Lettere ai nipoti orfani della politica

di Paolo Repetto, 10 febbraio 2023

Quando in uno scritto precedente (vedi Anni perduti) azzardavo che siamo ancora in grado (e in obbligo) di fare qualcosa per i nostri ragazzi, non avevo in mente i grandi progetti di riconversione ecologica del pianeta o di realizzazione della pace mondiale: o almeno, non mi riferivo direttamente a quelli. Ritengo che l’impegno a lasciare loro un mondo ancora passabilmente vivibile sia sacrosanto e imprescindibile, ma ad essere sincero nel momento stesso in cui lo ribadisco avverto una sensazione di impotenza, mi rendo conto di quanto irrilevante nel concreto sia il nostro singolo contributo. Possiamo adottare “buone pratiche” e proporle agli altri col nostro esempio, ma sono gocce infinitesimali rispetto all’oceano nel quale stiamo affogando. Purtroppo non sarà una impennata di buon senso a decidere del destino dell’umanità: noi in realtà lo stiamo solo affrettando, in una direzione dettata dalla nostra miopia e dalla nostra presunzione. La stessa impressione proviamo d’altra parte anche nei confronti di obiettivi assai più limitati, come potrebbe essere nello specifico italiano quello di non lasciare in eredità a figli e nipoti un debito pubblico spaventoso e una voragine nelle casse dell’INPS. In cuor nostro sappiamo che avrà la meglio l’egoismo generazionale.

E allora? I casi sono due: o accettiamo di considerare chiuso il discorso, rinunciando ad accodarci alla recita rituale degli slogan pacifisti ed ecologisti (che nell’adolescenza è ingenuità, nella maturità è ipocrisia), o proviamo ad individuare qualche azione alla nostra portata, praticabile da subito e anche singolarmente. Un’azione che abbia un valore intrinseco, per chi la compie come per chi la riceve, ma che non si esaurisca affatto in se stessa. Il classico insegnare a pescare, anziché distribuire pesci.

In questo senso, la cosa più urgente cui mettere mano è senz’altro la riabilitazione della politica agli occhi dei nostri ragazzi: della politica seria, s’intende, non dello spettacolo di burattini offerto nei salotti televisivi. Non possiamo permettere che identifichino la politica con Salvini e Berlusconi, e meno che mai con Putin o Biden. È un impegno che dovremmo assumerci subito, e quando scrivo “dovremmo” mi riferisco ad una categoria anagrafica particolare, alla quale appartengo da un pezzo, quella dei nonni. Non solo perché come pensionati disponiamo di tempo (ancora poco, purtroppo) che andrebbe speso anziché perso, ma perché nel bene o nel male abbiamo maturato esperienze che dovrebbero conferire – almeno a chi le ha digerite – una qualche credibilità: e soprattutto perché a quanto pare non ci sono altri con la capacità o la volontà di farlo.

Non lo possono fare infatti i nostri figli, che abbiamo cresciuto nel rifiuto e nel disprezzo della politica: un rifiuto certamente motivato dal puzzo di marcio che ristagna in quella dimensione, ma che è diventato una posizione di comodo, senza mai tradursi in una responsabilizzazione personale. E meno che mai poi lo possono le istituzioni, che si limitano a bandire periodicamente delle svogliatissime crociate all’insegna del “civismo”, puri manifesti di facciata per dare una parvenza di senso alla propria esistenza.

L’esempio peggiore (perché raccolto direttamente da chi è ancora è in fase di formazione) è offerto proprio dalla scuola. L’educazione civica è stata ultimamente reintegrata al rango di disciplina curricolare, con tanto di valutazione autonoma: ciò che di per sé ne nega il ruolo di ispiratrice di base e di scopo finale di ogni disciplina (a dispetto del fatto che tutte risultino ufficialmente coinvolte, in un calderone caotico nel quale ciascun docente annaspa a modo suo), ma soprattutto travisa completamente il concetto stesso di educazione. In più, tutto questo è stato fatto senza badare minimamente alla realtà del contesto nel quale si andava ad agire e senza prevedere alcuna azione correttiva concreta là dove quel contesto appare irrimediabilmente degradato. Si è finto di ovviare con un tratto di penna all’oggettiva impreparazione dei docenti, allo straripare nei media di proposte di comportamenti incivili, alla rottamazione di ogni valore portata avanti senza alcun distinguo dalla cultura post-moderna della spettacolarizzazione e del successo mediatico. Il risultato è che agli occhi della stragrande maggioranza degli studenti l’educazione civica si riduce ad un inserto particolarmente uggioso in quello che è già di per sé un mare di nebbia.

Meno che mai, poi, c’è bisogno di “scuole di politica”, nelle quali quest’ultima sia trattata come una professione. Anzi, va combattuto proprio questo distorcimento, perché nella realtà la politica è già interpretata così dalla maggioranza dei suoi praticanti, ma non certo nel senso di “un’etica della convinzione” o di “un’etica della responsabilità” come predicato da Max Weber. Al contrario, è considerata una scorciatoia per il successo, per il potere e per l’ascesa economica.

È contro queste interpretazioni che possiamo e dobbiamo ancora agire. Perciò, pur senza farmi soverchie illusioni, rimango convinto sia mio dovere di nonno e di cittadino trasmettere a un nipote le poche cose che ho imparato e che presumo di aver capito. Sono consapevole del rischio (anzi, della forte probabilità) di ribadire cose ovvie, di semplificare e banalizzare eccessivamente tematiche complesse. Ma è un rischio che ritengo valga la pena correre. Indirizzo allora le considerazioni che seguono a Leonardo e a tutti coloro che sento come nipoti spirituali, agli studenti di cui parlavo sopra e ai tantissimi come loro che sono certo esistano.

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Lettera a Leo (in pratica, un testamento)

Caro Leo, capisco il tuo desiderio di sentirti da subito un cittadino “attivo”, prima ancora che ti venga riconosciuto ufficialmente il diritto alla partecipazione formale (leggi: diritto di voto). La cosa non mi sorprende, perché un po’ ti conosco, anche se meno di quanto vorrei, e so che la vivi non come un’infatuazione o una stravaganza passeggera, ma mosso da un interesse sincero. Non solo: sulla situazione geopolitica mondiale sei indubbiamente molto più informato della gran parte dei nostri connazionali, segnatamente di quelli eletti a rappresentarci, quindi hai i numeri per mettere a frutto positivamente la tua sete di conoscenza e di partecipazione. Davvero non potevo sperare di meglio. E in qualche modo, attraverso te, vorrei continuare a partecipare anch’io.

Le considerazioni che ti propongo sono frutto di una militanza molto sui generis (nel senso che non ho mai voluto ufficializzarla, tesserarla, piegarla a ragioni di partito o di carriera né asservirla ad una ideologia), che va avanti da tantissimi anni, praticamente da quando ho cominciato ad avere consapevolezza di me, del mondo e del rapporto tra me e il mondo. In tutto questo tempo ho maturato alcune semplici convinzioni; giuste o sbagliate che siano, mi hanno dato una ragione per non sedermi a lato della strada aspettando un passaggio, e per continuare invece a camminare con le mie gambe, a scegliere con la mia testa ad ogni bivio. Ne abbiamo già parlato in qualche occasione, soprattutto ne ho scritto a più riprese: ora provo a ripensarne e a riassumertene alcune, sia pure in ordine sparso. (Ma intendiamoci subito. Anche se mi chiamo Paolo non pretendo di scrivere Epistole: prendi queste cose per quel poco che valgono. Potrebbero quantomeno fornirci materia per i prossimi incontri.)

Per cominciare, io credo che la politica non debba essere vissuta come una passione, e in questo mi dissocio da Max Weber (so che ancora non lo conosci, ma ne parleremo), il quale diceva che si può vivere “di” politica (la politica come professione) o vivere “per” la politica (la politica come passione). In realtà, i miei distinguo riguardano solo l’interpretazione da dare ai termini. Quanto al primo, l’idea di una militanza politica vissuta come professione proprio non l’accetto, a meno che non si voglia intendere “esercitata con professionalità”, ovvero con competenza. Quanto al secondo, va anch’esso interpretato in un significato restrittivo, a indicare la dedizione. Quando si parla genericamente di passione ci si riferisce ad un sentimento che è per l’appunto “passivo”, generato da impulsi che prescindono da ogni ragionevolezza e dei quali si subisce l’effetto sia fisico che psicologico. Quella politica deve essere invece una “disposizione”. Cerco di chiarire la differenza.

Perché la politica non deve essere vissuta passionalmente? Perché non è un fine ma un mezzo, un gioco (se così vogliamo chiamarlo) attraverso il quale si persegue un risultato (un ideale): e il gioco può risultare appassionante e divertente anche di per sé (o comunque per motivi privati, come l’ambizione, il tornaconto, ecc…, tutti ascrivibili a una qualche passione), ma nella misura in cui coinvolge anche altri, coi quali ci si può porre in competizione o in cooperazione, deve svolgersi secondo regole almeno comprese, e possibilmente accettate, da tutti: e dal momento che è finalizzato a realizzare uno scopo comune non può risolversi nella soddisfazione individuale. Voglio dire – così sgombriamo subito il campo da un grossolano equivoco nel quale purtroppo oggi sguazzano molti giovani, e non solo – che il comportamento politico è cosa ben diversa dal tifo sportivo o da altre affezioni similari che hanno per oggetto i protagonisti del mondo dello spettacolo: queste cose rientrano nel campo delle malattie sociali, trovano sfogo in momenti specifici e in luoghi deputati e si manifestano esibendo simboli (sciarpe, magliette, bandiere, ecc,,,) e seguendo rituali o mandando segnali particolari (gli applausi, i cori, gli slogan, i fischi, ecc…). Quello che tu vedi espresso nelle manifestazioni e nei cortei, appunto kefiah, magliette del Che, bandiere, striscioni, cartelli, non attiene alla politica ma alla partigianeria, e nella fattispecie odierna è il tributo pagato alla società dello spettacolo e alla cultura televisiva.

La politica la si fa invece nei comportamenti quotidiani, in ogni momento e in ogni luogo, a scuola, in casa, nei ritrovi, sul lavoro: è il modo di rapportarsi agli altri, ma anche alle cose, alla natura e alla cultura in genere. Non è una passione perché comporta l’esercizio costante della capacità razionale di mediare, di ascoltare gli altri e di farsi ascoltare dagli altri senza bisogno di urlare, di proporre argomenti (e non slogan), e di opporli a quelli altrui (senza ricorrere alle invettive). È una “disposizione” che suppone senz’altro una base biologica, una componente naturale (che definirei “attitudine”): ma questa viene temperata, orientata e controllata dalla razionalità. Con buona pace della definizione aristotelica, l’uomo diventa politico nella misura in cui cessa di essere semplicemente un animale istintuale.

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Si possono comunque distinguere diversi livelli di comportamento politico. Il primo, quello privato (che poi in realtà del tutto privato non è), coincide sostanzialmente con l’etica. L’individuo che persegue coerentemente i valori che egli stesso ha scelto a propria guida si dispone ad un comportamento “politico” nel momento in cui li confronta coi valori altrui (eccola, la “disposizione”). In realtà questo livello può essere considerato ancora pre-politico: è necessario, perché apre al confronto, ma non è sufficiente, perché non comporta automaticamente una volontà di mediazione. E soprattutto perché trova la sua ragion d’essere in una gratificazione personale: mi comporto eticamente per essere in pace con me stesso, soddisfatto di me.

C’è poi un comportamento “morale”. È quello per cui penso o agisco sulla base di parametri esterni, dettati da altri. A questi parametri, che sono i valori professati dalla comunità in cui vivo, posso conformarmi, ma posso anche non farlo, posso trasgredire. Magari proprio in coerenza con la mia etica (è il caso, ad esempio, dell’obiezione di coscienza). Ora, tutti questi sono già comportamenti politici. Del mio comportamento “morale” sono giudici gli altri: e in base ai criteri vigenti potrò essere approvato o, al contrario, essere giudicato immorale, o amorale. Va comunque direttamente ad operare sui rapporti collettivi.

Per inciso: non a caso si parla di una “etica protestante” – vedi ancora il nostro amico Max Weber –, perché per il protestantesimo è l’individuo ad assumersi la responsabilità di scegliere, e di una “morale cattolica”, perché per il cattolicesimo la scelta non c’è, è già stata fatta una volta per tutte ed è garantita dalla comunità.

Il comportamento compiutamente “politico” è infine quello per cui mi confronto con gli altri tenendo presenti le regole del gioco, al limite cercando un accordo per cambiarle, e provo a convincere i miei interlocutori della bontà e dell’efficacia delle idee che professo.

Insomma, per riassumere: eticamente rispondo a me stesso, moralmente rispondo agli altri, politicamente mi confronto con gli altri. E mentre eticamente posso (e devo) aspirare all’infinito, alla società perfetta (comportandomi “come se” questa fosse possibile), politicamente mi misuro invece con uomini, idee, istituzioni, tradizioni, condizionamenti ambientali e sociali che confliggono tra di loro e originano “imperfezione”, e devo agire quindi secondo una ragionevole coscienza e una disincantata conoscenza della società reale. Non potrò farmi guidare dalle emozioni e dai sentimenti (ciò non significa che occorre soffocarli, ma che vanno gestiti e controllati) e non dovrò predicare o imporre, ma discutere. Dovrò in sostanza evitare di pretendere dagli altri risposte che non possono dare. In proposito, l’immarcescibile Max Weber sostiene che politica ed etica sono inconciliabili, perché la politica si basa anche e soprattutto sull’uso della violenza: e a rigor di termini avrebbe ragione, ma poi consente anche lui che all’atto pratico si possa operare in politica seguendo l’etica “dei principi” (che tiene conto solo della bontà delle intenzioni) oppure l’etica “della responsabilità” (che valuta attentamente le conseguenze delle proprie azioni – e che è appunto quella di cui ti stavo parlando).

Cosa significa comunque che “devo” aspirare all’infinito? Allora: una società “politica” (quella che Aristotele chiamava politèia) presuppone che a confrontarsi siano dei soggetti passabilmente maturi e responsabili. In realtà noi sappiamo benissimo che non tutte le persone sono tali, vuoi per carattere (motivi biologici), vuoi per ignoranza (motivi culturali), vuoi per vicissitudini (motivi ambientali e sociali). In altre parole, sulla capacità degli umani di partecipare ad un agire politico collettivo influiscono sia la natura (l’eredità genetica), sia la cultura (l’eredità culturale), sia la ventura (la condizione esterna, il tempo e il luogo, in cui si trovano a vivere): la politica dovrebbe essere appunto il terreno sul quale si realizza una mediazione tra questi diversi influssi. Non sempre però lo è, perché – e questo è un mio parere, altri la pensano diversamente – la determinazione biologica del carattere rimane comunque fortissima, e se uno nasce stupido o carogna non c’è verso a cambiarlo, ma occorre senz’altro contenerlo. In questo caso occorre usare brutalmente la politica come uno strumento di difesa. Ne consegue che non dovremo mai attenderci la società ideale, e dovremo scendere a compromessi con noi e con gli altri: ma chi davvero è animato da una genuina volontà politica non deve mai rinunciare a pensare e ad agire come se questa società fosse possibile, pur rimanendo consapevole che persegue una direzione, e non una meta.

Ora, in questa prospettiva, esiste qualche tipo di società che più si avvicini a quella ideale? Sul piano della politica applicata, ovvero delle forme di governo, l’unico modello che sembra possedere questo requisito è quello democratico. Uno che per la democrazia non nutriva una gran simpatia, Winston Churchill, scriveva: “È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. Un modo elegante per dire: al momento non ci sono alternative.

Il termine “democrazia” ha etimologicamente un significato ben preciso: è quella forma di governo nella quale la sovranità viene esercitata dal popolo. Ma al di là di questo, molto meno precisi sono invece i modi nei quali questa sovranità può essere esercitata, le istituzioni nelle quali si concretizza e persino chi e cosa si debba intendere per popolo. Non bisogna dimenticare che questo sistema politico è stato inventato (o almeno, formalizzato) in una pòlis nella quale i due terzi della popolazione (le donne e gli schiavi) non erano considerati facenti parte del popolo, non godevano di alcun diritto di “cittadinanza”. E neppure che l’idea di democrazia si è poi eclissata per i due millenni successivi, ed è tornata in auge solo da due o tre secoli a questa parte. Non si tratta quindi di un modello perenne e definitivo, ma di qualcosa che è soggetto a trasformazioni e potrebbe sparire già domani. In tal senso la democrazia come la intendiamo oggi, quella nella quale l’opportunità di partecipare è estesa a tutti, e viene collegata non solo al valore della libertà individuale ma anche quello della giustizia sociale, è un’invenzione decisamente recente.

Non sto ad elencarti quali siano stati i percorsi diversi e accidentati della democrazia moderna, né a decantarne i frutti. Li hai di fronte, li vivi tutti i giorni, puoi facilmente coglierne l’essenziale attraverso lo studio della storia contemporanea e la comparazione con la qualità della vita nelle aree del mondo governate da regimi non democratici. L’importante è non dare questi frutti per scontati o per acquisiti una volta per sempre.

A questo proposito, vediamo piuttosto di capire che pericoli corre la democrazia, da quali tarli è rosa all’interno e da quali agenti esterni può essere messa in forse. Ultimamente gli attacchi alla democrazia sono sferrati un po’ da ogni parte, da destra e da sinistra, con motivazioni originariamente diverse ma con diagnosi che spesso arrivano a coincidere.

Il pensiero di destra sostiene che il mondo pre-industriale (e pre-democratico) faceva perno sulla comunità, era cioè strutturato come un “organismo”, all’interno del quale le funzioni erano distribuite e accettate in ossequio a un ordine superiore (che rispecchiava quello naturale) e i rapporti erano appunto imperniati sulle gerarchie naturali. La democrazia sarebbe invece lo strumento e nel contempo il frutto di una “atomizzazione” sociale, che ha disgregato l’originale appartenenza “organica e comunitaria” e l’ha sostituita con una “organizzazione” delle individualità isolate, all’interno della quale i rapporti sociali sono impersonali, artificiosi, meccanici e freddi.

Il pensiero di sinistra sostiene al contrario che la democrazia liberale, quella in pratica che è nata e si è affermata in occidente, è una democrazia limitata, più formale che sostanziale, incapace di assicurare la giustizia sociale: uno strumento di facciata, insomma, per mascherare il totalitarismo capitalistico. Le contrappone formule piuttosto nebulose, che vanno dalla “democrazia diretta” (invocata – sia pure per ragioni e con finalità diverse – anche dal populismo di destra) a criteri alternativi di rappresentanza, e ritiene comunque che qualsiasi modello debba anteporre la promozione dell’uguaglianza a quella della libertà individuale.

Persino il pensiero liberal-moderato (quello rappresentato ad esempio da Tocqueville – parleremo anche di lui), pur ritenendo ineluttabile l’avvento di società democratiche, già due secoli fa metteva in guardia contro le loro possibili derive autoritarie, o contro i rischi di dissoluzione del tessuto sociale, ed anzi li prefigurava (la democrazia che si trasforma in demagogia, ecc…). La coscienza delle imperfezioni e delle fragilità della democrazia era quindi già ben presente sin dalle sue origini (e addirittura nel pensiero greco). Con una differenza: per i pensatori liberali si trattava di effetti collaterali (e quindi di studiare i possibili rimedi), per quelli odierni di destra o di sinistra si tratta di un difetto d’origine (che non può essere sanato, e quindi può essere superato solo modificando radicalmente il modello).

Negli anni più recenti ha cominciato a circolare una quarta posizione, non apertamente esplicitata ma sotterraneamente diffusa, dettata dalle urgenze economiche, demografiche e ambientali che si vanno profilando. Tale posizione auspica per l’intero globo un modello di “democrazia controllata”, vagamente ispirato a quelli dell’estremo oriente (quello cinese e quello sudcoreano, in particolare – ma in qualche modo era già presente in Rousseau): anche se il termine democrazia in questo caso è decisamente inappropriato, perché si tratterebbe in sostanza di una dittatura delle élites. La variante più gettonata è quella di un “governo dei tecnici”, che dovrebbe consentire domani di pianificare e imporre una “decrescita” controllata. È anche quella che ha maggiori probabilità di attuazione, perché mira a conciliare gli interessi di un capitalismo in difficoltà con i tentativi di ovviare all’emergenza ecologica e climatica (la cosiddetta economia green e i progetti di transizione ecologica ne sono già un esempio).

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Questo quarto modello rimanda direttamente ad un altro problema, quello dell’esportazione della democrazia tentata nella seconda metà del secolo scorso dall’Occidente, e rivelatasi fallimentare perché si è scontrata con situazioni politiche (conflitti interetnici, inadeguatezza delle classi dirigenti, ecc…) e con culture che hanno radici completamente diverse, sulle quali l’innesto si è rivelato impossibile. Ma soprattutto rimanda alla piega del tutto nuova che il problema ha preso, dopo essere migrato dalle aree ex-coloniali, o comunque sottosviluppate, alla patria stessa della democrazia: oggi non ci chiediamo più se è possibile “democratizzare” gli altri mondi, ma se è possibile far convivere nel nostro mondo la cultura occidentale con quelle degli immigrati provenienti da ogni parte del globo. Mutato così radicalmente il contesto, sono cambiati anche i modi del rapporto: le istituzioni democratiche, e quindi la mentalità e gli stili di vita che stanno loro a monte, non solo non sono esportabili, ma debbono essere difese là dove esistono, perché corrono un rischio serio di estinzione.

Sul tema della difesa della cultura occidentale e della democrazia sentirai le voci più discordanti. Non tutti in occidente sono convinti ne valga la pena, molti auspicano addirittura la cancellazione della “ipocrisia democratica” e di un modello di civilizzazione che si è macchiato del colonialismo, dell’imperialismo e di tutte le altre peggiori nefandezze. Se sei intelligente come credo avrai modo (spero che ti sia ancora dato) di renderti conto da solo di quanto siano insensate e davvero ipocrite queste posizioni. Chi le prende sa o dovrebbe sapere benissimo che gli è consentito farlo solo all’interno di questa civiltà “colpevole e decadente”, che altrove la sua voce sarebbe stata strozzata sul nascere, e non solo la sua voce. I cultori del mito del buon selvaggio che tra i selvaggi hanno scelto di vivere si contano sulle dita d’una mano, e l’hanno fatto sempre conservando posizioni di privilegio (non fosse altro per una soggezione dettata dal colore della pelle, o per particolari competenze e conoscenze proprie della cultura dalla quale “fuggivano”), e tenendosi aperta una porta per il ritorno. Come gli odierni frequentatori degli ashram indiani, si sono comprati la purificazione in valuta occidentale. Allo stesso modo i laudatori contemporanei dei modelli di civiltà antagonisti, quello cinese, quello islamico, quello russo-sovietico o russo-putiniano, ecc… si guardano bene dal trasferirsi altrove con armi e bagagli. Rientrano nei costi che solo la democrazia può permettersi, e sfruttano cinicamente lo spazio loro concesso.

Quanto alla convivenza in Occidente delle diverse culture, il problema è scottante. Ha cominciato a porsi nella seconda metà del secolo scorso, quando è iniziato l’afflusso verso l’Europa di migranti provenienti dai paesi ex-colonizzati, ed è stato affrontato con una disposizione mutevole di fronte al crescere delle ondate. Se in un primo momento si faceva conto su una spontanea assimilazione, dando per scontato che gli individui o i gruppi in ingresso, ancora relativamente ridotti, si sarebbero velocemente adeguati alle regole e ai costumi del loro nuovo paese, la portata raggiunta dall’esodo negli ultimi due decenni del secolo ha reso necessario ripensare le strategie di accoglienza.

Si è cominciato dunque a ragionare in termini di “integrazione”, che contempla la possibilità/necessità per un individuo di diventare pienamente membro di una comunità, e di contribuire semmai “dall’interno”, col suo portato culturale diverso, a cambiare la società, a farla crescere. Neanche questo modello ha funzionato, come dimostra il caso della Francia, perché le comunità dei migranti, una volta raggiunta una certa consistenza, hanno sviluppato o si sono lasciate imporre una forte coesione “difensiva” interna, che si è tradotta in rifiuto dell’integrazione.

Per un certo periodo ha di conseguenza prevalso l’idea del multiculturalismo: in sostanza, la società multiculturale è quella al cui interno la diversità culturale è riconosciuta, tollerata e se possibile incoraggiata. Anche in questo caso la politica adottata si è rivelata fallimentare (vedi i problemi che vivono oggi l’Inghilterra e i paesi nordici). Questo perché il riconoscimento unilaterale di diritti, non bilanciato dall’assunzione dalla controparte dei corrispettivi doveri, fa crollare tutti i presupposti su cui si fonda la democrazia.

E siamo all’oggi: non si può dire che l’Occidente non abbia mostrato nei confronti del problema un’apertura che solo il suo particolare modello di civiltà poteva consentire: ma la cosa non ha funzionato, vuoi per i pregiudizi e le resistenze che gli occidentali senz’altro ancora scontano, vuoi essenzialmente per il rifiuto all’incontro attivo e al dialogo opposto da culture che rifiutano di mettersi in gioco. Il sogno dell’incontro interculturale è svanito: quello che si prospetta, con buona pace del progressismo senza se e senza ma, è uno scontro sempre più aspro.

