di Paolo Repetto, 2016
Non ho ancora richiuso la porta che Sandro è già sprofondato nella dondolo. Dovrò mettere un cartello e incorniciarlo, come per i libri dati in prestito. “La dondolo non è riservata agli ospiti, neppure agli amici”. Non mi piace conversare trincerato dietro la scrivania: sono meno rilassato, divento professorale e mi agito sulla poltroncina.
Lui invece sembra perfettamente a suo agio. Mentre ci scambiamo gli aggiornamenti sui rispettivi malanni soppesa il disordine dello studio: libri che traboccano dagli scaffali, raccoglitori e fogli ammonticchiati sulle sedie, quadri parcheggiati da anni sotto l’inutile caminetto. Poi mi guarda al di là della scrivania completamente ingombra. “Dì un po’, non ti sei ancora stufato? Ne hai ancora voglia?”
Lo conosco. Si aspetta una concione sulla miseria dei tempi e sulle malinconie della senescenza, per farci su un po’di ironia. Ma non è giornata, e poi non sono sulla dondolo. Taglio corto. “Al contrario. Sono sempre più curioso. Anzi, sto diventando addirittura ansioso”. La cosa finisce lì. Visto che non gli reggo il gioco non insiste. Cerchiamo di ricostituire la complicità passando al pettegolezzo, e lì andiamo giù a sguazzo. Ma quando l’amico si congeda, gli occhi ancora umidi per le risate, riprendo possesso della dondolo e torno sulla sua domanda. Davvero ne ho ancora voglia?
Questa volta rifletto più a lungo. La domanda non è affatto stupida. È preoccupante semmai che arrivi da chi ha dieci anni meno di me. Dieci anni fa l’avrei trovata assurda: ero in campo, impegnato ad arginare dal mio piccolissimo ridotto i danni di riforme demenziali e di uno svacco generalizzato. Oggi però un senso ce l’ha. Non sono nemmeno più in panchina, e vista da fuori la partita perde ogni interesse. Ho rimosso completamente la scuola, i precari, i presidi sceriffi e le classi digitali. E più in generale non leggo i giornali, non seguo la televisione, so chi è al governo perché non potrei ignorarlo nemmeno volendo, e comunque se non lo sapessi non cambierebbe nulla. Forse quest’anno mi perderò per la prima volta gli arrivi del Tour.
Ma alla fine la risposta è la stessa. Ne ho ancora voglia! Anzi. Proprio perché non sono più distratto da queste cose ho ripreso a chiedermi dove andrà il sole quando scende dietro le montagne. Forse dovrei darmi una calmata, godere in santa pace ciò che resta del giorno, perché quel che c’è dietro in effetti lo so già: ci sono altre montagne. Ma a me piace arrampicare, e non solo sui sentieri alpini. Se ancora voglio intravvedere qualcosa devo risalire la parete del tempo. E qui le mie corde e i miei chiodi sono i libri.
Ultimamente ne acquisto molti meno. Non so più dove infilarli (ormai per uno che entra un altro deve uscire, destinazione il capanno dei Viandanti), e trovo poche novità che mi interessino: ma in compenso sto riscoprendo la mia biblioteca. Ci sono testi che nemmeno ricordavo di possedere e trovo invece sottolineati (a matita, leggera), e capisco allora da dove arrivano certe idee che mi circolano da tempo in vena: o altri che pensavo di aver letto ma risultano praticamente intonsi, e devo rammaricarmi di non averli letti prima. Le sorprese arrivano comunque soprattutto dalla rilettura. È incredibile cosa può dirti di nuovo un libro alla luce di tanti anni e di tantissimi altri libri venuti dopo. E quanto può rivelarti di te.
