlo ogni giorno, scegliendo con attenzione lo spazio in cui immergervi, occupando la mente cosciente e lasciando il vostro inconscio libero di vagare senza sforzo, avrete trovato anche voi l’unica vera Via che l’umanità abbia mai conosciuto.

Link:
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Sull’argine

Meditazioni di un passeggiatore solitario

Paolo Repetto, 13 gennaio 2019

Nulla è più indicato per una buona “seduta” di autoanalisi di una camminata sugli argini tra Tanaro e Bormida. Tranne che in giornate di eccezionale nitidezza (ce ne sono due o tre in un inverno, quest’anno qualcuna in più), nelle quali si scorgono a nord-ovest le Alpi, dal Monviso al Rosa, il paesaggio è di un piattume tale da non invogliare alcuna distrazione. I campi sterminati della parte interna cambiano colore due volte l’anno, in occasione delle arature autunnali e primaverili, per il resto offrono infinite repliche dello stesso spettacolo, frumento e mais, mais e frumento. I fiumi, se non sono in piena, sussurrano appena dietro la cortina di piante cresciute lungo le sponde. La cosa più emozionante che può capitare in un paio d’ore di passeggiata è un leprotto che attraversa il sentiero. Quindi, se non si è di quelli che contano i passi o monitorano costantemente le pulsazioni, non resta che pensare.
È quello che mi accingo a fare anche oggi (Cartesio non sarebbe d’accordo. Sosteneva che si medita bene solo seduti).

I primi passi li dedico a trovare il ritmo giusto, a mettere d’accordo il cervello con i piedi. La sincronia dovrebbe essere automatica, e probabilmente lo è per molti, ma non per me. Forse ho un carico eccessivo di memoria per i ritmi, come del resto per tutte le altre cose, e il cervello non accetta ancora la sacrosanta ritrosia delle gambe: sta di fatto che ogni volta mi interrogo sulla falcata e sulla velocità da tenere. Non essendo attrezzato di contapassi o rilevatori della velocità, della distanza e della frequenza cardiaca, non manco di dare un’occhiata all’orologio, per avere un’idea almeno approssimativa del tempo che impiegherò. Dovrebbe consentirmi di fare dei confronti, di tenermi in qualche modo sotto controllo, perché il percorso rimane sempre lo stesso (non potrebbe essere altrimenti: l’unica alternativa è percorrere l’anello in senso inverso, o ripeterlo). In realtà ogni volta dimentico di verificare il tempo alla fine, oppure ho scordato quelli delle performances precedenti, per cui il confronto va a farsi benedire. E forse è meglio così.
Il problema del ritmo si risolve comunque da solo appena comincio a scartare con la testa dalla linea retta del sentiero. In genere arrivo sugli argini cinque minuti dopo aver staccato gli occhi dal monitor del computer o da un libro, e mi viene naturale richiamare subito alla memoria le pagine appena lette, per rifletterci su, o quelle appena scritte per revisionarle mentalmente. Dopo trenta secondi non ho più idea di velocità e di frequenze. Quello del ritmo non è però un problema banale. Ogni camminatore ha il suo, e questo spiega perché la preferenza vada di norma alle passeggiate solitarie. È difficile trovare la giusta misura tra due camminate diverse, e conviene muoversi in compagnia solo quando il piacere che ci attendiamo da quest’ultima è superiore a quello offerto dal semplice macinare della strada (cioè raramente). Un tempo ero molto insofferente nei confronti di chi mi costringeva a rallentare e mi imponeva così una fatica doppia. In più di una occasione credo di essermi comportato da vero cafone. Poi ho fatto di necessità virtù, quando ho cominciato ad avere qualche difficoltà a tenere il ritmo degli altri e a capire come dovevano sentirsi coloro che ricattavo con i miei sbuffi e e con l’impazienza ostentata nelle soste. Adesso posso dire di aver trovato il ritmo universale, quello che si accorda immediatamente al passo altrui e trae piacere dalla compagnia e dalla conversazione. Cosa che comunque non avviene sugli argini. Qui vengo per rimanere solo. E per pensare.
Appena sento la ghiaia sotto i piedi la mente entra in ebollizione. Salta tutt’attorno come un cane liberato in un prato. In un ambiente così aperto è impossibile concentrarsi su un solo oggetto, sia pure mentale. Anche in assenza di distrazioni esterne il pensiero tende a scappare da ogni parte, e quando provi a richiamarlo si ferma per un istante, ma poi riparte per i fatti suoi. In questo momento, mentre ne scrivo a posteriori, mi riesce difficile trovare un filo che tenga assieme tutto quello che mi è passato per il cervello nel pomeriggio, e probabilmente quel filo nemmeno c’è, o è tanto sottile da apparire giustamente invisibile. Ricostruirò a braccio quella che mi sembra essere stata oggi la successione: ma è chiaro che l’ordine può non essere stato rispettato. Riassumo dunque il tutto in tre o quattro meditazioni.