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Il che ci porta direttamente ad un altro tema molto “caldo”. La democrazia si fonda sul riconoscimento a tutti di una “cittadinanza”, ovvero di una serie di diritti individuali, ai quali fa però da contrappeso una serie di doveri nei confronti della collettività. Il mancato rispetto di questi ultimi mette in crisi il funzionamento dell’intero sistema, perché comporta in definitiva che i diritti altrui siano negati. Quando ciò accade si viola la legalità, cioè quell’insieme di regole che deve esistere per garantire una civile convivenza. Pertanto, sino a quando queste regole non vengano cambiate per comune accordo vanno rispettate da tutti, e fatte rispettare.

Lo statuto della cittadinanza dovrebbe fondarsi su queste semplicissime basi, al di là dalle “certificazioni” ufficiali e della condizione anagrafica (ius soli, ecc..). E almeno in teoria le cose stanno così; nella realtà però acca-de che la cittadinanza abbia finito per essere considerata o come una prerogativa ereditaria (sono cittadino per una pura condizione di nascita, e solo in ragione di tale condizione – così come un ebreo è tale solo se nato da madre ebrea) o come un diritto automaticamente acquisito da chiunque viva all’interno di determinati confini, in entrambi i casi prescindendo dal livello di adesione alle regole.

Qui si entra in un terreno molto delicato, quello delle diverse nature del diritto (diritto naturale – diritto positivo) e delle loro reciproche limitazioni, per cui non mi sembra il caso di avventurarci oltre. Preferisco semplificare mettendola così: nel mondo ideale, quello al quale, come dicevo più sopra, il nostro comportamento politico deve quanto meno tendere, il cittadino è colui che partecipa attivamente e responsabilmente alla vita politica: quindi alla elaborazione delle regole, alla loro applicazione e al loro rispetto. Non importa dove e da chi sia nato: la sua “cittadinanza”, i suoi diritti “politici” conseguono dal suo agire, gli sono riconosciuti previa valutazione di quest’ultimo. Parrebbe un automatismo logico, ma già su questa istanza di principio c’è chi storce il naso e vorrebbe il godimento dei diritti sganciato dall’adempimento dei doveri. Anche dando comunque per scontata l’equità dell’automatismo, quando lo trasferiamo dal mondo ideale a quello reale nasce un altro problema, quello di garantire che la valutazione sia equa. Sappiamo benissimo quanto le istituzioni che dovrebbero fornire questa garanzia siano screditate.

Quindi: poggiati i piedi per terra non dobbiamo per questo rinunciare a dare un senso più alto alla cittadinanza. Pur nella consapevolezza che la mia proposta presenta grossi limiti e pone diversi problemi io sarei per una sorta di cittadinanza a punti, un po’ sul modello di quella esistente nella Corea del Sud. Le infrazioni producono una decurtazione, e oltre un certo limite o nei casi particolarmente gravi una sospensione, temporanea o definitiva: mentre la partecipazione positiva (che non si misura solo nell’attivismo a livelli “istituzionali” di qualsiasi genere, a partire dall’assemblea condominiale e dalle associazioni di volontariato a salire sino ai vertici più alti, ma nella correttezza globale dei comportamenti) permette di reintegrare il punteggio. È solo un gradino, per di più controverso e scivoloso, ma bisogna pur cominciare a salirlo per riconferire alla cittadinanza una qualche dignità e credibilità.

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Infine, e poi ti prometto che chiudo, un ulteriore problema è rappresenta-to dalla sfiducia generalizzata nei confronti della democrazia rappresentati-va e dal miraggio di poterla superare con l’aiuto delle tecnologie digitali. Al modello democratico attuale si imputa di non avere tenuto il passo dei tempi, e in particolare di non essersi adeguato alle opportunità che le nuove tecnologie oggi offrono. Le modalità di rappresentanza sulle quali la democrazia si basa sin dalle origini (in sostanza, tutte le varie forme di parlamentarismo) sono considerate obsolete, non più in sintonia con un mondo che viaggia ad altri ritmi e sfrutta altre energie. Si è quindi diffusa la convinzione che le nuove tecnologie, prima tra tutte la possibilità di lavorare in rete, consentano una gestione e un controllo della cosa pubblica più diretti e più trasparenti.

Ora, la sfiducia nella democrazia rappresentativa è condivisa anche da chi molto idealisticamente propugna un ritorno alla partecipazione politica originaria (per intenderci, sul modello della pòlis greca), come la filosofa Hanna Arendt, ma in genere le motivazioni che la determinano sono meno nobili e profonde.

Si applicano alla politica i costumi del calcio, e anziché convenire che il problema non sta nella formula della rappresentanza (pur con tutto ciò di imperfetto che essa comporta), ma nel modo in cui sia i rappresentanti e che i rappresentati la applicano, si cambiano il modulo e l’allenatore. Come ho già scritto altrove, “è vero che oggi è garantita ai cittadini solo l’espressione di un voto, mentre ogni concreta possibilità di controllo e di intervento è delegata ad organismi di intermediazione che nel tempo si sono trasformati in feudi autonomi: ma è altrettanto vero che i cittadini non possono continuare a scaricare le loro responsabilità rispetto a questo esautoramento decisionale. La corsa a trasformare ruoli di servizio in ruoli di potere da parte delle istituzioni intermediarie è stata consentita dalla scarsa volontà di partecipazione dei cittadini stessi, dalla loro mancata assunzione di responsabilità civica”. Quindi, teniamoci la rappresentanza e cambiamo semmai i rappresentanti, o meglio ancora, cambiamo i criteri coi quali questi vengono scelti.  Non è necessario però dettare nuove regole: sarebbe sufficiente che i rappresentati si decidessero ad assumere un ruolo attivo, che implica anche l’essere disponibili a svolgere funzioni “politiche” in prima persona, anziché limitarsi a delegarle per amore del quieto vivere.

Quanto alla fiducia in una democrazia digitale, mi sembra davvero mal riposta. Si fonda infatti sul presupposto che l’accesso al cyberspazio sia egualmente libero per tutti. La rete è democratica, si dice. Il che, in linea teorica, è vero: tecnicamente ciascuno può avere accesso ad ogni informazione, stabilire contatti con chiunque, esprimere liberamente la propria opinione e il proprio voto. Ma nella realtà le cose stanno diversamente. Intanto, per quanto concerne l’informazione, chi si mette in rete lo fa partendo necessariamente dai propri valori e dai propri pregiudizi, quindi sa già cosa vuole trovare, e per farlo sceglie percorsi particolari, rinunciando in partenza ad altri itinerari. Può sembrare una cosa ovvia, lo è certamente, ma questo significa entrare in rapporto non con chiunque, ma quasi esclusivamente con chi già condivide gli stessi valori e gli stessi pregiudizi, e fa quindi gli stessi percorsi.

Il risultato è la nascita di “comunità virtuali” caratterizzate dall’unanimità di vedute e dall’assenza di un vero scambio, di un dibattito interno. Le comunità di rete sono totalmente autoreferenziali, stimolano un senso di appartenenza quasi settario e liquidano le differenze di opinione. Tocqueville aveva già previsto questa deriva due secoli fa: “Gli americani si dividono con grande cura in piccole associazioni molto distinte per gustare a parte le gioie della vita privata” scriveva ne La democrazia in America. “Ognuno di essi vede con piacere che i suoi concittadini gli sono uguali… io credo che i cittadini delle nuove società, invece di vivere in comune, finiranno per formare piccoli gruppi”.

Insomma, la realizzazione di una democrazia “immediata”, “veloce”, “semplice”, è una pura chimera populista, una menzogna subdola, perché asseconda la frenetica pulsione alla velocità, l’insofferenza per un meditato approfondimento dei problemi e l’illusione di partecipare attraverso le reti digitali alle decisioni su qualsivoglia tematica. D’altro canto, come funzioni la partecipazione mediatica abbiamo potuto verificarlo in questi ultimissimi anni: gli strumenti che dovrebbero garantire l’esercizio della democrazia si sono rivelati fragili e pericolosamente permeabili, e sono gli stessi che veicolano delle campagne massicce di disinformazione e di condizionamento, orchestrate addirittura a livello mondiale.

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Torniamo dunque al punto di partenza: quello che conta non sono i modi, i moduli o i modelli, ma una educazione politica di base che consenta ad ogni singolo soggetto di vivere il diritto come una quotidiana conquista e responsabilità. Tutto il resto è suppellettile.

Come vedi, caro Leo, di carne al fuoco ne ho messa molta. Spero solo, con questa lunga tirata, di non averti fatto perdere l’appetito. Ci sarebbe ancora molto altro da condividere.

Quindi, alla prossima

Naufragi con telespettatori

di Paolo Repetto, 5 novembre 2022

Suave, mari magno turbantibus Aequora Ventis
e terra magnum alterius spectare Laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse Malis Careas quia cernere suavest.

(È dolce, mentre nel grande mare i venti sconvolgono le acque,
guardare dalla terra la grande fatica di un altro;
non perché il tormento di qualcuno sia un giocondo piacere,
ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune.)

La metafora con la quale Lucrezio apre il secondo libro del De rerum natura ha conosciuto una grande fortuna, ed è arrivata a noi con un lungo viaggio attraverso la letteratura (ricordo solo Ariosto e Benjamin, ma quanto a naufragi – i propri – anche Leopardi non scherza), l’arte (ad esempio, “Il Naufragio” di Turner, “Tempesta a Belle-Ile” di Monet, “La grande Onda” di Hokusai), la musica (“La tempesta di mare” di Vivaldi, il primo atto dell’Otello di Verdi, ecc.). In realtà non era tutta farina del sacco di Lucrezio: il suo contemporaneo – e curatore editoriale – Cicerone accenna ad una immagine simile che compariva in una tragedia perduta di Sofocle, anche se il senso non era esattamente lo stesso. Il frammento di Sofocle infatti dice: “Oh quale maggiore piacere può esservi che, toccata la terraferma e sotto un tetto, udire con i sensi assopiti cadere fitta la pioggia”. Lo stesso vale per un paio di versi superstiti del semisconosciuto Archippo: “Com’è dolce guardare il mare dalla terra, non dovendo navigare”. La versione circolante in Grecia già cinque secoli prima è dunque in apparenza meno insensibile alle sofferenze altrui di quella di Lucrezio (in apparenza, perché il poeta latino non voleva affatto esprimere un atteggiamento di egoistica indifferenza): là il naufragio non era neppure nominato, forse per scaramanzia, e comunque a incombere, a costituire una malaugurata possibilità era quello proprio, non l’altrui. Cicerone, che non a caso era un avvocato, portato alle interpretazioni più maliziose, scrive invece (ad Attico) “Desidero contemplare da terra il naufragio di costoro, come disse il tuo amico Sofocle”, chiamando Sofocle a testimoniare e ad avallare con la sua autorevolezza un pensiero che era in realtà molto più prossimo al detto confuciano “Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”.

A me interessa però, al di là delle interpretazioni, l’attualità di quella immagine, che oggi non è più soltanto metaforica. Siamo infatti quotidianamente spettatori, stando al riparo di un tetto e seduti su un comodo divano, di naufragi reali o di altri accidenti che ai naufragi sono apparentabili, sia la natura o siano gli uomini a provocarli: ma lo facciamo con atteggiamento sofocleo, questo si, coi sensi assopiti, intorpiditi dal profluvio di altrui disgrazie che ci viene riversato addosso. E siamo ormai talmente assuefatti da non accorgerci che in mezzo al mare in tempesta ci siamo anche noi, sballottati qua e là dalla potenza della tecnica e più ancora da quella del capitale, e contemporaneamente incapaci di distogliere lo sguardo dal teleschermo, di guardarci attorno senza farci irretire da ogni sorta di illusionisti. Come gli spettatori pirandelliani siamo direttamente coinvolti nella vicenda, ma non abbiamo la minima idea della parte che stiamo recitando.

Naufragi con telespettatori 02

A giocare con le metafore ci si prende gusto: e allora vado fino in fondo. Ce n’è appunto una sulla vita come teatro che a mio giudizio rende a pennello la nostra situazione, ed è riportata da Kierkegaard in Enter-Eller: “In un teatro scoppiò un incendio dietro le quinte. Un clown uscì sul palcoscenico e avvisò il pubblico. Gli spettatori pensarono che si trattasse di uno scherzo e applaudirono. Il clown ripeté l’annuncio, con sempre maggior divertimento dei presenti. È così, immagino, che il mondo finirà distrutto: tra l’ilarità generale dei buontemponi, convinti che sia tutto un gioco”.

È un’immagine perfetta: il mondo che va a fuoco, l’umanità spettatrice che pensa sia una barzelletta, il giornalista-clown che ha talmente abituato gli spettatori al falso o all’inutile da non essere più preso sul serio. (Kierkegaard ce l’aveva a morte coi giornalisti. Scriveva anche: “Se Cristo venisse oggi sulla terra, com’è vero che io vivo, non prenderebbe di mira i sommi sacerdoti, ecc. – ma i giornalisti …”. Aveva capito tutto).

Ma torniamo alla metafora di Lucrezio. In effetti il suo atteggiamento un po’ egoistico lo è: come dice lui stesso, le disgrazie altrui non sono affatto piacevoli, ma ti danno un’idea di quel che ti stai scansando. E questo probabilmente, ai suoi tempi, un po’ di consolazione l’arrecava. Oggi però è molto più difficile pensarci immuni da qualsivoglia pericolo: lo abbiamo già constatato sulla nostra pelle con la recente pandemia, ne abbiamo la riprova oggi con la guerra che è tornata a giocarsi alle porte di casa nostra, cominciamo persino ad accorgerci che i problemi ambientali e i cambiamenti climatici ci toccano tutti indifferentemente. E tuttavia, anche di fronte a quelli che non sono più solo segnali, ma realtà che incidono profondamente sulla nostra esistenza, sembra che la consapevolezza del nostro coinvolgimento sia ancora ben lontana. Ci pensiamo ancora spettatori sulla riva e tiriamo un sospiro di sollievo, come se il carico di disgrazie elargite dagli dei agli uomini rispettasse delle quote fisse, e a noi fosse risparmiato ciò che cade sugli altri.

Naufragi con telespettatori 03

Nel bellissimo libro Davanti al dolore degli altri Susan Sontag cita un piccolo saggio in forma di lettera pubblicato nel 1938 da Virginia Wolf, Le tre ghinee. In questo saggio la Woolf faceva riferimento alle immagini che testimoniavano la distruzione fisica e la carneficina disumana provocate dalla guerra civile spagnola, immagini che le venivano recapitate dal fronte repubblicano quasi quotidianamente. Secondo la Woolf “la macchina bellica ha un genere sessuale”, e quel genere è maschile: la guerra è uno sport praticato dai maschi, per cui la scrittrice confessava di sentirsi quasi impotente. Ma evocando la condivisione delle stesse terribili immagini – “stiamo guardando insieme gli stessi corpi privi di vita, le stesse case in macerie” – riteneva che queste fossero talmente scioccanti da affratellare le persone di buona volontà, da far loro superare ogni divario di genere relativo alla guerra e alla violenza. Credeva insomma che venire a contatto col dolore, sia pure attraverso la sua rappresentazione, non potesse lasciare indifferente nessuno.

La Sontag, che ha scritto il suo libro nel 2003, sessantacinque anni dopo quello della Woolf – sessantacinque anni che hanno visto una guerra mondiale e un continuum interrotto di conflitti locali, guerre civili, azioni terroristiche, a bassa intensità ma ad altissimo numero di vittime – va oltre la diversa percezione di quelle immagini secondo l’angolatura di genere. Il problema sta per lei ancora a monte. Intanto, si chiede, cosa ci motiva veramente a ritrarre la sofferenza e l’orrore? E quali sentimenti suscita nello spettatore la loro “riproduzione”? E quest’ultima è poi davvero possibile, senza che nel trasferimento all’immagine vada persa la verità terribile di quanto è rappresentato? E ancora, come evitare che si crei l’assuefazione, o peggio, un morboso compiacimento davanti a queste rappresentazioni? Il fatto è, dice Sontag, che da una immagine di guerra siamo toccati, ma non ci sentiamo mai direttamente coinvolti: non ci sentiamo investiti di una responsabilità diretta. E al di là del livello di coinvolgimento, l’interpretazione delle immagini diventa una questione soggettiva, e stante la molteplicità degli usi cui esse possono essere piegate diventa anche un atto politico. Tanto più nell’epoca dei social network, nella quale la loro diffusione è sterminata e incontrollata.

Con tutto ciò, scrive la Sontag, le raffigurazioni “indecenti” della sofferenza e della morte violenta hanno un valore pari a quello dell’esperienza diretta. Sono testimonianze che non potremmo acquisire in alcun altro modo, e quindi, a dispetto anche degli effetti di saturazione che il loro moltiplicarsi produce, conservano un forte valore etico.

Naufragi con telespettatori 04

Mi verrebbe spontaneo non essere d’accordo, perché sto pensando all’uso spregiudicato, per non dire turpe, che viene fatto nelle pubblicità televisive delle immagini di bambini denutriti, svantaggiati, malati: ma poi devo ammettere che persino quelle, malgrado il loro intento di creare sensi di colpa da tacitare con le donazioni sia così spudoratamente scoperto, e a dispetto del fastidio col quale le respingiamo, un qualche effetto lo producono: la sofferenza di un altro, la pioggia fitta che cade là fuori, alla fine nel profondo ci toccano.

Perché però allora rimaniamo seduti sul divano, ipnotizzati dal teleschermo, sforzandoci di credere che la distanza di quelle immagini ci garantisca per il momento un po’ di sicurezza (solo qualche anno ancora, per gli anziani come me), o fingendo di accettare fatalisticamente la perdita di ogni disegno per il futuro?

Lo lascio spiegare con un’altra metafora da Hans Blumernberg, l’autore di Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza (dal quale ho evidentemente saccheggiato il titolo di questo intervento e gran parte delle citazioni iniziali). È una prosecuzione e un adattamento all’oggi di quella da cui sono partito.

Quello di Lucrezio è per Blumernberg uno dei due possibili atteggiamenti di fronte al gioco ciclico, incessante e imperscrutabile, della creazione e della distruzione della natura. È l’atteggiamento epicureo di chi dall’alto della sua superiore conoscenza può guardare con distacco agli affanni e i turbamenti altrui, e non esserne travolto.

Il fatto è che ormai ci troviamo a vivere in un’epoca nella quale le rotte salvifiche delle ideologie e delle religioni e i porti sicuri delle filosofie cui approdare sono scomparsi dalle mappe. Oggi annaspiamo costantemente in un mare in tempesta, la nave non regge e dal naufragio possiamo salvarci solo aggrappandoci a una tavola. Per Blumenberg dobbiamo quindi “farci una nave con i resti del naufragio” (è anche il titolo di un capitolo del libro): il tavolame che abbiamo a disposizione è costituito solo dalla scienza: “Si deve costantemente tener conto che si è alla deriva; da lungo tempo non è più questione di navigazione e di rotta, dello sbarco e del porto. Il naufragio ha perduto la sua azione-quadro. Ciò che deve essere detto è: la scienza non fornisce quello che i desideri e le pretese avevano tradotto in aspettative ad essa rivolte; ma quella che essa fornisce, non può essere essenzialmente superato e basta alle esigenze della conservazione della vita. […] Con la teoria della selezione naturale Darwin avrebbe offerto la possibilità, perlomeno di aggirare l’ipotesi di un finalismo immanente della creazione organica. […] La tavola è il massimo che si può pretendere dalla situazione di autoiniziativa immanente dell’uomo tramite la scienza”. (Naufragio con spettatore, pp. 105-06)

A pensarci bene, prescindendo naturalmente da Darwin, non è poi molto diverso da quanto diceva Lucrezio. Per il quale, tra l’altro, già dalla nascita l’uomo si ritrova nella condizione del naufrago: “il bambino, come un naufrago gettato a riva dalle onde infuriate, giace in terra nudo” (De Rerum Natura, V vv. 222 ss) e tutte le forme della natura possono essere paragonate a rottami scagliati sulla riva (“ma – come, quando sono avvenuti molti e grandi naufragi,/ il vasto mare suole gettare qua e là banchi, costole di nave,/antenne, prore, alberi e remi galleggianti,/sì che lungo tutte le spiagge si vedono fluttuare/aplustri e dare ai mortali ammonimento/a volere evitare le insidie del mare infido/ e le violenze e il suo inganno, e a non credergli mai”, De Rerum Natura, II vv. 550 ss)

D’altro canto, a mio parere nemmeno Lucrezio conserva sino in fondo l’imperturbabilità del saggio epicureo: il fatto stesso di scrivere un libro a carattere scientifico-divulgativo implica che sia impegnato a fare luce sul destino dell’uomo, e a farne partecipi gli altri. Insomma, non si trasforma da spettatore in protagonista, ma dimostra che anche chi contempla la realtà non può esimersi dal viverla in prima persona. “La ragione può fare dell’uomo lo spettatore di ciò che egli stesso patisce, facendo sì che domini da ogni parte con lo sguardo la vita nel suo complesso” scriveva Schopenhauer. E Lucrezio in effetti può essere considerato a pieno titolo un poeta della ragione, perché ritiene che attraverso la ragione l’uomo sia in grado di lottare contro il caso e di farsi artefice del suo destino. A dispetto di tutto il suo distacco, “sente” di non essere al sicuro, ma di viaggiare sulla stessa barca con gli altri. E allora, proprio perché “Si salva, probabilmente, non chi contempla la rovina altrui, ma chi soffre e spera insieme agli altri, chi considera fattivamente gli uomini non come individui lontani e indifferenti, bensì come prossimi e fratelli” il suo atteggiamento sfuma nella seconda possibilità, quella di mettersi per mare e di prendere parte emotivamente ed empaticamente alla navigazione.

Mi chiedo solo adesso perché mai mi sono messo a scrivere queste cose. Non era un argomento che urgesse. Ma a volte mi prendono delle strane malinconie. In questo caso è un cerchio che si chiude. In una noterella buttata giù almeno quarant’anni fa, concernente la “genialità”, affermavo che la caratteristica che distingue il genio è la capacità di dire: “Ma cosa volete da me?” É una caratteristica che non ho mai posseduta, e infatti non sono un genio. In tutto questo tempo non ho cambiato idea, e ho anche consolidato la convinzione che la qualità cui davvero ho sempre aspirato, l’ironia, non ha niente a che fare con il genio. Nessuno è meno ironico (e soprattutto, autoironico) di un genio, così come io sono ben lontano dall’atarassia epicurea. Eppure, continuo a pensare che persino Lucrezio, che indubbiamente un genio lo era, non fosse poi così distaccato ed egoista. Ci ha lasciato in dono un’opera che è un capolavoro, ma soprattutto è la tavola giusta cui aggrapparsi: e questo è più che sufficiente a farmelo sentire vicino.

Passati prossimi e futuri imminenti

di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022

Assente ingiustificata

di Paolo Repetto, 16 settembre 2022

Non sono un appassionato ermeneuta di programmi elettorali. Voto da quasi sessant’anni e non ne avevo mai letto uno. Questa volta l’ho fatto. Si potrebbe pensare ad un tardivo soprassalto di responsabilizzazione civica, ma in realtà sono stato mosso da semplice curiosità: volevo verificare quanto spazio vi fosse riservato ai problemi della scuola. La mia è senz’altro una deformazione professionale: capisco che con questi chiari di luna, tra guerre, emergenze ambientali, pandemie, recessioni economiche, il degrado della scuola possa apparire ai più un problema secondario, ma per fortuna non sono l’unico a pensarla diversamente. Lo spunto per queste righe è arrivato infatti da alcune osservazioni di Nico Parodi, che ha sempre operato in tutt’altro settore e della mia deformazione non soffre.

Giorni fa Nico mi raccontava lo sconcerto di una sua nipote per il fatto che nei testi scolatici dei figli (entrambi esordienti in nuovi cicli di studi) le immagini prevalgono sulla parte scritta. Alla fine ha commentato: «Ormai si studia sulle didascalie. La conoscenza che si acquisisce è solo un cumulo di frammenti estremamente volatili, che non attivano una linea di pensiero e non abituano ai passaggi logici. Anche di questi tempi il primo problema dovrebbe essere “il modo” in cui trasmettiamo la cultura, e invece pare che di questo freghi niente a nessuno». Ha ragione, e lo dimostra l’assenza totale di questo tema dallo sciagurato “dibattito” elettorale in corso. Il primo vero problema da affrontare, quello che dovrebbe aprire ogni programma, riguarda il ruolo e la “qualità” della scuola, il tipo di cultura che trasmettiamo, perché da quest’ultima dipende poi la capacità di comprendere e affrontare qualsiasi situazione: ma nessuno se lo pone.

Non è una novità. L’ultima riforma scolastica che esplicitava una “idea” del ruolo della cultura, e di conseguenza delle finalità della scuola, risale giusto a sessant’anni fa. Fu un mezzo disastro, perché quell’idea era equivoca, si era in pieno boom economico e la scuola veniva piegata a rispondere pedissequamente alle esigenze della “crescita”, dietro la facciata della democratizzazione e della promozione sociale; ma almeno testimoniava una consapevolezza del mutare dei tempi e una sia pure confusa volontà di affrontare il problema. I continui aggiustamenti venuti dopo non hanno fatto che accelerare la deriva: si sono persi completamente di vista la realtà scolastica e lo spirito che dovrebbe informarla.

Mi importava però capire se di quella consapevolezza rimane qualche traccia negli odierni programmi elettorali. Li ho dunque sfogliati e confrontati, limitandomi ovviamente a quelli dei partiti o dei raggruppamenti percentualmente più significativi, almeno a dar retta ai sondaggi. Ho trovato quello che era prevedibile, ovvero il nulla, ma cucinato in salse diverse. Ne do schematicamente conto qui di seguito, a beneficio di altri improbabili pignoleschi esegeti della letteratura propagandistica. Potranno tranquillamente risparmiarsi la fatica e la noia.

