Naufragi con telespettatori

di Paolo Repetto, 5 novembre 2022

Suave, mari magno turbantibus Aequora Ventis
e terra magnum alterius spectare Laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse Malis Careas quia cernere suavest.

(È dolce, mentre nel grande mare i venti sconvolgono le acque,
guardare dalla terra la grande fatica di un altro;
non perché il tormento di qualcuno sia un giocondo piacere,
ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune.)

La metafora con la quale Lucrezio apre il secondo libro del De rerum natura ha conosciuto una grande fortuna, ed è arrivata a noi con un lungo viaggio attraverso la letteratura (ricordo solo Ariosto e Benjamin, ma quanto a naufragi – i propri – anche Leopardi non scherza), l’arte (ad esempio, “Il Naufragio” di Turner, “Tempesta a Belle-Ile” di Monet, “La grande Onda” di Hokusai), la musica (“La tempesta di mare” di Vivaldi, il primo atto dell’Otello di Verdi, ecc.). In realtà non era tutta farina del sacco di Lucrezio: il suo contemporaneo – e curatore editoriale – Cicerone accenna ad una immagine simile che compariva in una tragedia perduta di Sofocle, anche se il senso non era esattamente lo stesso. Il frammento di Sofocle infatti dice: “Oh quale maggiore piacere può esservi che, toccata la terraferma e sotto un tetto, udire con i sensi assopiti cadere fitta la pioggia”. Lo stesso vale per un paio di versi superstiti del semisconosciuto Archippo: “Com’è dolce guardare il mare dalla terra, non dovendo navigare”. La versione circolante in Grecia già cinque secoli prima è dunque in apparenza meno insensibile alle sofferenze altrui di quella di Lucrezio (in apparenza, perché il poeta latino non voleva affatto esprimere un atteggiamento di egoistica indifferenza): là il naufragio non era neppure nominato, forse per scaramanzia, e comunque a incombere, a costituire una malaugurata possibilità era quello proprio, non l’altrui. Cicerone, che non a caso era un avvocato, portato alle interpretazioni più maliziose, scrive invece (ad Attico) “Desidero contemplare da terra il naufragio di costoro, come disse il tuo amico Sofocle”, chiamando Sofocle a testimoniare e ad avallare con la sua autorevolezza un pensiero che era in realtà molto più prossimo al detto confuciano “Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”.

A me interessa però, al di là delle interpretazioni, l’attualità di quella immagine, che oggi non è più soltanto metaforica. Siamo infatti quotidianamente spettatori, stando al riparo di un tetto e seduti su un comodo divano, di naufragi reali o di altri accidenti che ai naufragi sono apparentabili, sia la natura o siano gli uomini a provocarli: ma lo facciamo con atteggiamento sofocleo, questo si, coi sensi assopiti, intorpiditi dal profluvio di altrui disgrazie che ci viene riversato addosso. E siamo ormai talmente assuefatti da non accorgerci che in mezzo al mare in tempesta ci siamo anche noi, sballottati qua e là dalla potenza della tecnica e più ancora da quella del capitale, e contemporaneamente incapaci di distogliere lo sguardo dal teleschermo, di guardarci attorno senza farci irretire da ogni sorta di illusionisti. Come gli spettatori pirandelliani siamo direttamente coinvolti nella vicenda, ma non abbiamo la minima idea della parte che stiamo recitando.

Naufragi con telespettatori 02

A giocare con le metafore ci si prende gusto: e allora vado fino in fondo. Ce n’è appunto una sulla vita come teatro che a mio giudizio rende a pennello la nostra situazione, ed è riportata da Kierkegaard in Enter-Eller: “In un teatro scoppiò un incendio dietro le quinte. Un clown uscì sul palcoscenico e avvisò il pubblico. Gli spettatori pensarono che si trattasse di uno scherzo e applaudirono. Il clown ripeté l’annuncio, con sempre maggior divertimento dei presenti. È così, immagino, che il mondo finirà distrutto: tra l’ilarità generale dei buontemponi, convinti che sia tutto un gioco”.

È un’immagine perfetta: il mondo che va a fuoco, l’umanità spettatrice che pensa sia una barzelletta, il giornalista-clown che ha talmente abituato gli spettatori al falso o all’inutile da non essere più preso sul serio. (Kierkegaard ce l’aveva a morte coi giornalisti. Scriveva anche: “Se Cristo venisse oggi sulla terra, com’è vero che io vivo, non prenderebbe di mira i sommi sacerdoti, ecc. – ma i giornalisti …”. Aveva capito tutto).

Ma torniamo alla metafora di Lucrezio. In effetti il suo atteggiamento un po’ egoistico lo è: come dice lui stesso, le disgrazie altrui non sono affatto piacevoli, ma ti danno un’idea di quel che ti stai scansando. E questo probabilmente, ai suoi tempi, un po’ di consolazione l’arrecava. Oggi però è molto più difficile pensarci immuni da qualsivoglia pericolo: lo abbiamo già constatato sulla nostra pelle con la recente pandemia, ne abbiamo la riprova oggi con la guerra che è tornata a giocarsi alle porte di casa nostra, cominciamo persino ad accorgerci che i problemi ambientali e i cambiamenti climatici ci toccano tutti indifferentemente. E tuttavia, anche di fronte a quelli che non sono più solo segnali, ma realtà che incidono profondamente sulla nostra esistenza, sembra che la consapevolezza del nostro coinvolgimento sia ancora ben lontana. Ci pensiamo ancora spettatori sulla riva e tiriamo un sospiro di sollievo, come se il carico di disgrazie elargite dagli dei agli uomini rispettasse delle quote fisse, e a noi fosse risparmiato ciò che cade sugli altri.

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Nel bellissimo libro Davanti al dolore degli altri Susan Sontag cita un piccolo saggio in forma di lettera pubblicato nel 1938 da Virginia Wolf, Le tre ghinee. In questo saggio la Woolf faceva riferimento alle immagini che testimoniavano la distruzione fisica e la carneficina disumana provocate dalla guerra civile spagnola, immagini che le venivano recapitate dal fronte repubblicano quasi quotidianamente. Secondo la Woolf “la macchina bellica ha un genere sessuale”, e quel genere è maschile: la guerra è uno sport praticato dai maschi, per cui la scrittrice confessava di sentirsi quasi impotente. Ma evocando la condivisione delle stesse terribili immagini – “stiamo guardando insieme gli stessi corpi privi di vita, le stesse case in macerie” – riteneva che queste fossero talmente scioccanti da affratellare le persone di buona volontà, da far loro superare ogni divario di genere relativo alla guerra e alla violenza. Credeva insomma che venire a contatto col dolore, sia pure attraverso la sua rappresentazione, non potesse lasciare indifferente nessuno.

La Sontag, che ha scritto il suo libro nel 2003, sessantacinque anni dopo quello della Woolf – sessantacinque anni che hanno visto una guerra mondiale e un continuum interrotto di conflitti locali, guerre civili, azioni terroristiche, a bassa intensità ma ad altissimo numero di vittime – va oltre la diversa percezione di quelle immagini secondo l’angolatura di genere. Il problema sta per lei ancora a monte. Intanto, si chiede, cosa ci motiva veramente a ritrarre la sofferenza e l’orrore? E quali sentimenti suscita nello spettatore la loro “riproduzione”? E quest’ultima è poi davvero possibile, senza che nel trasferimento all’immagine vada persa la verità terribile di quanto è rappresentato? E ancora, come evitare che si crei l’assuefazione, o peggio, un morboso compiacimento davanti a queste rappresentazioni? Il fatto è, dice Sontag, che da una immagine di guerra siamo toccati, ma non ci sentiamo mai direttamente coinvolti: non ci sentiamo investiti di una responsabilità diretta. E al di là del livello di coinvolgimento, l’interpretazione delle immagini diventa una questione soggettiva, e stante la molteplicità degli usi cui esse possono essere piegate diventa anche un atto politico. Tanto più nell’epoca dei social network, nella quale la loro diffusione è sterminata e incontrollata.

Con tutto ciò, scrive la Sontag, le raffigurazioni “indecenti” della sofferenza e della morte violenta hanno un valore pari a quello dell’esperienza diretta. Sono testimonianze che non potremmo acquisire in alcun altro modo, e quindi, a dispetto anche degli effetti di saturazione che il loro moltiplicarsi produce, conservano un forte valore etico.

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Mi verrebbe spontaneo non essere d’accordo, perché sto pensando all’uso spregiudicato, per non dire turpe, che viene fatto nelle pubblicità televisive delle immagini di bambini denutriti, svantaggiati, malati: ma poi devo ammettere che persino quelle, malgrado il loro intento di creare sensi di colpa da tacitare con le donazioni sia così spudoratamente scoperto, e a dispetto del fastidio col quale le respingiamo, un qualche effetto lo producono: la sofferenza di un altro, la pioggia fitta che cade là fuori, alla fine nel profondo ci toccano.

Perché però allora rimaniamo seduti sul divano, ipnotizzati dal teleschermo, sforzandoci di credere che la distanza di quelle immagini ci garantisca per il momento un po’ di sicurezza (solo qualche anno ancora, per gli anziani come me), o fingendo di accettare fatalisticamente la perdita di ogni disegno per il futuro?

Lo lascio spiegare con un’altra metafora da Hans Blumernberg, l’autore di Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza (dal quale ho evidentemente saccheggiato il titolo di questo intervento e gran parte delle citazioni iniziali). È una prosecuzione e un adattamento all’oggi di quella da cui sono partito.

Quello di Lucrezio è per Blumernberg uno dei due possibili atteggiamenti di fronte al gioco ciclico, incessante e imperscrutabile, della creazione e della distruzione della natura. È l’atteggiamento epicureo di chi dall’alto della sua superiore conoscenza può guardare con distacco agli affanni e i turbamenti altrui, e non esserne travolto.

Il fatto è che ormai ci troviamo a vivere in un’epoca nella quale le rotte salvifiche delle ideologie e delle religioni e i porti sicuri delle filosofie cui approdare sono scomparsi dalle mappe. Oggi annaspiamo costantemente in un mare in tempesta, la nave non regge e dal naufragio possiamo salvarci solo aggrappandoci a una tavola. Per Blumenberg dobbiamo quindi “farci una nave con i resti del naufragio” (è anche il titolo di un capitolo del libro): il tavolame che abbiamo a disposizione è costituito solo dalla scienza: “Si deve costantemente tener conto che si è alla deriva; da lungo tempo non è più questione di navigazione e di rotta, dello sbarco e del porto. Il naufragio ha perduto la sua azione-quadro. Ciò che deve essere detto è: la scienza non fornisce quello che i desideri e le pretese avevano tradotto in aspettative ad essa rivolte; ma quella che essa fornisce, non può essere essenzialmente superato e basta alle esigenze della conservazione della vita. […] Con la teoria della selezione naturale Darwin avrebbe offerto la possibilità, perlomeno di aggirare l’ipotesi di un finalismo immanente della creazione organica. […] La tavola è il massimo che si può pretendere dalla situazione di autoiniziativa immanente dell’uomo tramite la scienza”. (Naufragio con spettatore, pp. 105-06)

A pensarci bene, prescindendo naturalmente da Darwin, non è poi molto diverso da quanto diceva Lucrezio. Per il quale, tra l’altro, già dalla nascita l’uomo si ritrova nella condizione del naufrago: “il bambino, come un naufrago gettato a riva dalle onde infuriate, giace in terra nudo” (De Rerum Natura, V vv. 222 ss) e tutte le forme della natura possono essere paragonate a rottami scagliati sulla riva (“ma – come, quando sono avvenuti molti e grandi naufragi,/ il vasto mare suole gettare qua e là banchi, costole di nave,/antenne, prore, alberi e remi galleggianti,/sì che lungo tutte le spiagge si vedono fluttuare/aplustri e dare ai mortali ammonimento/a volere evitare le insidie del mare infido/ e le violenze e il suo inganno, e a non credergli mai”, De Rerum Natura, II vv. 550 ss)

D’altro canto, a mio parere nemmeno Lucrezio conserva sino in fondo l’imperturbabilità del saggio epicureo: il fatto stesso di scrivere un libro a carattere scientifico-divulgativo implica che sia impegnato a fare luce sul destino dell’uomo, e a farne partecipi gli altri. Insomma, non si trasforma da spettatore in protagonista, ma dimostra che anche chi contempla la realtà non può esimersi dal viverla in prima persona. “La ragione può fare dell’uomo lo spettatore di ciò che egli stesso patisce, facendo sì che domini da ogni parte con lo sguardo la vita nel suo complesso” scriveva Schopenhauer. E Lucrezio in effetti può essere considerato a pieno titolo un poeta della ragione, perché ritiene che attraverso la ragione l’uomo sia in grado di lottare contro il caso e di farsi artefice del suo destino. A dispetto di tutto il suo distacco, “sente” di non essere al sicuro, ma di viaggiare sulla stessa barca con gli altri. E allora, proprio perché “Si salva, probabilmente, non chi contempla la rovina altrui, ma chi soffre e spera insieme agli altri, chi considera fattivamente gli uomini non come individui lontani e indifferenti, bensì come prossimi e fratelli” il suo atteggiamento sfuma nella seconda possibilità, quella di mettersi per mare e di prendere parte emotivamente ed empaticamente alla navigazione.

Mi chiedo solo adesso perché mai mi sono messo a scrivere queste cose. Non era un argomento che urgesse. Ma a volte mi prendono delle strane malinconie. In questo caso è un cerchio che si chiude. In una noterella buttata giù almeno quarant’anni fa, concernente la “genialità”, affermavo che la caratteristica che distingue il genio è la capacità di dire: “Ma cosa volete da me?” É una caratteristica che non ho mai posseduta, e infatti non sono un genio. In tutto questo tempo non ho cambiato idea, e ho anche consolidato la convinzione che la qualità cui davvero ho sempre aspirato, l’ironia, non ha niente a che fare con il genio. Nessuno è meno ironico (e soprattutto, autoironico) di un genio, così come io sono ben lontano dall’atarassia epicurea. Eppure, continuo a pensare che persino Lucrezio, che indubbiamente un genio lo era, non fosse poi così distaccato ed egoista. Ci ha lasciato in dono un’opera che è un capolavoro, ma soprattutto è la tavola giusta cui aggrapparsi: e questo è più che sufficiente a farmelo sentire vicino.

Altruista sarà lei!

di Nicola Parodi e Paolo Repetto, 10 dicembre 2020

Per l’evoluzione non è importante essere intelligenti,
ma agire in modo intelligente[1].

In un precedente intervento (“La morale e le favole”) Nico Parodi ha elencato una serie di “postulati” (che non sono verità rivelate, ma “strumenti affidabili di lavoro”), da usarsi come base di partenza per approfondire la riflessione sul “come siamo arrivati qui”. Sottolineo il “come”, in quanto il “perché” ci porterebbe subito su un piano delicato, nel quale gli strumenti indicati da Nico tendono a trasformarsi in armi ideologiche a molteplice taglio. D’altro canto, crediamo entrambi fermamente che il nostro problema (“nostro” è riferito a coloro che le domande fondamentali se le pongono, e aspirano ad una conoscenza che non sia solo di superficie) stia proprio nella inveterata confusione tra i due avverbi, quella a cui aveva cercato di ovviare già un paio di secoli fa il buon Kant: possiamo legittimamente sforzarci di capire “come” funzionano sia la nostra mente che il mondo in essa riflesso, ma se ci chiediamo il “perché” sconfiniamo nella metafisica. La confusione purtroppo permane, e non perché il monito di Kant non fosse chiaro, ma per la nostra ostinazione a cercare un senso e uno scopo là dove non esistono (e se esistessero sarebbero comunque al di fuori della nostra portata). Il senso, lo scopo, siamo chiamati a conferirlo noi, e possiamo farlo solo partendo da una conoscenza la più ampia e approfondita possibile dell’ambiente naturale in cui viviamo, dei fenomeni che lo hanno trasformato e che continuano a farlo, dei processi evolutivi che ci hanno condotti a diventare, da animali inconsapevoli, esseri che si pongono le domande.

Il compito di rispondere a queste ultime è demandato alla “scienza”, che è appunto l’attività conoscitiva indirizzata a decifrare il “come”. Ciò non toglie che tutte le possibili direzioni di ricerca siano comunque connesse a un retropensiero metafisico, ovvero che ad ogni nostra indagine sia sottesa la domanda sulla motivazione, prima ancora che quella sulla causa. Ma nel caso della scienza possiamo far conto su un buon margine di obiettività: la scienza indaga su fatti (situazioni compiute) o su eventi (situazioni in essere), non su delitti. E in natura non si trovano motivazioni, ma risposte adattive a stimoli o a trasformazioni (per quella organica) e relazioni di causa ed effetto (per quella inorganica). Dovremmo imparare ad accontentarci di conoscere e chiarire queste, e fermarci sull’orlo di quella presunzione che secondo i nostri progenitori (che sul “come” erano – giustamente – ancora parecchio confusi, ma sugli azzardi del “perché” avevano già le idee molto chiare) è costata a Lucifero e compagni la caduta.

 

Le considerazioni proposte nell’intervento precedente da Nico e in questo nostro sono frutto del dialogo serrato e stimolante che abbiamo avviato negli ultimi mesi, riprendendo una consuetudine risalente addirittura a cinquantacinque anni fa, quando sedevamo nello stesso banco al liceo. Le strade diverse che abbiamo poi percorso, le scelte di studio e quelle lavorative, i modi e i luoghi dell’impegno politico e sociale, ci hanno tenuti lontani per un sacco di tempo, ma ci hanno condotto alle stesse convinzioni, a maturare un identico sguardo sulla vita in generale e sugli uomini in particolare. Ho voluto sottolinearlo perché la cosa mi sembra emblematica: se hai introiettato la lezione kantiana puoi prendere i sentieri che vuoi, viaggiare a piedi, a vela o a motore, ma alla fine approdi comunque alla stessa spiaggia. Ed è confortante trovarti in buona compagnia. Ti ridà la carica per proseguire con nuova convinzione nel viaggio. (P. R)

È trascorso un bel po’ di tempo da quando stavamo nello stesso banco. Di quel periodo non è possibile, per noi che si arrivava da paesi ancora totalmente immersi nella cultura contadina, non ricordare la scoperta dell’esistenza di mondi culturali diversi e sorprendenti. Con la curiosità e la voglia di apprendere il nuovo propria degli adolescenti (di quel tempo?, ci si confrontava su tutto, senza timore di affrontare argomenti che andavano ben oltre le nostre competenze. Ora, avendo introiettato come dice Paolo la lezione kantiana, dopo oltre mezzo secolo di studi e letture che hanno almeno parzialmente colmato le lacune, torniamo ugualmente motivati, più carichi d’anni ma anche più ricchi di esperienze, a rivivere quel confronto. Le considerazioni che proponiamo ne sono il primo frutto. (N.P.)

Riprendiamo dunque il discorso là dove Nico lo aveva interrotto la volta scorsa (e quindi, quanto segue va letto avendo presenti i “postulati” che aveva individuati in “La morale e le favole”). Lo facciamo proponendo un’ulteriore considerazione, che non era stata anticipata perché proietta quelle precedenti in uno scenario nuovo, andando a verificarle nella realtà storica (per essere più precisi, nella preistoria). I “postulati” riguardavano l’idea di morale e il suo riflesso sulla cooperazione (ma anche sulla competizione) in seno ad un gruppo. Vediamo se e come trovano conferma nei fatti.

Da un certo periodo in poi (diciamo tra i quindici e i cinquemila anni fa) al nomadismo legato all’economia di caccia e raccolta si è progressivamente sostituita una stanzialità connessa alle prime forme di domesticazione delle piante. La transizione non è stata incruenta, e ha lasciato traccia nelle narrazioni mitologiche di tutti i popoli, a partire da quella biblica del conflitto tra Caino coltivatore stanziale e Abele cacciatore-allevatore nomade. Ora, la domanda che ci poniamo è se il passaggio all’agricoltura abbia migliorato le condizioni di vita e di salute dei nostri antenati[2], o se invece non le abbia addirittura peggiorate (come appunto sosterrebbe la Bibbia), incidendo in negativo anche sulla libertà e sull’equità. La risposta oggi più accreditata (dalla paleontologia, oltre che dalle Scritture) è la seconda, anche se il tema è ancora parecchio controverso, soprattutto perché il dibattito è troppo spesso falsato da coloriture ideologiche. I dati dei quali siamo in possesso ci dicono che il passaggio da una dieta mista, carnivora e vegetariana, ad una basata essenzialmente sui cereali provocò un forte abbassamento degli standard alimentari, con una serie di conseguenze negative evidenziate dagli studi antropologici: riduzione dell’aspettativa di vita, significativa diminuzione dell’altezza media, carenze vitaminiche, e quindi maggiore mortalità infantile, diffusione delle malattie infettive e delle patologie degenerative delle ossa. Insomma, un quadro tutt’altro che confortante, che spiega come mai per diversi millenni, malgrado la produzione agricola fosse in grado di supportare una densità maggiore di popolazione e di creare riserve per i periodi di carestia, il tasso di crescita della popolazione mondiale sia pressoché rimasto stabile. Diciamo che si può affermare senza troppe esitazioni che gli agricoltori avevano condizioni di vita peggiori dei cacciatori raccoglitori.

A noi qui comunque interessa vedere che conseguenze ebbe il passaggio all’agricoltura sulla “morale sociale”. Va chiarito che questo ha a che vedere molto marginalmente con la discussione tuttora vivace su un aumento o meno della conflittualità tra gruppi e dell’attitudine interspecifica alla violenza. Ci sembra scontato che una maggiore densità demografica crei più occasioni di conflitto, mentre i recenti ritrovamenti di fosse comuni che risalgono a trentamila anni fa e che contengono i resti di individui barbaramente trucidati stanno a testimoniare come anche quella dei cacciatori-raccoglitori fosse una cultura tutt’altro che pacifica. Per “morale sociale” intendiamo dunque quella che ispirava e regolava i rapporti all’interno dei singoli gruppi, fermo restando poi che poteva essere eventualmente estesa ad altri gruppi, attraverso vincoli matrimoniali o convenienze collaborative.

La cosiddetta “rivoluzione neolitica” è avvenuta gradualmente, in tempi diversi e con processi autonomi nelle diverse aree, innescati in genere dall’esaurimento delle risorse di caccia conseguente un eccessivo sfruttamento, il restringimento del raggio d’azione di ciascun gruppo o un significativo cambiamento del clima. Questa rivoluzione ha comunque stravolto le modalità di acquisizione del cibo e ha modificando in modo pesante i valori su cui si basava la collaborazione (come vedremo nei punti successivi). In sostanza, gli “strumenti morali” prodotti nel corso dell’evoluzione non erano più rispondenti ai modelli di distribuzione e di cooperazione che si accompagnavano all’avvento delle società agricole. Condizioni di vita come quelle determinate dal passaggio all’agricoltura mettevano a dura prova l’istinto collaborativo, anche se questo non è mai venuto meno del tutto, in quanto la cooperazione rimaneva comunque necessaria per difendersi dalle scorrerie dei nomadi o dall’espansionismo di gruppi rivali (ma anche, al contrario, per guadagnare nuovo spazio alla coltivazione), e per la conservazione e la trasmissione di particolari contenuti culturali. In sintesi: per centinaia di migliaia di anni sono stati selettivamente premiati dei comportamenti collaborativi (quelli di cui si parlava in “La morale e le favole”) che poi, al mutare del regime economico, non avevano più una ragione evolutiva di essere.

Il cambiamento cui ci riferiamo è comunque avvenuto da troppo poco tempo per lasciare tracce genetiche estese e profonde nell’umanità. La mutazione “culturale” originata dalla trasformazione dell’economia (con la divisione specialistica del lavoro, la nascita di reti commerciali e di convenzioni sui valori di scambio, lo sviluppo della proprietà privata) ha generato nel corso degli ultimi dieci millenni modelli sociali (gli insediamenti ad alta densità di popolazione, la struttura gerarchica, la creazione di élites) e istituzionali (amministrazione centralizzata, organizzazioni politiche) totalmente sconosciuti in precedenza alla specie. Ma al contrario di quelli culturali, che hanno viaggiato al ritmo di una accelerazione costante (e hanno conosciuto una vera impennata negli ultimi due secoli), i meccanismi evolutivi procedono silenziosamente e lentamente: potrebbero essere attualmente al lavoro per modificare la nostra predisposizione alla collaborazione, ma – a meno di interventi di ingegneria genetica, sui cui esiti nutriamo più timori che dubbi – avranno necessità di altre centinaia di generazioni per ridisegnare significativamente il nostro corredo cromosomico. Il che significa che stiamo per entrare, o meglio, siamo appena entrati in una fase di anatra zoppa, per dirla all’americana, con la natura e la cultura che spingono in direzioni opposte.

Il fatto è che l’incongruenza fra i nuovi modi di produzione e i vecchi meccanismi morali selezionati evolutivamente, oltre che creare attriti fra gli individui, può innescare un meccanismo che inverte il processo di “autodomesticazione”[3]. Non stiamo mettendo in dubbio il successo dell’agricoltura nell’aver permesso, nel tempo, una maggiore disponibilità di cibo (e cibo = energia: diventare consumatori primari consente di saltare un passaggio nella catena alimentare, un buon vantaggio, considerando che ogni passaggio nella catena comporta una perdita dell’energia del 90%), ciò che ha consentito l’aumento della popolazione e un avanzamento culturale altrimenti impensabile: ma intendiamo dire che il nuovo modo di produzione ha messo in discussione gli strumenti morali che regolavano i rapporti tra gli individui, e che il risultato di questa sfasatura è stato in molte parti del mondo la trasformazione di modelli basati sulla cooperazione altruistica e sulla sostanziale uguaglianza fra gli appartenenti al gruppo in un modello di società, quella che oggi conosciamo, nella quale l’equità nella distribuzione delle risorse lascia molto a desiderare (l’un per cento della popolazione mondiale detiene e sfrutta oltre il cinquanta per cento delle risorse). Questo induce un’altra serie di considerazioni:

  • Intanto ci permette di valutare l’efficienza o meno di organizzazioni socioculturali che contrastano con le radici biologiche dei nostri comportamenti morali. La crescita demografica umana era indubbiamente iniziata (sia pure con una progressione lentissima) già prima della comparsa dell’agricoltura, favorita dalla conquista di sempre nuove aree di sfruttamento a spese di altre specie o di rami collaterali dell’ominazione. Le regole morali avevano quindi dovuto essere integrate culturalmente, per rispondere prima appunto all’aumento della popolazione e alla conseguente organizzazione tribale e poi al mutamento del modo di produrre cibo e alla specializzazione delle attività. Nel corso di questo processo di “culturizzazione” della morale il senso dell’equità, che attraverso l’evoluzione selettiva si era connaturato tanto da manifestarsi spontaneamente nell’infanzia, è stato messo a dura prova dagli squilibri nella distribuzione dei beni e dalla difficoltà nell’isolare i profittatori. In sostanza, in una organizzazione che favoriva il cumulo delle ricchezze (terre, immobili, averi) e una polarizzazione verticale del potere, i prepotenti, anziché essere isolati e puniti, hanno trovato col tempo il modo di giustificare le loro angherie, e il meccanismo di premio/punizione in molte comunità ha cambiato di segno, ad esempio punendo chi non accettava l’imposizione.

 

  • Ciò non significa affermare che “prima” i rapporti all’interno dei gruppi fossero idilliaci. Semplicemente, si davano meno occasioni di competere e più motivazioni a cooperare. La “morale sociale” nasceva da queste condizioni, dalla selezione adattiva degli individui con maggiore attitudine alla collaborazione e alla reciprocità. Venute meno queste condizioni, le carte si sono sparigliate. In qualsiasi società si scontreranno sempre l’interesse del singolo individuo e l’interesse del gruppo. Le differenze individuali esistono; preso atto che ci sono individui più intraprendenti ed attivi o abili in certe attività e che queste sono qualità utili, non funziona correttamente un meccanismo sociale che non ne riconosca l’utilità per il gruppo. Ma la cultura di società complesse è frutto appunto della storia di quel gruppo e di tutti (o quasi) i suoi componenti; senza questi contributi nessuno, per quanto intraprendente ed abile, riuscirebbe in qualunque impresa che vada oltre una difficilissima sopravvivenza.
    L’oggettività del fatto che la cultura – e la sua conservazione – sono prodotto della società e non dei singoli, rende fragili le basi del presunto “diritto naturale” sul quale si basa il capitalismo. Detto molto schematicamente, questo diritto si fonda sulla convinzione che la ricchezza prodotta sia merito pressoché esclusivo delle capacità imprenditoriali soggettive (gli altri fornirebbero solo forza lavoro), il che legittimerebbe l’imprenditore a trattenere tutta la ricchezza prodotta. La maggior parte delle società moderne assegna la funzione premiale quasi esclusivamente all’arricchimento, dando scarsa o nessuna importanza ad altri possibili meccanismi; è senza dubbio più facile far agire gli uomini utilizzandone i vizi (interessi egoistici individuali, espressioni del conflitto fra interesse a riprodursi come singolo fenotipo e necessità di collaborare[4]) piuttosto che far leva sulle spinte alla collaborazione che si sono evolute nel tempo. Per questo è necessaria una discussione più che approfondita per capire fino a che punto un tale riconoscimento in positivo dell’individualità può essere accettato senza mettere in crisi gli “strumenti” morali collaborativi indispensabili al benessere del gruppo, dal quale dipende quello del singolo. Studiosi di neuroscienze e di scienze cognitive, con estrema cautela, iniziano ad interrogarsi/ci sul libero arbitrio e su quello che ne consegue, ad esempio in termini di giustizia e funzione della pena[5].

 

  • Quindi: la morale che utilizziamo si è storicamente strutturata in modo piramidale, con le parti più vecchie che sono sostanzialmente integrate nel patrimonio genetico. E allora non è sensato imporre norme che entrino in contrasto con le strutture morali più antiche. Nico ricorda che quando iniziò l’epidemia di AIDS c’era chi si poneva il problema della ricaduta che la paura del contagio avrebbe avuto sui rapporti sociali. I “progressisti” più radicali parlavano di istituire l’obbligo per tutti i genitori di mandare i figli a scuola in ogni caso, in nome di una morale “superiore”, per evitare discriminazioni nei confronti dei bimbi contagiati o figli di contagiati. Dal suo punto di vista la proposta era insensata, perché contrastava con l’istinto di protezione dei genitori, e nel caso fosse stata approvata era destinata a creare reazioni fero oci, oltre che la fuga da certe scuole. Riteneva anche che avrebbe indotto la maggioranza dei cittadini a punire politicamente qualsiasi schieramento la sostenesse.
    Un atteggiamento del genere è stato adottato, all’inizio dell’epidemia da coronavirus, dai “moralisti laici”, che censuravano ogni gesto che potesse sembrare discriminatorio nei confronti dei cinesi. Certo, la discriminazione spaventa per principio, ma in quel frangente chi se la sarebbe sentita di criticare una mamma con un bambino che incrociando un italiano di origine cinese, magari mai stato in Cina in vita sua, si fosse spostata istintivamente sull’altro marciapiede? Non si vuol dire che un gesto simile fosse razionale e corretto: stiamo solo prendendo atto che in quel frangente, e considerando anche il tipo di informazione confusa che arrivava (non che ora sia più chiara, ma abbiamo forse un po’ imparato a difenderci da soli: e infatti cambiamo marciapiede comunque, senza più fare discriminazioni su base etnica), era la risposta naturale, basata su una “morale sociale” ancestrale, ad un rischio per la sopravvivenza.

  • Uno dei prodotti culturali di maggior successo sono le credenze religiose e i culti comparsi nella preistoria e nelle successive epoche storiche, in risposta a esigenze e situazioni diverse. Secondo alcuni studiosi le religioni “moralizzatrici” sono nate quando le società avevano già raggiunto una popolazione ragguardevole: non hanno quindi contribuito alla nascita di società più numerose, ma sono piuttosto un portato di queste ultime. Questo significa che i caposaldi attorno ai quali si è poi articolato il nostro “sentimento morale” cooperativo risalgono a periodi precedenti quelli della comparsa delle religioni strutturate: e che queste ultime hanno semmai “consacrato” delle attitudini che erano già presenti negli umani pre-storici e che erano frutto dell’evoluzione naturale selettiva. In tal senso la predicazione cristiana dell’amore universale e il tabù induista dell’uccisione delle vacche sacre istituzionalizzano dei principi rispondenti, sia pure in maniera diversa, alle stesse finalità di sopravvivenza del gruppo. Non intendiamo comunque qui dare giudizi sull’utilità dimostrata in passato dalla religione, e consideriamo per quel che ci riguarda la tendenza religiosa un “effetto collaterale” dello sviluppo del cervello: ma vorremmo soffermarci a considerare se le religioni abbiano o meno ancora una funzione, in società che hanno raggiunto il livello culturale e tecnologico della nostra.
    Non c’è bisogno di essere degli appassionati di storia per richiamare alla memoria le guerre fatte o giustificate in nome della religione. Ne abbiamo purtroppo ancora testimonianza quotidianamente. In particolare, sono state molto attive in questo senso le tre religioni monoteiste, che con i loro libri sacri e le loro verità rivelate non accettano “l’empio orgoglio di Homo sapiens di decidere da sé nella vita collettiva e individuale”. È quindi indubitabile che le religioni hanno sempre pesantemente ostacolato la libertà di pensiero. Considerandole ora alla luce della funzionalità evolutiva, le religioni fondate sull’esistenza di una verità rivelata non funzionano più, sono diventate un ostacolo all’espandersi delle conoscenze, delle libere scelte e della convivenza cooperatrice. E quando affermano di non voler imporre nulla ai non credenti, lo dicono solo perché non sono più in grado di farlo.
    Ora, noi siamo però rimasti ancorati ad un concetto di difesa della libertà religiosa che ha avuto un senso fino a che la religione è stata in grado di imporre le sue verità. In quelle condizioni affermare che ciascuno aveva diritto di praticare la sua di religione, ovvero di credere a quello che riteneva giusto, era funzionale al libero pensiero e all’affermarsi della razionalità. Oggi, al contrario, permettere la divulgazione di credenze irrazionali mette a rischio la sopravvivenza dei principi su cui la libertà di pensiero si basa, i soli in grado di garantire la convivenza.
    E qui nasce un problema. Come la mettiamo allora con le religioni storiche? Mettere in discussione la libertà religiosa sembra infatti rappresentare una contraddizione, una violazione di quelle stesse libertà che si vuole continuare a garantire. Quindi di norma riteniamo che ogni professione religiosa vada rispettata, fatta salva naturalmente la clausola della reciprocità. Quando invece parliamo di fenomeni come quelli rappresentati dagli antievoluzionisti, dai no-vax, dai terrapiattisti, dai banditori di teorie le più strampalate, ma più in generale dalle varie “religioni laiche” che prosperano nel vuoto lasciato da quelle tradizionali, non abbiamo problemi a liquidare queste cose come idiozie, e come idioti pericolosi che andrebbero fermati i loro sostenitori: e un tale atteggiamento non lo consideriamo affatto liberticida. Questo perché in noi quello che abbiamo definito un “effetto collaterale” continua ad esercitare la sua influenza, e siamo almeno emozionalmente più vicini a chi cerca soluzioni del tipo religioso tradizionale.
    Per superare quella che può apparire una contraddizione è necessario dunque distinguere. In realtà le due cose, le religioni tradizionali e le nuove “religioni laiche” che si stanno affermando, pur nascendo da uno stesso bisogno di spiegazioni “metafisiche”, non sono affatto equiparabili: perché le prime, al netto delle strumentalizzazioni politiche ed economiche di cui sono state oggetto e malgrado il distacco dai fondamenti morali originari, rappresentano, o almeno hanno rappresentato, un rafforzamento dell’etica sociale, mentre le seconde preludono (ma potremmo ormai dire, conseguono) a un cambiamento sostanziale dei valori morali di fondo, ovvero al rigetto di quelli creati dall’evoluzione. Le prime in sostanza facevano leva sull’altruismo come cemento del gruppo (ciò che vale anche per le loro versioni secolarizzate, marxismo compreso), le altre favoriscono l’atomizzazione sociale e vellicano gli egoismi individuali. E quindi, mentre per le une, almeno in linea teorica, potrebbe anche essere ipotizzabile un ritorno alla valenza sociale originaria, proprio in ragione della loro decrescente rilevanza economica e politica (con l’eccezione dell’Islam, che costituisce un capitolo a parte), per le altre il discorso del ripristino di una “morale sociale” è chiuso in partenza.