  1. 1a meditazione. Riguarda la montagna di impegni che ho assunto ultimamente e alla quale non riesco a stare dietro. Sulla precedenza di questo pensiero non ho dubbi, perché me lo porto sempre dietro, fa ormai da sfondo sul desktop della mia mente. Mi accade per gli impegni lo stesso che per i viaggi. Appena ne assumo uno cominciano i dubbi: sarò all’altezza, avrò tempo, ma soprattutto, ne avevo davvero così voglia? Di positivo c’è che tendo a mantenerli (così come i viaggi finivo per farli), sono uno di quelli che ancora credono alla sacralità della parola data: di negativo c’è invece che essendo un entusiasta (anche se non si direbbe) continuo ad assumerne altri, e quindi sono in costante affanno per tener dietro a tutti.
    La cosa davvero importante, quella su cui mi trovo a meditare oggi, è che comunque questi impegni mi costringono ad approfondire ciò che altrimenti affronterei con eccessiva superficialità, perdendomi tutte le sorprese e i retroscena che balzano fuori appena vai a scavare un po’ più sotto. Col risultato che quasi sempre un argomento o un problema toccato su sollecitazione altrui prende una strada tutta sua, che con l’impegno originario ha più ben poco a che vedere. Il processo è naturalmente caotico, perché i rimandi si inseguono vertiginosamente, e alla fine nemmeno ricordo più da dove ero partito e come sono arrivato a percorrere certe strade: ma non fa nulla, al caos sono abituato, ne ho anzi bisogno, per dar sfogo alla mia sindrome del dio ordinatore. Comunque, tanto per scendere nel concreto: in questo preciso istante (quello in cui pensavo sull’argine ma anche questo in cui trascrivo) ho attive cinque o sei linee principali, sulle quali viaggiano i seguenti progetti:
    a) una certa idea d’Europa, da proporre ai ragazzi delle ultime classi delle superiori. Si avvicina la scadenza delle elezioni europee e di questo passo rischiamo di mandare a Bruxelles gente ancora più idiota di quella che abbiamo eletta sinora, che farà affondare definitivamente la barca. Questi incontri non hanno finalità politica, non vogliono fornire indicazioni di voto, ma almeno risvegliare un po’ di interesse e di curiosità per l’antico progetto continentale in una generazione che dà tutto per scontato, e quindi conosce ben poco
    b) la lettera aperta (mai spedita) a Cacciari. Doveva essere la bozza di una piattaforma comune da sottoporre ai circoli europeisti, per evitare di muoverci come al solito in ordine sparso. Per come siamo messi ho la sgradevole impressione che non si arriverà a nulla, lo spettacolo offerto dalla sinistra, che dovrebbe promuovere lo spirito europeista, è nauseante: ma a questo punto mi piacerebbe trasformare la bozza in un vero e proprio programma, a mia personalissima edificazione
    c) la raccolta degli scritti di Camilla e di Marcello (ma forse anche di altri) per la rivista “Settanta”. Una cosa da farsi bene, perché è in linea col mio recente interesse per Chiaromonte, Caffi e la sinistra libertaria tra le due guerre e nell’ultimo dopoguerra, e apre a un discorso più ampio su ciò che è stato rimosso dall’ establishment culturale italiano dell’ultimo mezzo secolo
    d) L’ennesima ristrutturazione del sito dei Viandanti, con apertura di un paio di nuove finestre. Una potrebbe essere intitolata ai Maestri, e ospitare appunto materiali sparsi e difficili da reperire degli e sugli intellettuali libertari. Si comincia naturalmente con Caffi, che scopro ogni giorno di più essere totalmente sconosciuto
    e) La catalogazione di un settore della mia biblioteca, quello dei libri di viaggio. È imposta dal numero sempre più alto di doppioni che mi sto portando a casa dai mercatini (nel dubbio, prendo tutto), ma anche dalla necessità di avere almeno una sezione, quella percentualmente più ricca, consultabile con un po’ d’ordine