Nota tecnica. Nella disamina procedo in senso orario, a partire dalla estrema sinistra, come da rappresentazione classica dei posizionamenti parlamentari. La collocazione sui lati o al centro non è esattamente quella rivendicata dai diversi schieramenti, ma quella che io percepisco.

Alleanza Verdi-Sinistra. Il documento consta di 38 pagine. Si apre con un’ampia dichiarazione d’intenti, poi passa alla “politica verde” (si a rinnovabili, no a nucleare e trivelle; incentivi per la coltivazione della canapa, ecc…) ai diritti civili (cittadinanza femminile), al fisco, alla biodiversità, alla protezione degli animali (riduzione dell’aliquota IVA su cibo per animali e prestazioni veterinarie, oggi soggetti a tassazione come “beni di lusso”), alle migrazioni e all’accoglienza. Metà del testo è dedicata alle recriminazioni rispetto alle politiche dei famigerati governi di Draghi e di Renzi. Curiosamente non viene mai citato il doppio mandato di Conte.

La scuola arriva solo a pagina 22, e occupa tre pagine. Si parte bene: “Occorre ribaltare la funzione prevalentemente produttivistica del sapere, nel linguaggio come nella sostanza; una logica aziendalista nella gestione, una quantificazione esecutiva nelle metodologie, un prevalente economicismo nelle finalizzazioni”. Ma poi non viene chiarito in che direzione dovrebbe andare il ribaltamento, se non affermando che “La formazione e la ricerca, la loro libertà, la qualità e le finalità che le orientano sono una grande questione democratica. Sono, anzi, componente essenziale delle democrazie”. Infatti. Ma allora occorre spiegare a cosa si sta pensando quando si scrive che “È necessario far sì che la scuola torni a essere un vettore di mobilità sociale e non che certifichi, cristallizzi o addirittura moltiplichi le disuguaglianze in essere”. Quello di “mobilità sociale” è un concetto che si presta a interpretazioni ambigue: ciò che qui si intende è chiaro, ma rischia di degradare la scuola a veicolo per il successo. Se questo è il tipo di riscatto inteso dalla sinistra-sinistra (odio questa auto-rappresentazione presuntuosa, mi ricorda l’uso di sapiens sapiens per indicare un livello più alto dell’evoluzione), temo che abbiamo sempre parlato lingue diverse.

Non va meglio quando si passa dai propositi alle proposte. La “riduzione a un massimo di 15 alunni per classe e il recupero di spazi pubblici per le nuove aule” sono più che condivisibili, così come “l’estensione del tempo scuola (tempo pieno e tempo prolungato, a seconda dei diversi ordini di scuola) in tutte le scuole del territorio nazionale”. Tutte bellissime cose. Non fosse che per applicarle sarebbe necessario disporre di un organico ad occhio e croce almeno doppio rispetto a quello attuale, e il problema non si risolverebbe “assumendo un numero molto più ampio di docenti a tempo indeterminato,” e meno che mai “stabilizzando coloro che insegnano precariamente da più tempo”. L’uno e l’altro provvedimento inciderebbero solo in senso quantitativo (e comunque, quanti insegnanti si potrebbero assumere, se già oggi si fatica a reperirli anche andando a raschiare il fondo delle graduatorie?), mentre il problema è di ordine qualitativo. Le assunzioni indiscriminate di docenti che “insegnavano precariamente da più tempo” sono già state fatte, anche recentemente, col governo Renzi: il risultato è stata l’immissione in ruolo di un sacco di gente che vantava requisiti di anzianità anziché di competenza. La distorsione ottica della sinistra riemerge sempre: la “mission” della scuola non è quella di creare posti di lavoro, ma di educare persone e cittadini responsabili.

Assenze 02a

Insieme per un’Italia democratica e progressista. (Ma “insieme” a chi?) Il programma del PD occupa 35 pagine fitte fitte, suddivise in quarantaquattro schede tematiche. Undici di queste pagine sono dedicate a un preambolo e a una “Cornice” che incorniciano davvero di tutto, dall’Europa alle amministrazioni comunali. Il tono è decisamente volitivo (Vogliamo proteggere, vogliamo riaffermare, vogliamo approvare, vogliamo impedire, ecc). Quando è assertivo non si scosta dalle formule rituali (Due devono essere i protagonisti del rilancio del Paese: le donne e i giovani).

In compenso la scuola arriva solo a pag 22 (come sopra) e occupa una paginetta scarsa. “La nostra proposta sulla scuola come motore del Paese parte da qui (era ora). Vogliamo rimettere al centro la scuola e restituire al mestiere dell’insegnante la dignità e centralità che merita, garantendo una formazione adeguata e continua e allineando, entro i prossimi cinque anni, gli stipendi alla media europea”. Quindi, la dignità e la centralità dell’insegnante si garantisce con la formazione continua. Altra ricetta magica, e segreta e vaga come quelle della perbureira e della lotta all’evasione fiscale. Ora, chi come il sottoscritto ha lavorato nella scuola per oltre quattro decenni sa benissimo a cosa si riduce la formazione continua: quando va bene vengono fornite due nozioni basilari per l’uso di nuove tecnologie, che diventano obsolete nel giro di un paio d’anni e che i docenti davvero motivati acquisiscono in genere per conto proprio, con largo anticipo sulle tardive proposte ministeriali: quando va male, piovono mappazzoni propinati da pedagogisti, psicologi, sociologi, di tutto esperti tranne che di pratica didattica, che spiegano come ci si rapporta con gli allievi problematici: in sostanza assecondandone tutte le ribalderie e le furbate, loro e dei loro genitori. A meno che non rientrino tacitamente negli intenti degli estensori anche i corsi di difesa personale contro le aggressioni. In mancanza di questi ultimi, si compensa con l’adeguamento degli stipendi.

A non essere mai presa in considerazione è l’idea che la dignità al loro “mestiere” gli insegnanti veri, quelli che hanno i requisiti per essere davvero tali, sono in grado di restituirla da soli, purché si consenta loro di farlo. E questo non dipende dall’entità dello stipendio (che sarà pure da fame, ma non diversamente da quelli di tutti gli altri dipendenti), quanto piuttosto dal fatto che ad un aumento esponenziale delle loro responsabilità non didattiche (devono farsi carico anche di quelle un tempo demandate a una varietà di agenzie educative, la famiglia, la chiesa, ecc…) ha corrisposto la graduale spoliazione di ogni strumento di correzione e di controllo. In un clima ambientale normale l’autorevolezza fa a meno dell’autorità, ma chi opera oggi nella scuola sa benissimo che il clima non è affatto normale, sia per la diseducazione dei giovani coi quali ci si confronta, sia per le interferenze incrociate dall’interno e dall’esterno dell’istituzione. Insomma, se in Inghilterra alcune scuole private sono arrivate al punto di reintrodurre le punizioni corporali (a quanto pare incontrando il gradimento dell’utenza parentale, che si è tradotto in un notevole aumento delle iscrizioni) un motivo ci sarà.

Di questi problemi (non delle eventuali punizioni corporali, ma nemmeno del disagio profondo da impotenza vissuto dai docenti), nel documento non si fa minimamente cenno. Si va giù invece con le proposte e le promesse, da quelle sensate ma economicamente insostenibili (l’accesso universale e gratuito di bambine e bambini alle mense scolastiche, l’aumento dei docenti di ruolo di sostegno per affiancare nel percorso scolastico tutte le persone con disabilità, l’estensione del tempo pieno, con particolare attenzione al Sud – dove peraltro sarebbe già un successo realizzare il tempo ordinario), a quelle decisamente peregrine (Fondo nazionale per i viaggi-studio, le gite scolastiche, il tempo libero nel doposcuola e l’acquisto di attrezzature sportive e strumenti musicali), per arrivare al rilancio del vecchio sogno del ministro Berlinguer – un computer su ogni banco, quando i banchi mancavano – (permettere l’acquisto di un computer a tutti gli studenti delle scuole (medie e superiori) e delle Università). Dimenticando che durante due anni di scuola a distanza tutti gli alunni hanno già operato attraverso il computer, il che fa presumere che ne siano già in possesso.

Applicando il modello veltroniano di infausta memoria (così, ma anche …) dopo il colpo al cerchio viene quello alla botte. La scuola digitale strizza l’occhio al vecchio mondo cartaceo e si rispolverano antichi menù. «Occorre rafforzare il “Piano nazionale per la promozione della lettura”, favorendo virtuose sinergie tra reti di scuole, biblioteche, archivi e luoghi della cultura». Ho partecipato ad un progetto analogo nel 2000, lanciato con grandi squilli di fanfare e abortito dopo neanche un anno nella più totale indifferenza (cfr. La gran crollo del muro di carta). Per l’occasione è stato ripreso letteralmente perfino il refrain: favorendo virtuose sinergie, ecc…. Nel frattempo, con le restrizioni da Covid che sembrano essere rimaste in piedi solo per le biblioteche, le sinergie da virtuose che erano sono diventate addirittura frigide. Provate a frequentare una biblioteca oggi: nemmeno Fort Knox è così blindato.

Il resto è ancora peggio. Si annaspa a vanvera per insaporire cibi già scaduti da un pezzo o scongelati momentaneamente ad ogni tornata elettorale (far ripartire i “Giochi della Gioventù”, favorire l’utilizzo delle palestre scolastiche in orario extra-curricolare o quando le scuole sono chiuse).

Insomma per tagliar corto: poiché “conoscere è potere”, “via a un piano da 10 miliardi con aumento degli stipendi agli insegnanti, edilizia scolastica sostenibile, libri, mense e trasporti pubblici gratis per gli studenti con redditi medi e bassi”. I dieci miliardi, sempre ammesso che poi si trovino, non basterebbero nemmeno per mettere a norma gli edifici esistenti, e dubito comunque che quel tipo di interventi, se non agganciati ad una idea di ciò che la scuola deve essere e rappresentare, sposterebbero di una virgola il problema.

Assenze 03a

Azione-Italia viva. Il movimento creato dalla strana coppia Calenda-Renzi distende il proprio programma addirittura su 68 pagine e lo suddivide in venti punti. Anche in questo caso, neanche a farlo apposta, la parte relativa alla scuola arriva a pagina 22. È il solo punto in comune coi due programmi precedenti: per il resto, le priorità sono decisamente diverse.

Si va subito al sodo. “1. A scuola fino a 18 anni e tempo pieno per tutti. Proponiamo un riordino complessivo dei cicli scolastici ed in particolare: portare l’obbligo scolastico da 16 a 18 anni, al termine del percorso di scuola superiore. Rivedere i cicli scolastici a parità di tempo scuola frequentato: da 13 a 12 anni, con termine delle superiori a 18 anni e anticipo dell’ingresso dei giovani all’università e nel mondo del lavoro, allineandoci agli standard europei.” Se ho capito bene, si tratta di ridurre a quattro i cinque attuali anni di frequenza delle superiori, aumentando di un quarto il monte ore di ciascun anno. Spalmare questo monte ore sui sette precedenti non avrebbe infatti alcun senso (e non sarebbe fattibile). Ora, se lo scopo ultimo della scuola fosse certificare la frequentazione per un certo periodo delle aule e dei banchi, potrebbe andare benissimo. Se invece la sua funzione è leggermente meno prosaica, Calenda ha fatto i conti con i fagioli. Non è necessario un computer per arrivarci. Attualmente il monte-giorni minimo di frequenza è di duecento l’anno, distribuiti su circa nove mesi. Aggiungerne cinquanta significa portare il monte a duecentocinquanta giorni frequentati, pari a 50 settimane “corte” (sette ore per cinque giorni), ai quali ne vanno sommati altri 100 di fine settimana, più 8 (o 9) di festività infrasettimanali religiose o civili. Il totale dà 358 giorni, che ne lasciano liberi ben 7, comprensivi però degli attuali giorni di vacanza agganciati alle feste natalizie e alla Pasqua. Una pacchia.

Distribuire invece le ore in più sugli orari esistenti sarebbe altrettanto demenziale, dal momento che già adesso, con la scelta scellerata del sabato libero compiuta dalla quasi totalità degli istituti, gli allievi frequentano di norma per sette ore al giorno. E anche ripristinando la settimana di sei giorni, le sei ore quotidiane diverrebbero sette. Il sistema non reggerebbe nemmeno considerando definitivamente la scuola come un parcheggio.

Il problema vero è però un altro. Sta nel fatto che a nessuno sembra passare per l’anticamera del cervello la necessità di considerare l’efficacia della didattica in certe condizioni. Ragazzi che hanno soglie di attenzione più brevi di uno spot televisivo sono già refrattari ad assimilare qualsiasi conoscenza dopo un paio d’ore, figuriamoci dopo cinque o sei. Ed eventuali rientri pomeridiani, con tempo pieno alla svedese o alla danese, al di là dei problemi logistici che creerebbero, se anche fossero accettati dagli studenti (cosa impensabile, non si concilierebbe con i vari impegni extrascolastici, sportivi o di qualsivoglia altro genere, cui sono avviati sin dall’infanzia) potrebbero essere dedicati solo allo studio o a eseguire gli esercizi assegnati, attività che oggi svolgono tra le mura domestiche, e non ad un ulteriore aggravio didattico.

Si prosegue poi con “2. Sistema nazionale di valutazione. Va ripreso il percorso interrotto dai governi Conte, perché non può esserci autonomia senza valutazione. E solo un sistema nazionale di valutazione efficace può consentire di individuare le aree su cui è necessario migliorare”. È molto significativo dell’idea di scuola che sta a monte. Valutazione efficace significa in questo caso essenzialmente valutazione dell’efficacia. Ma quali sono i parametri? Le prove Ocse, che nella loro “oggettività” ci piazzano regolarmente agli ultimi posti in ogni graduatoria, ma sono poi smentite ad esempio dai successi all’estero dei nostri ricercatori; il numero di allievi che arrivano al diploma, che è troppo basso, o quello dei promossi alla maturità, che è troppo alto? E una volta fatte le valutazioni, come si interviene? La valutazione presenta un sacco di ambiguità, già nella concezione, che preconizza un clima concorrenziale da libero mercato in uno spazio in cui il mercato non dovrebbe entrare affatto, ma anche nell’ambito di quella stessa visione, nei modi in cui applicarla. Ad esempio: migliorare come? Elargendo più finanziamenti a chi è indietro? In questo caso si arriverebbe al paradosso di premiare le scuole che funzionano peggio.

Gli altri otto punti non meritano commenti. Sono proposte già sentite, che ricorrono ritualmente in tutte le dichiarazioni di intenti relative alla scuola, ma reinterpretate con un occhio di riguardo sempre all’efficienza “produttiva”.

Un’ultima considerazione. Come tutto il resto del documento, la sezione dedicata alla scuola tende decisamente alla prolissità. Il che è anche comprensibile, dal momento che Azione si presenta come la “novità” che viene a scuotere la politica, e deve costruirsi una identità. Quella che vien fuori di qui è però sostanzialmente una identità per l’appunto solo “prolissa”.

Movimento Cinque Stelle. I grillini – ormai dovremmo dire i contiani – hanno scelto una modalità comunicativa più articolata. Esistono due versioni del programma, quella completa (250 pagine, in formato slide) e quella breve (13 pagine). Nella sostanza la prima non dice molto di più della seconda. Anzi, in quella breve nell’intestazione di ogni pagina campeggia lo slogan Cuore e Coraggio per l’Italia di domani, mentre a piede di pagina viene ribadito Capo della forza politica Giuseppe Conte. È un abstract elettorale, ma serve giusto anche a chiarire i ruoli recentemente ridefiniti.

Va da sé che della versione completa ho letto solo la parte concernente la scuola (6 pagine). Mi ha colpito il fatto che dopo le solite proposte rituali e un azzardo quasi originale (“Scuola dei mestieri. Spingere affinché le aziende dei medesimi settori si mettano in rete e creino le scuole dei mestieri, con l’obiettivo di incentivare i giovani a sviluppare l’expertise artigianale e a mantenere il savoir-faire tradizionale”), venisse un capitoletto dal titolo: “Strategia per la Cultura”.

L’esordio era promettente: “Risulta fondamentale un nuovo umanesimo che ponga il benessere dell’Uomo e del pianeta al centro di ogni politica. Ciò presuppone che accanto alla transizione ecologica e digitale si sviluppi di pari passo una transizione culturale che ci indichi la strada per un nuovo modo di co-abitare il pianeta e affrontare pacificamente i cambiamenti”.

E subito sotto: “La cultura è dunque politica laddove è la politica a immaginare un futuro, forte della conoscenza del passato, la cui eredità va protetta, conservata e trasmessa alle generazioni future”.

Sino ad arrivare a: “Proponiamo, accanto allo sviluppo di capacità legate al problem solving e ai meccanismi di ricerca, una maggiore attenzione per l’insegnamento della lingua italiana, della storia e della geografia anche come elementi che favoriscono la coesione e l’integrazione sociale”.

Mi sono detto: “Alè, ci siamo”: ma l’allerta è rientrata subito. Intanto non ho trovato una volta, nelle cinque paginette dedicate, il sostantivo responsabilità, l’aggettivo responsabile e il verbo responsabilizzare (né nella forma transitiva né in quella forma riflessiva). Poi mi sono reso conto che al dunque le strategie diventano quelle virtuali del Risiko. “È importante istituire una dote educativa in sinergia con i patti di comunità educanti (!?) Le comunità educanti possono diventare una misura strutturale di contrasto alla povertà educativa e culturale, con esperienze dirette di outdoor, con le discipline sportive, le competenze artistico-creative, educazione civica e professionale”. Ah, ecco, volevo ben dire. Ma non basta: “Occorre creare equipe di psicologi, educatori e pedagogisti a scuola che, dismettendo la loro funzione in modalità sportello, diventino figure strutturali a supporto della comunità scolastica”. Mancano i docenti e i bidelli, oltre che gli spazi, ma potremo sempre ovviare con le equipe di psicologi. “Proponiamo il potenziamento del tempo pieno (5 giorni la settimana) su tutto il territorio nazionale, con un investimento che ampli l’offerta pomeridiana e di mense, affiancando ciò ad un adeguato programma di educazione ad una corretta alimentazione”. Lì ti volevo, si va verso le mense vegane.

Ora, tutto questo e altro che non sto a riportare rientra piuttosto nelle soluzioni tattiche che non nel disegno strategico. E la strategia? Vola molto più alto. «La “Strategia per la Cultura” del M5S “ si articola lungo tre pilastri che attraversano tre grandi questioni quali la sostenibilità, il contrasto, la mitigazione e l’adattamento all’impatto dei cambiamenti climatici sul paesaggio e sui beni culturali; le competenze, le infrastrutture sociali, digitali e le risorse umane necessarie per consentire a tutti i territori di valorizzare e gestire il patrimonio culturale in chiave sostenibile e con l’obiettivo di generare benessere sociale ed economico; le tutele per i lavoratori e la valorizzazione delle nuove professioni culturali e creative legate alle competenze digitali, tecnologiche e ambientali».

Col che tanti saluti al recupero delle competenze “tradizionali” e delle modalità tradizionali della loro trasmissione. Infatti: “Incentivare le case editrici a realizzare versioni digitali dei testi necessari allo studio e alla formazione e fornire agli istituti i formati eBook dei testi scolastici ed universitari attraverso la formula del prestito digitale. Bisognerebbe concedere un contributo ad ogni studente per l’acquisto di dispositivi e-reader”. Non so cosa sia l’e-reader, ma so che non mi piace.

Nell’insieme, questa parte del programma non sembra essere stata molto curata. Forse dipende dal rapporto conflittuale che sin dall’inizio i pentastellati hanno avuto con l’istruzione e la cultura in genere, avvertiti come strumenti subdoli del dominio e della mistificazione. Non a caso quelli che nel frattempo hanno “studiato”, sia pure con esiti tutti da verificare (vedi Di Maio), sono stati bollati come corpi estranei ed allontanati.

L’attenzione per la scuola è comunque una novità in assoluto. Nel programma elettorale del 2018, quando capo del movimento figurava lo stesso Di Maio, questa voce proprio non c’era, non compariva in alcuna delle quarantotto pagine, tutte dedicate alla difesa, all’immigrazione, alla sicurezza, alla giustizia e allo smantellamento della troika. Un confronto tra i due testi sarebbe interessante (lo lascio fare ad altri), ma per quel che riguarda lo specifico del mio assunto manca del tutto la materia con cui confrontarsi.

Assenze 04

Centro Destra. Il testo di “Per l’Italia –Accordo quadro di programma per un Governo di centrodestra” è il più stringato in assoluto. Trattandosi di un documento comune, stilato da tre forze politiche tenute assieme solo dalla convenienza elettorale, è normale che rimanga molto sul generico, senza dare troppe spiegazioni. In 15 pagine sono sviluppati in maniera telegrafica, sotto forma di slides, quindici punti.

Scuola, università e ricerca arrivano al quattordicesimo, e vedono in mezzo alle consuete litanie (formazione e aggiornamento dei docenti, ammodernamento e nuove realizzazioni di edilizia scolastica, eliminazione del precariato, ecc…) un paio di proposte che danno il tocco caratterizzante, ci avvertono che stiamo camminando in territorio di Destra.

Si parla infatti di “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico” (sul come siamo lasciati nell’incertezza) e di “Valorizzare e promuovere le scuole tecniche professionali volte all’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro”.

Tutto qui. Per saperne qualcosa di più ho dovuto rivolgermi direttamente ai programmi dei singoli partiti facenti parte della coalizione.

Il programma di Fratelli d’Italia ha un titolo che la dice lunga sulle aspettative di chi è alla guida del partito. Un bel Pronti fa da didascalia ad un accattivante primo piano della Meloni. Sono 40 pagine, piuttosto sobrie, per non dire generiche (ma un codice qr rimanda per ciascun tema agli Approfondimenti), due delle quali sono dedicate a scuola e università. Una particolarità: nel testo, fatta eccezione per il preambolo, non vengono usati i verbi, o vengono coniugati solo all’infinito. Sembra un manifesto futurista: concretezza e velocità.

Molta concretezza. “La scuola prepara il futuro di una Nazione, l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani, la crescita economica e la consapevolezza di essere cittadini e parte di una comunità.” L’ordine in cui sono esposte le finalità della scuola parla da solo.

Poi si va nello specifico, almeno per quel che concerne le linee guida. “Rimettere il merito al centro del sistema scolastico e universitario, per alunni e corpo docente”. Di per sé è un’idea che andrebbe riconsiderata, ma esposta così ricorda i toni di certi slogan scritti in nero che campeggiavano sui muri quasi un secolo fa (e che ogni tanto riemergono dagli intonaci scrostati).

Valorizzazione degli Istituti tecnici e riforma dei Percorsi trasversali per le competenze e l’orientamento (Pcto). Ripristinare gli indirizzi di studio abilitanti al lavoro. Istituzione del liceo del Made in Italy.” Un po’ di praticità, perdio. Meno filosofia, più competenze artigianali.

Raggiungimento dell’obiettivo della piena padronanza della lingua inglese per tutti gli studenti”. Quella dell’italiano è probabilmente data per scontata, visto che non se ne parla. O forse per obsoleta. Il che in realtà mal si concilia con la vocazione “nazionalista” del movimento.

Verificare la praticabilità di ridurre di un anno il percorso di studio scolastico, a parità di monte ore totale, per consentire ai giovani italiani di diplomarsi a 17-18 anni.” Ci risiamo. E per che fare dopo?

Acquisto e utilizzo dei libri di testo in formato elettronico per diminuire il costo sostenuto dalle famiglie”. La famiglia è giustamente il terzo valore della famosa triade (la più citata negli slogan di cui sopra) e va coinvolta con un occhio di riguardo. Per questo il programma di Fratelli d’Italia si apre proprio col “Sostegno alla natalità e alla famiglia”, e per questo tra i principi da affermare nella scuola è importante includere “che la formazione si svolge principalmente in aula e che i compiti a casa devono essere gestiti con misura e buonsenso”.

Sottolineo una dimenticanza strana, o che almeno mi è parsa tale per un partito che del passato vorrebbe nutrirsi. Manca qualsiasi riferimento all’insegnamento della storia. Ma forse non è una stranezza. La crescita recente di questo partito può spiegarsi proprio con l’ignoranza, o meglio ancora col rifiuto, della storia. In compenso si promette “Più sport nelle scuole, con nuovi impianti, piscine e palestre”. Altro che Giochi della Gioventù: tornano i Littoriali.

Bisogna ammettere che la Lega non ha badato a spese. Presenta un programma di 200 pagine, sia pure piuttosto smilze, nel quale l’Istruzione arriva a pagina 108 (e occupa tre paginette).

Il nostro programma per la scuola prevede cinque interventi fondamentali: • sviluppare gli istituti professionali come scuole di alta specializzazione; • conciliare inclusione e valutazione studenti; • prevenzione sanitaria, mai più didattica a distanza; • garantire specializzazione sostegno; • superare il precariato, coprire carenza personale docente e Ata, adeguare gli stipendi.”

Queste cose più o meno le abbiamo già viste tutte altrove, magari complete di articoli e preposizioni. Più caratterizzanti sono invece altre proposte. Ad esempio: “Riorganizzare il curricolo di studi dell’istruzione tecnica e professionale potenziando laboratori e prevedendo un’area territoriale, che consenta di adattare il percorso di studi alle esigenze del contesto territoriale e delle filiere produttive che lo caratterizzano”. Vale a dire, se vivi in un territorio che produce patate sarà bene che la scuola ti insegni in primo luogo a produrre patate.

