Gli ebrei nell’Oltregiogo

La presenza ebraica nell’entroterra ligure-piemontese tra il XVI e il XVIII secolo

di Alessandro Cazzulo, 30 novembre 2016

Gli Ebrei nell'Oltregiogo copertina

Premessa metodologica

Il territorio e la sua storia

I diversi atteggiamenti legislativi nei confronti dell’ebraismo

1)     Repubblica di Genova

2)    Marchesato del Monferrato

3)    Ducato di Savoia

Gli ebrei nell’oltregiogo

1)     La presenza ebraica desunta dai documenti

2)    Significato economico e sociale

3)    Atteggiamento delle popolazioni nei confronti degli ebrei

Considerazioni conclusive

Bibliografia

Premessa metodologica

L’assunto iniziale del lavoro era quello di indagare la presenza di comunità ebraiche in un’area specifica del basso Piemonte, il cosiddetto Oltregiogo, di verificarne la consistenza, di studiarne l’impatto sulla mentalità e sull’economia, e di raffrontare le diverse politiche attuate nei loro confronti dalle amministrazioni statali che sull’area hanno avuto giurisdizione tra il XVI e il XVIII secolo. Abbiamo parlato di assunto iniziale in quanto nel corso della ricerca le caratteristiche del materiale sul quale ci siamo trovati a lavorare hanno determinato una correzione e un notevole ridimensionamento degli obiettivi. In pratica, così come si configura nella sua versione finale, l’indagine risulta più caratterizzata dall’induzione di un possibile schema interpretativo che dalla deduzione dello stesso dai fatti e dai dati costituenti la base documentaria. Nel mettere mano alla ricerca abbiamo ritenuto di prendere avvio dalla fine del XV secolo, in quanto risale a questo periodo uno straordinario afflusso di ebrei sefarditi, cacciati dalla Spagna, nei porti del Mediterraneo centrale, e in particolar modo in quello di Genova. Questo evento segna una data importante per la crescita dell’ebraismo italiano e ne cambia radicalmente sia la connotazione che la consistenza numerica. L’altro limite temporale del lavoro è invece più genericamente l’inizio del XVIII secolo, periodo nel quale avviene una semplificazione della geografia politica dell’area presa in esame, e per il quale la documentazione specifica relativa a detta area solo recentemente è diventata oggetto di indagine.

Il primo momento della ricerca è stato costituito dalla preparazione di un sostrato storico generale relativo all’epoca presa in considerazione, ulteriormente definito poi nell’analisi delle vicende specifiche che hanno interessato in tale periodo l’area di riferimento. Siamo quindi passati all’acquisizione delle conoscenze fondamentali relative alla storia dell’ebraismo italiano attraverso i testi più recenti su questo argomento, per finire poi con l’esame di tutte le pubblicazioni specifiche concernenti l’oggetto della ricerca, costituite per la maggior parte da articoli apparsi su riviste di storia locale. La collazione e l’esame comparato di questo materiale hanno consentito di costruire un primo quadro di assieme della presenza ebraica nell’Oltregiogo, quadro che ha costituito la base per l’ulteriore sviluppo della ricerca. Quest’ultima fase ha tratto alimento dalla consultazione degli Archivi di Stato di Genova, di quelli comunali di Novi e di Alessandria e di quelli diocesiani di Acqui e di Genova. A onor del vero questa consultazione ha dato pochissimi frutti, in quanto per Genova tutto il materiale reperito era già stato abbondantemente utilizzato dai ricercatori a cui ho fatto riferimento, mentre per Novi, Alessandria, ed Acqui lo stato di organizzazione e repertoriamento dei documenti è talmente confuso da rendere in pratica difficilissima la consultazione. Per quanto concerne l’Archivio di Stato di Torino abbiamo potuto valerci di una pregevole ed utilissima pubblicazione (The Jews in Piedmont) di Renata Segre, nella quale sono repertoriati tutti i documenti presenti nell’archivio stesso relativi al tema delle comunità ebraiche piemontesi. Per ulteriori indagini e approfondimenti abbiamo ritenuto opportuno instaurare rapporti con esponenti delle comunità ebraiche di Casale e di Alessandria, oltre che con studiosi impegnati da tempo in ricerche sull’argomento specifico. Ci siamo infine avvalsi della disponibilità della Biblioteca Nazionale di Firenze, della Biblioteca Universitaria e di quella Comunale di Genova, di quelle comunali di Alessandria, Casale, Novi, Acqui e Ovada.

Una volta acquisito e ordinato il materiale abbiamo proceduto ad un esame comparativo tra le legislazioni in materia di rapporti con gli ebrei dei vari stati interessati all’area e al periodo in oggetto, ed abbiamo infine elaborato una serie di percorsi diacronici concernenti i vari aspetti dell’argomento da trattare. Il risultato è indubbiamente inferiore a quelle che erano le iniziali aspettative: eravamo infatti convinti che un arco di tempo così vasto dovesse offrire una messe documentaria di ben diversa consistenza.

Avevamo probabilmente sopravvalutato le dimensioni e l’importanza della presenza ebraica in questa zona, in parte fuorviati dalla pregressa conoscenza di un vivace lavoro di ricerca relativo al XVI secolo. Ciò nonostante riteniamo che il raffronto tra le diverse legislazioni, e i diversi atteggiamenti ad essi sottesi, e la ricostruzione di un quadro, sia pure sommario, della presenza ebraica nell’Oltregiogo, mantengano un loro valore, non fosse altro come spunto di partenza per ulteriori e più approfondite indagini future.

 

Il territorio e la sua storia

(Situazione geografica e vicende storiche dell’Oltregiogo tra la fine del XV secolo e la metà del XVIII)

La zona presa in considerazione dalla nostra ricerca corrisponde all’estremo lembo sudorientale della provincia di Alessandria e del Piemonte, e può essere compresa in un ideale quadrilatero che ha i vertici in Sezzadio a nord-ovest, a Novi a nord-est, Voltaggio a sud-est e Ovada a sud-ovest.

Tale zona risulta particolarmente interessante perché al suo interno correvano nel XVI e nel XVII secolo i confini di tre stati regionali o subregionali (Repubblica di Genova, ducato di Milano e di Monferrato), confini peraltro molto tortuosi e resi oscillanti dalla presenza in ciascun territorio di enclaves di pertinenza dei domini limitrofi. Nei primi decenni del ‘700 venne a sostituirsi ad uno dei tradizionali domini (marchesato del Monferrato) la dominazione dei Savoia, con una sostanziale ridefinizione delle linee confinarie. L’area considerata offre quindi l’opportunità di confrontare il comportamento di tre dominazioni diverse rispetto agli insediamenti ebraici, consentendo sia un raffronto sincronico sia una lettura diacronica. Prima di affrontare questa analisi è opportuno delineare un quadro, sia pure estremamente sintetico, della situazione geografica e antropica della zona e degli eventi storici che l’hanno interessata nell’arco di tre secoli.

La zona compresa nel quadrilatero di cui sopra si stende nella parte meridionale sino al crinale appenninico che separa il basso Piemonte da Genova, digrada al centro nella zona collinare pre-appenninica e include a settentrione i lembi iniziali della pianura padana. Ideali confini longitudinali possono essere considerati i fiumi Bormida ad ovest e Scrivia ad est.

Nei secoli da noi considerati l’economia di quest’area era ancora eminentemente improntata ad una agricoltura a circolazione interna, con produzione e consumo in loco. Tuttavia, oltre alle merci di passaggio come il sale, che viaggiava verso il nord, e il frumento, convogliato in direzione di Genova, una discreta rilevanza commerciale assumevano anche alcune specifiche produzioni locali. La prima era indubbiamente quella boschiva, che interessava enormemente la cantieristica navale genovese, soprattutto per quello che concerneva la produzione di querce e quindi di tavolame per gli scafi. La produzione boschiva offriva anche la possibilità di sviluppare torbiere per la produzione di carbone di legna, che in parte veniva trasportato verso Genova o verso la pianura, ed in parte era utilizzato per talune produzioni locali. Nella zona appenninica infatti si può constatare nel XVI e nel XVII secolo una discreta fioritura della microsiderurgia, comprovata dai frequenti toponimi facenti riferimento a ferriere che si riscontrano nella zona. Le conseguenze dello sfruttamento delle risorse boschive sono ancora oggi visibili nella natura spoglia ed arida del nostro appennino.

L’interesse storico della zona è legato alla sua immediata vicinanza con Genova e con il suo porto, ed alla presenza di alcuni facili valichi che costituiscono già nel medioevo le vie obbligate di sbocco dei traffici genovesi verso la Padania e verso l’Europa del Nord. Ancora oggi i sentieri che salgono lungo le pendici dell’appennino vengono indicati dai più anziani come “vie del sale”. E infatti il sale, merce di prima necessità, contribuì non poco all’apertura delle strade da e per il mare. Genova mantenne tenacemente il monopolio della distribuzione di tale prodotto, che arrivava nell’emporio ligure dalla Sardegna, dalla Corsica e dalla Spagna, verso le aree oltreappeniniche, e le navi che avevano scaricato venivano ricaricate con merci provenienti dal nord attraverso gli stessi sentieri. Questi sentieri, o per essere precisi mulattiere, poiché il mulo era l’unico animale in grado di percorrere tali impervi itinerari, non furono mai trasformati dalla repubblica di Genova in strade carrozzabili, neppure quando essa divenne una grande potenza economica. Si trattava di una scelta di carattere strategico-militare, inquadrata nel peculiare modello statale genovese. Le direttrici principali dei traffici da e per l’Oltregiogo passavano per la valle del torrente Stura nella linea Masone-Campo Ligure, Rossiglione, Ovada ad ovest, lungo il giogo di Marcarolo e la valle del torrente Piota al centro e attraverso i Giovi e lungo le valli dei torrenti Lemme e Scrivia ad est. Dai raccordi dell’immediato oltregiogo le linee di traffico proseguivano poi per Alessandria o per Novi e Tortona.

L’orografia del territorio consentiva di difendere con postazioni strategiche questi passaggi obbligati: “centri come Mornese e Bosio, Lerma e Tagliolo, nonché Montaldeo e Parodi Ligure sono dei tipici borghi rurali di sommità, la cui localizzazione dipende dalla posizione strategica rispetto ai percorsi che si snodavano sulle creste dell’Appennino e del Monferrato. Essi rientravano poi nel vasto e capillare sistema difensivo facente perno sui numerosi castelli che sorgono tra le valli dell’Orba e dello Scrivia attorno ai quali si sono sviluppati quasi tutti i borghi della zona” (P.P.Poggio). Tale zona divenne pertanto oggetto di un capillare infeudamento, favorito da un lato dalla facilità di localizzare punti strategici facilmente difendibili, dall’altro dalla possibilità di mantenere guarnigioni con cespiti non agricoli. Obiettivo principale dei feudatari locali era infatti il controllo dei percorsi delle mulattiere, per poter imporre pedaggi alle merci. Ogni tentativo di omissione del pagamento, mediante lunghi giri al largo delle dogane, falliva quasi sempre e i colpevoli erano puniti severamente. A scopo esemplificativo riportiamo un esempio interessante, che fornisce anche dati sul traffico di una delle merci più importanti: il grano. Nel 1552 uomini di Montaldo e Rossiglione “trasportando da Novi a Pegli 135 mine di frumento, giunti a Montaldeo svincolando sul confine di Lerma per Vallescura, entrano in territorio di Casaleggio e tornano in territorio di Lerma più a Sud, sperando di farla franca. Ma il castellano di Lerma vigila e riesce a sequestrare una parte dell’eccezionale carico di oltre 130 quintali, nonché undici asini e un mulo, la retroguardia della lunga carovana”.(Podestà)

È evidente che la tormentata geografia politica del territorio dava motivo, con le sue frequenti dispute di confine, ad attività illegali, quale il brigantaggio che nel XVII secolo assunse proporzioni preoccupanti, costituendo un pericolo non indifferente per chi esercitava nella zona dell’oltregiogo il proprio commercio. Fu soprattutto Genova a pagare l’estendersi della prassi del taglieggiamento. È interessante notare come il fenomeno del brigantaggio non scaturiva solamente da motivazioni economiche, ma si intersecava a motivi politici. Si possono citare ad esempio le vicende della potente famiglia Guasco, che “attestate le sue forze lungo i confini della repubblica, utilizzando i territori del Monferrato e della Spagna come santuari, mira a taglieggiare sistematicamente il commercio genovese” (Poggio). La famiglia Guasco godeva in quel periodo (metà del XVII secolo) dell’appoggio e della protezione del ducato di Milano, (all’epoca sotto la dominazione spagnola), in quanto feudataria di terre legate al ducato stesso (Capriata Bisio e Francavilla). Quanto il fenomeno potesse incidere sulle attività economiche lo possiamo verificare dal racconto pubblicato nel 1902 dal capitano Agostino Martinengo di Montaldeo, appassionato studioso di storia locale, che scrive: “In seguito a continui dissidi, nel 1640 i Guasco erano in guerra aperta con i feudatari loro vicini e con la stessa Repubblica di Genova, scorrazzando dappertutto con armi e cavalleria, sino a duecento e più cavalli, sul parodese, Montaldeo ed altri luoghi, rendendo malsicure le vie ed impedendo il commercio ai genovesi”. (cit. da Podestà) Il governo della repubblica rispose organizzando una spedizione militare affidata a soldati corsi, affiancati da milizie di Novi, di Gavi e dei paesi della Val Lemme. La controversia si spense dopo un anno di scontri che ebbero come scenario i paesi dell’Oltregiogo.

È dunque facile intuire l’enorme interesse che la zona mantiene nel corso dei secoli per i vari potentati che in essa si incontrano. Per Genova si trattava da un lato di garantirsi l’apertura delle vie di traffico e dall’altro di assicurarsi contro eventuali invasioni che solo per queste vie potevano minacciarla. Per il marchesato del Monferrato era importante soprattutto poter far conto sui cespiti legati ai dazi di passaggio sulle merci. Per il ducato di Milano, che conservò intatta nei secoli l’aspirazione ad uno sbocco diretto sul mare, era fondamentale mantenere postazioni a ridosso immediato di Genova, dalle quali in effetti più volte furono portati gli attacchi alla repubblica. Entrambe queste ultime motivazioni si assommarono quando nella zona subentrò il dominio dei Savoia.

All’alba del sedicesimo secolo, la realtà politica italiana contrasta con quella delle grandi monarchie occidentali. L’interesse che Francia e Spagna riversano sulla penisola e le ripetute invasioni che essa è costretta a subire portano ad una escalation di violenze e di guerre, con relative alleanze e controalleanze, che stanno a dimostrare la palese debolezza degli stati italiani, costretti ad oscillare secondo variabili convenienze dall’alleanza francese a quella spagnola. In conseguenza di ciò, e per i motivi sopra elencati, anche la zona da noi presa in considerazione è coinvolta nello scontro fra le grandi potenze europee. Nel 1494, durante la prima discesa del re francese Carlo VIII in Italia, l’Oltregiogo genovese viene scosso dalle lotte tra le diverse fazioni; vediamo infatti scontrarsi la famiglia Fregoso, sostenitrice del sovrano francese, contro le famiglie Adorno (che in un primo tempo aveva appoggiato Carlo VIII) e Spinola. Il castello di Lerma, feudo di quest’ultima, viene distrutto dalle truppe francesi durante la loro ritirata nel 1495, mentre Battista Fregoso occupa Novi ed altre terre dell’Oltregiogo. La stessa situazione si ripete nel 1499, quando Luigi XII, succeduto a Carlo VIII, riprende la politica del suo predecessore, orientandosi tuttavia non più su Napoli ma su Milano, che rivendica in qualità di lontano erede dei Visconti contro gli Sforza. Nel 1500 quindi i governatori sforzeschi di Genova lasciano il posto a quelli francesi. Gli Adorno abbandonano il capoluogo ligure e si rifugiano nell’Oltregiogo, presso gli Spinola di Lerma. Questi, ricostruito il proprio castello, ne fanno una base di appoggio per i fuorusciti genovesi. Gli Adorno aspirano naturalmente a riconquistare il dogato, ma in realtà devono cedere anche Ovada, che Luigi XII restituisce alla famiglia Trotti. Questo casato, insieme a quelli dei Guasco, nel primo scorcio del ‘500 costruirà la propria fortuna nell’Oltregiogo genovese. Nel 1503 è comunque un Adorno, fattosi per l’occasione filofrancese, ad assumere in Genova il titolo di governatore per il re di Francia. Il suo successo dura poco. Infatti a seguito della sconfitta che i francesi subiscono a Novara, Ottaviano Fregoso, insieme a tremila fanti e 500 cavalieri spagnoli, viene a detronizzare l’Adorno. Quando nel 1515 Francesco I succede a Luigi XII il Fregoso, onde evitare la controffensiva degli Adorno, si schiera immediatamente con il re di Francia e si trasforma da Doge in suo governatore.

Questa girandola di alleanze, variabili a seconda della convenienza del momento, non deve sembrare strana o immorale: coincide infatti con la persuasione che non ci fosse diritto o giuramento o patto che ne impegnasse la lealtà, qualora le circostanze facessero apparire vantaggioso cambiare fronte, alleato e amici. Machiavelli, nella sua realistica valutazione del mondo politico del tempo, affermava: “Si vede, per esperienza dei nostri tempi, quelli principi avere fatto grandi cose che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e cervelli degli uomini, e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati sulla lealtà”(Il Principe, cap.XVIII). Nello stesso anno Francesco I occupa Milano con l’aiuto genovese. La repubblica, approfittando del momento favorevole, recupera alcuni centri dell’Oltregiogo, come Gavi e Ovada, togliendoli rispettivamente ai Guasco e ai Trotti (ma sarà lo stesso Francesco I che dopo pochi anni restituirà alle due famiglie i loro feudi). Nel frattempo altri casati, come gli Adorno e i Fieschi, filospagnoli, organizzano nell’Oltregiogo la loro riscossa, radunando a Castelletto d’Orba (territorio del Monferrato infeudato agli Adorno) cinquecento fanti e settanta cavalieri, per muovere contro i Fregoso. Danni ben maggiori subisce la nostra zona allorché nel 1522 Carlo V scende a saccheggiare Genova e il suo oltregiogo. Nel 1528 si verifica un avvenimento che risulterà determinante per il successo delle armi spagnole, e quindi per le sorti dell’Europa. Alla scadenza del suo contratto con Francesco I, Andrea Doria, uomo di doti non comuni che non pochi meriti aveva avuto nelle vittorie francesi, passa al servizio di Carlo V. È una svolta decisiva per le sorti di Genova, la quale recupera il suo oltregiogo. Questa operazione non avviene sempre pacificamente: ne è un esempio la drammatica rivolta popolare nel piccolo borgo di Montaldeo (paesino tra Castelletto d’Orba e Mornese, feudo dei Trotti per volere degli Sforza di Milano), che si risolve nell’eccidio del feudatario e della sua famiglia. La rivolta dei villici di Montaldeo scoppia mentre Genova sta cercando di recuperare Novi, Ovada e Gavi, tornate come già si è detto in mano ai Guasco e ai Trotti. Non è estraneo quindi un intrigo genovese nei fatti del piccolo borgo, poiché la repubblica è decisamente risoluta a recuperare i suoi domini. I Trotti devono abbandonare anche Ovada e riparare verso Alessandria. Nel 1529 il feudo di Montaldeo per volere di Carlo V torna nelle mani degli Sforza, che erano rientrati nelle grazie dell’imperatore. Ma il duca di Milano infeuda il borgo non più ad un Trotti, bensì a Niccolò Grimaldi. Sempre nel 1529 Genova recupera Novi, ricostruendo il suo tradizionale dominio nell’Oltregiogo, formato da quelle terre che l’imperatore Carlo V confermerà con un suo diploma del 1536. Avremo così Novi, Gavi, Parodi, Ovada, Rossiglione, Voltaggio sotto la dominazione della repubblica (sempre più legata all’Impero), mentre tornano in possesso di patrizi genovesi i feudi monferrini e quelli già tenuti dal ducato di Milano e ora dipendenti direttamente dall’Impero, che assumono lo status di “feudi imperiali” (Tagliolo, Rocca Grimalda, Montaldeo, Tassarolo). Sono invece di proprietà del Marchese di Monferrato i borghi di Capriata, Castelletto, Lerma, Casaleggio, Belforte, Silvano, Carpeneto e in parte Mornese (che è per il 50% feudo imperiale). Anche questi feudi, comunque, sono concessi dal marchese di Monferrato a signori genovesi. Successivamente, quando nel 1533 verrà ad estinguersi la dinastia dei Paleologhi, signori del Monferrato, e il marchesato passerà nel 1536 per volere di Carlo V sotto il ducato di Mantova (a scapito dei Savoia, che ne rivendicavano il possesso) tale politica non verrà modificata. Anzi, i Gonzaga cercheranno di sfruttare il nuovo acquisto attraverso la vendita di feudi a mantovani, lombardi e genovesi. Ricordiamo che nel vicino Piemonte sono attestati i francesi, mentre a Milano dominano gli spagnoli. Per circa quarant’anni la nostra zona gode di una relativa tranquillità, finché non viene raggiunta dagli strascichi della guerra civile che è scoppiata nel capoluogo ligure, a causa delle rivalità tra nuova e vecchia nobiltà. Nel 1575 la situazione giunge ad un punto tale che i casati più antichi sono costretti ad abbandonare la città per riparare nei loro feudi. “La maggior parte di essi si congrega a Finale, contando sull’aiuto spagnolo. gli altri si riversano qui nell’oltregiogo. Serravalle diventa così la base attorno alla quale verso la fine dell’anno, si raduna un numeroso esercito. I nobili vecchi, che se ne sono assunti il finanziamento, riescono a controllare tutti i luoghi già soggetti alla repubblica”. (Podestà) La situazione si risolve grazie all’interesse delle massime potenze europee e sotto la guida di un nunzio apostolico mandato da sua Santità. Si arriva ad una tregua e nel 1576 si formula con la collaborazione di tutti una nuova costituzione, che promulgata a Casale inaugura per Genova un lungo periodo di pace. I luoghi genovesi dell’oltregiogo vengono chiamati a rinnovare il loro giuramento di fedeltà al patrio governo.