Ho sempre letto per capire. Può sembrare scontato, ma non è così. C’è chi legge per sognare, per svagarsi, per dimenticare, e sono tutte motivazioni più che legittime. Io leggevo Salgari per immergermi nell’avventura, ma allo stesso tempo annotavo tutte le isole dell’arcipelago della Sonda, e facevo mappe dei percorsi di José il Peruviano. Le ho ritrovate disegnate sulle controcopertine. Volevo conoscere tutto. E appena ho potuto mettere mano sui libri di storia ho messo meglio a fuoco l’obiettivo: volevo capire l’origine di tutto. Che è un’aspirazione insensata, perché ti obbliga a non trascurate niente, a spaziare in ogni campo dello scibile, dall’astrofisica alla zoologia. Ma io ho dei vantaggi: non sono credente, e quindi per me l’origine si situa già ad un certo punto del percorso. Mi incuriosisce quella dell’universo, ma mi interessa davvero quella dell’uomo. E non ho nemmeno la pretesa di scendere troppo in profondità. Mi pongo dunque delle domande alle quali sembra possibile dare una risposta, sia pure approssimativa.
Ho anche la convinzione di conoscerla già, questa risposta. Leopardi ci ha impiegato molto meno ad arrivarci, ma lui era Leopardi, e non a caso la sua era (ed è rimasta, per molti aspetti) una voce isolata. Non è una rivelazione, è una semplice disarmante constatazione: l’uomo è frutto di una casualità, un accidente temporaneo nella storia (ma possiamo chiamarla storia?) naturale. Detto questo, rimane il fatto che gli uomini ci sono, che io faccio parte di questa specie e mi interessa almeno capire come siamo diventati quel che siamo. Ma come, e non perché. In questo senso dico che un quadro generale, tra evoluzione, preistoria e storia, l’ho già in testa: e questo parrebbe dar ragione alla domanda dell’amico: non ti basta?
Non mi basta. Nei libri che continuo a leggere e in quelli che rileggo scovo sempre qualcosa che mi sposta un po’ più in là l’orizzonte, che aggiunge al quadro qualche particolare. Certo, in questo modo ogni passo allontana di due la tanto desiderata “risposta definitiva”, perché apre altri sentieri che promettono panorami mozzafiato: ma appunto questo sto cercando. Il senso è nel viaggio, non nella meta. La bellezza di una dimostrazione matematica non sta nel risultato, che spesso è uguale a zero, ma nell’eleganza dei passaggi. E allora continuo, tra deviazioni e soste e retromarce. Ma non mi muovo a casaccio: ho in mente una direzione, il percorso lo stabilisco poi di tappa in tappa. Diciamo che vorrei andarmene sapendo almeno cosa mi lascio dietro, visto che non ho grandi aspettative su quello che dovrei trovarmi davanti.
L’itinerario attraversa anche la scrittura. Un altro bisogno originato dalla consapevolezza. Mi sono dato tante motivazioni: la più sensata è che scrivo per mettere ordine nel caos delle idee che mi frullano in testa, ma quella vera è che lo faccio per oggettivare qualcosa della mia esistenza. Per fissare scoperte, entusiasmi, stati d’animo che altrimenti volerebbero via e diverrebbero immediatamente “non più essere”. È solo un’illusione, perché anche quelle pagine diverranno in breve tempo un non più essere: ma è un’illusione alla quale ci si aggrappa volentieri. Canetti scriveva: “Talvolta ho la sensazione che le parole siano tutte prive di valore, e mi domando perché ho vissuto. Ma non trovo risposte. E l’intensità della domanda poco a poco viene meno, e io mi siedo alla scrivania ed è di nuovo far parole”. Accade anche a me. Scrivendo fermo per un attimo il tempo, lo vivo un’altra o innumerevoli altre volte, lo stringo tra le dita. Persino letteralmente, perché nel mio caso l’oggettivazione passa anche attraverso la fisicità cartacea dei volumetti che creo, da guardare, da sfogliare, da rileggere di tanto in tanto. E da regalare.