Oppure: “Inserire l’educazione finanziaria in tutto il sistema di istruzione e formazione”. Ovvero: anche il produttore di patate che ha imparato a lavorare bene ed è entrato nella filiera deve poter allargare i suoi orizzonti, diventare trader di se stesso e azzardare qualche speculazione (se poi andrà male, ci penserà lo stato a rimborsarlo). O tenere in proprio la contabilità aziendale e fiscale, realizzando a livello individuale quel massimo di autonomia che a livello istituzionale rimane un sogno nel cassetto. L’emancipazione economica come finalità priorità.

Da notare che nei paragrafi meno “dedicati” tornano i modi verbali: o meglio, tornano soprattutto l’indicativo e il gerundio, perché il congiuntivo è usato con estrema parsimonia (è scivoloso) e il condizionale proprio non è previsto.

Il programma di Forza Italia (36 pagine, senza indice) esordisce giustamente coi temi del fisco (Per una seria riforma fiscale) e della giustizia (Per una giustizia imparziale). Prima di tutto sistemiamo le grane di casa. Della scuola si occupa alle pagine 18 e 19, con proposte perfettamente in linea con la visione del mondo che rappresenta.

  • Campus di scuole secondarie superiori con laboratori scientifici, centri sportivi.
  • libertà di scelta delle famiglie attraverso il buono scuola.
  • Formazione di una nuova generazione di docenti (più tutor e più coach).
  • Introduzione del coding e della didattica digitale, con copertura con la banda larga.
  • Più formazione professionale (sistema duale) e più tecnologi del futuro.
  • Istituzione della figura dello psicologo scolastico e dello psicologo per l’assistenza primaria.
  • Introduzione nel programma scolastico di un’ora curricolare di educazione emotiva utile per avere un confronto con i genitori non solo sulla didattica ma anche sulla personalità degli alunni
  • Potenziamento dell’Orientamento dei giovani in età scolare con particolare attenzione all’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Questo si chiama parlare chiaro. Dritti alla sostanza, scompare anche l’infinito verbale. Altro che storia e geografia e filosofia. Formazione professionale, orientamento calibrato sulla domanda-offerta, didattica digitale, meno docenti e più tutor, coach e psicologi, tecnologi. Persino l’educazione emotiva, per controllare e indirizzare produttivamente anche le emozioni. Oggettivamente, gli estensori di questo programma non si sono sprecati granché. E hanno fatto bene, perché erano consapevoli del fatto che nessuno si sarebbe mai preso la briga di andare a leggerlo (non avevano previsto il sottoscritto, ma io costituisco un’anomalia). Gli elettori di Forza Italia il programma lo scaricano quotidianamente, da una batteria di canali televisivi che nemmeno più fingono un salto tra gli spot commerciali diffusi e lo spottone esistenziale continuativo (e di questo va reso loro merito. Bando all’ipocrisia).

Assenze 05 1

Ormai lanciato, volevo dare un’occhiata anche alle schegge impazzite della destra, e non ho trovato di meglio che il programma di ITALEXIT. Devo ammettere che é frutto di uno sforzo intellettuale notevole (122 pagine, delle quali cinque riservate alla scuola), reso ancora più meritorio dalla evidentemente scarsa dimestichezza dell’estensore o degli estensori con la grammatica e la sintassi. Al di là di questo, però (lo so che non è un particolare di scarso rilievo, ma da un movimento no vax, no green pass, no Europa, no OMS, no Ucraina, ecc. ti devi anche aspettare il no alle concordanze dei generi e dei numeri e quello alla costruzione sensata dei periodi), è l’unico programma nel quale venga adombrata una certa idea del ruolo della scuola. Non dà le risposte che darei io, anzi, non ne dà proprio, ma almeno pone le domande.

Dice infatti: “Un punto critico riguarda il fatto che la scuola deve preparare i ragazzi per una società in cui vivranno in futuro, senza sapere esattamente come evolverà la società. Ciò pone un primo grande dilemma, con ricadute importantissime sulla stessa organizzazione concreta dei curricoli, delle materie da insegnare, di quali competenze sviluppare, delle metodologie innovative da introdurre”. Il che sostanzialmente è vero. Ma allora occorre riflettere sull’importanza di una linea di continuità culturale, di un filo d’Arianna che consenta di procedere in avanti ma anche eventualmente di tornare indietro quando la direzione imboccata risulti un vicolo cieco.

È quanto il programma del movimento creato da Paragone sembra perseguire nella pars destruens: “Riteniamo indispensabile rivedere gli aspetti normativi delle riforme scolastiche: Berlinguer, Moratti, Gelmini e legge107 di Renzi, che hanno impresso una dimensione aziendalistica e dirigistica, determinando la diffusione di una cultura solipsistica e sempre più performativa, con la progressiva disumanizzazione degli operatori dell’istruzione e dei loro stessi utenti finali. Ripristino delle materie di studio funzionali al percorso formativo che sono state tolte o ridotte nell’orario”.

E ancora: “Non siamo d’accordo con l’uso sempre più pervasivo della tecnologia digitale, che riduce la relazione nella dimensione fisico-corporea, fondamentale per le persone in crescita e rischia di favorire disturbi da iperconnessione che colpiscono i giovanissimi, ai (?) rischi del ritiro sociale, al senso di insicurezza fino agli attacchi di panico.(sic) Vogliamo ridurre l’inutile e ridondante burocrazia (Ptof, Pdp, Clil, Rav) che hanno (sic) standardizzato e spersonalizzato la funzione docente”. (copyright Cinquestelle)

Oppure: “I sistemi valutativi basati su quesiti a risposta multipla allenano solo la capacità di risolvere quesiti di questo tipo e insinuano il pericoloso concetto che per ogni situazione vi sia sempre e solo un limitato numero di opzioni e una sola risposta semplice ed esatta, che rappresentano solo meri adempimenti burocratici”.

Quella construens parte bene: “Va ricostruito un clima scolastico serio e propositivo, va tutelata la figura dell’insegnante, vanno migliorati i programmi sia in direzione di un recupero della nostra cultura umanistica e civica. (? sic) […]. Bambini e bambine, ragazzi e ragazze si trovano a essere posti di fronte a scelte importanti, difficili e a volte controverse eticamente. Essi devono, perciò, essere aiutati a individuare un’etica che serva come bussola durante le loro vite, come esseri umani, cittadini, elettori, lavoratori. ) […] I bambini e i ragazzi devono poter sviluppare la capacità di diventare consapevoli dei problemi, delle contraddizioni e delle manipolazioni: costruire, cioè, uno sguardo avvertito e critico sul mondo”.

Ma poi si ferma lì. Il ghostwriter che ha scritto queste cose non se l’è sentita di specificare quali siano le materie di studio formative eliminate dagli orari, di azzardare un’ipotesi di “conservazione intelligente”: il committente, Paragone, probabilmente non lo sa nemmeno. Nel suo caso quelle materie sembrano non essere servite a molto.

Assenze 06 1

Bene, questo è il panorama. Il bilancio complessivo è quello di una sconfortante povertà di idee, anche spicciole, dell’assoluta mancanza di una visione realistica della scuola e, peccato originale, dell’incapacità di concepire la cultura come valore a sé, come promozione individuale non finalizzata, di autocoscienza, di autoresponsabilizzazione. Chi volesse maggiori dettagli può andarseli a cercare. Nella rete c’è tutto. E non credo di dover aggiungere altri commenti. Come intendo io la scuola l’ho già ripetuto e spiegato in più occasioni (in particolare cfr. Sul futuro delle nostre scuole, La scuola al tempo della crisi, Una modesta proposta, Il supplente nella neve).

Si è rivelata comunque un’indagine pericolosa, nel senso almeno che rischio perla prima volta di non andare a votare. Se dicessi che è stata anche divertente mentirei, ma interessante si, lo è stata: per arginare la noia delle identiche formulette che si ripetevano ho cercato di leggere il più possibile tra le righe. Ne è venuto fuori un romanzo dell’orrore, il quadro inquietante della più verosimile delle distopie, e della più prossima.

Ci siamo già dentro.

Concedersi una gamba a riposo

di Fabrizio Rinaldi, 29 maggio 2022

Sulla parete accanto alla scrivania ho una riproduzione della fotografia di Luigi Ghirri che vedete qui sopra. Sembra una delle infinite varianti del Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, ma in essa chi guarda, anziché picchi e nubi, questa volta ha davanti a sé un oceano di persone che lo ascoltano (ho ingrandito l’immagine per verificarlo, ed effettivamente è così per gran parte di loro).

Essendo restio ad espormi in qualsiasi uditorio, non riesco ad immaginarmi in una situazione del genere. Quel signore in doppiopetto invece sembra perfettamente a proprio agio nello stare di fronte a più di un milione di persone in quella piazza di Reggio Emilia nel 1983. e a parlare loro con sicurezza e tranquillità.

Ciò che più mi colpisce in questa immagine è proprio quella gamba accavallata in stato di riposo. Se non fosse convinto di ciò che sta dicendo, probabilmente non riuscirebbe a concedersi il lusso di riposare una gamba, issare il busto sul braccio sinistro e contemporaneamente dire parole sensate e giuste. È un equilibrio fra compostezza e misurata fierezza. Quell’uomo era Enrico Berlinguer.

Appartengo alla generazione che non lo ha votato semplicemente perché ero ancora minorenne quando morì, l’anno successivo a questo comizio. I miei, però, sì: credo che lo facessero non tanto per una convinzione politica, ma, come diceva Giorgio Gaber in una canzone, “perché Berlinguer era una brava persona”. Già allora si votava il leader di fans club più che il partito. Ne sono degli esempi Craxi, Bossi, Berlusconi, e più recentemente Renzi e Salvini.

A differenza di questi pifferai magici, Berlinguer non si limitava alle invettive contro gli avversari (pratica indispensabile oggi), ma esponeva il suo pensiero in maniera tale da conquistare la fiducia in ciò che proponeva. Nonostante parlasse forbito (lontanissimo dai canoni televisivi attuali), arrivava non solo al cuore, alla pancia, ma pure al cervello delle persone, e riusciva a traghettare il carrozzone del suo partito verso i successi elettorati.

Non sto a descrivere la sua figura politica ed umana perché in questi giorni, in occasione dei cento anni dalla nascita, lo si fa già ovunque e in tutte le salse. Però mi chiedo quale posizione assumerebbe rispetto alla guerra in Ucraina, al votare l’invio di armi per sostenerne la resistenza. In fondo, nel 1968 non temette di esporsi stigmatizzando la scelta dei sovietici di reprimere con i carri armati la effimera svolta democratica in Cecoslovacchia: ed erano tempi in cui certe posizioni all’interno del partito comunista erano ancora tutt’altro che maggioritarie.

Non lo sapremo mai, comunque, perché da quel palco Berlinguer non scese. Farlo avrebbe implicato comprendere davvero le mutazioni profonde dei valori e dei bisogni della folla che lo applaudiva. Non lo fece lui, così come non lo fecero i suoi eredi e coloro che lo assunsero come icona ideale di un certo modo di vedere la politica e l’uguaglianza sociale. La conseguenza è l’attuale evaporazione della sinistra, come la nebbia del dipinto di Friedrich.

Concedersi la gamba a riposo02

Il disarmo totale può essere considerato una “utopia”? Io dico di no. Tecnicamente oggi è possibile controllare il disarmo, mentre nel passato non era così. Io dico che esso diventerà una necessità, non solo per sopravvivere, ma anche per risolvere i problemi dell’umanità a cominciare da quelli dello sviluppo. Certo oggi il mondo sembra andare in un’altra direzione, ma io credo che questa che è stata una tipica utopia del movimento socialista ritorna oggi di grande attualità.
Enrico Berlinguer, da La Democrazia Elettronica,
intervista di Ferdinando Adornato, l’Unità, 18 dicembre 1983

Collezione di licheni bottone

Culture diverse e reputazione

di Nicola Parodi, 19 maggio 2022, da un colloquio con Paolo Repetto

Per mantenere vitale e coesa una comunità, funziona meglio un meccanismo di esclusione o uno di inclusione? Ce lo siamo chiesti davanti ad un caffè, partendo dallo sfogo di Paolo (cfr. Rifiuti), dalle più recenti e allucinanti notizie di cronaca spicciola (donna che uccide i vicini di casa perché il loro cane abbaia, genitore che riduce in fin di vita l’arbitro di una partita di calcio tra ragazzini, ecc… ) e da una riflessione che portiamo avanti da un pezzo sulle norme riguardanti la “Privacy”.

L’argomento potrebbe sembrare marginale rispetto ai fenomeni citati da Paolo, ma in realtà è ad essi strettamente connesso. Le norme sulla “privacy” limitano infatti giustamente la diffusione di notizie riguardanti il singolo, ma hanno anche l’effetto di rendere difficile farsi un giudizio corretto sulla onestà e affidabilità dei propri concittadini. E non è un problema di poco conto, se è vero che tanto gli psicologi che i sociologi ritengono che la necessità di conservare una buona reputazione sia fondamentale per spingere gli individui a comportarsi in modo collaborativo, evitando il rischio di essere isolati ed esclusi dalla società.

Il controllo dei comportamenti dei singoli in una società, grande o piccola, non può essere ottenuto soltanto attraverso le leggi e con l’uso della “forza” per imporne il rispetto. Sappiamo, se non altro per esperienza diretta, che nei rapporti interpersonali quotidiani, ad esempio all’interno di un condominio, le nostre azioni sono regolate da una sorta di codice comportamentale riconosciuto da tutti (o almeno dalla gran maggioranza) che possiamo definire “buone maniere”. Il mancato rispetto di queste regole di comportamento, anche quando non è punibile dalla legge, comporta la riprovazione degli altri componenti del gruppo.

Occorre naturalmente distinguere tra le leggi, che hanno carattere vincolante per tutti i membri di una comunità, e a garantire il rispetto delle quali provvede l’istituzione, e le norme comportamentali non vincolanti che la comunità ha elaborato nel corso del tempo, che pur non essendo vincolanti necessitano comunque di una condivisione e determinano una forma di coesione. Ai fini del nostro discorso, però, la distinzione tra le norme vincolanti (le leggi) e quelle puramente consuetudinarie (i costumi) non è poi così importante. Importante è avere chiaro che in entrambi i casi si tratta di meccanismi che determinano esclusione o inclusione.

Inoltre, il “codice comportamentale” non va inteso come una serie di regole fissate una volte per tutte, ma come un criterio al quale queste regole devono ispirarsi nella evoluzione imposta dalle trasformazioni che progressivamente intervengono, per svariati motivi, all’interno di una società. Per fare un esempio, il “cedere la destra”, che era nel Seicento un costume di cortesia legato al riconoscimento di differenze gerarchiche, è divenuto nel Novecento una norma obbligata per regolamentare il traffico delle automobili (con l’eccezione scontata degli inglesi, che fanno storia parte, e fino all’avvento delle rotonde agli incroci). Il criterio sotteso a questo comportamento è quello della sopravvivenza del gruppo, ed è fondamentale che esso venga condiviso universalmente, pena il caos. Ciò vale naturalmente per tutti gli altri comportamenti sociali.

Quindi, in una società civile le regole vanno rispettate da tutti, e le consuetudini vanno quanto meno condivise, e possono essere cambiate solo se quelle che vanno a sostituirle risultano più funzionali alla coesione e alla sopravvivenza del gruppo. Ciò significa che un gruppo può permettersi gli innovatori, al di là delle resistenze opposte da quelle sue parti che dall’innovazione potrebbero ricavare svantaggi, ma non può tollerare i puri e semplici trasgressori.

Ci sono però dei problemi. Le società moderne hanno infatti codificato non solo le leggi da osservare, ma anche i diritti di cui l’individuo gode, che sono garantiti dallo stesso stato che impone il rispetto delle leggi. Questo avviene naturalmente là dove lo stato funzioni, quindi non sempre, o anzi, piuttosto raramente: ma in linea teorica le cose dovrebbero andare così. Il ragionamento teorico non tiene però conto del fatto che in alcune teste (ultimamente, in moltissime) sia maturata più o meno inconsapevolmente l’idea che i comportamenti positivi e cooperativi degli altri nei loro confronti siano “dovuti” (siano appunto considerati “diritti”), mentre i propri sono legati all’opportunità e ai vantaggi che possono derivarne. Ciò fa saltare il meccanismo della “reciprocità”, favorisce gli egoisti e sfavorisce gli altruisti, e mette in crisi processo di “auto-addomesticamento”. Il problema non sono dunque i diritti, ma l’ interpretazione in termini prettamente egoistici che dei diritti viene data da alcuni. Se questi alcuni diventano la maggioranza, finiamo nello stato in cui ci troviamo oggi.

La cosa è resa poi tanto più complessa in una società “globalizzata”. Il progredire delle scienze e dei commerci spinge verso la semplificazione e l’unificazione delle unità di misura, delle valute monetarie, dei linguaggi, mentre le dinamiche interne ai gruppi sociali spingono verso l’uniformità dei comportamenti e delle norme. In uno scenario di questo tipo la valutazione della “bontà” di un comportamento sociale suppone dunque un’unità di misura “comportamentale” il più possibile unica e condivisa, che compendi i valori funzionali alla sopravvivenza del gruppo espressi dalle diverse culture che sono a confronto. Questa valutazione non fa riferimento a valori presunti “assoluti”, ma a quelli attorno ai quali, in base alla loro funzionalità, si è coagulata la coesione del gruppo. In natura la scelta non è “morale”, tra il bene e il male, ma è strumentale, tra ciò che è utile alla sopravvivenza e ciò che non lo è.

Ora, le culture che vengono oggi a stretto contatto fino a ieri erano separate spazialmente da migliaia di chilometri e temporalmente da sfalsamenti di secoli (in alcuni casi, di millenni). Queste culture hanno fatto necessariamente riferimento, stanti le differenti condizioni ambientali e i singoli e distinti processi di “civilizzazione”, a valori diversi: di conseguenza anche i comportamenti che facevano acquisire buona reputazione erano diversi. Cerco di spiegarmi. Mentre non ci sono molti dubbi sulle differenze fra le condotte che creano buona reputazione per un camorrista e quelle che fanno di un contadino del Trentino un cittadino stimato, è molto più arduo stabilire cosa sia accettabile o meno quando le differenze non sono legate a comportamenti “delinquenziali”, ma attengono a prassi considerate normali in alcune culture. L’esempio che un tempo veniva più frequentemente citato è quello della immolazione sacrificale delle vedove in India, ma per rimanere nella nostra quotidianità e nei pressi di casa nostra potremmo considerare quello delle giovani figlie di immigrati pakistani uccise per non aver sottostato alle scelte matrimoniali loro imposte.

Che atteggiamento dobbiamo assumere di fronte e situazioni del genere? In fondo, per le famiglie pakistane si tratta di conservare una “reputazione sociale” in seno alla loro comunità. Queste pratiche se valutate in termini di coesione del gruppo, paradossalmente riescono socialmente “funzionali”. Lo cementano con la paura e la soggezione imposte al genere femminile (ma nel caso specifico dei matrimoni, vale anche per i maschi). E allora, per quanto schifati, dobbiamo, sia pure senza condividerle, almeno giustificarle?

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Qui vengono fuori le laceranti contraddizioni nelle quali si dibatte il pensiero occidentale. Se dobbiamo riconoscere pari dignità ad ogni cultura, il problema non si pone neanche. Accettiamo l’idea di società multiculturali, e finiamola lì. Il fatto è, purtroppo, che questo modello di società, là dove si è già spontaneamente realizzato, e mi riferisco a tutto l’occidente, compresi gli Stati Uniti, sta facendo acqua da ogni parte, perché la pari dignità è riconosciuta in realtà solo in una direzione.

Dobbiamo per questo giustificare tali situazioni, sia pure obtorto collo? Assolutamente no. Anche a prescindere anche dall’orrore morale del gesto (e questo rimane, quale che sia il valore che si vuol dare al termine “morale”), non possiamo farlo perché rispetto alla comunità più ampia che la globalizzazione va configurando oppongono una resistenza discriminatoria, e perché di fatto negano tutta la cultura del diritto individuale sulla quale la nostra civiltà si fonda.

Insomma, la scomparsa di un codice comportamentale condiviso determina in automatico lo sgretolamento del gruppo, che non dispone più dello strumento di controllo che ne garantiva la compattezza, e quindi la sopravvivenza.

E a questo punto entra in ballo anche la controversa questione della privacy. Tra i diritti cui facevamo cenno sopra quello alla privacy è il più recente e il più ambiguamente rivendicato, e va in direzione totalmente opposta rispetto al meccanismo di controllo sociale dal quale abbiamo preso lo spunto per queste righe.

È un argomento delicato: i confini fra l’interesse pubblico a conoscere per farsi un’opinione sui concittadini e il diritto di questi ultimi alla riservatezza sono difficili da tracciare. Ci limitiamo quindi ad alcune osservazioni spicciole.

Ultimamente, davanti alle misure ipotizzate per contrastare la diffusione del Covid-19, si è sbandierata da più parti la preoccupazione che tali misure non rispettassero le norme previste per la protezione dei dati personali, ovvero il diritto alla riservatezza. Non sto a mettere in dubbio tale diritto per i dati riguardanti la salute e le relazioni personali, o comunque per tutti i dati che, se divulgati, possono umiliare persone in situazioni di disagio, o peggio, se finiscono nelle mani sbagliate, possono essere usati in modo fraudolento. Voglio dire che siamo perfettamente consapevoli dei rischi comportati da una intrusione così profonda nel nostro privato, ma cerchiamo di inquadrare la situazione dal punto di vista più generale del funzionamento di ogni società animale, compresa quella cui volenti o nolenti anche noi umani apparteniamo.

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Davanti ad un’emergenza globale come quella creata dalla pandemia (a meno di voler credere che la pandemia sia un trucco escogitato dai “poteri forti”, ma qui si sconfina nella paranoia) le istituzioni demandate a salvaguardare la sopravvivenza di un gruppo (e a farlo letteralmente, nell’occasione specifica) e la sua compattezza non possono andare tanto per il sottile in tema di riservatezza. In un conflitto tra il diritto individuale e l’interesse collettivo chi si trincera dietro il primo in automatico si auto-esclude dal gruppo. Tutto ciò a prescindere dal fatto che in realtà i dati più sensibili, senza attendere l’occhio del Grande fratello istituzionale, già volano liberamente nell’etere attraverso il circuito dei social.

Ma forse una riflessione di questo genere è davvero prematura: non siamo ancora usciti dal Covid, non sappiamo quando e come ne usciremo, e meno che mai come ne usciranno i nostri diritti e i nostri meccanismi di inclusione-esclusione. Veniamo invece a situazioni più prosaiche, meno complesse e già definite, che pongono comunque il problema di quali altre informazioni riguardanti i nostri concittadini devono essere riservate.

Dopo l’alluvione che colpì Alessandria nel 1994, l’amministrazione comunale decise di non rendere accessibili i dati relativi ai rimborsi ottenuti dai cittadini che avevano subito danni. All’epoca (ricorda Nico) criticai dai banchi della minoranza quella scelta, sostenendo che rendere pubblici tali dati non equivaleva a pubblicare l’elenco delle elargizioni ai poveri fatte dalla Caritas; trattandosi di rimborsi statali era giusto che i concittadini fossero in grado di sapere e di farsi un opinione. Mi sembrava assurdo esigere che tutto ciò che ci riguarda non sia conosciuto dagli altri membri della comunità, quando poi da essa pretendiamo solidarietà e protezione. Forse che ci sentivamo meno liberi quando i giornali pubblicavano i nomi dei promossi nelle varie scuole, o l’elenco dei contribuenti con i dati delle somme pagate per le imposte comunali? Naturalmente l’amministrazione andò per la sua strada. Non solo: negli ultimi vent’anni sono anche scomparsi gli elenchi coi nomi dei promossi e quelli dei contribuenti.

A noi il dubbio rimane: il fatto che tutti potessero sapere quanto un vicino pagava di tasse e spettegolare in proposito aiutava a combattere l’evasione? Non lo sappiamo, non abbiamo una risposta certa, ma riteniamo che qualche riflessione in proposito andrebbe fatta. Forse dovremmo chiederci se tutte le soluzioni normative che egoisticamente ci sembrano “giuste”, perché rafforzano i nostri diritti, in realtà non mettano in crisi i meccanismi che hanno contribuito alla creazione di comunità “morali”. Il che non può che preludere al disfacimento di quelle comunità.

La scimmia è l’essenza

di Paolo Repetto, 31 marzo 2021

Mentre mi radevo, stamattina, mi sono chiesto perché lo stavo facendo. Non ricordo di essermelo mai chiesto prima. In genere mentre mi faccio la barba ho la testa altrove, è un gesto quasi automatico: al più, dal momento che è l’unica occasione quotidiana in cui mi guardo in faccia, può capitarmi ogni tanto di scoprire qualche ruga o qualche macchiolina comparse di recente sulla pelle, tutte evidenze sulle quali non è il caso di interrogarsi.

Stamane però la domanda me la sono posta, e la cosa aveva anche un senso. Voglio dire: non mi rado certo per apparire. Nemmeno so se oggi uscirò di casa, siamo in pieno lockdown, e nel caso lo farò indossando una mascherina che copre più della metà del volto. Se sotto avessi la barba di una settimana non se ne accorgerebbe nessuno. Non c’entra nemmeno una qualche intolleranza fisica o idiosincrasia psicologica: ho portato una onorevole barba ininterrottamente per vent’anni, nell’intervallo tra il tramonto di quella sessantottina e l’affermarsi di quella islamica, e prima ancora, e poi anche dopo, i baffi, senza soffrire di irritazioni epidermiche o di allergie d’alcun genere, e senza affidare alla cosa messaggi di qualsivoglia tipo. La trovavo comoda, le dedicavo meno di un minuto per una spuntatina ogni quindici giorni. L’ho tagliata per una stupida scommessa.