Il periodo di pace termina agli inizi del XVII secolo, quando il nuovo duca di Savoia, Carlo Emanuele I, inizia un ambizioso espansionismo, al fine di conseguire un ruolo egemone in Italia. Tutto ciò mette in allarme sia il governo della repubblica di Genova sia il Monferrato, entrambi coinvolti nel suo progetto di conquista. Infatti nel 1613 il duca di Savoia, sostenendo la candidatura di una sua nipote alla successione del defunto Francesco Gonzaga, invade il Basso Piemonte. Genova non può far altro che rinforzare le sue fortezze dell’oltregiogo, dove vengono assembrate diverse truppe pronte a difendere il territorio dall’invasore. Nello stesso tempo, preoccupata anche di prevenire qualche sorpresa sul piano diplomatico, si fa confermare dall’imperatore Mattia l’investitura di Novi, Gavi, Parodi, Ovada e Rossiglione. Precauzione inutile, in quanto il tentativo di conquista dei Savoia, contrario agli interessi spagnoli, fallisce. Così quattro anni dopo si ritorna allo status quo.

Bisogna aspettare il 1625, dopo l’inizio della guerra dei Trent’anni, per rivedere in terra d’oltregiogo le armate piemontesi, alleate con i francesi. Stavolta l’obiettivo è Genova. Giulio Pallavicino, lo scrittore fratello di Niccolò (marchese di Mornese in quel periodo) ci commenta l’inizio dell’invasione franco-piemontese: “Siamo al sei del mese di Marzo dell’anno 1625. Homai francesi e savoiardi senza più mascheramenti ma con volto scoperto, poiché si è saputo certo che uniti tutti e due gli eserciti, capo di quello di Francia a monsieur de la Disqueres e quello di Savoia il duca stesso, che ne vengono con quarantamila soldati e quattromila cavalli verso Ovada, al quale luogo non hanno ancora mostrato hanimo ostile, ma stanno alloggiati nei castelli vicini”. Infatti le truppe franco-savoiarde occupano Ovada e Novi senza colpo ferire e si impossessano, sempre stando alla testimonianza del Pallavicino, del piccolo borgo di San Cristoforo, “piccolo castillo dei Doria, havendo l’uno e l’altro luogo saccheggiato con barbara mano, come si fece degli altri castilli vicino”. Il castello di Parodi viene raso al suolo. Ma sono le popolazioni, in particolare quelle di Voltaggio, Gavi e Carrosio, che vivono le giornate più drammatiche. A Voltaggio le truppe ispano-genovesi incorrono in una dura sconfitta, e sono, come sempre, i più inermi a pagarne le conseguenze. Si creano infatti immediatamente bande di disertori e saccheggiatori che battono le contrade.

Le zone meglio fortificate dai genovesi sono la fortezza di Gavi e il luogo di Rossiglione, ove vengono concentrati i resti delle truppe sconfitte. Altre postazioni sono sul bricco tra Parodi e Mornese e lungo la zona delle Capanne di Marcarolo, dove hanno inizio i nuovi scontri. Le sorti della guerra a questo punto mutano, e alla metà di giugno sono ormai nettamente sfavorevoli ai franco-piemontesi. Il duca di Savoia deve frettolosamente abbandonare l’oltregiogo, e le sue truppe in ritirata “tagliano le vigne e gli alberi da frutto e naturalmente appiccano il fuoco alle messi, ai casolari isolati e ai paesi che lasciano alle loro spalle. Le fiamme devastano Borgo Fornari, Fiaccone e ancora Voltaggio, da cui però i nemici si partono senza far danno al monastero dei capuccini” (A.S.G. Senato Litterarum, F2 676) Rioccupato l’oltregiogo, il governo genovese deve continuare a far fronte alle scorribande dei piemontesi nel Monferrato: vengono pertanto rafforzate le difese della città di Novi, mentre la fortezza di Gavi viene ammodernata. Non trascorrono due anni, ed ecco una nuova guerra, la seconda per la successione del Monferrato (1627). Questa volta Carlo Emanuele I si allea con gli spagnoli contro i francesi, e grazie alla mediazione spagnola tra i Savoia e Genova vengono sospese le ostilità.

È un periodo assai brutto per l’alto Monferrato, continuamente percorso da eserciti nemici. Le piaghe ricordate dal Manzoni ne “I Promessi Sposi”, la fame, la carestia, la pestilenza, che colpiscono l’intera Italia settentrionale, si sommano alle disgrazie della guerra. Finalmente nel 1631 si giunge ad una pacificazione. Con il trattato di Cherasco quasi tutto il Monferrato viene restituito al duca di Mantova, mentre Vittorio Amedeo I, succeduto al padre, deve accontentarsi di Alba e di Trino. Nel 1634 viene siglata la pace anche tra i Savoia e la repubblica di Genova.

Ma il nostro Oltregiogo evidentemente non è zona fortunata, poiché alcuni anni dopo, a causa della guerra civile nel vicino Piemonte, perde nuovamente la sua tranquillità. Esso é anche teatro di alcune marginali vicende della Guerra dei Trent’anni, che dura sino al 1648. Tra queste “ ricordiamo l’assedio di Novi da parte francese, con caduta della città nel 1642, ed il saccheggio di Castelletto d’Orba da parte di due reggimenti di cavalleria alemanna, che nell’anno seguente si portano via anche i libri parrocchiali”(Podestà).

La politica espansionistica verso la nostra zona, iniziata con Carlo Emanuele I, si conclude positivamente con il duca Vittorio Amedeo II, al sorgere del XVIII secolo. Infatti il primo monarca sabaudo riesce a sfruttare al meglio le occasioni offertegli dal conflitto per la successione al trono di Spagna, e con un capovolgimento di fronte (in puro stile di casa Savoia) abbandona la Francia, che inizialmente aveva appoggiato, per passare al fianco degli austro-spagnoli. Questa mossa gli permette di cacciare i francesi dal Piemonte e di ottenere dagli alleati il territorio dell’intero Monferrato. In particolare, nella nostra zona sono i borghi di Belforte, Capriata, Casaleggio, Castelletto d’Orba, Lerma, Montaldeo, Silvano e la metà di Mornese a passare, già nel 1708, sotto il dominio sabaudo. In seguito, con la pace di Vienna che mette fine alla guerra di successione polacca (1735), anche Tagliolo, Rocca Grimalda, San Cristoforo e l’altra metà di Mornese vanno ad impinguare i confini di quello che ormai è diventato il Regno di Sardegna.

 

I diversi atteggiamenti legislativi
nei confronti dell’ebraismo

1)   Repubblica di Genova

La presenza ebraica nell’emporio genovese è attestata già nel 511, allorché il re ostrogoto Teodorico (486-526) intervenne presso la città per difendere il popolo giudaico dalle intemperanze del clero locale (Milano pag. 46). In seguito tale presenza è sottolineata nel XII e XIII secolo da una serie di concessioni temporanee di soggiorno o di transito, e dalla imposizione di balzelli vari. Esemplificativo è il più volte menzionato lodo consolare del 1134, col quale si costringevano gli ebrei di passaggio al pagamento di una tassa di tre soldi per il mantenimento dell’altare maggiore della cattedrale (Urbani, 1983, pag. 303). Non era però un provvedimento antisemita, come al contrario sembra voler sottolineare lo Staglieno, quando scrive di “privilegi intaccati”, ma quasi sicuramente una mossa politico-economica del governo genovese, “inteso a sottoporre a fiscalizzazione una comunità di stranieri potente e ricca” (Zazzu, pag. 7) che non poco merito aveva avuto nella crescita economica del giovane comune. Basti ricordare che gli ebrei, fungendo da tramite per il commercio del sale e del grano e per i traffici con la Provenza, parteciparono al primo sviluppo delle attività mercantili genovesi.

Il provvedimento sopra citato appare quindi piuttosto un tentativo della città ligure di affrancarsi dai grossi mercanti stranieri (quali erano considerati gli ebrei), anche in funzione di una riorganizzazione politica interna, che proteggesse i cittadini dalla concorrenza degli stranieri. Infatti proprio nel XII secolo gli interessi della nazione ebraica vennero a contrastare con quelli della borghesia mercantile genovese, costituitasi in oligarchia di governo e destinata a dominare nei secoli successivi la vita politica della città. Si arrivò sino all’espulsione ufficiale degli ebrei, quantunque ci manchi la data precisa di questo provvedimento, (Staglieno pag. 176) Con ogni probabilità esso fu motivato anche dalle pressioni esercitate dalla Chiesa, in un periodo di forte impegno antiereticale e quindi di atteggiamento marcatamente antisemita, attestato dalle disposizioni del quarto Concilio Lateranense (1215) che riducevano i giudei al rango di “perpetui schiavi”. All’atto di espulsione corrispose però nella prassi una certa tolleranza, dal momento che gli ebrei costituivano, come già accennato, un tramite quasi obbligato per i rapporti con diversi mercati del Mediterraneo. Ciò è testimoniato dalla continuità nelle concessioni di soggiorni temporanei (della durata di tre giorni) che aggiravano il divieto fatto alla residenza, e consentivano ai governanti genovesi di rispondere ad una precisa richiesta del papato affermando che “sul territorio della repubblica non risiedeva nessun ebreo” (lettera del Senato genovese a papa Pio II del 18 gennaio 1460). È da notare come la risposta del Senato non scaturisse solamente dalla scarsa volontà di impegnarsi in una politica di persecuzione, ma anche dal tentativo di aggirare la richiesta di fondi emanata dal papa Pio II in vista di una crociata in Terrasanta. Il Senato afferma non solo di non aver soldi, ma di non poterli estorcere neppure agli ebrei, che come al solito vengono considerati dalle autorità solo sotto il punto di vista economico.

Con questa soluzione fino all’ultimo decennio del secolo XV la presenza ebraica non costituisce un problema amministrativo per il governo genovese, e non crea la necessità di espedienti normativi.

Alla fine del XV secolo però, in conseguenza della diaspora ebraica sefardita dalla Spagna, sul porto ligure comincia ad essere esercitata una notevole pressione da parte degli ebrei, che “vennero raccolti nelle vicinanze del molo dove nonostante la legge dei tre giorni, la pietà cittadina acconsentì che vi restassero tanto da rifarsi un poco dai patimenti e riparare le navi per proseguire”.(Rezasco pag. 33). Se in un primo momento questi fuggiaschi alla ricerca di una nuova patria trovarono nell’accoglienza genovese motivo di sollievo alle loro disgrazie, le cose cambiarono nel volgere di poco tempo. Prova ne è tra il 1492 e il 1493 la convulsa e contraddittoria sequenza di concessioni e proscrizioni, sulla quale hanno una notevole influenza da un lato l’atteggiamento della Chiesa (è di questi anni la predicazione di Bernardino da Feltre) e dall’altro preoccupazioni di carattere sanitario. L’atteggiamento ufficiale finisce per essere decisamente negativo rispetto all’eventualità di accogliere altri giudei, al punto che vengono emanate precise disposizioni onde impedirne lo sbarco. È del 6 giugno 1492 la grida di Agostino Adorno (all’epoca vicario ducale) che vieta ufficialmente a navi genovesi il trasporto sia di ebrei che della loro roba: “nullus pretius cuiusvis navis aut navigii civium aut subditorum Januensium possit vel debeat levare, recipere, aut convehere in nave aut navigio suo, aliquem seu aliquos Judeos, aut eorum bona ex quibuscumque regnis, regionibus, provinciis, civitatibus et locis descendentes et ad quamcumque mundi partem navigaturos” (A.S.G. n. 642, C. 48). Tuttavia sembra che tali disposizioni vengano nella pratica spesso aggirate, soprattutto quando i postulanti appartengono al ceto mercantile ed hanno in qualche forma già un rapporto d’affari con la repubblica, o con i loro correligionali già stanziati nella penisola.

Quando però la peste comincia a farsi sentire, la presenza ebraica viene immediatamente avvertita come un pericolo. La tolleranza iniziale che i genovesi avevano manifestato per i profughi scompare, lasciando il posto alla paura per il contagio; si arriva così al bando del 31 gennaio 1493, col quale persino gli ebrei convertiti rischiano gravi punizioni se non si allontanavano (Musso, pag. 109). Alcuni riescono ad eludere i vari decreti, alloggiando presso famiglie genovesi (sono soprattutto marranos) e offrendo i propri servizi per un certo numero di anni. L’ospitalità in cambio della libertà (Zazzu, pag. 13). È comunque un fatto che all’inizio del secolo XVI esiste in Genova un ufficio specifico per i rapporti con gli ebrei, dal quale vengono emanate disposizioni restrittive relativamente alla permanenza degli ebrei stessi in città (Staglieno, pag. 184). Tale magistratura decreta l’obbligo del segno distintivo (un drappo giallo di forma rotonda), che deve essere portato sul petto sia dai maschi che dalle femmine, e limita i permessi di soggiorno in città a soli tre giorni (Brizzolari pag. 101). La necessità di una specifica normativa testimonia di una significativa presenza ebraica sul territorio della repubblica; tale presenza è destinata ormai a stabilizzarsi, malgrado l’assunzione da parte di Genova di atteggiamenti alterni nel corso dei tre secoli successivi.

Lo stanziamento ebraico nel territorio genovese è soggetto almeno sul piano ufficiale ad una costante precarietà. Provvedimenti di espulsione nei confronti degli ebrei verranno infatti emanati a più riprese sino alla metà del XVIII secolo, quasi sempre in risposta a sollecitazioni esterne da parte del papato, ma talvolta anche su pressioni di particolari ambienti economici (Staglieno pag. 408). Bandi di espulsione vengono emanati nel 1515, nel 1550, nel 1567, nel 1587, nel 1598, e poi nel 1669, nel 1679, nel 1732, nel 1734 ed infine nel 1747. In tutte queste occasioni alla proscrizione fa seguito, dopo breve tempo, un decreto di riammissione. – È quanto accade nel 1515, quando “il doge Fregoso espelleva tutti gli ebrei, e l’anno successivo il suo oppositore doge Adorno li riammetteva in piccolo numero” (Milano pag. 267) – o una serie di emendamenti che contemplano la concessione di permessi temporanei periodicamente rinnovabili (Brizzolari pag. 103). Tali decreti assumono quindi nella gran parte dei casi il significato di adempimenti d’obbligo nei confronti dell’autorità religiosa, o per ulteriori salassi economici nei confronti della comunità ebraica. Inoltre è possibile notare come dall’espulsione siano esentati in genere coloro che praticano l’arte medica (Musso pag. 104) o le famiglie che esercitano attività commerciali di stretto interesse per la repubblica. È il caso, ad esempio, in occasione del bando del 1567, dei medici Raffaele di Elia e Zacaria. Quest’ultimo non soltanto non è assoggettato all’espulsione, ma ottiene il rinnovo di una concessione monopolistica decennale per la fabbricazione di lame di ferro battuto e lo sfruttamento di una miniera di ferro nei pressi della città (Urbani, 1983, pag. 304).

Un altro provvedimento ricorrente è quello relativo all’obbligo per tutti gli appartenenti alla nazione giudaica di portare un segno distintivo. Si inizia già dal 1501 quando il governatore per il re di Francia impone agli ebrei il segno giallo “tondo e largo almeno quattro dita” senza dispensarne neppure i medici (regulae patrum comunis pag. 61 Genova 1886 – Zazzu pag. 17). Si ritorna sull’argomento con bandi successivi nel 1505, nel 1567, nel 1587, nel 1629, nel 1658 (quando viene modificato il colore del segno, da giallo a verde), nel 1669, nel 1674, quando il segno distintivo diventa un berretto giallo – considerato particolarmente mortificante dagli ebrei (Rezasco pag. 36), nel 1700 ed infine nel 1710.

La valenza negativa di tali provvedimenti è in realtà mitigata dalla considerazione che qualsiasi forma, anche restrittiva, di regolamentazione della permanenza smentisce i decreti di espulsione. In altre parole, la necessità di imporre un segno distintivo è comunque una presa d’atto della presenza ebraica e quindi una sua accettazione. È da notare che dopo l’ennesimo bando emanato all’inizio del XVIII secolo il provvedimento non verrà più ribadito, tanto da provocare una reazione da parte delle autorità ecclesiastiche, che per mezzo del basso clero (e spesso di ebrei convertiti che mostrano fanatismo e accanimento contro gli antichi correligionali) sollecitano la repubblica ad essere più intransigente (Staglieno pag. 411). Va inoltre sottolineato che, così come accade per i bandi di espulsione, anche per l’obbligo del segno ad ogni rinnovo seguono immediatamente emendamenti ed esenzioni, in genere legati al pagamento di imposte supplementari (Brizzolari pag. 129). In qualche caso, come ad esempio nel 1587, quando i provvedimenti sono presi sotto la spinta dell’autorità ecclesiastica, è sufficiente una supplica della comunità ebraica a far tornare sui propri passi l’autorità civile. A volte l’esenzione riguarda soltanto momenti o situazioni particolari, come i viaggi d’affari, onde impedire che il segno distintivo renda gli ebrei oggetto di scherno o molestie. (Staglieno pag. 395 – Rezasco pag. 34).

Un’ulteriore restrizione intervenuta in un periodo più tardo riguarda la localizzazione di un sito obbligato di residenza per tutti gli ebrei, cioè l’istituzione di un ghetto. Questo provvedimento viene preso nel 1658, in un periodo in cui le trattative per l’ammissione della nazione ebraica sono incoraggiate da un clima favorevole a qualsiasi iniziativa che possa risollevare l’economia genovese.

Quest’ultima infatti conosce una crisi profonda, causata dalla concorrenza di Livorno e dal depauperamento demografico conseguente l’epidemia di peste del 1656-57. Si veda infatti il rinnovo del porto franco, nel quale nuovamente (la prima volta è stata nel 1648) vengono inclusi anche gli ebrei (Brizzolari pag. 131). Infine nel 1660 il ghetto viene localizzato in Via del Campo (Urbani, 1983 pag. 398). Si tratta indubbiamente di una misura concentrazionaria, ma va rilevato che essa per un certo verso implica una disposizione positiva da parte della repubblica. Questo provvedimento dimostra infatti che è stato superato l’atteggiamento che aveva caratterizzato i rapporti con gli ebrei nei secoli precedenti, al punto che la loro presenza viene formalizzata con l’attribuzione di un’area di residenza. La misura di segregazione, ufficialmente mirante a difendere i cristiani dal “contagio” (chiusura dei cancelli al calare della sera), risulta in qualche modo protettiva anche della vita e dei beni degli ebrei. Ciò è ulteriormente dimostrato dal fatto che viene d’ora in poi contemplato un apposito istituto, quello dei “protettori degli ebrei”(1658), incaricato del compito di mediazione tra il governo della repubblica e la comunità (Urbani, 1986 pag. 197). Nel caso di Genova, a differenza di quanto accade ad esempio a Roma e a Venezia (Milano 525), il ghetto ha brevissima durata, e non riesce ad assolvere a nessuna delle funzioni che ne hanno ispirato l’istituzione. Ciò è connesso probabilmente al fatto che la precarietà stessa della presenza ebraica del periodo precedente ha impedito lo sviluppo di quelle forme di piccolo artigianato spicciolo che costituiscono in altre località il nerbo economico dei ghetti, e alla natura delle attività economiche delle famiglie residenti, quasi tutte interessate alla mercatura e bisognose quindi, per l’esercizio della stessa, di sedi variamente decentrate, di magazzini per lo stoccaggio delle merci e di libertà di spostamento che la residenza nel ghetto rende impossibile.