La scrittura, e tanto più la produzione dei libretti, implicano la speranza di una condivisione, immediata o remota. Mi piace l’idea che tra trenta o quarant’anni qualcuno, magari un pronipote, li trovi e ne sia incuriosito. Ma già oggi, anche se mi ostino a pensare di scrivere essenzialmente per me stesso, nella scrittura cerco una forma di dialogo a distanza. Quello ravvicinato non è quasi mai soddisfacente, perché abbiamo il tempo contato, perché mancano le occasioni, perché siamo proprio disabituati alla conversazione pacata, e soprattutto ad ascoltare gli altri. Penso sia molto più facile concentrare l’attenzione sulla pagina scritta. Scrivendo siamo costretti a chiarire a noi prima che agli altri il nostro pensiero, e leggendo ci confrontiamo in tutta serenità con angolazioni diverse dello sguardo.
Non credo comunque che chiedendo non ti basta? l’amico si riferisse a questo, perché in realtà è uno dei miei interlocutori più attenti: i libretti li aspetta e li sollecita, poi si prende il suo tempo per digerirli e alla fine li commenta e li discute, a volte anche per iscritto, con una serietà quasi filologica ma con un taglio ironico. Probabilmente lo avrebbe fatto anche oggi, se la mia vena non fosse in secca e se gliene avessi comunque fornito il pretesto. Avrebbe colto tutte le contraddizioni, ma anche le aperture su potenziali nuovi percorsi. Ho perso un’occasione.
A questo punto dovrei tornare alla scrivania, a cercare carta e penna e a far parole, ma il dondolio induce a divagazioni oziose. Alle spalle ho lo scaffale della letteratura inglese. Allungo una mano e pesco un volume di saggi di William Hazlitt, Sull’ignoranza delle persone colte. Un segno del destino. Hazlitt è il più acido dei saggisti inglesi, che quanto ad acidità non si risparmiano mai. Un’altra sua raccolta, contigua a questa, si intitola Il piacere dell’odio. Ha passato la vita a litigare con tutti, quasi come Fichte, e a vendicarsi poi nei suoi Talk Tables, una rubrica giornalistica, dispensando equamente veleni. Potrebbe essere paragonato al Tommaseo, con la differenza che in quest’ultimo agiva l’acredine propria del cattolico fervente, ipocrita e insopportabile, mentre quella di Hazlitt è una cattiveria tutta inglese, che alla lunga riesce persino simpatica. E ha un pregio: è sincero in maniera disarmante.
Il saggio sull’ignoranza delle persone colte non è tra le sue cose migliori (bisogna leggere piuttosto Caldo e freddo, dove mette a paragone gli italiani e gli svizzeri: uno spasso). Si salvano alcune chicche (“Le donne hanno più buon senso degli uomini: non possono ragionare male, perché non ragionano affatto”), il resto è una tirata contro i danni che l’istruzione “accademica” e pedantesca arreca alla fantasia e alla spontaneità: cose abbastanza scontate. Ma in questo momento la mia attenzione va tutta al titolo. Sulla scrivania ho un altro libro, La barbarie dell’ignoranza, di George Steiner. Guarda caso un libro di conversazioni, di cui vorrei parlare altrove. Non ha molto a che vedere con il saggio di Hazlitt, ma il ricorso dell’ignoranza nei due titoli mi ha messo addosso una pulce.
La riflessione prende un’altra strada. Mi riporta alla domanda iniziale, ma la illumina di una luce diversa. Certo, in bocca all’amico quella domanda era solo provocatoria, o forse ingenua, comunque in buona fede: riecheggiava però un interrogativo che avverto spesso attorno a me, e che non è affatto provocatorio e nemmeno ingenuo. È volutamente maligno. Perché nasce proprio dall’ignoranza.