2a meditazione. Ci arrivo dopo aver percorso il cavalcavia che supera la tangenziale. Lì sotto i camion e le auto sfrecciano come fossero tallonati dalla polizia, davanti ho la grande distesa che spazia sino a Tanaro e al lungo viadotto autostradale. Quest’ultimo per un attimo mi ricorda l’acquedotto romano di Cesarea: viene istintivo considerare che quello è ancora là oggi, dopo duemila anni, mentre le autostrade già stanno cadendo a pezzi. Non siamo nemmeno nani sulle spalle dei giganti. Siamo solo forfora.
Da tempo lavoro su autori e opere e vicende concentrati nei due periodi di maggior fervore culturale del ‘900: quello tra le due guerre, gli anni venti-trenta, e quello tra due rivoluzioni, la studentesca degli anni sessanta e quella informatica di fine anni settanta. È lì che mi portano i miei interessi, ma ho l’impressione che non sia solo questo. Rileggendo Il mondo di ieri, di Zweig, ho cominciato a rivedere la mia convinzione di aver vissuto il momento migliore di tutta la storia della civiltà occidentale. Forse di questo momento rimarrà ben poco, come delle autostrade.

3a meditazione. Catalogazione mentale dei volumi recentemente acquisiti. Lungo il rettilineo che mena a Bormida provo a riordinare mentalmente gli innumerevoli libri entrati in casa nel periodo natalizio (un’esagerazione!), ai quali ora devo trovare una sistemazione degna. Parte immediato un progetto per la costruzione di due nuovi scaffali, che potrei affiancare alla ribaltina in corridoio. Il passaggio è stretto, ma per fortuna nessuno in famiglia è ancora così voluminoso da incontrare problemi. Gli scaffali saranno visibili anche di fianco, quindi esigono una lavorazione particolarmente accurata. Visualizzo il risultato e comincio a fare calcoli a mente (è la mia unica abilità matematica). Per rimanere in linea con le cornici delle porte non posso superare i due metri e venti, il che significa otto ripiani utili per scaffale. In totale, potrebbe ospitare tra i seicento e i seicentocinquanta volumi. Mi pongo anche il problema di quali libri metterci. Trattandosi di un punto di passaggio, devo mettere solo libri che non ho bisogno di tenere in vista quando lavoro. Propendo per la narrativa, quella contemporanea e quella di genere: classici del poliziesco e del noir, fantascienza, umoristi, ecc …