A pochissimi anni dall’istituzione di quest’ultimo un terzo degli ebrei di Genova ha già chiesto l’esenzione dall’obbligo di risiedervi (Urbani, 1983 pag. 31O). La situazione diventa tale, anche per la montante pressione di un partito antiebraico (costituito soprattutto da mercanti e piccoli artigiani che non tollerano la concorrenza degli ebrei), che si giunge alla chiusura del ghetto (1679), con la distruzione dei cancelli del medesimo da parte degli stessi ebrei, (Urbani, 1986 pag. 199) e le abitazioni ridotte alla primitiva destinazione, il tutto completato da uno degli ennesimi provvedimenti di espulsione. In realtà si torna al regime precedente delle concessioni temporanee. e gli ebrei di Genova non saranno più rinchiusi (Staglieno pag. 410). La soppressione ufficiale del ghetto arriva però soltanto con i capitoli del 1752 (Brizzolari pag. 193).

Tra le disposizioni speciali emanate nei confronti degli ebrei troviamo ancora, a partire dalla metà del XVII secolo, la costrizione a seguire prediche periodiche, tenute in genere dal clero regolare, nel corso delle quali vengono ribadite le accuse di deicidio e sono vituperati i costumi e le convinzioni religiose del popolo ebraico. Tali sermoni risultano così violenti da suscitare reazioni negative anche da parte cristiana (Brizzolari pag. 133).

Contro questa imposizione sono frequenti le suppliche della comunità (la prima è del 1649), la quale si appella anche alla libertà del porto franco di cui gli ebrei godono (Staglieno pag. 406). Anche in questo caso, malgrado esistano ordinanze del Senato negli anni 1661, 1662, 1664, 1666, che costringono i giudei ad assistere alle prediche in tempo di quaresima, sembra di poter rilevare una certa comprensione da parte della magistratura civile, che in più occasioni giunge ad ammonire i predicatori affinché trattino gli ebrei con dolcezza e senza parole offensive. infine, su richiesta dei protettori, nel 1666 tale obbligo viene a cadere, e si lascia a questi ultimi la facoltà di decidere come e quando gli ebrei debbano assistere alle prediche.

La situazione cambia nuovamente nel 1669, perché la costrizione viene rinnovata. È un periodo molto sfavorevole per la nazione ebraica, costretta a subire gli attacchi del partito che da sempre la osteggia. Una gran parte degli ebrei, timorosa di un peggioramento dei rapporti con le autorità, decide di abbandonare la città. In questo contesto il governo genovese, non volendosi lasciar sfuggire una comunità tra le più ricche, decide di abrogare nel 1675, insieme ad altre restrizioni, l’obbligo di seguire le prediche (Brizzolari pag. 170). Da questa data in avanti non si ha più sentore di tale odiosa costrizione, e nei capitoli tolleranti del 1752 non si fa ad essa alcun accenno (Staglieno pag. 411). Altre restrizioni riguardano, come risulta dai capitoli di tolleranza del 1658, la possibilità di avere rapporti di lavoro con i cristiani, la compera o la vendita di immagini sacre, l’introduzione di libri sacri in città e il possesso di armi. Ai protettori della nazione ebraica è lasciato il compito di stabilire se tali restrizioni debbano essere applicate o meno (Urbani, 1986 pag. 198).

Un capitolo particolarmente complesso nei rapporti tra gli ebrei e la repubblica concerne la regolamentazione delle attività consentite. Grazie a documenti quali salvacondotti e permessi (concessi soprattutto a cominciare dalla fine del XV secolo), si riesce a stabilire con certezza che le loro principali occupazioni riguardano i settori dell’arte medica e la mercatura. I mercanti, “causa negotiandi”, possono trattenersi in città per tre mesi, come accade ad un certo Lazzaro, che compare come teste in un rogito nel 1493 insieme a Rabi Aninel. Si sa che è un gioielliere, venuto a Genova “causa emendi iocalia” (Urbani 1983 pag. 304). Ma sono i medici a godere di un trattamento di privilegio, e nonostante le disposizioni ecclesiastiche del 1226 avessero sancito la proibizione dell’esercizio della professione nei confronti dei cristiani, l’autorità li tiene in gran considerazione. Naturalmente quello della repubblica è un atteggiamento interessato, considerando le epidemie di peste che in quel periodo si ripetono ad intervalli brevissimi. Troviamo pertanto un Teodoro Sacerdote che, ottenuto un salvacondotto di due anni nel 1541, riesce a farselo rinnovare nel 1544 e nel 1546. L’esempio più illuminante è però quello del famoso Joseph Hokohen, che nonostante i divieti e le leggi persecutorie riesce a stabilirsi e ad esercitare nell’oltregioco (Urbani, 1983, pag. 304).

Verso la fine del XV secolo la presenza ebraica si fa più frequente e vivace: alle vecchie professioni se ne affiancano di nuovissime . Nel 1485 Isaac, di Donato, ebreo di Soncino, ritira da Rocero de Rigoza sei casse di libri scritti in ebraico, acquistati a Soncino da Giovanni Segal (archivio notarile, notaio Martino Brignole, filza 2). La dimostrazione che il commercio di libri a stampa non è una professione effimera ma, al contrario, un’attività in piena espansione, la si ha da un documento del 1491, col quale un certo Consilio ebreo delega la moglie affinché costei si possa recare fuori città per il suo commercio di libri stampati sia in ebraico sia in latino (archivio notarile, notaio De Carlo Lorenzo, filza 46).

Ma è dal censimento del 1663 (il terzo in assoluto) che si può desumere con più precisione quali attività gli abitanti del ghetto, e non solo quelli, esercitano con il permesso delle autorità. Come al solito la maggioranza è costituita da mercanti e commercianti, i più ricchi dei quali, come David Pegna che traffica in gioie e mercanzie, o Abram Mendes Osuna che commercia in tele, o Iacob Mesa commerciante di gioie e impegnato in altri traffici con il levante, chiedono ed ottengono l’esenzione dalla residenza nel ghetto (Urbani, 1983 pag. 309). La maggior parte degli ebrei però vive nella giudecca, alcuni con mansioni prettamente legate alla vita della nazione; vi sono un sarto, un’ostessa, un rabbino, un consigliere e maestro di ebraico. Inoltre troviamo chi negozia in gioie e coralli, chi lavora diamanti; molti fanno i rigattieri, vivono di industrie non specifiche, commerciano in tele, viaggiano, “uno solo tiene bottega di speziale in ghetto, un altro fa la cioccolata” (Urbani, 1983 pag. 310).

Verso la fine del XVII secolo, quando l’eccellentissima Camera concede anche agli ebrei di Genova di diventare appaltatori, abbiamo il permesso nel 1659 ad Abram Senior Corionel e Elias Cardoso per la privativa del tabacco (Urbani-Zazzu pag. 41). Successivamente nel 1696 i Levi e i Sacerdote diventano impresari dell’acquavite e del caffè (con l’esenzione del segno estesa anche ai propri dipendenti). Va ricordato che i Levi possiedono anche l’appalto del tabacco e assieme agli Jona di Casale sono “partitari” del sale per il Monferrato e la zona di Torino (Urbani, 1983 pag. 307). Rimangono sempre i rigattieri, mentre scompaiono i gioiellieri, probabilmente chiamati in altre città (Amsterdam, Londra). Compaiono i finanzieri e aumentano i mercanti, che come d’uso nel XVIII secolo non sono specializzati in singoli rami. Si veda ad esempio la famiglia Del Mare, che si occupa di cacao, vaniglia, zafferano, damasco, seta indiana, o la famiglia Sacerdote, che oltre agli appalti è interessata al grano e all’attività bancaria “che è la sola esercitata dai Levi del Banco, originari di Venezia” (Urbani, 1983 pag. 312). Non sono da dimenticare i già citati Levi, incontrati nelle vesti di appaltatori e ora anche interessati alla seta e alle assicurazioni.

Una delle attività prettamente ebraiche per tradizione, il prestito a pegni, a Genova non è permessa, e salvo rare eccezioni solamente dopo il 1540 sono concessi permessi ad ebrei per svolgere tale opera, con l’obbligo di praticarla al di fuori delle mura cittadine. Tale proibizione non è certamente l’unica né la più pesante che gli ebrei devono accettare. Infatti l’impossibilità di possedere beni immobili, sancita dai Concilii Laterani III e IV (1176, 1215) è ripetuta negli atti notarili riguardanti cessioni o contratti matrimoniali (Urbani-Zazzu pag. 34). Ciò nonostante sono frequentissime le cessioni di abitazioni o appezzamenti di terreno da parte di ebrei, che in genere non vengono citati espressamente come proprietari, nel senso pieno del termine, ma risultano essere entrati in possesso degli immobili a titolo di riscossione di crediti. In pratica viene applicato il compromesso per il quale gli ebrei possono essere titolari di un bene immobile, ma possono farne uso solo per un brevissimo lasso di tempo, come si desume dall’atto notarile che sancisce la vendita di un pezzo di terra coltivato a castagneto e relativo essiccatoio nel luogo di Voltaggio, da parte di Salomon Levi, ad un abitante della zona (archivio notarile, notaio P.F.Baccicalupo, filza 39).

Si è già visto come gli ebrei abbiano costituito a più riprese un cespite occasionale per le casse della repubblica: ciò in relazione alle concessioni straordinarie e alle esenzioni ottenute dietro pagamento. Esiste però anche un rapporto fiscale continuativo tra la comunità ebraica e l’amministrazione, che si concretizza nell’imposta pro-capite, prima mensile e poi annua, che ciascun capofamiglia è tenuto a versare.

Una prima testimonianza dell’esistenza di questa tassa è riferibile al 1636, anno per il quale la quota mensile è fissata in otto reali, e viene riscossa dalla repubblica a titolo di tassa di soggiorno (Brizzolari pag. 138).

Dopo un ventennio, nel 1658, la natura dell’imposta appare più sfumata, al punto da potersi considerare già una tassa di residenza, ed è fissata in uno scudo d’oro mensile pro-capite (Staglieno pag. 4OO).

All’epoca del ghetto, nel 1669, l’imposizione assume invece il carattere annuale, e rimarrà poi tale per tutto il secolo successivo (Brizzolari pag. 17O).

Oltre a questa tassazione diretta, lo stato riesce a spremere denaro agli ebrei anche con prelievi salatissimi sui beni non trasmessi in eredità diretta (ad esempio di ebrei morti senza lasciare eredi) (Brizzolari pag. 152).

Nel complesso comunque il maggior partito economico Genova lo trae dalle attività sviluppate dagli ebrei, piuttosto che dalle esazioni ad essi imposte.

2)  Marchesato del Monferrato

I rapporti tra la comunità ebraica e l’autorità civile nel marchesato del Monferrato si connotano all’insegna di un atteggiamento, da parte di quest’ultimo, decisamente diverso rispetto a quello che abbiamo trovato nella repubblica di Genova. Salve restando le costrizioni che caratterizzano la vita e l’attività degli ebrei in tutta la penisola sino all’emancipazione, è possibile desumere dall’esame dei provvedimenti una certa linearità di atteggiamento che non aveva certo caratterizzato la politica ebraica nel genovesato. Ciò anche tenendo conto dei mutamenti nel senso di una minore tolleranza, intervenuti dopo il passaggio del marchesato dalla famiglia dei Paleologhi a quella dei Gonzaga.

È difficile stabilire le ragioni di questa diversa attitudine, ma ritengo che possano essere individuate almeno alcune componenti che dovettero pesare sul rapporto con gli ebrei. La prima è costituita forse dalla natura stessa dello stato monferrino, retto fin dalle origini da famiglie (Aleramici) di antica e salda tradizione ghibellina, e conseguentemente piuttosto ostili a qualsiasi interferenza di tipo ecclesiastico. Inoltre, per la sua stessa origine, il Monferrato presentava una grande varietà di situazioni giuridiche, determinata dai privilegi e dalle franchigie di varia natura di volta in volta concessi alle città, alle comunità libere, e alle zone infeudate a nobili che erano entrate gradatamente a far parte dello stato. Questo implica una maggiore facilità nell’intrecciare ulteriori rapporti con le altre realtà sociali o economiche. In sostanza gli ebrei vengono ad inserirsi non in una struttura rigida ed ordinata, che avrebbe opposto indubbiamente una maggiore resistenza, ma in un panorama più variegato, all’interno del quale è loro assicurata una parziale mimetizzazione. Va inoltre rilevato come la famiglia dei Paleologhi abbia adottato costantemente una politica economica di forte protezionismo, che risulta accentuato anche rispetto agli standard dell’epoca. Questa scelta comporta la necessità di un apparato finanziario di supporto sul territorio, ed è probabilmente all’origine dell’incentivazione all’apertura di banchi di prestito, competenza tipica degli ebrei.

La seconda motivazione della presenza ebraica è indubbiamente legata alla rilevanza economica della zona. Casale e Alessandria, i due centri principali dell’insediamento ebraico, sono a mezza strada tra Genova e Milano e rappresentano tappe obbligate per il traffico commerciale. Lo stesso vale, sulla direttrice di Torino, per Acqui Terme. È pertanto naturale che si sia prodotta già nel corso del basso medioevo un’attrazione verso questi luoghi da parte di comunità che fondavano la loro esistenza solo sulla transazione finanziaria e commerciale.

Molto probabilmente sono banchieri i primi ebrei che dopo il 1431 vengono a stabilirsi nei territori del marchesato del Monferrato, provenienti quasi esclusivamente dal sud della Francia (Milano pag. 146). È di questo periodo infatti la cacciata degli ebrei dalla Savoia (1461), luogo nel quale si erano rifugiati in seguito all’espulsione diramata dal re di Francia, e dalla quale si allontanarono per approdare in terra di Romagna e di Lombardia. È possibile quindi che qualche famiglia ebrea si sia fermata nel Monferrato (Foa, 1914 pag. 7). È pur vero che il Lavezzari, nella sua storia di Acqui, riporta un documento che attesta di una presenza ebraica ad Incisa già nel X secolo (fa riferimento al diploma di Oddone marchese di Incisa, terzogenito di Aleramo dell’anno 900, che contiene il seguente passo “judeorum etiam familiis jam pridem in moltis locis Marchionatus habitantibus tolleravimus et permissimus ut remaneant in ipso, sed in Burghis tantum huius oppidi Incisae, ita tamenne perturberentur chatolici sub poena exilii et indignationis nostrae”): ma di questa comunità ebraica nei secoli successivi si perse il ricordo. In definitiva si deve attendere la seconda metà del XV secolo per trovare nel Monferrato una presenza giudaica documentata. Tale presenza si consolida con l’arrivo di profughi sefarditi provenienti dalla Spagna, i quali costituiranno il nucleo principale che andrà sviluppandosi nel territorio monferrino nei secoli futuri.

Alla metà del XVI secolo gli ebrei nel marchesato sono circa trecento, con una forte concentrazione nel capoluogo. Si stima infatti che nella sola Casale vivessero circa duecento giudei. La rilevanza di questo insediamento è determinata dall’introduzione all’inizio di questo secolo di un apposito ufficio detto del Conservatore -dalla carica conferita all’ufficiale designato a rappresentare presso l’autorità l’intera comunità ebraica- che funge da intermediario tra gli ebrei e lo stato.

Verso la fine del XVI secolo i giudei sono ancora aumentati: una stima approssimativa porta ad affermare che essi nel 1601 raggiungessero le cinquecento unità (Foa, 1914 pag. 69). L’aumento non appare particolarmente significativo se rapportato a quelle premesse che sembravano fare del Monferrato, nel XVI secolo, un promettente ricetto per l’ebraismo. Ciò è dovuto al progressivo peggioramento dei rapporti fra la comunità ebraica ed il potere. È infatti vero che il passaggio del marchesato, avvenuto nel 1536, dalla famiglia dei Paleologhi a quella dei Gonzaga non porta in un primo tempo a sostanziali differenze nella politica riguardante i giudei -i primi articoli di tolleranza dei duchi di Mantova, del 1539, sono quasi identici a quelli del 1509- e che la comunità godette di franchigie tali da farla apparire privilegiata rispetto a tutte le altre esistenti nel territorio italiano. Ciò tuttavia non durò a lungo, perché già dopo la metà del secolo i nuovi editti presentano sostanziali differenze rispetto ai precedenti capitoli di tolleranza. Nel 1570, ad esempio, viene introdotto l’abominevole obbligo del segno distintivo, fino ad allora sconosciuto in quelle terre. Questo provvedimento, insieme ad altre restrizioni, rallenta indubbiamente l’afflusso ebraico nelle terre monferrine, e ne offusca l’immagine di luogo di rifugio.

Tramite le suppliche del 1622 rivolte al duca, relative ad una tassazione imposta nel 1621, si desume che gli ebrei non superano le cinquecentosettantacinque unità, delle quali centoquattro sono in condizioni miserabili (A.S.T., Materie Economiche, Monferrato n.1, mazzo XII). Purtroppo non abbiamo più dati statistici fino al 1710, anno nel quale risulta un aumento di circa quattrocento persone rispetto al 1620. Molto probabilmente le cause che hanno impedito un afflusso maggiore sono da ricercare negli orrori delle innumerevoli guerre combattute in quel periodo, con lo strascico delle immancabili pestilenze. Va però ricordato che con il trattato di Cherasco del 1631 una parte della comunità ebraica, quella abitante nella fascia più occidentale del territorio monferrino, è passata sotto la giurisdizione della casa Savoia.

Nel 1731, quando quasi tutto il Monferrato è diventato dominio savoiardo, gli ebrei che lo abitano sono stimati in un migliaio circa; trent’anni dopo toccheranno le milleduecentottantacinque unità. Un considerevole aumento è testimoniato per il 1774, quando vengono censiti per il Monferrato ben millenovecentoquarantadue giudei (Foa, 1914 pag. 71).

Dalla vastissima documentazione concernente i rapporti intervenuti tra la comunità ebraica e l’autorità civile monferrina lungo più di due secoli, balza evidente un dato: nel marchesato del Monferrato non sono mai stati presi provvedimenti di espulsione nei confronti degli ebrei. Ciò è significativo di una politica ben diversa da quella praticata nella repubblica di Genova e di una notevole integrazione degli ebrei stessi nel contesto economico, ma anche in quello civile.

Già i primi privilegi risalenti al 1509 (Foa, 1914 pag. 9), ma che probabilmente ribadivano precedenti concessioni, testimoniano che gli ebrei potevano godere in pratica delle stesse libertà concesse ai cristiani (art.1, 5, 6, dei capitoli di tolleranza del 1509), ivi compreso il diritto al possesso di beni stabili – quanto meno, non esiste alcuna clausola restrittiva in tal senso. In tale documento è esplicitamente affermato che gli ebrei non sono soggetti ad alcuna autorità che non sia quella del marchese, esercitata col tramite di un “conservatore”, deputato ad una funzione di intermediario nei rapporti con l’autorità civile e giudiziaria (Milano pag. 275). Quest’atteggiamento viene confermato in una convenzione del 1522, nella quale si stabilisce che gli ebrei “possano et vogliano in la città di Casale con qualunque persona si de che grado et condicione traficare, negoziare e fare contratti liberamente senza alcuna contradicione e impedimento” (A.S.T., Materie Economiche, mazzo XII, n. 2, ebrei -12 Dicembre 1522. Confermazione fatta dalla città di Casale a favore dell’università degli ebrei dei patti e convenzioni seguite allorché furono accetti nella suddetta città).

Dopo il passaggio ai Gonzaga il clima di tolleranza e l’atteggiamento benevolo vengono riconfermati da un editto del 1539, nel quale tra l’altro si afferma esplicitamente la libertà dall’obbligo del segno distintivo e si vieta agli ecclesiastici di esercitare qualsiasi ingerenza o pressione nei confronti degli ebrei e delle loro attività (art.19 e 14, già presenti anche nell’editto del 1509). Ancora nel 1553 alla comunità ebraica monferrina è risparmiata l’applicazione dei decreti papali con i quali si ordina la distruzione dei testi sacri dell’ebraismo (Ha-Cohen, pag. 134). Tali decreti invece vengono emessi nella non lontana Ferrara – altra terra di rifugio per i giudei perennemente perseguitati.