Spesso designiamo con lo stesso termine condizioni spirituali molto diverse, addirittura antitetiche. “Ignoranza” è tra quelli più ambigui. Fino ad ora ho parlato infatti di un’ignoranza consapevole ed umile, aggettivazione che crea un ossimoro, ma è consentita se si usa il sostantivo solo nel significato letterale, riferendolo ai contenuti. È quella di chi riconosce che quanto sa è molto meno di quel che ignora, e deve quindi darsi da fare a conoscere di più. Insomma, il “sapere di non sapere” socratico. Stringendomi un po’ posso rientrarci anch’io. Consapevole lo sono fin troppo, umile magari un po’ meno.
La titolarità del termine, però, nella sua accezione più ampia e legittima, quindi peggiore, spetta all’ignoranza proterva. Ed è a questa che entrambi i titoli mi rimandano. L’ignoranza proterva non è mai totalmente inconscia (quando è totalmente inconscia assume un altro nome, si chiama idiozia), è invece sempre barricata dietro la volontà di non conoscere, e di questo scudo fa un’arma offensiva. Mettiamola in questo modo: in qualche misura tutti abbiano coscienza di non sapere, e quindi nessuno è in pace con se stesso (va bene, tranne gli idioti): ma molti, forse i più, per pigrizia o per viltà non si assumono la responsabilità che ne consegue, e invece di trarne lo stimolo a conoscere hanno quello a disconoscere il valore del sapere, o almeno della voglia di sapere, altrui. Sono mossi dall’invidia, non tanto per le conoscenze che altri possiedono (perché il parametro come si è visto non è questo) ma per lo spirito che porta chi insiste nel perseguire la conoscenza ad attribuire una importanza relativa a tutto il resto, posizione economica e sociale, mode, ecc… Li sentono lontani dalla propria piccineria, interessati ad altro, sottratti al confronto. E si rendono conto che questo è il più sereno degli atteggiamenti. Ciò che dà loro veramente fastidio è l’essere posti di fronte all’evidenza di una possibilità di scelta che non hanno l’animo di compiere.
Qui non valgono gli alibi dell’estrazione sociale, delle situazioni non eque di partenza, ecc Tutto questo c’entra nulla, perché la differenza è data dal tipo di reazione ad una condizione comune. La percentuale dei veri ignoranti, come quella degli stupidi di cui parla la seconda legge di Cipolla, è costante in tutti i ceti sociali, i livelli economici e gli ambienti culturali, ed è altrettanto alta, visto che in fondo le due patologie coincidono. Se assumiamo che l’ignoranza non si misura sulle cose che non si sanno, ma sul fatto che si abbia o meno la coscienza “positiva” di non saperle, si può essere terribilmente ignoranti occupando qualsiasi “ruolo” intellettuale di primo piano (per gli esempi c’è solo da scegliere). Non è quindi questione di ceto sociale, di censo o di ambiente familiare: sarebbe come dire che dipende dal Fato. Ma neppure di determinazione genetica, che ci assolverebbe egualmente da ogni responsabilità. Quanto questa proterva arroganza sia connaturata e quanto coltivata, o meglio, assecondata, non lo so: ma se fosse davvero iscritta nel nostro DNA credo che non starei qui ora a pormi queste domande. La cosa certa è che esercita il suo veleno in ogni ambito delle relazioni umane.