Dunque, escluso che si tratti di una abitudine inveterata, di un adeguamento a un qualche ruolo o di una necessità fisica, davvero diventa difficile trovare una motivazione alla rasatura quotidiana. E infatti, al momento la risposta non me la sono data: ma in compenso, per una strana associazione d’idee, mi è tornato in mente uno scritto di Hannah Arendt che avevo riletto poche settimane fa.

In Vita activa. La condizione umana, Arendt opera una distinzione tra “natura umana” e “condizione umana”. “La condizione umana – scrive – non coincide con la natura umana, e la somma delle attività e delle capacità dell’uomo che corrispondono alla condizione umana non costituisce nulla di simile alla natura umana […]”. E aggiunge: «È molto improbabile che noi, che possiamo conoscere , determinare e definire l’essenza naturale di tutte le cose che ci circondano, di tutto ciò che non siamo, possiamo mai essere in grado di fare lo stesso per noi: sarebbe come scavalcare la nostra ombra […]. Il fatto che i tentativi di definire la natura dell’uomo conducano facilmente a un’idea che ci si impone distintamente come “super-umana” e che viene perciò identificata con il divino, può destare dei dubbi sulla possibilità di un adeguato concetto di “natura umana”. D’altra parte, le condizioni dell’esistenza umana – vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra – non potranno mai “spiegare” che cosa noi siamo o rispondere alla domanda “chi siamo noi?” per la semplice ragione che non ci condizionano in maniera assoluta».

Come si vede Arendt, che non aveva la necessità di farsi la barba e non provava alcuna invidia per chi lo fa, si poneva domande un tantino più serie di quelle che mi faccio mio. Io non mi chiedevo “chi sono”, ma molto più banalmente “perché mi sto facendo la barba”: eppure l’associazione di idee non è forse poi così peregrina.

Non starò qui a spiegare in cosa consista la differenza arendtiana tra natura e condizione, o meglio, a cosa conduca: non è semplice, non sono affatto sicuro di averlo capito bene neanch’io e comunque a chi fosse interessato conviene andarla a verificare sulle pagine della Arendt stessa, che tra l’altro scrive in maniera molto più comprensibile di quanto non facciano in genere i suoi commentatori.

Parlerò invece di quella che è per me la differenza: per la precisione, cercherò di dimostrare che questa differenza non esiste. È vero senz’altro che “i tentativi di definire la natura dell’uomo conducano facilmente a un’idea che ci si impone distintamente come “super-umana” e che viene perciò identificata con il divino”. Ma questo avviene solo se si rimane nella distinzione heideggeriana tra essenza ed esistenza: se si ritiene cioè che l’uomo, a differenza evidentemente degli altri animali, abbia una sua specificità di fondo, connaturata, che ne fa un essere speciale, al quale sarebbero affidate finalità speciali. Arendt questo lo dice, sottolinea cioè questo rischio di attribuire all’uomo una connotazione “divina”: ma non va oltre. Lascia insomma sullo sfondo l’ombra di questa “natura”, al più dichiarandola inconoscibile, e si concentra invece sulla condizione, ovvero sul fatto che tutta una serie di elementi (vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra) condizionano la nostra esistenza.

La scimmia è l'essenza 02

Nella titolazione di un suo romanzo-saggio comparso nel 1948 (e oggi quasi sconosciuto, anch’io l’ho letto molto tardi) Aldous Huxley sintetizzava invece in due sole parole tutto il dibattito scientifico-filosofico in corso da un secolo. Il titolo del libro è La scimmia e l’essenza, ma al termine della lettura si è automaticamente indotti ad aggiungere un accento grave sulla congiunzione, facendolo diventare: la scimmia è l’essenza. Huxley è naturalmente l’autore del ben più conosciuto Brave new Word (Il mondo nuovo), uno dei capisaldi della letteratura distopica, e de L’isola, che al contrario potrebbe essere considerato un tardo epigono della tradizione utopica: ma è anche il nipote di quel Thomas Henry Huxley che si era guadagnato il soprannome di “mastino di Darwin” per aver stracciato nel primo grande dibattito sull’evoluzionismo, svoltosi a Oxford nel 1860, il vescovo antidarwinista Wilbeforce (alla provocazione sprezzante di quest’ultimo: “Vorrei sapere, signor Huxley, se è per parte di suo nonno o per parte di sua nonna che si dichiara discendente dalla scimmia” ribattè: “Il Signore è giusto, e lo mette nelle mie mani […]. Se dovessi scegliere per mio antenato fra una scimmia e un uomo che, per quanto istruito, usi la sua ragione per ingannare un pubblico incolto, […] non esiterei un istante a preferire una scimmia”.

Il romanzo di Aldous Huxley può essere ascritto al filone apocalittico. Racconta di un mondo uscito da un terrificante conflitto nucleare, sconvolto, affamato, contaminato dalle radiazioni, dominato in parte da sette sataniche e oscurantiste, in parte da popoli di scimmie divise gerarchicamente in classi sociali, che si trascinano dietro gli umani al guinzaglio. Il peggiore degli incubi, che vede la specie umana regredire recuperando solo i lati peggiori della sua natura animale, e le scimmie evolvere acquisendo solo quelli peggiori della “cultura” umana. E che porta l’autore ad affermare: “Sono le scimmie a indicare la meta, sono umani solo i mezzi per giungervi”. Il che, estrapolato dal particolare contesto del romanzo, potrebbe anche essere più genericamente tradotto in: è la nostra natura animale a dettare gli scopi, è la nostra singolarità culturale a inventare mezzi particolarmente efficaci per raggiungerli.

Ciò può non piacerci, ma è in buona parte vero. C’è dell’altro, senza dubbio: c’è una cosa che si chiama coscienza che almeno in apparenza si sottrae all’imperativo degli scopi, e con la quale dobbiamo fare i conti; nel finale del romanzo c’è persino un risveglio di questa coscienza, che porta un piccolo gruppo di umani a ribellarsi alla schiavitù: ma si può dire che quasi suo malgrado l’autore abbia centrato perfettamente i termini della questione.

Che la scimmia sia l’essenza, che noi siamo in sostanza dei primati diversamente (se si vuole, eccezionalmente) evoluti (o delle scimmie nude, secondo la definizione di Desmond Morris) ormai è abbastanza evidente quasi a tutti, persino ai vescovi (un po’ meno forse ai filosofi, anche se già Nietzsche scriveva “In passato foste scimmie, ma ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia”). Ma il concetto ancora oggi pare non essere stato ben digerito. Quale sia l’atteggiamento diffuso lo espresse al meglio probabilmente all’epoca del famoso dibattito proprio la moglie del vescovo Wilbeforce, quando uscendo dalla sala sussurrò: Può anche darsi che sia vero, ma per favore, almeno non fatelo sapere in giro!

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Meno accettato ancora è poi cosa questo dato di fatto implichi, a livello pratico e comportamentale. Qui la resistenza è molto forte. D’altro canto, come dice un altro filosofo, è anche una resistenza comprensibile: “L’uomo delle caverne è apparso solo nel XIX secolo. Precedentemente, ci si figurava che prima di noi la terra fosse abitata da dei. […] I primi uomini avevano antenati sublimi: non immaginavano certo di discendere da una scimmia” (F. Hadjadj). Il problema sta dunque nel tipo di percezione che l’uomo contemporaneo ha di questa discendenza: nella tendenza cioè a sottolineare, all’interno della definizione che ho dato sopra, il “diversamente evoluti”, snobbando la condizione scimmiesca di base.

Ora, è incontestabile che una evoluzione “diversa” sia il nostro dato caratterizzante, e che solo in virtù di quest’ultimo stiamo qui a parlarne e a porci dei problemi. Ma rimuovere più o meno larvatamente l’importanza della parentela significa rinunciare a capire le motivazioni di fondo del nostro agire, a dare spiegazione di certi incomprensibili aspetti dei nostri comportamenti. Lo stesso vale, del resto, per una e malintesa indebita antropomorfizzazione dei comportamenti animali, per la pretesa che questi ultimi siano dettati da un’etica.

Quella dell’etica, checché se ne voglia dire e per quanto si voglia stiracchiare il significato del termine, è faccenda che vede come attori solo noi umani.i Gli altri esseri viventi e la natura tutta ne sono coinvolti, spesso ne sono vittime, in vari modi la condizionano, ma mai come protagonisti volenti e consapevoli. Ma l’etica non è scesa sulle nostre teste come una fiammella pentecostale, non ci è stata infusa con un soffio divino: è frutto appunto di quel processo naturale che si chiama evoluzione, e che in noi ha trovato, per una miriade di cause concomitanti (tutte, ripeto, naturali) degli sbocchi particolari.

Si tratta dunque, allo stato attuale delle conoscenze – ma sono convinto che ciò valga indipendentemente dall’aggiunta di altri tasselli – di accettare di buon grado il nostro albero genealogico e, con buona pace della signora Wilbeforce, di farlo conoscere il più possibile in giro.

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La prima tappa dell’indagine che dovrebbe aiutarmi a rispondere alla madre di tutte le domande (perché mi rado la barba?) dovrebbe dunque svolgersi tutta sul terreno dell’autocoscienza. Si tratta di stabilire se esiste una “natura umana”, e se si, cosa intendiamo per tale, e se c’è un confine ben definito tra natura e cultura, o se invece la seconda è solo la prosecuzione della prima con altri mezzi. Non sono domande da poco, ci ha giocato sopra la speculazione filosofico-scientifica degli ultimi duemilacinquecento anni, e non sarò certo io stamattina, con la faccia mezza insaponata, a dare risposte particolarmente illuminanti. Mi limito invece a considerare che non c’è nulla di scandaloso, nulla di degradante a pensare che dietro le nostre scelte comportamentali (e l’etica è questo, la possibilità di scegliere, anziché seguire automaticamente il dettame dell’istinto) possa esserci comunque una motivazione egoistica, intesa nel senso buono della volontà di sopravvivere e della coazione a riprodursi. Insomma, che l’etica riposi su un fondamento “quantitativo” (il disporre di una gamma amplissima di risposte tra cui scegliere), anziché “qualitativo”.

Mi rendo conto che il confine è estremamente incerto. Se parlo di una gamma estremamente ampia ragiono in termini di quantità, se parlo di una gamma infinita ragiono in termini di qualità (e sconfino in quella che Arendt indicava come tentazione del divino). Credo che la risposta migliore rimanga quella offerta da Hegel, quando diceva che se un uomo perde qualche capello è uno che perde i capelli, se li perde tutti è un calvo: che cioè la quantità oltre un certo limite diventa “qualità”, senza tuttavia che questo dia al fenomeno (la perdita dei capelli, in questo caso) uno status e un’origine diversi. Voglio dire: l’essenza sono i capelli, che fanno parte della nostra corporeità, la condizione è la loro perdita, che può essere variamente motivata (malattia, stress, ecc.) e più o meno accentuata, ma non può prescindere dall’essenza: dal fatto cioè che noi abbiamo i capelli.

Una volta che non si accetta che lo spettro delle scelte possa essere infinito, perché questo ci proietterebbe nella dimensione divina, viene da chiedersi in cosa differisce allora il funzionamento del nostro cervello da quello di una intelligenza artificiale. La differenza sta senz’altro nell’emotività, perché il fattore emotivo è quello che genera da parte nostra la possibilità di errore: ciò accade quando le nostre reazioni sfuggono al controllo del cervello (non è del tutto esatto, anche la reazione emotiva passa per il cervello: ma mettiamola così). L’intelligenza artificiale, almeno in teoria, opera sempre la scelta più razionale e più efficace (gli automobilisti che usano il tom tom forse non sarebbero d’accordo), mentre gli umani operano entro un margine d’errore ampio quanto quello stesso delle scelte.

Per chiarire cosa intendo in questo contesto per “errore” posso citare l’esempio classico di chi si butta nel mare in tempesta per salvare un amico o un congiunto in pericolo, senza valutare il rapporto rischi-benefici, e perde a sua volta la vita. Una intelligenza artificiale non opererebbe mai una scelta del genere, mentre noi siamo spinti o almeno tentati a farla sull’onda dell’emozione, contravvenendo ad un altro dettame istintuale, che è quello della sopravvivenza individuale (che poi intervenga in questo caso un “egoismo di specie” – che sarebbe la definizione in chiave evoluzionistica dell’altruismo – è un altro discorso, molto più complesso). Paradossalmente, però, è proprio questa imperfezione a renderci in qualche modo speciali. L’emotività, che ha una radice tutta naturale, condiziona e a volte indirizza i nostri processi culturali, e in questo modo moltiplica in maniera esponenziale le opzioni di scelta. E non è un caso che buona parte delle scoperte, da quella dell’America a quella della penicillina, siano avvenute in seguito ad errori (o meglio, dalla riflessione seguita alla constatazione di un errore: quindi sarebbe più esatto dire dalla correzione di un errore).

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Questa caotica tirata per dire che dovremmo far precedere qualsiasi discorso di politica, di economia, di sociologia, o comunque relativo a quanto può essere considerato “scienza dell’uomo” (nella quale rientrano persino le più banali considerazioni meteorologiche) da un’avvertenza: tutto ciò di cui si va a trattare si iscrive nel panorama della storia naturale. Nel senso che ne discende, e nel senso che comunque non ne esce. È quella che Sebastiano Timpanaro chiamava l’assunzione di un materialismo ateo, ovvero della coscienza che i nostri comportamenti hanno una radice naturale, e per quanto storia e cultura ci abbiano poi lavorato, è sempre da quella radice che traggono linfa. Non solo: come tutte le specie in natura anche la nostra è a termine (forse più di tutte le altre), quindi ogni considerazione va fatta tenendo conto della “temporalità” della prospettiva.

Ecco, solo di qui, dall’accettazione di questa “essenza” biologica primordiale può prendere avvio un cammino serio di autoconsapevolezza: quello che, per tornare al mio caso e alla mia barba, se lo avessi percorso con maggiore continuità, concedendomi meno soste e distrazioni, avrebbe forse già da un pezzo dato qualche risposta alla domanda iniziale. Ma sottolineo il “forse” e il “qualche”, perché a questo punto ho almeno imparato che ciò che davvero mi interessa è il cammino, molto più che le mete alle quali può condurmi. E che probabilmente in questo dobbiamo identificare la “condizione” di cui parla Hannah Arendt.

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Chiarito ciò, non è che si arrivi di conseguenza a rinunciare ad ogni tentativo di indagine sui percorsi “culturali” dell’umanità e a disperare della possibilità di abbozzare un’etica comune e diffusa, o quanto meno un codice di mutuo rispetto. Al contrario, proprio la consapevolezza della totale appartenenza biologica ne rende possibile l’avvio: e l’indagine è oggi più che mai necessaria, ed è un’operazione tutt’altro che gratuita, della quale dobbiamo farci carico per dare un senso all’anomalia (parziale) che come esseri umani costituiamo.

Non ho naturalmente indicazioni di percorso da offrire. Ciascuno deve scegliersi il suo, badando magari ai segnavia che trova lungo il cammino ma senza ignorare le indicazioni che gli fornisce la sua bussola personale. Mi permetto quindi, in questa la sede, solo di abbozzare una mappa molto essenziale di quello che è stato sino ad ora il mio percorso, e solo a titolo esemplificativo.

Intanto, cosa significa che “costituiamo un’anomalia”? Significa che abbiamo bisogno di regole dettate da noi perché quelle naturali, dettate dalla nostra biologia “essenziale” e valide per tutte le specie, per noi non funzionano. Abbiamo fatto saltare gli automatismi di risposta biologici e siamo da millenni alla ricerca di qualcosa che li sostituisca. In tal senso, per un periodo lunghissimo abbiamo continuato a cercare norme valide per tutti e per sempre, e la cosa era giustificata dal fatto che la società appariva relativamente stabile e simile a se stessa nel tempo, così come l’ambiente esterno. In realtà i cambiamenti c’erano, economici ed ambientali (si pensi alla domesticazione di certe piante o di certi animali, e alla conseguente mutazione dei regimi alimentari, dei modi di coltivazione e di produzione, ecc): ma i tempi della trasformazione erano talmente lunghi da renderla quasi impercettibile, e da consentire comunque un adeguamento non traumatico dei modelli comportamentali. È pur vero che ogni generazione ha da sempre lamentato lo stravolgimento di valori operato da quella successiva, ma questa recriminazione era in genere legata più a un disagio individuale, al trascorrere dell’età e alla personale inadeguatezza che ciò comporta, che non ad una reale coscienza delle macro-trasformazioni in atto.

La distonia nei confronti dei tempi, piuttosto che della vita, ha cominciato ad essere avvertita con l’avvento della “modernità”: il modo di produzione industriale ha impresso una violenta accelerazione nei cambiamenti, una radicale trasformazione dell’ambiente, una totale dissoluzione dei vecchi rapporti. L’economia industriale, con tutto il suo indotto in termini sociali e politici, apre i gusci tribali, crea la necessità di uno scambio tra protagonisti che arrivano da storie e da culture diverse, non concede tempi lunghi per gli adeguamenti, impone la necessità non di studiare regole nuove ma di inventare un nuovo modello, elastico, di convivenza. In pratica la società viene atomizzata, e l’atomizzazione libera i singoli atomi alla possibilità di aggregarsi in molecole di tipo diverso – diventa società dinamica. Ma per fare questo è necessario che a ciascun individuo vengano riconosciute alcune proprietà, o valenze, minime. Queste proprietà sono i diritti.

Una società fondata sui diritti è un insieme liquido: non si cristallizza, ma si adegua alle trasformazioni ambientali. “Scorre” costantemente andando a riempire ogni spazio nuovo che si apra, o apre essa stessa nuovi spazi con la forza dell’erosione. Non è un canale dalle sponde cementificate, dal dislivello continuo e leggero, con una portata e una velocità costanti. Incontra salti, si addensa in rapide, si trascina appresso i detriti strappati alle sponde, depositandoli poi mano a mano sul fondo, e tende ad allargare costantemente il suo letto raccogliendo lungo il percorso gli immissari laterali. Fuor di metafora: la forza che tiene assieme una società dei diritti non è la pressione esterna, naturale o soprannaturale che si voglia, ma la coscienza più o meno chiara in ogni singolo che la convivenza si regge su un sistema convenzionale di regole, e che per partecipare al gioco è necessario accettarne almeno in linea di massima il regolamento. La convenzione, le regole, non riguardano i modi (questo fa parte dell’etichetta) ma senz’altro lo spirito (e questo riguarda l’etica).

Ciò vale naturalmente per le società che per prime accedono alla dimensione industriale, ovvero quelle occidentali. Per le altre, che sono state coinvolte solo nell’ultimissimo periodo, o sono state coinvolte in precedenza come non partecipanti al gioco, il discorso è molto diverso. Il tentativo di universalizzare la cultura occidentale del diritto, anche ammettendo che sia stato fatto in buona fede (il che non è quasi mai vero) è fallito inizialmente per le resistenze di modelli economici e sociali arcaici e di tradizioni culturali che andavano in direzione opposta, poi di fronte al crollo repentino dei primi e alla dissoluzione delle seconde, che hanno lasciato il posto ad una terra di nessuno aperta alla pura competizione selvaggia, senza regole.

Ma a questo punto ci siamo già addentrati da un pezzo in un secondo capitolo, o, per rimanere nell’immagine precedente, nella seconda tappa del percorso di consapevolezza. E io nel frattempo mi sono ormai completamente rasato e ho anche già preso il secondo caffè e fumata la seconda sigaretta della giornata (sarebbe interessante indagare come si collocano nella relazione natura-cultura questi comportamenti, che nel sottoscritto sono diventati automatismi “istintuali”, e che non ho certo selezionato perché funzionali. Ma non esageriamo!). Incombono adempimenti più prosaici, ma improrogabili.

Rimando dunque l’approfondimento ad una prossima occasione: non mancherà, mi rado ogni mattina. E sono determinato a capire il perché.

P.S. [Se qualcuno però è impaziente, e vuole continuare per conto proprio l’indagine, propongo una scaletta di ricerca che potrebbe valere per la terza tappa e anche per quelle successive:

  1. Come è stato elaborato il nostro (occidentale) sistema di regole? Attraverso quali tappe? Come si è passati da una normativa dettata dalla natura a una dettata dalla cultura?
  2. Questo sistema è compatibile con una congiuntura come l’attuale, nella quale si confrontano modelli culturali assolutamente diversi (o ci si confronta con un’assenza totale di regole)? In sostanza: va difeso (e semmai migliorato) a tutti i costi, magari lasciando degli spazi marginali di interazione e confronto laddove arrivino segnali di reciprocità? oppure va rimesso totalmente in discussione, e reso adatto ad accogliere in seno ogni alterità?
  3. Visto il sostanziale fallimento tanto del multiculturalismo quanto delle politiche di integrazione, e stante la necessità di trovare al più presto, non fosse altro per frenare l’agonia del pianeta, un minimo di condivisione di alcuni principi, se questo sistema non è compatibile, come organizzarne uno che sia più o meno accettabile da tutti? Ad esempio, è ipotizzabile, vista l’emergenza ecologica, pensare a regole imposte dall’alto, uguali per tutti (almeno in teoria) per tentare di frenare l’agonia del pianeta?]

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Note

Ho inserito queste due note non per dare una parvenza di serietà “scientifica” al pezzo, ma perché mi sembra possano chiarirne alcuni passi o perché introducono punti di vista alternativi al mio. Di entrambe sono debitore a Nico Parodi, come sempre primo attento e rigoroso rilettore dei miei testi.

1 – Il termine “etico” implica un giudizio su un comportamento che rientra nella relazione con gli altri (non definiamo etica o meno l’ingestione di cibo che può avvelenarci – ma vedi il caffè, vedi la sigaretta). Quel comportamento lo definiremo buono/cattivo (io preferisco il funziona-non funziona) per le conseguenze che ha sulla vita di un “gruppo” (quindi la sigaretta, se fumata in presenza altrui, ci rientra). Proprio perché interviene un meccanismo di valutazione consideriamo l’etica solo umana e giudichiamo i comportamenti animali con “malintesa e indebita antropomorfizzazione”. In realtà ci sono comportamenti collaborativi e utili, anche di batteri, che proprio con un criterio di antropomorfizzazione potremmo considerare “buoni”.

I nostri comportamenti sono frutto di una selezione evolutiva nel lungo periodo che ha comportato modifiche genetiche e determinazioni culturali che possiamo paragonare all’addestramento. In laboratorio vengono addestrati animali di qualsiasi tipo a reagire agli stimoli più svariati.

L’evoluzione delle società umane diventa culturale (vedi Cavalli Sforza), e i comportamenti relazionali vengono giudicati da noi umani in relazione ai costrutti culturali all’interno dei quali siamo stati istruiti/addestrati. Noi usiamo termini di valutazione che comportano un implicito paradigma morale (buono/cattivo), ma alla fine le varie culture vengono selezionate sulla base del funziona/non funziona (funziona meglio/peggio) per permettere la sopravvivenza riproduzione ecc del gruppo portatore di quella cultura.

Comunque credo che, in condizioni “perturbate”, sia per gli animali di laboratorio addestrati dagli scienziati sia per noi addestrati culturalmente, le reazioni, guidate dagli schemi cerebrali geneticamente determinati, prendano il sopravvento.

Il “sistema etico”, fatto come dici tu di “etichetta”, norme, valori ecc. ha in un qualche modo lo stesso valore che ha il sistema immunitario per un organismo vivente.

2Ti rimando alla prefazione di “Naturalmente buoni” di De Waals (che non condivido del tutto, ma parla di Huxley e ha un’opinione diversa sulla disposizione “etica” degli animali).

Oltre a essere umani, noi ci gloriamo di essere umanitari. Quale modo brillante di eleggere la moralità a marchio distintivo della natura umana, quello di adottare un aggettivo riferito al nostro nome di genere – Homo – per definire la tendenza a essere caritatevoli! Gli animali, ovviamente, non possono essere umani, ma potrebbero mai essere umanitari?

Se questo può apparire un interrogativo quasi retorico, considerate il dilemma che si pone ai biologi o a chiunque altro veda la questione in una prospettiva evoluzionistica. Essi potrebbero affermare che, a qualche livello, deve esservi una continuità fra il comportamento dell’uomo e quello degli altri primati.

Nessun aspetto del comportamento – nemmeno la nostra tanto celebrata moralità – può essere escluso da questa assunzione.

Non che la spiegazione del concetto di moralità sia impresa facile anche per i biologi. La quantità di problemi è tale che molti si tengono bene alla larga dalla questione, e può darsi che qualcuno mi consideri uno sciocco che si è cacciato nel pantano.

Tanto per cominciare, il fatto in sé che le leggi morali rappresentino il potere della comunità sull’individuo è un’importante sfida alla teoria evoluzionistica. Il darwinismo ci dice che i caratteri si evolvono perché gli organismi portatori traggono un vantaggio dalla loro esistenza, e non dalla loro inesistenza.

Perché, allora, nell’ambito dei nostri sistemi morali l’interesse della collettività e l’abnegazione del singolo individuo sono considerati valori così alti?

Il dibattito su questo argomento ha un centinaio d’anni. Più esattamente iniziò nel 1893, quando Thomas Henry Huxley tenne una conferenza dal titolo “Evolution and Ethics” dinanzi a un folto uditorio a Oxford, in Inghilterra. Poiché Huxley considerava la natura crudele e indifferente, dipinse la moralità come la spada forgiata da Homo sapiens per uccidere il drago del suo passato animale. Anche se le leggi del mondo fisico – il processo cosmico – sono inalterabili, il loro impatto sull’esistenza umana può essere attutito e modificato. “Il progresso etico della società dipende non dall’imitare il processo cosmico, e ancor meno dal rifuggirlo, ma dal combatterlo.”