Nel 1570 però un nuovo editto di tolleranza testimonia un cambiamento di atteggiamento dell’autorità ducale. Oltre all’introduzione del segno distintivo, viene formalizzata la separazione dai cristiani, proibendo la coabitazione e ogni forma di familiarizzazione. Va comunque sottolineato come, nonostante queste restrizioni, nel marchesato del Monferrato non si sia mai arrivati – almeno fino all’avvento dei Savoia- alla realizzazione del ghetto (Foa, 1914 pag. 12). Limitazioni ulteriori, come quella relativa all’acquisto di beni immobili sono emanate negli anni immediatamente successivi (A.S.T. Materie Economiche, mazzo XII. 8 maggio 1577), e accompagnano un inasprimento della regolamentazione dei rapporti tra gentili ed ebrei.

Nel 1592 un nuovo editto di tolleranza, per il resto quasi identico a quelli immediatamente precedenti, introduce l’obbligo della concessione pontificia per la residenza sul territorio ducale e la conseguente apertura di banchi di prestito (Foa, 1914 pag. 44). Ciò è significativo di un considerevole aumento dello spazio di interferenza dell’autorità ecclesiastica nei rapporti con i giudei. Nel frattempo si infittiscono le accuse di infrazione dei capitoli ducali, in relazione alle quali vengono di norma spiccate sanzioni pecuniarie salatissime (A.S.T. Materie Economiche, Monferrato, mazzo XII, n.1, f.47).

Gli editti di tolleranza si ripetono a scadenze ormai sempre più ravvicinate, normalmente in occasione delle successioni ducali o comunque con cadenza decennale, e in via straordinaria in concomitanza con avvenimenti esterni – guerre, occupazioni – o interne – disordini, accuse mosse agli ebrei – che comportano la necessità di una revisione (A.S.T. Sezioni Finanze, regionari ed ebrei, mazzo I). Nella maggioranza dei casi gli interventi assumono una valenza restrittiva e segregazionistica: ad esempio, viene a più riprese confermato l’obbligo del segno, rispetto al quale sono concesse esenzioni solo in occasione degli spostamenti (vedi art.3 dei capitoli del 1623), o per meriti speciali (vedi art.11 del 1678, 1689, art.12 del 1703 nei quali si stabilisce l’esenzione del segno per i massari dell’università ebraica), oppure a causa di servizi particolari resi all’autorità (A.S.T. Concessioni, Monferrato Vol. XI, f.23. In cui, data 20 Ottobre 1646, si afferma: “habbiamo così continuati saggi della divotione e fedeltà con cui Salomone Jona hebreo di Casale s’impiega in maneggi et affari di non poco interesse della Ducal Camera et buon servitio del Duca nostro figlio che conservandole quella grata volontà, che merita, disposti a darlene apparente dimostratione, in virtù delle presenti che da noi saranno firmate e corroborate col nostro solito sigillo concediamo al medesimo Salomone che possa ne stati del predetto Duca nostro figlio, liberamente andare et trattenersi senza alcun segno solito portarsi dagli hebrei, concedendoli in più di camminar di notte per la città senza il lume, tale essendo la nostra espressa volontà la quale comandiamo che da ministri ei ufficiali nostri ai quali spetta e spetterà sia ubbidita et fatta puntualmente eseguire per quanto stimano cara la gratia nostra”). Non è senza significato il fatto che non siano riscontrabili dalla documentazione esistente deroghe ad personam concesse dietro pagamento.

Tuttavia vi sono anche interventi intesi a rassicurare la comunità ebraica e a garantirne i privilegi-ad esempio in occasione del trattato d’armistizio stipulato sotto Casale il 15 settembre 1630 -(De Conti vol. 7 pag. 358), che lasciano trapelare il timore da parte dell’autorità ducale di un esodo degli ebrei stessi verso zone nelle quali sono promesse loro maggiori franchigie, come nel ducato di Modena (Milano pag. 302), e dove non siano raggiunti dagli strascichi di una guerra che da oltre quindici anni provoca morte e sofferenze (Foa, 1914 pag. 17).

Allo stesso modo i duchi intervengono a più riprese nel difendere gli ebrei da accuse o da persecuzioni provenienti dagli ambienti ecclesiastici o dalla popolazione. Troviamo ad esempio nel 1562 una grida ducale nella quale si intima “che non sia alcuna persona di qual grado, stato e condicione vogli si sia che olsi nè presuma in modo alcuno dar travaglio nè fastidio agli hebrei di questa città di Casale così in detto come in fatto come in istigare altri contra de loro sotto pena de ducati cinquanta per caduno contrafacente et ogni volta che contrafarà da essere applicati alla Ducal Camera Marchionale et che non haverà il modo di pagar detta pena li sarà irremisibilmente dato tre strapate di corda” (da registro degli atti seguitanti il Senatore Rolando della Valle, conservatore degli ebrei, pag. 15, nell’A.S.T. Materie Economiche, Monferrato mazzo XII, n. 4), e negli stessi termini si esprimono successivi interventi del 1611, del 1612, del 1625, ecc.. In questo senso è ancor più significativo il fatto che agli ebrei venga fatta concessione, praticamente lungo tutto questo periodo, di detenere in casa armi per la difesa (Foa, 1914 pag. 116): ciò a differenza di quanto avviene nella gran parte degli altri stati italiani.

Anche per quanto concerne tutta la casistica minuta delle proibizioni relative alla convivenza e ai rapporti con i cristiani – ad esempio il divieto di qualsiasi tipo di familiarizzazione – appare abbastanza evidente la volontà di tutelare non solo l’integrità spirituale dei sudditi cristiani, ma anche l’incolumità di quelli ebrei. Va sottolineato infatti come non sia mai contemplato negli editti di tolleranza l’istituto della predica rituale, che oltre a costituire per gli ebrei una palese prevaricazione, li espone anche all’eccitazione e al fanatismo indotti da tale pratica negli animi dei gentili. Solamente in rare occasioni tale obbligo viene menzionato, e la cosa è indice più della compiacente debolezza di qualche duca verso l’autorità ecclesiastica che di un atteggiamento persecutorio (Foa, 1914 pag. 128). È sufficiente comunque una brenta di vino (circa 50 litri) donato dalla comunità ebraica all’autorità competente per far cessare tale imposizione (De Conti vol.9 pag. 101).

Il rapporto economico tra la comunità giudaica e l’autorità monferrina è ancora una volta significativo di una diversa collocazione della comunità stessa nell’ambito dello stato. Viene infatti elaborato un sistema di tassazione che non si affida alle esazioni straordinarie, connesse magari ad una minaccia di espulsione, ma poggia su una contribuzione continuativa di una certa entità, che può essere anche piuttosto alta rispetto agli standard del tempo, proprio perché garantisce non soltanto la libertà economica, ma anche una sicurezza e una continuità di rapporto nel tempo. La particolare impostazione di questa politica fiscale è data dal regime di autonomia, nella ripartizione e nel prelievo, concesso alla comunità stessa. In pratica è la stessa università ebraica a regolamentare al suo interno le quote di concorrenza di ciascuna famiglia per la determinazione della somma da conferire alle casse ducali. Questa prassi è indubbiamente comune a quasi tutte le comunità ebraiche (Milano pag. 496) e non soltanto a quelle italiane, ma nella maggior parte dei casi il ruolo della comunità è quello della pura esazione, sulla base di criteri di ripartizione di tipo volontaristico, chiamato della “cassella”, ove ogni singolo ebreo, a data prestabilita, introduce in una cassetta sigillata (posta nella sinagoga) quanto ritiene debba essere il contributo spettantegli sulle spese collettive, tenendo conto del proprio patrimonio, del quale doveva dare un resoconto schematico. Tale sistema fu molto usato per esempio negli stati Estensi (Balletti pag. 127). Nel caso della comunità monferrina è invece previsto un metodo di imposta diretta sui redditi con modalità simili a quelle riscontrate nell’università ebraica veneziana.

Già nel 1539 esiste un sistema di tassazione così strutturato: l’assemblea degli ebrei, con l’autorità che le è conferita, scegliendo tra persone esperte e capaci, nomina una commissione, detta dei “tassatori”, alla quale spetta la distribuzione dei tributi. Vengono inoltre nominati dall’assemblea i visitatori e i confidenti, i primi con l’incarico d’ispezionare i registri per gli estimi sui quali stabilire le tasse, i secondi col compito di riscuotere i singoli contributi da versare nella cassa ducale, come stabilito dal decreto del 1624 (Foa 1914 pag. 130). Agli ebrei sono concessi tre giorni per pagare o per ricorrere; ottenuta la sentenza relativa al ricorso, usufruiscono di ulteriori tre giorni per il saldo. Molto probabilmente un sistema di siffatta attuazione viene usato dalle comunità ebraiche costrette a trovarsi per lunghi o brevi periodi in situazioni calamitose. Infatti se si pensa a ciò che l’università monferrina ha sopportato tra il XVI secolo e la prima metà del XVII secolo a causa delle ripetute devastazioni provocate dalle guerre, si può capire che la tassazione volontaria non avrebbe portato a risultati soddisfacenti.

Vediamo ora a quali contribuzioni gli ebrei sono chiamati. La prima imposta – detta anche ordinaria – assicura il diritto di residenza e di tutela che i duchi concedono ai giudei, in cambio di un pagamento annuo, con scadenza decennale e che garantisce loro l’esenzione da qualsiasi altra imposta personale o comune, salvi i dazi e le gabelle (Milano pag. 488). A questi tributi se ne aggiungono poi degli altri – i cosiddetti straordinari – da corrispondersi all’atto del rinnovo pluriennale delle tolleranze stesse, “per ottenere il condono generale sulle trasgressioni vere o presunte compiutesi nella tolleranza precedente” (Foa 1914 pag. 132). Il tutto dietro il pagamento di una somma non indifferente. Un’ulteriore costrizione economica viene dalla contribuzione di “speciali donativi” per concessioni particolari, come ad esempio quella ottenuta – dietro il pagamento di cinquanta scudi – da Jacob Segre, che nel 1587 “chiede il permesso di pigliar un compagno nel banco per il tempo che gli sarà conveniente, che possa godere di tutti i privilegi e che finita detta compagnia possa partirsene a suo piacere ed esigere i suoi crediti”(A.S.T. Materie Economiche mazzo XII n. 1 f.3); o dalla concessione fatta a Simon Poggetto che “domanda di poter rimettere il suo banco di Livorno al fratello suo Benedetto di Alessandria coi soliti privilegi, offrendo per questo venticinque scudi di donativo” – che gli fu concesso però dietro pagamento di cinquanta scudi d’oro – (A.S.T. Materie Economiche n. 1, foglio segnato con la data 30 marzo 1593).

Numerose sono anche le imposte indirette per le spese di cancelleria, per la bollatura annuale dei registri e per l’estrazione di copie e atti giudiziari nelle cause. Queste ultime particolarmente gravose, come si desume dall’articolo 14 della tolleranza del 1678, in cui si stabilisce che “per sollevare gli ebrei dalle spese eccessive che sogliono occorrere nel levar la copia de’ processi nelle liti, dinanzi al Conservatore, sia tenuto l’Attuaro, ridotte che saranno le cause a sentenza, portare gli atti e processi allo stesso Conservatore senza alcun agravio di spesa, come già da alcuni anni si praticava”(A.S.T. Sezione Finanze religionari ed ebrei, mazzo I, e Monferrato, concessioni n. 13, f.30).

Per ultimi vengono quei donativi che a titolo grazioso sono elargiti dagli ebrei ad alcune autorità, come ad esempio il caratteristico dono di due oche al vescovo di Casale (De Conti vol. 9 pag. 175). In questo modo tra doni d’ogni maniera gli ebrei del Monferrato cercano di comprarsi il diritto alla vita. Naturalmente non mancano occasioni per introdurre ulteriori tassazioni straordinarie, quando per esempio il duca Vincenzo, avendo contratto un grosso debito con signori genovesi, chiama a concorrere per una parte della somma anche l’università giudaica (nell’A.S.T., Sezione Camerale, si trovano diversi documenti sulle relazioni tra la Ducal Camera, gli ebrei, e i banchieri genovesi): ma si tratta appunto di situazioni davvero straordinarie e non di una prassi corrente.

Come si desume dagli editti del 1509 o del 1539, o dalla già citata convenzione, gli ebrei per ciò che riguarda le attività economiche – ma non solo – godono almeno fino alla metà del XVI secolo di un’ampia libertà, non inferiore in fondo a quella concessa ai gentili. Solamente a partire dal 1570, sotto il duca Guglielmo, le condizioni dell’università ebraica peggiorano. Basti ricordare che proprio nei capitoli di quell’anno, per la prima volta, viene ufficializzato il divieto sull’acquisto di beni stabili. Tale provvedimento verrà d’ora in poi ribadito ad ogni rinnovo di tolleranza. Vi è inoltre l’obbligo per gli ebrei che ricevono terreni a titolo di riscossione di crediti a vendere gli stessi entro il termine dei tre anni; in questo lasso di tempo è loro permesso, nel caso tali beni siano di natura edilizia, di affittarli indifferentemente sia ad ebrei che a cristiani. L’unica esenzione contemplata da un provvedimento così restrittivo riguarda i terreni per uso di cimiteri (Foa 1914 pag. 24): i morti vanno sempre rispettati.

Evidentemente il provvedimento non ottiene il risultato voluto, dato che sette anni dopo il duca Guglielmo è costretto a ribadire la limitazione poc’anzi citata, ed emana una grida in cui si stabilisce che “agli ebrei è vietato l’acquisto di beni stabili, sotto la pena della confisca di essi” (Saletta pag. 65). È probabile che sulla stesura di questa legge abbia influito l’inserimento della posizione dell’autorità ecclesiastica, così come è da ritenersi che il clero premesse affinché la si applicasse nel modo più integrale. Tanto interesse non deve essere piaciuto nemmeno al pur devotissimo duca, se ha infine mitigato il divieto con la lunga proroga dei tre anni.

Molto meglio vanno le cose sotto la dominazione dei Gonzaga Nevers. Nel 1637 Carlo I estende il termine di scadenza aggiungendovi altri due anni; questi diventano poi dieci nella tolleranza del 1662, dodici in quella del 1689, fino ad arrivare ai capitoli del 1703, in cui si stabilisce che “ritrovandosi la detta università, banchieri e particolari a tenere o a ciascun di loro o in altra forma, e che non abbiano fatto esito o per non aver trovato il costo o per altra causa concediamo benignamente che possano essi avere la dilazione di sei anni de dodici della presente tolleranza” (art.15 dell’editto di tolleranza). Così abbiamo nel 1667 il rinnovo, da parte della duchessa Isabella Clara, delle concessioni per lo sfruttamento di beni fondiari agli ebrei Salomone Jona e Jona Clava (A.S.T. Concessioni, R.XII, f.65). Va ricordato che le famiglie ebraiche degli Jona e dei Clava, hanno con l’autorità un rapporto privilegiato – abbiamo già visto in precedenza come Salomone Jona ottiene, grazie a servizi resi alle autorità civili, l’esenzione di portare il segno -: è comunque un fatto certo che ancora nel 1690 almeno i Clava rimangono in possesso del loro terreno; infatti in una supplica inviata al duca, in merito alle devastazioni che la guerra ha provocato, essi si lagnano di aver avuto “tagliate le vigni e distrutte le fabbriche”(Foa 1914 pag. 28).

Sicuramente sia gli Jona che i Clava risultano essere almeno per tutto il XVII secolo le personalità più in vista della comunità ebraica di Casale, e quindi dell’intero Monferrato. Vedremo in seguito quanto furono determinanti per lo sviluppo dell’economia del marchesato, che proprio in quegli anni (metà del XVII secolo) inizia una poderosa ripresa, grazie all’apporto determinante dell’università israelitica.

È questo un periodo molto favorevole per l’intera comunità giudaica. Verso la seconda metà del XVII secolo abbiamo notizie di diverse concessioni di possesso rilasciate dai duchi ad alcuni ebrei singolarmente; e ancora, all’inizio del XVIII secolo troviamo l’istanza di certi banchieri Sacerdote, i quali manifestano al re Vittorio Amedeo II il desiderio di acquistare alcuni beni stabili. Il re prima di rispondere fa esaminare la questione da un gruppo di stimati giuristi, che esprimono il seguente parere: “è pertanto notoria e senza dubbio chiara la tolleranza sempre avutasi in questo ducato di permettere agli ebrei l’acquisto o possesso di beni stabili, mediante la sola permissione o licenza de principi regnanti o sua ducal camera, come ce ne constano moltissimi e diversi atti, scritture e pubblici instrumenti, da quali ci è risultato avere in ogni tempo e in ogni occasione molti ebrei presi in paga, fatti acquisti volontari e necessari alienazioni, permute e altre disposizioni, erette fabbriche, sostenute liti e universalmente acquistati e ritenuti beni stabili d’ogni maniera a notizia de magistrati, del pubblico, e de stessi vescovi e altri superiori ecclesiastici senza mai altra licenza ne autorità che quella dei duchi e loro magistrati. Anzi la stessa casa de fratelli Sacerdote non una, ma più volte hanno ottenute simili licenze dai duchi defunti, di maniera che i loro antenati hanno altre volte acquistata e posseduta una lunga maggior quantità de beni stabili, di quella che al presente possedono ed anzi maggiore ancora di quella che supplicano alla quantitata di ottocentosettanta e più mogge avute le une immediatamente dallo stesso principe e sua ducal camera e le altre da diversi particolari”. La lettera conclude affermando che non era anticamente proibito agli ebrei l’acquistare beni fondiari negli “stati e regni della cristianità” se non dopo la pubblicazione delle bolle pontificie del 1555 e del 1566 (parere del presidente Riccardi, dei canonisti e teologi se li ebrei possino acquistare beni nel Monferrato, sta in A.S.T. Materie Ecclesiastiche, Cat.37; mazzo I n. 23).

L’editto proibitivo del 1570 e la successiva grida del 1577 sembrano voler confermare il contenuto della lettera sopra citata, e in effetti l’introduzione del divieto che compare nei due documenti dimostra che in precedenza gli ebrei possedevano beni immobili.

Di particolare interesse nei rapporti economici degli ebrei con il marchesato del Monferrato è la questione dei banchi di prestito. Abbiamo già visto come le prime notizie sugli ebrei monferrini residenti dopo il 1431 a Casale, a Moncalvo e probabilmente ad Acqui facessero riferimento a banchieri provenienti dalla Francia meridionale (Milano pag. 146 – Foa, 1955 pag. 41, 47).

Non troviamo riferimenti diretti all’attività del prestito fino all’editto del 1539, ma il fatto che a questa data le concessioni rilasciate per la detenzione di banchi di pegno fossero già diciotto porta a supporre che il marchesato avesse intrapreso già da tempo una politica di agevolazioni e di incentivazione dell’attività bancaria (Foa 1914 pag. 72). Tra l’altro, è proprio in occasione di tale editto che viene definito per la prima volta – almeno a quanto ci risulta – il tasso di interesse.

A trent’anni di distanza, nel 1570, i banchi ufficialmente registrati sono già quaranta, e la tendenza all’aumento sembra non aver risentito del cambiamento di clima testimoniato dal tenore del nuovo editto. Infatti nel 1576 i banchi sono ulteriormente aumentati, fino ad arrivare a quarantotto. Da questo momento però si attiva un’inversione di tendenza, probabilmente determinata dall’offensiva post conciliare della Chiesa, che cerca di riguadagnare spazio intervenendo anche sul terreno economico e promovendo l’apertura dei Monti di Pietà – il primo dei quali viene aperto a Casale nel 1573 – (Foa 1914 pag. 52). L’iniziativa della Chiesa ha indubbiamente come scopo prioritario quello di sottrarre i cristiani dalla dipendenza ritenuta vergognosa del prestito ebraico; non è estranea tuttavia anche la volontà di riproporre, in un periodo di incipiente secolarizzazione delle istituzioni assistenziali, una forte immagine sociale della Chiesa stessa. Questo spiega da un lato le restrizioni alle quali sarà soggetta l’attività finanziaria ebraica, ma dall’altro spiega anche come mai questa attività sopravviva: è evidente infatti che l’autorità civile non intende lasciare totalmente nelle mani del clero la gestione del piccolo prestito e del rapporto finanziario spicciolo con la popolazione, e ha pertanto interesse a garantire l’esistenza di banchi ebraici che sono in definitiva soggetti al potere laico.

Nel 1585 la concessione pontificia per l’esercizio dell’attività di banco agli ebrei del Monferrato restringe il numero a venticinque (Foa 1914 pag. 44). Al di là della contrazione numerica, è importante il fatto che sia diventato necessario il beneplacito papale, laddove in precedenza era sufficiente il permesso ducale.