Parlo dell’argomento con cognizione: l’ignoranza proterva l’ho conosciuta precocemente. Alle elementari si manifestava sotto le specie apparentemente innocue del “dagli al secchione”. Non è una manifestazione benigna, anche se tendiamo a liquidarla con un sorriso di tolleranza, quando non addirittura di complicità: nasce dallo stesso ceppo virale, ne è solo lo stadio di incubazione. Purtroppo di fronte a queste cose non ci mettiamo mai nell’ottica della vittima. Io non ero affatto un secchione, e tantomeno un ruffiano: non ci tenevo a primeggiare, non segnavo i cattivi alla lavagna, non blindavo i quaderni, non rifiutavo di passare i compiti (anzi, ho continuato a farlo sino a tutto il liceo, ed ero piuttosto bravo a non farmi beccare). Solo, anche se il “sapere di non sapere” era ancora inconscio, ero curioso di tutto e studiavo con passione: leggere, scrivere, disegnare, persino far di conto erano i miei divertimenti preferiti. E mi sembrava naturale, già a sei o sette anni, che ciò che avevo imparato, che mi aveva meravigliato, andasse condiviso: mi spiaceva semmai che i miei compagni non si divertissero altrettanto, non godessero come me di queste scoperte. Pensavo poi che quel divertimento, tradotto in gioco, poteva essere moltiplicato: ma non nella formula del Sapientino. Mi sembrava che giocare agli antichi romani sapendo chi era Muzio Scevola o agli indiani avendo un’idea di dove stavano il Mississippi o le Montagne Rocciose fosse tutta un’altra cosa. Salvo poi scoprire che non solo agli altri non interessava, ma a qualcuno dava proprio fastidio. A conti fatti quella vaccinazione è stata dolorosa, perché soffrivo dell’etichettatura ingiusta, ma ha funzionato. Ho imparato a non alzare più la mano nemmeno quando facevano l’appello, ma anche a difendere la mia attitudine verso il mondo, ad esserne orgoglioso e persino ad imporla. Oltre che a giocare da solo.
Col passaggio alle superiori la sintomatologia è cambiata. Il problema non erano più i compagni, perché ormai ero abbastanza scafato da tenermi in ombra e farmi gli affari miei. Il problema era che, stante la situazione economica della mia famiglia, avrei dovuto essere l’ultimo in paese a pensare di proseguire gli studi. La cosa infastidiva soprattutto i genitori di quei coetanei che avrebbero a loro volta meritato di proseguire, ma erano stati destinati all’avviamento professionale. Davanti a un invalido che campava lavorando la terra e risuolando ciabatte, e che sognava per i suoi figli un futuro di studi, gli altri non avevano più scusanti. Non potevano far altro che ripetere ai figli propri che tutto quello studio non valeva niente: non a caso a quattordici anni ero l’unico a non viaggiare in motorino
A colmare la misura vennero la scelta del liceo classico e più tardi quella universitaria. Un diploma di ragioniere o di perito industriale ci stava ancora, ma il classico sottintendeva l’intenzione di proseguire: questo proprio mentre una parte sempre maggiore del carico dei lavori agricoli stava passando sulle mie spalle. Si aggiungeva quindi il fatto che non solo non ero un secchione, ma neppure un “mangiapane a tradimento”, come venivano classificati allora quelli che non lavoravano. Mi guadagnavo ogni briciola, e andavo avanti a borse di studio. E allora, naturalmente, queste erano ottenute attraverso qualche oscura rete di conoscenze politiche e di raccomandazioni.
Ma la cosa davvero spiazzante fu la scelta universitaria. L’insegnamento? Dal momento che ero in ballo, tanto valeva studiare per qualcosa che rendesse, fare l’avvocato o il medico. Quanto guadagna un insegnante? E comunque, come volevasi dimostrare, si trattava di una laurea di serie B, di quelle che te le tirano dietro se solo frequenti.