Vedendo la moralità come l’antitesi della natura umana, Huxley sospinse destramente la questione della sua origine fuori dal campo delle scienze biologiche. Dopo tutto, se la condotta morale è un’invenzione umana – una vernice sotto la quale siamo rimasti amorali o immorali tanto quanto ogni altra forma di vita – quasi non si avverte la necessità di darne una spiegazione evoluzionistica. Che quest’opinione sia tutt’altro che scomparsa si può comprenderlo dalla sorprendente affermazione di George Williams, un biologo evoluzionista contemporaneo: “Spiego la moralità come una capacità accidentalmente prodotta, nella sua sconfinata stupidità, da un processo biologico che normalmente è l’opposto dell’espressione di tale capacità”.

Da questo punto di vista, la gentilezza umana non fa realmente parte del più ampio schema della natura, ma è o una forza culturale contraria all’evoluzione o uno stupido errore commesso da Madre Natura. Inutile dirlo, questa visione è straordinariamente pessimistica, tanto da scuotere la fiducia di chiunque nella profondità del nostro senso morale. Inoltre non spiega da dove il genere umano possa attingere la forza e l’ingegnosità per sconfiggere un nemico temibile quanto la propria natura stessa. Molti anni dopo la conferenza di Huxley, il filosofo americano John Dewey scrisse una risposta critica rimasta poco nota. Huxley aveva paragonato il rapporto fra etica e natura umana a quello fra giardiniere e giardino, in cui il giardiniere lotta senza sosta per tenere ogni cosa in ordine. Dewey rovesciò la metafora, e affermò che i giardinieri lavorano tanto con quanto contro la natura. Mentre il giardiniere di Huxley si adopera per mantenere il controllo e sradica tutto ciò che non gli aggrada, Dewey corrisponde a quello che potremmo definire un coltivatore organico. Un giardiniere capace – egli fece osservare – crea le condizioni per l’introduzione di specie vegetali che potrebbero essere fuori dell’ordinario per quel particolare appezzamento, “ma che fanno parte dell’uso e costume della natura nel suo insieme”.

Io mi schiero con decisione dalla parte di Dewey. Considerata l’universalità dei sistemi morali, la tendenza a svilupparli e a farli rispettare deve essere una parte integrante della natura umana. Una società cui manchi la nozione del bene e del male è la peggior cosa che possiamo immaginare, se davvero è possibile immaginarla. Poiché noi siamo esseri morali fin nel nostro intimo, qualsiasi teoria del comportamento umano che non consideri la moralità nel modo più serio è destinata a non fare strada. Non essendo disposto ad accettare che la teoria evoluzionistica facesse questa fine, mi sono posto il compito di vedere se alcuni degli elementi fondamentali della moralità siano riconoscibili in altri animali.

Sebbene condivida la curiosità dei biologi evoluzionisti sul come la moralità potrebbe essersi evoluta, il mio interrogativo principale in questa sede sarà da dove essa provenga. Di conseguenza, dopo essermi soffermato nel primo capitolo sulle teorie dell’etica evoluzionistica, mi avvicinerò a questioni più pratiche.

Gli animali mostrano un comportamento analogo alla generosità e alle leggi e norme della condotta morale umana? E se sì, che cosa li motiva ad agire in questo modo? Ed essi si rendono conto che il loro comportamento ha delle ripercussioni sugli altri? Con interrogativi simili, quest’opera si qualifica come uno studio che si situa nell’emergente campo dell’etologia cognitiva, poiché guarda agli animali come a esseri dotati di conoscenza, volontà e capacità di ragionamento.

Nella mia qualità di etologo specializzato in primatologia, è naturale che, il più delle volte, io faccia riferimento ad animali ascritti al nostro stesso ordine. Tuttavia il comportamento rilevante per la mia tesi non è limitato ai primati, e ogni volta che le mie conoscenze me lo permettono comprendo anche altri animali. In ogni modo non posso negare che i primati rivestano un interesse speciale. È molto probabile che i nostri progenitori possedessero molte delle tendenze comportamentali attualmente osservate nel macaco, nel babbuino, nel gorilla, nello scimpanzé e così via. Mentre l’etica umana ha lo scopo di contrastare alcune di queste tendenze, è probabile che nel far ciò vengano utilizzate le altre, combattendo la natura con la natura, come Dewey aveva proposto.

Il mastino della ragione

di Nicola Parodi, 11 gennaio 2021

Queste sintetiche note di Nico Parodi rientrano nel dibattito che si è aperto sul sito (era ora!) sulle modalità umane di conoscenza e sulle risposte etiche e pratiche che ne conseguono. Erano state concepite dall’estensore come una risposta privata su alcuni punti sollevati da Carlo Prosperi nel suo ultimo intervento (“L’incostanza della ragione”), ma riteniamo sia giusto pubblicarle come una sorta di lettera aperta, uno stimolo rivolto a tutti ad approfondire ulteriormente le tematiche sin qui affrontate.

Caro Carlo,

posso essere considerato un partigiano della razionalità, ma non la idolatro. L’idolatria, di qualunque cosa, può essere considerata già di per sé una manifestazione di irrazionalità.

Condivido dunque molte tue considerazioni, ma resto molto vigile quando si parla di razionalità. So che la partigianeria può essere intellettualmente pericolosa, e tuttavia corro coscientemente questo rischio, perché mi sento in dovere di difendere il valore della razionalità come strumento di conoscenza, soprattutto di fronte a quello che ultimamente è sotto gli occhi di tutti. Creazionisti, no vax, complottisti e quant’altro non sono un complemento folkloristico. Servendosi dei nuovi strumenti di diffusione di massa, che permettono la diffusione di “memi” eludendo la loro selezione (che invece gli strumenti precedenti di diffusione della cultura in qualche modo operavano. Attualmente certe sciocchezze si propagano con una velocità che nemmeno le peggiori malattie infettive riescono a raggiungere, letteralmente alla velocità della luce) mettono a rischio la conservazione di un livello di conoscenze adeguato, quello che permette alla società complessa da cui dipendiamo di sopravvivere. Non sono il solo a temere il diffondersi dell’irrazionalità, Steven Pinker ha addirittura scritto un libro dal titolo “Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo”.

Una risposta esauriente alle tue considerazioni su quanto ho scritto a commento della tua lettera a Paolo rischierebbe di essere troppo lunga ed illeggibile: sarò pertanto schematico, sperando di riuscire ad essere sufficientemente chiaro per stimolare una riflessione sui vari punti. Altre argomentazioni mi riprometto di esportele in piacevoli chiacchierate, come quelle di una volta.

Premetto intanto che non sono tra coloro che sostengono che la ragione è in grado di dare una risposta certa a tutto. Del resto, l’ho già chiaramente sostenuto «Non siamo in grado di conoscere con sufficiente dettaglio i meccanismi sociali per progettare riforme con la certezza che i risultati corrispondano alle aspettative. Nemmeno la scienza è in grado di dare risposte certe a problemi di tale complessità: ci ha provato sinora solo la fantascienza, con Asimov, inventando la “psicostoria”».

Dunque:

  • Non può essere considerato irrazionalista chi è disposto a confrontare con gli altri le sue idee.
  • Il confronto tra idee che siano frutto di impegno serio può mettere in rilievo differenze di interpretazione della realtà, che dipendono dalle “lenti” con cui si guarda il mondo. La realtà è poliedrica (vedi “Alle radice dell’umano”), e i modi per interpretarla e raccontarla sono molti. Si può ad esempio parlare di amore da poeti, da psicologi, da credenti o in moltissimi altri modi; ma se ne può anche parlare con l’ottica di un biochimico, definendo l’amore come “un effetto dell’ormone ossitocina”. È certo che, chiamiamolo amore o “ossitocina”, senza i comportamenti che ne sono il prodotto non potremmo esistere; e comunque, di solito, è più utile parlarne usando la terminologia “amorosa” piuttosto che quella biochimica.

Chiarito questo, passo a sintetizzare rapidamente le mie idee sui modi e sugli scopi della conoscenza:

  • La vita, come ci spiega Schrodinger[1], si può considerare un insieme ordinato di materia in grado di mantenere il proprio ordine a spese dell’ambiente esterno, di accrescersi e replicarsi.
  • La membrana cellulare separa l’interno di una cellula, un frammento di materia vivente, dal mondo esterno, determinandone l’individualità (un arcaico sé?). La membrana permette però anche la comunicazione tra l’ambiente esterno e l’interno della cellula, producendo, tra l’altro, le condizioni che possono determinare i movimenti cellulari in relazione alle esigenze vitali.
  • Gli organismi pluricellulari hanno sviluppato, nel tempo, un sistema nervoso, che raccogliendo ed elaborando le informazioni provenienti dall’interno e dall’esterno dell’organismo produce le reazioni appropriate (compresi i movimenti) per la sopravvivenza e la riproduzione dell’organismo stesso. In questo quadro il nostro cervello ha assunto le caratteristiche che gli permettono di contribuire al meglio alla sopravvivenza e alla riproduzione degli individui della nostra specie.
  • La funzione del nostro cervello (o mente, se si preferisce) è raccogliere informazioni sull’ambiente esterno, formare delle “immagini mentali” e, in relazione ad altre informazioni provenienti dall’interno dell’organismo, produrre le “azioni” migliori per permettere la sopravvivenza e lo svolgimento della funzione di replicatore del fenotipo “homo sapiens sapiens”.

  • Il nostro cervello naturalmente non è perfetto: deve gestire le informazioni e produrre il risultato in fretta, e quindi si serve di scorciatoie cognitive che approssimano i risultati. La realtà non sempre è semplice, più spesso è complicata o complessa. Anche con i moderni computer occorre ricorrere ad algoritmi di approssimazione per trovare soluzione a certi problemi.
  • Per interpretare il mondo esterno ed estrarne conoscenze che ci servono per scegliere poi i comportamenti e le conseguenti azioni, siamo portati ad attribuire delle “intenzioni” ad altri esseri viventi, ma spesso anche a quelli inanimati. Da questo nascono anche quelle credenze che non si possono definire razionali. I problemi che creano difficoltà di comprensione derivano spesso dalla nostra incapacità di accettare di essere semplicemente degli aggregati di materia ordinata: vogliamo quindi trovare spiegazioni più gratificanti, che ci pongono su una sorta di piedistallo rispetto agli altri viventi.
  • Comprendere anziché condannare. Comprendere, ovvero conoscere, è l’essenza dell’illuminismo. Sapere aude! Se invece a “comprendere” diamo un contenuto empatico, occorre guardarsi dagli errori di valutazione che il giudizio influenzato dalle emozioni fa compiere. Le emozioni svolgono un ruolo importante nel creare comportamenti che uniscono una comunità, ma a volte non vanno d’accordo con la razionalità.
  • Nelle scienze la realtà, l’esperienza, “le prove”, servono a dimostrare la bontà di una speculazione teorica; confermano, non negano.
  • Il vivente deve agire: ma da solo? In un gruppo l’individuo comprende le intenzionalità dei conspecifici e coordina il suo agire con gli altri nell’interesse di tutti. Oltre al classico esempio dei lupi che cacciano in branco, tantissimi altri animali hanno comportamenti collaborativi.

E l’uomo?

  • Il nostro cervello evoluto è in grado di comprendere (sia pure con molte carenze) le regole che fanno funzionare la natura. In conseguenza delle “immagini mentali” che ci siamo formati compiamo delle scelte e agiamo (nella società e nella vita personale). Gli errori possono essere frutto di scarsa conoscenza o di scelte dettate dall’egoismo: in quest’ultimo caso, attribuire errori alla “razionalità” è solo confondere l’uso di ragionamenti ex post, per giustificare le scelte, con deduzioni frutto di razionalità.
  • Gli uomini che agiscono collettivamente modificano non solo la storia ma l’ambiente. Il terremoto è un accadimento, reclutare un esercito e occupare una città è un’azione volontaria organizzata, e se disordinata non funziona. L’inazione è sconfitta. Da non credente riconosco che la chiesa ha fatto bene a inserire tra i peccati anche quelli di “omissione”.
  • Non è la ragione a creare ideologie, sono quegli uomini che si comportano da teologi di teorie scientifiche, sociali o economiche, limitandosi a farsi esegeti di libri sacri che secondo loro contengono la verità, e contraddicendo in questo modo i principi dell’illuminismo.
  • È la ragione o piuttosto la sua assenza a creare l’inebetimento?
  • La nostra non è certo una società modello. Permette la sopravvivenza agevole a qualche miliardo di persone perché è tecnologicamente in grado di sfruttare enormi quantità di energia, ma questo non significa che corrisponda al modello di organizzazione sociale sufficientemente egualitaria e collaborativa a cui si è evolutivamente adattato l’uomo. Alcuni studiosi utilizzano, per esaminare la storia, il modello del macroparassitismo o cleptoparassitismo intraspecifico applicato alle società umane. Potrebbe essere una cifra interpretativa interessante.
  • Quindi, anche se il pessimismo può sembrare il nostro naturale approdo (un po’ per l’età, un po’ per i tempi che ci troviamo malauguratamente a vivere) non possiamo rinunciare alla battaglia per la difesa della cultura: quella cultura che ci consente di incontrarci, sia pure sulle pagine di questo sito, e di confrontarci civilmente, è in pericolo: e non possiamo lasciarla spazzare via dallo straripamento del magma di sciocchezze i nuovi mezzi di comunicazione stanno vomitando.

Auguri di buon anno, con la speranza di poterci presto incontrare, chiacchierando tranquillamente seduti su una panchina o, come non facevamo un tempo, seduti al bar a prenderci un caffè.

[1] «Qual è l’aspetto caratteristico della vita? Quando è che noi diciamo che un pezzo di materia è vivente? quando esso va “facendo qualcosa”, si muove, scambia materiali con l’ambiente e così via, e ciò per un periodo di tempo molto più lungo di quanto ci aspetteremmo in circostanze analoghe da un pezzo di materia inanimata. […]
Quando un sistema che non è vivente è isolato o posto in un ambiente uniforme, tutti i movimenti generalmente si estinguono molto rapidamente, in conseguenza delle varie specie di attrito; differenze di potenziale elettrico o chimico si uguagliano, sostanze che tendono a formare un composto chimico lo formano, la temperatura si uguaglia ovunque per conduzione.
Con ciò, l’intero sistema si trasforma in un morto, inerte blocco di materia. Si raggiunge uno stato permanente, in cui non avviene più nessun fenomeno osservabile. Il fisico chiama questo stato lo stato di equilibrio termodinamico o stato di “entropia massima.
È proprio in questo suo evitare il rapido decadimento in uno stato inerte di equilibrioche ‘un organismo appare così misterioso, tanto che, fin dagli inizi del pensiero umano, si sono invocate alcune speciali forze non fisiche o soprannaturali (vis viva, entelechìa), quali forze agenti nell’organismo, e in taluni ambienti ancora si sostiene la loro esistenza.
Come fa un organismo vivente a evitare questo decadimento? La risposta ovvia è: mangiando, bevendo, respirando e (nel caso delle piante) assimilando. Il termine tecnico è: metabolismo.
Ciò di cui si nutre un organismo è l’entropia negativa. Meno paradossalmente si può dire che l’essenziale nel metabolismo è che l’organismo riesca a liberarsi di tutta l’entropia che non può non produrre nel corso della vita.
[…] Secondo i risultati esposti nelle pagine precedenti, gli eventi spazio-temporali che si verificano nel corpo di un essere vivente e corrispondono all’attività della sua mente e alle sue azioni, siano consce o no, sono (considerando pure la loro struttura complessa e l’accettata statistica della fisica chimica) se non strettamente deterministici, almeno statistico-deterministici.»
Erwin Schrodinger, Che cos’e la vita?, Adelphi 1995

Se in un giorno di ordinaria epidemia Diderot e George Romero si incontrano ​in una villa abbandonata …

di Stefano Gandolfi, 22 novembre 2020

Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè.

Accidenti, Paolo. Che “sturm und drang” ho scatenato con una innocua passeggiata rigorosamente entro i confini del comune di Alessandria (vedi “Estetica delle macerie ed etica delle rovine“), studiata su carta escursionistica 1:25000 con accurata analisi dei limiti comunali per non rischiare multe da lock-down (guai ad entrare nei comuni di Pietramarazzi o Montecastello!), dopo aver escluso brutalmente tutti i territori a ovest-sud-est della città per tragica piattezza dei suddetti e aver trovato l’unica ancora di salvezza nei primi rilievi a nord, sopra Valle San Bartolomeo, gli arcinoti viottoli e sterrati nei pressi del maneggio e del ripetitore, battutissimi da pedoni, ciclisti e cavalieri, ancor di più in questi mesi nei quali il popolo italiano si è scoperto e inventato una vocazione allo sport outdoor! E dove si può provare l’ebbrezza di arrivare a ben 250 metri di altitudine sul livello del mare e di compiere, con opportune varianti, fino a 200-250 metri di dislivello. Perché come mi hai diagnosticato magistralmente, la mia indole di trekker d’alta quota mi porta in sofferenza dopo poche centinaia di metri piatti e orizzontali e il mio debito di ossigeno trova sollievo solo in quei minimi, insignificanti saliscendi che con molta e fervida fantasia mi trasportano sulle Alpi, sulle Ande, in Himalaya, beh, anche sul Tobbio, certamente!

Dunque, una semplice passeggiata, ma con sorpresa: i ruderi di Villa Garrone, ben nascosti nella fitta boscaglia che la circonda. Tu la hai già descritta con dovizia di particolari, quindi non mi dilungo su questi dettagli. Affascinante, misteriosa, inquietante quel tanto che basta da non desiderare più di tanto di essere lì di notte (ahh, mica per paura di presenze aliene e demoniache lovecraftiane, bensì molto più pragmaticamente per le possibili presenze umane che con ogni probabilità ne fanno sede periodica di raduni e consumo di sostanze terrene). Urbex: certo, anche passione e mania fotografica, da eterno ragazzino mai adulto quale sono mia nipote Fiorenza non ha faticato granché per contagiarmi con questa “insana” bizzarria, lei molto più avanti su questo terreno con incursioni in ville abbandonate, alberghi, terme, manicomi, edifici da archeologia industriale e tutto quanto è stato abbandonato dall’uomo. Quante ore a fantasticare con lei su una folle incursione a Prypiat, l’epicentro dell’esplosione di Chernobil (siamo poco normali? va bene, ce ne faremo una ragione!).

E poi comunque Poe, Lovecraft, Matheson, la cosiddetta letteratura di serie B sull’orrido, l’ultraterreno, sulle sudicie creature striscianti che riemergono dagli inferi, e anche G. Romero col primo mitico “Zombie” nel quale, con genio e intuizione a mio avviso insuperabile individuava in un ipermercato il fulcro dell’inizio della fine del genere umano, l’ultimo avamposto di una (inutile) resistenza con i segni già avanzati della rovina, del degrado, della marcescenza del contenuto consumistico ivi contenuto.

Sono partito col botto? Certo, anche perché nulla potrei aggiungere o discutere su quanto hai saggiamente esposto in merito alle macerie e alle rovine e quasi necessariamente (ma non forzatamente) devo iniziare da un punto di osservazione diverso, da buon fotografo devo fare un’inquadratura non banale e non scontata, e forse la chiave di lettura più utile al dibattito è quella relativa all’unico aspetto che forse non hai preso in considerazione, quello della natura.

La convivenza fra naturale e artificiale, il conflitto fra uomo e ambiente, lo scontro fra tecnologia e primordialità, l’inquinamento e la devastazione del pianeta in nome della scienza, del progresso e delle sorti magnifiche e progressive del genere umano, gli effetti collaterali terribili e forse irreversibili derivanti dai comportamenti dell’attuale dominatore del mondo (intendo l’uomo rispetto agli altri animali, non l’ex-presidente U.S.A.!), il negazionismo di Trump (eccolo) sui cambiamenti climatici, il menefreghismo della Cina e dell’India, l’ipocrisia di noi poveri e ininfluenti europei che taciamo sui 500.000 morti annui per cause da inquinamento e poi ci piangiamo addosso per i morti da COVID, legittimamente e inevitabilmente, beninteso: sono Medico, non eretico né negazionista, ho totale assoluta consapevolezza della attuale tragedia ed empatia umana per le vittime dirette e indirette, non voglio sottrarre nulla a tutto questo, semmai vorrei aggiungere anche altri problemi, altre cifre, altre criticità che spesso e deliberatamente vengono ignorate.

La natura, dunque. Certo. Ma anche l’uomo, perché no, solo declinato in qualche variante minoritaria, sconfitta, sparita dalla faccia della terra ma non per questo perdente. Sconfitta non dalle armi, ma dal raffreddore, dall’influenza, dalla sifilide a loro sconosciute e quindi senza alcuna difesa immunitaria, come successo agli Inca da parte dei civilizzatori cattolici spagnoli.

Cosa c’entra tutto questo con Villa Garrone? Ci arrivo subito.

Perù, tanti anni fa, ma potrebbe essere oggi. Cuzco, l’antica capitale incaica. Una strada, apparentemente secondaria, insignificante, un muro di un vecchio edificio, niente di rilevante, sembrerebbe. Poi te la fanno vedere. Una pietra con 12 angoli. Perfettamente incastrata, con perfetti angoli retti, e incernierata con altre 12 pietre, senza chiodi, viti, calce, cemento o quant’altro. 13 pietre squadrate a mano, con precisione millimetrica a sostenere da secoli il muro di una casa. Sopravvissuta a decine e decine di terremoti, mentre gli edifici costruiti dagli spagnoli e dai loro discendenti, regolarmente, ad ogni terremoto, crollavano.

Machu-Picchu, la capitale imperiale. Resti, certo, ma ancora perfettamente integri, solidi, neppure minimamente scalfiti dai terremoti. Archi e portali costruiti con una certa inclinazione e una certa angolatura che li mettevano al riparo dai sismi più apocalittici. Progettati dai loro ingegneri, apparentemente senza alcuna conoscenza scientifica, perlomeno quelle che intendiamo noi oggi.

Ti sembro forse in contraddizione con l’assioma (ovvio, viste le premesse che ho fatto) che la natura è dannatamente superiore all’uomo in ogni sua manifestazione? No, voglio solo dire che l’uomo ha saputo costruire meraviglie e con sistemi meravigliosi, che resistono nel tempo, non immortali ma sicuramente molto longeve. Ma gli uomini che hanno saputo fare questi prodigi, sono stati sconfitti, annientati, annichiliti da altri uomini che non sanno (quasi mai) costruire case antisismiche e che disprezzano completamente il rapporto con la natura.

E sono gli uomini che attualmente hanno il dominio sociale, economico, politico, militare sul mondo. E che abbandonano i loro manufatti alla rovina. A Machu-Picchu e a Cuzco non ho mai avuto un’estasi della rovina e del declino della civiltà umana, ma sempre e solo grande ammirazione per queste civiltà passate. A Villa Garrone tocco con mano il degrado, il declino, l’incuria della nostra civiltà. Non so che farci, sicuramente non sono oggettivo e parto prevenuto, ma questa civiltà della quale volenti o nolenti facciamo parte non mi sta simpatica; troppo arrogante, troppo presuntuosa, troppo convinta che l’armamentario scientifico, tecnologico che possiede e mette in campo sia superiore ad ogni legge della natura, che possa dominarla, modificarla a proprio piacimento senza preoccuparsi delle conseguenze e dei danni che invece provoca, senza peraltro nemmeno ottenere quei risultati millantati, visto che la durata media di tutte le moderne costruzioni umane è ridicolmente inferiore a quella delle costruzioni dei nostri antenati, a ogni latitudine e longitudine.

La povera Villa Garrone è probabilmente una vittima innocente di questi mie strali, ma come tanti altri edifici analoghi diventa per me simbolo di un modo di essere, di vivere, nel quale non si dà più valore a nulla, tutto diventa superfluo, obsoleto, sostituibile, perde valore con noncuranza e perde anche quel senso di legame emotivo, psicologico con gli affetti, con le persone, con le vite stesse che sono state vissute a contatto con questi manufatti.

Tutto può essere ricostruito con facilità senza minimamente preoccuparsi del significato economico, materiale ma anche e soprattutto psicologico del passato, recente o remoto che sia. Si distrugge tutto con voluttà, con violenza, per speculazione, per guadagno, per ingordigia, per costruire oleodotti, autostrade, ferrovie, aeroporti, centri commerciali (George Romero!!!!), tutte cose che a loro volta potranno tranquillamente essere demolite per qualcos’altro. Incessantemente. Si costruisce qualunque cosa e nulla di ciò che si costruisce ha alcun riferimento, contatto, compatibilità, plausibilità di avere un rapporto con l’ambiente in cui viene edificato: e questa estraneità, non appena viene a mancare uno qualunque dei motivi per cui ha senso che rimanga funzionante, fa sì che con grande velocità vada in rovina. Un impianto sciistico dove non nevica più, una miniera da cui non conviene più estrarre minerali o carbone, un albergo dove il turismo è scomparso, un ipermercato non più frequentato perché ne hanno costruito uno nuovo a mezzo chilometro di distanza, un grattacielo perché pericolante, una piscina, un palazzetto dello sport, un cinema, un teatro, un ospedale senza soldi per assumere e pagare i dipendenti, un ecomostro in riva al mare, e potrei continuare a lungo.