A partire da questo periodo il peso economico dell’attività di prestito nel Monferrato comincia a scemare. Già agli inizi del 1600 l’autorità ducale sospende i numerosi privilegi di cui i tenutari di banchi avevano goduto sino a quel momento. C’è un breve periodo di ripresa, nel quale il numero di banchi sale a ventinove (1611), dopo il quale con l’avvento della guerra nel Monferrato e delle sue conseguenti devastazioni si verifica la scomparsa nel 1619 di quasi la metà dei banchi. Nel 1631 il numero delle concessioni è ridotto a dodici (A.S.T. Materie Economiche mazzo XII n. 23): a ciò contribuisce anche la diminuzione del tasso di interesse e il contemporaneo aumento degli oneri nei confronti dell’amministrazione civile. Per i restanti ottant’anni, sino alla scomparsa del marchesato, il numero dei banchi rimarrà invariato.

La diminuzione dell’importanza dei banchieri non corrisponde ad una flessione della presenza ebraica nel marchesato, anche perché a partire dagli inizi del 1600 gli ebrei hanno trovato sbocco in altre attività di tipo prevalentemente commerciale. È tuttavia probabile che proprio i banchi offrano la spiegazione del radicamento ebraico in terra monferrina. È anche da sottolineare come questa attività, che comporta normalmente un rapporto negativo con la popolazione stessa che ne fruisce, non sembra aver creato un’immagine particolarmente odiosa dell’ebreo presso gli abitanti del Monferrato: ciò è testimoniato dall’assenza di episodi di intolleranza collettiva di particolare rilevanza.

Con il passaggio nel 1631 del marchesato sotto la potestà del casato collaterale dei Gonzaga Nevers ha inizio per la comunità ebraica monferrina un periodo particolarmente florido – nel ducato di Mantova al contrario l’attività economica ebraica rimase notevolmente al di sotto del livello di un tempo -; infatti “in questa terra modesta, i cinque o seicento ebrei che vi dimorano, non più costretti al piccolo commercio del denaro, ma lasciati a briglia lenta da signori lontani e poco curanti, possono mostrare quale apporto sanno dare alla difficile economia del paese “(Milano pag. 3O6). Alcune famiglie primeggiano sopra le altre per solidità di mezzi e vastità d’affari, e appena la tolleranza dei nuovi duchi lo permette il denaro degli ebrei viene utilizzato per varie speculazioni. Nel 164O Salomone Jona e Jona Clava ottengono dalle autorità ducali il permesso di commerciare grano su vasta scala, stipulando un contratto che li autorizza a rifornire di frumento l’intera città di Casale; quattro anni dopo Salomone Jona ottiene – insieme ad alcuni cristiani – l’appalto “dei dazi, gabelle, tratte, smaltimenti di qua e di là del Tanaro, aggiungendovi il pedaggio di Moncalvo, carte da gioco e tabacco per trentamila ducatoni “(Foa, 1914, pag. 1O1). Alcuni anni dopo lo stesso Salomone e il suo socio Jona Clava si accaparrano la concessione di forniture per i soldati di presidio alle caserme, alla cittadella e al castello di Casale per la durata di tre anni; allo scadere del contratto l’incarico è nuovamente rinnovato per altri tre anni (A.S.T. Materie Economiche, Monferrato, R.XI, f.95), e successivamente tale compito verrà espletato dai loro eredi (A.S.T Materie Economiche, Monferrato, mazzo II, – gabelle e imprese generali- anno 1679 n. 7, 1683 n. 8, 1688 n. 9).

Accanto a queste due potenti famigli ebraiche ne troviamo altre pronte a cimentarsi nell’alta finanza; è il caso di Aronne Pontremoli, Marco e Joseph Azariele – padre e figlio – Sacerdoti, che si uniscono a Francesco Maria e Luigi Ventura – padre e figlio – e a Davide Camaiore, per l’esercizio dell’appalto del tabacco, pipe, carte e tarocchi (A.S.T Materie Economiche, Monf. mazzo II, n.11); oppure di alcuni Pavia che nel 1696 figurano come “munizionieri” dei soldati (A.S.T. Monf. concessioni, R.XIV, f.5O). Altri ebrei iniziano nuovi commerci e nuove industrie . Nel 1615 due mercanti di Torino, Amadio e Gabriele Del Bene, “ chiedono al duca di introdurre nella Città di Casale una nuova arte non esercitata ancora nel Monferrato, una fabbrica di piume d’ogni sorta da cappello; e per questo chiedono al duca di essere esenti da ogni dazio d’entrata e d’uscita, che fosse proibito a chiunque altro per il periodo di dieci anni tal industria nel Monferrato, che fosse loro assicurato aiuto e favori specialmente per il libero transito nello stato, di poter godere di tutti i privilegi e grazie concesse all’università degli ebrei senza esser costretti al pagamento dei loro carichi e di esser esenti di portar il segno solito di distinzione che portano tutti gli ebrei” (Foa 1914 pag. 39). La consulta ducale richiesta concede tutto meno che l’esenzione dal segno; tale franchigia verrà elargita dal duca stesso mediante un’apposita grida.

A contrastare l’ascesa economica della comunità ebraica abbiamo come al solito da un lato l’autorità ecclesiastica, con il P. inquisitore di Casale, che appoggiandosi alle direttive di Pio V si oppone alle concessioni che permettono ai giudei il commercio dei grani e il controllo sui dazi; mentre da parte laica sono i mercanti e i piccoli artigiani cristiani a scagliarsi contro l’università israelitica, preoccupati di una concorrenza che, forse non a torto, ritengono troppo ben organizzata e nella quale vedono una seria minaccia ai loro commerci.

Questi ripetuti attacchi, che periodicamente l’intera comunità ebraica è costretta a subire, non portano ai risultati sperati; anzi, come già sottolineato in precedenza, gli ebrei godranno almeno fino alla fine del XVII secolo di un periodo abbastanza fiorente. Sul finire di questo secolo, con la guerra iniziata nel 169O, e che durerà altri cinque anni, i giudei perdono lo stato di relativo benessere al quale erano abituati per ritornare alle tristi condizioni in cui versavano durante il conflitto del 163O (Foa 1914 pag. 1O3). Passata la bufera della guerra tutto sembra tornare alla condizione precedente le ostilità, come sottolinea il De Conti quando scrive che “nel 17O5 trovasi gli ebrei nel tempo dell’ultimo duca di Mantova ad esercitare indifferentemente tutte le arti comuni ai cristiani compresa l’arte medica…..viveva sul finire del secolo Giuseppe Mondovì medico ebreo” (De Conti, vol.9 pag. 162).

Non è solo il secolo a terminare: infatti con la morte di Ferdinando Carlo si estingue il casato dei Nevers e il Monferrato viene invaso nel 1709 dalle truppe savoiarde.

3)  Ducato di Savoia

La presenza ebraica nei territori soggetti al ducato di Savoia è segnalata già alla metà del XII secolo, con probabile provenienza dalla Francia (Foa, 1955, pag. 4). Molto presto la comunità ebraica ha un suo statuto e una sua identità fiscale ben definita.

I rapporti con l’autorità ducale, ma anche con quelle locali, sembrano essere per tutto il XIV secolo improntati ad una cauta benevolenza, come dimostrano una serie di convenzioni stipulate non solo con i vari duchi (Milano, pag. 145), ma anche con i consigli di provvigione di Torino (A.S.T. ordinati, anno 1425, f.95). Risulta anche evidente dai documenti dei protocolli ducali il ruolo finanziario che gli ebrei assumono con grossi prestiti (A.S.T. prot.duc. n.78, f.77 e 87 e ancora prot.duc. vol.86 f.490). Tuttavia, dopo aver già subito una crisi attorno al 1350, a seguito delle vicende legate alla peste (Foa, 1955, pag. 42), questi rapporti sembrano deteriorarsi dopo la metà del secolo successivo, quando compaiono i primi atti di espulsione, mitigati poi come al solito da proroghe e rinvii dietro pagamento (A.S.T. prot.duc. vol.76 f.560 e ancora prot.duc.90 f.10 – prot.duc. vol.90 f.191 e 175).

Dall’Italia meridionale, e successivamente, quando questa regione passerà sotto il dominio spagnolo, anche dalla Lombardia, si determina un flusso migratorio consistente verso le terre sabaude, che viene a provocare un mutamento di atteggiamento nei confronti della nazione ebraica. La nuova disposizione è probabilmente meno tollerante in ragione del maggior numero di ebrei presenti nel dominio, che cominciano a costituire un problema, anche perché nel frattempo molte delle attività che ad essi erano state riservate lungo tutto il medioevo cominciano a diventare legittime anche per i cristiani. In occasione dei bandi di espulsione che caratterizzano il XVI secolo – 1535, 1560, ecc. – gli ebrei trovano un momentaneo rifugio nel vicino Monferrato. Ma gli effetti di questi bandi sono poi quasi immediatamente vanificati da concessioni e riammissioni dietro pagamento di ingenti somme (Foa, 1955, pag. 47). In questo tipo di politica si segnala soprattutto Emanuele Filiberto, che usa in maniera particolarmente spregiudicata sia le coperture finanziarie consentite dal prestito ebraico, sia la minaccia dell’espulsione e il successivo ricatto economico (A.S.T. prot.duc. serie di corte reg.231 f.II 11r 12r).

Sotto il ducato di Emanuele Filiberto l’importanza della finanza ebraica diventa vitale per i Savoia, che risultano continuamente indebitati per cifre molto grandi con i banchieri loro sudditi (Foa, 1955, pag. 89), e induce il duca stesso a tentare di richiamarne altri con l’apertura nel 1572 di un porto franco a Nizza (Milano, pag. 274). Naturalmente questo suo atteggiamento nei confronti dei giudei gli vale un costante contrasto con le autorità ecclesiastiche, alle quali deve ogni tanto fare qualche concessione, come ad esempio nel 1574, quando è costretto a promulgare un bando di espulsione per quattro ebrei ritenuti dai Nunzi Apostolici dei Marrani. I quattro poveretti erano giunti insieme ad altri ebrei da Ferrara, attirati dalle concessioni favorevoli di casa Savoia. Anche questo provvedimento però non viene applicato, dal momento che le persone in questione continuano a risultare presenti nel territorio dai documenti relativi all’affitto dei banchi di Pinerolo e altri (A.S.T. editti stampati, mazzo 3; A.Segr.Vat., nunziatura di Savoia, reg.4 f.348r).

Alla morte di Emanuele Filiberto – 1580 – nei suoi domini sono attivi circa sessanta banchi ebraici (Milano, pag. 274), regolamentati da normative particolarmente accurate e spesso gestiti da famiglie che operano nel settore finanziario anche in altri stati, principalmente nel vicino Monferrato (Foa, 1955, pag. 134).

Carlo Emanuele I e i suoi successori proseguono la politica precedente, ed anzi migliorano ulteriormente l’intesa con i banchieri giudei. Questi ultimi, in seguito all’annessione da parte dei Savoia del di Saluzzo (1601), arrivano a controllare sino a quasi cento banchi feneratizi (Milano, pag. 275). Le attività economiche ebraiche però si vanno diversificando, e gli ebrei assumono un ruolo importante anche nei settori della fabbricazione e del commercio di tessuti e in quello dei preziosi e dell’oreficeria. A dimostrazione di ciò è significativa la reazione della corporazione degli orefici, che nel 1623 si scagliano contro la comunità ebraica, colpevole di usurpare i privilegi concessi solamente a detta corporazione.

Agli inizi del XVIII secolo, con Vittorio Amedeo II, entra a far parte dei domini sabaudi nel corso della guerra di successione spagnola anche Alessandria, e poco dopo è la volta dell’intero Monferrato; quindi la legislazione dei Savoia in materia di rapporti con i giudei viene ad interessare anche le nostre zone. Queste nuove acquisizioni fanno si che le comunità ebraiche siano governate da un’unica legge, pur rimanendo amministrativamente distinte; abbiamo così una “università generale degli ebrei” del Piemonte con sede a Torino, una per il Monferrato con sede a Casale, ed una ad Alessandria.

Per gli ebrei del Monferrato, soggetti fino a quel momento ad una normativa decisamente benevola, il passaggio sotto la dominazione sabauda comporta un peggioramento della condizione. È probabile che non si tratti soltanto di un diverso atteggiamento tenuto dalla famiglia sabauda, ma piuttosto di una tendenza generalizzata, che si manifesta in maniera più evidente laddove, come nel caso dei Savoia, viene ad instaurarsi un’autorità regia – 1713 – e viene messo in moto un processo di normalizzazione legato alla politica assolutistica. In altre parole il definirsi di uno stato “moderno”, nel senso dell’aumento delle competenze e delle interferenze dello stesso nella vita sociale, economica e culturale, comporta la necessità di un controllo più stretto e soprattutto la revisione, e quindi la possibile determinazione, di franchigie, statuti speciali e diversità conclamate.

Volendo riassumere le caratteristiche della politica dei Savoia nei confronti degli ebrei possiamo parlare di uno sfruttamento particolarmente esoso, che si accompagna però ad una disposizione decisamente spregiudicata e laica per quanto concerne la “diversità” religiosa. Lo sfruttamento viene esercitato sia attraverso i balzelli ordinari, che sono numerosi e in genere piuttosto salati, sia attraverso il ricorso ad esazioni straordinarie, realizzate con la periodica emanazione di bandi di espulsione. A differenza però di quanto accade nella Repubblica di Genova, e maggiormente in sintonia con l’atteggiamento del marchesato del Monferrato, i Savoia sembrano elaborare una vera e propria strategia nel rapporto con gli ebrei. Infatti sia le imposizioni ordinarie che quelle straordinarie sono mantenute in genere entro limiti tali da non provocare il dissesto della finanza ebraica o, peggio ancora la fuga degli ebrei, e al tempo stesso questi ultimi vengono fatti rientrare in un progetto organico, perseguito da più generazioni di governanti, di espansione economica. Di ciò sono prova i ripetuti tentativi di realizzazione di un porto franco affidato in pratica alla gestione ebraica, che potrebbe diventare lo sbocco privilegiato dei commerci piemontesi. Quello dei Savoia è quindi un atteggiamento decisamente cinico ma anche molto pragmatico, e ciò si traduce per gli ebrei in una relativa sicurezza, sia pure pagata o riscattata periodicamente a prezzi molto alti.

Esiste la possibilità, per quanto concerne la politica ebraica dei Savoia, di un raffronto tra normative specifiche adottate per regolamentare la presenza degli ebrei a distanza di tre secoli. Il primo tentativo di affrontare con una certa organicità il problema costituito dalla presenza ebraica si concretizza nella parte degli statuti di Amedeo VIII, banditi nel 1430, “che fissano i principi indispensabili perché gli ebrei possano vivere nei domini piemontesi di casa Savoia” (Anfossi, pag. 2). Tali norme ricalcano più o meno quelle comunemente diffuse negli altri stati italiani, ma hanno intanto, rispetto all’epoca nella quale sono emesse, il pregio di una certa organicità e di un’attenzione più dettagliata ai diversi problemi. Ad esempio la disposizione relativa all’obbligo per gli ebrei di risiedere in zone particolari già prefigura, nella sua formulazione, l’ipotesi di un ghetto vero e proprio (Bertola, pag. 17), mentre ad esempio per la legislazione genovese almeno sino alla metà del XVII secolo l’obbligo concerne determinate zone di residenza, ma non contempla l’ipotesi di un vero e proprio quartiere ebraico. Trecento anni dopo, nel 1723, le regie costituzioni emanate da Vittorio Amedeo II riconfermano per filo e per segno tutte le limitazioni e le imposizioni già comminate da Amedeo VIII, dettagliando specificatamente la regolamentazione del ghetto, stabilendo che “nelle città, nelle quali sono tollerati gli ebrei, si realizzerà un ghetto separato e chiuso per l’abitazione di essi, e quelle famiglie che si trovano sparse negli altri luoghi dovranno un anno dopo la pubblicazione delle presenti andar ad abitare nelle dette città, proibendo loro di introdursi senza nostra licenza in quelle, nelle quali non sono per anco stati ammessi” (n.1 del cap.1 delle costituzioni del 1723). L’istituzione ufficiale di tale imposizione, risalente al 1679 con il ghetto di Torino (Luzzati, pag. 25), verrà realizzata pienamente solo nel 1730, con Carlo Emanuele III. Tra questi due documenti normativi generali se ne inseriscono altri emanati da Carlo Emanuele II e da Carlo Emanuele III, anch’essi naturalmente identici. La necessità di ribadire a più riprese disposizioni legislative simili fa supporre che nella prassi tali disposizioni fossero comunemente disattese. Ciò è tanto più verosimile nello stato sabaudo, in quanto tutti i successivi governanti si sono mostrati disponibilissimi alla tolleranza rispetto alle infrazioni, purché queste fossero in qualche modo sanate da un corrispettivo economico. Ad esempio, la stessa disposizione sul ghetto, che pure negli statuti regi di Vittorio Amedeo viene enunziata con gran forza, è poi elusa dallo stesso sovrano con la concessione a diverse famiglie di risiedere al di fuori della zona di concentramento dietro pagamento di una pesante imposta. Allo stesso modo troviamo più volte esenzioni riguardanti la proibizione di costruire sinagoghe, esoneri dal servizio militare (Anfossi, pag. 11) e dall’obbligo di portare il segno in occasioni di viaggio (Anfossi, pag. 34) o durante i periodi di guerra (Anfossi, pag. 12). Sono poi la regola le proroghe concesse rispetto alle scadenze dei permessi di residenza o le esenzioni e le abrogazioni dei bandi di cacciata. Si veda ad esempio il comportamento della duchessa Beatrice – moglie di Carlo III – che dopo aver promulgato un bando di espulsione per gli ebrei di Asti e del contado, con l’obbligo di lasciare il territorio entro quindici giorni (A.S.T. prot.duc. vol.204, f.2), rilascia patenti con cui procrastina di sei mesi il bando a favore dei soli ebrei Giacobbe Elia e Giuseppe De Sacerdoti (A.S.T. prot.duc. vol.204, f.15). È comunque un fatto che alla morte di Beatrice, nel 1538, gli ebrei sono riammessi in Asti (Milano, pag. 272).

Anche nello stato sabaudo, sia pure in ritardo rispetto a quello del Monferrato, viene istituita nel 1551 dal duca Carlo II la figura del conservatore degli ebrei, attraverso la quale il duca liquida le interferenze giuridisdizionali dei tribunali civili e delle istituzioni ecclesiastiche. Questo istituto infatti si propone come il referente unico per il controllo dei rapporti tra gentili ed ebrei, e funziona da filtro rispetto ai soprusi e alle vessazioni di cui questi ultimi sono oggetto. In pratica “il conservatore, oltreché il giudice, sarà anche il rappresentante degli ebrei, in quanto funzionerà quale intermediario tra essi ed il principe; inoltre, quale autorità dipendente dal principe – in quanto lo rappresenta verso gli ebrei – avrà su di essi un potere di sorveglianza” (Anfossi, pag. 38). In un primo tempo è designato direttamente dal duca, mentre poi viene scelto soltanto fra i senatori – 1603 – e quindi – 1626 – sarà ancora eletto dal duca, fra tre senatori nominati dagli ebrei (Milano, pag. 275). L’istituto del Conservatore rimane attivo sino al 1723, anno nel quale quest’ufficio viene soppresso in maniera definitiva.

Le prime segnalazioni di una presenza ebraica nel Piemonte sabaudo, risalenti alla fine del XIV secolo, fanno riferimento ad attività artigianali o all’esercizio della medicina (Monte, pag. 405), ma anche ad attività connesse con il cambio ed il prestito di denaro (Foa, 1955, pag. 41). L’ufficializzazione della pratica del prestito autorizzata agli ebrei arriva con il duca Ludovico nel 1440 (Milano, pag. 145). L’autorizzazione viene concessa naturalmente dietro corresponsione di una tassa forfettaria. Concessioni specifiche sono testimoniate per Vercelli, dove nel 1446 tra il consiglio di provvigione del comune e gli ebrei Abramo e Angelo de la Vigneria – padre e figlio – si stipula una convenzione. In essa viene concesso ai due giudei di prestare denaro ad interesse, a fronte di una loro disponibilità a versare – in caso di bisogno – al comune fino a cento fiorini senza interessi per i primi sei mesi (Servi, pag. 311). Altre concessioni riguardano le città di Novara, Rivoli, Ivrea e Biella – 1448 – oltre che Torino e Savigliano (Milano, pag. 146).