Non voglio dipingere un santino da eroe sovietico dello studio: penso che la mia vicenda fosse comune in quel periodo a molti altri. Ma nemmeno sto esagerando la reazione negativa alla mia determinazione a studiare. Ho continuato a percepire per anni, tra i parenti prima ancora che negli estranei, un’ostilità non sempre silenziosa. In parte la davo per scontata, era frutto dell’atavico sospetto contadino per una cultura dalla quale si aspettavano solo fregature. C’è stato un periodo in cui ero quasi tentato di scusarmene: parlavo ostinatamente il dialetto con tutti, anche con quelli che mi si rivolgevano in italiano, discutevo quasi solo di lavori in campagna, evitavo di pubblicizzare qualsiasi successo di tappa della mia carriera scolastica (cosa che non mi costava alcun sacrificio). Ma non durò a lungo, a dispetto delle ubriacature ideologiche (era il sessantotto). Avevo imparato ormai a distinguere tra l’ignoranza buona e quella tossica, quella che rifiutava di considerare lo studio un valore in sé. Questo non potevo darlo per scontato. Eppure non c’era verso a far capire che non importava la laurea, ma il percorso: e che quel percorso poteva essere di tutti, e che diplomi e certificati erano solo pezzi di carta. Scattava immediatamente l’alibi: Per carità! Sono troppo ignorante. Sottinteso: E mi sta bene così.
Non ho mai digerito questo atteggiamento. Ho persino avuto il dubbio di essere troppo in anticipo, quando ancora sembrava che il sole dell’avvenire fosse allo zenit. Poi ho capito che in realtà ero in ritardo. Avendo vissuto sin dall’infanzia immerso più nei libri che nella realtà, avevo colto l’ultima eco di un’epoca nella quale la cultura veniva considerata un veicolo di promozione umana, prima che sociale ed economica. Di un tempo nel quale vigeva ancora la convinzione che istruirsi rendesse liberi e capaci di opporsi alle ingiustizie, fornisse gli strumenti per uscire da una sudditanza sentita prima di tutto come culturale. Il vanto maggiore di mia madre, che a dieci anni già stava a servizio presso una famiglia borghese, era quello di aver sempre corretto gli strafalcioni grammaticali e sintattici del padrone di casa e di aver letto più libri di tutti i componenti del nucleo famigliare messi assieme, comprese le figlie studentesse e i nonni, pescando proprio dagli scaffali della biblioteca domestica. Conoscendola, credo che in quella casa ad un certo punto la temessero come il fuoco, ma ne avessero un enorme rispetto. Una padronanza linguistica strappata con i denti, una cultura letteraria disordinata ma profonda e convinta, erano state le sue armi per affrontare un mondo che l’aveva lasciata orfana a due anni.
Mia madre condivideva con gli Illuministi e con tutti i progressisti delle varie bandiere l’idea che il vero riscatto venisse di lì, e che la conquista della conoscenza fosse prioritaria rispetto a quella dell’eguaglianza, ne fosse addirittura una necessaria precondizione. Per un secolo in tutto l’occidente, nei circoli operai, anarchici e socialisti, la prima cura è stata rendere disponibile una biblioteca. Sconfiggere l’ignoranza avrebbe significato davvero offrire a tutti le stesse opportunità. E non erano solo i socialisti a pensarlo. Quali che fossero poi i fini remoti, se c’erano, ciò che spingeva George Peabody (uno tra i fondatori della JP Morgan, l’emblema stesso della speculazione finanziaria, oggi “il nemico” in carne ed ossa) a istituire il Peabody education fund rispondeva alla stessa esigenza sentita da Diogene duemila anni prima, e ribadita all’epoca sua dai populisti russi, da Cattaneo e da Tolstoj, e nel nuovo secolo da Gorkij e da Berneri, insomma dai veri libertari in ogni parte del mondo: la necessità di emanciparsi attraverso la cultura.
Questa convinzione, dunque, oltre che trovarla nei libri la respiravo in casa. Fuori invece mi scontravo sempre più con la resa immediata e incondizionata, con l’alibi dell’ignoranza giocato preventivamente. Sulle prime ero sconcertato. Mi c’è voluto del tempo a capire che il problema era proprio la libertà, quella che i miei anarchici cercavano nella cultura. Perché la libertà è responsabilità. Per un breve periodo la cultura era stata davvero accessibile a tutti: nel mio piccolo, ne ero anch’io una dimostrazione. Ma l’accesso si paga, perché quanto più arrivi a conoscere, tanto meno sei giustificato a non scegliere. Non sei libero di sprecare la tua libertà: sei libero di scegliere come usarla, anzi, hai il dovere di farlo. Ed è questo a fare paura.