4a meditazione. Stamane la prima notizia del primo telegiornale della prima mattinata era: Rabbia e paura a Catania. Scossa di 4,2 punti della scala Mercalli. Cavolo, pensi, sono talmente impegnati ad arrabbiarsi che la paura passa in secondo piano. Ero curioso di sapere perché la rabbia, e poi ho capito. Lamentavano di non essere stati avvertiti in tempo dalla protezione civile. Ma, uno si chiede, avvertiti di che? le scosse andavano avanti da quattro giorni: nessuno se n’era accorto? Sulle prime viene da pensare che sia la stessa solfa del meteo: per sapere se piove o meno non ci si affaccia più alla finestra, ma si attendono le previsioni in tivù, o si consultano quelle sullo smartphone. Poi però si un pensiero maligno: non è che qualunque cosa accada, smottamenti, alluvioni nevicate, eruzioni, “convenga” immediatamente arrabbiarsi, per identificare dei responsabili e cavarci magari un po’ di rimborsi? Erano arrabbiati anche gli investitori delle banche venete, che avevano comprato titoli a rischio per lucrare qualche punto in più di interessi: invece di essere presi a calci nel sedere saranno rimborsati. Sono arrabbiati i tifosi di calcio, perché la polizia invece di lasciare che si scannino tra di loro, e abbattere poi i superstiti, tenta di separarli. Schiumano di rabbia i commercianti e i professionisti che devono emettere fatturazione elettronica, perché si pretende che imparino le quattro operazioni necessarie (a detta di un amico che la esegue da anni, una competenza da seconda elementare), ma soprattutto che la fattura la emettano. Rabbia ovunque, a comando, insensata o, peggio, interessata. Devo effettuare un cambio di corsia mentale, altrimenti mi arrabbio anch’io. Per fortuna da dietro arriva a distrarmi un ”salve!”

5a meditazione. Gli incontri. In giornate come questa, decisamente fredda malgrado un sole pallido, nel corso della passeggiata si possono incontrare una decina di persone. In primavera il numero cresce di cinque o sei volte. Alcuni sono degli habitués, e dopo un po’ si scambiano anche rapidi segni di saluto. Ma in genere non si va oltre. La volta che mi sono lasciato agganciare da un tizio che andava nella mia stessa direzione, e che sulle prime era parso simpatico, ho dovuto poi inventarmi la più improbabile delle deviazioni per filarmela. I camminanti rientrano in svariate tipologie, ma sono equamente ripartiti per genere, un po’ meno per classi di età. La media di quest’ultima è piuttosto alta – ma questo dipende forse dal mio orario abituale, che per i non pensionati e i non disoccupati è lavorativo. La maggior parte sembra mossa da ragioni salutistiche, mantiene una camminata da allenamento, alcuni corrono; c’è anche qualcuno che la prende più bassa, ma ad essere sincero nessuno mi pare davvero del tutto rilassato. Vien da chiedermi come appaio io ai loro occhi.
Ho inquadrato alcuni personaggi. Una signora matura ma molto giovanile è la “donna elettrica”. Fila veloce come una spia, sempre con la testa bassa e una frequenza di passo impressionante. Capita di incrociarla anche più volte, perché nel tempo che impiego per un percorso completo lei ne macina almeno uno e mezzo. Dopo un anno di incontri ho cominciato a salutarla, mi riusciva strano e paradossale questo ripetuto sfiorarci senza guardarci in faccia, una consuetudine che non si traduceva in conoscenza. Adesso risponde, anzi, saluta lei per prima, ma non siamo andati oltre. Del resto, dove?
Un signore anziano (insomma, certamente più anziano di me) si fa tutti gli argini di corsa, e viaggia piegato su un fianco come gli atleti della maratona quando sono completamente scoppiati. Sembra sul punto di esalare l’ultimo respiro, ma risponde al saluto con voce squillante e senza affanno. Non mi sembra patetico, anzi, lo invidio persino un po’, perché immagino corra per puro piacere.
Una ragazza molto giovane e piuttosto in carne è entrata a far parte nell’ultimo anno degli assidui. Penso abbia iniziato per i soliti motivi di linea, e che poi, anche quando si è accorta che su quel fronte i risultati erano scarsi, abbia scoperto il fascino discreto e fine a se stesso del camminare. È simpatica, quando saluta ha un sorriso sincero, sembra orgogliosa di appartenere ormai al club.
La rassegna potrebbe ancora andare avanti a lungo. Ce n’è per tutti i gusti, e straordinariamente non una sola impressione negativa. Forse per far funzionare bene una società bisognerebbe ridurre al minimo i contatti: nessuno, nei tempi ridottissimi di un incontro itinerante, riesce a dare il peggio di sé.