 

  • Ma allora, alla luce di quanto abbiamo visto sin qui, del conflitto millenario tra una morale indotta dal meccanismo evolutivo e una di matrice essenzialmente culturale (cosa intendiamo in questo contesto per “cultura” dovrebbe ormai essere chiaro), in che direzione evolverà l’attuale modello “ibrido”? Senza voler giocare agli indovini, si possono almeno ipotizzare degli scenari. Il dato dal quale non possiamo prescindere è che non sono affatto venute meno le pressioni ambientali che avevano indotto lo sviluppo di una morale cooperativa. Dopo una breve stagione nella quale una parte almeno dell’umanità si era illusa di tenerle sotto controllo, o semplicemente se ne era dimenticata in nome delle “magnifiche sorti e progressive”, e aveva inaugurato una presunta “liberalizzazione” morale, quelle pressioni si ripresentano oggi nel formato globale: polluzione demografica, degrado ambientale, sconvolgimenti climatici, esaurimento delle risorse a causa di uno sfruttamento scriteriato, sono problemi che toccano ora direttamente e contemporaneamente più di sette miliardi di umani, e ai quali non si può ovviare come un tempo semplicemente spostandosi altrove. Il conto che la natura ci sta presentando è salato. A fronte di questo, le ipotesi prospettabili si riducono in linea di massima a tre.
    La prima, la più probabile perché in continuità diretta con ciò che già abbiamo sotto gli occhi, è che si continui a non prendere atto dell’evidenza, e l’umanità prosegua allegramente verso il baratro, applaudendo e ridendo come gli spettatori del teatro in fiamme raccontati da Kierkegaard. In tal caso gli scenari futuri non sarebbero molto diversi né da quelli mostrati in un sacco di libri (da L’ultima spiaggia a La strada) e di film (dalla saga di Max Mad a Equilibrium) del filone post-apocalittico, né da quelli immaginati quattrocento anni fa come originari da Hobbes, con un ritorno alla situazione dell’homo homini lupus, all’egoismo individuale di sopravvivenza precedente la nascita della morale.
    La seconda possibilità è che l’egoismo “culturale”, quello legato non alla sopravvivenza ma alla sopraffazione, abbia antenne talmente sensibili da cercare di ovviare all’imminente catastrofe con un riordino sociale forzato, dai costi umani altissimi, che implicherebbe la perpetuazione di un assetto fortemente gerarchico e cristallizzato. Parliamo di quella che oggi viene da molti preconizzata come una “dittatura tecnologica”, riconducibile al modello dell’alveare, che ha svariate possibili declinazioni, dall’eco-dittatura al modello cinese, e che in fondo ha costituito una costante nell’immaginario utopico. In tal senso avremmo il trionfo della componente culturale su quella evolutiva. Per l’umanità si tratterebbe non solo di una “fine della storia”, ma anche della fine del processo evolutivo, della sua storia naturale.
    Rimane la terza, senz’altro la più improbabile, che trova però un minimo di conforto in un dato biologico: il nostro cervello è plastico, e pertanto quegli stessi agenti che avevano spinto originariamente l’evoluzione di una moralità sociale, l’addestramento, la trasmissione di cultura, le pressioni esercitate attraverso i sensi di colpa, il desiderio di mantenere la reputazione sociale ecc., possono ancora essere determinanti, sia pure nelle mutate condizioni ambientali. D’altro canto, fino all’età di sei o sette anni il senso di equità sembra essere indipendente dalla cultura in cui si cresce, mentre gli effetti di quest’ultima iniziano a farsi sentire in età successiva. Si tratta quindi di dare un adeguato terreno “culturale” di applicazione a quel senso dell’equità che a questo punto possiamo considerare innato, di rafforzarlo attraverso le modificazioni che i fattori culturali cui accennavamo sopra sono in grado di produrre in un cervello ancora in crescita. Ciò significa che le scelte future in materia di moralità sociale si giocheranno sugli stimoli che le generazioni dei nostri nipoti riceveranno in questa fascia d’età. E le scuole di formazione religiosa, le società marziali e istituzioni similari hanno dimostrato quanto funzioni “addestrare” gli individui prima della maturità (ferma restando la differenza tra un semplice travaso di credenze e nozioni e l’educazione ad un atteggiamento cooperativo).
    Stiamo parlando in questo caso di una rivoluzione radicale, che riguarda tanto i modi quanto i contenuti della conoscenza. Ovvero dell’altra faccia dell’utopia, la rivoluzione “dal basso”, che parte dall’individuo stesso: quella che ancora con Kant era immaginata come una “uscita dalla minorità”, e che oggi assume piuttosto l’aspetto di un “rientro nella moralità”.
    Probabilmente siamo ormai fuori tempo massimo per sperare in una svolta del genere, perché la natura non aspetta i nostri comodi e perché i segnali che quotidianamente arrivano, politici e comportamentali di massa, parrebbero andare in un’altra direzione. Varrebbe comunque la pena provarci. Il cervello poi, in modo automatico, farà le sue scelte morali, perché non dobbiamo dimenticare che le stesse spinte “culturali” possono funzionare anche in direzione contraria. In aree geografico-sociali in cui esistono particolari subculture questi meccanismi culturali per la formazione di moralità hanno spesso prodotto risultati opposti.
    Dobbiamo allora anche chiederci se nelle società moderne funzionano ancora quei meccanismi di premio/punizione indispensabili alla conservazione del gruppo. E constatare che alcune scelte fatte in nome del progresso, e funzionali alla salvaguardia del diritto individuale, vanno in controtendenza. Le leggi sulla privacy, ad esempio (in linea di principio giuste e per alcuni aspetti encomiabili), contrastano con la funzione di guardiano della moralità sociale esercitata dal “pettegolezzo” e, se esasperate, producono danni. Anche alcune idee laiche, frutto dei lumi della ragione, rischiano di essere utilizzate per rafforzare il conformismo sociale con lo stesso meccanismo del dogmatismo di tipo religioso (il famigerato “politicamente corretto”).
    La stessa accresciuta stanzialità ha bloccato uno dei meccanismi con cui un gruppo poteva escludere gli individui che non rispettavano le regole. Nelle società pre-agricole se il gruppo si spostava chi era tendenzialmente non cooperativo non aveva altra possibilità che restare isolato, correndo i rischi conseguenti, o seguire gli altri adeguandosi alle loro norme di convivenza. L’aumento della concentrazione degli abitanti nelle grandi città, e ancor più la facilità degli spostamenti, hanno portato all’isolamento generalizzato degli individui, alla rarefazione dei rapporti sociali e quindi al mancato funzionamento del controllo sociale. Le norme indotte dalla crescente complessità della società più che rispondere al “senso di equità” servono a codificare diritti “difensivi”, di salvaguardia individuale, legati sia al modo di produzione che ai mutati rapporti fra persone. L’esplosione demografica eccede la capacità di gestione dei rapporti interpersonali costruita dall’evoluzione.

 

  • Anche altri meccanismi vitali, che agiscono sia negli unicellulari che negli organismi via via più complessi, in una società “progredita” come la nostra rischiano di produrre risultati che ostano al replicarsi della vita. Ci riferiamo alla “omeòstasi”, alla indispensabile capacità dei viventi di mantenere, generalmente attraverso meccanismi di retroazione, nello stato migliore i parametri vitali dell’organismo; caratteristica che, come sostiene Damasio, produce anche una “omeòstasi” sociale e culturale[6]. Gli esseri umani hanno tradotto le spinte vitali dell’omeòstasi in “ricerca della felicità”, e hanno addirittura inserito questa finalità nelle dichiarazioni di diritti universali e nelle costituzioni. Ma la ricerca della felicità, che serve a gratificare il “fenotipo”, confligge con la sua funzione biologica di quest’ultimo quale replicatore di geni, oltre che con gli interessi della società. Chi come noi vive nella parte del mondo economicamente più florida conosce svariati esempi di individui dalle elevate capacità culturali e morali che, per soddisfare le proprie aspirazioni, non si riproducono. In un mondo in cui Homo sapiens sapiens è rappresentato da un numero di individui superiore, a dir poco, di quattro o cinque volte a quello ottimale, questo potrebbe sembrare un fatto positivo: ma quale sarà l’effetto nel lungo periodo sulla conservazione e sul progresso della società? Quel che sembra certo è che il meccanismo della selezione si è inceppato, e che noi non siamo in grado di prevedere se ciò produrrà effetti positivi o negativi. Ma certamente i segnali non sono confortanti.
    La storia e la cronaca di questi giorni raccontano che non appena si manifesta una qualche emergenza spuntano i profittatori che cercano di lucrare sulle necessità altrui (il caso mascherine è solo l’ultimo, per il momento). C’è chi spiega il fenomeno, quando addirittura non lo giustifica gesuiticamente, con le leggi della domanda e offerta: ma questa interpretazione della correttezza dei comportamenti su base “mercantile” confligge con le intuizioni morali che si sono affermate evolutivamente. Ora, i profittatori ci sono sempre stati, sin dai tempi di Pericle. Ma almeno erano oggetto della pubblica riprovazione, e in qualche caso anche della mano della giustizia. Oggi i meccanismi di quest’ultima sono inceppati da una serie infinita di salvaguardie e guarentigie nei confronti del trasgressore, per non parlare del malfunzionamento e della corruzione, e l’opinione pubblica è talmente subissata da sempre nuove informazioni, vere o fasulle che siano, da dimenticare immediatamente o ignorare del tutto qualsiasi denuncia. Quel che è peggio, però, è che a queste situazioni ci stiamo assuefacendo, non ci sorprendono e non ci inducono allo sdegno, le liquidiamo con un po’ di disgusto e le rubrichiamo come quasi normalità. Il che significa che i tiranti morali che sostenevano una costruzione sociale durata millenni si sono allentati: e queste situazioni preludono di norma ad un crollo (anche qui, gli esempi sono freschi).

Ricapitolando. Sembra evidente che con l’aumento della popolazione e dopo l’avvento dell’agricoltura il modello di “strategia evolutivamente stabile” che ci ha accompagnato probabilmente per milioni di anni sia entrato in crisi.

Di intervenire a correggere i meccanismi evolutivi non se ne parla nemmeno (in realtà se ne sta parlando sin troppo: ci riferiamo all’ingegneria genetica): è un rischio inaccettabile, quand’anche fossimo in grado di correrlo, e davvero non sappiamo dove potrebbe condurre. Possiamo però almeno mettere in discussione quelle costruzioni culturali che essendo artificiali entrano in conflitto con la morale radicata nella nostra mente. Un esempio molto semplice e, soprattutto per gli italiani, di verificabilità immediata: condoni e iniziative analoghe provocano un deterioramento di quello che sociologi ed economisti chiamano “capitale sociale[7]” e sono perciò da rifiutare. E in positivo sarebbe semmai utile vagliare tutte le nuove norme alla luce della loro capacità di accrescere o distruggere “capitale Sociale”.

Sul futuro dell’umanità non ci pronunciamo. Ci sono sicuramente molti ottimisti, ma sembrano prevalere i pessimisti. Ad esempio, il premio Nobel Christian de Duve sostiene: «Quand’anche il nostro cervello – come è molto probabile – fosse perfettibile, le nostre società moderne non potrebbero fornire un’opportunità che consentisse alla selezione naturale di favorire i cambiamenti genetici pertinenti. Supponiamo, per esempio, che una combinazione promettente fosse presente nel genoma di Mosè, Michelangelo, Beethoven, Darwin, Einstein o chiunque altro; non ci sarebbe stata alcuna possibilità di propagare questa combinazione in forza di un qualche vantaggio evolutivo. Al contrario, le nostre società favoriscono semmai la tendenza opposta. […] Il cervello, che ha determinato il nostro successo, potrebbe anche provocare la nostra rovina, semplicemente per non essere abbastanza bravo a gestire le proprie creazioni.[8]» Ci trova perfettamente d’accordo.

 

NOTE

[1] Citazione a braccio, autore sconosciuto

[2] Marvin Harris – Cannibali e re – Feltrinelli

[3] Michael Tomasello – Storia naturale della morale umana – Raffello Cortina

[4] Richard Dawkins – Il gene egoista – Mondadori

[5] Antonio Damasio – Il sé viene alla mente – Adelphi; Stanislas Dehaene – Coscienza e cervello – Raffaello Cortina

[6] «In breve, la mente cosciente emerge nella storia della regolazione della vita – un processo dinamico sinteticamente indicato con il termine di omeostasi–, la quale ha inizio in creature unicellulari come i batteri o le semplici amebe, che pur non avendo un cervello sono capaci di comportamenti adattativi. Prosegue poi in individui il cui comportamento è controllato da un cervello semplice (per esempio i vermi) e continua la sua marcia negli individui il cui cervello genera sia il comportamento, sia i processi della mente (gli insetti e i pesci sono un esempio di questo livello). […]

La mente cosciente degli esseri umani – armata di sé tanto complessi e sostenuta da capacità di memoria, ragionamento e linguaggio ancora più robuste – genera gli strumenti della cultura e apre la strada a nuovi mezzi di omeostasi sociale e culturale. Compiendo un salto straordinario, l’omeostasi si guadagna così un’estensione nello spazio socioculturale. I sistemi giuridici, le organizzazioni politiche ed economiche, le arti, la medicina e la tecnologia sono altrettanti esempi dei nuovi strumenti di regolazione.

Senza l’omeostasi socioculturale non avremmo assistito alla drastica riduzione della violenza e al simultaneo aumento della tolleranza, tanto evidenti negli ultimi secoli. Né vi sarebbe stata la graduale transizione dal potere coercitivo al potere della persuasione che contraddistingue – a prescindere dai loro fallimenti – i sistemi sociali e politici avanzati. L’indagine sull’omeostasi socioculturale può attingere informazioni dalla psicologia e dalle neuroscienze, ma le radici dei suoi fenomeni affondano in uno spazio culturale. Chi studia le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, le decisioni del Congresso o i meccanismi delle istituzioni finanziarie può ragionevolmente essere considerato, indirettamente, alle prese con lo studio delle stravaganze dell’omeostasi socioculturale.

Sia l’omeostasi a livello fondamentale (guidata da processi non coscienti), sia l’omeostasi socioculturale (creata e guidata da menti riflessive dotate di coscienza) operano come amministratori del valore biologico. Le varietà dell’omeostasi – a entrambi i livelli, fondamentale e socioculturale – sono separate da miliardi di anni di evoluzione e tuttavia, sebbene in nicchie ecologiche differenti, perseguono il medesimo obiettivo: la sopravvivenza degli organismi. Nel caso dell’omeostasi socioculturale, quell’obiettivo si è ampliato fino ad abbracciare la ricerca deliberata del benessere. Va da sé che il modo in cui il cervello umano gestisce la vita richiede che entrambe le varietà di omeostasi interagiscano continuamente. Tuttavia, mentre la varietà fondamentale dell’omeostasi è un’eredità prefissata fornita dal genoma, la varietà socioculturale è un fragile work in progress responsabile di gran parte della drammaticità, della follia e della speranza insite nella vita umana. L’interazione fra questi due tipi di omeostasi non è confinata al singolo individuo. Dati sempre più numerosi e convincenti indicano che, nell’arco di numerose generazioni, gli sviluppi culturali inducono modificazioni del genoma.» Antonio Damasio Il sé viene alla mente – Adelphi

[7] «capitale sociale Insieme di aspetti della vita sociale, quali le reti relazionali, le norme e la fiducia reciproca, che consentono ai membri di una comunità di agire assieme in modo più efficace nel raggiungimento di obiettivi condivisi, come chiarito, per primo, da R. Putnam (Making democracy work: civic traditions in modern Italy, 1993).» Da Enciclopedia Treccani

[8] Christian de Duve – Alle origini della vita – Le Scienze

 

Interstizi

di Paolo Repetto, 30 gennaio 2017, a Lucia Barba

Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto. Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere.
René Daumal, Il Monte Analogo, pp. 36

Carissima Lucia,
ricordi la chilometrica mail che ti ho inviato qualche mese fa, quella in cui si parlava di Maffesoli e dei deliri post-moderni? Speravi avessi dimenticato la promessa di tornarci su? Devo deluderti. Invecchiando si incarognisce, nel senso che non si butta nulla che abbia comportato un qualche investimento di tempo. Io poi, da buon contadino che ha allevato con gli avanzi di cucina galline e conigli e maiali, proprio non sopporto di sprecare neppure una riga o un pensiero. Ho continuato a rimuginare su quei temi (questo si, un bello spreco!) e ho poi finalmente deciso di riprenderli in maniera meno disordinata. Ci ho visto addirittura la possibilità di redigere una sorta di testamento spirituale, salvo poi perdermi nella mia stessa logorrea, senza approdare ad alcuna disposizione.
In realtà sentivo da un pezzo la voglia di completare un percorso che va avanti ormai da almeno quarant’anni, e che si è sviluppato con andirivieni tra diversi periodi storici, a partire dallo studio sulle origini della mentalità scientifica (Da Pico a Bacone), lungo quelli sull’immaginario medioevale (Paura e meraviglia nell’Occidente medioevale) e sugli eretici (Il fascino indiscreto degli eretici),attraverso le scoperte geografiche e l’espansionismo europeo (In capo al mondo), fino ad arrivare a quello sulle origini remote della diversità occidentale (La vera storia della guerra di Troia).
Messo così, il tutto, compreso questo sproloquio finale, acquista un senso. Io perlomeno, sia pure tardivamente, ho cominciato a intravvederlo. Naturalmente quel senso non ha che fare con la meta, che sappiamo sin troppo bene quale essere, e giustamente ce ne scordiamo subito: sta invece tutto nel percorso stesso, per usare una banalità diffusa, che in questo caso è forse un po’ meno banale. Non ho raccontato la storia delle idee, come parrebbe voler far credere l’intestazione di questa collana di volumetti, ma le mie idee sulla storia.
Il testamento quindi già esiste, ed è sparso in migliaia di pagine. Temo di esserne l’unico beneficiario: non lascio nulla, ma mi sono divertito un mondo a scriverlo.

INTERSTIZI
Un’Arcadia post-moderna?
L’Occidente alla sbarra
Razionalizzare il mondo
Il peccato originale: la scienza
La redenzione razionale
Utopia e reincanto
Il meno peggio dei mondi possibili
Un’etica della responsabile armonia
L’utopia nelle crepe
Bibliografia

APPENDICI
1a. Ragione e razionalità
1b. Ragione e ragionevolezza
1c. Miti o valori?
2. Le astuzie della decostruzione
3. Cattive compagnie
Bibliografia

Interstizi

Tenete per voi il vostro Byron
che commemora le disgrazie degli uomini.
Io verserò lacrime d’orgoglio
leggendo l’orario delle ferrovie
K. Chesterton

a Lucia Barba, ottobre 2016

Carissima,
senti questa: ci riguarda da vicino. Tu ancora non lo sai, e io stesso ne sono venuto a conoscenza solo qualche giorno fa, ma stiamo vivendo un’utopia interstiziale. Suona come una malattia, un’ulcera duodenale o un’artrite reumatoide, invece è una condizione spirituale: è il vivere un’utopia “liquida”, che “permea il presente, riempiendo ogni spazio possibile”, “un’utopia di nicchia”. Lo scrive Michel Maffesoli[1] e c’è da credergli, perché è un sociologo, nonché un filosofo, con patente da Tir.

Dici che non sembra grave? Che anzi, dovrei rallegrarmene? Mica tanto: mi girano invece parecchio le scatole. Ti spiego. Tu ed io corrispondiamo da anni, abbiamo creato una complicità che non ignora l’esistenza di Trump e dell’ISIS, e nel nostro piccolo di Renzi e Grillo e Salvini, oppure, stringendo al microcosmo che ci è più prossimo, quella dei deficienti che scaricano immondizie in ogni prato e accendono fuochi in ogni bosco: insomma, sappiamo benissimo che mondo c’è là fuori, ma cerchiamo di fare, di pensare, di comportarci nei limiti del possibile come se la maggioranza non fosse costituita da idioti o da delinquenti. Non crediamo nelle “magnifiche sorti e progressive” e neppure nel sol dell’avvenire (a ragion veduta, direi). Nutriamo forti dubbi che le cose possano migliorare in futuro, siamo anzi piuttosto convinti del contrario.

Ma riteniamo che tutto questo non ci esima dal rispettare la condizione di autoconsapevolezza e di dignità alla quale bene o male l’umanità (o almeno, una parte) è pervenuta, sia pure per caso, senza disegni provvidenziali o senza ragioni astute a giustificarla. Ottemperiamo in sostanza ad un imperativo etico (ed estetico), vissuto naturalmente, senza forzature e senza penitenze, e questo ci porta ad opporre una forma di resistenza, non passiva ma nemmeno armata, se non di ironia.

Non siamo soli: è una resistenza condivisa da altri, alcuni che ci corrispondono e moltissimi che non conosciamo, che tutti assieme formano una rete, come quelle tese sotto gli equilibristi, di protezione, non di contenzione: sottile al punto da essere invisibile, ma non per questo meno rassicurante, e comunque non soffocante. È davvero la nostra piccola utopia.

E andrebbe bene così. Ma no. Immancabilmente arriva chi ci disegna attorno una cornice e ci piazza sotto un’etichetta. A quanto pare non è consentito limitarsi a godere delle amicizie, gioire delle sorprese quotidiane offerte dalla natura, qualche volta persino dagli umani, e farlo senza tante didascalie a piè pagina. Occorre farsi inquadrare, identificare e validare, per essere poi inseriti nello schedario.

La mia potrebbe sembrarti una reazione paranoide. In fondo, dirai, che male c’è? Mica devi rendere conto a Maffesoli. Puoi vivere gli anni che ti rimangono continuando tranquillamente come prima: anzi, fallo senz’altro. Maffesoli si limita a constatare l’esistenza di un fenomeno, a descriverlo e a spiegarne le ragioni. Se ti ci riconosci significa che ha visto giusto, in caso contrario non è un problema tuo.

Io penso invece che lo sia. Quel codice a barre che Maffesoli vuole stamparmi sul fondoschiena prude come un’indicazione di scadenza. Quando uno ti spiega che quella che stai vivendo è un’utopia fast food, di pronto consumo e di corto respiro, che permea il presente riempiendo ogni spazio possibile e fungendo da “ammortizzatore spirituale” dell’incertezza, ti sta suggerendo che alla fin fine non è poi diversa da quella di chi si rifugia direttamente nello smartphone o nel mondo parallelo di Uomini e donne o nella devozione a Padre Pio (anzi, a dirla tutta, lascia intendere che sia molto più patetica). Fa insomma di ogni erba un fascio. Ora, non pretendo una considerazione particolare per la nostra utopia: anzi, non ne vorrei proprio nessuna, di considerazione: ma nemmeno accetto che venga banalizzata e gettata nel mucchio delle erbe buone solo per essere bruciate.

Forse do troppo per scontato il mio atteggiamento nei confronti del mondo: ho sempre pensato fosse frutto di un ordinario buon senso, piuttosto che di un condizionamento culturale. E lo penso ancora. Il risultato è però che in questo modo faccio poi fatica a comprendere come altri possano arrivare a convinzioni e ad atteggiamenti così diversi dai miei, e sono indotto a liquidare a mio modo la faccenda, rifiutando di perdere tempo. Vale invece la pena essere un po’ meno snob (come diresti tu) e confrontarsi con questa differenza, se non altro per fare ogni tanto un tagliando di aggiornamento. Non è la prima volta infatti che affronto questo tema: ho già motivato, vent’anni fa – in Come (non) si diventa postmoderni – la mia distanza dalle posizioni di Vattimo, e sono vergine di servo encomio. Ma l’ho fatto in maniera piuttosto naive. Maffesoli mi offre ora un nuovo assist: cercherò di approfittarne per spiegarmi meglio, ma più ancora per chiarire a me stesso in cosa davvero confido. Quanto a te, puoi salutarmi a questo punto, e stai pur certa che non ti perderesti nulla di importante; oppure puoi cercare di seguirmi sino a quando la pazienza ti regge. In questo caso mettiti comoda, perché sarà un giro largo.

Un’Arcadia post-moderna?

Procediamo con ordine. Intanto, chi è Michel Maffesoli. A quanto mi risulta è l’ultimo socio-filosofo francese a rivendicare la qualifica di “postmodernista” (uso questa dicitura, anziché quella di post-moderno, perché post-moderni proprio secondo questa corrente di pensiero siamo tutti quanti, mentre post-modernisti sono coloro che interpretano tale condizione come un salto di qualità). Oggi in effetti la postmodernità non va più di moda, e si preferiscono definizioni più sfumate, come “modernità liquida”, “tarda modernità”, “esiti ultimi della modernità” o cose simili: ma che gli esiti siano ultimi o postumi cambia poco, perché il quadro della situazione che ne viene fuori rimane lo stesso. Ovvero, semplificando all’osso: siamo di fronte all’implosione delle società occidentali, del modello sociale e delle forme politiche (il liberalismo? la democrazia?) che hanno contraddistinto la parabola della modernità. È la fine di un’era e della civiltà che l’ha caratterizzata. Capisco che non è un bel quadro, ma non si può negare che le cose stiano davvero così. Viviamo quotidianamente sulla nostra pelle la crisi delle istituzioni, tutte quante, sociali e politiche, nazionali e sovranazionali, i collassi economici, le guerre di religione, il populismo galoppante, le migrazioni di massa, ecc…, anche quando ci illudiamo di esserne per il momento solo sfiorati.

Sull’esistenza dei sintomi siamo tutti d’accordo. Il mio problema nasce invece dalla lettura delle cause, dalla diagnosi e dalle conseguenti prescrizioni. Secondo l’interpretazione che ne danno i post-modernisti l’implosione sarebbe frutto di un vizio congenito alla cultura occidentale, ovvero dell’abuso della ragione. L’uso esclusivo e totalizzante della ragione avrebbe portato a creare una serie di miti (progresso, giustizia sociale, ecc…), a dar vita a ideologie fondate sulla redenzione collettiva (politiche, sociali, economiche) e di conseguenza, dopo il tragico naufragio di queste ultime, a precipitare l’umanità in un nichilismo devastante. Si imporrebbe pertanto la necessità di una svolta, della transizione ad un pensiero più “debole”, libero dalla tirannia delle certezze, delle ideologie, dei “valori forti”, non costretto entro gli schemi della razionalità. Questa in sintesi è l’idea di “condizione post-moderna” dalla quale Maffesoli prende le mosse.

Più avanti cercherò di evidenziare meglio i passaggi attraverso i quali ci arriva. Prima vediamo invece cosa ci racconta. Da buon sociologo parte dal basso, analizzando i fenomeni apparentemente più marginali, quelli che di norma non godono (forse dovrei dire ‘non godevano’) di una attenzione scientifica: i rituali del consumo, dello sport, della musica e i modi della comunicazione di massa. Focalizza pertanto l’attenzione su centri commerciali, stadi, televisione, nuovi media. Ora, vista la scelta, sarebbe logico diagnosticasse una deriva demenziale generalizzata e inarrestabile, una cosa come l’avvelenamento da piombo per i romani del tardo impero. Invece no. A suo parere i nuovi media stanno incubando forme di aggregazione, di socialità, di comunicazione che possono lasciarci sconcertati, ma che in realtà sono tutt’altro che inediti: sono modelli di comunità (anzi, di community) arcaici che semplicemente riemergono, attualizzati ad un nuovo contesto, dalla discarica dei rifiuti storici alla quale la modernità li aveva conferiti. Siamo in presenza di una ri-tribalizzazione e di un neo-nomadismo, cosa di cui peraltro ci eravamo accorti anche noi, senza focalizzarci più di tanto, soltanto guardandoci attorno e constatando sbigottiti il proliferare di piercing e tatuaggi. Solo che questi termini non assumono per Maffesoli alcuna valenza negativa, perché si inseriscono in quello che definisce il reincanto del mondo (usando una terminologia e una immagine nietzschiana).

In pratica, dice, se fino ad oggi la tecnica asservita alla ragione “ragionante” (fredda, calcolatrice, matematica e omologante) aveva disincantato il mondo, le nuove tecnologie, quelle stesse protesi, come computer, iPad, cellulati e assimilati, che a noi paiono il veicolo primo dell’alienazione globalizzata, sono invece funzionali alla ragione “sensibile”, ovvero all’emozionalità, e producono il reincanto. La razionalità utilitaristica che ha prevalso nella modernità entra in crisi di fronte al proliferare di immagini, segni e oggetti che essa stessa ha prodotto, e del loro interfacciarsi: paradossalmente sono proprio questi segni e oggetti, sfuggiti al controllo, a creare o identificare oggi gli spazi per nuove forme di socialità.

Gli spazi, appunto. La nuova (o antica) cultura che sta emergendo rigetta la logica del tempo, che aveva informato la modernità (il cui mito portante, il progresso, può distendersi solo nel tempo) e adotta quella dello spazio. In un senso molto fisico, concreto: ha bisogno di individuare continuamente nuovi spazi per momenti effimeri di aggregazione e di confronto. Spazi per il radicamento e spazi per il nomadismo. Spazi reali e spazi virtuali. È una cultura tutta orizzontale, viaggia in superfice, mentre quella precedente era verticale e permeava e colonizzava il profondo. Ci si aggrega in luoghi che suscitino emozioni, sia pure effimere, a prescindere da ogni contenuto di senso, e non attorno ad una idea (di qui appunto lo stadio, la discoteca, la piazza per il flash mob, le strade per la manifestazione, i social network, Lucca per il cosplay, ecc…). In sostanza, i luoghi comunitari (la chiesa, la piazza, ecc…) consacrati un tempo ai valori “forti” (la religione, la democrazia, …) seguono la sorte dei valori stessi, sono sostituiti da quelli di intrattenimento della cultura di massa. Il reincanto del mondo non implica una sua ri-sacralizzazione.

Questo cambiamento, dice Maffesoli, noi tardo-moderni lo viviamo con angoscia: associamo il nuovo alla catastrofe, all’apocalisse. Anche in questo ha ragione. In effetti, se appena alzo dai miei piedi lo sguardo vedo ragazzini tredicenni che si ubriacano ogni sabato sera per vivere in coma etilico il resto della settimana, sessantenni che rischiano la vita ogni giorno in palestra per la tartaruga addominale, mentecatti che vanno a litigare con la moglie in tivù, o che saltano il passaggio e l’ammazzano direttamente, idioti che si sfidano in automobile per le vie cittadine, e poi rave party e applausi ai funerali, e mi chiedo dove stiamo andando a finire.

Ma forse è solo perché lo faccio con occhio ancora “disincantato”. Per Maffesoli invece tutto questo è il necessario preludio “alla rivelazione delle cose, vale a dire alla capacità di fare emergere il profondo, l’essenziale, spazzando via le rigide costruzioni che con il tempo hanno occultato l’originario, l’essere nella sua essenza”, al “ritorno alle energie vitali, produttrici di cultura e di umanità”. La paventata apocalisse non è che il processo di fondazione di un nuovo universo di simboli, di una cultura pervasa da spirito dionisiaco, che aprirà la gabbia grigia del produttivismo moderno per fare spazio (letteralmente) a un mondo più gioioso, giocoso e creativo.

Scivolando sempre più nel côté filosofico, Maffesoli ripropone anche l’antitesi cultura/civiltà, ma in una lettura quasi diametralmente rovesciata rispetto a quella data da Norbert Elias. “Quando una civiltà ha raggiunto il suo massimo splendore – dice – sente, nello stesso tempo, il bisogno di recuperare le sue radici, di ritornare cultura. La civiltà è il modo di sprecare, o meglio di dilapidare il tesoro culturale. La cultura è il fondo che garantisce la vita sociale permettendo che, al di là di ogni vicissitudine quotidiana, perduri l’essere insieme originario ed essenziale”. Un essere, secondo Maffesoli, capace di ritrovare se stesso, di liberarsi dai vincoli di una civilizzazione nei quali non si riconosce più, nel nome di un bisogno nomade di avventura, di sete d’infinito e di scoperta.