Ho insegnato per trent’anni letteratura e storia in un istituto tecnico per l’industria. Era la mia personale battaglia. Non ammettevo che l’istruzione potesse essere sganciata dalla cultura e aggiogata al servizio della professionalità. È stata un’esperienza esaltante. Non so quanto i futuri periti fossero bravi nel disegno meccanico, ma posso assicurare che quasi tutti amavano Leopardi e Ariosto, e a differenza dei giornalisti televisivi non confondevano la prima con la seconda guerra mondiale, e sapevano anche che tra le due c’era stata la guerra di Spagna. il tutto senza l’uso di strumenti di tortura. Lo sapevano perché avevano capito quanto fosse importante saperlo. Proprio da quell’osservatorio ho dovuto però assistere al progressivo appannamento della motivazione culturale pura, mentre fuori orde sempre nuove di barbari inalberavano l’ignoranza come vessillo. Perché nel frattempo era accaduto qualcosa.
In realtà di cose ne sono accadute tante. Per capire come negli ultimi settant’anni sia stato ribaltato lo statuto morale e sociale dell’ignoranza sarebbe necessario metterle in riga tutte, e forse un giorno proverò anche a farlo. Qui, ora, dalla dondolo, non posso che abbandonarmi a qualche considerazione spicciola.
Il primato della cultura sulle altre esigenze è durato per tutto il diciannovesimo secolo. Era naturalmente un primato solo nominale, auspicato nei programmi di quasi tutti gli schieramenti e nelle costituzioni di tutti gli stati, quali ne fossero i regimi, e negato poi nella prassi politica: ma che il potenziale ruolo della cultura fosse in qualche modo presente alle coscienze lo dimostra ad esempio la considerazione riservata all’insegnamento, o il fatto che l’indice più importante per valutare i progressi di un popolo fosse il tasso di alfabetizzazione, e non quello di crescita del prodotto. Quale fosse poi l’uso che della cultura veniva fatto, come essa venisse manipolata a fini di potere, è un altro discorso. Io mi riferisco al suo status ufficiale prioritario.
A partire dai primi del secolo scorso, invece, con la sindacalizzazione delle lotte sociali, la priorità è passata dal riscatto culturale a quello economico. In luogo di continuare a sperare che una crescita culturale diffusa avrebbe portato alla giustizia sociale, si è assunto che la perequazione economica avrebbe, casomai, favorito quella culturale, e che tutto sommato fosse realizzabile in tempi più brevi. I risultati li abbiamo sotto gli occhi.
Dare la precedenza alla perequazione economica implica l’adozione di una scala di valori completamente diversa: si sostituiscono i beni materiali a quelli spirituali. Ma è esattamente quanto richiesto da un modello produttivo giunto alla maturità, che non costituisce più una risposta ai bisogni, neppure a quelli secondari, ma i bisogni deve crearli per sopravvivere, per autoalimentarsi. Questo modello coltiva una coazione collettiva al consumo, anziché la coscienza critica individuale: e per farlo deve avere il controllo dell’istruzione, del rapporto con la conoscenza. In un primo momento favorisce quel minimo di istruzione funzionale a creare una “opinione pubblica”, ad educare a un pensiero di massa attraverso il quale veicolare gli orientamenti politici e gli stili di vita; poi, dopo il secondo conflitto mondiale, mette a punto con i nuovi media una macchina della persuasione che prescinde da qualsiasi competenza, anche elementare, dell’”utente”, e riscrive totalmente tanto i modi quanto i contenuti della conoscenza stessa. Il sogno di una cultura universalmente diffusa non è mai stato così vicino a realizzarsi: solo, sono cambiati totalmente la qualità e il senso di questa “cultura”.