La contraddittoria politica di Ludovico, che alterna momenti di particolare benevolenza a raffiche di espulsioni, prefigura quella politica di sensibilità prevalentemente economica al problema ebraico della quale abbiamo già fatto cenno sopra. Il duca emette ad esempio nel 1438 un decreto che commina la carcerazione ai debitori insolventi nei confronti degli ebrei (A.S.T. prot.duc. n.78, f.77 e 87), mentre quattro anni dopo concede una mora di un anno sui pagamenti dei debiti nei confronti degli ebrei per coloro che concorrono alla realizzazione di particolari opere pubbliche (A.S.T. prot.duc. vol.86, f.490). Sono quindi gli ebrei a fare le spese, attraverso la perdita degli interessi, delle iniziative del duca. A quanto pare essi concorrono anche direttamente al finanziamento di tali opere, dal momento che nel 1447 Ludovico, indebitato con i banchi ebraici e bisognoso di nuovi finanziamenti, non solo revoca la proroga di pagamento ma si premura di richiamare i garanti dell’ordine pubblico alla salvaguardia dei privilegi e delle franchigie accordate agli ebrei (A.S.T. prot.duc. n.109, f.52r e F.62 e 66). Per completare l’opera nel 1454 un nuovo editto decreta l’espulsione totale degli ebrei dagli stati sabaudi, e naturalmente la confisca di tutti i loro beni (Anfossi, pag. 7). L’anno seguente l’editto decade e i privilegi vengono rinnovati, dietro pagamento di un ulteriore riscatto (Milano, pag. 146).

Quest’altalena di provvedimenti mette in luce il profondo legame economico che s’instaura da subito tra il ducato e i suoi ebrei. Questo legame non si risolve nel puro e semplice vincolo di tassazione, ma si articola in una politica economica che fa perno sugli israeliti per il finanziamento del decollo commerciale del ducato.

Sotto Emanuele Filiberto le concessioni singole per l’apertura di banchi nelle varie città vengono riorganizzate in una rete di banchi che copre tutte le maggiori città del Piemonte e assicura un servizio finanziario capillare (Foa, 1955, pag. 86-87). Il già citato progetto per l’apertura di un porto franco a Nizza, impresa prospettatagli da Vitale e dal figlio Simone Cohen Sacerdote di Alessandria, è un’ulteriore testimonianza dell’importanza che alla metà del cinquecento l’attività di prestito ebraica ha assunto per il ducato (Milano, pag. 274). Ulteriori documenti, nei quali vengono poste limitazioni all’apertura di nuovi banchi, ci portano a intravedere l’esistenza di un rapporto privilegiato tra l’autorità ducale e un gruppo ristretto di grandi famiglie di finanzieri ebrei, in pratica quelle che garantivano la riscossione all’interno della comunità ebraica e il gettito nelle casse ducali. Abbiamo così, ad esempio, nei capitoli di tolleranza del 1565, l’ordine che nella città di Asti nessun ebreo possa “piantar banco oltre quelli di messer Isaac Poggetto, messer Lazzarino suo figlio e messer Elia di Nizza” a meno che non piaccia a questi ultimi di dare il permesso (Anfossi, pag. 76). Comunque nel corso di mezzo secolo, tra gli ultimi decenni del cinquecento e i primi del seicento, il numero dei banchi aumenta da una sessantina ad oltre un centinaio. Tale numero rimarrà grosso modo invariato sino all’acquisizione da parte dei Savoia dei territori del Monferrato, e conseguentemente delle attività anche bancarie in questi praticate.

Le attività alternative al prestito consentite agli ebrei nei territori del ducato sono grosso modo quelle che troviamo anche negli altri stati, e cioè la professione medica da un lato e la pratica della mercatura dall’altra. Per quanto riguarda quest’ultima gli ebrei, che godono della libertà di trattare qualsiasi merce, con l’esclusione degli oggetti sacri o comunque di ciò che è connesso al rituale cristiano, si specializzano soprattutto nel settore dell’usato. Va considerato il fatto che all’epoca tale settore rispondeva ad esigenze ben diverse da quelle attuali, ed interessava quindi una fascia di utenza comprendente gli strati più bassi e più poveri della popolazione. Si ripete in qualche modo il discorso del prestito su pegno, nel senso che viene esercitata un’attività indispensabile per i bisogni delle fasce deboli della popolazione, ma nel contempo viene alimentata un’immagine negativa dell’ebreo. Gli ebrei erano autorizzati anche all’esercizio di diverse arti, e segnatamente alla lavorazione dei metalli preziosi e alla creazione di tessuti. In questo settore non mancano, come in tutte le altre zone d’Italia, le ostilità da parte degli artigiani cristiani. In definitiva, comunque, accanto al ruolo fondamentale nell’attività finanziaria, gli ebrei ricoprono una precisa funzione in quella commerciale, in quanto dispongono di punti di riferimento al di fuori dei confini ducali che risultano indispensabili per l’espansione dell’economia piemontese. Solo nel marchesato del Monferrato tale ruolo è altrettanto apertamente riconosciuto, apprezzato e stimolato.

Così come su tutto il restante territorio italiano, anche nei domini sabaudi gli ebrei non godono del diritto di proprietà immobiliare. L’Anfossi cita una condotta del 28 novembre 1565 nella quale si recita: “potranno gli ebrei comprarsi una casa comune ad uso di abitazione, sopportandone i carichi ed esercitando ivi il proprio commercio”, ma lo stesso autore si premura di sottolineare come tale disposizione non venga in seguito mai più ripetuta e sia anzi contraddetta da tutta la legislazione successiva (Anfossi, pag. 32). Vale per certo invece il “ diritto di casacà”, in base al quale la locazione di uno stabile ha valore ereditario, può cioè essere trasmessa di padre in figlio e, purché i pagamenti risultino regolari, assicura non soltanto una continuità abitativa, ma un vero e proprio usufrutto di lunga durata, allargato alla facoltà di interventi per le modifiche strutturali interne dei locali. Tale diritto è garantito dall’autorità ducale, la quale si premura anche di disciplinare il regime degli affitti al fine di sottrarre gli ebrei alla speculazione della quale potrebbero essere vittime (Anfossi, pag. 66).

Per quanto concerne le disposizioni specifiche relative ad esempio all’obbligo del segno distintivo, del rapporto con i cristiani, ecc., si ritrovano pari pari le stesse normative vigenti sia nel genovesato che nel territorio monferrino. Anche in questo caso si può notare il passaggio da una prima fase caratterizzata da restrizioni piuttosto blande ad un atteggiamento più severo e intollerante. Ne sono un esempio le insistenze, ripetute soprattutto a partire dal XVII secolo, sull’obbligo di portare il segno, così come le progressive limitazioni imposte ai rapporti tra ebrei e cristiani (Anfossi, pag. 37).

Per quanto concerne l’area oggetto di questo studio essa viene interessata dalla dominazione sabauda soltanto dopo il 1708 e per una zona relativamente marginale, quella già appartenente al marchesato del Monferrato. L’unica presenza di rilievo, quella di un banco di pegno ebraico a Capriata d’Orba, non viene più confermata da ulteriori documenti e con ogni probabilità va considerata esaurita in seguito al passaggio del banco stesso ad una gestione cristiana. Al di là dei problemi di reperimento di un’adeguata documentazione, che comunque difficilmente potrebbe introdurre elementi nuovi nella storia degli ebrei della nostra zona, va sottolineato come i borghi soggetti all’autorità del Monferrato e successivamente dei Savoia siano sempre dei piccoli centri, poco adatti ad ospitare una presenza ebraica che non troverebbe in essi alimento economico e risulterebbe nel contempo più sentita e quindi meno tollerata. Nessuna di queste località inoltre è situata in posizioni commercialmente e finanziariamente strategiche, né per gli ebrei né per le autorità che esercitano in successione il dominio. La politica perseguita a partire dalla fine del XVII secolo dai Savoia, mirante ad una ghettizzazione della minoranza ebraica, ha determinato inoltre una concentrazione di quest’ultima nelle città e nei borghi più importanti, eliminando quelle presenze sparse che hanno caratterizzato per il secolo precedente anche la nostra zona.

 

Gli ebrei nell’oltregiogo

1)   La presenza ebraica desunta dai documenti

È molto probabile che la presenza ebraica nell’area dell’Oltregiogo risalga già ai primi secoli del secondo millennio, sia pure in forma episodica e ristretta a singoli individui o singole famiglie (Brizzolari, 1969, pag. 16-23). Una simile congettura non è per il momento suffragata da alcun documento, e difficilmente lo sarà mai, ma è giustificata dalla considerazione della valenza strategica, sotto il profilo commerciale, di questa zona e al tempo stesso dalla sua condizione decentrata rispetto ai grossi centri amministrativi medievali. In altre parole appare normale che lungo uno dei più importanti itinerari commerciali medioevali fossero presenti, ad espletare le loro specifiche attività di transazione o di copertura finanziaria, quegli ebrei che tanta importanza hanno assunto attorno al 1200 nel commercio mediterraneo. È inoltre ipotizzabile che questa localizzazione decentrata rispetto ai centri di potere -nella fattispecie Genova, Casale, Milano-, se da un lato può esporre gli ebrei a maggiori rischi, dal momento che la protezione delle autorità risulta lontana e lenta ad intervenire, dall’altro lato consente ad essi di sottrarsi con maggior facilità al controllo e agli effetti delle disposizioni restrittive periodicamente emanate nei loro confronti. La particolare complessità della geografia politica di quest’area consente inoltre, con spostamenti di pochi chilometri, di passare da un dominio all’altro e a volte di coltivare interessi da una parte e dall’altra del confine stesso, garantendosi in questo modo diverse possibilità di sopravvivenza (Musso, 1967, pag. 101-111).

Per rintracciare un presenza documentata nella zona in esame dobbiamo comunque arrivare al 1447, anno nel quale troviamo registrato un salvacondotto concesso agli ebrei novesi Joseph e Manasse per poter operare commerci nella città di Savona. Assieme ad un altro documento di due anni dopo, che riporta una supplica inoltrata da un ebreo novese onde ottenere giustizia di un furto subito (A.S.G. Archivio Segreto, n.3037, docum.n.177), e nella quale vengono menzionate precedenti normative riguardanti la comunità ebraica in Novi, questa testimonianza ci induce a pensare che la presenza giudaica fosse da tempo stabilizzata in Novi e fosse stata regolamentata sin dall’epoca dell’appartenenza della cittadina al ducato di Milano (Urbani 1, 1983, pag. 102).

Alla fine del XV secolo le presenze ebraiche si infittiscono, a causa senz’altro della diaspora dalla Spagna e dai suoi possedimenti, e vengono alimentate nella nostra area soprattutto dalla politica della Repubblica genovese, che rende dura la vita agli ebrei nella città, ma è molto più tollerante rispetto alla loro permanenza nelle zone decentrate del suo dominio (Urbani 2, 1983, pag. 304). È da tenere in conto anche il fatto che gli aspetti della presenza ebraica vengono ora più rigorosamente documentati, sia in relazione al problema quantitativo che la diaspora stava creando, sia anche per la diversa attenzione, in positivo e in negativo, delle autorità civili e religiose nei confronti delle attività dei giudei. In sostanza gli ebrei diventano importanti sia sotto il profilo fiscale che come referenti finanziari per governi impegnati in una politica economica e militare di respiro sempre più ampio. Come tali diventano dei concorrenti temibili per le classi “borghesi” gentili, che chiedono nei loro confronti restrizioni sempre più esplicite. Inoltre l’influenza che la cultura ebraica comincia ad esercitare sugli umanisti della seconda metà del 1400 mette in allarme la Chiesa, e la induce ad assumere un atteggiamento sempre più ostile nei loro confronti.

Si spiegano pertanto, attraverso tutte queste diverse motivazioni, i movimenti intensi di famiglie ebraiche nelle zone del novese, dell’ovadese e della val Lemme tra la fine del 1400 e gli inizi del secolo successivo. È ad esempio databile al 1499 l’arrivo a Novi della famiglia Hakoen, che era giunta in Liguria dopo l’esodo dalla Spagna e che probabilmente si era fermata per un breve periodo a Genova (Musso, 1970, pag. 1-10). Questa famiglia, destinata soprattutto attraverso Joseph a lasciare un grosso segno nella storia della nostra zona, ottiene probabilmente un permesso di residenza grazie all’arte medica esercitata dal capofamiglia (Urbani 2, 1983, pag. 304). Dello stesso periodo è l’insediamento delle prime famiglie ebraiche in Ovada. Ciò si desume da più documenti redatti in tempi diversi, e comunque dopo almeno mezzo secolo di presenza ebraica, dai quali viene testimoniato esplicitamente l’insediamento nella cittadina di famiglie ashkenazite quali i Treves. In una lettera del 26 maggio del 1567 indirizzata a Genova, il podestà di Ovada presenta Joseph Treves come persona “di buona vitta, et molto aggradito al luogo…” (A.S.G. Atti del Senato, anno 1567, maggio 26). Ai primi insediamenti documentati fanno riscontro naturalmente anche i primi problemi. È del 1509 la notizia di un’accusa di delitto rituale mossa alla comunità ebraica di Novi (Lana, pag. 193). L’episodio viene raccontato da un testimone diretto, il cronista Mizano – autore di una storia degli ebrei in Italia – che così descrive l’accaduto: «in quei giorni, durante la nostra permanenza in Novi, che sta in territorio di Genova, il figlio di un portiere della città andò in campagna per raccogliere erba nella settima di passione e cadde in uno stagno pieno d’acqua senza che alcuno lo vedesse. Suo padre fu molto inquieto per lui e attendeva con grande ansietà e pena.

Dissero gli uomini malvagi “i giudei lo hanno ucciso secondo il loro costume e l’immolazione è avvenuta in casa di Micael l’officiante”. Spaventato per quelle parole il nostro sangue si sciolse e venne ad essere come acqua.

Andò il portiere a parlare con don Fregoso, governatore della città, il quale lo rimproverò dicendo: “non continuare a parlare in questo modo perché conosco i metodi dei giudei e la loro legge, e li disonora fare una cosa di tal genere”.

Furono allora gli ebrei a gettarsi ai suoi piedi e lui parlò cortesemente dicendo: “la pace sia con voi, non temete perché nessuno agiterà la sua lingua contro di voi al presente”. Ed uscirono di lì in pace. In capo a tre giorni fu ritrovato il ragazzo che teneva stretta al petto l’erba che aveva raccolto e teneva ancora in mano il falcetto. Si vergognarono quelli che avevano fatto quelle accuse e gli ebrei sentirono sollievo; celebrarono la festa degli azzimi con allegria e resero grazie a Yahveh».

Questo episodio è significativo per due aspetti. In primo luogo si può constatare come la scomparsa di un ragazzino induca automaticamente il sospetto nei confronti dei giudei: e ciò è indice di una scarsa consuetudine con le usanze ebraiche, o almeno di una conoscenza filtrata attraverso i pregiudizi diffusi dalle frange del clero più intransigente. Come a dire che la presenza ebraica in Novi, pur risalendo ad antica data e avendo acquistato una certa consistenza, continua ad essere colta attraverso lo stereotipo della diversità e della pericolosità. Sembra infatti, dal tono del racconto, che l’accusa non fosse motivata da rancori o rivalità di tipo commerciale, ma semplicemente dall’ignoranza: laddove in seguito accuse analoghe appaiono invece più pretestuose e legate spesso a precise motivazioni di interesse. L’altro lato significativo sembra essere la sollecitudine con la quale il governatore della città, don Pietro Fregoso, non a caso appartenente ad una famiglia filofrancese, interviene a salvaguardia della vita e dei beni degli ebrei, facendosi garante della loro innocenza e della non pericolosità delle loro usanze.

Seguendo le vicissitudini della famiglia Hakoen, che ci sono state tramandate da Joseph nel resoconto autobiografico EMEQ HA-BAKHALa valle del pianto – abbiamo un riscontro vissuto in prima persona delle conseguenze dell’altalenante politica genovese nei confronti del “popolo della legge”. Gli Hakoen infatti si trasferiscono in Genova nel 1514, dove il diciottenne Joseph studia medicina (Lana, pag. 193). Due anni dopo li ritroviamo a Novi – in seguito all’espulsione di tutti gli ebrei da parte del doge Fregoso -, dove nel 1520 muore il vecchio Joshua, padre di Joseph (Hakoen, pag. 111). Qualche anno dopo, nel 1524, il giovane Hakoen, che nel frattempo ha iniziato ad esercitare la professione di medico e si è sposato, risulta presente a Lerma, nel territorio del marchesato del Monferrato, dove si prodiga nel combattere un’epidemia di peste che fa strage degli abitanti del piccolo villaggio. Nel 1533 il medico giudeo è nuovamente in Genova, dove organizza presso la locale comunità una raccolta di fondi per il riscatto dalla schiavitù di alcuni suoi correligionari. Ciò è testimoniato da una circolare del 1533 del rabbino David-ben-Yosef-Ibn-Yahya, che raccomanda di inviare i soccorsi al “medico Yosef” di Genova, che li avrebbe poi trasmessi a Napoli ad Abraham il francese (Lana, pag. 194). Nel 1534 è però nuovamente nell’Oltregiogo genovese, a Voltaggio, dove rimane per quattro anni. Rientra in Genova nel 1538 e continua ad esercitare nella città la sua professione fino al 1550. A questa data un nuovo provvedimento di espulsione, (A.S.G. Senato sala B Senarega, 1266, Atti del Senato, A.1550), lo costringe a ripassare l’Appennino e a cercare rifugio nell’Oltregiogo, dove si sposta tra Gavi, Ovada e Voltaggio (Hakoen, pag. 130-131). Un’ennesima espulsione, nel 1567, colpisce Hakoen e la sua famiglia e obbliga “intra terminum mensium trium proxime venturorum et hodie inceptorum debeat expedivisse de presenti loco Vultabii, et ex eo recedere cum tota eius familia et ire ad habitandum extra dominium prefate illustriisime dominacionis, et hoc sub pena arbitraria prefate illustrissime dominacionis” (A.S.G. Litterarum Senato, anno 1567). Il medico ebreo è costretto ad allontanarsi dall’ospitale paese, nonostante una supplica degli abitanti del luogo (Urbani 1, 1983, pag. 102) che testimoniano della capacità professionale sua e anche del corretto comportamento dei suoi correligionari. A questo punto però Hakoen sceglie di stabilirsi a “Castelletto, nel territorio del Monferrato, dove tutti mi accolsero con gioia” (Hakoen, pag. 158). Nel 1572 fa ritorno a Genova, dove nel 1575 completa la sua “Valle del pianto”. Poco dopo muore.

Queste vicissitudini sono con ogni probabilità legate non solo a fattori esterni, ma anche al carattere del protagonista e alle caratteristiche della sua professione. Joseph infatti, com’è testimoniato dal suo impegno letterario, espresso nell’autobiografia, è uno spirito dotto e libero, caratteristica non infrequente negli ebrei di provenienza spagnola, che agli inizi del 1500 cominciano ad esercitare una forte influenza sulla cultura e soprattutto sulla filosofia rinascimentale. Il personaggio in questione, rispetto alle vicende dell’ebraismo nella nostra zona, appare abbastanza fuori dell’ordinario, e la storia delle sue peregrinazioni non può essere assunta come emblematica della condizione giudaica locale. A tal fine sono invece più significative le vicende di altri personaggi o di altre famiglie, rispetto ai quali siamo in possesso di una sufficiente documentazione, che ci presentano un’immagine altrettanto tribolata forse, ma senza dubbio più statica. Ciò è dovuto con ogni probabilità al fatto che i correligionari di Hakoen erano dediti principalmente ad attività di carattere finanziario e commerciale, che finivano per legarli maggiormente a zone o a luoghi specifici. È il caso delle famiglie Treves, Poggetto, Artom, Alfa, che sembrano risiedere lungo tutto l’arco del XVI secolo in Ovada con maggior continuità. Lo stesso vale per la famiglia Nantua a Gavi e per altre famiglie a Voltaggio, Capriata e Novi. Per quest’ultima località, nella quale è testimoniata un’antica presenza della famiglia Sacerdote, esiste una documentazione (Urbani 2, 1983, pag. 303) che autorizza a supporre la presenza attorno alla metà del XVI secolo di una comunità ebraica, la quale comincia ad assumere un rilevante ruolo finanziario. A partire dal 1540 infatti la Repubblica inaugura la prassi delle concessioni agli ebrei di permessi per l’apertura di banchi di pegni. Tali concessioni sono però limitate alle zone più decentrate: non ne vengono infatti rilasciate all’interno del capoluogo ligure.