Insomma, la cultura “originaria” è quella in cui l’emozione prevale sulla ragione, e l’uomo, non più proiettato nel futuro, vive in un eterno presente (che, bontà sua, è insieme euforico e tragico). “Le forme di socialità emergenti, con tutto l’accento che pongono sull’immaginario e sul desiderio dell’effimero, sono altrettante matrici di un nuovo ordine etico frammentato quanto solido nelle sue singole componenti. Di fronte allo sradicamento, alla solitudine, all’alienazione di un mondo organizzato da altri, l’individuo reagisce riscoprendo la comunità. Dalla frantumazione crescente della società nasce una sua autonomia rinvigorita. Fino a ieri confinato nei ruoli sociali predefiniti – lavoro, famiglia, ecc. – il soggetto sperimenta oggi più che mai un affrancamento dal normativo. L’immaginario, il piacere, il sogno diventano forme di dissoluzione dei vincoli. Egli fluisce e circola, errante sulla scia casuale delle sue pulsioni, dei suoi gusti. All’ideologia del progresso fondata sull’individuo atomizzato si sostituisce un universo di riti, giochi e immaginari la cui etica è quella del tragico. La società, finalmente creativa e libera dal modello matematico, si apre ad una nuova conoscenza erotica”. Non c’era da dubitarne.

Mi pare sufficiente. Posso fermarmi qui e provare a riassumere. Emersione del profondo, bisogno nomade di avventura, desiderio dell’effimero, liberazione nell’immaginario, nel piacere e nel sogno, essere che fluisce sulla scia delle sue pulsioni, società creativa e, naturalmente, conoscenza erotica. Non hai una leggera impressione di dejà vu? A me tutte queste cose non suonano affatto nuove. Datano da almeno due secoli: ma soprattutto mi ricordano parole e concetti che circolavano (in una accezione “estetizzante”) un secolo fa, che ho letto in Nietzsche e in Klages, che ho poi risentito da Marcuse e da Norman Brown nei tardi anni sessanta (ricordi Aquarius, e la luna che entra nella settima casa, e la pace che guida i pianeti, e l’amore che guida le stelle – ma almeno nel video c’era Rachel Welch e ti veniva voglia di crederle), e ho ritrovato in quelli novanta, in pieno trionfo della new age, nella versione proposta da Vattimo, che auspicava “una esperienza fabulizzata della realtà”, in quella politica avanzata da Marco Revelli, che indicava a esempio di socialità futura le comunità degli zingari (forse ispirato da Claudio Lolli), e infine in quella leggera, ma decisamente più aggiornata e persuasiva, di Baricco che, non so quanto influenzato da Maffesoli stesso, voleva convincerci, ne I barbari, che non sta succedendo nulla di strano.

Non voglio dire che si tratti solo di una minestra più volte riscaldata, è evidente che esprime un disagio reale e crescente nei confronti del modo di produzione e di vita capitalistico-consumistico: ma alla fine, cioè oggi, ne vien fuori un minestrone olandese alla Jerome, nel quale si buttano tutti gli ingredienti raccolti per strada[2]. Un minestrone dal retrogusto fastidiosamente acido. Quella che George Steiner chiama “nostalgia dell’assoluto” qui si è rovesciata e impoverita in una sorta di nostalgia del dissoluto, o del dissolto: sempre di una sorta di paradiso perduto si parla, di innocenza originaria, ma l’idea di innocenza che Maffesoli persegue somiglia molto più all’incoscienza.

Non so che stadi o centri commerciali o banlieues frequenti Maffesoli, a quali social sia collegato, ma certo l’ottimismo non gli difetta. A me è bastato vivere nella scuola degli ultimi due decenni per avere un’immagine del tutto diversa. Il dionisiaco non bussa nemmeno alla porta, entra direttamente, esce quando gli pare, si stravacca sfinito sul banco e comincia a smanettare sullo smart-phone, se glielo consenti (e se non glielo consenti ti ritrovi tra i piedi un dionisiaco padre, o peggio, una madre baccante, che contestano l’autoritarismo). Fuori non cambia molto: se è del tipo tranquillo il dionisiaco rimarrà incollato allo smartphone in metropolitana, in palestra, al bar, nell’intimità con la sua ragazza: se è agitato rovescerà cassonetti e brucerà auto, imbratterà monumenti appena restaurati, canterà e salterà in coro con altri dementi allo stadio o si sballerà in un rave party. Possiamo chiamarlo come vogliamo, ma è di questo che stiamo parlando. Quanto al ruolo ri-socializzante dei nuovi media, ne abbiamo esempi significativi nel bullismo cibernetico o nel fenomeno grillino. Aprono alla rivelazione delle cose? Fanno riscoprire la comunità? L’ affiliazione a bande o a tribù, come le chiama Maffesoli, rinvigorisce l’autonomia dell’individuo? Mi riesce dura cogliere nel populismo mediatico, nel delirio di autorappresentazione che si consuma in rete o nelle gang metropolitane gli indizi di una nuova socialità, giocosa e creativa, o dell’emergere del profondo. A meno che per profondo non si voglia intendere la natura animale, nella versione pre-umana.

Va bene, dirai: e tuttavia, ancora, perché prendersela tanto? Non solo queste litanie le abbiamo già sentite, ma sono di casa ormai persino nei salotti televisivi nostrani, cantate da monaci che predicano l’agape e da filosofi con bandana. Sono diventate un rumore di fondo, più fastidioso che pericoloso.

Temo che non sia proprio così. Siamo di fronte a qualcosa di diverso. Maffesoli non è un pirla a gettone come i nostri Morelli o Galimberti (pur arrivando in sostanza alle stesse conclusioni: “Bisogna dar spazio all’avventura, al sogno, alla fantasia, alle cose nuove” recita la quarta di copertina dell’ultima profezia di Morelli), non fonda scuole ayurvediche, anche se i salotti televisivi li frequenta volentieri pure lui. Gode di un credito scientifico, pesca da Simmel, da De Certeau e da Foucault, è citato nei manuali di sociologia, lo trovi dovunque come il prezzemolo. E comunque, il quadro che dipinge come sociologo è senz’altro realistico. Mi preoccupa invece come filosofo. La sua visione arcadica del futuro conferma una deriva il cui peso è certamente enfatizzato dall’eco mediatica (certi argomenti sono perfettamente congeniali al chiacchiericcio a ruota libera) ma proprio per questo non va sottovalutata. Si stanno moltiplicando i pensatori col pedigree, post-moderni o no, che rifiutano, come avrebbe detto Vico, di “riflettere con mente pura” e preferiscono “avvertire con animo perturbato e commosso”.

In verità questi non-pensatori ci sono sempre stati, e hanno sempre fatto danni: nel passato però la loro influenza non era mai diretta e si esercitava, causa l’analfabetismo delle masse, entro una cerchia più ristretta. L’odierno analfabetismo di ritorno, invece, che pure è altrettanto diffuso, non costituisce più un ostacolo, perché i nuovi media lo saltano a piè pari e arrivano direttamente ad un uditorio enorme che aspetta solo di essere imbeccato. Certo, alla stragrande maggioranza frega ben poco del pensiero dei post-modernisti (o di chiunque altro), e se provasse a leggerne i libri non ci capirebbe un accidente: ma l’adeguamento ai tempi, ai modi e alle forme del linguaggio televisivo o di quello della rete, in pratica la riduzione del pensiero a slogan, fa sì che esso circoli in una confezione adatta al consumo veloce e all’assimilazione acritica. Il sapore è quello del McDonald, il saldo nutrizionale è altrettanto negativo, ma è a questa dieta che palati e stomaci si stanno assuefacendo.

Quello del linguaggio non è un problema secondario. Orwell mostra in 1984 come proprio sulla falsificazione del linguaggio si regga ogni regime. Ha in mente quello nazista e quello sovietico, ma è chiaro che il discorso può essere esteso anche a quelli “democratici”. Ora, il paradosso dei post-moderni, che vorrebbero appunto smascherare le falsificazioni prodotte dalla società liberal-capitalistica, è che “decostruendo” il linguaggio, caricandolo di sospetti, spogliandolo di valori “forti” di riferimento, si impelagano in una complicazione linguistica (hai provato a leggere Deleuze?) che alla fine copre solo un vuoto di significati. Operano in maniera opposta a quella dei regimi, ma ottengono gli stessi risultati, perché poi, dalla nuvola di polvere concettuale che sollevano, emergono come si è visto le solite quattro banalità. Al contrario, se qualcosa davvero può rivelarsi eversivo nei confronti di un regime, è proprio la difesa di un linguaggio chiaro, ricco e significativo, che poggi i piedi sulla concretezza per reggere la libera circolazione delle idee.

E non è tutto qui. Mentre il post-pensiero spara a zero sulla ragione, c’è chi la raccatta dal cassonetto per riciclarla ad usi tutt’altro che razionali. Tarik Ramadan, docente oxfordiano (su una cattedra finanziata dal Quatar, cosa che la dice lunga), nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, tiene conferenze sulla fondamentale importanza dell’Illuminismo: sostiene che essendo Dio luce, ciò che illumina le menti non può che essere una sua emanazione. Il razionalismo imperante nel secolo dei Lumi ha in fondo emancipato gli occidentali dalla soggezione alla legge biblica, preparando le loro menti ad accogliere quella coranica. Il futuro vedrà il trionfo della nuova razionalità islamica. Ramadan, per inciso, non ha problemi a legittimare la lapidazione (delle donne) in caso di adulterio, è un antisemita professo e condivide le ragioni del terrorismo. Ma ha capito benissimo quali sono oggi i punti deboli e le contraddizioni del pensiero occidentale, e si fa giustamente gioco dell’estenuato senso di colpa che ci spinge verso un rassegnato “abbandono”.

Di questo, credo, dovremmo preoccuparci.

  

L’Occidente alla sbarra

Infatti. Mi preoccupo perché da un lato vedo che la parabola del “post-moderno” come categoria filosofica è agli sgoccioli, ma dall’altro constato che le sue derive e le metastasi pullulate nel frattempo in ogni settore e ad ogni livello culturale permangono ben vive[3]. E si corre anzi il rischio, venendo a mancare la possibilità di tracciarne la genealogia, di non riuscire più ad arginarle e combatterle. Per questo mi sembra utile tornare allo scenario di partenza, a quella che negli ultimi trenta e passa anni è stata qualificata come la “condizione postmoderna”. Occorre partire di lì, dall’interpretazione che si è data di questo scenario.

Dunque. Abbiamo visto che alla radice del disagio vissuto dai contemporanei c’è per i post-modernisti la “razionalizzazione” del mondo. Ritengono, con buona pace di Goya, che a generare i mostri, ovvero le “ideologie”, che vanno dall’illuminismo al liberalismo, dall’idealismo al marxismo, tutte accomunate da una visione storicistica del mondo e dal mito del progresso (sul marxismo, e così sul fascismo, ci sono posizioni sfumate e contrastanti, ma l’uno e l’altro sono ricondotti comunque a variabili della ideologia madre) non sia stato il sonno della ragione, che è anzi rimasta sin troppo sveglia, ma l’uso che si è fatto di quest’ultima come lente unica e indiscussa per leggere la natura e interpretare la società e la storia[4]. I mostri creati dall’occhiale razionalistico sarebbero appunto dei “miti”, delle narrazioni o costruzioni mentali, come le chiama Lyotard, alla cui origine stanno fondamentalmente due assunti, l’uno conseguente l’altro. Il primo è la presunzione che il mondo sia conoscibile nella sua oggettività solo attraverso l’intelletto e, quel che più conta, sia anche perfettibile. L’altro è la pretesa che solo il pensiero occidentale sia detentore di questo livello di conoscenza e della capacità di tradurla in una prassi efficace. Risultato: fiducia in un potenziale illimitato della mente “razionale” e certezza di un progressivo sviluppo dell’umanità. Il che però, a sua volta, suppone una concezione negativa della natura umana originaria e una funzione repressiva e addomesticatrice della cultura.

Contro la prima presunzione, quella razionalistica, i postmodernisti mettono in atto la “decostruzione”: smantellano cioè i miti attraverso l’ermeneutica, partendo dalle affermazioni di Nietzsche per cui “non esistono fatti, ma solo interpretazioni” e “sono i nostri bisogni che creano il modo: i nostri istinti e i loro pro e contro”. Questo comporta, oltre allo spiazzamento conoscitivo (perché non solo non esiste una verità, ma nemmeno la verità), un ribaltamento etico: se sono i nostri bisogni a creare il mondo è al desiderio, alle emozioni, anziché all’intelligenza, che dobbiamo affidarci nelle nostre scelte. Quanto poi alla perfettibilità, ovvero al progresso, nemmeno a parlarne. Non esistendo verità assolute, non ci sono parametri sui quali traguardare e valutare un cammino di crescita.

È una posizione, lo abbiamo già visto, per niente originale. Alle spalle c’è Nietzsche, ma nella lettura che ne ha dato Heidegger. Per quest’ultimo tutta la storia occidentale è stata segnata – naturalmente in negativo – dall’aristotelismo e dalla logica deduttiva. Ciò ha comportato il dispotismo della scienza e la sempre più invadente affermazione della tecnica, e ha generato alla fine, come abbiamo visto, un nichilistico sconforto. Heidegger peraltro sta alle spalle – o almeno al fianco – anche di altri critici della modernità, dei francofortesi (Adorno, Horkeimer, Marcuse) o, per rimanere in Italia, di Emanuele Severino.

Con una differenza. Severino fa risalire l’errore “originario” ancora più addietro, a quando la “solare” visione parmenidea del mondo cedette a quella platonica (“abbandonando il sentiero del giorno per seguire quello della notte”), mentre gli anti-moderni militanti hanno nel mirino appunto la “modernità”, gli ultimi cinque secoli, e ne individuano i momenti chiave nel cartesianesimo[5]), ma soprattutto nel kantismo. La “rivoluzione copernicana” di Kant è da essi considerata il vero spartiacque per la completa realizzazione della modernità. La loro crociata è quindi, prima ancora che anti-razionalistica, antilluministica: è con l’Illuminismo che la ragione diventa “misura di tutte le cose”.

Il fatto è che ai detrattori della modernità preme innanzitutto mettere sotto accusa il modello occidentale: e l’Occidente cui si riferiscono è quello degli ultimi cinque secoli, quello divenuto vincente attraverso la rivoluzione scientifica e quella industriale, e dominante con l’espansionismo, coloniale prima e imperialistico poi. Citando per tutti Vattimo: “la civiltà occidentale ha dato luogo … a un mondo dove progresso tecnologico, sfruttamento, dominio di classe, progressivo esaurimento delle risorse del pianeta appaiono inestricabilmente connessi”. Per produrre questo scempio l’Occidente avrebbe costruito e imposto un suo paradigma scientifico-ideologico, avvalorando una visione deterministica dei comportamenti umani e creando, attraverso la “razionalizzazione” delle conoscenze e dei rapporti, una gabbia di contenzione della nostra animalità[6]. Fino ad arrivare, da ultimo, ad identificare il mondo proprio con la gabbia che lo imprigiona, con l’involucro razionale entro il quale è stato incartato. Il fine che gli antimoderni si prefiggono è proprio aprire la gabbia, strappare l’involucro demolendo l’impianto ideologico che gli sta dietro. Come intendano farlo, andremo ora a vederlo.

Per intanto, però, a dimostrazione di quanto dicevo sopra, del fatto cioè che queste cose non rimangono sospese nell’empireo della filosofia e neppure si esauriscono nelle comparsate da salotto, sappi che la gran parte delle università americane ha praticamente bandito da anni dai programmi di insegnamento i corsi sulla civiltà occidentale, con la motivazione della scorrettezza politica (sarebbero “oggettivamente di destra” e potrebbero offendere tutte quelle minoranze che di tale civiltà sono state vittime).

Siamo al punto che nello stesso momento in cui Oxford apre le porte ai soldi del Quatar e a Tarik Ramadan, Yale rifiuta un finanziamento da decine di milioni di dollari per riattivare quei corsi.

Non c’è da meravigliarsi. Lo schieramento antimodernista è infatti incredibilmente ampio e articolato, perché il dibattito che si svolge ai piani alti della filosofia ha, come sempre, motivazioni e ricadute che toccano più in generale le idee sui possibili modelli di rapporto tra gli uomini. A scorrere l’elenco degli inquisitori ci si rende conto che la crociata accomuna trasversalmente vecchie fedi politiche e religiose e nuovi radicalismi, che in apparenza non avrebbero nulla da spartire: su questo terreno si muovono fianco a fianco la destra e la sinistra più estreme, i fondamentalismi religiosi (tutti, non solo quello islamico), gli integralismi alla moda (ambientalista, animalista, vegano, ecc …), il complottismo, i cultori delle “scienze tradizionali”, i vari populismi anti-sistema. Un gradino appena sotto i maîtres à penser che ho già citato, i riferimenti spaziano da Guénon e da Evola a Chomsky, dagli esoterici agli antagonisti di professione. La citazione di Vattimo potrebbe essere attribuita a ciascuno di costoro senza cambiarne una virgola.

Sia pure a gradi diversi di parentela, il DNA è dunque quello. Certo, è difficile pensare che Calderoli o Di Battista abbiano letto Derrida, ma la loro stessa presenza sulla scena politica è frutto anche della “decostruzione”, che quando scende al pianterreno e si traduce in aforismi da supermercato crea effetti devastanti. La povertà di idee e le passioni elementari non attendono che di coagularsi nella identificazione di un qualche responsabile del disordine del mondo: e possibilmente non vago e astratto come la “modernità”, ma in carne ed ossa.

Degli esiti “complottistici” della decostruzione sanno infatti qualcosa gli ebrei, che non a caso sentono nuovamente fischiare le orecchie. Perché alla fine, dietro tutta la cultura occidentale moderna, e dietro le istituzioni che ne sono espressione, i post-modernisti scorgono naturalmente la lunga mano della “plutocrazia giudaica”.

Qualche tempo fa notavamo come negli ultimi vent’anni sia tornato allo scoperto il vecchio antisemitismo di pancia, quello che si manifesta beceramente negli oltraggi ai cimiteri ma anche sotto le specie “politicamente corrette” dell’antisionismo, della militanza filo-palestinese: bene, questo è solo il gradino più basso della banalizzazione di un pensiero anti-modernista per il quale il vero “mostro” in fondo non sono le ideologie, ma il modello occidentale nel suo assieme (e il liberalismo – considerato di diretta ascendenza ebraica – nello specifico). Se affermo, come fa ad esempio Galimberti, che l’Occidente “è la terra che ha ospitato l’oblio dell’Essere, ovvero lo smarrimento del suo senso” e che pertanto la sua sorte è il nichilismo e il suo destino è il tramonto; per cui, “prendere coscienza dell’oblio dell’Essere significa vedere crollare quanto è stato costruito nella sua dimenticanza: Dio e il mondo”; e che questo Dio va inteso naturalmente come il Dio biblico, unico dal quale e in antagonismo al quale poteva svilupparsi una totale autonomia della coscienza umana, fino ad abbracciare la concezione meccanicistica che sta a fondamento della modernità: bene, sto solo ripetendo con un giro più largo e ipocrita quello che diceva Hitler, ovvero che la coscienza è una invenzione degli ebrei (il che in qualche misura è vero, ma certamente a non nel senso che gli veniva dato dal nazismo[7]). E lascio la porta aperta al sospetto che dietro questa invenzione ci sia un progetto occulto dei Savi di Sion.

Ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano.

Razionalizzare il mondo

È opportuno invece dettagliare meglio le accuse che i post-modernisti o gli anti-modernisti muovono alla cultura occidentale degli ultimi cinquecento anni.

Come abbiamo visto, l’imputazione più generica è di aver usato lo strumento della ragione per impadronirsi del mondo e sfruttarlo, e di aver legittimato questo dominio postulando una naturale convergenza tra sapere e potere (vedi Francesco Bacone). Ovvero, di avere attuato una “razionalizzazione del mondo”, intesa sia come modalità conoscitiva ed esplicativa che come condizione e modello per agire su di esso, per modificarlo e addomesticarlo.

Cosa significa però “razionalizzare il mondo”? Nella interpretazione antimoderna significa in primo luogo ridurne la lettura alle sole operazioni compatibili con quanto la mente umana è in grado di dominare: ovvero, costringere il reale negli schemi totalizzanti dell’unità e della storicità ed escludere il molteplice, tutto ciò che non trova spiegazione entro questi schemi. In definitiva, si suppone che esista una logica interna al tutto, e che tutto ciò che esiste o accade sia sempre spiegabile in termini razionali, e solo in essi. È quanto Hegel aveva lapidariamente riassunto in “Tutto ciò che è razionale è reale; e ciò che reale è razionale”.

In termini generali, è vero: l’impostazione della cultura occidentale nell’età moderna è stata tendenzialmente proprio questa. Salvo però il fatto che il pensiero razionale ha iniziato sin da subito a sviluppare dall’interno degli anticorpi critici, a mettersi in discussione. E che comunque questa attitudine si era manifestata ben prima dell’avvento della modernità. Era già insita infatti nella “differenza” ellenica, addirittura da prima del “so di non sapere” di Socrate. Era adombrata nelle tempestose vicende del mito[8].

Col termine logos i Greci indicavano tanto la relazione, il legame, la proporzione, la misura, (ciò insomma che concerne le proprietà dell’oggetto conosciuto) quanto la ragion d’essere, la causa, la spiegazione (ciò che invece compete all’attività razionale del soggetto conoscente). Per loro, tuttavia, la funzione del logos era rimasta quasi puramente esplicativa: serviva a capire come funzionano le cose, non a intervenire per modificarne il corso. La visione ciclica del tempo, che prevede che il cosmo torni periodicamente allo stato originario, li induceva a non impegnarsi più di tanto in una attività di conoscenza che non fosse eminentemente contemplativa: e soprattutto non avevano motivazioni economiche sufficientemente urgenti per indirizzare il pensiero scientifico verso un utilizzo strumentale. Questo atteggiamento ha continuato poi a valere anche nel mondo cristiano, a dispetto del fatto che la redenzione avesse interrotto il ciclo e disteso il tempo lungo una retta di attesa tra due eventi unici: per il cristianesimo la spiegazione del mondo e della storia non va cercata, ma è offerta tramite una rivelazione.

La reductio ad rationem, intesa nel suo significato più concreto, non più come semplice individuazione di una linea di razionalità nel mondo naturale, ma come “creazione” di un mondo più razionale, come intervento performante sulla natura, è stata avviata invece dal pensiero umanistico. È quanto ho cercato di raccontare in “Da Pico a Bacone. Le radici umanistiche della rivoluzione scientifica[9]: l’attesa si secolarizza, si traduce in aspettativa per un futuro preso in mano dagli uomini. Come di norma accade (è avvenuto lo stesso, ad esempio, proprio per il post-moderno), questa aspettativa trova la prima concreta espressione nella sfera artistica, passando in questo caso per l’adozione della prospettiva. La visione prospettica pone l’osservante fuori dal quadro, e da questa posizione egli “domina” la scena, la coglie come un assieme unitario, la riordina secondo criteri quantitativi (volumi, geometrie) e la include entro linee che convergono all’infinito. L’architettura e la pittura del Quattrocento indicano ed esemplificano perfettamente le condizioni per fondare una oggettività della scienza e per la tracciabilità della storia. Così come, al contrario, le arti del Novecento (astrattismo, informale, concettuale, ecc…) testimoniano del dissolversi di questa oggettività.

Il passaggio successivo è stato quello della rivoluzione scientifica, e qui entriamo ormai nel pieno della modernità (e nel merito dell’accusa mossa dai post-modernisti). Bacone, Cartesio e Galileo hanno gettato le fondamenta per una visione meccanicistica del mondo naturale: Hobbes l’ha poi trasferita ai rapporti interumani, postulando che la società sia una costruzione artificiale (un meccanismo, quindi, anziché un organismo) e che il potere abbia una natura contrattualistica, fondata sulla somma delle convenienze individuali. Dopo di lui gli illuministi settecenteschi e i positivisti dell’Ottocento hanno fatto dello studio “scientifico” della società un obiettivo prioritario.

“Razionalizzare” significa infatti, in seconda battuta, applicare il parametro razionale non solo come condizione del conoscere ma anche come misura dell’efficienza e della bontà, o della utilità, dell’agire: quindi adottare quell’attitudine che chiamiamo, in genere con un po’ di sufficienza, “pragmatismo”. È quanto fa, ad esempio, con largo anticipo Machiavelli[10]. La ratio si esprime in questo caso come cinica contabilità politica, (ratio est computatio, dirà Hobbes). Qualche decennio prima, nei Libri della famiglia, Leon Battista Alberti l’aveva già chiamata a organizzare le attività economiche, introducendo il computo di fattori come il tempo-valore, che in precedenza non venivano considerati.

Un esempio riassume tutto il processo storico della razionalizzazione: quella delle coordinate geografiche. A partire dal ‘500 il globo è stato coperto con un reticolo di linee immaginarie, che dovevano costituire originariamente un riferimento per gli spostamenti marittimi. In breve però queste linee sono diventate più reali di quelle orografiche, hanno costruito una gabbia che ridisegna e spartisce gli spazi (pensa ai confini degli stati coloniali, ad esempio, o prima ancora alla raja, che già alla fine del ‘400 doveva dividere i possedimenti portoghesi da quelli spagnoli), e che oggi, con l’introduzione dei fusi orari, imprigiona e disciplina anche il tempo.

Le maglie di questa rete si sono poi via via infittite dopo che le linee ideali hanno potuto essere tracciate su carte attendibili, redatte con criteri “razionali”, ovvero dai primi dell’Ottocento. Di pari passo sono cresciute sia la disponibilità di mezzi tecnici che le motivazioni economiche, ed è partita la corsa a rendere queste linee sempre più reali, dapprima con le rotte navali, poi con i trafori ferroviari e autostradali, infine con le rotte aeree. Ecco, la rete ferroviaria e quella aerea compendiano perfettamente la transustanziazione del pensiero razionale (la distanza minore tra due punti è la linea retta, ergo minor tempo, minori costi, ecc…) in “razionalizzazione” del territorio.

È insomma accaduto che uno strumento proprio della ragione (nel nostro caso la capacità di immaginare delle coordinate per definire degli spazi o di individuare percorsi non obbligati dalla configurazione del territorio) e funzionale al metodo scientifico, quindi applicabile alla geografia e più in generale alle scienze naturali, è stato trasferito nell’ambito delle scienze umane (nella politica e nell’economia). Questo tipo di sconfinamento è diventato più frequente e scontato mano a mano che si imponeva una conoscenza “geometrizzante” del mondo: in parallelo si affermava infatti la spinta a “razionalizzare” il potere, il dominio, l’economia, la società, e di lì a poco tutta la sfera esistenziale individuale, controllando e pilotando anche desideri ed emozioni.

Imboccando questa strada, secondo i post-modernisti, la ragione ha fatto compiere un salto qualitativo alle sue pretese: intanto si è appropriata in esclusiva di un terreno che avrebbe dovuto condividere con altre modalità conoscitive, non razionali; poi è passata dalla ricerca del logos, della coerenza interna al reale, a quella del senso, ovvero dalla descrizione del mondo alla sua interpretazione. Anziché limitarsi ad interrogare ha insomma costruito anche le risposte, e lo ha fatto naturalmente a propria immagine e somiglianza. Di conseguenza ha favorito l’atomizzazione sociale, perché ha cancellato quei legami comunitari che non erano “matematicamente” controllabili e li ha sostituti con la cultura del diritto, che definisce dei margini di autonomia individuale e consente di quantificare gli spazi e organizzare meccanicamente i rapporti.

Il risultato è che il mondo, inevitabilmente, è stato letto sempre più come il “regno della quantità”: il che comporta dissezionare un organismo e ricomporne i pezzi nei modi della organizzazione, secondo la misura umana. Ovvero separazione, omologazione e appiattimento.

Ora, su questa analisi del percorso della cultura occidentale, fatta salva qualche sfumatura, mi trovo fondamentalmente d’accordo: non solo, condivido in linea di massima anche la fotografia della contemporaneità scattata da Maffesoli, almeno fino a quando non comincia a interpretarla. Ho riportato al condizionale le argomentazioni degli anti-modernisti non per mettere in dubbio l’attendibilità della ricostruzione storica, ma per mantenere distinta la mia interpretazione. Il processo di geometrizzazione del mondo e della vita di cui parlano c’è effettivamente stato, è tuttora in corso e non se lo sono inventati loro e neppure Heidegger. Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche, ciascuno a suo modo, già lo denunciavano. Volendo si può andare più a ritroso ancora, senz’altro sino a Pascal (che infatti parlava di esprit de gèomètrie). E lo stesso vale per lo sfruttamento coloniale, per le forme del dominio, per il disastro ambientale: sono temi che mi appassionano da sempre, e che ho la presunzione di conoscere non superficialmente.

Ma non è questo il punto. Il punto è: l’esistenza di questo processo ci rivela che l’uso distorto o improprio della ragione era già intrinseco alle premesse stesse? Vale a dire: l’impostazione razionale delle conoscenze sfocia necessariamente in una pretesa previsionale, quella per cui conoscendo i meccanismi, le “leggi”, mi illudo di poter dirigere, pianificare, programmare la realtà? E anche la realtà sociale, oltre a quella naturale? E addirittura la sfera emozionale? Ovvero, per andare al sodo: una simile impostazione produce necessariamente delle ‘ideologie’? Qui è il nodo. Perché un conto è chiamare al banco la ragione, ciò che significa ritenere che il difetto stia già nel manico, un altro conto è criticarne l’uso, o meglio ancora, l’abuso.

Il peccato originale: la scienza

Per i post-modernisti, naturalmente, è valida la prima imputazione. Contestano tanto il monopolio dell’interpretazione che la modernità ha riservato ad un uso specifico della ragione, quello “calcolante” e pragmatico (peraltro questo uso è etimologicamente già implicito nella ragione stessa: la ratio latina indicava infatti originariamente la capacità di calcolo), quanto l’applicazione impropria che ne ha poi fatto. Sostengono in pratica che da quando la lettura razionale del mondo, che suppone un osservatore “esterno” e freddo, si è sostituita a quella emozionale, che supponeva invece un coinvolgimento partecipe, è stato avviato un processo di disumanizzazione degli umani e di snaturamento del mondo stesso.

Resta però tutto da dimostrare che la linea retta da essi tracciata tra cause ed effetti, semplificando il percorso in una uguaglianza transitiva per la quale razionalità uguale scienza uguale utilitarismo uguale catastrofe, abbia un qualche fondamento.

A me questa linea pare in realtà semplicistica, più che semplificatoria, perché non tiene affatto conto delle variabili contingenti (quelle la cui somma è in definitiva la storia) e delle infinite incognite rappresentate dalla miriade di individui che entrano in gioco ad ogni passaggio. Ma soprattutto perché parte dall’assioma che la ragione “ragionante” non si sia limitata a esondare rovinosamente lungo il corso del tempo dal proprio letto, ma il danno lo abbia fatto a monte. In base a questo assioma la ragione avrebbe impoverito le possibilità di conoscenza già alla fonte, imponendo proprio attraverso le scienze un modello conoscitivo unico, arido, disumanizzante. La definizione del paradigma razionale scientifico sarebbe avvenuta a spese di ogni altra forma di sapere, e una volta affermatosi questo paradigma avrebbe pervaso tutto, apparati istituzionali, politici, religiosi, poteri economici, modelli produttivi, forme della comunicazione, annullando le differenze, omologando i comportamenti, imponendo una concezione prettamente utilitaristica ed economicistica della vita, rompendo le solidarietà originarie e atomizzando i rapporti sociali. Questo intende Maffesoli quando distingue la ragione ragionante da una ragione sensibile, vale a dire da un esercizio del pensiero che non esclude il portato delle passioni e delle emozioni (Il cuore ha delle ragioni …, ancora Pascal).

Le cose però non sono così semplici. Dovremmo porci alcune domande – ma seriamente, e prosaicamente, senza abbandonarci a visioni favolistiche e misticheggianti.

Dovremmo in primo luogo chiederci se per lo studio della natura esistono delle alternative al modello “scientifico” occidentale. Intendo alternative efficaci. Certo, dipende da cosa si vuol conoscere, e a che scopo. Se si parte dal presupposto che la natura non debba essere indagata, ma semplicemente “vissuta”, o che la conoscenza possa rimanere solo contemplativa, il discorso è già chiuso. Ci sono un sacco di ashram pronti ad accoglierci, con pacchetto completo, albergo e aereo compresi. Se vogliamo però essere seri, dobbiamo ammettere che per il genere homo non è mai stato così, la conoscenza non è mai stata fine a se stessa, né per quegli antenati o cugini che hanno preceduto il sapiens né, tantomeno, per quelli più prossimi, gli antichi e i pre-moderni. In realtà ogni conoscenza è già di per sé una forma di dominio: lo stesso “nominare” un oggetto costituisce una presa di possesso, come ben sapevano tremila anni fa gli autori della Genesi. Sostenendo che il modello scientifico occidentale è un portato della rivoluzione “borghese”, e che produce una conoscenza finalizzata solo al dominio e agli interessi del capitale, si vuole invece affermare la possibilità alternativa di conoscenze “dolci”, disinteressate, non invasive nei confronti della natura e non condizionanti nei confronti degli uomini, e comunque efficaci.

Ora, un approccio conoscitivo che presenti tutte assieme queste caratteristiche non esiste. Quelli di cui abbiamo una testimonianza storica, praticati sino a ieri non solo fuori dall’occidente ma anche al suo interno, o quelli che vengono periodicamente riproposti o importati anche oggi, fondati su percorsi di tipo mistico o iniziatico o empatico (e qui si spazia da Evola e Rudolf Steiner per i più introdotti, sino a Osho e a Tiziano Terzani per quelli di bocca buona), non danno alcuna risposta di una qualche efficacia alle esigenze del mondo moderno. Anche le pratiche basate su una tradizione sapienziale consolidata, come ad esempio l’agopuntura, dopo essere state gabellate per un certo periodo in occidente come la panacea anti-farmacologica di tutti i mali, sono oggi ricondotte entro i loro limiti, e vengono prese in considerazione al più per la cura dei reumatismi. Non parliamo poi delle incredibili bufale della chirurgia filippina a mani nude, delle pomate “biologiche” antitumorali e delle varie cure omeopatiche.