A questo punto comincio a desiderare una sigaretta: segno che la fase propulsiva e propositiva è esaurita, adesso si va avanti per inerzia. Quando torno in vista del cavalcavia accelero. Non è un soprassalto di tentazione del rush finale, ma la fretta di arrivare per trascrivere quel poco che mi è rimasto in testa. È impossibile fermare i pensieri. Se i pensieri avessero una consistenza fisica i bordi del sentiero sarebbero un’ininterrotta discarica, come quelli delle strade meridionali o la luna sulla quale atterra Astolfo. A quanto racconta lui stesso, Nietzsche ogni tanto si fermava e raccoglieva la produzione ambulante su un taccuino, o la dettava a un suo accompagnatore. Ma mi sembra una cosa poco naturale. C’è il rischio di forzarsi a pensare solo per poter trascrivere
Riesco invece adesso, mentre scrivo tranquillamente seduto a tavolino, a ripescare anche alcune immagini che mi sono transitate rapidissime per la mente, tra una meditazione e l’altra: la marcia su Roma (compatibile forse con un cambiamento di ritmo), una ragazza conosciuta tantissimi anni fa (questa per nulla compatibile, perché ne ho un ricordo molto statico), due messaggi cui non ho ancora risposto e uno cui avrei fatto meglio a non rispondere, un simpaticissimo white terrier (white piuttosto sporco) randagio, incontrato ieri, che si muoveva come fosse il padrone di Saluzzo. Un’icona del perfetto anarchico. Forse solo certi cani riescono ad essere dei perfetti anarchici.
Non so naturalmente da dove arrivassero queste immagini, e nemmeno provo a capirlo. È meglio così, rimane tutto più genuino. La passeggiata mi ha trasmesso un senso di sicurezza e di continuità. A meno di un’alluvione eccezionale, troverò gli argini per tutti gli anni in cui sarò ancora in grado di camminare e di pensare. Il club dei camminatori degli argini esiste davvero, forse dovrei superare l’obiezione di coscienza e iscrivermi.

Per giustificare queste divagazioni a ruota libera ho parlato in apertura di autoanalisi. Adesso, a freddo, realizzo che da un resoconto di questo tipo è difficile ricavare qualcosa. Va bene, è chiaro che sono un po’ malato, o un po’ tanto: ma lo era anche prima. E comunque, è ciò che si capisce da quello che c’è. Forse però ciò che davvero importa si capisce meglio da quello che non c’è. Non ci sono preoccupazioni di salute, e va bene così. Non ci sono preoccupazioni sentimentali, e questo non è detto debba essere per forza positivo. Non ci sono preoccupazioni di ordine famigliare, il che può voler dire tante cose: che sono un superficiale, o molto più semplicemente che ho imparato che la vita gli altri devono viversela un po’ come meglio credono. Non ho neppure preoccupazioni finanziarie, non perché nuoti nell’oro, ma perché sono cresciuto senza dare eccessivo valore al denaro, visto che comunque non ce n’era, e anche oggi non ho sogni che il denaro possa aiutarmi a realizzare. Riesco persino a convivere pacificamente con la mia età.
Sarà l’effetto delle endorfine, ma non trovo proprio nulla di cui lamentarmi. Per cui indignarmi, invece, si. E mi accorgo di avere già pronto un tema per la prossima meditazione. Agli appelli all’indignazione arrivati negli ultimi tempi un po’ da tutte le parti, la “gente” ha risposto con la lamentazione. Ha capito quel che le faceva comodo. Occorre fare attenzione all’uso delle parole, a come possono essere interpretate e travisate. Andrebbe promossa una campagna per il silenzio, ma non oso pensare a quali cretinate mediatiche darebbe spunto.
Guardo fuori, e ho la sensazione che domani il cielo sarà ancora sereno. Se ne riparla. Ma se fa brutto, mi arrabbio.