E la natura, o ciò che resta di essa, se lo riprende con altrettanta velocità. Lo ingloba, lo fagocita, lo assorbe completamente in spire di vegetazione, di boscaglia che si trasforma in foresta inestricabile. E si prende la sua rivincita. Una vittoria di Pirro, senza dubbio, ma come gli anglosassoni ci hanno insegnato, ci sono anche delle sconfitte gloriose, che danno senso all’inutilità (Mallory e la “conquista” dell’Everest…).

Provo simpatia per questa natura che, non appena l’uomo manda in malora qualcosa, se lo riprende. Ammiro la velocità e l’efficienza con cui lo fa, così come gli enzimi della digestione degradano il bolo alimentare. Rimango affascinato dalla trasformazione di una entità materiale in qualcosa di completamente diverso rispetto alla sua funzione originaria, al suo scopo, alla sua utilità.

Mentre mi aggiro circospetto e con cautela sui pavimenti e sulle macerie di Villa Garrone la mia fantasia vola a immaginare cosa sarà fra dieci, fra cinquanta, fra mille anni. Non provo malinconia, semmai una sorta di eccitazione all’idea della trasformazione, del divenire, del ritorno all’entropia dell’universo, allo sbriciolamento di ogni pezzo di pietra, di legno, di cemento, dei travi, degli infissi, dei vetri, dei cavi elettrici, e al pensiero di come tutto ciò rientrerà a far parte del ciclo degli elementi primordiali della natura, molecole, particelle organiche e inorganiche, atomi. E cosa, a loro volta, diventeranno e di quale organismo vivente faranno parte fra secoli e millenni.

Sono un rinnegato? Disprezzo il genere umano del quale faccio parte? Parteggio acriticamente per la natura vedendo in essa qualcosa di benigno mentre invece sa essere spietata e crudele come e più dell’uomo? No, certo. Però la durezza della natura non è voluta, non è sadica, non è criminale. È e basta, per motivi che a noi sono e devono essere sconosciuti o che forse non esistono nemmeno, è solo il corso delle cose. Distrugge e ricostruisce, con una logica e un’armonia inconcepibile. I più grandi capolavori della natura, i vulcani, le dorsali oceaniche, le montagne che tanto amiamo, sono espressione della mostruosa forza distruttrice e ricostruttiva, quando ammiriamo le forme aggraziate, poetiche, idilliache delle Dolomiti in realtà vediamo semplicemente l’erosione, la fatale inevitabile loro dissoluzione e scomparsa, ma ne rimaniamo affascinati e non proviamo certo angoscia né struggimento, perlomeno io! Quando ho visto da vicino l’Everest e gli altri ottomila himalayani ero ben consapevole di vedere il risultato di eventi geologici di tale potenza da non poter essere compresi dalla mente umana, seppure conosciuti e spiegati dalla scienza. Il ghiacciaio del Perito Moreno che si sgretolava, cadeva nel mare con blocchi delle dimensioni di grattacieli o di portaerei non mi ha intristito né reso malinconico, se non eventualmente per quanto ci sia di intervento umano nel determinare o accentuare il corso degli eventi, i cambiamenti climatici in primis. Ma questi fenomeni di per sé non mi creano angoscia. Panta rei.

No, non rinnego il genere umano e le sue opere, semmai questo tipo di umanità che ha preso il sopravvento, questo pensiero unico del profitto, del guadagno, il Dio crescita, il “potere distruttivo del capitalismo” (sic!), gli effetti collaterali ritenuti indispensabili per il benessere economico, salvo poi cercare maldestramente di correre ai ripari per i danni sulla salute, a curare il cancro, la leucemia, le patologie cardiovascolari, respiratorie e metaboliche da benessere, a giocare a guardie e ladri con la natura, a fare dei danni e poi “guardate come siamo bravi” a trovare dei rimedi che a loro volta, con un perfetto circolo vizioso, creano altri danni che richiedono ulteriori invenzioni per contrastarli; ma intanto l’economia gira, si creano i nuovi vaccini, si aspetterà la prossima epidemia per scoprire nuovamente che i comportamenti umani sono deleteri e dannosi (lasciamo stare le teorie complottiste: fin dal primo giorno dell’ epidemia continuo a sostenere che non è necessario pensare che qualcuno deliberatamente abbia creato tutto questo, è più che sufficiente la situazione ambientale, sociale di certe parti del mondo, l’antropizzazione, la promiscuità con altre specie animali in una elevatissima densità di popolazione, leggersi “Spillover” di d. Quammen che dovrebbe diventare libro di testo in tutte le scuole).

Potrei fare anch’io molte citazioni, mi limito a Tiziano Terzani e al suo struggimento per la devastante perdita di tutte le culture asiatiche spazzate via dal capitalismo e dal consumismo occidentale (aveva già capito tutto, la morte prematura perlomeno gli ha evitato l’amara consapevolezza di aver visto giusto). Questa Cina che coniuga il peggio del capitalismo ed il peggio del comunismo!, scartando come immondizia il suo immenso patrimonio culturale e quel poco che ci può essere di positivo nella civiltà occidentale, in termini di democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti umani (ma che pena: l’Unione Europea non riesce nemmeno a farli rispettare all’Ungheria e alla Polonia, poi ci si indignava perché un po’ di anni fa il sindaco di Milano di allora aveva rifiutato la cittadinanza onoraria al Dalai Lama perché non faceva piacere al governo cinese!).

Non ne faccio una questione politica, sarebbe riduttivo, tu sai come la penso in merito, che si tratti di una posizione assolutamente trasversale che ha a che fare solo con il buon senso e con la lungimiranza del giocatore di scacchi che riesce a vedere non solo la mossa successiva, ma anche la successione di eventi fino alla sesta, settima, ottava mossa…

Certo, Villa Garrone c’azzecca poco con tutto questo sproloquio, sono sicuro che sia stata costruita con tutta la perizia, la competenza, le conoscenze del caso, con l’aspettativa di poter durare il più a lungo possibile, che potesse essere vissuta e abitata dalle generazioni successive, e mi immagino il dolore degli ultimi abitanti nell’essere costretti ad abbandonarla perché magari ne è rimasto uno solo vecchio, acciaccato e magari senza più la possibilità economica di mantenerla. Forse qualche erede esisteva pure, ma non gli interessava più perché ormai viveva in un edificio moderno e confortevole. Chi lo sa. Ma non è questo il punto.

Certo, sono affascinato da queste visioni, inquietato, stupito, ma non intristito, non provo nessuna malinconia. Vedo il corso degli eventi, il fluire del tempo, provo sollievo, come quando sono in cima a una montagna, per la consapevolezza della relatività di tutto ciò che sta sotto, della piccolezza e della precarietà della condizione umana, ma in un modo positivo, perché mi aiuta a ridimensionare e a dare la giusta dimensione e importanza alla sofferenza, al dolore, all’angoscia che sempre di più permeano l’esistenza nei pochi decenni di vita che ci vengono concessi. Penso con serenità alla transitorietà della vita, non perché la disprezzo, tutt’altro: perché la amo immensamente e voglio viverla il più intensamente possibile, ma sempre con la consapevolezza che in qualsiasi momento, qualsiasi evento può annichilire tutto. Non disprezzo quanto vi è di positivo nella scienza, sono ben contento che qualcuno mi abbia tolto il tumore dandomi un bel po’ di anni di aspettativa di vita, ma sono sempre più convinto che mi ritroverò addosso qualche altra rogna, anche peggiore, come “regalino” ed effetto collaterale di questa tecnologia alla quale siamo indissolubilmente legati e costretti ad accettare per sopravvivere.

Tornare all’età della pietra? a vivere in caverne con candele di cera o con un fuoco da mantenere sempre acceso per tenere lontane le bestie feroci? Ovvio che no. Pensare a una via di mezzo? Semplicistico, ma forse inevitabile. Smettere di chiamare Greta Thunberg “gretina”? potrebbe essere un piccolo, insignificante primo passo per l’uomo… riuscire a conciliare la necessità di sviluppo, di crescita economica, di benessere, di garantire lavoro e reddito a tutti con l’esigenza di garantire anche la salute? Non essere costretti a dare con una mano (il benessere materiale) e togliere con l’altra (il benessere fisico e mentale)? Utopistico. Forse… ma se diventasse inevitabile? Comincio a rompermi le scatole di tutti quelli che di fronte ad un discorso del genere lo troncano subito (anzi lo stroncano) con la famosa domanda retorica: “meglio morire di fame o di cancro?”. Perché il cancro si può sconfiggere, dicono. Non sempre e comunque non a costo zero (ne so qualcosa). E allora anche la fame si potrebbe sconfiggere, forse a costi minori se lo si fa con lungimiranza.

In definitiva vado a vedere e fotografare questi edifici, queste rovine, queste macerie semplicemente perché mi affascinano e le ritengo un buon soggetto fotografico, con una loro dignità artistica ed emotiva. Gli altri mille motivi per cui lo faccio li hai descritti magistralmente tu, mi identifico sicuramente in molte delle tue analisi. Ho ancora la curiosità per lo strano, l’imprevedibile, il disordinato, l’anomalo… e questo mi conforta perché la neurobiologia dice che possederla significa ancora essere giovani da un punto di vista biologico! Guardo avanti, e le rovine e le macerie del passato per qualche strano motivo mi stimolano ad un’immagine ottimistica del futuro.

Amo sempre di più la natura con tutte le sue possenti, maestose manifestazioni. Vorrei fotografare le eruzioni vulcaniche, i tornado, le tempeste, non per il gusto del catastrofico né per sentirmi onnipotente e sfidare la sorte (non ne ho più l’età da tempo!), ma solo per il fascino che provo di fronte ad eventi inconsapevoli, casuali, non voluti né creati, senza nessuna volontà di violenza, di crudeltà, di sopraffazione, di istinto sadico ed omicida. Forse per contrapposizione al fatto che nelle azioni umane tutti questi elementi sono ben presenti se non predominanti.

E allora ben venga la boscaglia che fra alcuni decenni avrà completamente fagocitato Villa Garrone. Se ci saremo ancora ne andremo a cercare qualcun’altra. Ma tu, per favore, non puoi venirci e farti fotografare in tuta da ginnastica, mi togli tutto il pathos alla scenografia ed alle suggestioni del luogo! Impara da tua figlia Elisa, perfetta modella chiaro-scura che emergeva tenuamente nei pochi raggi di sole filtranti fra le rovine, nel suo perfetto out-fit all-black! 

Estetica delle macerie ed etica delle rovine

di Paolo Repetto, 4 novembre 2020

Tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine
Chateaubriand, Il genio del Cristianesimo
La storia futura non produrrà più rovine
Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo

Cammino con Stefano sulla cresta di una collina, nel cuneo di terra che separa ancora per un breve tratto Tanaro e Po, a nord-ovest di Alessandria. Davvero non te lo aspetti un posto così bello, a pochi chilometri da una città tanto piatta e grigia. Queste colline non hanno nulla di selvaggio, sono dolci e ordinate, completamente addomesticate dal lavoro umano lungo i secoli, e non susciteranno mai l’emozione del sublime: ma trasmettono l’idea di un rapporto armonioso con la terra. A me la natura piace anche così, mi piace vederci impressa l’impronta dell’uomo, quando è delicata, leggera.

Ma non sono qui per scoprire il paesaggio, negli ultimi tempi ho già imparato a conoscerlo bene. Cammino invece sulla scia della passione più recente di Stefano, quello per la fotografia di luoghi in rovina o abbandonati (che ha anche un nome, urbex, da urban exploration: inglese naturalmente). Mi incuriosisce. Sono quindi a rimorchio, è lui a guidare, perché ha in testa una meta. Conoscendolo, è probabile che questa meta sia a pochi passi da dove abbiamo lasciato l’auto, ma senz’altro ci arriveremo facendo il giro più lungo possibile e percorrendo l’itinerario più ondulato.

Infatti. Viaggiamo per tre o quattro chilometri su stradine o sentieri fangosi che corrono lungo i campi, fino ad arrivare ad una macchia di verde del tutto inselvatichito e apparentemente impenetrabile. Nel verde si apre però ad un certo punto un piccolo varco, impercettibile al passante distratto. Ci inoltriamo nel folto e all’improvviso, quasi magicamente, siamo di fronte all’edificio.

È una costruzione imponente, tre piani che vanno calcolati con le misure di un tempo, quindi alta ad occhio e croce almeno una dozzina di metri. Ma non è facile farsi un’idea globale delle dimensioni, perché l’edificio non è mai visibile da una sufficiente distanza. Dall’esterno della macchia risulta totalmente nascosto, malgrado l’altezza, dalle piante secolari che lo circondano. Quando si è dentro lo si può guardare solo dal basso. Non riesco a valutare lo stato del tetto, ma i muri perimetrali sono tutti ancora in piedi, e non si vedono crepe. Persino l’intonaco regge, tranne in qualche punto sulla facciata che guarda a settentrione e nel cornicione che aggetta. Tutto il resto, naturalmente, le cornici in muratura degli infissi e i fregi e gli infissi stessi, è in totale rovina. La costruzione è forse databile agli inizi del secolo scorso, magari anche alla fine di quello precedente: lo stile sta tra il Liberty e l’Art Dèco.

Entriamo con cautela, e all’interno lo stato di degrado è ancora più evidente. Calcinacci e vetri ovunque, l’intero soffitto di una sala crollato, tappezzerie a brandelli, vecchie stufe, sedie e tavoli disfatti. Rimane però ancora percettibile quella che doveva essere l’originaria ricchezza e bellezza degli ambienti: nei pavimenti alla genovese, nelle volte affrescate, nelle lunette che offrivano scorci montani o lacustri, in quel che rimane degli armadi a muro, ecc… Mi viene in mente per un attimo la Vill’Amarena di Gozzano: Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Il riferimento non è del tutto appropriato, ma lascia intravvedere quella che ha potuto essere la fase iniziale dell’abbandono (in verità mi viene in mente perché è una delle poche poesie che ancora ricordo, e mi ci aggrappo prima che la memoria sia ridotta come questa casa).

Non ci avventuriamo ai piani superiori perché anche le scale sono fatiscenti, una grossa crepa taglia a metà il primo pianerottolo. Meno che mai osiamo scendere in un buio piano interrato, dove non arriva luce da nessuna apertura. In realtà non credo sia poi così pericoloso, ma l’impressione è che ci si debba muovere con tutta la delicatezza possibile, per non contribuire ad accelerare lo sfascio. È una casa che incute un certo rispetto.

Stefano comincia sparare fotografie, è affascinato dalla rovina, che i raggi filtranti attraverso quel che resta delle persiane ammantano davvero di una malinconica poeticità. Io, dopo il primo momento di sorpresa, e dopo aver appagato la curiosità iniziale, sento invece montare dentro un sentimento che conosco bene. A differenza di Stefano, che è un positivista professo ma sotto sotto subisce un po’ il fascino della decadenza, io di fronte a queste cose sto male. Non accetto alcun tipo di degrado che non sia quello iscritto nei cicli naturali, perché quello non è degrado, è trasformazione. Questo edificio è invece una testimonianza culturale, è cultura che va a pezzi, e allora sento l’urgenza di intervenire, di impedire alla rovina di avanzare. È una vera e propria sindrome, che rasenta l’autismo: ovunque vada sono immediatamente colpito da quel che è fuori posto, che potrebbe essere migliorato, sistemato, recuperato (così come mi irrita profondamente, nelle persone, ogni comportamento caciarone e scomposto). Una volta a casa di un amico ho rimesso in piedi tutta una serie di anfore abbattute sparse per il giardino, per poi scoprire che erano state messe così ad arte (il senso devo ancora capirlo oggi). Dopo aver restaurato e ridipinto i settanta metri di staccionata che chiudono il giardino di mia figlia a Bournemouth, mi aggiravo per la città a verificare quante altre staccionate avrebbero avuto bisogno di un sano intervento (e sarei stato disposto ad operarlo gratis). Insomma, è una malattia, che però non si limita a un decorso passivo, ma a modo suo mi rende immediatamente operativo.

Anche in questo caso finisco subito a realizzare che si potrebbe intervenire qui, rinforzare là, recuperare materiali, ripristinare. Cerco di figurarmi come potrebbero essere i locali una volta restaurati, e come sarebbe possibile farlo con interventi minimi, puramente conservativi. Mentre Stefano continua a raccogliere immagini, ogni tanto coinvolgendomi anche, comincio a fare mentalmente i conti: un tot a metro per il tetto e per gli intonaci, un calcolo approssimativo per le decorazioni esterne e per gli infissi, una bella botta per il ripristino degli interni. Siamo, molto all’ingrosso, nell’ordine del milione di euro. E questo a condizione di mettere all’opera gente seria, ad esempio i muratori con i quali ho lavorato, fino a pochissimi anni fa, per recuperare la mia casa. Altrimenti la cifra raddoppierebbe, e il risultato sarebbe disastroso. Il tutto naturalmente evitando ogni intromissione delle varie sovrintendenze e degli svariati e altrettanto inutili altri organismi di controllo, oggi tranquillamente indifferenti davanti al fatto che un edifico del genere vada allo sfascio, ma che domani, casomai un folle decidesse di metterci mano, interverrebbero di corsa a imporgli i vincoli più stupidi e le direttive più insensate.

Lascio Stefano a finire il suo servizio e mi aggiro nei dintorni della casa: solo per scoprire che le sorprese non sono affatto finite. Come avrei dovuto immaginare, a pochi metri, ma assolutamente invisibile se non ci si avventura in un altro varco nella boscaglia, c’è un secondo edificio, molto più basso e meno elegante, alle spalle del quale è stato appoggiato in epoca relativamente recente un enorme porticato. Dal porticato si ha accesso diretto ad una cantina. Evidentemente era la residenza dei mezzadri, e deve essere stata abitata o utilizzata ancora per qualche tempo dopo l’abbandono della casa padronale: almeno sino a una quarantina d’anni fa, come testimoniano le botti in cemento e lo stato del tetto. Dalla piccola radura antistante la casa individuo poi quello che probabilmente era l’accesso principale alla villa: un vialone un tempo inghiaiato, fiancheggiato da platani enormi, che scende con dolce pendenza e perfettamente rettilineo per almeno duecento metri, sino ad immettersi nella strada comunale. Ho il sospetto che Stefano lo sapesse, e che saremmo potuti arrivare sin lì tranquillamente in macchina. Ma in fondo sono contento di essermi guadagnato almeno un po’ la gioia della scoperta. Che non cessa di rinnovarsi: dal lato opposto, dando le spalle alla casa, intravvedo un altro edificio ancora. Era la stalla-fienile. Dentro, in mezzo a cumuli di cianfrusaglie d’ogni tipo, ci sono ancora delle vecchie attrezzature per l’aratura con gli animali. Devo aggiornare i preventivi per il restauro, ma rispetto a quanto previsto per il corpo centrale qui sono bazzecole.

Ora la topografia del luogo si ricompone. Si accedeva alla villa dal basso, e la si scopriva mano a mano che si risaliva il viale, mentre i due edifici “di servizio” rimanevano nascosti sino all’ultimo. Il viale si interrompeva in uno slargo alla loro altezza, dal quale con due dolci rampe laterali si guadagnava il terrapieno su cui sorgeva la dimora padronale. L’effetto doveva essere di imponenza e di eleganza assieme.

Continuando a girovagare mi rendo conto che il parco alberato è molto più ampio di quanto immaginassi. In serata poi, tornato a casa, scopro sulla mappa satellitare di Google che in basso, proprio al confine del parco, c’è ancora un quarto edificio, del quale né io né Stefano ci siamo accorti. Tra l’altro, nella visione dal satellite l’assieme appare come un’isola verde in mezzo ai diversi toni del marrone dei campi che la circondano.

Bene, non ho dettagliato questa piccola esplorazione domestica per puro amore di racconto, ma perché mi ha spinto a riflettere molto e perché ancora oggi, il giorno dopo, non riesco a smettere di pensarci. E mi chiedo innanzitutto se, al di là della mia specifica sindrome da dio riordinatore, progetti di recupero come quello su cui fantasticavo ieri sarebbero poi davvero così insensati, anche prescindendo da tutti i fattori emotivi, valutandoli su un piano prettamente economico.

Dunque. Proviamo ad immaginare come potrebbero andare le cose in un paese normale. È difficile, perché intanto in un paese normale un edificio del genere non sarebbe in quelle condizioni, sarebbe già intervenuto qualcuno, qualche ente, qualche istituzione, per impedirne la rovina. Se da noi questo non avviene non è perché la cosa sia impossibile, ma perché siamo un popolo di idioti. E certamente, se ogni progetto lo parametriamo a quest’ultimo dato di fatto, allora possiamo abbandonare in partenza. Io sto ragionando per assurdo, ma in questo caso non è assurdo il ragionamento, quanto piuttosto il fatto che in questo paese non lo si possa nemmeno fare.

Allora, rimaniamo nella fanta-utopia (mi ci sono affezionato) del “paese normale”. Se fossi io il legislatore dopo un massimo di dieci anni di abbandono metterei i proprietari di fronte ad un aut aut: o lo tenete in piedi voi o lo cedete (per una cifra simbolica) alla comunità, che provvederà a farlo. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di espropriare: basterebbe tassare in maniera esponenzialmente salata gli edifici oltre un certo periodo di non utilizzo. Mi si obietterà che il problema sarebbe a questo punto che fare della miriade di edifici di cui lo stato si troverebbe ad essere proprietario, visto che non riesce nemmeno a manutenere le strutture pubbliche di sua pertinenza. È vero: ma io sto parlando di uno stato normale, il che esclude in partenza situazioni come quella italiana.

Comunque, continuando così non si va da nessuna parte. Devo confrontarmi con la realtà: proviamo a rimanere in Italia. Assumendo quello che ho calcolato per la “mia” villa come costo medio di ogni intervento (e credo di essermi tenuto largo, perché per almeno due terzi gli interventi potrebbero essere meno dispendiosi), per recuperare diecimila edifici o luoghi di un certo pregio sarebbero necessari dieci miliardi di euro. Può sembrare una bella cifra, un investimento colossale: e in effetti lo è, lo sarebbe in qualsiasi momento e lo è tanto più in questa nefasta congiuntura di pandemie e di crisi strutturali.

Ma guardiamo a ciò che abbiamo di fronte. Teoricamente l’Italia dovrebbe ricevere nei prossimi mesi un soccorso finanziario nell’ordine di oltre duecento miliardi (il famoso recovery fund). Il condizionale è d’obbligo, perché il soccorso è subordinato alla presentazione di un piano di investimenti credibile e concreto, cosa di cui si hanno mille ragioni per dubitare (detto tra noi, fossi l’Olanda o la Svezia o l’Austria non farei credito di un solo centesimo al nostro paese). Il rischio è che tutto ciò che saremo in grado di proporre si riduca a una serie di interventi di “tamponamento” a pioggia, vale a dire ad elargire soldi destinati a tacitare le proteste, legittime o meno, ma non certo a normalizzare il respiro della nostra economia. Al tempo stesso abbiamo milioni di persone inattive, in parte per una crisi che era già strisciante prima del Covid e che con la pandemia è esplosa, in parte perché l’idea di poter contare su un salario, che sia di cittadinanza o assuma la forma di qualsivoglia altra assistenza, dissuade molti dal cercarsi o dall’accettare un lavoro. E non mi si venga a dire che è un ragionamento “di destra”, perché è solo una fotografia realistica della situazione.

Il lavoro infatti, a volerlo vedere e organizzare seriamente dagli uni e a volerlo fare senza troppe scene dagli altri, ci sarebbe. Basti pensare a tutti gli interventi urgenti di risanamento ambientale, che quantomeno ci metterebbero in sicurezza rispetto agli eventi catastrofici che ad ogni stormir di pioggia devastano il nostro territorio. Sarebbe un investimento ripagato da un riscontro immediato, di tipo occupazionale e non solo, perché smuoverebbe la produzione e avrebbe una ricaduta contributiva sulle casse statali: ma la sua maggior resa verrebbe col tempo dai risparmi sullo stillicidio continuo di interventi d’emergenza. A questo naturalmente andrebbe data la priorità.

Anche quello che ipotizzo io è però un investimento che dà risposte concrete e immediate, oltre ad aprire a quelle a lungo termine. Attivando cantieri per diecimila interventi di recupero di questo tipo si creerebbero come minimo centomila posti di lavoro nel settore edilizio e si metterebbe in moto indirettamente un indotto che ne vale altrettanti. Una volta chiusi i cantieri, rimarrebbero attivi almeno ventimila posti per le attività di manutenzione e valorizzazione di quanto già recuperato, mentre potrebbero partire ulteriori progetti di risanamento “culturale”. Queste attività, se minimamente coordinate e inserite in circuito con altre forme di “offerta” (da quelle gastronomiche a quelle enologiche, dall’escursionismo alle più svariate pratiche di fitness, ci sta di tutto), una volta avviate potrebbero raggiungere facilmente l’autonomia finanziaria. A dispetto della nostra colpevole negligenza siamo ancora un paese ad altissima attrattiva turistica anche nel campo della cultura, e con uno sforzo intelligentemente mirato potremmo offrire quei percorsi alternativi ai grandi eventi, alle mostre-monstre, agli intruppamenti obbligati, che vengono invocati ogni volta che le nostre città d’arte arrivano al collasso, ma per i quali non è mai stato pensato alcun progetto serio.