I primi banchi vengono aperti a Novi e poi a Gavi già attorno al 1548, come si deduce da una supplica del 1568 di Alessandro Nantua al Senato, nella quale si legge che “ egli con tuta la soa famiglia sin l’ano del 1548 con permissione di Vostre Signorie Illustrissime habita nel loco di Gavi con grandissima satisfatione di tutto quel populo, come di gia s’è fatto fede exercendo pero quel arte che generalmente sogliono tuti li hebrei di prestar denari iuxta proprio la lor conventione”. La supplica continua ribadendo che “ora essendo per la longa habitatione fatto molto amorevole a li poveri di quel comune et non havendo mai fatto cosa, salvo che utile e li commodo non tanto in particular a poveri, come anche in genere al detto commune come per una loro suplica gia fatta, si vede. Per questo humilmente le suplica il detto Alessandro si degnino ordinar che possi con tuta la soa famiglia habitar in detto loco sotto quel modo che ha fatto sin qui per il passato, et essendo tal inchiesta honesta, spera da quella ottenerla che nostro Signor Idio longamenti le feliciti”. La risposta del Senato genovese non si fa attendere; constatato che “examinata se videntes ipsum Alexandrum esse gratum toti universitati Gavii, uti per tot annos cum familia commoratus est et in multa habitandium satisfactione”, concede che Alessandro “cum eius familia posse perseverare habitando in dicto loco Gavii per annum, sub modis et formis hactenus servatis per eum, et hoc ex gratia speciali non obstantibus quibuszumque in contrarium faventibus” (A.S.G. Atti del Senato, n.1336, docum.n.122). Altre concessioni vengono estese successivamente anche a Voltaggio e ad Ovada, come si può notare dalla già citata lettera del 26 maggio 1567 dove il podestà di Ovada, dopo aver espresso pareri molto favorevoli sulla famiglia Treves, comunica al Senato che “il loro negozio – dei Treves – consiste in qualche grani et castagne et nel prestar a usura al solito degli hebrei, et a quelli della terra piglia la metà manco dello interesse di quel che pagano i forastieri, et per essere in detto luogo molto poveri che alla giornata bisognano, ricorrono da esso con pegni et gli accomoda et alle volte senza pegni (A.S.G. Senato, Litterarum anno 1567). Tali concessioni vengono in seguito ribadite nel 1575, nel 1578, nel 1582, nel 1586, intervallate da diverse proroghe (Brizzolari, 1971, pag. 117).

In qualche caso i concessionari dei banchi sono autorizzati ad operare in località diverse. È il caso di Vita Poggetto, ebreo di Asti, presente come prestatore sia a Novi, dove la sua famiglia abita da più anni, e dove ottiene nel 1598 dal podestà il rinnovo di soggiorno (A.S.G. Atti del Senato, n.g.1606, docum.n.131), sia ad Ovada, dove gli viene concesso nel 1600, assieme al suo agente Abram Artom, di continuare per sei mesi a tenere banco, con il favore dell’autorità locale e della popolazione (A.S.G. Atti del Senato n.g.1623, docum.n.46 e n.g.1630). È da notare come lo stesso Artom, oltre che ad Ovada, ottenga nel 1603 il permesso di soggiornare ed esercitare nella città di Novi (A.S.G. Atti del Senato n.g.1661, docum.n.331).

Anche nei vicini domini del marchesato del Monferrato, a Capriata d’Orba, a partire dal 1570 opera come prestatore Levita Grassino, ebreo proveniente da Casale (Foa, 1914, pag. 73), mentre un altro membro della sua famiglia, Samuele, esercita la stessa funzione nel feudo imperiale di Serravalle (Urbani 2, 1983, pag. 305). A Mornese, soggetta a duplice dominio monferrino e imperiale, troviamo nel 1600 Vitale Levita (Urbani 1, 1983, pag. 104). Il quadro delle presenze si chiarisce maggiormente verso la fine del XVI secolo, per il quale, in relazione all’infittirsi di provvedimenti restrittivi o di espulsione e alle conseguenti suppliche e proroghe, riusciamo a delineare con maggior precisione una mappa delle comunità ormai stabilmente residenti nell’Oltregiogo.

È difficile ipotizzare cifre o dati quantitativi credibili. Il fatto che tornino costantemente gli stessi nomi induce a supporre che la presenza fosse limitata a quelle famiglie che riappaiono nei successivi documenti. In altre parole si ha l’impressione che attorno a queste famiglie non si siano costituiti, come accadeva ad esempio in altre località del Monferrato o nella stessa Genova, gruppi di ebrei poveri, dediti ad attività artigianali minori.

Il caso precedentemente citato della famiglia Poggetto porta inoltre a pensare che le relazioni tra i vari gruppi fossero molto strette. Con ogni probabilità esistono legami anche con i correligionari residenti in Genova o a Casale, sia per motivi economici che, spesso, per esigenze di carattere religioso; si tenga presente infatti che solo nelle grandi comunità – Genova, Alessandria, Casale – operano dei rabbini o comunque delle istituzioni religiose che fungono da referente obbligato per la gran parte del rituale e della professione religiosa ebraica.

Una vicenda che consente di cogliere l’atmosfera nella quale vivono gli ebrei nella nostra zona in questo periodo è quella che vede protagonista la famiglia Nantua di Gavi. Il primo esponente del quale abbiamo notizie è Alessandro Nantua, che esercita a partire dal 1550 la professione medica nella cittadina. Il medico Nantua, oltre a mettere a disposizione della popolazione le sue capacità di terapeuta, si dedica anche ad attività più lucrative, ottenendo l’autorizzazione per l’apertura di un banco di pegni (Urbani, 1987, pag. 262). Sembra di capire dai documenti in nostro possesso che il Nantua finisse per ben meritare nei confronti sia della popolazione locale, sia dell’autorità centrale, dal momento che il permesso per l’esercizio gli è rinnovato ed è poi trasferito ai figli (Urbani 1, 1983, pag. 105). Nel 1578, in risposta ad un quesito inoltrato dal Senato, il podestà di Gavi fornisce informazioni sui tre figli di Alessandro, Angelo, Lazzaro, Anselmo “che vivono in una medesima casa e abitano qui con molta soddisfazione della terra e massime dei poveri, sono persone quiete…. prestano a denari sei per libbra il mese e a meno, a persone di Gavi”. Ciò a conferma dell’esistenza di un ottimo rapporto tra la famiglia stessa e la popolazione. Ulteriori concessioni risultano in data 1582, anno nel quale viene rinnovato da parte dell’amministrazione genovese il permesso decennale di stanziamento e di gestione di un banco nella cittadina di Gavi. Non risultano dalla documentazione in nostro possesso rapporti tra la famiglia Nantua e i potenti finanzieri ebrei del Monferrato (Foa, 1914), a differenza di quanto accade invece per i Poggetto e i Treves; i contatti sembrano interessare soltanto gli ebrei di Voltri, soprattutto in relazione al commercio dei grani (Urbani 2, 1983, pag. 305). La famiglia gaviese entra invece, a partire dal 1588, anche nell’orbita del ducato di Savoia, con l’acquisizione da parte di Angelo e di Lazzaro della conduzione di altri due banchi, a Susa e ad Avigliana. La fonte questa volta viene da Roma, precisamente dai “Libri Diversorum” della Camera Apostolica, nei quali si registra nella forma delle “Litterale Patentes” la tolleranza di un banco dietro il pagamento di una forte fonte di denaro. L’attività nel gaviese sembra tuttavia prioritaria, com’è testimoniato dalla concessione da parte della curia romana, nel 1589, di una tolleranza per l’esercizio decennale dei banchi di Gavi e Voltaggio (A.S.Roma, Camerale I, Diversorum del Camerlengo, reg.394, f.23v e 24r). Di lì a poco però le fortune della famiglia Nantua cominciano a declinare. Nel 1592 infatti un banale litigio per motivi di interesse tra Lazzaro Nantua e il notaio gaviese Maida porta il primo a reagire, colpendo con un pugno il suo avversario (Urbani, 1987, pag. 262). La vicenda, di per sé di scarso rilievo, finisce per assumere dimensioni catastrofiche proprio in ragione del fatto che l’aggressore è un ebreo e la vittima un cristiano. Infatti la denuncia presentata dal podestà di Gavi al Senato descrive gli ebrei come “persone che fanno mille estorsioni, maltrattano i poveri, rovinano molte famiglie per le grandi usure, danno scandalo perché non portano il segno, salvo un poco di lista gialda sotto il braccio che tengono coperto, conversano con molti cristiani, hanno il capo coperto al passaggio del S.S. Sacramento (A.S.G. Senato, Litterarum n.553, anno 1592, lettera del 14 febbraio). In risposta a ciò il Senato ordina un inventario accurato di tutti gli oggetti appartenenti agli ebrei e un’indagine dettagliata sulle attività di questi ultimi, comprensiva dei nomi di tutti coloro che hanno rapporti con il banco e dei testi dei contratti stipulati (A.S.G. Senato, copialettere n.1016, anni 1578-1598). Questa indagine è motivata dal moltiplicarsi delle accuse di irregolarità o addirittura di falsa dichiarazione di prestito che vengono presentate dai fruitori dei banchi, e delle quali si fa portavoce il podestà di Gavi. Come se ciò non bastasse, nei confronti degli ebrei hanno inizio anche le aggressioni e le violenze. La prima vittima è il figlio minorenne di Lazzaro, Alessandro, che viene ferito mortalmente da un noto pregiudicato, probabilmente prezzolato dagli avversari dei Nantua (A.S.G. Senato, Litterarum, n.553, lettera del 20 ottobre 1592). Di lì a poco viene mossa ad Angelo Nantua un’accusa di violenza carnale ai danni di una donna cristiana (Urbani, 1987, pag. 266), accusa che viene riconosciuta falsa, ma che non manca di esacerbare ulteriormente gli animi e di alimentare il sospetto nei confronti degli ebrei. Tutti questi fatti testimoniano del rapido crearsi di un clima di intolleranza nei confronti di persone rispetto alle quali ancora pochi anni prima la cittadinanza aveva espresso un chiaro apprezzamento. Con ogni probabilità la ragione ultima di questo mutato atteggiamento è l’opportunità che si offre ai numerosi debitori dei Nantua di veder cancellate le loro pendenze, o almeno di veder procrastinate all’infinito le scadenze. Neppure l’avvento di un nuovo podestà, molto più disponibile nei confronti degli ebrei, e la sentenza di assoluzione emessa dalla Rota genovese relativamente alle accuse di frode e di falso, riescono a riportare a galla la famiglia giudea. Infatti Lazzaro viene multato e bandito dal territorio della Repubblica per tre anni (Urbani, 1987, pag. 265) e nel frattempo il Senato, che non può non tener conto dell’atmosfera che si é creata attorno agli israeliti, emana a carico degli ebrei un nuovo decreto di espulsione. AL solito, scattano immediate le suppliche e le istanze di deroga, alle quali si associa la richiesta di una parte della popolazione gaviese di soprassedere alla espulsione stessa. I cristiani infatti temono che “partendo – gli ebrei – saria giusto haver modo di scodere i loro crediti, intendendosi quelli di Gavio, haverne per libre sedecimillia o forse più. Saria espressa rovina delli debitori et poveri, stantie l’immenente calamità, se si astrengessero a pagare, anzi li pareria impossibile, essendo sterilità di tutti i raccolti. L’altro perché per suplicare a detti pagamenti si havessero a impegnare beni stabili o ricorrere a christiani per imprestito, saria dubbio pernitoso alle anime che si desse occasione a detti cristiani a commetter qualche usura come spesso causa la cupidigine et avaritia per il che facilmente s’ha a credere si tolleri tali hebrei per manco male”(A.S.G. Atti del Senato n.g.1566, docum. n.57. Supplica al Senato di Genova della comunità di Gavi a favore degli ebrei). In realtà ai gentili fa paura l’eventualità di dover ricorrere per altri prestiti agli usurai cristiani, che praticano tassi molto meno favorevoli. La risposta del Senato non si fa attendere, e nel novembre del 1592 esso concede agli ebrei un proroga di un anno, durante il quale non possono accordare nuovi prestiti. Tale risposta non è per nulla soddisfacente, dato che nel gennaio del 1593 una nuova supplica parte da Gavi, rivolta a far proseguire nelle loro attività gli israeliti, che “ora prestano a li mediocri soldi tre per libbra, ai poveri due per libbra; hanno dato settecento e ottocento libbre alla comunità, al Monte di Pietà settantacinque libbre…” la lettera termina ricordando che “… non ci si può rivolgere alle anime dei cristiani avidi di guadagno” (A.S.G. Senato, Litterarum, n.556, lettera del 29 gennaio 1593). Le disgrazie dei Nantua a questo punto non sono ancora finite. Angelo infatti viene derubato e ucciso nel 1597 a Parodi. Il suo assassino è un tale Bernardino Morè di Castelletto che, risiedendo in territorio monferrino, sarà qui giudicato per competenza. Il fratello Lazzaro viene a trovarsi in gravi difficoltà, che non gli permettono di assolvere ai propri impegni finanziari. Il crollo è totale, al punto che quest’ultimo viene incarcerato più volte per debiti, e alla fine nel 1610 questi gli vengono condonati dal podestà stesso in ragione della sua estrema povertà (A.S.G. Atti del Senato, n.n.g.g.1380, 1549, 1552, 1557, 1559, 1629).

Anche la vicenda dei Nantua, come quella di Hakoen, è solo relativamente esemplare, in quanto i numerosi dati di conoscenza derivano proprio dall’eccezionalità dei casi. Altre famiglie impegnate nell’attività feneratizia conobbero indubbiamente una sorte più tranquilla e continuarono a prosperare.

2)  Significato economico e sociale

Il Seicento è in effetti per le comunità ebraiche dell’Oltregiogo un periodo particolarmente travagliato, nel corso del quale, almeno a giudicare dalla documentazione sin qui portata alla luce, si assiste ad una graduale diminuzione della presenza ebraica, o quanto meno della sua importanza. Abbiamo già visto in precedenza come una lunga serie di provvedimenti di espulsione, o restrittivi rispetto alle attività economiche e alle pratiche sociali, stiano a testimoniare il diffondersi, conseguente all’azione controriformistica, di un clima di minore tolleranza e benevolenza. Abbiamo già visto anche come le scelte economiche dei vari stati producano forti spostamenti degli ebrei in generale e di quelli operanti nel settore finanziario in particolare verso i porti franchi che vengono aperti in concorrenza tra gli stati stessi, o comunque verso quelle zone nelle quali esiste maggiore tolleranza.

Sotto questo aspetto la zona dell’Oltregiogo diventa in realtà particolarmente interessante proprio nel corso del XVII secolo. per l’apertura a Novi di importanti fiere di cambio, alle quali corrispondono anche fiere commerciali di grosso richiamo. Infatti, a partire dal 1622 Novi viene designata come sede della fiera di cambio che in precedenza si svolgeva a Piacenza.

Le fiere di cambio si tengono a cadenze trimestrali e vedono la partecipazione dei più importanti banchieri dell’Italia settentrionale e dell’Europa centro-occidentale. Nel corso di questi incontri vengono trattati scambi finanziari di grande entità, legati per la gran parte alla necessità di denaro liquido della monarchia spagnola, impegnata sino alla metà del secolo su tutti i fronti europei.

Il trasferimento a Novi avviene in concomitanza con il prevalere dei banchieri genovesi su quelli nord europei in qualità di finanziatori degli Asburgo (Leardi, pag. 29). La localizzazione decentrata nell’oltregiogo è giustificata dalla possibilità di lucrare un interesse nel trasferimento delle somme da Genova a Novi, eludendo le proibizioni religiose ancora vigenti relative agli interessi sui prestiti o sui crediti commerciali.

La scarsa documentazione in nostro possesso non ci consente di sapere se potessero partecipare direttamente a queste fiere anche banchieri ebrei. Con ogni probabilità essi ne erano esclusi ma è altrettanto probabile, data l’esigenza costante di reperire denaro liquido da versare nelle casse imperiali, che la finanza ebraica fosse decisamente interessata in queste transazioni e operasse col tramite di alcuni banchieri cristiani. È invece documentata la partecipazione dei giudei alle fiere commerciali, che in parte avevano avuto origine già nel medioevo e in parte si sviluppavano proprio a margine di quelle finanziarie. Nel 1675, infatti, con un atto notarile alcuni mercanti ebrei novesi elargiscono una considerevole somma, destinata alla costruzione di una chiesa, a titolo di “gratitudine” per i guadagni realizzati nel corso della fiera (A.Com. Novi, fondo antico comune, libro dei decreti-B, 225v). Almeno per il XVII secolo quindi Novi diventa il nodo commerciale e finanziario che lega la Repubblica con gli stati dell’Italia settentrionale e dell’Europa centrale, diventando pertanto, assieme a tutta l’area da noi considerata, e nella fattispecie a Ovada, Gavi, e Voltaggio, zona di particolare interesse economico per gli ebrei. Per queste località transitano infatti le carovane di muli che valicano l’appennino provenendo da Genova o dirette verso Genova, impegnate soprattutto nel trasporto di granaglie, ma anche delle merci più disparate. Ad esempio, nel 1654 troviamo due mercanti ebrei, Isaac Fresel suddito dell’imperatore e Samuel Lituania munito di lasciapassare del re di Polonia, che trasportano provenendo da Sanremo cedri e palme destinati al consumo religioso e alimentare delle comunità ebraiche centro-europee, ma anche limoni e arance per i rispettivi sovrani. La loro carovana fa tappa a Novi, dove è presumibile che le merci siano state trasbordate dai basti dei muli su carri, coi quali era più agevole attraversare diagonalmente la pianura padana sino alle alpi (Urbani – Figari, pag. 332). Per facilitare questo traffico la Repubblica aveva già dal 1589 aperto una nuova strada tra Gavi e Novi (A.Com.Novi registro degli atti consolari, 1562-1592). Proprio a Gavi per altro troviamo un’ulteriore testimonianza dell’afflusso e del transito in zona di numerosi commercianti ebrei di tutta l’Europa. Da un documento del 1610 risulta infatti che quattro mercanti ebrei tedeschi, in viaggio verso Sanremo, evidentemente interessati allo stesso tipo di commercio dei due precedentemente citati, vengono trattenuti in una sorta di quarantena sanitaria e debbono garantire sotto giuramento di non aver toccato nel corso del viaggio luoghi contaminati dalla peste (A.S.G. Magistrato di sanità, n.103).

Col 1692 le fiere di cambio vengono trasferite a Sestri Levante, probabilmente per la necessità da parte della Repubblica di esercitare un controllo più ravvicinato, con grande discapito per l’economia novese: ma gli ebrei continuano a frequentare anche nel XVIII secolo le fiere commerciali, e principalmente quella novembrina di Santa Caterina (Brizzolari, 1969, pag. 20).

In questo secolo la presenza ebraica a Gavi, anche se non chiaramente documentata, è testimoniata da un toponimo che non lascia dubbi: esiste infatti nella cittadina una via che viene comunemente detta “strada degli ebrei” (De Simoni, pag. 190). Risulta anche da un atto notarile che nella zona ha interessi la potente famiglia genovese dei Levi, che opera in vari settori, dagli appalti del sale al commercio della seta, sino alle assicurazioni navali. Un esponente della famiglia, Salomon Levi, risulta venditore di un appezzamento di terreno ubicato a Voltaggio, a testimonianza del fatto che ormai non vale più nei confronti degli ebrei il divieto relativo al possesso fondiario (A.S.G. Archivio notarile, notaio P.F.Bacicalupo, f.39).

3)  Atteggiamento delle popolazioni nei confronti degli ebrei

Già nel corso dell’analisi tentata nei capitoli precedenti sono stati evidenziati diversi episodi e situazioni che consentono di farci un’idea dell’atteggiamento tenuto nei confronti degli ebrei da parte della popolazione dell’Oltregiogo. È difficile in verità ricostruire nel dettaglio i contorni di un rapporto che appare per altro mutevole nel corso dei secoli presi in esame, ma è almeno possibile un tentativo basato, oltre che sulla documentazione in nostro possesso, anche sulla conoscenza dei diffusi pregiudizi e dei comuni comportamenti che caratterizzarono all’epoca i rapporti con gli ebrei. In effetti è possibile rintracciare già nei documenti un po’ tutti gli stereotipi delle accuse e dei preconcetti di cui si è nutrita da sempre la polemica antiebraica, ma nel contempo riesce evidente anche la presa di coscienza da parte della popolazione e delle autorità di un ruolo ben preciso assunto dagli ebrei nell’economia e nella società, ruolo nel quale non appaiono sostituibili dai cristiani.

Al 1509 risale la prima accusa di omicidio rituale – e per altro anche l’ultima a noi risultante – rivolta, come già abbiamo raccontato, agli ebrei di Novi. In questa vicenda spicca, almeno secondo il racconto del cronista dell’epoca, il contrasto tra l’atteggiamento irrazionale della popolazione e quello scevro da pregiudizi dell’autorità. Sempre a Novi nel 1582 la comunità inoltra alle autorità genovesi una denuncia relativa a presunti comportamenti provocatori degli ebrei, che vengono accusati di condurre una vita caratterizzata dal lusso e dagli sperperi. Se nel primo caso sono l’ignoranza e il pregiudizio, fomentati dalla predicazione e dal fanatismo, soprattutto del clero regolare, ad alimentare il malcontento popolare, nel secondo si riconoscono invece come determinanti i conflitti di interesse con le classi finanziarie e mercantili cristiane e le invidie dei ceti popolari.