Santa Limbania, proteggici tu

di Fabrizio Rinaldi, 24 novembre 2018, da sguardistorti 05 – 2018 Natale

La leggenda narra di una fanciulla residente nell’isola di Cipro verso la fine del dodicesimo secolo, di nome Limbania, destinata dai genitori in sposa ad un signore locale ma determinata invece a farsi monaca. La ribelle, ferma nel suo intento di donarsi a dio, chiese aiuto ad un navigante genovese in procinto di tornare in patria. Inizialmente l’uomo accettò, ma poi cambiò idea, o se ne dimenticò, e prese il mare senza la poveretta. Appena al largo la nave si fermò: nonostante ci fosse vento non proseguiva, rimaneva ferma nella risacca. Il timoniere non poté far altro che invertire la rotta, e l’imbarcazione improvvisamente tornò a muoversi, spinta da un forte vento in poppa, verso il porto da cui era partita. Lì il nocchiero trovò, attorniata da molti animali selvatici, la giovane in lacrime, che non cessava di supplicarlo di portarla via da lì. Alla fine il navigante, un po’ intimorito da tutti questi strani fenomeni, accettò di imbarcarla.

La narrazione non dice nulla del tormentato viaggio in ispirito e in carne vissuto dai rudi marinai, che dovevano condividere gli angusti spazi dello scafo con una fanciulla bella e illibata. Racconta invece di una navigazione tranquilla, almeno sino a quando, mentre già si intravvedevano i monti che fanno corona alla città ligure, la nave s’imbatté in una tempesta con onde altissime e venti che strappavano le vele, come se il mare la respingesse. Spinto dai marosi, il battello si avvicinò pericolosamente agli scogli di San Tommaso, sede di un monastero femminile benedettino, e a quel punto Limbania manifestò il desiderio di sbarcare per raggiungere le future consorelle. Miracolosamente il mare si acquietò, venne sbarcato il “prezioso” carico e la nave poté finalmente dirigersi verso un attracco sicuro.

A Cipro rimase un padre furibondo, il quale scagliò in mare la campana di casa comandandole di raggiungere la sciagurata figlia che aveva preferito votarsi a dio piuttosto che ad uno sposo e rinunciato a una cospicua – presumo – dote. La campana, “galleggiando” miracolosamente sul mare, raggiunse proprio la spiaggia vicina al monastero in cui s’era rinchiusa Limbania. Da allora venne usata durante le tempeste per calmare le acque e come richiamo per i naufraghi.

Alla novizia venne concessa una cosa oggi insolita, ma a quel tempo comune nella tradizione cristiana d’oriente: ritirarsi in una cavità sotto il monastero dove vivere nel digiuno e nella penitenza, procurandosi ferite con gli aculei di un attrezzo per cardare il lino, e dedicandosi ai naviganti e ai viandanti del vicino porto. Quando morì era già venerata come santa e le venivano attribuiti molti miracoli.

Visto che la natura ligure impone d’esser parchi in tutto e, in questo caso, esperti nella moltiplicazione non di pesci, ma di macabre reliquie, i devoti fecero a pezzi il cadavere della Santa in modo da distribuire in più luoghi le spoglie da venerare: ma, soprattutto, per poterci lucrare sopra. In particolare le monache ebbero una trovata che oggi definiremmo “dark”: esposero la sua testa alla venerazione dei fedeli, i quali intercedevano per trarne giovamento alle emicranie.

Così come la santa cipriota aveva viaggiato per mari ostili, il suo culto marciò a dorso di mulo lungo le impervie vie del sale, connettendo, anche nella devozione, il territorio ligure con le pianure alessandrine. Libania divenne la protettrice di mulattieri, carrettieri, immigrati e, in generale, dei viaggiatori per mare e per terra.