Ora, mi si farà notare, tutta questa gente va comunque da subito pagata. Appunto. Ricordo che stiamo parlando di un settore nel quale da molto prima del covid una buona metà degli addetti stazionava in cassa integrazione, e la quota è aumentata con la pandemia; quindi si tratta in realtà di gente già pagata con soldi pubblici, e senza alcuna contropartita. Lo stesso vale naturalmente per i percettori del reddito di cittadinanza. Ci sono poi anche le spese per i materiali: ma teniamo presenti le sovvenzioni “di ristoro” che lo stato elargisce alle aziende messe in crisi dalla pandemia e dalle misure restrittive: con le stesse cifre si potrebbe acquisire già gran parte del fabbisogno. Anche in questo caso, sarebbero soldi destinati in parte a rientrare nelle casse dello stato e dell’ente previdenziale, sotto forma di imposte e di contributi. Rimane il tema scottante del tipo di occupazione offerta. Ma mi sembra sia giunta l’ora di mettere in chiaro come girano le cose. Non siamo in grado di creare “posti di lavoro” rispondenti a tutte le aspettative, siamo solo in grado di creare occasioni di lavoro, e dovremmo semmai poi assicurarci che questo si svolga in sicurezza, che sia adeguatamente retribuito, che crei a sua volta professionalità e conferisca quindi dignità. Non ha senso opporre che i nostri giovani, o anche i meno giovani, non sono “preparati” per questi tipi di attività. Nemmeno chi sbarca sulle nostre coste o arriva dall’est nel nostro paese è preparato, ma non tarda ad adeguarsi. Impareranno, e questo sarà per loro un valore aggiunto, oltre al fatto di guadagnarsi uno stipendio e poter fare progetti per il futuro. Se invece per quei duecentomila posti dovremo reclutare polacchi o senegalesi, ben venga allora anche l’immigrazione clandestina.

Sono scaduto nello sproloquio da allenatore da bar, di quelli che non saprebbero gonfiare un football ma disquisiscono dei moduli di gioco. Io però non voglio fare l’allenatore, altrimenti mi sarei dato alla politica. Voglio semplicemente dimostrare che una scelta del genere in Italia non si farà mai non perché impossibile, o insensata, ma perché ogni cosa, ogni idea, ogni progetto deve confrontarsi da noi con la vischiosità degli apparati, l’inossidabilità dei privilegi, le gelosie e le ripicche tra i vari enti, lo scaricabarile tra le diverse istituzioni, e non ultimo con una malintesa, ipocrita ed egoista concezione della libertà. Non ci vuole una gran fantasia ad immaginare il balletto dei bandi e degli appalti truccati e dei ricorsi, la sequela delle lungaggini e delle assurdità burocratiche, il gioco delle tangenti e degli interventi della magistratura, il veto a prescindere dei sindacati e degli ispettorati e delle associazioni di difesa dei chirotteri o delle piante spontanee, il traffico dei subappalti, tutta la polvere e la sporcizia insomma che un qualsiasi progetto qui da noi va a sollevare. Ma le cose sono complicate solo perché rese tali da una assoluta mancanza di senso dello stato, di onestà, di competenze, di buona volontà, ecc…: tutti vizi che non attengono al naturale ordine del mondo, ma solo a una particolare disposizione negativa che ci portiamo dietro. Non possiamo imputare il nostro perenne stato di emergenza al fato o ai complotti orditi alle nostre spalle dai poteri forti, ma solo alla nostra riluttanza ad assumerci, a qualsiasi livello, una qualsivoglia responsabilità, dalla nostra tendenza a sentirci sempre creditori nei confronti di tutti, della nostra meschina corsa a scovarci alibi per non fare nulla.

Con queste premesse è evidente che uno i progetti non dovrebbe nemmeno immaginarli. Forse farei meglio a restarmene nell’utopia del paese normale. O forse ci sono rimasto davvero, perché da ieri non faccio che parlare con gli amici di questa cosa, e oggi ne ho già sguinzagliati un paio in cerca di informazioni sulla proprietà. Avessi trent’anni di meno, e quattro soci armati di buona volontà, altro che recovery fund! Accoglierei in cima al viale la delegazione olandese, e si toglierebbero tanto di cappello.

***

Le allegorie sono nel regno del pensiero
quel che le rovine sono nel regno delle cose
Walter Benjamin

Dopo la visita alla villa abbandonata, sopiti un po’ gli entusiasmi restaurativi, mi sono trovato a riflettere su un tema di ordine più generale, che meriterebbe dunque un approccio più serio e ponderato: infatti ho qualche esitazione a trattarlo in questo contesto. Ma non sapendo se e quando potrò tornarci su, colgo almeno l’occasione per anticiparlo.

Constatavo, anche in rapporto alla nuova passione di Stefano, che stiamo tornando ad una “estetica delle rovine”, ciò che ci rimanda a quanto accaduto nella sensibilità occidentale un paio di secoli fa, verso la fine del XVIII secolo. Erano stati infatti Winckelmann e poi Goethe ad elaborare questa particolare teoria del sentimento del bello, ispirati non a caso proprio dai loro soggiorni in Italia (e sempre non a caso Winckelmann in Italia era stato ammazzato). Il riferimento era naturalmente alle rovine dell’antichità (stava nascendo l’archeologia classica, erano state da poco riscoperte Pompei ed Ercolano), che si rivelavano essenziali per ri-educare il gusto moderno alla bellezza: da esse si poteva inferire la forma originaria e pura delle opere greche e romane, e ciò, al di là dell’appagamento “sensoriale”, emotivo, doveva indurre alla ricerca, all’imitazione e alla riproduzione di quella bellezza. Non solo di quella artistica: quel mondo poteva darci lezioni sul piano giuridico, legislativo, sociale. Il neoclassicismo non era un moto di reazione agli sconvolgimenti rivoluzionari. Era figlio legittimo dell’Illuminismo. (“Le idee che le rovine suscitano in me sono grandiose”, scriveva Diderot , uno dei Maestri del mio personalissimo pantheon: e, nel mio piccolo, sembrano sortire anche su di me lo stesso effetto).

Ma quel figlio non era l’unigenito. La stessa antichità che alimentava il sogno neoclassico poteva ispirare anche altre fantasie, meno serene; il passato nel quale i classicisti identificavano un modello riproponibile per il presente poteva apparire come un mondo splendido e maestoso, ma irrimediabilmente perduto (si pensi a Piranesi: nelle acqueforti sulle antichità romane esprime la nostalgia per un mondo ideale, per un’epoca incomparabile, ma ormai chiusa e irripetibile: di fronte ai resti colossali dei Fori imperiali non si abbandona a una pacata contemplazione, è scosso da una forte emozione) e suscitare nell’artista moderno un senso di impotenza e di frustrazione (mi viene in mente L’artista commosso dalla grandezza delle rovine antiche, di Füssli. In quella sanguigna c’è davvero tutto il conflitto degli opposti sentimenti, commozione per la grandezza delle opere classiche e frustrazione per l’insostenibilità del confronto).

Del resto, anche gli illuministi non si sottraevano alla riflessione malinconica. Lo stesso Diderot aggiungeva: “Percorriamo le devastazioni del tempo, e la nostra immaginazione disperde sulla terra gli edifici stessi che abitiamo. Sull’istante, la solitudine e il silenzio regnano intorno a noi. Restiamo soli di tutta una nazione che non c’è più: ecco l’abc della poetica delle rovine. […] Tutto passa, tutto perisce. Soltanto il mondo resiste. Soltanto il tempo continua a durare. Io cammino tra due eternità. Ovunque io guardi, gli oggetti che mi circondano mi annunciano la fine, e mi mettono in guardia rispetto a ciò che mi attende”. Si riferiva soprattutto agli aspetti naturali (la roccia che sprofonda nella terra o la valle che si frantuma), ma anche, naturalmente, ai ruderi dei sogni umani.

Col Romanticismo si afferma, soprattutto nei paesi nordeuropei, il gusto per le architetture gotiche: si recupera insomma il passato di casa, un passato che si presenta, rispetto a quello classico, più irregolare e informe, e produce una fascinazione d’altro tipo, nella quale diventa dominante la sensazione di angoscia. Le rovine non sono più un raccordo tra passato e futuro. Raccontano qualcosa che non tornerà, che sta lentamente svanendo anche dalla memoria, e costringono a meditare sulla fragilità umana. I segni del tempo, la vegetazione e i muschi che le ricoprono parlano di una natura che si prende la rivincita sulla civiltà e la cultura. Shelley scrive nell’Adonais:

Su, vai a Roma, — che è insieme il Paradiso, la tomba,
e la città e il deserto; e passa dove le rovine s’ergono
come montagne frantumate, e le gramigne
fiorenti e le piccole selve profumate
vestono l’ossa nude della Desolazione …

Magari oggi la sua esortazione sarebbe più tiepida, anche se le gramigne a Roma fioriscono ancora. Le uniche montagne accanto alle quali si passa sono quelle dei rifiuti, e le piccole selve che crescono sui marciapiedi sono tutt’altro che profumate.

Nella pittura di questo periodo è Friedrich a esprimere perfettamente, in dipinti come L’abbazia nel querceto, l’estetica del fascino malinconico e dolente delle rovine. Altro che ponte sul futuro! Il futuro è plumbeo come il cielo contro il quale le mura e gli alberi tutti spogli e rinsecchiti si stagliano. E la processione che appena si intravvede nella fascia più bassa è diretta a un cimitero. Nel suo caso è una forte connotazione religiosa, e per di più luterana, a indurlo a usare le rovine come simbolo e come monito. Ma quel tipo di fascino, secolarizzandosi, tenderà facilmente a scadere, alla lunga, nel gusto per il fatiscente e il macabro: quello che caratterizzerà il decadentismo (e il cui prototipo potrebbe essere La rovina della casa Usher, di Poe)

E si arriva all’oggi, passando per il Novecento. Il secolo scorso ha prodotto in realtà molte più macerie che rovine, e la sensibilità nei confronti di queste ultime è ancora una volta mutata. Ho sottomano Rovine e macerie. Il senso del tempo, un libretto esile e densissimo, nel quale Marc Augé scrive: “Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia (le vie di Kabul o di Beirut), e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto”. Credo voglia intendere che il cumularsi delle macerie prefigura un mondo senza rovine, nel quale il tempo sarà azzerato e che, per tale ragione, non avrà più storia. Per Augé il senso delle rovine non è storico né estetico, ma puramente temporale. La rovina è un frammento del passato ancora presente, e sottratto alla temporalità delle appartenenze, dell’uso, dei significati. Quindi “contemplare rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo, del tempo puro”.

Ma questo cosa significa? Significa che per Augé, illuministicamente, là dove c’è rovina c’è una possibilità, una indicazione di ripartenza: mentre là dove ci sono macerie il tempo viene non solo azzerato, ma abolito. Le rovine tendiamo a conservarle, le macerie possiamo solo rimuoverle, dobbiamo sbarazzarcene. Sottoscrivo in toto, anche dove dice: “Sulle macerie nate dagli scontri che inevitabilmente la storia futura susciterà, si apriranno nondimeno dei cantieri, e insieme ad essi, chissà, una possibilità di costruire qualche altra cosa, di ritrovare il senso del tempo”. A dispetto della mia disposizione congenitamente scettica, non mi sembra un ottimismo forzato e consolatorio: ricordo una immagine, credo sia della biblioteca di Sarajevo, incendiata e semidistrutta nel 1992 (con perdita dell’ottanta per cento del patrimonio librario), nella quale un ragazzo, in mezzo a tanta devastazione e desolazione, sfoglia un libro: e ho davanti quella odierna dell’edificio rimesso in piedi (e in funzione) seguendo esattamente le linee del vecchio progetto. Per quelle macerie, e attraverso quel ragazzo, la storia in qualche modo è ripartita.

A tornare ripetutamente, direi quasi ossessivamente, sul tema delle rovine, nella prima metà del ‘900, è stato Walter Benjamin. Benjamin scrive in un periodo che di macerie ne ha prodotte parecchie, tra le due guerre, ed è comprensibile che vi faccia costante riferimento. In un frammento che è diventato una delle pagine più citate (e abusate) della recente letteratura filosofica scrive (e così lo cito anch’io): “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta”.

Confesso che non mi ero mai soffermato a decrittare l’allegoria racchiusa in questa immagine, mi accontentavo dell’interpretazione più immediata e superficiale. La verità è che non riuscivo affatto a scorgerci tutto quello che Benjamin sembra vedere, e non mi rendevo conto che era lui quello da decrittare, e non Paul Klee. Anche perché il quadro era suo, l’aveva voluto fortissimamente e acquistato, l’ha portato con sé in tutte le sue peregrinazioni, sino all’ultimo, e aveva tutti i diritti di leggerlo come voleva. Forse la passeggiata di ieri mi ha chiarito le idee, e riesco anch’io a guardarlo con occhi nuovi.

La storia si allontana, sia pure camminando a ritroso, da ciò su cui fissa lo sguardo, dal passato. Questo passato può essere percepito come un ammasso di detriti, di macerie, e quindi come qualcosa da rimuovere, magari in maniera soft, diluendolo in tante diverse memorie, come sta accadendo oggi, oppure in modo violento e radicale, cancellandone ogni traccia (penso ad esempio ai roghi dei libri, da Qin Shi Huang a Hitler e all’ISIS, o ai calendari “rivoluzionari” che ripartono dall’anno zero). Per Benjamin invece l’angelo, ovvero il vero senso della storia, “vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto”. Qui il significato è ambiguo, e credo ciò dipenda dal fatto che una prima versione di questo brano era incentrata sulla vicenda personale di Benjamin, su un amore finito e rimpianto. Comunque, è verissimo. Per ciascuno di noi ad un certo punto della vita, quello in cui ci si volge indietro perché davanti rimane ben poco da vedere, le rovine della storia sono i fallimenti, le incertezze e le decisioni non prese, le cose non dette e non fatte, che avrebbero potuto cambiare il nostro destino, il nostro presente e il nostro futuro. Vorremmo poter tornare indietro e riscrivere tutto il libro. Ma il vento, che in questo caso è semplicemente l’inesorabile, naturale scorrere del tempo, volta le pagine che rimangono, e il cumulo che abbiamo alle spalle si innalza.

Se interpretata invece nel suo significato più esteso, quello poi scelto da Benjamin, l’immagine ci dice che in realtà l’unica via d’uscita, per non lasciarci trascinare dalla tempesta che chiamiamo “progresso”, è proprio quella di fermarci, tornare sui nostri passi e “risanare” il passato. Quando dice che la tempesta del progresso spira dal paradiso, Benjamin non intende che è suscitata da una volontà divina o da un fantomatico Spirito hegeliano: il paradiso di cui parla è quello terrestre – sta quindi alle spalle rispetto alla marcia del “progresso”, e non davanti –, e il vento soffia dalle porte che l’uomo ha lasciate aperte uscendone. Quel vento, quella tempesta nascono dalla colpa originaria, dalle scelte errate che l’umanità ha compiuto, che ha cumulato e sparso lungo il suo cammino (le rovine, le macerie) senza averle poi ricomposte. Gli occhi spalancati, la bocca aperta dell’angelo sembrano i tratti tipici di chi all’improvviso si è voltato indietro e si sta rendendo conto, pieno di sgomento, della catastrofe che sta lasciando alle sue spalle (e del fatto che la sua marcia lo allontana dal paradiso).

Quello che l’angelo vede non sono però macerie, ma rovine. Non è tentato di rimuoverle per correre incontro al futuro, ma di ricomporle, per costruire su di esse un futuro che dia senso anche al passato. Esattamente il contrario di quella idea di “progresso” che si fonda sul consumo rapido delle cose e delle idee, sulla rincorsa costante del “nuovo” e sulla forma più efficace di eliminazione delle scorie, che è quella di sotterrarle nell’oblio. L’angelo è fermo. Si è fermato per riflettere e per decidere, malgrado la tempesta lo spinga e non gli consenta di chiudere le ali. E già questo gesto di fermarsi è significativo: vuol dire che il “progresso” così irresistibile forse non è, irresistibile è solo la marcia del tempo, ma la direzione e il posso che vogliamo tenere possiamo ancora deciderli noi.

Per capire meglio la complessa interpretazione che Benjamin dà di questa allegoria riesce illuminante, a mio giudizio, un aspetto del suo carattere che di solito è considerato marginale, e che parrebbe avere poco a che vedere col tema delle rovine. Benjamin era un collezionista. Ma di quelli duri, per i quali la passione diventa quasi (o senza quasi) un’ossessione. Collezionava vecchi libri per bambini, quelli impreziositi dalle immagini di illustratori del calibro di Dulac e di Rackam, ma anche più antichi: e quanto il piacere del possesso fosse vera bibliomania lo dice il fatto che un elenco recentemente pubblicato di questi libri consta di trentasette pagine di titoli. Essendo io stesso un bibliomane patologico non posso che sentirlo vicino, e posso anche immaginare quanto debba essergli costato separarsene quando fu costretto all’esilio. La mania con-divisa mi aiuta però a comprendere anche qualcosa di più. I libri per l’infanzia, e le soprattutto immagini che li adornano, sono il primo (in qualche caso anche l’ultimo) tramite per accedere all’esperienza di una dimensione diversa, più “autentica” di quella reale, che si vive attraverso il gioco. Il bambino fa coi con i suoi giochi “un esercizio dell’inutile”. Parte dalla realtà e dalla concretezza di quei fogli di carta, delle parole e delle immagini che vi sono impresse, e ricombina il tutto a suo modo e a suo piacere, avventurandosi in mondi nuovi, nei quali non valgono regole e logiche e tempistiche prevedibili. (Benjamin era molto polemico con la pedagogia della sua epoca – e lo sarebbe anche con quella attuale – che voleva trasformare i libri per bambini in strumenti di indottrinamento etico e di irreggimentazione disciplinare. Non posso che essere d’accordo: se c’è qualcosa di insopportabile e di ipocrita sono i libri per l’infanzia “educativi” – non parliamo poi del tentativo di piegare all’istruzione i fumetti).

Ma giocare è in fondo anche quanto il collezionista fa con i suoi reperti: “toglie alle cose, mediante il possesso di esse, il loro carattere di merce …. e si trasferisce idealmente, non solo in mondo remoto nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili.” Aggiungerei che redime il mondo dal disordine, disponendo gli oggetti della sua collezione in un ordine spaziale e mentale che conferisce loro un valore diverso da quello d’uso o da quello di scambio. Cancellandone idealmente il prezzo conferisce loro una dignità. Benjamin scrive anche: “Materia in rovina: è l’innalzamento della merce allo stato di allegoria.” Che è perfettamente applicabile tra l’altro al mio modo di collezionare libri, pescandoli là dove già sono rovina, sui banchi dell’usato a un tanto al chilo, e facendoli rifiorire a nuova vita in un orizzonte di senso assolutamente fuori mercato. Con questo il cerchio si chiude.

Adesso mi riconosco perfettamente in questa immagine. Mi sembra rappresenti e riassuma nella maniera più nitida il mio modo di concepire la storia e il nostro essere nella storia. Mi riusciva difficile conciliare le due pulsioni apparentemente contrastanti che mi agitano dentro, quella verso il passato e quella verso il futuro. Pensavo di essere sulla strada giusta, ma mi mancava il conforto di un segnavia riconoscibile. Ora so che quelle due pulsioni possono coincidere, anzi sono un unico moto.

In sostanza, io voglio un futuro che in qualche modo riscatti, dia un senso al passato. Sento una responsabilità, un debito, non solo nei confronti di coloro che verranno, ma anche di coloro che mi hanno preceduto. Per questo, malgrado gli acciacchi, e a dispetto del senso di frustrazione che troppo frequentemente mi tenta, continuo a stare per aria. Ho trovato una corrente ascensionale che mi consente di librarmi senza sbattere le ali (non ne avrei più la forza) e di guardare indietro: le rovine che vedo, quelle che reggono all’erosione del tempo, sono la testimonianza degli sforzi che miliardi di altri, centinaia di generazioni, hanno compiuto guardando a me. Non riuscirò a destare i morti, non ricomporrò i cocci di ciò che stato infranto, ma ricordarli, quello almeno lo posso e lo devo fare. E credo che sino a quando qualcuno lo farà rimarrà aperta la strada per sfuggire alla tempesta abrasiva del “progresso”.

Il mio non è allora un comportamento autistico, ma un impegno etico. In parte ereditato, da una cultura contadina che non buttava nemmeno le unghie del maiale, in parte coltivato, mano a mano che ho cominciato a leggere la storia, anziché come una squallida e assurda tabella di massacri, come un diario della resistenza dell’umanità alla tragica e assieme straordinaria condizione che la natura le ha regalato.

E l’estetica? Me la sono persa per strada? No, semplicemente per me etica ed estetica coincidono. Il comportamento etico non può essere dettato che dalla percezione e dal riconoscimento del bello, in questo caso delle sue vestigia. Una emozione estetica altro non è che il segnale, la luce che si accende su qualcosa che vale, che ha e che dà senso, e va quindi preservato, difeso. Ma anche rispetto a questo atteggiamento vanno fatte delle distinzioni.

Oggi le rovine non sono più consumate solo dal tempo e dall’incuria o dall’indifferenza degli uomini, ma al contrario, dal soffocamento del turismo globalizzato. In un brevissimo saggio scritto a inizio Novecento, che si intitola proprio “La rovina”, e che senz’altro era conosciuto da Benjamin, George Simmel equiparava la rovina alla moda, nel senso che entrambe sarebbero caratterizzate dalla distruzione di ogni contenuto precedente per accedere a una nuova unità. Non sto a raccontare come ci arriva (peraltro, con un percorso un po’ ostico ma illuminante), mi intriga solo l’accostamento, perché in effetti l’interesse per le rovine è stato sempre condizionato, dai giorni del Gran Tour ad oggi, dal fenomeno delle mode. Un tempo era riservato ai rampolli delle famiglie nobili del continente settentrionale e d’oltremanica, poi è entrato a far parte dei consumi di masse sempre più allargate, e motivate sempre più da una necessità di omologazione. Non è nemmeno il caso che stia a ripetere ciò che è sotto gli occhi di tutti e aggiunga la mia ad un coro di geremiadi che fanno ormai parte anch’esse del gioco. Le rovine, così come le bellezze naturali, sono ridotte a elemento scenografico del grande spettacolo non-stop al quale siamo persuasi più o meno velatamente o sfacciatamente ad assistere e/o a partecipare.

Ma qui, nel caso specifico dell’esperienza da cui ho tratto pretesto per queste righe, non di rovine si parla, ma di macerie, e del tipo di fascino, e conseguentemente di disposizione, che inducono. Questo è un fenomeno relativamente nuovo. È già stato fagocitato dalla moda, oggi si direbbe che è diventato virale, e quindi è destinato alla transitorietà: ma non lo liquiderei così frettolosamente. Presenta infatti delle caratteristiche emblematiche dell’ambiguità sottesa ad ogni nostra modalità e finalità di conoscenza. Intanto è una forma di esplorazione, mirata non tanto alla scoperta quanto alla riscoperta. In questo senso, la pulsione esplorativa sarebbe in linea con l’atteggiamento etico di cui parlavo sopra. Cercare qualcosa che si sottrarrebbe, in quanto scarto, alla logica dell’utilità e della mercificazione, e ripartire da quello per immaginare la possibilità di altri mondi. “La rovina innalza le cose allo stato di allegoria”. Ogni scoperta però reca con sé un germe infettivo: produce contaminazione, modifica o addirittura distrugge l’oggetto stesso che l’ha motivata. Gli antropologi ne sanno qualcosa.

Nel nostro caso, di fronte alle macerie della villa, due diversi atteggiamenti possono indurre a fermarle nell’immagine fotografica: quell’immagine può diventare un ulteriore momento dello spettacolo, oppure può documentare qualcosa che non funziona e a cui occorre ovviare. In entrambi i casi quelle macerie diventano funzionali ad altro rispetto a ciò che realmente rappresentano. Ma qui si pone il discrimine tra una scelta estetica, che è di per sé etica, perché orienta il nostro agire, ed una estetizzante, che banalizza nella “spettacolarizzazione” ciò che si è fotografato. L’una ci dice di una volontà di continuità nel tempo, di lettura e recupero del passato in funzione del futuro, l’altra di una plastificazione museale destinata solo al presente, e a un presente esteso, puramente orizzontale, privo di profondità.

Naturalmente queste generalizzazioni hanno senso solo all’interno di una trattazione teorica. La mia esperienza con Stefano, ad esempio, le contraddice. Le sue emozioni, il suo entusiasmo sono assolutamente genuini: e li manifesta attraverso un mezzo che ama altrettanto genuinamente, e col quale riesce a mediare e a ricondurre ad unità quelli che parrebbero interessi sparsi. È anche lui un collezionista di immagini, tratte non dai libri ma dalle tante realtà ambientali e culturali che ha incontrato (l’altra sua passione sono i viaggi). L’elemento unificante è dato dalla costante ricerca della bellezza, intesa come la risultante del lavoro del tempo sui volti, sulle montagne, sui suk arabi, sugli animali africani o sui templi tibetani: di una bellezza che va sottratta alla svendita e al consumo in confezioni cellofanate, con tanto di bollino di conformità, e partecipata invece come condivisione emozionale attiva.

Lo stesso vale per le macerie. Anche nei loro confronti lo sguardo fotografico può essere caldo e partecipe, se a orientarlo c’è dietro un’intenzionalità etica. E questa non è necessario indossarla o metterla nello zaino quando si esce di casa come per partire in missione. Se c’è, se ci è congenita o se l’abbiamo maturata e coltivata, al momento giusto vien fuori. E magari riesce anche a far sì che le macerie diventino rovine, “si presentino – come scrive Augé – a chi le percorre come un passato che egli avrebbe perduto di vista, dimenticato, e che tuttavia gli direbbe ancora qualcosa.
Un passato al quale egli sopravvive”.