di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 6, maggio 1997
Vi proponiamo un testo che ci è parso esemplare di uno spirito aborrito dalla moderna pedagogia (e soprattutto dall’anti-pedagogia). A noi sembra bellissimo, sia letterariamente che come paradigma dell’unico vero rapporto possibile tra docente e discente. Chi ha la pretesa di insegnare deve far leva su una qualche abilità, congenita o acquisita, che gli garantisca il diritto di dettare le regole. Questa abilità ha da essere inerente non allo studio, ma alla “vita”, o meglio a ciò che è inteso come tale da chi dovrebbe ascoltare. Non è una condizione sufficiente, ma senz’altro è necessaria. Il resto, in genere, viene da solo.
L’autore del brano, Giovanni Mosca, era insegnante elementare negli anni ‘20. Ha lasciato una bellissima testimonianza di quel periodo nei “Ricordi di scuola”, che ci parlano di cose come l’amore per la propria funzione, la serietà, l’impegno, senza risultare stucchevoli o retorici. Quella di Mosca non è la scuola “possibile”, ma la scuola che è stata possibile e che mai si è realizzata. L’utopia di una scuola umana. Al confronto i vari Starnone, D’Orta e compagnia cantante si rivelano patetici giullari, che mentre si illudono di irridere il sistema con la demenzialità, titillano la stupidità di un pubblico che è già la caricatura di se stesso.
A proposito di demenza, Giovanni è il padre del famigerato Maurizio Mosca. Quando si dice la degenerazione della specie. Forse forse, Rousseau non fu così infame, ma solo preveggente.
Se non l’avessi sospirata per un anno, quella nomina, se non avessi avuto, per me e per la mia famiglia, una enorme necessità di quello stipendio, forse me ne sarei andato, zitto zitto, e ancora oggi, probabilmente, la V C sarebbe in attesa del suo domatore; ma mio padre, mia madre, i miei fratelli aspettavano inpazienti, con forchetta e coltelli, ch’io riempissi i loro piatti vuoti; perciò aprii quella porta ed entrai.
Improvvisamente, silenzio.
Ne approfittai per richiudere la porta e salire sulla cattedra. Seduti sui banchi, forse sorpresi dal mio aspetto giovanile, non sapendo ancora bene se fossi un ragazzo o un maestro, quaranta ragazzi mi fissavano minacciosamente. Era il silenzio che precede le battaglie.
Di fuori era primavera; gli alberi del giardino avevano messo le prime foglioline verdi, e i rami, mossi dal vento, carezzavano i vetri delle finestre.
Strinsi i pugni, feci forza a me stesso per non dire niente: una parola sola avrebbe rotto l’incanto, e io dovevo aspettare, non precipitare gli avvenimenti.
I ragazzi mi fissavano, io li fissavo a mia volta come il domatore fissa i leoni, e improvvisamente compresi che il capo, quel Guerreschi di cui mi aveva parlato il Direttore, era il ragazzo di prima fila – piccolissimo, testa rapata, due denti di meno, occhietti piccoli e feroci – che palleggiava da una mano all’altra un’arancia e mi guardava la fronte.
Si capiva benissimo che nei riguardi del saporito frutto egli non aveva intenzioni mangerecce.
Il momento era venuto.
Guerreschi mandò un grido, strinse l’arancia nella destra, tirò indietro il braccio, lanciò il frutto, io scansai appena il capo, l’arancia s’infranse alle mie spalle, contro la parete. Primo scacco: forse era la prima volta che Guerreschi sbagliava un tiro con le arance, e io non m’ero chinato: avevo appena appena scansato il capo, quel poco ch’era necessario.
Ma non era finita.
Inferocito, Guerreschi si drizzo in piedi e mi puntò contro – caricata a palline di carta inzuppata con la saliva – la sua fionda di elastico rosso.
Era il segnale: quasi tutti contemporaneamente gli altri trentanove si drizzarono in piedi, puntando a loro volta le fionde, ma d’elastico comune, non rosso, perché quello era il colore del capo.
Mi sembrò d’essere un fratello Bandiera.
Il silenzio s’era fatto più forte, intenso.
I rami carezzavano sempre i vetri delle finestre, dolcemente. Si udì d’improvviso, ingigantito dal silenzio, un ronzio: un moscone era entrato in classe, e quel moscone fu la mia salvezza.
Vidi Guerreschi con un occhio guardare sempre me, ma con l’altro cercare il moscone, e gli altri fecero altrettanto, sino a che lo scoprirono; e io capii la lotta che si combatteva in quei cuori: il maestro o l’insetto?
Tanto può la vista di un moscone sui ragazzi delle scuole elementari.
Lo conoscevo bene il fascino di questo insetto, ero fresco fresco di studi e neanch’io riuscivo ancora a rimanere completamente insensibile alla vista di un moscone.
Improvvisamente dissi:
– Guerreschi, – il ragazzo sobbalzò, meravigliato che io conoscessi il suo cognome – ti sentiresti capace, con un colpo di fionda, di abbattere quel moscone?
– È il mio mestiere – rispose Guerreschi, con un sorriso.
Un mormorio corse tra i compagni.
Le fionde puntate contro di me si abbassarono, e tutti gli occhi furono per Guerreschi che, uscito dal banco, prese di mira il moscone, lo seguì, la pallina di carta fece: den! contro la lampadina, e il moscone, tranquillo, continuò a ronzare come un aeroplano.
– A me la fionda! – dissi.
Masticai a lungo un pezzo di carta, ne feci una palla e, con la fionda di Guerreschi, presi, a mia volta, di mira il moscone.
La mia salvezza, il mio futuro prestigio erano completamente legati a quel colpo.
Indugiai a lungo, prima di tirare:
– Ricordati – dissi a me stesso – di quando eri scolaro e nessuno ti superava nell’arte di colpire i mosconi.
Poi, con mano ferma, lasciai andare l’elastico: il ronzio cessò di colpo e il moscone cadde morto ai miei piedi.
– La fionda di Guerreschi – dissi tornando immediatamente sulla cattedra e mostrando l’elastico rosso – è qui, nelle mie mani. Ora aspetto le altre.
GIOVANNI MOSCA