A meno che non si voglia girare la frittata, e sostenere che il problema sono semmai proprio le esigenze artificialmente indotte dalla modernità. Ovvero che i bisogni cui le conoscenze alternative non sanno dare risposta sono falsi bisogni, o sono conseguenza appunto dello “snaturamento” dell’uomo e del mondo. È ciò che ad esempio sostiene Konrad Lorenz, partendo ne Gli otto peccati capitali del mondo moderno dalla denuncia dell’aumento esponenziale della popolazione mondiale e dal conseguente deterioramento del suo patrimonio genetico, per arrivare a sostenere una larvata forma di eugenetica. Lorenz parla di una involuzione degenerativa della specie umana, provocata proprio dagli argini culturali opposti alla selezione, che porterà all’estinzione la specie stessa. Non è affatto un post-modernista, ma ha il coraggio di sviluppare sino in fondo un’argomentazione che i detrattori della modernità usano invece in maniera ambigua e reticente. Perché delle due l’una: se si ritiene che la “cultura” non debba interferire e alterare i meccanismi selettivi dell’evoluzione, non si può poi accusare di aridità e freddezza e utilitarismo la civiltà moderna, che con la medicina in effetti si oppone a questi meccanismi, e sostenere magari che questa opposizione è finalizzata solo ad avere più malati o più consumatori da sfruttare. Altrimenti si finisce davvero in un delirio “complottista”.

Le cose non cambiano anche se ci limitiamo a considerare le conoscenze sotto un profilo puramente teorico (che, ripeto, in realtà non esiste, perché qualsiasi tipo di conoscenza ha comunque una qualche finalità e una qualche applicazione pratica). Prendiamo il caso delle scienze naturali, quelle che almeno in apparenza presentano uno statuto conoscitivo meno immediatamente performante. È verosimile che la formulazione settecentesca delle tassonomie naturalistiche di Linneo e di Buffon sia stata condizionata dall’incrocio di esigenze politiche ed economiche, e che a loro volta queste tassonomie abbiano poi influenzato i commerci internazionali[11]: vanno quindi interpretate per quel sono, non il racconto veridico del mondo ma dei modelli convenzionali per leggerlo, adottati per finalità pratiche.

Almeno in questo senso però hanno funzionato: hanno consentito di elaborare criteri di rapporto e, perché no, anche di utilizzo. Che la cicuta e la belladonna fossero velenose lo sapevano anche i nostri antenati, ma che da quei veleni si potessero trarre dei farmaci lo hanno svelato le scienze. Allo stesso modo in cui le scienze hanno salvato la pelle ad un sacco di gatti neri o di poveri cristi additati come “untori”. E se è vero che le culture non occidentali (e non “borghesi”) hanno elaborato forme alternative di classificazione, molto spesso i loro criteri ricordano quelli riassunti da Borges[12] quando, riferendosi ad una fantomatica enciclopedia cinese, dice: “È scritto che gli animali si dividono in (a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, ecc …, fino a (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche”. Queste cose aprono scenari suggestivi, ma di ciò che è davvero importante sapere degli animali o delle piante o dei minerali (se davvero siano pericolosi i gatti neri, ad esempio) ci fanno conoscere quasi nulla. Ha un bel dire Foucault che “il fascino esotico di un altro pensiero suggerisce il limite del nostro”. Il fascino esotico senz’altro rimane, ma a me suggerisce al contrario che i limiti del nostro pensiero siano spostati molto più in là.

Le fughe verso forme di sapere empatiche e “dolci” nascono dalla difficoltà, o dal rifiuto, di capire che alla base delle svolte epocali, quelle che hanno davvero segnato (e distinto) il cammino dell’umanità, ci sono scelte dettate da un “calcolo” biologico. Penso ad esempio alla rivoluzione agricola. Alcuni studiosi sostengono che quel passo abbia decisamente abbassato la qualità della vita degli umani, che come cacciatori-raccoglitori dovevano lavorare molto meno, potevano contare su una varietà alimentare più ampia ed avevano meno ragioni per perpetrare o subire violenza. In base alle prove documentali che abbiamo in mano è un’ipotesi valida quanto un’altra[13]. Ma se anche fosse fondata non dimostrerebbe affatto che la prima grande “razionalizzazione” dei comportamenti economici abbia alterato il corso naturale, col risultato di una sorta di cacciata dall’Eden. Ciò che vale per i singoli individui non vale allo stesso modo per la specie, che “ragiona” in termini di successo riproduttivo: e in questo senso la vita stanziale e la domesticazione delle piante hanno significato la possibilità di mettere al mondo e di mantenere più figli, quale che fosse poi il loro destino. Voglio dire che in noi, come in tutte le altre specie, animali e vegetali, agisce per natura una funzione “calcolante”, e che la razionalizzazione ne rappresenta semmai un parziale superamento: la ragione è la briglia imposta all’istinto, quella che consente agli umani, e solo a loro, di scegliere i mezzi e regolare la velocità. Ma la direzione e il percorso, che lo vogliamo o meno, sono per la gran parte già scritti nei nostri geni.

Non raccontiamoci dunque che il valore o la bontà di una pratica non si misurano in termini “quantitativi” di controllo o di efficacia (l’etica assoluta di Kant non si riferiva a questo). Lo studio delle società pre-moderne, occidentali o no, ci dice che al più possono variare gli strumenti per esercitarlo, questo controllo, ma le finalità non cambiano. Torniamo nel campo della medicina. Anziché ad un farmaco di tipo chimico si può pensare di ricorrere ad una pozione, ad un incantesimo, a un sacrificio, a una formula magica, a una preghiera o a un mantra, ma lo scopo rimane lo stesso: è quello di alterare, frenare o eliminare un processo naturale. Allo stesso modo, è vero che dietro il farmaco “moderno” c’è l’industria farmaceutica, e che una buona metà delle malattie odierne in realtà esistono, o sono trattate, solo in funzione del mercato della salute; ma è altrettanto vero che dietro i rimedi alternativi ci sono sempre stati chiese, sette e sfruttamento della superstizione o della dabbenaggine: e che oggi prospera un collaudato business della medicina “naturale”. Quindi questi rimedi non garantiscono affatto una minore soggezione e dipendenza rispetto alle diverse forme di potere che sempre, in qualche modo, ne discendono e li controllano. E comunque, non esistono pozioni o formule in grado di riattaccare un braccio amputato, o di bloccare un infarto.

Se il problema è conoscere la natura delle cose per poter agire sulle cose stesse (e per il genere homo, la si metta come si vuole, il problema è quello), al momento la forma di conoscenza più profonda e più affidabile rimane quella sviluppata dalla cultura occidentale. Che si è affermata nei confronti delle altre non per prepotenza imperialistica, ma semplicemente perché più efficace.

Bollando la scienza come pura espressione dell’utilitarismo “borghese” se ne negano invece anche applicazioni e risultati che sono palesemente positivi, senz’altro in termini di successo della specie, ma direi anche per la qualità della vita degli individui. È il caso dell’attuale polemica contro le vaccinazioni. È innegabile che grazie a questa profilassi ceppi virali che ancora sessant’anni fa erano devastanti, come quelli della poliomielite o della tubercolosi, sono stati stroncati. Che avremmo dovuto fare? Tenerceli? Lasciar fare alla natura il suo corso, come sostiene Lorenz, anziché adottare rimedi “borghesi”? Ho frequentato le elementari assieme a due ragazzini poliomielitici e certe stupidaggini non le voglio neppure sentire. E allora, se la scelta non è questa, non ci piove: le pratiche ritenute più naturali, antroposofiche, omeopatiche, ayurvediche, olistiche, vegane, sciamaniche che siano, rappresenteranno indubbiamente il “molteplice”, ma non hanno alcuna efficacia nei confronti di questi aggressori. E lo sanno benissimo anche i naturisti, tanto che recentemente, al primo sospetto di focolai di meningite, si è verificata una corsa mai vista alle vaccinazioni.

Lo stesso discorso vale per la legittimità dei metodi di ricerca. Non metto in dubbio che l’uso degli animali per lo studio delle malattie e dei loro possibili rimedi, o gli interventi a livello genetico, si prestino alla distorsione delle finalità e all’abuso dei mezzi: ma anche in questo caso ho la convinzione che nello spostare il tiro dai possibili effetti alla causa si sia corretto malamente l’alzo, tanto da arrivare a colpire direttamente la razionalità. L’idea di scimmie o topi sottoposti ad esperimenti nei laboratori non mi sorride affatto, e mi auguro che per il futuro si trovino alternative valide: ma per il momento non ne vedo, e mi pare assurda la richiesta di sospendere pratiche alle quali sono legate le uniche speranze di nostri simili in difficoltà. Soprattutto mi sembra pretestuoso usare questo argomento per attribuire alla ragione “moderna” l’invenzione e il monopolio della crudeltà contro le altre specie, e del loro sterminio.

La sola comparsa del sapiens, ben prima della rivoluzione agricola e di Parmenide e di Platone, provocò nel volgere di poche migliaia di anni un’estinzione di specie animali paragonabile a quella dei dinosauri (per non parlare del genocidio intraspecifico, quello che ha spazzato via le altre famiglie del genere homo). Allo stesso modo i sacrifici animali apotropaici (nonché quelli umani), gli sgozzamenti rituali, le carneficine in occasione di esequie reali o i processi intentati a povere bestie sospettate di poteri malefici erano (e sono) diffusi in culture che col razionalismo e la modernità avevano ben poco da spartire. È vero piuttosto il contrario: e cioè che la sensibilità odierna nei confronti di questi temi è frutto di una impostazione più razionale delle conoscenze, che ha portato alla presa d’atto della nostra appartenenza in toto al mondo animale, della nostra parentela stretta con le specie affini.

Tornerò più oltre sul fatto che persino questa nuova attitudine, quando sfugge al controllo della ragione, produce mostri (mi riferisco naturalmente all’integralismo animalista). Ciò che mi preme chiarire adesso, in buona sostanza, è che l’intreccio tra interessi economici o politici e sviluppo della scienza moderna sta sotto gli occhi di tutti, ma questo non delegittima affatto la scienza, e tanto meno la razionalità che la informa. Dovrebbe semmai indurci a riflettere su come siano nate e come abbiano agito queste complicità: scopriremmo che le loro motivazioni e i loro scopi con la razionalità hanno ben poco a che vedere. Il fatto ad esempio che l’evoluzionismo sia stato piegato anche ad una interpretazione razzista, lontana anni luce dagli intenti di chi ne ha formulata la teoria ad oggi più coerente, non ne inficia assolutamente la credibilità e il valore: e la storia stessa del darwinismo dimostra che alla lunga è la corretta interpretazione scientifica ad affermarsi.

La redenzione razionale

Io credo in un “fondamentalismo laico illuminista”, che concerne il metodo, non le teorie o le ipotesi. Queste possono variare, ma l’approccio razionale scientifico, ovvero la convinzione che possiamo avere una conoscenza oggettiva del mondo esterno nell’ambito naturale (in altri ambiti, quello sociale, ad esempio, o quello politico, la musica cambia), non è negoziabile. E sono convinto che la razionalità abbia una sua necessaria coerenza, un sistema immunitario che si attiva e reagisce contro gli attacchi virali esterni e le degenerazioni interne. È a partire da questa evidenza che bisognerebbe discutere, anziché rigettare l’intero sistema: esattamente il contrario di ciò che fanno gli anti-moderni.

A loro parere, infatti, la razionalità scientifica, modificando sempre più velocemente il senso della realtà, non solo con le sue “scoperte” ma soprattutto con le sue ricadute tecnologiche, produce uno sfaldamento sociale e uno spaesamento esistenziale che si traducono alla fine in nichilismo. Ed essendo la scienza espressione necessaria e necessitante della ragione, il difetto va sanato all’origine, negando a quest’ultima ogni validità conoscitiva e ogni autorevolezza precettiva.

Mettono insomma in discussione una peculiarità dell’uomo che a seconda dei punti di vista può essere considerata diabolica o divina, ma è comunque innegabile. Non è possibile prescinderne, soprattutto alla luce di quanto detto sopra: che cioè la razionalità nasce da una istintiva funzione di calcolo propria di ogni specie, ma supera questo determinismo per diventare, attraverso la facoltà di scelta, lo strumento della singolarità umana: lo strumento della libertà (o almeno, di quel margine di autonomia decisionale che la natura ci consente).

È proprio la libertà a consentire alla cultura razionale di rilevare le reali o presunte criticità dei suoi stessi presupposti. Questo i critici della modernità rifiutano di vederlo. Anzi, ritengono che la riflessione operata dalla ragione su se stessa, sui propri strumenti e limiti e ambiti di funzionamento (Kant, per intenderci) sia complice, se non artefice, dell’asservimento e dell’annichilimento dell’uomo. Paradossalmente il criticismo kantiano viene considerato, a partire da Stirner, l’origine di tutte le sciagure indotte dalla modernità. A svelare il trucco e a portare a compimento il “disincanto” del mondo sarebbe proprio la coscienza (razionale) di come la razionalità funziona: col risultato di produrre un atteggiamento che Nietzsche definisce “nichilismo alla moda di Pietroburgo”, un nichilismo cioè angosciato e pavido, che cerca disperatamente di supplire alla caduta dei vecchi valori inventandosene altri.

In sostanza ai moderni, che già erano stati privati delle certezze della fede dalla rivoluzione scientifica, una volta accertata da Kant l’impossibilità di conoscere alcunché dell’Essere non sarebbe rimasto che rivolgersi alla razionalità stessa per chiederle di dare un senso all’esistenza (attraverso la storia, il progresso, ecc …). Nel farlo hanno rinunciato più o meno consapevolmente a quei margini di incanto, di mistero che costituivano le aree franche dall’angoscia di fronte alla morte e alle altre miserie della condizione umana. Quando poi questo senso non è arrivato, o si è rivelato una costruzione metafisica, allora tutto si è sfarinato nella incertezza, si è liquefatto, per l’assenza di verità cui aggrapparsi e di valori cui conformarsi. Il che ha equivalso poi a rinunciare a decidere, a scegliere. Ha equivalso ad arrendersi al nulla.

Quando parlavo di semplicismo mi riferivo proprio a questa rappresentazione da tragedia greca. E comunque, quel che in positivo gli antimoderni oppongono all’incertezza rasenta il comico, non fosse che gli esiti possono essere tragici. La ragione è accusata di lasciare gli uomini orfani di senso, una volta che le ideologie da lei stessa indotte sono naufragate alla prova dei fatti. Quindi, con una operazione che più concettualistica non potrebbe essere, i decostruzionisti provvedono a rimuovere le macerie ideologiche per liberare spazi nuovi alla creatività spontanea, da gestire non razionalmente ma emotivamente. Tutto questo, tradotto in quotidianità, dopo un paio di semplicissimi passaggi suona come una apologia del permissivismo: ragazzi, vedete un po’ voi, seguite l’onda delle vostre pulsioni. Che è ciò che poi fanno ultimamente, con agghiacciante regolarità, mariti e amanti fedifraghi o traditi, e figli troppo pressati dalle famiglie. Al momento non riesco a scorgere altre applicazioni delle fumose aperture all’istintualità predicate da Maffesoli e da Vattimo: e questo rafforza la mia convinzione che il post-modernismo alimenti quella stessa deresponsabilizzazione dell’individuo che imputa alla cultura della modernità. Per questo, continuando ad abusare della tua pazienza, mi spingo ancora avanti.

Utopia e reincanto

Non considero ovviamente Lyotard e Derrida e tutta la compagnia postmoderna responsabili di quella che dal mio punto di vista è una corsa allo sfascio culturale e civile (e per Maffesoli è invece un ritorno alle energie vitali). Voglio dire, del montare degli integralismi di ogni tipo, della violenza di genere, delle guerre per bande, ecc…[14] Le forze in gioco sono ben altre, assai più potenti della filosofia. Penso però che gli intellettuali, i filosofi in particolare, siano qualcosa di più che semplici testimoni della storia. Non hanno in mano le artiglierie, non premono il bottone per sganciare le bombe, ma in qualche modo danno le coordinate, orientano i sistemi di puntamento, oppure offrono le pezze d’appoggio con le quali giustificare qualsiasi deriva. I casi di Oxford e di Yale stanno lì a dimostrarlo.

Lo hanno sempre fatto, prima ancora di Platone, hanno sempre cercato di correggere il passo dell’umanità, di indirizzarlo, lavorando alle spalle della politica e dell’economia, il più delle volte marciando controcorrente, o in anticipo, perché ne coglievano con uno sguardo dall’alto le contraddizioni e i pericoli. Raramente sono stati dei semplici certificatori dell’esistente, ma anche quando questo è avvenuto avevano in mente un parametro ideale. Diciamo che tutti i filosofi sono, per un verso o per l’altro, degli utopisti. Se fossero dei realisti si darebbero alla politica spicciola.

Il motivo per cui ne stanno alla larga è che, paradossalmente, non hanno alcuna fiducia negli uomini. Le Utopie più famose, quelle con la maiuscola, non interstiziali, a partire dalla repubblica di Platone (che a dire il vero con la politica ci ha anche provato), hanno come oggetto non gli uomini ma l’Umanità. In esse la palingenesi, la redenzione, la rivoluzione sono affidate al volere divino o alle leggi della storia, col tramite, in entrambi i casi, di guide “illuminate”: e sono la condizione necessaria, non la possibile conseguenza, di un cambiamento degli uomini. Il senso all’esistenza umana, quella dei singoli, degli individui, dovrà arrivare dall’alto: lo daranno la Repubblica appunto, il Paradiso, la Storia, lo Spirito assoluto, la Società senza classi, ecc… Per creare le condizioni di questo avvento le Utopie classiche, letterarie o tragicamente concrete, a partire da quella di Thomas More fino a quella di Pol Pot, ricorrono in genere all’espediente dell’isola: l’esperimento sociale può essere condotto solo nel totale isolamento nei confronti dell’esterno, ad evitare contaminazioni, ma soprattutto per chiudere ogni via di fuga alle cavie riluttanti. Si salta geograficamente in un altrove, o temporalmente in un’altra epoca, perché con ogni evidenza nel qui ed ora non ci si crede. E una volta instaurata la società perfetta, nulla dovrà più cambiare. L’idea di fondo è quella di fermare il tempo (o la coscienza del tempo) per abitare lo spazio (in questo caso, uno spazio non aperto). E guarda caso, è la stessa dalla quale muove l’anti-utopia postmoderna. Dove si vada a parare per questa strada lo abbiamo già visto.

Non esistono però, e per fortuna, solo le Utopie originate dalla sfiducia negli uomini. Forzando magari un po’ il termine, e scrivendolo con la minuscola, si scopre che è possibile immaginare un cambiamento che muova dal basso e dal singolo. Nel linguaggio filosofico potremmo dire che questo tipo di aspettativa risponde a un modello utopico, mentre quello della grande redenzione collettiva si aggrappa ad un sogno utopistico. Nel primo caso l’idea è quella del perseguimento di una trasformazione lenta ma continua, il cui orizzonte si sposta sempre un po’ più in là: nel secondo c’è la pretesa di realizzare, di norma con un colpo di mano, un modello di società che, in quanto perfetto, non dovrà più cambiare.

Maiuscole o minuscole, le utopie hanno dimora comunque solo nel mondo moderno (prima possiamo parlare di millenarismi o di aspettative escatologiche), perché solo in esso si è osato tradurre la comprensione delle leggi naturali in azione concreta: si è pensato cioè che l’uomo potesse cambiare il mondo. La differenza sta nel fatto che il modello utopico non nasce da un disincanto maldigerito nei confronti delle potenzialità dell’uomo, ma dalla realistica consapevolezza dei suoi limiti: e questa non costituisce un approdo rassegnato, ma il punto di partenza per assegnare all’uomo un posto nella natura e ridisegnare un senso alla sua esistenza. Un senso che parta dall’uomo stesso, dalla sua differenza, e non gli arrivi dall’esterno.

Il modello utopico confida dunque nella capacità dell’uomo, dei singoli uomini, degli individui, di riscattare la propria apparente insignificanza rispetto all’eternità del tempo e all’infinità dello spazio attraverso la cultura. Può essere declinato in varie sfumature, ma accomuna tutti coloro che esercitano la critica delle storture sociali passandone ogni aspetto al vaglio della razionalità. Si chiamino Steiner, Berlin o Timpanaro, tanto per rimanere nella cerchia dei miei santini, e siano riconducibili al pensiero liberale, a quello anarchico o a quello marxista, esprimono comunque una identica convinzione di base: la critica deve essere razionale, e la cultura che abilita ad esercitarla deve essere frutto di una conquista individuale, non di una pentecostale rivelazione scesa dal cielo o dalle labbra di un guru.

L’anti-utopia prospettata dai post-moderni è invece una creatura ibrida: prevede che il cambiamento avvenga sì dal basso, ma non sia guidato dalle singole coscienze accresciute, bensì dalle “nuove forme di comunità”: quelle che abbiamo visto in Maffesoli. Questo cambiamento non appare finalizzato a qualcosa di definitivo, e neppure suppone, nemmeno a livello di intenzioni, dei parametri di risultato, se non una molto vaga “liberazione”; ma anche se in apparenza non contempla una “fine della storia”, in realtà la decreta nel momento stesso in cui rifiuta la ricerca di nuove proiezioni “in avanti” dell’umanità. È un modello che non tiene conto del “legno storto” nel quale sono intagliati gli uomini, e nemmeno ne dà per scontata l’immaturità, come avviene di regola nelle grandi Utopie: rispolvera piuttosto il mito del “buon selvaggio”, sia pure in una versione a venire, e indica in una disposizione originaria creativa e dionisiaca il riferimento per una nuova socialità non oppressiva. Potrebbe essere considerato un utopismo escapista (alla Rousseau, per intenderci, contrapposto a quello urbano, razionalista e scientifico-tecnologico di Bacone); senonché ha poi una strana concezione della equilibrata armonia da ricostituire tra l’uomo e la natura, dal momento che individua gli strumenti di fuga proprio nelle tecnologie più avanzate.

La dissacrazione, o decostruzione, dei miti della modernità operata dai post-moderni si risolve dunque nel ritorno a quelli antichi, pre-biblici o addirittura pre-olimpici (non a caso, tra i suoi derivati c’è anche la riscoperta del paganesimo), trasferiti in una situazione da day after. È una singolare riproposta del conflitto natura-cultura, che riattualizza una millenaria diatriba sulla natura umana. Da un lato la linea che va da Esiodo a Hobbes, passando per Platone e per Tucidide, e che secondo l’accusa è quella dominante nel mondo moderno, per la quale gli uomini sono originariamente lupi gli uni agli altri, in sostanza delle bestie che vanno guidate col morso (ma lo dice anche Dante): dall’altra quella che in qualche modo passa per Aristotele (l’uomo è un animale politico) e per Pico della Mirandola, convinti della natura fondamentalmente positiva dell’uomo, e trova poi una espressione polemica in Rousseau, per il quale sono state le istituzioni, quelle politiche e quelle economiche, a corromperne la natura innocente.

I post-modernisti non hanno dubbi. Nella loro analisi le scienze naturali e le scienze umane, a partire dal Cinquecento, hanno congiurato ad accreditare un’idea negativa dell’uomo che giustificasse le disuguaglianze, le sofferenze, le ingiustizie, e soprattutto la proprietà privata, il potere dello stato e un modello produttivo che produce soltanto alienazione, attraverso lo sfruttamento e la coazione al consumo. Di qui il convincimento che per procedere ad una liberazione vera occorra scalzare questa idea alle radici, dimostrarne l’inconsistenza, ciò che è possibile solo facendo tabula rasa della razionalità, mettendone a nudo il vizio d’origine, dimostrando che l’oggettività è un trucco e riconducendo il tutto su un piano meramente linguistico.

Solo in questo modo l’uomo nuovo maffesoliano potrà emanciparsi, sottraendosi a costrizioni, pressioni, regole, mascherate da quel sistema dei diritti più o meno “naturali” che la razionalità ha elaborato a scudo del capitalismo e del dominio borghese. Ma se la ricerca dell’oggettività è impossibile, o è uno strumento della dominazione, la risposta è una logica “pluralista”, che apre poi la strada al relativismo etico.

Non si tratta dello stesso atto di fiducia nell’uomo espresso da Aristotele e da Pico: perché quelli in realtà chiamavano l’uomo a costruirsi, lo accreditavano di un potenziale che andava però sviluppato, mentre qui si parla di qualcosa che evidentemente, se non fosse tarpato e soffocato dal grande inganno razionale, agli uomini apparterrebbe già, sarebbe loro dato in dotazione dalla natura. Devono solo fluire sulla scia delle loro pulsioni e dei loro gusti. La libertà si riconquista nel disordine.

Il problema è che alla radice della critica post-moderna sta, come dicevo, la stessa aporia su cui si fondano le ideologie utopistiche, comprese quelle imputate alla modernità. È il mancato riconoscimento della responsabilità che il singolo deve assumersi, sia in positivo, per crescere, sia in negativo, se rifiuta di usare gli strumenti che ha a disposizione per farlo, o li usa scorrettamente. A dispetto dell’accento posto continuamente da Maffesoli sulla “reazione” dell’individuo, i postmoderni continuano a scaricare all’esterno (in questo caso sulla “cultura”, nell’età delle ideologie sulla “società”, prima ancora erano le potenze maligne o il Fato) una responsabilità che è invece individuale. Perpetuano una tradizione sociologica tutta orientata sullo studio dei condizionamenti sociali, a mostrare quanto il peso delle strutture economiche, politiche e culturali possa schiacciare la libertà del soggetto. Certo, viviamo all’interno di una rete di rapporti, e una società è l’insieme definito dalla cultura nella quale gli individui si riconoscono, o alla quale comunque temporalmente e spazialmente appartengono. E questa cultura condiziona l’individuo sotto ogni aspetto. Ma ciò non toglie che i singoli vadano tenuti responsabili dell’uso che ne fanno, dell’interpretazione che danno dei loro rapporti reciproci e di quello col mondo. Che se la siano conquistati o che l’abbiano acquisita per un errore di duplicazione dei cromosomi, agli uomini è data un’autonomia di scelta. Il loro comportamento non è la pura somma delle costrizioni sociali. Entro questo margine di autonomia stanno la razionalità e i suoi calcoli, le emozioni e il loro controllo, la sensibilità. C’è la valutazione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto.

Il male non è mai banale: è frutto di una scelta singola sbagliata, o di una non scelta, che è sbagliata comunque. Non è stata la razionalità a produrre Auschwitz, ma il suo uso distorto, l’applicazione di criteri razionali ad una demenziale volontà di potenza, da parte di alcuni, e la non opposizione a questo stravolgimento da parte dei più. Non mi si possono tirare in ballo Goethe o Beethoven per darne una spiegazione. Le pezze d’appoggio per giustificare qualsiasi nefandezza si possono trovare ovunque, e proprio le religioni, grandi o piccole che siano, stanno lì da millenni a testimoniarlo: ma dire che gli orrori del Novecento sono stati lo sbocco naturale della presunzione razionalistica è solo un modo per non accettare la realtà di una natura umana “originaria” tutt’altro che giocosa e innocente (a prescindere dal fatto che a leggerla senza paraocchi tutta la storia, e segnatamente quella pre-moderna, e quella non occidentale, è una tabella di orrori).

Al contrario, la razionalità è sempre stata consapevole di un suo possibile utilizzo improprio. Kant l’aveva già chiaramente detto parlando di legno storto dell’umanità. Mi torna in mente il confronto tra Antoine Spire e George Steiner di cui ho parlato in Sottolineature. Da una parte c’è chi, evidentemente sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda di Maffesoli, coglie nella musica metal, nei tatuaggi, nei graffiti metropolitani o nelle mandrie che affollano gli stadi e le mostre gli indizi di una nuova cultura, dall’altra chi guardando realisticamente al degrado vuole continuare a sperare che a dispetto di tutto, di Auschwitz ma anche della musica metal o dei postmoderni, non venga buttato quel busto ortopedico che la “vecchia” cultura – illuministica, borghese, scientifica, chiamiamola un po’ come vogliamo – costituisce.

Mi identifico totalmente in quest’ultima posizione. Penso che quando gli uomini si comportano come bestie, o peggio, ciò non dipenda dall’essere diventati troppo razionali ma, al contrario, dal fatto che la stragrande maggioranza non ha raggiunto il traguardo dell’uscita dalla minorità. E questo non perché l’asticella da superare sia troppo alta, e vada abbassata, o peggio ancora rimossa, ma perché ha paura di ciò che c’è dall’altra parte, che il tappeto su cui andrà a ricadere sia troppo duro, che la responsabilità da assumere sia troppo pesante. La cultura “borghese”, con tutte le sue pecche e strumentalizzazioni e strategie di distrazione, queste cose ce le ha comunque messe davanti. Nietzsche e Schopenhauer e lo stesso Heidegger non hanno filosofato in India, alla Mecca o nelle isole Tonga: ne sono figli, magari ribelli, e come tali magari capaci di dire ogni tanto verità spiacevoli, ma la paghetta hanno continuato a riceverla da casa. Lamentarsi perché queste verità non ci piacciono e cambiare canale per non sentirle mi sembra una reazione puerile.

Un’etica “razionalista” è l’unico atteggiamento conseguente. Non mancano, e lo abbiamo visto, gli esempi di una attitudine dignitosa, tutt’altro che nichilistica, di fronte al nulla disvelato: li troviamo lungo tutto il percorso culturale dell’Occidente, senza bisogno di andare a cercarli nelle fughe dal mondo offerte dalle culture alternative. Leopardi e Camus, per citare altri nomi che mi sono cari, sono lì a dimostrare proprio con l’eccezionalità della loro esperienza come la vecchia e vituperata cultura razionale possa produrre anche un “nichilismo reattivo”. E allora, anziché rigettarla, è semmai da spingere perché questa cultura venga fatta propria da chi non l’ha abbracciata, e digerita da chi si limita a masticarla per rinfrescarsi l’alito. Certo, la cultura razionale è fatica, è disciplina: ma una fatica già in sé gioiosa, come quella di chi arrampica per salire una montagna, o compone L’Infinito, o scrive La Peste.

Il futuro immaginato (e caldeggiato) da Maffesoli implica invece il ripudio di quel processo di razionalizzazione e di responsabilizzazione che ha segnato tutta la storia dell’umanità, ma che a suo giudizio sembra aver costruito solo una sorta di inferno terreno, nel quale trionfano sradicamento, alienazione, solitudine, atomizzazione, repressione. Per fare posto a che? A “un universo di riti, giochi e immaginari la cui etica è quella del tragico”. Nel quale il soggetto sperimenta oggi più che mai un affrancamento dal normativo. Beh, direi che quanto ad affrancamento dal normativo ci siamo già portati parecchio avanti, soprattutto in Italia. In questo senso potremmo proporci come l’esempio realizzato della società post-moderna. Ma l’affrancamento dal normativo, una volta applicato alla realtà sociale, non dissolve i ruoli sociali predefiniti (era dal medioevo che non si verificava una cristallizzazione dei ruoli e dei ceti sociali paragonabile a quella degli ultimi trent’anni, con cariche e professioni che paiono essere tornati ereditari): diventa piuttosto un liberi tutti all’interno del quale sono sempre i piccoli, i deboli, le scorze d’uovo, a “stare sotto”.

Nemmeno credo che la dissoluzione delle vecchie regole sociali, l’apertura della gabbia nella quale secondo Maffesoli era imprigionato il soggetto, conduca in automatico all’avvento di una nuova socialità creativa. Anche se il termine viene usato con le dovute virgolette – a dire che si tratta di altro da quello politico novecentesco – qui si parla di “spontaneismo”. La nuova comunità cui si riferisce Maffesoli si fonda sull’idea che la proliferazione spontanea delle reti sociali “virtuali” produca un’intelligenza collettiva necessariamente efficace. E torno a chiedermi: ma dove vive? Si guarda attorno, prova ogni tanto a dare uno sguardo a ciò che davvero accade in rete, o per strada?

Il meno peggio dei mondi possibili

Sino ad ora ho parlato in termini molto teorici di responsabilità personale, individuale: per esemplificare concretamente non posso però che buttarla, come al solito, sul personale. Sulla mia insofferenza per la lettura post-modernista del presente (e naturalmente, del passato e del futuro) pesa senza dubbio una personalissima idiosincrasia: quando sento questi discorsi fiuto immediatamente odore di “garantiti”. È uno degli aspetti della “sindrome di San Francesco” di cui ti ho spesso parlato: solo i ricchi possono scegliere di diventare volontariamente poveri. Non c’entra, bada bene, la condizione sociale, o c’entra relativamente. Certo, c’è gente che non ha mai dovuto combattere per conquistarsi qualcosa, e quindi non ha idea del valore di ciò che vuole buttare, perché esso sta appunto nella fatica e nella soddisfazione della conquista. Ma io nei garantiti faccio rientrare anche coloro che hanno potuto vivere solo per se stessi, scegliere senza farsi condizionare dalla sorte di chi stava loro attorno. L’ho sempre avvertita questa distanza: a scuola prima, all’Università nel Sessantotto, e continuo ad avvertirla anche oggi. È quella che separa chi vive sentendosi sempre in credito con la vita e con l’umanità, da chi ritiene di avere dei doveri nei confronti dell’una e dell’altra.