Per quanto possa sembrare paradossale, del ribaltone si sono fatti complici proprio coloro che la coscienza critica avrebbero dovuto rappresentarla, gli intellettuali, e segnatamente quelli “progressisti”: Costoro giustamente, dopo quanto era accaduto nel secondo conflitto mondiale, hanno messo sotto accusa la cultura “borghese”, ma traditi dall’entusiasmo hanno finito per confonderla con la cultura tout court. È così, in nome di quella “cultura proletaria” che Camillo Berneri già negli anni trenta stigmatizzava come inconsistente o addirittura inesistente (la retorica socialista … non contenta dell’“anima proletaria”, si e inventata anche la “cultura proletaria”) si sono fatti beffe di quanto per i proletari veri, per mia madre, era invece una conquista, era orgoglio (ancora Berneri: In tutti campi il passato ci ha fatti eredi di beni inestimabili che non potrebbero essere attribuiti a questa o a quella classe). Vogliamo fare degli esempi? L’elogio di Franti tessuto da Eco, sia pure giocato dall’autore sempre sul filo del paradosso, per non compromettersi, ha finito per legittimare tutti i Franti contemporanei, quelli dei quali poi lo stesso Eco poco prima di morire si lamentava. Allo stesso modo, la democratizzazione della scuola è stata risolta in un abbassamento drastico del livello delle attese: invece di spronare tutti a perseguire obiettivi alti, col sacrosanto rischio che quelli particolarmente tetragoni dovessero intraprendere percorsi a loro più congeniali, si è preferito abbassare le richieste a un livello che include tutti ma non emancipa nessuno. Nella sostanza, si è passati dal dovere di darsi un’istruzione al diritto a ricevere un’istruzione: e in questo caso, come per il termine ignoranza, anche la parola istruzione assume significasti e valori ben diversi.
Sono riflessioni all’ingrosso, ma sufficienti a spiegare la fenomenologia molto più complessa dell’ignoranza odierna. Alle manifestazioni classiche se ne sono aggiunte di nuove. A volte possono sembrare antitetiche, ma in realtà sono accomunate tutte dai due fattori chiave della protervia: il rifiuto di una acquisizione critica della cultura e la sua concezione come “strumento” e non come valore in sé. Questi due fattori negativi vengono declinati in tutte le sfumature possibili, stringendo attorno al collo della cultura un cordone che la sta velocemente soffocando.
Per un attimo accarezzo l’idea di stilare di queste fenomenologie un catalogo, una cosa velenosa, nello stile di Hazlitt, Poi mi dico che tutto sommato un’operazione del genere non sarebbe granché elegante, anzi, riuscirebbe abbastanza gratuita. Rischierei seriamente di entrarci di diritto. Inoltre ne verrebbe fuori un volumone, e di spazio gli ignoranti se ne prendono già sin troppo, non è il caso di offrirne loro altro. Eppure la tentazione c’è. Ecco, magari potrebbe essere l’oggetto di un divertente pomeriggio con l’amico, seduto lui alla scrivania e io sulla dondolo. Già lo immagino …
Lo squillo del telefono interrompe al momento giusto il corso dei miei pensieri. È proprio Sandro, che evidentemente una volta arrivato a casa si è messo come me in poltrona (non ricordo però se abbia una dondolo) e ha riflettuto. “Tu sei un po’ stronzo, esordisce, ma ti confesso che ho continuato a pensarci, e mi rendo conto che la domanda era idiota. In verità non era una domanda. Cercavo un alibi per giustificare la mia attuale abulia. Hai ragione, è più che mai necessario insistere, non potremmo fare altro. E anzi, perché non scrivi qualcosa in proposito? Mi piacerebbe leggerlo e discuterne. Comunque, grazie”.
Lo sto già facendo, amico mio: e la domanda non era affatto idiota. Però non glielo dico.
Hazlitt non lo avrebbe mai fatto.

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