Fino a pochi decenni fa si svolgevano veri e propri pellegrinaggi di devoti di Santa Limbania che da Genova Voltri arrivavano fino alla piccola chiesa di Roccagrimalda (AL), a strapiombo sulla vallata dell’Orba, tra Ovada e Silvano d’Orba. Raffigurazioni della Santa si trovano anche a Castelletto d’Orba, Montaldeo, Lerma e a Gavi, tappe obbligate per coloro che si inerpicavano lungo le vie che, attraversando Marcarolo, arrivano al mare.

Abbiamo quindi una ragazzina che s’è dimostrata una sciagura per la famiglia e una calamità per i compagni del viaggio in mare, ma che ha affrontato le peggiori condizioni (la tempesta e il fragile scafo – oggi si direbbe un barcone) per poter emigrare verso un territorio che era lontanissimo tanto quanto appare irraggiungibile ai suoi emuli di oggi – magari non in santità, ma sicuramente nel proposito di cambiare lo stile di vita (o meglio, di non vita).

Limbania in pratica era un’immigrata clandestina che venne accolta in territorio italiano. Chissà se anche all’epoca c’erano dei Salvini a tuonare contro i forestieri che attentavano il nostro stato sociale e la nostra cultura, contro le fantomatiche organizzazioni non governative ante litteram che aiutavano (magari controvoglia, ma lo facevano) chi voleva scappare da un mondo peggiore, e contro quei cittadini che, invece di respingere gli immigrati, davano loro rifugio. Se c’erano devono aver goduto di poco seguito, poiché per secoli abbiamo accolto, sia pure con mugugni vari, coloro che arrivavano da lontano, e col tempo abbiamo saputo contaminarci reciprocamente per diventare un po’ migliori.

L’innocente fanciulla cipriota s’affidò alla protezione del suo dio per essere protetta durante il viaggio con sconosciuti scafisti che avrebbero potuto attentare alla sua illibatezza. Anche oggi tanti sventurati affidano magari ad un dio differente, ma ugualmente chiamato a proteggerli da loschi traghettatori, la cosa più sacra che hanno: la loro vita e, soprattutto, quella dei figli.

Limbania comunque alla fine del suo peregrinare trovò una comunità che seppe accoglierla, accettando anche le sue ovvie diversità culturali. Oggi stiamo vivendo invece un periodo nel quale il paradigma dell’accoglienza verso gli altri è radicalmente cambiato. Cresce sempre più il rifiuto di chi è diverso da noi e di chi lo aiuta.

L’esempio più recente è la campagna denigratoria apparsa sui social nei confronti della ragazza italiana rapita mentre in Kenya prestava il suo aiuto da volontaria. Il commento più diffuso in rete è: “cosa è andata a fare là, poteva fare le stesse cose qui, dove c’è tanto bisogno”! Ulteriore dimostrazione dello scollamento tra il diffuso sentire di una comunità stanziale (spesso claustrofobica) e il naturale bisogno di ogni viandante di ricevere ospitalità e accettazione.

L’assordante silenzio del ministro degli interni avvalora queste ingiurie, soprattutto perché arriva da chi è sempre pronto a starnazzare e ad alimentare l’odio quando degli idioti, rigorosamente stranieri, perpetrano qualche atto di violenza nei confronti dei nostri connazionali. Salvini ha sempre affermato che gli immigrati vanno aiutati a casa loro, ma quando qualcuno prova a farlo guarda altrove.

Santa Limbania rappresenta bene la ferma volontà di affrontare qualsiasi avversità e pericolo quando un percorso possa portarti a realizzare il tuo sogno: ed è questo il fine ultimo di tutti i viaggiatori, di ogni epoca e di ogni etnia. Viene allora naturale invocarla proprio oggi, mentre tanti come lei sono costretti ad affidarsi ad altri per raggiungere quella meta.

Quindi, Santa Limbania, proteggici tu!

Collezione di licheni bottone