Maffesoli ed io abitiamo nella stessa parte del mondo: siamo quasi coetanei, quindi abbiamo attraversato anche la stessa fettina di storia. Ma a leggerlo non si direbbe. Anch’io non credo di essere un Candido, vedo come lui tutte le contraddizioni e le storture della civiltà occidentale, non ho nemmeno atteso i postmoderni per rendermi conto del vicolo cieco nel quale ci sta conducendo l’autonomizzazione della tecnica e dove ci ha già condotto quella della finanza: penso quindi sia mio dovere continuare ad oppormi in qualche modo a queste derive, e nel mio piccolo credo sino ad oggi di averlo fatto: ma so anche che altrove, pure al netto dei danni della colonizzazione e di quelli della globalizzazione, è molto peggio. E che prima lo è stato per tutti.

Per questo non tollero i denigratori da diporto del mondo e della storia occidentali, quelli superficialmente indottrinati dai diversi catechismi, marxista, cattolico, terzomondista, pseudo-buddista, induista, a pensare che l’occidente (e l’occidente sono sempre genericamente gli altri) sia all’origine di ogni nefandezza: quelli che visitano luoghi e culture altre sempre con l’attitudine del pellegrinaggio, e rifiutano lo sforzo di vedere anche ciò che sta sotto i loro occhi, e di pensare con la propria testa. Che vanno in estasi di fronte a mondi nei quali non sarebbero mai sopravvissuti, e schifano quello in cui è consentito loro di rientrare dopo la vacanza intelligente.

Non sopporto quindi, e anche questo lo sai da un pezzo, quell’altra sindrome che Pascal Bruckner ha definito “il singhiozzo dell’uomo bianco”, che induce a liquidare il problema del disordine del mondo con l’attribuirne tutte le responsabilità alla civiltà occidentale, e a colpire nel mucchio delegittimandone ogni presupposto. È una sindrome oggi più che mai diffusa, anche dopo il tramonto delle ubriacature terzomondiste, e si manifesta come un peloso senso di colpa, fondato su improbabili esotismi da noia intellettuale più che su una reale coscienza storica, che pregiudica ogni tentativo di valutare le situazioni con un po’ di buon senso. L’occidentalizzazione del mondo c’è stata, è stata cruenta, ha portato lo sfruttamento a livelli esponenziali: ma ha dato contestualmente vita, dall’interno, ad una critica e ad una opposizione serrata. Da de Las Casas in poi, a partire dai primissimi anni successivi alle grandi scoperte geografiche, il numero di coloro che denunciavano la schiavizzazione e lo sterminio dei popoli colonizzati è stato grandissimo, e a dispetto delle apparenze le loro voci non si sono perse nel deserto: hanno scosso nel profondo le coscienze occidentali, tanto appunto da determinare quel senso di colpa cui accennavo sopra. Non mi risulta che altre culture abbiano sviluppato lo stesso tipo di reazione. Gengis Khan e Tamerlano sono eroi indiscussi per le popolazioni mongole e turche, così come lo sono Saladino per l’Islam o Shaka Zulu per i neri sudafricani: mentre per contro Cortès e Pizzarro sono considerati poco più che dei banditi. Eppure, quanto a efferatezza e a mancanza di scrupoli avevano tutto da imparare dai primi.

Lo stesso vale per lo schiavismo: già a partire dal Settecento ha cominciato a fiorire tutta una letteratura dell’abolizionismo, e oggi le opere storiche sull’argomento non si contano più, mentre non mi risulta ne esista una sullo schiavismo arabo, che ha interessato un numero almeno doppio di disgraziati, scritta da un arabo. E per quanto concerne i genocidi, è sufficiente vedere quanta contrizione provino i turchi odierni per quello degli armeni. D’altro canto, lo stesso Vattimo sa benissimo che può esprimere impunemente tutto il suo sprezzo per la cultura occidentale solo perché ne è figlio: ad altre latitudini non solo non potrebbe farlo, ma avrebbe difficoltà anche a sopravvivere. Saranno considerazioni banali, ma sono incontestabili: così come è incontestabile che questa coscienza della negatività del proprio operato, che appartiene solo all’Occidente, nasce proprio da considerazioni razionali, e non da una positiva emotività o empatia.

Questo per la giustizia storica. Quanto all’esperienza privata, a differenza evidentemente di Maffesoli io ho vissuto bene sia la mia epoca che la mia appartenenza culturale. Non è stato difficile: negli ultimi settant’anni l’occidente è riuscito ad evitarsi, almeno al suo interno, le guerre (lo so, le ha portate altrove: ma quando le faceva qui era peggio). Soprattutto non mi sono sentito né costretto in ruoli, né alienato dal lavoro. Ho fatto cose che mi piacevano, che non erano andare in giro in barca per i Caraibi o giocare al casinò, ma insegnare, e farlo il meglio possibile. Gli strumenti per lavorare bene non li ho trovati in casa né per strada: me li sono procurati con uno studio a volte matto, ma mai disperato, perché sono riuscito a farmi piacere persino la matematica. In questo modo, e con questa disposizione, non ho nemmeno avuto la sensazione di lavorare: e lavori ne ho fatti molti, senza dubbio molti più che Maffesoli. Capisco che la mia condizione non sia la stessa della gran parte dell’umanità: ma secoli fa, prima del trionfo della cultura razionale, o fossi nato altrove, non ci sarebbe stata nemmeno la mia. Faccio dunque parte di coloro che in questa cultura ci credono, e non perché lobotomizzati dal mito del progresso o dalle ideologie egualitarie, ma perché molto prosaicamente ringraziano il cielo di aver vissuto oggi e non cento anni fa o nella comunità originaria. E ritengono che questa cultura occorra senz’altro migliorarla, che ne vadano corretti gli aspetti “disumanizzanti”, ma che prima di tutto sia importante difenderla.

Un’etica della responsabile armonia

Qui volevo arrivare. Mi va molto bene l’etica della responsabilità proposta da Hans Jonas: agisci in modo che la conseguenza delle tue azioni sia compatibile con la sopravvivenza della vita umana sulla terra. Ma il primo passo in questa direzione è quello di rendere grazie per l’esistenza di questa vita. Ovvero, rendersi conto che agire eticamente è facile, a dispetto di tutte le giustificazioni prodotte per non farlo. È sufficiente intendere la responsabilità per quel che deve essere, non un peso imposto, ma una scelta sia etica che estetica: fare bene, nei limiti delle nostre capacità, e possibilmente anche un filo oltre, quello che le circostanze ci portano a fare, è decisamente più gratificante del farlo male e svogliatamente. Volenti o nolenti abbiamo in testa un ordine del mondo, un’idea di armonia, che corrisponde poi alla nozione del bello. Il sillogismo qui lo faccio io: l’ordine è razionalità, l’ordine è bello, ergo, la razionalità è sentimento del bello. Il disordine può anche romanticamente attirarci, ma solo perché ci turba e ci offre una occasione per agire, per rimettere a posto le cose (altrimenti che ci staremmo a fare?). È l’equilibrio a darci serenità. Il secondo passo sarà quindi vedere cosa non funziona, e perché, e prendere atto che su alcuni aspetti non possiamo fare nulla per migliorare la situazione, ma per altri si. E il terzo sarà salvaguardare le condizioni perché questa vita sopravviva: ovvero lasciare il mondo, se non migliore, almeno non peggiore di come lo abbiamo trovato.

Allora, anziché rassegnarci a vedere andare in malora l’edificio, cerchiamo di distinguere tra ciò che è elemento di struttura, funzionale e necessario ad un convivere civile, e quelle che sono superfetazioni. C’è una sola cosa che può aiutarci a operare questa distinzione, e non sono né i sentimenti né le emozioni: è la cultura. Non parlo naturalmente di quella pappina precotta e incartata che si spaccia alla luce del sole nei festival della mente, nelle mostre-evento, in televisione o in libreria, ma della cultura vera, quella per cui ti dai da fare a cercare gli ingredienti e ti ingegni poi a cucinarli, e ne trai alla fine vero nutrimento. Una cultura che non può essere che storica (nel senso di storicamente fondata): e questa è una merce che invece tira pochissimo, non ha quasi più quotazione. Guarda caso, uno dei saggi di maggior successo attualmente sugli scaffali si intitola Abbiamo ancora bisogno della storia? (e la domanda se la pone seriamente, perché la storia è accusata di riportare tutto all’Europa e al suo passato). Eccome se ne abbiamo bisogno, di guardare indietro: non per evocare con nostalgia il mondo che abbiamo perduto, ma per capire com’è che siamo arrivati sin qui, e come potremmo proseguire.

Invece sento ripetere il ritornello che dobbiamo guardare avanti senza alcuna paura del cambiamento, delle novità. Questo si (altro paradosso) che è tipicamente moderno: pensare che la novità costituisca un valore di per sé. Perché non dovremmo averne paura? Perché, dice Maffesoli, quello che non riusciamo a capire, che ci spaventa, è al contrario una opportunità. E quando ti dicono così, devi aspettarti la fregatura. I Greci, quando mandavano i loro ragazzi a morire in battaglia, dicevano che muore giovane chi è caro agli dei. Il modo migliore per recuperare l’essenza degli esseri umani è a quanto pare quello di sacrificarne un po’ (e infatti, diversi popoli hanno preso la cosa alla lettera). È una opportunità per chi? Per chi verrà dopo di noi? O per chi quelle offerte dal moderno le ha già sfruttate tutte? Ma coloro che hanno appena raggiunto un minimo di sicurezza oggi, o quelli che di opportunità non ne hanno avuta ancora alcuna? Che vuoi che siano i disagi – dice Maffesoli –, le paure, ma anche le sofferenze, le distruzioni, che attendono individui “intellettualmente pigri, incapaci di cogliere il pensiero nel suo flusso vitale, adagiati nell’ordine e nell’inerzia dei buoni sentimenti”, di fronte all’emergere dell’essenziale, del profondo? Non dobbiamo averne paura.

Non ho certo paura per me. Mal che vada, la mia parte l’ho già vissuta. Ce l’ho per chi rimane, per le generazioni dei miei figli e dei miei nipoti: vivranno un universo di riti, giochi e immaginari? Ne dubito. Temo che il reincanto di cui Maffesoli si compiace sarà solo quello prodotto dagli stupefacenti, naturali, chimici e, sempre di più, mediatici. Che l’affrancamento dalla tirannia del razionale conduca solo alla schiavitù del virtuale. Ma temo soprattutto per coloro che, sfuggendo all’alienazione di un mondo creato da altri, in quello disorganizzato che si fonda sul desiderio dell’effimero difficilmente potranno fluire e circolare, erranti sulla scia casuale delle loro pulsioni. Anche i disabili?

Quanto alla “comunità”, non ho problemi. Solo, la intendo nell’accezione olivettiana (il moderno ha saputo creare anche modelli positivi di comunità, e il fatto che siano risultati perdenti non significa che non debbano essere riproposti), e non in quella di Facebook o di Tarik Ramadan. E neppure nella confusa e ambigua formulazione che passa sotto il nome di “comunitarismo”. Ritengo che di ogni termine vadano tenute ben presenti tutte le valenze, quelle potenziali e quelle storicamente già sperimentate, e ricordo che il modello “comunitario” era un chiodo fisso di Walter Darrè, il ministro nazista dell’agricoltura e del Sangue e suolo. Se il sogno è poi quello di un ritorno al modello di comunità pre-moderno, grazie mille, lo lascio ad altri. In qualche modo gli ultimi scorci di quella comunità li ho conosciuti. Sono cresciuto in un paesino nel quale sessant’anni fa non era ancora arrivata la rivoluzione tecnologica, dove si arava col bue, si prendeva l’acqua dai pozzi, non c’erano telefoni o televisori, e alla cascina che mio nonno aveva a mezzadria nemmeno l’elettricità, e dove i rapporti di proprietà e quelli sociali erano né più né meno quelli medioevali, con l’ottanta per cento dei terreni nelle mani di tre proprietari. Di quell’epoca mi è rimasto certamente un ricordo bellissimo, una nostalgia struggente: ma dell’epoca appunto, che era quella della mia infanzia, non di quel mondo. In esso non c’era soltanto una dignitosa povertà, come quella in cui viveva la mia famiglia: il confine con la miseria era labilissimo, bastava un nonnulla per finirci dentro, e per quanto rassegnati ad un certo fatalismo si viveva costantemente in ansia per un domani legato alla peronospera o alla grandine, senza alcuno scudo. La solidarietà tra poveri era molto più rara di quanto ci si racconti, e anche quando c’era non era comunque sufficiente a garantire nessuno. Era un mondo molto più simile a quello descritto dal Verga o da Gorkij che a quello tolstoiano: in esso l’ingiustizia sociale era sistema, e non poteva creare che timore e servilismo nei confronti dei potenti e cattiveria nei confronti dei più deboli e degli indifesi. Sgombriamo per favore il campo dalle favole. Kant parla di legno storto con tono bonario, ma non scherza affatto: per quanto perso nei cieli della filosofia, sapeva evidentemente guardarsi attorno meglio di Maffesoli.

Ripeto: l’anelito ad una ricostituzione della “comunità”, in opposizione all’odierna società, non può tranquillamente sacrificare tutti coloro che bene o male qualche garanzia di sopravvivenza, o qualche speranza in una esistenza più dignitosa, in questa società pur arida e irrazionale l’hanno conquistata. Certo, sono molti di più quelli che questa garanzia non ce l’hanno ancora, e non è affatto sicuro che l’avranno mai. Ma è sicuro invece che non ne avranno comunque in una comunità ludica e giocosa, dedita al flash mob, allo smatphone, al rave party e all’arte di strada. Siamo alle solite: le grandi ideologie sono morte, il pensiero deideologizzato le ha sepolte, ma sotto le macerie sono destinati a rimanere sempre le “persone”, gli individui. È un hegelismo di ritorno: la storia conferma la sua astuzia.

L’utopia nelle crepe

È ora di tornare finalmente là da dove siamo partiti, alla nostra piccola utopia, e dunque al perché la definizione di Maffesoli mi abbia tanto irritato. Parlavo di un rapporto che senza tante virgolette può essere definito di amicizia. In fondo non mi interessa nemmeno sapere se l’amicizia esiste al di là di tutte le determinazioni storiche: sono convinto di si, perché l’ho sperimentata e credo in assoluto che possa esistere. Certamente poi ne dò la mia interpretazione, la vivo alla mia maniera.

Ne abbiamo già discusso. Credo in una forte componente “chimica” dei sentimenti, ma questo non significa ridurli al determinismo biologico. La componente chimica può valere, anzi, vale senz’altro per emozioni poco ragionevoli come l’amore, ma l’amicizia suppone un alto livello di affinità intellettuale, che non si misura sulla consonanza degli interessi o sulla qualità e quantità delle conoscenze, ma sulla disposizione di fondo nei confronti della vita (anche questa, comunque, una certo tasso di determinazione biologica ce l’ha). Voglio dire che non amo tutti gli umani solo perché sono umani. Sarebbe troppo, e sarebbe poco serio. Invece li rispetto e li considero in linea di principio tutti potenziali destinatari della mia amicizia o della mia stima: quanto poi a concederle, è tutt’altro discorso. Subentra la “sensazione a pelle”, che non dipende da un “sesto senso” ormonale, ma dal cogliere nell’altro un atteggiamento nei confronti della vita compatibile col mio.

Diffido di chi è costantemente mosso dal risentimento, dal vittimismo, di chi si ritiene sempre in arretrato nella riscossione della sua parte. E questo, se ti guardi un po’ attorno, restringe parecchio il campo. Dubito che chi vive in credito perenne possa investire qualcosa di sé in un sentimento disinteressato. Ho persino una sgradevole impressione di codardia, anche fisica.

Diffido peraltro allo stesso modo di chi predica un amore universale e incondizionato, perché ho constatato che, a dispetto del coraggio e delle buone intenzioni, difficilmente riesce a praticare quello quotidiano, concreto. Ama un’astratta idea di uomo, alla quale, per quanto ampia e aperta, non corrispondono mai le persone singole: e corre il rischio, normale nei grandi utopisti, di voler conformare queste ultime a quell’idea.

In sostanza, penso che l’amicizia nasca da un bisogno emozionale, istintuale, ma sia governata poi dalla ragionevolezza. Chi non sa applicare quest’ultima nei rapporti non può conoscerne la vera essenza. Questo ne fa un “valore”, perché mentre ci gratifica ci educa all’incontro e al confronto con gli altri, ci abitua ad una dolce disciplina dei sentimenti.

Bene, dirai: ma questo dove ci porta? Porta al fatto che Maffesoli considera le reti di “amicizie” che si stanno costruendo sui social come una ennesima manifestazione/declinazione “culturale” di quel valore. Non sembra pensare che si tratti di qualcosa di totalmente altro: ritiene sia solo qualcosa di diverso. E qui, capisci, proprio non ci siamo. È la stessa logica in base alla quale si può dire che il centro commerciale è la nuova agorà. Ora, i francesi sono specialisti in queste operazioni di “normalizzazione” della novità: per dire, hanno fatto una rivoluzione devastante, che ha spazzato via tutto un vecchio mondo, e usavano termini come tribuno del popolo e console per definire le nuove istituzioni. Maffesoli dice giustamente che anche allora c’era chi paventava l’irruzione dei barbari, l’apocalisse, e poi di mondo ne è nato un altro. Ne è nato uno anche dopo la seconda guerra mondiale, e immagino che anch’esso sia stato preceduto da molti timori, senz’altro da quello degli ebrei che il mondo nuovo non hanno poi potuto vederlo. Per chi questi timori li aveva l’apocalisse c’è stata davvero.

Ecco: mi identifico anche in costoro. Mi frega assai di sapere che le cose sono sempre andate così, e che se non fossero andate così non ci sarebbe la storia, e che persino in natura tutte le cose nascono dalla morte delle precedenti. Penso che tanto in natura come nella storia non sia difficile leggere alcuni elementi essenziali di continuità, e che in mezzo all’infinità di cose che vorrei vedere cambiare alcune le vorrei invece salvaguardare e trasmettere così come le conosco e le ho ricevute da chi è venuto prima: e anche quelle che non mi piacciono le vorrei vedere cambiare in un certo modo. Per farla breve, non condivido il rassegnato ottimismo di Maffesoli, che pensa che comunque il cambiamento sarà quello, e tanto vale accettarlo e dire che va bene così, e attrezzarci semmai a governarlo. No. Il cambiamento senz’altro ci sarà, è anzi già in stato avanzato, anche se credo e spero che non arriverò a vederne gli esiti più clamorosi: ma quello che vedo adesso mi piace sempre meno.

Nemmeno mi va di inchinarmi all’ineluttabilità della storia. Potrei farlo se non pensassi che il mondo ha molto da perdere, nell’accettare questo cambiamento. Se mi sentissi schiacciato, costretto, vincolato, schiavo del materialismo e della filosofia dell’utile. Non mi sento nulla di tutto questo. Magari non mi piace tutto quel che ho attorno, ma se guardo indietro non posso non meravigliarmi per quanto gli uomini sono riusciti a fare, per quanto mi hanno concesso di poter capire e imparare oggi. Ripeto, non ho nemmeno bisogno di tornare indietro molto, mi bastano gli anni della mia vita per poter ricordare com’era mezzo secolo fa il mondo e quante diverse opportunità questa società mi ha offerto. Vorrei che fosse altrettanto per gli altri. Non è quindi vero che rimanga nulla su cui costruire un’utopia per il futuro. Maffesoli confonde la difesa di un mondo senz’altro “virtuale”, ma che è comunque proiezione di una speranza nelle potenzialità positive dagli uomini, con la resa ad una virtualità totalmente artificiosa, falsa, che degli uomini vellica invece tutto il peggio: e quando dice che queste sono tutte “utopie” spalmate sul presente dice una stupidaggine.

Credo che noi si sia in fondo testimoni dell’esistenza e della possibilità di sopravvivenza di qualcosa di diverso rispetto a quanto offre oggi il megastore. Più o meno consciamente speriamo nella esemplarità, dopo che abbiamo imparato a diffidare del proselitismo predicatorio, e anche quando cerchiamo di convincerci che stiamo guardando solo a noi stessi sappiamo perfettamente che non è così. Una testimonianza “esemplare” ha senso solo se proiettata nel futuro, sulle generazioni successive: e conserva il suo valore solo fino a quando riesce a sottrarsi al gioco, a mantenere una sua freschezza artigianale. Se viene risucchiata e confusa nel novero delle offerte usa e getta, lo voglia o meno diventa come tutto il resto.

È fatta. Non confidavo più di arrivare in fondo, e preferisco non immaginare cosa ne pensavi tu. Ho speso cinquanta pagine per cose che si potevano dire in meno di quattro, e non sono affatto sicuro di avere adesso le idee molto più chiare: ma almeno ci ho provato. Spero solo che il tour de force cui ti ho sottoposto non abbia incrinato la nostra utopia (ma ridiamo valore alle parole: la nostra amicizia). Grazie per questa, e per la tua pazienza.

A presto, Paolo

Bibliografia

P.S. A proposito di sintesi. L’ultimo libro di Maffesoli tradotto in italiano è intitolato “Le virtù del silenzio”. Ti trascrivo la nota editoriale perché è un capolavoro. «Nei momenti di difficoltà la realtà diviene sfuggente e il coro dei ben pensanti prova a districare la complessità del sociale attraverso discorsi astratti e razionali. Michel Maffesoli, invece, invita il lettore a riconciliarsi con il silenzio, abbandonandosi al mistero. Le parole non sono in grado di cogliere il reale, perché esso è fatto della potenza dei sogni, di fantasmagorie, di fantasie. Il reale è sfuggente, ineffabile e giunge a conoscibilità solamente quando prende corpo negli oggetti del quotidiano, nel “divino sociale”. Attraverso la sua analisi erudita, l’autore tenta di comprendere il ritorno del “sacrale”, ovvero del bisogno collettivo di una comunione emozionale, della condivisione e della scomparsa nell’Altro: l’altro della comunità, del cosmo, della deità». (la sottolineatura è mia)

Per uno che negli ultimi quindici anni ha pubblicato quindici libri (mi limito a quelli usciti in Italia) il silenzio mi sembra una bella sfida!

Se poi volessi toccare con mano (non sono consigli di lettura: buona parte di questi libri non li ho letti, un terzo li ho mollati dopo venti pagine), ecco alcune opere di Michel Maffesoli:

Il tempo delle tribù (1988) – Guerini 2004
Il mistero della congiunzione (1999) – SEAM 2000
L’elogio della ragione sensibile (1999) – SEAM 2000
La contemplazione del mondo (1999) – Costa &Nolan 1996
Del nomadismo (2000) – Franco Angeli 2000
L’istante eterno (2003) – Sossella 2003
La parte del diavolo (2003) – Sossella 2003
Note sulla postmodernità (2005) – Lupetti 2005
Reliance (2007) – Mimesis 2007
Fenomenologia dell’immaginario (2009) – Armando 2009
Icone d’oggi (2009) – Sellerio 2009
La trasfigurazione del politico (2009) – Bevivinum 2012
Apocalisse (2010) – Ipermedium 2010
Matrimonium. Breve trattato di Ecosofia (2012) – Bevivinum 2012
Le virtù del silenzio (2016) – Mimesis 2016

Appendici

Rivedendo la prima versione di questa torrenziale missiva mi sono reso conto di aver creato un effetto collo di bottiglia, per cui il mio ragionamento esce a fiotti, si disperde in tanti rivoli e fluisce con difficolta. Nel tentativo di renderlo un po’ meno farraginoso ho allora potato le pagine di un sacco di ripetizioni e di quelle parti che più vistosamente portavano a spasso il discorso. Non a sufficienza, come avrai constatato: ma non ho avuto cuore per un ulteriore passaggio.

Anzi, proprio per la coazione al riciclo che arriva dai miei geni campagnoli ho conservato una parte dei tralci potati, e un paio te li regalo: superflui o addirittura di ostacolo per la vita del tronco, possono risultare utili, sia pure per una brevissima fiammata, in una lettura autonoma.

Itaca ti sia sempre nella mente
La tua sorte ti segua a quell’approdo…
Ma non precipitare il tuo cammino
Meglio che duri anni, che tu vecchio
Approdi finalmente all’isoletta…
Itaca t’ha donato il più bel viaggio
Senza di lei non ti mettevi in via.
Costantino Kavafis, Itaca

Anche se bella, l’isola è deserta
E le impronte stampate sulle rive
Sono tutte dirette verso il mare.
Da qui si può fuggire solo via
E immergersi per sempre nell’abisso
Wislawa Szymborska. Utopia

Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di nuovo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Dalla barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Giacomo Leopardi, La Ginestra, vv 72-77

 

1a. Ragione e razionalità

Nel testo ho ripetuto sino alla noia cosa non funziona, a mio giudizio, nel castello delle accuse mosse alla ragione. Penso sia però il caso di chiarire, a rischio di scadere nell’ovvio, cosa intendo quando parlo di razionalità. Non essendo né un filosofo né un cognitivista andrò molto a spanne, tenendomi a quel poco che dovrebbe essere evidente a tutti.

Per come la vedo, la ragione è solo una facoltà di esercizio del pensiero universalmente condivisa dagli umani. Chi più, chi meno, ragioniamo tutti (anche se non si direbbe). Questa facoltà è direttamente connessa allo sviluppo della capacità linguistica. A differenza di tutti gli altri animali, che comunicano tra loro ma si trasmettono solo informazioni elementari, gli umani sono in grado di comporre, a partire da un numero limitato di suoni (o di segnali visivi), un’infinità di discorsi significativi, che non riguardano solo la realtà oggettiva, ma si allargano a quella presunta, a quella possibile, a quella immaginata. Sono in grado di scambiarsi informazioni non solo sugli oggetti, ma sui simboli, e non solo informazioni, ma opinioni. Proprio il prevalere della funzione simbolica rispetto a quella prettamente denotativa/informativa è ciò che noi chiamiamo storia.

Prevengo l’obiezione: questa è una schematizzazione molto parziale. É verosimile ipotizzare, infatti, una sorta di relativismo linguistico. Gli uomini non entrano in rapporto ovunque con gli stessi aspetti della natura, e quindi sviluppano modalità percettive e strutture linguistiche e lessicali differenti: con la conseguenza, visto che il linguaggio influenza il modello cognitivo, di maturare visioni del mondo le più svariate. Voglio dire, in parole semplici, che un pigmeo della foresta, un beduino e un esquimese per rapportarsi agli ambienti in cui vivono sono forzati ad utilizzare in percentuale diversa i vari sensi: quindi non solo riceveranno input diversi, ma li riceveranno attraverso canali differenti, e li rielaboreranno in sistemi simbolici dissimili. Il che, al fine di definire uno standard comune di razionalità, non è un problema indifferente. Comunque, senza ricadere nella disputa tra Platone e Gorgia, un elemento comune c’è, ed è proprio quello che a me interessa.

La funzione razionale, al di là di ciò che produce, viaggia sempre in due direzioni: da un lato raccoglie, cataloga, elabora e immagazzina nella mente le informazioni contenute o rappresentate dai suoni o dai segni in ingresso (se si tratta di sensazioni olfattive o tattili le traduce), dall’altro mette in ordine questi suoni e questi segni (queste informazioni) in uscita, affinché la loro successione esprima un significato. Compie in entrambi i momenti un’operazione “aritmetica”, nella quale il risultato è superiore alla semplice somma (positiva o negativa) degli addendi, in quanto dipende dalla collocazione, dal posizionamento degli stessi. Lo stesso suono o lo stesso odore, a seconda del momento e della situazione, possono indurre curiosità, piacere o terrore. Allo stesso modo, una parola, un gesto o un’espressione del viso possono comunicare in diversi contesti messaggi opposti. In entrambi i casi viene eseguita una comparazione con la somma delle precedenti esperienze e una valutazione dei possibili atteggiamenti da assumere. Nel secondo, quando l’interlocutore è un essere umano, questa operazione è già di grado complesso, perché suppone la sua capacità di decodificare i segnali, e non di reagire semplicemente al messaggio sensoriale. Suppone che l’altro sia in grado di farsi un’opinione, ovvero di fare a sua volta i suoi conti. Insisto su tutto questo per ricordare che la ragione nasce “calcolante”, è quella la sua natura, e non le può essere imputata: ma anche che il gioco che noi chiamiamo cultura si svolge proprio entro quel margine di valore che una particolare collocazione aggiunge alle parole (o ai segni).

Il meccanismo vale per ogni tipo di conoscenza. La differenza la fanno i materiali e i contesti rispetto ai quali si attiva il ragionamento. Le conoscenze scientifiche riguardano oggetti reali, o almeno, partono da quelli: quelle che potremmo chiamare sociali o relazionali riguardano istituzioni, idee, convenzioni, ovvero cose totalmente create da noi, che non sono date in natura, ma esistono solo perché noi le pensiamo esistenti.

È evidente che nei due diversi ambiti la ragione non può muoversi allo stesso modo. Infatti, a seconda del campo d’azione si esprimerà come razionalità quando informa le scelte gnoseologiche, le modalità del conoscere, e come ragionevolezza quando si applica a quelle etiche, alle modalità dell’agire. Si potrebbe dire, con molta approssimazione, che nel primo caso prevale l’uso quantitativo della ragione, nel secondo quello qualitativo.

Ciò non significa che la razionalità sia oggettiva e la ragionevolezza soggettiva. Significa soltanto che l’una ci organizza delle conoscenze in un sistema coerente, creando delle inferenze logiche, l’altra ci suggerisce come spenderle nella maniera più efficace. Come kantiano ortodosso non penso affatto che la razionalità abbia la presunzione di cogliere il mondo nella sua essenza (né tantomeno l’io e Dio); ha piuttosto la coscienza di interpretarlo secondo schemi (forme, categorie, ecc…) propri della mente del soggetto. Questi schemi non sono arbitrari, perché comuni a tutti gli uomini, ma possono essere variamente combinati: dalle diverse combinazioni nascono come abbiamo visto differenti culture, spirituali e materiali. È inevitabile che quando differenti culture vengono a contatto, o viene intrapreso un progetto di uniformazione all’interno di una di esse (cosa che si è verificata da sempre nella storia, ma in maniera particolare e particolarmente intensa nella seconda metà dell’ultimo millennio), si proceda a delle esclusioni: un sapere unificato non può che partire dal rifiuto dei molteplici saperi tradizionali precedenti, dalla loro cancellazione, a volte anche violenta (si pensi a ciò che è accaduto nel Seicento, proprio mentre la mentalità scientifica stava esordendo: cancellazione della cultura popolare, caccia alle streghe, cristianizzazione dei popoli americani, ecc…). Questo parrebbe avvalorare il quadro dipinto dai post-modernisti: ma proprio perché la ragione è in grado di riflettere su se stessa e sui propri limiti, gli schemi razionali col tempo anziché irrigidirsi acquistano elasticità. Non sono gabbie di contenzione del pensiero, ma lo scheletro che lo sorregge, mentre nervi e muscoli sono dati dalla volontà e dalla capacità empatica e immaginativa.

Tutto sommato la faccenda sino ad ora ha funzionato: malattie gravissime sono state debellate, mandiamo sonde spaziali su Marte (lasciamo stare che poi precipitino: comunque ci arrivano), scrivo queste considerazioni su un computer anziché inciderle su una tavoletta d’argilla o una lastra di pietra, ecc… Sono dati incontestabili. Che poi queste cose non siano sufficienti a riempire di senso la vita, è un altro discorso, questo sì legato ad una presunzione: a quella che un senso debba esserci. Ma tale presunzione, ripeto, non è affatto intrinseca alla razionalità. Conoscere il “come” le cose accadono non implica affatto capire il “perché”, e neppure il volerlo capire. Quando subentra questa volontà, per una indebita enfatizzazione del principio di causalità (questo Kant lo ha detto chiaramente), si finisce nel campo della fede e delle “Verità” definitive, e si parla di un’altra cosa. Certo, esistono anche forme di fideismo indotte dalla ragione, ma allo stesso modo in cui esistono quelle religiose, frutto dalle stesse debolezze umane (fondamentalmente, la paura e la superstizione).

Al contrario, la razionalità di cui io parlo non pretende di giungere alla Verità. Semplicemente perché già la conosce, e ne è addirittura figlia, in quanto generata dalla consapevolezza della morte (ma si potrebbe anche invertire il rapporto: razionalità e consapevolezza sono come l’uovo e la gallina). Semmai dalla Verità riparte, per ricostruire non dico un senso, ma almeno un mondo a misura umana (per chi avesse qualche dubbio sulla presa d’atto della reale condizione umana è sufficiente rileggere Foscolo o Leopardi, senza arrancare dietro Heidegger). Cerca di farlo attraverso la conoscenza scientifica, perché malgrado già si conosca il finale siamo giustamente curiosi della trama, e solo in questo significato possiamo parlare di una approssimazione alla verità: ma lo fa anche perché questa conoscenza ha delle ricadute pratiche, qui e ora, che almeno alleviano lo sgomento creato da quella consapevolezza. Ne ha pure di negative, certamente, e di contradditorie: ad esempio la creazione di strumenti di morte sempre più sofisticati: ma questo dipende dalla razionalità o da un’attitudine pre-razionale, e non solo umana?

La razionalità non è comunque tout court la scienza: è lo strumento che ne permette l’esistenza e lo sviluppo. Al più si può dire che dovrebbe anche esercitare su quest’ultima un controllo efficace, e che non sempre lo fa: ma questo non accade per una congenita disposizione maligna del razionalismo. Il problema è piuttosto che ogni tanto (molto spesso) anche la ragione si prende una vacanza.

Questa coscienza razionale, che da un lato produce la conoscenza scientifica, ma dall’altro la legge alla luce della finitezza umana, sfocia necessariamente nel relativismo? Anche in questo caso bisogna intenderci sull’uso dei termini: e visto che ormai l’accezione comune di “relativismo” è quella negativa, quella per cui una cosa vale l’altra e non esiste una scala di valori, mi sembra di poter affermare che una coscienza razionale non produce nulla di tutto ciò. Nell’ambito scientifico si deve parlare piuttosto di un “razionalismo critico”: a differenza del criticismo kantiano, che sottopone ad esame gli strumenti e i meccanismi della ragione, questo concerne invece i risultati, tanto le teorie quanto le singole nuove acquisizioni scientifiche, e per esso nessuna conoscenza è mai definitiva. Ciò non significa che una conoscenza valga l’altra: significa semplicemente che ciò che oggi funziona, produce risultati, consente di ipotizzare convincenti spiegazioni dei fenomeni, ha comunque un valore provvisorio, può e anzi deve essere continuamente verificato (Popper dice “falsificato”) e, appena possibile, superato. Il relativismo non c’entra un accidente, e la deriva relativistica, che in effetti c’è, ed è anche diffusa, nasce proprio da una interpretazione “emozionale”, tutt’altro che razionale.