Un altro episodio già copiosamente citato, quello del processo a Lazzaro Nantua, ci propone un ulteriore aspetto della casistica delle accuse delle quali vengono fatti oggetto gli ebrei. In questa vicenda si parte da un comune episodio di violenza, per altro di lieve entità, per assistere ad un crescendo di recriminazioni che toccano il comportamento generale dei giudei e soprattutto insistono sulla disonestà nella pratica dell’usura. Il caso avrà anche risvolti più drammatici allorché Angelo Nantua – fratello di Lazzaro – verrà accusato del delitto più odioso e intollerabile agli occhi della comunità cristiana, quello di violenza sessuale su una gentile. In quest’episodio la motivazione all’odio antigiudaico risulta immediatamente molto più prosaica, in quanto il caso nasce da un banale conflitto di interessi e cresce per l’opportunità che in esso molti scorgono di cancellare i loro debiti con i prestatori ebraici.

Pur trattandosi, come si è visto, di episodi significativi dell’esistenza anche nella nostra zona di un atteggiamento preconcetto e di diffidenze nei confronti degli ebrei, va rilevato che tali episodi brillano per la loro esiguità: non esiste infatti al momento documentazione di alcun’altra clamorosa presa di posizione contro gli ebrei. Va invece segnalato, al contrario, il rinnovarsi nel corso degli anni di testimonianze collettive della buona condotta degli ebrei, o addirittura di suppliche e intercessioni inoltrate dalla popolazione locale al fine di sottrarli ai decreti di espulsione o ad avere sanzioni. In alcuni casi sono gli ebrei stessi a sollecitare la testimonianza a favore della popolazione e dell’autorità, e a citarla poi nelle proprie suppliche, come fa Alessandro Nantua – padre dei già citati fratelli Nantua – nella sua richiesta al Senato del 1568 di proroga per un anno del permesso di residenza (documento già citato nel paragrafo precedente). Altrove sono le stesse autorità che a nome della comunità chiedono al potere centrale di procrastinare o di annullare i decreti di espulsione. Nel 1592 la comunità di Gavi chiede al Senato di soprassedere al decreto di cacciata, motivando la supplica con i gravi problemi di ordine finanziario che l’esecuzione dello stesso verrebbe a creare, e in particolare con lo stato di necessità nel quale giace la parte più povera della popolazione che si è fortemente indebitata con il banco ebraico (A.S.G. Atti del Senato n.g.1566, docum.n.57. Supplica del Senato di Genova della comunità di Gavi a favore degli ebrei). L’anno seguente è il sindaco di Ovada a prendere posizione a favore della comunità ebraica, arrivando a dire che senza l’intervento degli ebrei molti cristiani sarebbero morti di fame e le famiglie più povere sarebbero finite in rovina (A.S.G. Atti del Senato, n.g.1566, docum.n.57. Supplica del sindaco di Ovada in favore degli ebrei). Di lì a poco tempo, nel 1598, una nuova supplica del podestà di Ovada accomuna gli ebrei ovadesi e quelli di Novi in un giudizio decisamente positivo, anche perché relativo a membri delle maggiori famiglie finanziarie (A.S.G. Atti del Senato, n.g.1606, docum.n.131. Supplica al Senato genovese in favore degli ebrei di Novi e Ovada). Una nuova richiesta, di analogo tenore, viene presentata nel 1599 dal sindaco di Novi, che si sbilancia sino a dire che la popolazione non soltanto tollera benevolmente la presenza degli ebrei, ma ha imparato anche a rispettarne il ruolo (A.S.G. Atti del Senato, n.g.1623, docum.n.46. Supplica al Senato genovese di Giovanni Sanguineti sindaco di Novi, a favore degli ebrei del luogo). In alcuni casi, come in quello della richiesta da parte della popolazione di Voltaggio di riammissione del medico Joseph Hakoen, non è solo l’interesse immediato a muovere le suppliche, ma anche la stima e il rispetto che il medico ebreo ha saputo guadagnarsi (A.S.G. Litterarum Senato, anno 1567).

Nel complesso dunque il comportamento degli abitanti dell’Oltregiogo non si discosta da quello tenuto nella gran parte della penisola quando si prospetta il problema di una presenza ebraica. Forse si può ipotizzare che la sia pur tiepida benevolenza sopra rilevata sia frutto della consuetudine con famiglie appartenenti ad un certo rango economico, dal momento che non risultano presenze di piccoli artigiani o comunque di ebrei non abbienti. Insomma, la ricchezza crea comunque un certo alone di rispetto, anche quando è oggetto di invidia e di recriminazioni. Gli abitanti dell’oltregiogo, avendo a che fare sempre con ebrei ricchi oppure con medici di riconosciuto valore, finiscono per trovarsi sempre in debito, sia letteralmente che in senso figurato, con i giudei, e ne traggono un’immagine tutto sommato positiva.

Tale disposizione non viene inficiata, a quanto pare, almeno per tutto il secolo XVI secolo, dall’atteggiamento assunto nei confronti degli ebrei dal clero e dalle autorità religiose, nella fattispecie dai vescovi delle tre diocesi – Genova, Tortona, Acqui – i cui confini, estremamente frastagliati si intersecano proprio in quest’area. Tali confini non coincidono assolutamente con quelli delle amministrazioni civili, e ciò finisce per creare sovrapposizioni e conflitti di competenza che si sommano a quelli normalmente esistenti tra le due fonti di autorità.

Può accadere infatti che ordinanze emesse dal vescovo di Tortona – ad esempio quella già citata del 1579 relativa all’obbligo di portare il segno distintivo per gli ebrei di Novi – vengano interpretate come un’interferenza indebita da parte del Senato genovese e siano in pratica eluse proprio dietro la spinta dello stesso Senato. In questo caso non è solo un conflitto di competenze interne, quale poteva darsi tra il Senato e il vescovo di Genova, ma diventa un problema diplomatico dal momento che il vescovato tortonese è amministrativamente legato al ducato di Milano, e quindi all’impero.

Una situazione analoga si verifica nel 1591, quando gli ebrei ovadesi Abraham e Leone Alfha subiscono il sequestro dei beni da parte del vescovo di Acqui. Anche in questo caso si tratta di un provvedimento che valica i confini statali, essendo Acqui soggetta al dominio del Monferrato. La Repubblica interviene dapprima presso il vescovo stesso (A.S.G. Archivio Segreto, Litterarum Registri, n.1866, lettera del 2 aprile 1591), intercedendo per i suoi ebrei, poi attraverso un cardinale della famiglia Spinola arriva direttamente al Papa, ottenendo da quest’ultimo una soluzione favorevole agli ebrei (A.S.G. Archivio Segreto, Litterarum Registri, n.1866, lettera del 17 giugno 1591).

Non si hanno tracce invece di una altrettale conflittualità nei confronti del reggente della diocesi di Genova. Con ogni probabilità la situazione di conflitto con l’autorità diocesane esterne è legata alla determinazione, rafforzatasi dopo il Concilio di Trento, del potere religioso di salvaguardare o addirittura alimentare le proprie prerogative in particolari settori di competenza, uno dei quali era senza dubbio la gestione del problema costituito dalla presenza ebraica. Mentre le decisioni in proposito venivano concordate tra l’autorità civile e quella religiosa, e nella maggior parte dei casi si raggiungevano soluzioni di compromesso, quando, come nel caso dei vescovi “esterni”, tali accomodamenti risultavano più difficili il conflitto era inevitabile.

Il segno dell’autorità religiosa può essere reso evidente solo da provvedimenti decisamente restrittivi, rispetto ai quali il clero locale, e soprattutto gli ebrei convertiti, hanno il ruolo di creatori di consenso verso le popolazioni. Nemmeno per il XVII secolo sono testimoniati interventi particolari delle autorità religiose che vadano oltre il richiamo all’osservanza delle comuni disposizioni comportamentali per gli ebrei – segno distintivo, rapporti con i cristiani, ecc. -. In particolare non sembra essere stato applicato in questa zona lo squallido rituale della predica forzata, con ogni probabilità in ragione del numero esiguo di giudei abitanti nelle singole località. Alla stessa comunità di Novi Ligure, la più numerosa, viene risparmiata questa insultante pratica. Poco sappiamo infine del comportamento del clero locale, anche se è lecito supporre, sulla scorta di un atteggiamento generalizzato, che esso utilizzasse tutti gli strumenti più abusati della polemica antigiudaica. Ciò non impedisce d’altra parte, ai sacerdoti stessi di intrattenere rapporti d’affari con gli ebrei, e in particolare di ricorrere ad essi per le proprie esigenze finanziarie – com’è testimoniato da un documento relativo ad una controversia finanziaria rintracciato dallo scrivente presso l’Archivio Vescovile di Acqui (documento senza estremi di archiviazione).

 

Considerazioni conclusive

Dal lavoro di recupero delle testimonianze sulla presenza ebraica nell’oltregiogo, e di raffronto tra i caratteri di questa presenza sotto diverse amministrazioni, in una prospettiva diacronica che copre quasi tre secoli, emergono molte costanti, ma anche talune perplessità. Le une e le altre offrono l’occasione per una serie di considerazioni generali che intendo proporre a chiusura della mia ricerca, con il fermo proposito tuttavia di convertirle in spunti per ulteriori e più approfondite indagini. Il dato che si è imposto con maggiore evidenza è senza dubbio quello riguardante la relativa esiguità degli insediamenti ebraici della zona da noi presa in considerazione. Come si è già sottolineato, a fronte di una particolare dovizie di studi i documenti, e di conseguenza le presenze e gli episodi da questi testimoniati, sono allo stato attuale delle vicende tutt’altro che abbondanti. Ciò porta a desumere che gli insediamenti ebraici siano stati sì continuativi, ma numericamente alquanto ridotti. Ora, tenendo conto delle caratteristiche strategiche della zona sotto il profilo commerciale e della concorrenza di fattori storici particolari, quali lo spostamento di intere comunità dalla Spagna verso le coste tirreniche all’epoca della diaspora sefardita, o l’atteggiamento di relativa tolleranza mostrato in diversa misura dalle tre amministrazioni considerate, riesce difficile spiegare come l’Oltregiogo non sia divenuto in qualche modo una vera e propria “terra d’asilo”. Personalmente sono portato a ritenere che le motivazioni siano molteplici e di ordine sia generale che specifico.

In primo luogo, gli ebrei hanno sempre teso, nel corso dell’intera loro storia diasporica, a raggrupparsi in comunità piuttosto numerose, per evidenti motivi di sicurezza: e ciò era possibile solo nei centri urbani maggiori, là dove la proporzione numerica con i gentili non rischiava di diventare troppo alta, e quindi di suscitare sospetto e paura tra questi ultimi. Nell’area dell’Oltregiogo esistono soltanto, all’epoca da noi presa in considerazione, piccole cittadine, per le quali il livello di “saturazione” rispetto alla diversità ebraica è presto raggiunto, e che non offrono oltretutto sbocco ad attività alternative a quelle feneratizie -poco spazio per il commercio, niente o quasi per l’artigianato ebraico.

Queste comunità, inoltre, si insediavano di preferenza in quei centri urbani che erano sedi vescovili, sempre in ragione delle garanzie che l’autorità ecclesiastica in fondo forniva, sia rispetto alle intolleranze della popolazione sia, soprattutto, contro l’atteggiamento spesso venato di fanatismo del basso clero secolare e regolare. La nostra zona, che è interessata da tre diverse giurisdizioni diocesane, non comprende nessuna sede vescovile.

L’essere terra attraversata da più confini conferisce all’Oltregiogo, dal punto di vista degli ebrei, da un lato una particolare attrattiva, in quanto area privilegiata per gli scambi, e al tempo stesso sorta di “terra di nessuno”, nella quale spostamenti di pochi chilometri consentono di sottrarsi di volta in volta ai bandi di espulsione o agli editti vessatori: ma al tempo stesso la rende zona particolarmente pericolosa, sia in occasione delle frequenti guerre tra confinanti, con il rituale corredo di saccheggi e massacri, sia, in tempo di pace, per la presenza costante di un diffuso brigantaggio, alimentato proprio dalla facilità di trovare ricovero oltre confine, presso amministrazioni spesso compiacenti, o addirittura complici.

È da tenere in considerazione anche il fatto che la relativa crescita della presenza ebraica riscontrabile sin oltre la prima metà del Cinquecento – legata probabilmente proprio all’afflusso di profughi di provenienza spagnola – viene sensibilmente ritardata nell’ultimo scorcio del secolo dall’inasprirsi dell’atteggiamento delle amministrazioni civili sotto la spinta di una più marcata intolleranza religiosa maturatasi nel clima controriformistico. Gli insediamenti in zone poco soggette al controllo dell’autorità centrale, sia civile che ecclesiastica, vengono scoraggiati o addirittura impediti, e prevale la politica di raggruppamento, e successivamente di “ghettizzazione” delle comunità.

Mentre gode di una relativa tranquillità lungo il XVI secolo, nella prima metà del Seicento l’area dell’oltregiogo è interessata da un susseguirsi ininterrotto di conflitti. Ciò la rende poco sicura e ne determina una marginalizzazione economica, che va a sommarsi alla più generale crisi di struttura della quale è investita nello stesso periodo la repubblica di Genova. Il crollo del volume degli scambi, che interessa anche le vie commerciali transappenniniche, ha ripercussioni notevoli sul mercato finanziario, quindi sull’importanza della funzione economica degli ebrei.

Ancora sull’onda della normalizzazione controriformistica, ma soprattutto in ragione di una naturale evoluzione economica, nel corso del XVII secolo molte delle attività che per l’addietro erano state appannaggio quasi esclusivo degli ebrei passano nelle mani dei cristiani. Tra queste in primo luogo il piccolo prestito, nel quale i banchi ebraici cominciano a subire la concorrenza dei Monti di Pietà. Gli spazi per la presenza ebraica nella nostra zona, che, come già si è ripetuto, sono legati quasi esclusivamente all’attività feneratizia, si riducono quindi drasticamente.

Tutto sommato, sembra di poter desumere che gli ebrei non abbiano mai costituito, per le amministrazioni degli stati da noi presi in considerazione, un grosso problema. Ciò si deduce da un lato proprio dalla scarsità della documentazione ad essi relativa, dall’altro dal fatto che le leggi e i provvedimenti che li riguardano permangono in sostanza invariati nei secoli: e ciò appare segno della mancata insorgenza di problemi nuovi, a prescindere da quelle iniziative di “normalizzazione” – ghetti, ecc. – che vanno ascritte piuttosto al disegnarsi di un moderno modello del potere che non ad un diverso ruolo assunto dagli ebrei.

Dal tono delle suppliche inviate dagli ebrei alle autorità soprattutto in occasione dei decreti di espulsione, traspare l’idea di un radicamento che non sconfina nell’assimilazione, ma mantiene intatta la coscienza e la rivendicazione della diversità mentre chiede il riconoscimento del diritto ad uno stanziamento duraturo. Non è ancora percepibile, in sostanza, alcuna volontà di fusione con la popolazione ospitante, meno che mai con i suoi costumi; ma comincia a farsi strada l’aspirazione ad un legame stabile col territorio, e di riflesso con chi ha su questo giurisdizione. In pratica gli ebrei sono portati a privilegiare il rapporto verticale, nei confronti dell’autorità, rispetto a quello orizzontale nei confronti della comunità.

Anche l’assenza, o quasi, nella nostra zona di toponimi o di altre indicazioni che vengono a testimoniare la presenza ebraica, sembra indice di un impatto molto blando della stessa nell’immaginario popolare. Ciò è ancora più provato dalla mancanza di una tradizione orale e di specifiche leggende, che sono invece diffuse e tramandate là dove la popolazione ha vissuto come negativa la convivenza con gli ebrei.

Il fatto di avvertire o meno come un problema la presenza ebraica non è in realtà mai legato a motivazioni religiose, ma piuttosto a ragioni economiche. Nel caso di Genova, ad esempio, gli ebrei andavano ad inserirsi in una sfera commerciale che era già particolarmente sviluppata, e quindi erano visti come concorrenti. Per contro, nel Monferrato e sotto i Savoia essi finivano per riempire dei vuoti esistenti nel tessuto economico, ed era più difficile potessero suscitare invidie e rivalità.

Mi sembra utile infine proporre anche, a chiusura di questo lavoro, delle considerazioni concernenti i problemi da me incontrati nel corso della ricerca. Tali considerazioni non vogliono essere un’integrazione o una ripetizione di quanto già detto nella premessa metodologica, ma semplicemente degli appunti presi lungo il percorso.

In primo luogo, è da rilevare come un apparato documentario decisamente limitato abbia dato vita a tanta abbondanza di studi e di articoli. In pratica i documenti sono stati allineati e incrociati secondo le più diverse prospettive, anche in quei casi in cui l’interpretazione era obbligata e non lasciava spazio a congetture di sorta, mentre non è ancora stata realizzata, se non per la parte concernente il Piemonte, una catalogazione ordinata ed esauriente. Io stesso in fondo ho proceduto ad un riallineamento degli stessi dati sul percorso dettato dalle finalità della presente ricerca.

Nel fare ciò ho dovuto imparare a leggere in dati e documenti, per quanto aridi e ripetitivi, le tracce di situazioni diverse nel tempo e da luogo a luogo. Ho dovuto però anche apprendere a non leggere tra le righe quello che non c’era, cioè a non forzare eccessivamente l’interpretazione.

A fronte di analisi che concernevano situazioni abbastanza simili, il problema maggiore all’atto della stesura definitiva è stato quello di riuscire il meno possibile ripetitivo: e tuttavia è stato necessario qualche volta tornare sugli stessi concetti, per non peccare di eccessiva superficialità.

Al di là di quello che potrà essere giudicato il valore accademico di questa ricerca, essa ha comportato per me un indubbio arricchimento sotto il profilo umano: e voglio citare almeno due componenti di questa maturazione. Da un lato ho avuto l’ennesima conferma dello stato di precarietà, e talvolta del clima di persecuzione, vissuto dagli ebrei nel corso della loro storia. Ma è stata più che una conferma, perché per la prima volta ho avvertito la continuità e l’ordinarietà di tale situazione. Dall’altro lato, proprio il fatto di seguire vicende così particolari, legate appunto ad una sorta di quotidianità, mi ha consentito di cogliere più appieno il dato dell’integrazione almeno economica degli ebrei nel contesto sociale, e di percepirne quindi una minore marginalità. In pratica, ho constatato come mentre la storia generale, dovendo tener conto solo dei grandi fatti, tende a sottolineare gli eventi traumatici -pogroom, olocausto, ecc.-, la storia locale coglie gli aspetti di continuità, e quindi offre un’immagine rovesciata. In questo caso, anche se è vero che in genere la traccia documentaria nasce da situazioni di rottura, viene testimoniata soprattutto l’esistenza di una stabilità.

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  • Bibliografia
  • 1) Sul periodo storico
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  • LAVEZZARI F. – Storia d’Acqui – Acqui Terme, 1878
  • LEARDI F. – Le fiere di cambio a Novi – sta in (NOVINOSTRA anno XI, n.3, sett.1971)
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  • 2) Sulla storia generale degli Ebrei
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  • MILANO A. – Storia degli ebrei in Italia – Torino 1963
  • SIMONSOHN S. – Lo stato attuale della ricerca storica sugli Ebrei in Italia – sta in (ITALIA GIUDAICA, Atti del I conv. int., Bari 1981 pp.29-35)
  • 3) Sulla storia degli Ebrei in Liguria
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  • BRIZZOLARI C. – Gli Ebrei nella storia di Genova – Savona 1971
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  • MUSSO G.G. -Documenti su Genova e gli Ebrei tra il Quattro e il Cinquecento – sta in (RASSEGNA MENSILE DI ISRAEL, anno XXXVI, 1970, 11, pp. 426-435)
  • MUSSO G.G. – Per la storia degli Ebrei a Genova. Note su bibliografia e documenti – sta in (LA BERIO, anno XII, 1972, n.1, pp.5-14)
  • PERREAU P. – Appunti storici intorno agli ebrei di Genova- sta in (VESSILLO ISRAELITICO, 1881, pp.70-73)
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  • 4) Sulla storia degli Ebrei in Piemonte
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  • 5) Sugli Ebrei nell’Oltregiogo
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  • URBANI R. – Nuovi documenti sulla formazione della “nazione ebrea” nel genovesato durante il XVII secolo – sta in (ITALIA JUDAICA, “Gli Ebrei tra Rinascimento ed età barocca”, atti del II conv.int., Genova 1984, pag. 193-209)
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