 

1b. Ragione e ragionevolezza

Il che ci porta alle scelte etiche. Se applicati fuori dal campo strettamente scientifico, la critica kantiana della ragione pura e il razionalismo critico conducono inevitabilmente al nichilismo? Sarei tentato di chiuderla subito affermando che si tratta di un falso problema: puoi usare un rasoio per farti la barba o per tagliare la gola a qualcuno, e il problema evidentemente non sta nel rasoio, che non ha una sua vocazione maligna a recidere carotidi. Ma qui la materia è ancora più delicata della pelle delle guance, il rasoio non può essere sostituito dall’accetta. Nell’ambito socio-relazionale la ragione deve adattarsi a domini dello spirito che non sono matematizzabili. Non ha a che fare con una realtà oggettiva e tendenzialmente immutabile, ma con le idee che popolano lo spazio di libertà che l’uomo si è conquistato: con qualcosa cioè di volatile, di incerto, di sfuggente. Deve dunque esprimersi come ragionevolezza. La ragionevolezza è la capacità di mediare tra “ragioni” diverse, o meglio, diversamente usate, di evitare o di attutire lo scontro e di trovare i punti in comune dai quali partire per una composizione. Non è tuttavia la ricerca di una mediazione a ogni costo: la ragionevolezza non prescinde dalla razionalità, ne è solo la versione elasticizzata: perché i punti di confronto possano essere individuati è necessario consentire su una base minima. Se questa base non c’è, la ragione calcolante non può che prenderne atto e valutare le opzioni praticabili col minor danno. Farsi cioè machiavellica razionalità. A livello di politica internazionale, ad esempio, posso applicare la ragionevolezza nei rapporti tra le aree in via di sviluppo e quelle già sviluppate, ma con l’ISIS mi conviene fare bene i miei conti; a livello nazionale, funziona tra le istanze espresse da forze politiche diverse, ma non nei confronti di un populismo mediatico che non è più governabile; nei rapporti interindividuali, tra individui che professino magari differenti concezioni della vita, ma della vita abbiano in comune il rispetto.

Nella sfera etico-relazionale non bastano dunque le buone intenzioni, così come non è sufficiente il calcolo dei costi e dei ricavi, o della linea più breve tra due punti. La ragionevolezza è una razionalità che calza suole di gomma, per muoversi con la sensibilità e la duttilità richieste dalla materia in gioco: diversamente può fare disastri. Non bisogna però confondere i guai generati da una sua applicazione non opportuna con quelli originati da un guasto del meccanismo. Per i post-moderni tutto l’impianto del sistema capitalistico, modi di produzione, imprescindibilità dal profitto, incentivazione gonfiata dei consumi, deriva finanziaria, offre l’esempio di dove va a parare la razionalità “calcolante” quando non è temperata dalla “sensibilità” (e questa è la versione soft: per alcuni l’esito invece è comunque quello). In realtà non è nemmeno così. Qui la razionalità non c’entra affatto. Se il valore “virtuale” del capitale finanziario circolante è centinaia di volte superiore a quello della produzione effettiva, e quindi non ha più alcun rapporto con ciò per cui era nato e con la realtà di merci, impianti, scambi materiali, ecc…, ciò è frutto di una deriva irrazionale, non l’esito scontato della razionalità. Allo stesso modo, per stare a cose a noi più prossime, quella che ipotizza fantascientifici tunnel da un versante all’altro dell’Appennino per muovere merci che nemmeno ci sono non è la ragione economica, ma una spudorata volontà speculativa. Non rientra nella “razionalizzazione” dell’economia, ma al contrario, è il prodotto di una deregulation incontrollata.

Per applicazione non opportuna si deve intendere invece il fare la cosa giusta nel momento, nella situazione o nel modo sbagliati. Che può avere conseguenze egualmente devastanti, ma non dipende da un automatismo negativo della ragione. Rientra nel margine di libertà guadagnato agli uomini dalla cultura, quindi può accadere o meno, è frutto di una scelta. Scavare un pozzo nel deserto per consentire un minimo di agricoltura a popolazioni stremate, come ha fatto qualche anno fa un progetto di cooperazione italiano, di per sé è un’ottima cosa. Se però la trivellazione va a intercettare l’unica falda acquifera che alimenta una decina di pozzi nel raggio di cento chilometri, diventa una sciagura. In questo caso non era né irrazionale né speculativa l’intenzione, ma si è dimostrata assurda la scelta di tradurla in realtà in quel luogo.

Ciò che volevo dire con questi due esempi è che il problema non sta mai in un eccesso di razionalità, ma piuttosto nella sua negazione (il tunnel inutile) o nel suo incompleto esercizio. Non si può certo dire che la “ragione sensibile” difettasse nel progetto di cooperazione, ma non è poi stata supportata da un uso adeguato di quella “calcolante”.

Insomma: se nel mondo scientifico esistono delle leggi che descrivono o spiegano i fenomeni naturali, per permetterci di usarli o di difenderci, in quello non scientifico le leggi non spiegano i fenomeni, ma cercano di favorirli o di arginarli. Nascono da esigenze di volta in volta diverse, hanno quindi una validità relativa, temporanea. Non avendo a che fare con un mondo oggettivo, la ragionevolezza diventa impegno soggettivo. Diventa responsabilità individuale. Obbligo di “fare uso pubblico della propria ragione”, come dice Kant.

E non è nemmeno vero che una impostazione razionale conduca necessariamente ad una considerazione egoistica dei rapporti. Per un Hobbes che ritiene che l’uomo lasciato in balìa di se stesso non vada oltre il calcolo del proprio interesse personale, persino uno poco tenero con la ragione come Hume (“La ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni, e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di obbedire e di servire ad esse”), per il quale la vita senza l’ordine sociale e una rigida gerarchia era “solitaria, povera, sgradevole, brutale e breve”, ammette che gli uomini siano anche capaci di gesti e sentimenti che non possono essere spiegati con alcun tipo vantaggio perso¬nale. Non a caso è un maestro di Kant.

Hume non accenna alla ragionevolezza, anzi, sembra escluderne ogni partecipazione al sentimento morale: ma alla fin fine è di questo che parla. Attribuisce alla “simpatia” i nostri comportamenti altruistici, e la simpatia è dettata da una passione, peraltro egoistica. Ma a differenza di Hobbes ritiene che in ciascun individuo agisca una funzione di calcolo che opera a un livello superiore rispetto agli appetiti animaleschi, che tiene conto del contagio del piacere e del dolore (se vedo una persona che soffre, soffro anch’io). Non è anche questo fare “uso pubblico” della ragione? A Kant sarà sufficiente togliere il condizionale (se…, devi) per fondare un’etica assoluta dettata dalla ragione.

Quando si parla di ragionevolezza (a differenza che della razionalità) si può dare l’impressione di cercare rifugio in un termine tanto vago da comprendere tutto, ovvero nulla. Invece il termine ha un significato preciso, talmente preciso da essere assunto come principio nella giurisprudenza (addirittura nella nostra costituzione, riprendendo dal diritto anglosassone). Indica la capacità dell’agire con equilibrio, col famoso buon senso. In altre parole, di adeguare ai fini che si perseguono le azioni che si compiono, tenendo conto che tali azioni in qualche modo vanno sempre a toccare anche gli altri. Questo è l’unico parametro possibile nei nostri comportamenti: agire in maniera tale che il conseguimento dei nostri fini non arrechi danno ad altri (uso volutamente danno, inteso come qualcosa che è in qualche modo oggettivamente valutabile, e non offesa, che è una variabile soggettiva, dipendente dall’umore, dal carattere, dalla cultura altrui).

Il confine tra la razionalità e la ragionevolezza, se pure esiste, è naturalmente molto sfumato. Non è dettato dal prevalere dell’intenzionalità sulla necessità, e nemmeno separa due sfere d’azione totalmente distinte. Guidare mantenendo la propria destra, anche se non ha a che vedere con una qualche realtà o necessità naturale, “oggettiva”, ma è frutto di una convenzione (tanto che in una parte del mondo vige quella opposta), attiene alla razionalità: ha uno scopo eminentemente pratico, serve a far scorrere il traffico, a evitare ingorghi e incidenti. Guidare con attenzione e prudenza attiene invece alla ragionevolezza. Si sceglie questo comportamento sulla base di valutazioni razionali, ma anche e soprattutto per una sensibilità nei confronti dell’incolumità altrui, oltre che per propria. A dispetto del suo prevalente significato “strumentale”, quello della ragionevolezza non è infatti un valore ‘freddo’. È l’ingrediente fondamentale di una convivenza civile, ma sta anche alla base di rapporti che vadano ben al di là della reciproca tolleranza, che si fondino sul rispetto, che possano arrivare alla stima. Di cose, per intenderci, come l’amicizia.

1c. Miti o valori?

E qui devo ulteriormente chiarire, sempre che mi riesca. Nella fretta di liberarsi delle scorie del passato, i postmoderni tendono ad accomunare le idealità squisitamente “storiche” (l’uguaglianza, ad esempio, o l’affermazione della individualità – e naturalmente i miti loro sottesi, il primato della ragione, il progresso, lo sviluppo) – che sono un prodotto “culturale”, in quanto legate a determinate epoche e civiltà (sostanzialmente, a quella occidentale moderna), e che, a loro giudizio, hanno dato luogo alle ideologie, con quei valori che hanno invece una radice “naturale”, e che quindi civiltà e ed epoche le attraversano e le superano senza problemi. Sentimenti appunto, come l’amicizia, o anche virtù come il coraggio: nati da impulsi egoistici alla sopravvivenza o alla continuità della specie, e solo successivamente “coltivati” in funzione sociale. In questo modo buttano non solo l’acqua e il bambino, ma anche la bacinella. I valori di cui parlo non sono infatti il prodotto di specifiche culture, aristocratiche o borghesi, nomadi o stanziali, ma sono addirittura presenti, almeno come attitudini, nelle società animali. Di culturale ci sono poi gli abiti dei quali sono stati nelle diverse epoche rivestiti, ma c’è soprattutto – e questo è l’importante – il fatto che i nostri sentimenti, a differenza delle emozioni, vedono interagire il fattore ormonale della risposta istintiva, o emotiva, con quello “razionale”, inteso appunto come ragionevolezza. Voglio dire che i valori non li ereditiamo col patrimonio genetico in maniera acritica, e neppure sono fondati sulla anarchia dei sentimenti, ma passano al vaglio di un giudizio di ragionevolezza e in base ad esso sono riconosciuti come “giusti”, e declinati di conseguenza. Tradotto in soldoni: così come il coraggio non può essere misurato con l’incoscienza (se mi tuffo dalla finestra dell’albergo direttamente nella piscina non sono coraggioso, sono un idiota), ma è la capacità di fare scelte, magari rischiose, in vista di un bene non prettamente egoistico (sono coraggioso se mi butto tra le onde per salvare uno che sta annegando), allo stesso modo l’amicizia si misura con la capacità di mantenere il rapporto su un binario di ragionevole franchezza e di desiderio del vero bene dell’altro. Cosa che appunto impone delle scelte, anch’esse a volte dolorose. Amico non è chi mi asseconda sempre, ma chi sa mettermi di fronte ai miei sbagli senza rinfacciarmeli, col solo intento di correggerli. E questo lo può fare solo ragionando, e inducendomi a ragionare.

Dunque, anche la correlazione ipotizzata dai postmoderni tra razionalismo e nichilismo non regge. Non è affatto vero che la razionalizzazione spazzi via tutti i valori. In quanto ragionevolezza, invece, crea le condizioni perché questi diventino, o si conservino, veramente tali.

L’approssimazione concettuale (e, paradossalmente, linguistica) dei post-modernisti non è cosa da poco: confonde le carte e cambia davvero tutto. Un conto è venirci a dire che è tramontato il mito della giustizia sociale, o quello del progresso infinito: altro è cercare di convincerci che anche l’amicizia, così come la conosciamo, non è che un prodotto specifico della modernità occidentale, in scadenza come tutti gli altri. L’amicizia, con tutto ciò che comporta in termini di lealtà, fedeltà e reciproco rispetto, non l’abbiamo inventata noi moderni: esiste da quando esiste una coscienza di sé e del mondo, come ci raccontano le letterature degli ultimi tremila anni. Achille e Patroclo, Oreste e Pilade, oppure Gilgamesh ed Enkidu, o Davide e Gionata, se vogliamo spaziare anche oltre la cultura occidentale. Persino Emanuele Severino sarebbe d’accordo. Certo, sono cambiati i modelli sociali, da aristocratica e fondata sul cameratismo si è trasformata in legame civile, ma ha continuato ad essere intesa come un rapporto paritario, fondato sul reciproco rispetto, sulla lealtà, la stima e la fiducia. Voglio credere che tali valori resisteranno per almeno altrettanti secoli, sia pure declinati in contesti diversi, e che teoricamente non sarebbe neppure necessaria alcuna resistenza per salvaguardarli. A meno che anche la coscienza di sé e del mondo che crediamo di aver conseguito non sia essa stessa in toto un autoinganno, o un inganno della “civiltà”, come appunto Maffesoli sembra suggerire.

2. Le astuzie della decostruzione

Per evitare che il mio sforzo di chiarimento diventasse più confuso di quanto già è, ho cercato di concentrarmi sulle questioni di merito. Ormai però sono lanciato, e vorrei segnalarti anche un paio di aspetti che riguardano apparentemente il metodo, ma in realtà sono parte integrante dell’impianto concettuale di fondo del post-modernismo. Si tratta di piccoli trucchi formali, tutt’altro che innocenti, che complicano e al tempo stesso svuotano di senso il discorso.

Partiamo da un vezzo particolarmente irritante, che condensa maliziosamente (e semplicisticamente) nell’uso tipografico una disposizione concettuale, e che avrai senz’altro già rilevato: quello di virgolettare il maggior numero possibile di termini, a significare appunto che quelle parole non coincidono con realtà oggettive o con significati universalmente condivisi, ma suppongono svariate possibili interpretazioni, che cambiano a seconda dei contesti storici e sociali e degli angoli prospettici. É un vezzo che ha contagiato anche i post-moderni non dichiarati (prova a leggere i primi libri di Marco Revelli, o di Magris): ma l’origine è quella. Maurizio Ferraris lo ha ha messo alla berlina nel suo Manifesto del Nuovo Realismo, del quale tornerò a parlare. (Potresti obiettare che ci indulgo anch’io: è vero, ma lo faccio solo quando uso i termini come citazioni, nel significati che sono loro attribuiti da altri. E poi, via, a volte, se non si eccede, torna comodo)

Un altro dei prodotti di risulta della decostruzione consiste nella banalizzazione linguistica: pensa all’uso che si è fatto in questi giorni del termine genio per Dario Fo, o di eroe per Totti e per gli altri protagonisti sui campi di calcio; oppure a quello di una parola come amicizia sui social. La banalizzazione è veicolata dai media, soprattutto dall’uso pubblicitario, che gioca su pochi termini forti, capaci di attizzare, anche e preferibilmente a sproposito, l’immaginazione: ma ha origine dalla sottrazione di significato agli oggetti, alle idee, o dalla sua moltiplicazione incontrollata.

Ancora, sempre per restare a casa nostra, c’è l’impiego di termini inglesi per dire altra cosa dai loro corrispettivi italiani: community ad esempio, ha un significato molto più vago che non comunità, perché prescinde dalle possibili identificazioni storiche di questa ultima e, pur mantenendone l’eco nel suono, si presta a significare tutt’altro. Come sopra, l’uso è apparentemente solo un vezzo da linguaggio internettiano o aziendale: ma c’è un livello oltre il quale diventa ambiguo. Marca un confine, che può essere generazionale se segnato dai termini tecnici in uso per le strumentazioni informatiche, o da quelli del gergo del divertimento, oppure di status, quando a tracciarlo sia la nuova terminologia economica, politica o sociologica. E questo confine sta lì a dirti che al di qua sei un sopravvissuto del moderno, e hai le ore contate.

In altri casi la banalizzazione è molto più sottile. Nel testo ho fatto cenno ad esempio al “comunitarismo”, ovvero alla filosofia anti-individualistica, anti-liberalistica e, naturalmente, anti-capitalistica che ha come bersaglio primo il concetto “neutralistico” della giustizia borghese. L’accusa mossa dai comunitaristi al liberalismo è di esigere dall’individuo lo svuotamento, lo spogliarsi di tutto ciò che lo caratterizza in quante tale, per confrontarsi con gli altri sulla base solo della fredda razionalità. Ora, questa è una lettura per alcuni versi corretta, ma indubbiamente molto riduttiva del liberalismo: tanto da far passare per una “dottrina” (con le virgolette) quella che è la semplice rivendicazione di condizioni di base, di regole chiare che consentano un leale gioco dei rapporti. La fredda razionalità è il metal detector che dovrebbe garantire contro la detenzione di armi. A portare calore nei rapporti saranno poi gli individui, se ne sono capaci, e non gli abiti culturali che indossano.

C’è infine la corsa, oggi più che mai aperta, visto che non va più di moda la stravaganza postmoderna (nel senso che è diventata – negli aspetti più deteriori – quotidianità), ad appropriarsi di tutto ciò che era rimasto sino ad ora escluso perché considerato insignificante, ovvio, e ad applicarci un marchio doc. Faccio un altro esempio. Ultimamente va per la maggiore il filosofo tedesco Hartmut Rosa, che ha introdotto in filosofia il concetto di risonanza. Anche qui, il termine evoca subito lussazioni o menischi, mentre nell’accezione di Rosa significa semplicemente capacità di ascoltare gli altri (in opposizione a dissonanza) e di confrontarsi con essi (a differenza di consonanza, che implica invece un accordo acritico). Hai capito? Questo ha scritto un libro di ottocentotrenta pagine, il doppio di quelle usate da Dawkins per dimostrare l’inesistenza di Dio, per dirci che magari, se mentre parliamo ci guardassimo negli occhi e non nella telecamera reale o immaginaria che ormai ci segue ovunque, ci capiremmo e ci relazioneremmo meglio. Non dirmi che è scontato, perché che si tratta invece di una riduzione ad personam della teoria dell’agire comunicativo di Habermas, e vuoi mettere!

Sembrerebbe, a prima vista, una voglia di normalità: e forse, anzi, probabilmente, lo è anche. Ma è una normalità piegata immediatamente alla trascrizione teatrale. Nella società dello spettacolo nulla può rimanere fuori dalla scena. Il problema diventa, allora, al di là della rilevanza o meno dei protagonisti, l’impianto scenico stesso. L’asserzione di Mc Luhan, per cui il medium è il messaggio, si rivela più che mai valida. Pensa a tutto il barnum di festival della filosofia, della mente, della letteratura, della scienza. Sarebbe intanto da capire di chi è veramente l’esigenza, se dei divulganti o degli spettatori (altro che risonanza), e comunque la radice di divulgazione è la stessa che per volgarizzazione: ovvero, prendere contenuti alti e ridurli alla portata di tutti, semplificandoli ma soprattutto, in sostanza, sterilizzandoli. Che è una pratica già di per sé ipocrita, perché non mira ad alzare il livello di consapevolezza del “volgo”, cosa che può avvenire solo educandolo allo sforzo necessario per conoscere, per sapere, per capire di più, ma asseconda proprio quella pigrizia intellettuale che lo stesso Maffesoli stigmatizza. Non è nemmeno vero che sia giustificata dalla necessità di far intravvedere gli oggetti possibili e auspicabili della conoscenza, perché così come arrivano ad essere proposti non sono nemmeno più tali.

La proposta di contenuti alti ha per forza di cose un risvolto etico. Lo dovrebbe avere tanto più in una operazione di divulgazione, perché rivolta ad un pubblico che non si attende mattoncini lego per giochi concettuali ma indicazioni pratiche di comportamento. Ora, questi risvolti, di norma, sono piuttosto duri da assorbire: pensa ad esempio all’etica kantiana. Il gioco migliore è allora di far pensare a chi riceve queste indicazioni di esserne già in possesso, perché il ricevente cerca in realtà rassicurazioni, piuttosto che nuove strade. Se la rassicurazione sul fatto che i suoi comportamenti sono già in qualche modo “filosoficamente corretti” gli arriva da un luminare, in un festival di filosofia, è come facesse apporre un bollo di certificazione. Magari comprerà anche il libro di ottocento pagine, che non leggerà mai, ma lo farà consacrare dall’autografo.

Più immediata e totale ancora è naturalmente la banalizzazione quando i contenuti sono proposti in contesti o attraverso supporti o media divulgativi che di per sé, senza tanti infingimenti, sono nati per ottundere. Un discorso sui valori fondamentali intervallato dalla pubblicità della carta igienica o dell’auto di lusso, che segue o precede il servizio sui nuovi cagnolini dei reali inglesi, non solo non apre a consapevolezza, ma si pone allo stesso livello. Viene metabolizzato dallo stomaco onnivoro della “cultura” dell’immagine, e ridotto alla stessa qualità e consistenza.

3. Cattive compagnie

Quando sostieni una tua tesi provi sempre a verificare se ci siano potenziali alleati, capaci di fornirti argomentazioni che non avevi considerato o di rafforzare quelle che avanzi. In questo caso non avevo che da scegliere, perché il fastidio che provo per i post-modernisti è abbastanza condiviso, in un arco di posizioni molto diverse tra loro, che vanno da Alain de Benoist ad Habermas. Ho potuto però verificare che non sempre chi il post-moderno lo combatte è molto più credibile dei suoi bersagli. Ti faccio un paio di esempi.

Il primo è rappresentato da Michel Onfray, altro enfant prodige della scuola francese. Onfray in teoria avrebbe tutti i numeri giusti, a partire da un’intelligenza caustica e debordante: in pratica però ne ha sin troppi, al punto che non si capisce affatto da che parte tiri. A conti fatti lo distinguono dai post-modernisti solo alcune sfumature, ma a quelle ci tiene. Si professa anticapitalista, antiliberale, anticomunista, e in positivo post-anarchico ed edonista. Già questo biglietto da visita dovrebbe indurre a non prenderlo troppo sul serio, ma anche nel suo caso la rilevanza mediatica non va trascurata. È una vera star, passa in televisione più tempo di Cacciari e non si tira indietro di fronte a nessun tema (lui stesso si è definito un “ateo di servizio”, che nella sua interpretazione non significa un utile idiota, ma quello che deve sporcarsi le mani con i media e nel dibattito pubblico per contrastare l’oscurantismo).

Fosse solo questo, ripeto, non varrebbe nemmeno la pena parlarne. Ma c’è dell’altro. Ci sono tratti della sua personalità e del suo incasinatissimo pensiero che meritano attenzione. Intanto arriva dal basso, da un’infanzia che ha conosciuto l’orfanotrofio e il lavoro manuale (anche se è durato poco), e la cultura se l’è guadagnata tutta, e per questo la tiene da conto. Poi prende le mosse da Camus, anziché da Sartre (ha scritto una corposa biografia intellettuale del primo, che a dispetto del narcisismo – per cui diventa un’autobiografia, un po’ come quelle di Citati – è ricca di intuizioni brillanti): e già partire di lì è come fare il settebello a scopa. Infine ha una formazione di base di stampo vetero-anarchico, che nulla ha a che vedere con lo pseudo anarchismo da centri sociali vellicato da Maffesoli: il che significa ulteriore rispetto per il patrimonio culturale che ha alle spalle, anche quando ne combatte certi esiti. Certo, se poi scendiamo nel dettaglio delle sue idee c’è da mettersi le mani nei capelli. Ma anche qui, devo ammettere che su molte cose è di una lucidità e di una schiettezza indiscutibili. Come quando ad esempio parla, ne La politica del ribelle, della sinistra del ressentiment: quella che “non abbraccia i valori che si richiamano alla vita, i valori positivi, ma pende piuttosto per i valori negativi, cioè non vuole che i poveri diventino ricchi ma vuole che i ricchi diventino poveri. Questa sinistra del risentimento non si richiama tanto alla fratellanza, alla solidarietà, alla felicità del più grande numero possibile di cittadini, ma preferisce sbattere i ricchi in galera, metterli alla gogna, nei campi di concentramento o di rieducazione. Questo tipo di sinistra è la sinistra marxista-leninista, la sinistra maoista, la sinistra stalinista, la sinistra di Robespierre, una sinistra che, di fatto, vuole vendicarsi, vuole vendicarsi dell’ordine del mondo”. Salvo poi identificare anche lui la sinistra libertaria, quella che dovrebbe cercare la felicità per tutti, in una sinistra dionisiaca, sia pure un po’ diversa da quella di Maffesoli, perché non rigetta né il sapere scientifico né lo stesso capitalismo, a patto che sia “libertario” anziché “liberale”. La stessa schiettezza usa nei confronti delle risorgenze religiose, dell’Islam in particolare: ma non fa sconti nemmeno al cristianesimo, tanto da scrivere un Trattato di ateologia per sostenere che fino a quando non si saranno spazzati via i fondamenti di ogni teologia non si potrà dare corso ad alcun progetto di nuova etica laica (ma ne propone immediatamente uno lui stesso, improntato all’edonismo). Insomma, hai capito il personaggio: un guitto di genio.

Ora, lasciando perdere le altre confusioni e contraddizioni, e rimanendo su quello che sembra essere il suo impegno più serio, la costruzione di un’etica laica, credo che questa insistenza su una rivendicazione forte delle ragioni dell’ateismo, in risposta proprio alla risorgenza delle fedi, finisca per fare il gioco dell’avversario. Quando dedichi alla professione dell’ateismo un Trattato che esce contemporaneamente alla Storia dell’ateismo di George Minois, alle quasi cinquecento pagine dedicate da Richard Dawkins a dimostrare che Dio non esiste e a quelle di Dennett, di Pievani, di Oddifreddi a spiegare che non è un problema e se ne può fare benissimo a meno (oltre naturalmente ai numeri speciali di Micro-Mega), la frittata è fatta. Non si era parlato tanto di Dio negli ultimi duecento anni.

Come avrai capito, Onfray per certi versi mi è persino simpatico. Ma lo ritengo altrettanto pericoloso di Maffesoli, perché “brucia” nella sua bulimia un sacco di argomentazioni e di idee che andrebbero invece trattate con maggiore cura, e mescolandole nel calderone le rende inoffensive. E questo è uno degli aspetti più caratteristici e insidiosi del postmodernismo.

L’altro modello è nostrano, in qualche modo dovrebbe riuscire di segno diametralmente opposto, nel senso che professa di ricondurre il discorso su un piano più realistico e serio, ed è rappresentato da personaggi come il già citato Maurizio Ferraris. Ferraris porta avanti ormai da un sacco di tempo una diatriba filosofica che lo ha visto opporsi ai nipotini nostrani di Lyotard e ai figli di Vattimo, e che è sfociata in un Manifesto del Nuovo Realismo, o NeoRealismo. L’operazione in sé è più che lodevole. È anche, come Onfray, come Maffesoli, come tutti, uno che si presta spesso e volentieri alla divulgazione (ricordi il suo Filosofia per dame?). E questo può non piacere, ma non sarebbe grave se la divulgazione servisse anche a liquidare un po’ di quell’aura sacrale che continua a tenere sospeso per aria il pensiero. Invece non è affatto così. Mi spiego. Nel Manifesto del Nuovo Realismo Ferraris demolisce senza tanti complimenti tutto l’impianto ermeneutico del postmoderno. Richiama al fatto che la realtà esiste indipendentemente dalle nostre interpretazioni, e che semmai vanno distinti gli ambiti in cui se ne parla. Santissime parole, da condividersi in pieno. Il problema è che questo discorso lo fa discendere da un modello di pensiero “Realista” che etichetta come Nuovo.

Ora, avrai notato che ho ripetuto le maiuscole del titolo del suo manifesto. Ti ho appena parlato di quei vezzi che sembrano in apparenza innocui, anche un po’ patetici, ma in realtà sono significativi, e come tali irritanti. In particolare dell’uso delle virgolette. Bene, nel suo Manifesto Ferraris lo mette alla berlina: solo che dopo aver irriso quello postmoderno del “virgolettato”, cade nel vezzo eterno del “maiuscolato”, che persegue l’effetto opposto, quello di una consacrazione anziché di una dissacrazione, ma funziona allo stesso modo. E gioca banalmente con l’appeal del “nuovo”, come nelle pubblicità degli shampoo.

Per cosa lo usa? Per ribadire ciò che è ovvio: che una pantofola è innanzitutto una pantofola, prima e al di là di tutti i significati che posso attribuirle se sono un orientale o un occidentale, un ricco o un povero, un cane o una tarma. E fa bene: ma che bisogno c’è di chiamarlo Nuovo Realismo, con tanto di doppia maiuscola, se non quello di imbottigliare aria e venderla al mercatino del biologico?

 

Bibliografia

A questo punto devo integrare anche la bibliografia. Ti segnalo allora alcune opere di Michel Onfray (circa un decimo del totale):
L’arte di gioire. Per un materialismo edonista – Fazi, 2009.
La scultura di sé. Per una morale estetica – Fazi, 2007
La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione – Ponte alle Grazie, 1997/1998
Teoria del corpo amoroso. Per un’erotica solare – Fazi, 2006
Trattato di ateologia. Fisica della metafisica – Fazi, 2005
La potenza di esistere. Manifesto edonista – Ponte alle Grazie, 2006/2009.
Filosofia del viaggio – Ponte alle Grazie, 2010
Controstoria della filosofia (9 vol) – Fazi, 2006-2013

Le più conosciute di Maurizio Ferraris
Filosofia per dame – Guanda, 2011
Bentornata Realtà. Il Nuovo Realismo in discussione – Einaudi, 2012
Manifesto del Nuovo Realismo – Laterza 2012

e quelle del suo bersaglio, Gianni Vattimo
Le avventure della differenza – Garzanti, 1980
Il pensiero debole – Feltrinelli, 1983 (assieme a P. A. Rovatti)
La fine della modernità – Garzanti, 1985
Oltre l’interpretazione – Laterza, 1994
Credere di credere – Garzanti, 1996

Infine, per il nuovo Ateismo
Telmo Pievani, Creazione senza Dio – Einaudi, 2006,
Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) – Longanesi, 2007
Eugenio Lecaldano, Un’etica senza Dio – Laterza, 2006
Georges Minois, Storia dell’ateismo – Editori Riuniti, 2000
Daniel Dennett, Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale – Cortina, 2007
Richard Dawkins, L’illusione di Dio – Mondadori, 2007.

NOTE

[1] (cfr. “La Lettura”, n. 252 del 25/9, pag 9, ‘Modernità addio’)

[2] La ricetta più gettonata è quella che spazia da Schopenhauer al Marx dei Manoscritti (dove parla di “infanzia sociale dell’umanità, quando l’umanità si espande in completa bellezza”), da Spengler a Freud, e naturalmente Nietzsche e Martin H. e la scuola di Francoforte. Ultimamente viene insaporita da una spruzzata di Alain de Benoist.

[3] Il tramonto del post-modernismo è al centro di un dibattito ospitato dall’Almanacco di Filosofia 2016 di MicroMega (“Ritorno alla realtà o fughe metafisiche?”). Ti confesso comunque che del dibattito in sé mi interessa ben poco, perché al solito vola alto e non prende in considerazione le ricadute spicciole, i danni collaterali, materiali e irrimediabili, provocati dalla guerra delle idee.

[4] L’interpretazione della didascalia apposta all’acquaforte di Goya è in realtà controversa. Il termine sueño in spagnolo significa sia sonno che sogno. Adottando questo secondo significato avremmo “Il sogno della ragione genera mostri”, in questo caso perfettamente in linea con la lettura post-modernista.

[5] Al quale oppongono il pensiero di Spinoza, tutt’altro che irrazionalista, ma adattato convenientemente alla bisogna.

[6] Questa convinzione accomuna tutto il fronte postmodernista, ma è rilanciata ed esplicitata con molta convinzione soprattutto da una frangia estremista dell’antropologia, segnatamente da Marshall Sahlins, che in “Un grosso sbaglio” legge tutta la storia della cultura occidentale come un progressivo asservimento all’ideologia del dominio.

[7] Su questo tema è illuminante (e definitiva) l’analisi di George Steiner (cfr. La nostalgia dell’assoluto).

[8] Per le origini di questa differenza rimando a “La vera storia della guerra di Troia”, Viandanti delle Nebbie, 2016

[9] Viandanti delle Nebbie, 2008

[10] Raccontando le difficoltà dei fiorentini a tenere sotto controllo Pistoia, commenta che se avessero eliminato subito, a freddo, quattro o cinque capi delle fazioni in lotta in quella città si sarebbero evitati un centinaio di morti un anno dopo.

[11] Per gli intrecci tra scienza ed economia, e in particolare per la rilevanza economica della botanica nel ‘700, sono utili e divertenti testi come Cacciatori di piante, di Tyler White, o La confraternita dei giardinieri di Andrea Wulf.

[12] Ne L’idioma analitico di John Wilkins (in Altre inquisizioni).

[13] Anche se le recenti scoperte in Europa e in Africa di fosse comuni risalenti al paleolitico superiore, piene di corpi brutalmente martirizzati, compresi quelli di donne e bambini, sollevano multi dubbi sul carattere pacifico delle società pre-agricole.

[14] Anche perché proprio Lyotard e Derrida, quando si sono resi conto di dove andavano a parare i loro esegeti, hanno preso velocemente le distanze, proponendo in definitiva un ritorno a Kant e un rilancio dell’Illuminismo. Il danno, comunque, era già fatto.

Il mondo a piedi

di Paolo Repetto, 30 gennaio 2015

A piedi e con cuore leggero mi avvio per libera strada;
in piena salute e fiducia, il mondo offertomi innanzi,
il lungo sentiero pronto a condurmi ove io voglia.
William Wordsworth

1. L’oggetto di questo scritto è perfettamente riassunto in quel “A piediper libera stradaa condurmi ove io voglia” dei versi posti in esergo. È la diversa percezione del significato del camminare che si origina nell’età moderna e si diffonde poi nel passaggio a quella contemporanea. Ne ho seguite le tracce nelle testimonianze letterarie, scegliendo naturalmente quelle che mi sembravano più significative, nella convinzione che in questo caso più che mai la letteratura sia non solo testimone, ma promotrice e partecipe del cambiamento.

Fino a un paio di secoli fa camminare era considerato un riflesso naturale. Pur essendo un gesto volontario, rimaneva quello più prossimo a una reazione muscolare involontaria, perché non si sceglieva di camminare, semplicemente si doveva: si camminava per spostarsi e ci si spostava per cercare cibo, per scambiare merci, per fuggire o per tornare, per esplorare nuove contrade e per incontrare nuove genti.

Era quindi un atto “necessario”, strumentale a quasi tutte le attività, dalla guerra alla mercatura, o alla semplice convivenza e veniva ritenuto tale, per estensione, anche ai fini di una corretta “igiene” mentale. Entro questi limiti, quelli di una risposta quasi meccanica alla necessità, il deambulare è stato infatti visto da sempre anche come un’attività legata al pensiero, capace di stimolare la riflessione o di curare i mali dell’anima.

Sulla sua funzione terapeutica erano d’accordo pagani e cristiani, atei e credenti (pur con qualche eccezione illustre: Cartesio, ad esempio, nelle Meditazioni associa il lavoro intellettuale solo alla quiete totale del corpo). Così san Girolamo riassumeva in una formuletta essenziale, Solvitur ambulando, quanto prima di lui a proposito della tranquillità dell’animo aveva già scritto Seneca: «Dovremmo fare passeggiate all’aperto, per rinfrescare e sollevare i nostri spiriti con la respirazione profonda all’aria aperta», e prima ancora era stato messo in pratica da Socrate e dai suoi discepoli, da Aristotele e dai peripatetici, dai sofisti e dagli stoici che passeggiavano sotto il porticato.

Ammettere che esistesse una connessione tra il movimento dei piedi e quello dei pensieri non significava tuttavia che al camminare fosse dedicata una riflessione specifica. Proprio perché lo si considerava “naturale”, a questo gesto non veniva riconosciuto un qualche significato autonomo, un valore intrinseco: era semplicemente funzionale ad altro.

Mercanti, soldati, funzionari, tutti coloro che si muovevano per lavoro, non camminavano affatto per scelta: andare a piedi non era una moda, ma un modo per spostarsi, spesso l’unico possibile. Persino coloro che almeno teoricamente sceglievano, ad esempio i pellegrini (ma non sempre, in molti casi i pellegrinaggi erano imposti), erano in realtà condizionati dalla finalizzazione del gesto a una penitenza. Camminare, oltre a consentire di riflettere sui propri peccati, rappresentava una forma di espiazione, un’anticipazione della pena del purgatorio. La gratificazione psicologica non nasceva dal gesto in sé, ma dalla sua presunta capacità di sgravare il debito contratto con Dio.

Quindi, se è vero che gli itinerari percorsi dai viaggiatori del Sette-Ottocento erano già stati tracciati nei secoli precedenti da una miriade di camminatori, è lo spirito nuovo con i quali sono affrontati con cuore leggero a fare la differenza e ad attrarre il nostro interesse. Nessuno dei pellegrini in viaggio verso Canterbury o verso Roma, dei chierici vaganti, dei saltimbanchi, dei venditori ambulanti o dei vagabondi che brulicano nelle letterature classiche o medioevali ha una coscienza specifica del camminare, se non come gesto simbolico o metafora religiosa.

Il pellegrinaggio per eccellenza, il percorso di purificazione raccontato da Dante, va compiuto rigorosamente a piedi. Questo il poeta lo dà per scontato, e noi stessi non siamo in grado di immaginare alcuna altra possibilità: non c’è scelta e non c’è gioia nel camminare, al più sono sottolineate le difficoltà, che costituiscono un valore penitenziale aggiunto.

Piuttosto, qualche anticipazione di quello che sarà lo spirito moderno la si può cogliere nelle passeggiate solitarie di Guido Cavalcanti (come raccontato dal Boccaccio), che non a caso tra i concittadini godeva fama di eccentrico. Tra l’altro, anche Guido intraprese un pellegrinaggio a piedi, questo reale, verso Compostela (cosa abbastanza singolare, dal momento che sempre Boccaccio annota: «si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse»); ma lo interruppe nei pressi di Tolosa, dopo aver incontrata una bella ragazza (e forse l’elemento di modernità sta proprio in questo).

Oppure, alcuni tratti del camminare romantico sono rintracciabili in Petrarca, ad esempio in Solo e pensoso, anche se il poeta continua a presentare le sue deambulazioni come una fuga. La novità in questo caso è costituita dal rapporto che il camminatore instaura con la natura. Si tratta tuttavia di indizi che rimandano a personalità particolari e non possono essere letti come spie di un atteggiamento culturale in trasformazione.

Mi sembrano già tali, invece, i segnali che arrivano dall’Umanesimo, conseguenti alla rivalutazione di ogni attività o prerogativa umana. In prima linea in questa direzione troviamo, e non c’era da dubitarne, Leon Battista Alberti, del quale Jacob Burckardt dice: «egli voleva apparire irreprensibile e perfetto in tre cose: nel camminare, nel cavalcare e nel parlare». Ciò significa che considerava il camminare non come una reazione muscolare più o meno volontaria, ma come un esercizio che può essere “culturalmente” disciplinato e perfezionato. E questo è già un notevole passo innanzi verso un’attenzione non puramente strumentale al gesto.

Un’attenzione che viene ripresa e addirittura codificata un secolo dopo, ad esempio nel Cortegiano: le indicazioni di Baldassar Castiglione riguardano la postura, l’eleganza del gesto, l’equilibrio delle varie parti del corpo coinvolte, e quindi hanno ben poco a vedere con l’idealità romantica ma sembrano tornate di moda nella postmodernità, attraverso la miriade di manuali e pubblicazioni dedicate oggi agli aspetti “tecnici” della marcia.

Un altro tipo di apertura alla concezione moderna del camminare lo troviamo, sempre nel Cinquecento, in Leonardo Fioravanti, il medico autodidatta, chirurgo estetico, precursore nell’uso di terapie ancor oggi valide e scopritore di farmaci, oltre che viaggiatore instancabile, raccontato da Piero Camporesi: «”Camminare il mondo” era, per Fioravanti, l’unico immutabile, ossessivo baricentro, mobile e incerto, dell’esistenza».

In questo caso è ancora presente, e prevalente, la finalizzazione del gesto, perché Fioravanti «sapeva per esperienza che la Terra era un viscido labirinto pieno d’inganni e gabberie, nel quale solo chi sapeva nuotare riusciva a galleggiare e a sopravvivere, nella migliore delle ipotesi, in una “gabbia di matti”». Ma il fine è un apprendimento itinerante costante, nel quale il metodo, il muoversi a piedi, è parte integrante dello scopo.

Camminare rimane comunque un imperativo anche per chi dalla “gabbia di matti” pensa si dovrebbe uscire. Al tramonto del Rinascimento Tommaso Campanella immagina per la sua Città del Sole un sistema educativo basato sul connubio tra teste e piedi: «li figliuoli, senza fastidio, giocando, si trovano saper tutte le scienze istoricamente prima che abbin dieci anni».

Funziona così. Anziché rimaner chiusi nelle aule, i giovani solariani sono condotti dai loro insegnanti a passeggiare attorno alle mura della città, sulle quali sono dipinte (appunto istoriate), come su un’enorme lavagna in cinemascope, le immagini di tutto ciò che è funzionale al sapere, a partire dalle lettere dell’alfabeto per arrivare alle forme geometriche, alle raffigurazioni di tutti i metalli e minerali, di tutte le piante ed erbe, di tutti gli animali, e poi ancora di tutte le arti e le invenzioni dell’umanità, e dei loro inventori. Nella cupola e sulle pareti del tempio infine sono raffigurate le stelle e i pianeti.

Gli scolari della Città del Sole imparano nel corso dei loro giri a leggere e a fare di conto, e apprendono gradualmente tutte le nozioni scientifiche basilari. Chi fatica un po’ a comprendere o a concentrarsi ripeterà più volte il giro e fruirà in contropartita di un maggiore allenamento corporeo. Ambulando discitur, in senso strettamente letterale. Per il momento però si tratta ancora di una camminata urbana, o almeno circumurbana: per Campanella e per i suoi contemporanei, Bacone e Galileo soprattutto, la scienza si fa con l’esperimento, in laboratorio, più che con l’osservazione sul campo. E tuttavia le scoperte geografiche e l’incontro con ambienti e popoli nuovi stanno preparando la trasformazione della mentalità. Nei secoli successivi l’invito sarà a uscire dalle città e dalle aule per studiare la natura attraverso il contatto diretto.

2. Non insisto oltre in questo gioco di risalita a monte perché è evidente che si rischia, e più che mai su un tema come questo, di trovare indizi e precursori a ogni passo. Penso comunque abbia ragione Leslie Stephen quando sostiene che tAll great men of letters have, therefore, been enthusiastic walkers (exceptions, of course, excepted).utti i grandi uomini di lettere sono stati entusiasti escursionisti (anche qui, naturalmente, con qualche eccezione). Lo penso perché Stephen si riferiva al mondo letterario anglosassone, nel quale poteva pescare quasi a colpo sicuro.

A suo giudizio, ad esempio, Shakespeare oltre a essere uno sportivo ebbe ben chiaro il collegamento tra i piedi e un cuore allegro, ethat is, of course, a cheerful acceptance of our position in the universe founded upon the deepest moral and philosophical principles.His friend, Ben Jonson, walked from London to Scotland. il suo collega Ben Jonson lo aveva talmente chiaro che si spostava normalmente a piedi da Londra alla Scozia.

In effetti Jonson possedeva un acuto senso dell’umorismo, col quale esponeva al ridicolo le debolezze umane; e stando alla teoria degli umori che aveva sposato (i quattro maggiori fluidi del corpo umano – malinconia, iracondia, flemma e sangue – nelle loro differenti miscele percentuali determinerebbero il carattere dei singoli individui), il movimento favoriva il prevalere di quelli positivi (ma non sempre, se è vero che sfuggì per un pelo all’impiccagione dopo aver ucciso in duello un attore della sua compagnia).

Da qui pertanto il nostro principale riferimento sarà proprio la cultura anglosassone. Con ogni probabilità anche nel resto dell’Europa i letterati camminavano, ma a differenza degli inglesi non ne facevano menzione, non la consideravano un’attività degna di nota (quando addirittura non se ne vergognavano). In Inghilterra è invece sottolineata1. Izaac Walton l’autore de The Compleat Angler, la bibbia dei pescatori, racconta nel suo libro di biografie Lives of John Donne, Henry Wotton, Rich’d Hooker, George Herbert, & C, che il vescovo Richard Hooker, dopo aver percorso quattrocento chilometri per recarsi a omaggiare un alto prelato suo padrino, si vide regalare da quest’ultimo «un cavallo che mi ha portato per un sacco di miglia lungo tutta la Germania, e grazie a Dio con molta facilità», in altre parole un robusto bastone da passeggio con la raccomandazione di tornare quando l’avesse consumato. Walton stesso faceva passeggiate di una trentina di chilometri tutte le mattine prima di sedersi con la canna sulle rive di un torrente.

Ma a quanto pare proprio tutti si dedicavano all’esercizio ambulatorio, dai filosofi come Thomas Hobbes e Jeremy Bentham agli scrittori come Jonathan Swift, Henry Fielding e Oliver Goldsmith (quest’ultimo era un camminatore vigoroso, e viaggiò a piedi sul continente per due anni, a metà del Settecento, avendo come bagaglio un flauto e poco più). Persino il dottor Johnson, la cui mole non era trascurabile e del quale non si può certo dire che fosse un cuore allegro, macinava un sacco di strada, e dopo un’andata-ritorno di cinquanta chilometri scriveva che la sua malinconia si era un po’ dissipata.

Tuttavia rimaniamo ancora sulla linea dettata da Seneca, della camminata come igiene fisica e mentale, anche quando si va oltre l’assunzione di una sana abitudine. Il fondatore del metodismo, John Wesley, si spostava soltanto a piedi (soprattutto per risparmiare il costo di un cavallo) e la sua attività di predicatore lo portava costantemente in giro per tutta l’Inghilterra, con puntate anche sul continente. Da buon metodista propugnava e prescriveva il camminare per venti o trenta chilometri al giorno come esercizio metodico, come strumento della grazia al pari della meditazione sulle Scritture, per accedere alla santità del cuore e della vita. Igiene spirituale, in questo caso.

Nel corso delle sue peregrinazioni Wesley incrociò probabilmente un altro personaggio singolare, John Thelwall, anche lui conferenziere itinerante ma con differenti motivazioni. Thelwall era un radicale, giacobino, abolizionista, più volte arrestato per i suoi articoli di fuoco e per la sua attività di propagandista, scampato una volta alla forca e sfuggito in un’altra occasione in extremis al linciaggio da parte di una folla inferocita. Quando gli fu impedito di parlare in pubblico a Londra cominciò imperterrito a portare le sue idee e la sua verve in giro per tutto il paese, sottraendosi al controllo e alla censura delle autorità col muoversi sempre a piedi lungo itinerari improvvisati.

In una sua raccolta di saggi, The Peripatetic; Or, Sketches of the Heart, of Nature and Society, pubblicata nel 1793, usa il viaggio a piedi come pretesto per parlare in verità un po’ di tutto, dai diritti delle donne e degli schiavi alla povertà nelle campagne, dai guasti della società classista alle meraviglie della natura in pericolo. Tutti argomenti che Thelwall conosceva bene proprio per il suo modo di spostarsi, che gli consentiva un diretto contatto con le realtà e i problemi del paese. Ma questi spostamenti sono appunto una strategia operativa quando li compie e un pretesto narrativo quando li racconta. Scrive a William Wordsworth, presso il quale per un certo periodo aveva trovato rifugio: «Sto pensando di esplorare l’Inghilterra, ma in un modo umilmente evangelico: cioè a piedi». Lo scopo è vivere francescanamente le proprie idee: il camminare è un mezzo, al quale viene anche conferito un legame sapienziale con la Grecia antica. Annota infatti: «sotto un aspetto almeno, posso vantare una rassomiglianza con la semplicità degli antichi saggi: porto avanti le mie meditazioni a piedi». In questa pratica non c’è, in effetti, nulla di nuovo, semmai è un ritorno all’antico.

Quando esce la raccolta di Thelwall, il primo segnale esplicito di un cambiamento nella considerazione del camminare, del passaggio da gesto naturale a gesto prevalentemente culturale, in realtà è già arrivato: ma non dall’Inghilterra. Questo passaggio avviene nel momento in cui non solo il gesto è raccomandato per le sue positive ricadute igieniche, fisiche, psicologiche e spirituali, ma si comincia a rifletterci sopra e a scriverne. Quando da scenario e fondale, o pretesto, per la scrittura, diventa oggetto della scrittura stessa. La camminata “culturale” diventa cartesiana, è fissata in coordinate letterarie autonome. Viaggiare a piedi si trasforma in un fine in sé, le esperienze che è possibile fare lungo il cammino vanno a sostituire la meta come scopo del viaggio.

Ora, non è nemmeno del tutto vero che nel corso del Settecento questi segnali in Inghilterra non ci siano. È probabile piuttosto che vengano avvertiti meno proprio perché il passaggio è meno traumatico, perché è già maturata una maggiore abitudine. Come spiega Rebecca Solnit nella Storia del Camminare, è in atto da qualche tempo sull’isola una mutazione del gusto, che si manifesta ad esempio nel prevalere del modello di giardino all’inglese. Questo tende a essere sempre più conforme alla natura, a imitarla, fino a confondersi con quella che sta oltre la cinta, nei campi liberi.

Col tempo anche gli aristocratici e i benestanti, che prima si limitavano a percorrere il perimetro dei loro parchi, sono indotti a oltrepassare la cinta e a spingersi sempre più all’esterno. Non solo: quando lo spazio esterno da luogo del disagio e del pericolo diviene scenario del pittoresco, di esso cominciano godere anche quelle classi cui la passeggiata in giardino era preclusa e che a loro volta maturano un rapporto diverso con l’ambiente naturale e un conseguente stimolo a riscoprirlo.

Il mutamento del gusto procede, infatti, da un’accelerata trasformazione delle condizioni materiali del viaggio. Fino alla seconda metà del XVIII secolo viaggiare a piedi (così come in altri modi) rimaneva sia difficoltoso che pericoloso ed era considerato anche disdicevole. Le condizioni delle strade erano pessime, le campagne e gli immediati dintorni delle città erano infestati da ladri e malfattori. Camminare da soli su una via pubblica rendeva immediatamente sospetti: solo i poveracci o i malviventi lo facevano. Oltretutto, sia i primi che i secondi erano aumentati in maniera esponenziale dopo i disordini politici del Seicento, con l’avanzata della rivoluzione industriale e con il diffondersi delle recinzioni. Erano contadini cacciati dalla loro terra, sradicati che seguivano i ritmi di saltuari lavori stagionali, soldati smobilitati che vagavano per il paese, privi di ogni prospettiva di lavoro e di stabilità.

Si spiega allora perché ancora nei primi anni ottanta del Settecento il saggista tedesco Karl Philipp Moritz, lettore e discepolo di Rousseau, impegnato in un pedestrian tour in Inghilterra, incontrasse l’ostilità violenta dei contadini e non fosse accolto nelle locande (è quanto capita anche al protagonista di un romanzo di Henry Fielding, Joseph Andrews). Moritz si muoveva appunto inseguendo le suggestioni di Rousseau (e portava nello zaino il Paradiso Perduto di Milton), ma rispetto all’Inghilterra era in anticipo sui tempi.

Vent’anni dopo avrebbe trovato per strada, oltre ai nobili stravaganti, diversi intellettuali, personaggi eccentrici che sceglievano di proposito di camminare nel mondo, a contatto con la natura, mescolati agli umili (le camminate “evangeliche” di Wesley e di Thelwall o quelle spensierate di Wordsworth e De Quincey). Sono scelte dettate dalle trasformazioni epocali che gli avvenimenti di fine secolo inducono nella mentalità e nel costume, ma su esse agisce anche, sia pure di rimpallo, il deciso miglioramento sia della qualità che della sicurezza delle strade.

Le nuove tecniche di pavimentazione stradale, e di lì a poco le prime ferrovie, avvicinano infatti o rendono accessibili ai veicoli per il trasporto di passeggeri e al traffico commerciale luoghi che un tempo potevano essere raggiunti solo a piedi. Camminare è quindi sempre meno una necessità, è un’attività sempre più svincolata da una meta o da uno scopo strumentale e, quando intesa in tal senso, da esercitarsi possibilmente al di fuori degli itinerari di transito comune, in luoghi eletti. Come scriverà Thoreau: «Camminando ci dirigiamo naturalmente verso i prati e i boschi: cosa sarebbe di noi, se ci fosse dato camminare unicamente in un giardino o lungo un viale?».

Andare a piedi non diventa quindi solo un modo più rispettabile di viaggiare, è anche un modo per affermare una discontinuità e una ribellione al modello di vita aristocratico. In mezzo c’è stata la Rivoluzione francese, c’è un messaggio nuovo, che soprattutto nei primi anni affascina ed eccita le generazioni più giovani.

3. Il segnale di cui si parlava arriva appunto dalla Francia. E proprio con Jean-Jacques Rousseau. Il ginevrino aveva camminato moltissimo in gioventù, per motivazioni economiche prima ancora che ideali. A sedici anni, con una decisione improvvisa, lascia Ginevra e si mette per strada, continuando a girovagare a lungo tra Savoia, Svizzera e Delfinato. Col tempo, e complice il filtro operato dalla memoria, maturerà un profondo rimpianto per quei vagabondaggi.

Ho viaggiato a piedi soltanto ai miei bei giorni, e sempre con gioia […] mentre prima nei miei viaggi provavo solo il piacere di camminare, da quel momento non ho più sentito altro che la smania di arrivare.

Si noti, parla del piacere di camminare. Non di necessità, non di vantaggi, non di abitudine. Del puro piacere. Rousseau scrive le Fantasticherie del passeggiatore solitario e le Confessioni mezzo secolo dopo, poco prima di morire (nel 1778), ed è in queste opere che entra scena per la prima volta ufficialmente il camminatore moderno.

Ero giovane, pieno di salute, viaggiavo e viaggiavo a piedi, e viaggiavo solo. Ci si potrebbe stupire che io consideri quest’ultima cosa un vantaggio, ma significherebbe non conoscere la mia indole. Non ho mai tanto pensato, non sono mai tanto esistito, non ho mai tanto vissuto e non sono mai stato tanto me stesso, se così posso dire, come nei viaggi che ho fatto da solo e a piedi […].Nelle Confessioni annota – Non riesco a meditare se non camminando. Appena mi fermo, non penso più, e le testa se ne va in sincronia coi miei piedi […]. La campagna è il mio studio. La vista di un tavolo, della carta e dei libri mi affligge […].

Non è più una condizione temporanea e intermedia tra due momenti o eventi significativi, e nemmeno una parentesi, abituale quanto si voglia, necessaria, capace di creare dipendenza, ma sempre e comunque al servizio o in vista di qualcos’altro – la salute, la santità, ecc…; è un modo d’essere, anzi, la punta di un modo d’essere.

La marcia ha qualcosa che anima e ravviva i miei pensieri: non riesco quasi a pensare quando resto fermo; bisogna che il mio corpo sia in moto perché io vi trovi il mio spirito. La vista della campagna, il susseguirsi di spettacoli piacevoli, l’aria aperta, il grande appetito, la buona salute che acquisto camminando, la libertà dell’osteria, la lontananza da tutto ciò che mi fa pesare la dipendenza, da tutto ciò che mi richiama alla mia condizione, è quanto affranca la mia anima, ispira più fiducia al mio pensiero, in qualche modo mi lancia nell’immensità degli esseri per combinarli, sceglierli, appropriarmene a mio piacimento, senza imbarazzo e senza paura.

Nelle dieci Passeggiate che compongono le Fantasticherie, non c’è una descrizione dettagliata degli itinerari, sono pensieri buttati giù in associazione libera, quelli che possono appunto nascere nel corso di una passeggiata. Il camminare diventa quindi un mezzo letterario: detta i ritmi del discorso, giustifica le digressioni, fornisce sfondi mutevoli e quindi spiega le variazioni dello stile. Il rapporto tra pensiero e camminata è analizzato nel dettaglio: non vengono rappresentate solo le meditazioni, ma occupano un ruolo di primo piano le circostanze che le hanno fatte scaturire, le condizioni “materiali”. E questo avviene già a partire dal titolo.

Se è vero che il primo segnale del cambiamento di attitudine arriva da Rousseau, ad amplificarlo sono però William Wordsworth e la cerchia intellettuale che venne a formarsi attorno a lui e a Coleridge. Nel 1790 il futuro cantore delle brughiere, all’epoca studente ventenne in attesa dell’ammissione a Cambridge, partiva con un compagno di studi per un viaggio a piedi di duemila miglia attraverso la Francia, con sconfinamento in Svizzera e al di qua delle Alpi.

Fu una marcia a velocità militare / […] Di giorno in giorno, alzati presto e coricati tardi / di valle in valle, di colle in colle andammo / procedemmo di provincia in provincia / cacciatori intenti alla pista per quattordici settimane.

La scelta di muoversi a piedi e di arrivare in Svizzera (la patria di Rousseau), era già di per sé un atto di anticonformismo, un rovesciamento dei canoni del Grand Tour. I rampolli dell’aristocrazia inglese viaggiavano, infatti, di norma in carrozza, alloggiavano nei migliori alberghi o presso i loro omologhi dei paesi visitati, erano scortati da pedagoghi o valletti.

Quanto alla Svizzera, non era compresa in genere negli itinerari del Tour, perché non offriva molto sotto il profilo dell’arte e delle vestigia classiche; consentiva invece l’immersione in scenari naturali selvaggi e suggestivi e rappresentava per l’epoca l’espressione più avanzata di democrazia. Di questo erano a caccia William e il suo compagno.

Dopo quel viaggio Wordsworth non si ferma più e coinvolge per prima nella sua smania di camminare la sorella Doroty; evidentemente era una malattia di famiglia. Il racconto lasciato da quest’ultima di una marcia di quaranta chilometri nella neve, la vigilia di Natale, per arrivare a casa di amici, ci fa assaporare meglio di qualsiasi spiegazione il succo della nuova disposizione che pervade i due fratelli: «Si viaggiava meravigliosamente, a piedi, sulle colline, in direzione del mare».

Wordsworth non ha scritto trattati o saggi specifici sul camminare, ma tutta la sua poesia, e il Preludio in particolare, sono un inno a questa pratica e al tipo di rapporto che ti fa instaurare col mondo, inteso tanto come natura che ti circonda che come umanità che incontri.

Le strade solitarie
furono scuole in cui quotidianamente leggevo
col maggior diletto le passioni dell’umanità.
Là vedevo nel profondo delle anime.

La svolta impressa da Wordsworth al modo e al senso del camminare prende dunque origine da una motivazione sociale, da una ribellione nei confronti del sistema classista inglese e quindi anche del modello aristocratico di passeggiata o di viaggio: ma presto, sbolliti gli eroici furori dell’infatuazione rivoluzionaria, diventa altro. Subentra il gusto del puro diletto che poi si declina di volta in volta come scoperta della natura, del mondo dei reietti, di se stessi, ma che fondamentalmente ha a che fare con l’auscultare e assecondare il ritmo delle proprie gambe.

A piedi e con cuore leggero mi avvio per libera strada;
in piena salute e fiducia, il mondo offertomi innanzi,
il lungo sentiero pronto a condurmi ove voglia.
D’ora in avanti non chiedo più buona fortuna,
sono io la buona fortuna.
D’ora in avanti non voglio più gemere,
non più rimandare, non ho più bisogno di nulla,
finiti i lamenti celati, le biblioteche, le querule critiche.
Forte e contento mi avvio per libera strada.

Aldous Huxley rilevava che:

Durante gli ultimi cento anni, o quasi, l’affermazione che la natura è divina ed eleva moralmente è stata quasi un assioma. Per un buon seguace di Wordsworth una passeggiata in campagna è equivalente all’andare in chiesa, un viaggio attraverso il Westmoreland ha lo stesso valore di un pellegrinaggio a Gerusalemme.

Poco alla volta Wordsworth contagia gli altri giovani letterati della sua cerchia, primo tra tutti Samuel Taylor Coleridge, che pure non seguiva la dieta migliore per chi ama viaggiare a piedi (come energetico l’oppioOpium-eating is not congenial to walking, yet even Coleridge, after beginning the habit, non è granché e, infatti, la smania del camminare durò in lui solo una decina d’anni) e che comunque parla di camminate di quaranta miglia al giorno in compagnia dell’amico, nel corso delle quali nacquero le Lyricals Ballads. Nella prefazione a queste ultime scrive:

Lo scopo principale che ho avuto, scrivendo questi poemi, è stato quello di rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni, rintracciando in essi, fedelmente, ma non forzatamente, le leggi della nostra natura, specialmente per quanto riguarda il modo in cui noi associamo le idee in uno stato di eccitazione.

In questo caso si può pensare che l’eccitazione nasca dalle endorfine secrete dai suoi polpacci per tener dietro all’amico, piuttosto che dal frutto del papavero.

I due si incontrano la prima volta nel 1797, quando Coleridge, dopo aver letto l’opuscolo di Wordsworth che descrive la camminata per tutta la Francia fino alle Alpi, copre di volata trenta miglia per fare la conoscenza di William e Dorothy. Progettano subito un viaggio a piedi nel Devonshire da realizzarsi quell’autunno stesso e pare che La ballata del vecchio marinaio sia stato scritto nella speranza di finanziare le spese di quell’avventura.

I Wordsworth si trasferiscono poi in un cottage prossimo a quello di Coleridge, nel distretto dei Laghi, e da quel momento la zona diventa meta dei pellegrinaggi della meglio gioventù inglese, primi tra tutti John Keats e Thomas de Quincey.

Oppio e sgambate convivono anche in quest’ultimo, che ha iniziato sin da adolescente a vagabondare in proprio per il Galles e l’Inghilterra meridionale, ma che al contrario di Coleridge coltiverà questa passione anche in età matura. Conserva peraltro anche un’ironica schiettezza nei giudizi.

Quando racconta una passeggiata notturna di quaranta miglia, da Bridgewater a Bristol, la sera dopo il primo incontro con Coleridge, ci dice che non riusciva a dormire per l’eccitazione e che approfittò di una notte d’estate «divinamente calma» per camminare meditando sul mesto spettacolo cui aveva assistito: quello di un grande uomo che stava rapidamente decadendo.

Di Wordsworth, come uomo e come poeta, De Quincey è un entusiasta cantore ma questo non gli impedisce di farci sapere che le gambe secche di Wordsworth, la sua costituzione fisica, il modo stesso piuttosto sghembo di camminare, non lasciavano per niente sospettare il camminatore instancabile. Così come le distanze da quello quotidianamente percorse parrebbero non consentire alcuno spazio a un’attenzione minuziosa, quasi scientifica, per qualsiasi fenomeno naturale, mentre Wordsworth riusciva invece a essere tutto questo.

De Quincey non ha scritto saggi specifici sul camminare, ma ha affidato il suo testamento spirituale e il suo credo deambulatorio alla biografia del più straordinario camminatore dei suoi tempi, John “Walking” Stewart, filosofo e riformatore del quale torneremo a parlare.

4. Il teorico ufficiale del gruppo dei pedestrian wanderers romantici è invece William Hazlitt, che ne riassume la filosofia in On Going a Journey (Mettersi in viaggio), nel 1822. Hazlitt non piaceva affatto a Wordsworth, che lo riteneva «una persona non abbastanza corretta per essere ammessa in una società rispettabile», e aveva le sue brave ragioni. Hazlitt in effetti ce la metteva tutta per rendersi sgradevole. Lui stesso confessa:

Io non sono un uomo bonario, nell’accezione comune del termine, ci sono molte cose che mi infastidiscono, oltre a quelle che interferiscono con la mia tranquillità e con i miei interessi. Quindi mi sono fatto molti nemici e pochi amici.

Dal canto suo, dice di Wordsworth: «Vede solo se stesso e l’universo». Non fece dunque camminate in sua compagnia e tendenzialmente non le faceva nemmeno con altri. Condivide l’idea di Rousseau che l’unica camminata buona è quella solitaria.

La cosa che più mi piace al mondo è mettermi in viaggio: ma mi piace andare da solo. Posso godere dei piaceri della società in una stanza, ma fuori della porta la natura è per me più che sufficiente. Non sono mai meno solo di quando sono solo. – e ancora – Non si può leggere il libro della natura se si ha perennemente la necessità di tradurlo per gli altri […] se devo spiegarlo, sto facendo di un piacere una fatica […].

Conoscendosi bene, sottolinea l’importanza di evitare inutili discussioni:One should devote himself entirely to contemplation, this could only be achieved in a true mood of good thinking. «dobbiamo concentrarci su una sola cosa alla volta. Per esempio, non dovremmo litigare, perché ciò rovinerebbe sicuramente la contemplazione». This stresses the relation between loneliness and achievement, in travel man achieves peace with himself instead of quarrelling with the others.Ecco chiarito il rapporto tra la solitudine e la realizzazione: in viaggio, l’uomo raggiunge la pace con se stesso invece di litigare con gli altri. È disposto al più a condividere il cammino quando si tratti di andare «a visitare rovine, acquedotti, mostre di dipinti. Sono cose che parlano all’intelletto, e sopportano che se ne parli».

Dall’altra parte dell’oceano gli fa eco il profeta americano della camminata, il già citato Henry David Thoreau: «Non ho mai trovato il compagno che mi facesse così buona compagnia come la solitudine. L’uomo che viaggia solo può partire oggi; ma chi viaggia in compagnia deve aspettare che l’altro sia pronto» dice in quello che diverrà il testo sacro di generazioni successive di trampers, intitolato appunto Camminare.

Alla base di questa preferenza per il camminare da soli c’è senza dubbio una componente caratteriale individuale, nel senso che già di per sé la scelta di muoversi a piedi su lunghe distanze evidenzia una disposizione o uno stato d’animo particolari, non da tutti (anzi, da ben pochi) condivisibili; e spesso subentra poi anche una sorta di presunzione, il senso di appartenenza a una esigua minoranza di eletti, per i quali è difficile trovare la compagnia giusta.

Ma, e segnatamente nel caso di Thoreau, c’è a volte molto di più, c’è una radicalizzazione del concetto di libertà che sembra potersi esprimere solo nella strenua difesa della sfera individuale. Secondo Thoreau, il vero “camminatore” è colui che sa staccarsi completamente dalla quotidianità e dagli affetti per entrare in una dimensione diversa e superiore, non contaminata dai pensieri e dalle preoccupazioni del vivere “banale”.

Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, e il fratello e la sorella, e la moglie e il figlio e gli amici, e a non rivederli mai più; se hai pagato i tuoi debiti, e fatto testamento; se hai sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino.

È più o meno ciò che chiedeva san Francesco agli aspiranti confratelli: uno straniamento totale rispetto alla “secolarità” dei rapporti, per poter entrare realmente in sintonia con chi e con quanto ci circonda. In questo caso, per Thoreau, la sintonia è cercata solo con la natura, con piante, pietre e animali. È la condizione preliminare necessaria per accedere a qualcosa che va ben oltre il puro piacere o benessere fisico.

Mi allarmo – dice Thoreau – quando, addentrandomi per un miglio in un bosco, mi accorgo di camminare con il corpo senza essere presente con lo spirito. Vorrei, nei miei vagabondaggi quotidiani, dimenticare le occupazioni del mattino e gli obblighi sociali. Ma talvolta non è facile liberarsi delle cose del villaggio. Il pensiero di qualche lavoro si insinua nella mente, e io non so più dove si trova il mio corpo, sono fuori di me. Vorrei, nei miei vagabondaggi, far ritorno a me stesso. Perché rimanere nei boschi se continuo a pensare a qualcosa di estraneo a quel che mi circonda?

Con la natura quindi si deve realizzare un rapporto totalmente simbiotico: solo in questo modo è possibile «far ritorno a se stessi», ma non sarà la natura a fare il primo passo, deve essere l’uomo. Scrive: «Se sei un uomo libero allora sei pronto per metterti in cammino», ciò significa che non si diventa liberi camminando, ma si cammina perché si è liberi. Che è una cosa ben diversa.

Se, infatti, camminare ci offre l’opportunità di un contatto diretto con la natura, di riconoscere che a lei apparteniamo e che alle sue leggi dobbiamo uniformarci, ci dice anche che le norme, le convenzioni e le costrizioni dettate dalla società, in quanto assolutamente innaturali, non vanno riconosciute. Il gesto del camminare, quando è un gesto libero, ha già in sé il germe della disobbedienza. Lo scritto più famoso di Thoreau è non a caso il saggio Disobbedienza civile. Il nesso tra questo e le altre sue due opere più conosciute, Walden, ovvero la vita nei boschi e Camminare, è diretto.

Nel 1845 Thoreau va ad abitare in una capanna di legno che ha costruita con le proprie mani presso il lago Walden, nei dintorni di Concord, in un luogo totalmente isolato. Vuole vivere immerso nella natura selvaggia e osservare quanto e come questo stile di vita incida sul suo fisico e sulla sua psicologia. Ma il contatto non può essere sedentario. Per immergersi davvero nella natura deve muoversi, esplorare ogni spanna del territorio che lo circonda. Deve appunto camminare, e spingersi sempre più lontano, inoltrarsi sempre più nella solitudine delle foreste.

Thoreau mette in pratica il pensiero del filosofo trascendentalista Ralph Waldo Emerson, in qualche occasione anche suo compagno di escursioni. Emerson scrive che:

La Natura ti dice di obbedire ai comandamenti dell’aria: di pattinare, nuotare, camminare, cavalcare, correre. Quando avrai consumato le scarpe, avrai vinto la resistenza della pelle, risuolale con le fibre del tuo corpo. La tua salute si misura dal numero di scarpe e cappelli e vestiti che hai consumati. L’uomo più ricco colui è colui che contrae il debito più grande col suo calzolaio.

Per i due anni dell’autoisolamento a Walden l’unico comandamento di Thoreau è di camminare almeno quattro ore al giorno, in direzioni diverse. E ottemperando scrupolosamente si rende sempre più conto di quanto lontani e futili appaiano, rispetto a questa dimensione, le convenzioni sociali.

Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita […] volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa […].

Questo “eroico furore” Thoreau non lo ritrova nella letteratura inglese (si riferisce naturalmente ai classici), ma nemmeno potrebbe avvertirlo in alcun camminatore del suo tempo da questa parte dell’oceano, ed è comprensibile, perché non ci sono in Europa i grandi spazi e gli scenari incontaminati che ispirano gli americani, né c’è ad alimentarlo la religiosità naturalistica della quale questi ultimi sono impregnati. La “tensione” di cui Thoreau parla rasenta da un lato il trasporto mistico, dall’altro lascia trapelare le ambiguità di un rapporto quasi gesuitico con la natura.

Dovremmo avanzare, anche sul percorso più breve, con imperituro spirito d’avventura, come se non dovessimo mai far ritorno, preparati a rimandare, come reliquie, i nostri cuori imbalsamati nei loro desolati regni.

Dà voce a un sentire che è comunque già diffuso, che trova ad esempio espressione e alimento nella prima metà dell’Ottocento nei libri di Washington Irving e di Fenimore Cooper e nei pittori della scuola dello Hudson River, soprattutto in Thomas Cole e in Frederic Church, che caratterizzerà nei successivi due secoli tutta la letteratura e la cultura in genere americana.

La pressione del mio piede sulla terra ne fa sgorgare mille affetti che si beffano d’ogni sforzo che compio per descriverli – scriverà Walt Whitman.

È un sentire legato al mito della frontiera, di un mondo totalmente vergine sotto l’aspetto naturalistico e aperto sotto quello sociale, che diventa luogo della possibile libertà e del riscatto individuale. Le ambiguità di questo sentire, che riescono evidenti nella sopravvivenza dell’istituto della schiavitù sino a oltre metà Ottocento e più ancora nel modo in cui viene risolto il problema dei nativi, caratterizzeranno anche in maniere più sottili l’esperienza americana.

Al momento in cui viene pubblicato Camminare è già in moto un capillare processo di spettacolarizzazione di tutti quegli aspetti che Thoreau riteneva peculiari e distintivi (del paesaggio, ad esempio, con le grandi mostre panoramiche di Bierstadt e Moran, della vita di frontiera, con i quadri e più ancora con le incisioni di Remington e Russell, dello stesso fenomeno del vagabondaggio, che da Huckleberry Finn in poi darà vita al filone letterario più prolifico della letteratura yankee).

5. L’eredità spirituale di Thoreau è raccolta ed esemplarmente vissuta da John Muir, naturalista, alpinista e precursore dell’odierno ambientalismo. Muir scrive:

Mi piace camminare, toccare la vivente madre terra – meglio se a piedi nudi e con un brivido a ogni passo. Arrivo a invidiare i rettili felici che hanno tanta parte del corpo a contatto con la terra, petto a petto. […] Viviamo con i nostri tacchi così come la testa.

Non è sempre stato così. Originario della Scozia, emigrato in America a nove anni, dotato di un notevole ingegno pratico, Muir ha lavorato sino a trent’anni nel settore industriale, realizzando anche alcune notevoli invenzioni. Già in gioventù amava molto camminare e copriva spesso lunghi percorsi nelle zone più incontaminate degli Stati Uniti settentrionali e del Canada, ma nel 1867 un incidente, nel quale va molto vicino a perdere la vista, gli cambia la vita. Molla tutto e intraprende un viaggio a piedi di duemila miglia da Indianapolis sino al Golfo del Messico: di lì, dopo aver traversato l’Istmo, risale sino alla California (poi raccontato ne A Thousard Mile Wolk to Gulf).

L’idea iniziale era quella di percorrere tutta l’America Meridionale sino a Capo Horn, ma una malattia prima e l’incontro con le foreste californiane dopo mutano il suo progetto. Diverrà lo scopritore e il propagandista delle meraviglie di Yosemite e farà partire il primo piano per la costituzione di parchi naturalistici negli Stati Uniti, mettendo tutta la sua inventiva e la sua praticità operativa al servizio della nuova causa. Con gli occhi miracolosamente ritrovati dopo un periodo di totale cecità vede il mondo in una luce nuova.

Questa grande rappresentazione è eterna. È sempre l’alba da qualche parte, la rugiada non è mai completamente assorbita nello stesso tempo, una cascata dura per sempre, e il vapore si alzerà sempre, albe eterne, tramonti eterni, sui mari e sui continenti sulle isole, ognuno a sua volta mentre la terra rotonda gira.

Nel suo libro più famoso, La mia prima estate sulla Sierra, riassume così la sua esperienza: «Ero solo uscito a fare due passi, ma alla fine decisi di restare fuori fino al tramonto, perché uscire, come avevo scoperto, in realtà voleva dire entrare». Ha scoperto cioè che «in ogni passeggiata nella natura l’uomo riceve molto di più di ciò che cerca»; ma nel suo caso si tratta di una vera e propria rivelazione. È l’idea dell’appartenenza umana a un Tutto, dell’universo come di un unico, indissolubile organismo.

È molto più probabile che la natura abbia creato gli animali e le piante per la loro stessa felicità piuttosto che per la felicità di uno solo dei suoi elementi. Perché l’uomo dovrebbe reputarsi più importante di una entità infinitamente piccola che compone la grande unità della creazione? L’universo sarebbe incompleto senza l’uomo; ma sarebbe incompleto anche privo della più microscopica creatura che vive al di là della nostra vista e conoscenza presuntuosa.

Proprio la presunzione umana è all’origine del degrado del mondo.

Inquinamento, contaminazione, desolazione, sono parole che non sarebbero mai state create se l’uomo fosse vissuto secondo natura. Uccelli, insetti, orsi muoiono e si disfano in modo pulito e bello.

Per questo il camminare ha senso, un altro superiore senso, solo nelle zone selvagge. E per questo tali zone vanno salvaguardate.

Non importa in quale degradazione l’uomo possa sprofondare, da parte mia non perderò mai la speranza finché i più umili continueranno a amare ciò che è puro e bello, e saranno in grado di riconoscerlo vedendolo.

Thoreau e Muir, quest’ultimo soprattutto, estremizzano dunque quella sfumatura particolare che fa la differenza tra le due scuole, americana e inglese. Riguarda l’idea del contatto con una terra selvaggia, nella quale il camminare crea una forma di tensione in più, data dalla scoperta continua ma anche, sotto sotto, dalla sfida al pericolo.

La natura era qualcosa di selvaggio e terribile benché bellissimo […] Qui non c’erano giardini ma il globo incontaminato. Niente prati né pascoli né coltivazioni né boschi né terre arabili né incolte né desolate.

E, naturalmente, della necessità di preservarla intatta. Nel caso di Muir si aggiunge un fervore quasi mistico, tipico di tutti coloro che ricevono la rivelazione in circostanze drammatiche.

La linea di Thoreau e di Muir è portata avanti, a cavallo tra i due secoli e poi nel Novecento, da un folto gruppo di pensatori-camminatori che traducono il pensiero “conservazionista” americano in un vero e proprio culto della Wilderness. Nel modello americano il camminare assume sempre più i tratti di un rito iniziatico, che accompagna il passaggio da un embrionale ambientalismo alla professione di fede nella natura. Sigurd Olson scrive:

Durante gli anni del mio girovagare nel grande Nord canadese scoprii l’importanza degli spazi aperti. In quelle spedizioni c’era il tempo di pensare durante lunghe ore di marcia o di ininterrotto pagaiare, ed io appresi che la vita è una serie di orizzonti aperti, senza che mai uno termini prima che in lontananza già ne appaia un altro – e ancora – Ho ho scoperto in una vita di viaggi in regioni primitive, vedendo persone che vivono nel deserto e lo usano, che c’è un nocciolo duro di necessità di deserto in tutti, un nucleo che fa dei suoi valori spirituali una necessità umana di base. Se non potremo preservare i luoghi dove il bisogno umano di infinito spirituale può essere soddisfatto e nutrito, distruggeremo la nostra cultura e noi stessi.

Olson è un camminatore che non tiene più il conto di tempi e distanze: la sua è una progressiva immersione-identificazione nella natura, e nella dimensione che vuole raggiungere i tempi e le distanze non esistono.

Lo stesso atteggiamento caratterizza Robert “Bob” Marshall, il fondatore della Wilderness Society, che pure è un marciatore leggendario e che, rimpiangendo di non essere vissuto un secolo prima e di non aver potuto partecipare all’epopea dell’esplorazione dell’Ovest, cerca di rifarsi negli sconfinati spazi dell’Alaska.

La “consacrazione” definitiva del camminare si avrà però nella seconda metà del Novecento, con Gary Snyder, guru della new age, autore de Il mondo selvaggio, guida materiale e spirituale di Jack Kerouac in una stagione escursionistica sulle Montagne Rocciose (è il Japhy Ryder de I vagabondi del Dharma). Dopo una serie di esperienze che spaziano dall’alpinismo al rapporto con la Beat generation e con i nativi americani, Snyder approderà infine all’ecologia del profondo e al buddismo, iniziandosi anche alla pratica dello Shu-gen-dō, un’antica religione giapponese che si fonda proprio sul camminare.

Facciamo un passo indietro e torniamo in Europa2. Anche Søren Kierkegaard, l’omologo “urbano” ed europeo di Thoreau, ama camminare da solo ma, invece che in mezzo ai boschi, cammina in città nella sua Christiania, scaricando lungo le vie cittadine le fobie e le nevrastenie accumulate in un’infanzia difficile.

Ha imparato sin da bambino a pensare camminando (o a camminar pensando) tra le mura domestiche, perché il padre, per non farlo uscire di casa, passeggiava con lui avanti e indietro per le stanze di casa. Quando entra nell’adolescenza la consuetudine è trasportata fuori, e quando il padre viene meno Søren la perpetua in solitaria.

Gli piace camminare da solo, ma in mezzo alla gente, avendo contatti, incontri rapidissimi e casuali e alla lunga necessariamente ripetuti: questo gli permette di studiare i suoi simili da vicino ma con un distacco da entomologo, e salvaguarda le sue paure. Così come, a detta della sorella Dorothy, lo studio di Wordsworth erano «il giardino e le colline là fuori», Kierkegaard considera le strade di Christania la sua «sala di ricevimento» e assieme laboratorio.

Nel diario afferma di aver composto tutte le sue opere camminando e in una delle Lettere a Jette scrive:

Camminare è la grande avventura, la prima meditazione: è un addestramento del cuore e dell’anima per l’umanità. […] Soprattutto, non perdere la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata […] ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati […] Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene.

Non è difficile immaginare come il suo eterno vagabondaggio per le vie di Christania sia percepito dai concittadini: chi non lo considera completamente pazzo lo bolla quantomeno come un ozioso. È quanto capita a quasi tutti i camminatori urbani: Charles Lamb e lo stesso Dickens lo sottolineano spesso nei loro racconti. D’altro canto, come scriverà Leslie Stephen,

le peregrinazioni urbane, sia pure deliziose, hanno a che vedere solo relativamente con ciò che intendiamo per camminare. Sui marciapiedi il passo è imposto anche dagli altri, ci si arresta per vedere o sentire, per salutare qualcuno o per evitare di incontrare qualcun altro. Nelle strade di campagna si coglie la vera estasi dell’oscillazione lunga, ininterrotta, degli arti, il bagliore armonioso di corpo e mente, l’animo che si nutre, cervello e muscoli che si esercitano allo stesso modo.

6. Un altro filosofo deambulante, legato al camminare da una dipendenza che sfiora, e a un certo punto supera, il confine del patologico, è Friedrich Nietzsche. Nietzsche, guarda caso, perde il padre a quattro anni. Quando si consideri che in una situazione più o meno analoga vengono a trovarsi anche Wordsworth, Rimbaud, Gorkji, London, Hamsun, praticamente tutti coloro nei quali ci si imbatte in una ricerca sul camminare, è difficile pensare a una serie di pure coincidenze. Qualche nesso tra la perdita del padre e la camminata quasi compulsiva, la ricerca spasmodica, deve esserci. Potrebbe magari essere la fuga da una figura materna che diventa troppo presente.

Comunque, come tutti i nordici, e i prussiani in particolare, Nietzsche comincia a marciare giovanissimo e consolida l’abitudine negli anni degli studi e durante il periodo dell’insegnamento, quando nei mesi estivi si reca a camminare con amici o colleghi nella Foresta Nera. Scrive a casa resoconti entusiasti delle sue escursioni. «Cammino molto, attraverso i boschi, e ho fantastici colloqui con me stesso».

Ben presto però le condizioni di salute (soffre di terribili emicranie) lo costringono a lasciare l’insegnamento universitario. L’esercizio fisico del cammino diventa allora una vera e propria ossessione, oltre che una terapia.

Se solo potessi avere una casetta da qualche parte; come qui, camminerei sei-otto ore al giorno, formulando pensieri che poi butterei di getto sulla carta.

E questo perché in Nietzsche diventa esplicita l’indicazione del corpo camminante come «filo conduttore del pensiero», supporto in movimento della creazione filosofica:

Di quando in quando, cammin facendo, scribacchio qualcosa su un foglio, non scrivo nulla a tavolino, ci pensano poi i miei amici a decifrare i miei scarabocchi.

Trova il luogo ideale per questa pratica a Sils Maria, in Engadina, e comincia a trascrivere i soliloqui ne Il viandante e la sua ombra, dove afferma che:

bisognerebbe ogni tanto star lontano dai libri per sei mesi e camminare soltanto.

Ciò che per Thoreau erano le foreste, per lui sono le montagne. Non basta camminare, è importante camminare in salita, raggiungere luoghi elevati per ottenere le rivelazioni fondamentali.

Bisogna salire ancora un bel tratto, lentamente, ma sempre più in alto, per arrivare a un punto da cui la vista possa spaziare liberamente sulla nostra vecchia civiltà.

In questo senso, Nietzsche si rifà alla tradizione millenaria che lega l’esperienza del distacco e della solitudine alla faticosa conquista di un luogo impervio e alle suggestioni del paesaggio nel quale questo luogo è inserito. Le intuizioni chiave scaturiscono per lui da ore di esercizio del cammino, di intenso sforzo muscolare, e sono originate da improvvise epifanie: il panorama che si apre inaspettato a una svolta del sentiero o valicando un colle, il contadino incrociato nella calura meridiana, come apparso dal nulla. L’idea stessa dello Zarathustra nasce da uno di questi incontri, e il profeta si presenta così:

Io sono un viandante che sale su pei monti.

È certamente un modo di camminare diversissimo da quello di Kierkegaard, ma anche da quello di Wordsworth. A dispetto dei ripetuti richiami «alla danza in tutte le sue forme, al saper danzare coi piedi, coi concetti, con le parole, con la penna», rimane l’impressione di un passo pesante, faticoso, di un esercizio ascetico attraverso il quale riscattare una salute precaria. In effetti insiste molto sull’ascetismo militaresco, sulla disciplina che deve imporre al proprio corpo per potenziare forze vitali non eccelse.

Dopo l’abbandono dell’insegnamento Nietzsche entra in un decennio di vita sempre più errabonda, trascorsa in gran parte in Italia, nel corso del quale nascono le sue opere più importanti; e il camminare è ormai la condizione fondamentale per il suo pensiero.

Noi non siamo di quelli che riescono a pensare solo in mezzo ai libri – è nostra consuetudine pensare all’aria aperta, camminando, saltando, salendo, danzando, preferibilmente su monti solitari o sulla riva del mare, laddove sono le vie stesse a farsi meditabonde.

Nella ricerca costante di un luogo consono alla sua salute il primo criterio di scelta è la possibilità di fare passeggiate. A Genova:

Bene, questo si che si chiama camminare. Me ne vado in giro per sei e anche otto ore. In verità ho proprio quel genere di vita che desideravo tanto prima

mentre Venezia ha il difetto di non essere una città per chi ama le passeggiate – e io ho bisogno di camminare le mie sei-otto ore all’aria aperta.

Ormai cammina sempre da solo, sempre più alla maniera di Hazlitt, e parla di se stesso in prima persona plurale. È perennemente impegnato ad auscultarsi, a controllare il motore fisiologico del suo pensiero.

Stato di ispirazione profonda. Tutto concepito per strada nel corso di lunghe camminate. Estrema elasticità e pienezza corporea – e questa condizione diventa ossessiva – Stare seduti il meno possibile; non fidarsi dei pensieri che non sono nati all’aria aperta e in movimento – che non sono una festa anche per i muscoli. Tutti i pregiudizi vengono dagli intestini. Il sedere di pietra è il vero peccato contro lo spirito santo.

Di qui discende anche il modello critico per la valutazione dei libri e del pensiero altrui.

Oh, come siamo rapidi nell’indovinare in che modo quel tale è pervenuto ai suoi pensieri, se stando a sedere davanti al calamaio, col ventre sottoposto a compressione, col capo curvo sulla carta; oh, come si fa presto a liquidare anche il suo libro! I visceri costretti in una morsa si tradiscono, ci puoi scommettere, così come si tradisce l’atmosfera della stanza, il suo soffitto, la sua strettezza.

Questa necessità di distinguersi, il disprezzo ostentato per i sederi di pietra, non fanno che confermare l’impressione di un radicalismo da neo-convertito, di una sorta di astio da rivincita su un fisico che non lo sorregge adeguatamente: tanto più se si considera l’importanza che la corporeità viene a assumere nell’economia di un pensiero “dionisiaco”.

Così, quando cominciano a presentarsi problemi alla schiena e non è più in grado di tenere certi ritmi, tornano le emicranie. Ed è la fine. Le ultime passeggiate Nietzsche le farà in manicomio, scortato dalla madre.

7. Nell’Inghilterra vittoriana non sono i filosofi ma ancora i letterati a teorizzare sui modi e sui piaceri del camminare. Quasi a prefazione dei libri di viaggio che compariranno negli anni immediatamente successivi (tra i più famosi Viaggio nell’entroterra in canoa tra Belgio e Francia, Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino, Edimburgo e tre passeggiate a piedi. A zonzo tra Scozia e Inghilterra) Robert Louis Stevenson pubblica nel 1876 una riflessione sull’andare a piedi (Walking Tours), nella quale riprende in gran parte Hazlitt.

Stevenson in realtà tanto vittoriano non è, anzi, è un irregolare che andrà a cercare dall’altra parte del globo, nei Mari del Sud, un’atmosfera più respirabile.

Qui sono tutti così occupati e hanno così tanti progetti futuri da realizzare e castelli in aria di trasformare in solidi palazzi abitabili su un terreno ghiaioso, che non possono trovare alcun tempo per viaggi di piacere nella terra del pensiero e tra le colline della fantasia.

Non a caso ha esordito come critico letterario con due saggi rispettivamente su Whitman e su Thoreau. E tuttavia, quando esplicita sue le motivazioni, la differenza balza agli occhi: «Per quanto mi riguarda, io viaggio non per andare da qualche parte, ma per andare. Io viaggio per amor del viaggio. Il tutto è solo muoversi». Il rapporto con la natura è senz’altro piacevole, ma non rappresenta a suo parere la motivazione chiave.

Il paesaggio in un giro a piedi è abbastanza accessorio Chi è davvero della fratellanza non viaggia alla ricerca del pittoresco, ma di certi umori allegri – della speranza e dello spirito con cui la marcia inizia al mattino, e della pace e della reintegrazione spirituale del resto della serata. Non può dire se si mette su lo zaino, o lo toglie, con più gioia.

Non si distingue solo dagli americani, rimprovera infatti a Hazlitt certi eccessi.

Io non approvo tutto questo saltare e correre. Entrambe le cose affrettano la respirazione; entrambe distraggono il cervello dalla sua gloriosa confusione a cielo aperto; ed entrambe rompono il ritmo. La marcia irregolare a piedi non è così piacevole per il corpo, e distrae e irrita la mente. Bisogna considerare che una volta che si è ritmati su un passo uniforme, non è più necessario alcun pensiero cosciente per tenere quel passo, ma esso ti impedisce di pensare seriamente a qualsiasi altra cosa.

Qui dunque la mistica non c’entra per nulla, queste sono già indicazioni “tecniche” e sono intese a un’accezione sportiva, anche se tutt’altro che agonistica, della camminata. Stevenson, infatti, non vuole “né andare di trotto a fianco di un campione del camminare, né trascinare i piedi nel tempo con una ragazza.” Non intende ridursi come chi “percorre a piedi una distanza semplicemente inconcepibile per stupire e brutalizzare se stesso, e arriva all’albergo, la sera, con una sorta di gelo sui cinque sensi, e una notte di buio senza stelle nello spirito. Non è per costui la serata luminosa e mite del camminatore temperato! Non gli rimane nulla se non il bisogno fisico di andare a dormire e di un berretto da notte; e persino la pipa, se è un fumatore, sarà insipida e priva di incanto.”

Insiste molto su questo tema della sera:

Ma è di notte e dopo cena, che viene l’ora migliore. Non ci sono sigari paragonabili a quelli che seguono un buon giorno di marcia; il sapore del tabacco è una cosa da ricordare, è così secco e aromatico, così pieno e così bene. Se si finisce la sera con un grog, ci si accorge di non aver mai bevuto un grog paragonabile a questo; a ogni sorso una tranquillità sollazzevole si diffonde sui tuoi arti e arriva facilmente al tuo cuore. Se leggi un libro – e non lo farai mai, per cui puoi anche saltare questo pezzo – trovi la lingua stranamente filante e armoniosa.”

L’altro tema che ricorre costantemente è quello della percezione diversa del tempo:

Non tenere conto delle ore per tutta la vita equivale, starei per dire, a vivere per sempre. Non avete idea, a meno di aver provato, di quanto infinitamente lungo è un giorno d’estate che si misura solo dalla fame e che ha termine solo quando si ha sonno.

8. Una versione “borghese” del camminare alla Stevenson, dalla quale sono ormai ben lontani i sottintesi anticonformisti di Wordsworth, è proposta ne In Praise of Walking (1881) dal padre di Virginia Woolf, Leslie Stephen. Camminare è per Stephen “una ricreazione”:

Camminare è tra le ricreazioni ciò che l’aratura e la pesca sono tra le fatiche industriali: è un’attività primitiva e semplice,it brings us into contact with mother earth andì che ci porta a un contatto con la madre terra e con launsophisticated nature; natura non sofisticato;it requires no elaborate apparatus and no extraneous excitement. non richiede macchinari complicati e non c’è emozione estranea. È adatta anche per i poeti e filosofi.

Sgombra quindi il terreno da significati mistici, da ricerche di rivelazioni salvifiche:

Il vero camminatore è colui per il quale la ricerca è di per sé incantevole; che non è tanto presuntuoso da considerarsi immune da un certo compiacimento per la prestanza fisica necessaria per la sua ricerca, ma per il quale l’impegno muscolare delle gambe è secondario rispetto alle attività “cerebrali” stimolate dallo sforzo,to the quiet musings and imaginings which arise most spontaneously as he walks, and generate the intellectual harmony which is the natural accompaniment to the monotonous tramp of his feet. alle riflessioni e alle fantasie tranquille che sorgono più spontaneamente quando si cammina, e generano quell’armonia intellettuale che è l’accompagnamento naturale per il vagabondare monotono dei suoi piedi.

Anche quando riprende quasi letteralmente le argomentazioni di Stevenson, il tono risulta ancora più laico: sembra sempre voler mantenere la giusta distanza tra il suo camminare ricreativo e il marciare professionale o semiprofessionale.

Il giorno in cui sono stato pienamente iniziato ai misteri è segnato da una pietra bianca.It was when I put on a knapsack and started from Heidelberg for a march through the Odenwald. È stato quando ho preso su uno zaino e ho intrapreso da Heidelberg una marcia attraverso l’Odenwald.Then I first knew the delightful sensation of independence and detachment enjoyed during a walking tour. Ho conosciuto la piacevole sensazione di indipendenza e di distacco divertito che può offrire un giro a piedi. Essere libero da tutti i fastidi di orari ferroviari o di macchinari estranei, avere fiducia nelle proprie gambe, fermarsi quando se ne ha voglia, seguire qualsiasi traccia venga indicata dalla vostra fantasia, e assaporare tutta la varietà caratteristica dei tipi umani in ogni locanda dove ci si fermi per la notte.

Stephen è un forte camminatore in proprio, un eccellente alpinista (il suo Il terreno di gioco dell’Europa. Scalate di un alpinista vittoriano, è un classico della letteratura alpina) ma è soprattutto un biografo, una fonte preziosissima e piacevole. In pochi tratti, con brevissimi aneddoti, disegna personaggi ed evoca atmosfere.

Carlyle era un camminatore vigoroso, e anche nei suoi ultimi anni è stato una figura sorprendente.One of the vivid passages in the Reminiscences describes his walk with Irving from Glasgow to Drumclog. Uno dei passaggi più vivaci delle sue “Reminiscenze” descrive una passeggiata con Irving da Glasgow a Drumclog. Qui si sono seduti sul ciglio di una torbiera, mentre lontano, molto lontano verso occidente, oltre l’orizzonte marrone, si innalzava, visibile a molti chilometri di distanza, un’alta piramide bianca e irregolare. Ailsa Craig, abbiamo subito intuito, e il pensiero è corso ai mari e agli oceani laggiù.

La visione naturalmente fa nascere una conversazione solenne, che rimarrà un evento per entrambi.

Né Irving né Carlyle in quei giorni si tiravano indietro di fronte a qualsiasi distanza, si aggiunge, e il giorno dopo Carlyle fece la sua passeggiata più lunga, 54 miglia.

Qualche volta però il critico letterario (era la sua attività “seria”) ha il sopravvento, e non riesce a contenersi.

Un esempio notevole dell’influenza salutare del camminare potrebbe essere dato dai casi di Walter Scott e di Byron. Scott, nonostante fosse zoppo, si deliziava di passeggiate da venti a trenta miglia al giorno, e arrampicava in falesia, confidando nella forza delle sue braccia per rimediare agli inciampi del suo piede.The early strolls enabled him to saturate his mind with local traditions, and the passion for walking under difficulties showed the manly nature which has endeared him to three generations. Le passeggiate gli hanno permesso di nutrire la mente con le tradizioni locali, e la passione per il camminare a dispetto delle difficoltà ha educato quella natura virile che lo ha reso caro a tre generazioni. La zoppia di Byron era invece troppo grave per permettergli di camminare, e quindi tutti gli umori malsani che sarebbero svaniti con buone marce in campagna si sono accumulati nel suo cervello e hanno causato quei difetti, la morbosa affettazione e la misantropia perversa, che gli hanno impedito di diventare il più grande intelletto del suo tempo.

C’è da chiedersi cosa avrebbe detto di Leopardi, se lo avesse conosciuto.

Il modello “vittoriano” (e positivistico) proposto da Leslie Stephen, lo troviamo perfettamente esemplificato nel secolo successivo in George M. Trevelyan. Già nell’aspetto: alto e leggermente curvo, gli occhiali con montatura in acciaio o in argento sotto pesanti sopracciglia a strapiombo, i capelli e i mustacchi argentati, i pantaloni larghi di tweed, le calze di lana grigie a costine sotto grandi stivali neri.

Chi aveva camminato con lui ricordava che copriva i chilometri mantenendo ritmi faticosissimi, senza tuttavia interrompere mai un energico flusso di conversazione. Sarebbe stato riconosciuto immediatamente come inglese, e come inglese della upper class, dovunque si fosse presentato.

Il suo Walking esordisce così: «Ho due medici, la mia gamba sinistra e la mia destra». Parrebbe Seneca, o san Girolamo, invece è qualcosa di diverso e lo testimonia il fatto che uno storico professionista ci scriva sopra un saggio.

Il camminare non è per lui solo un esercizio salutistico, è insieme un termometro e una terapia: «I miei pensieri si mettono in cammino con me come degli ammutinati […] ma quando li riconduco a casa scherzano tra loro come boy-scout», soprattutto un modo d’essere, quasi una necessità.

Bertrand Russell racconta di aver trovato la moglie di Trevelyan, il giorno delle nozze, in trepida e malinconica attesa, perché lo sposo «non se la sentiva di affrontare tutta una giornata senza sgranchirsi le gambe», ed era uscito a fare una passeggiata.

Rientrò a notte fatta, stravolto, dopo aver percorso quaranta miglia. È probabile che la passione dei sensi non fosse il principale ingrediente di quel matrimonio, ma rimane comunque significativo il fatto che a motivare la camminata fosse non un qualsivoglia scopo, quanto piuttosto una sorta di compulsione. «Dopo una passeggiata di una giornata tutto ha due volte il suo valore usuale». Chissà cosa ne pensava la sposa.

La stessa compulsione pare muovere per sessant’anni le gambe di Stephen Graham. La dolce arte di camminare, (1927), un suo piccolo trattato che si inserisce in una amplissima produzione di libri di viaggio, è un gioiellino. La guida perfetta per diventare un vagabondo. La filosofia di fondo è però più vicina a quella di Leslie Stephen che a quella di Trevelyan.

Graham propugna di «viaggiare con bagaglio leggero», lentamente, e facendolo solo per il gusto di farlo. Non è un integralista della camminata, anche se di suo è stato un camminatore formidabile. Per questo non si fissa sul viaggiare solitario: ritiene anzi che «non c’è forse nessun test di amicizia più veritiero che il vagabondare a lungo con qualcuno. Se volete conoscere un uomo, andare in vagabondaggio con lui». E soprattutto «scoprirete poco alla volta tutti i vostri egoismi, e la vostra capacità di superarli».

Questo ci spinge a tornare sul discorso della camminata in solitaria o in compagnia. Su questo tema come abbiamo visto la linea dura di Rousseau e Hazlitt riscuote il favore della stragrande maggioranza dei praticanti. Stevenson in Walking Tours la ribadisce a chiare lettere, adducendo le motivazioni essenziali:

In un giro a piedi si dovrebbe andare da soli, perché la libertà è essenziale: perché si dovrebbe essere in grado di fermarsi o di proseguire, e seguire questo e quel cammino come ci porta il capriccio: e anche perché occorre tenere il proprio passo.

Il nodo sembra essere alla fine ciò di cui si va in cerca quando ci si mette in cammino. Wordsworth, come abbiamo visto, andava in cerca degli altri, oltre che della natura. E la stessa motivazione la troviamo ad esempio espressa in Mark Twain quando scrive:

Il vero fascino della camminata a piedi non sta nei passi che fai, o nel paesaggio che vedi, ma nel mantenere il sangue ed il cervello attivi; il paesaggio e gli odori esercitano sull’uomo un fascino discreto e incosciente e danno conforto all’occhio, all’anima e ai sensi; ma il piacere supremo sta nel parlare.

Rousseau, Hazlitt e Stevenson sono in cerca soprattutto di se stessi. Graham riesce a conciliare le due cose. Partendo da una posizione diametralmente diversa da quella di Trevelyan, alla fine approda alle stesse conclusioni. La strada unisce più di quanto l’appartenenza di classe divida.

Sulla strada si rivelano le debolezze e i punti di forza del carattere. Ci sono quelli che si lamentano continuamente, facendo si che ogni miglio sembri lungo tre. E ci sono coloro che hanno riserve inesauribili di allegria, che cantano per i loro compagni nelle ore della stanchezza, e che in salotto non mostrerebbero mai queste qualità. La strada rivela la forza, l’intraprendenza, il coraggio, la pazienza e l’energia; o, per contro, la mancanza di tutte queste cose.

Se si volesse trasporre sullo schermo la biografia di Graham, sarebbero necessarie una decina di puntate. Graham è un pellegrino naturale della vita. Giovanissimo legge Dostoevskji e matura una vera e propria passione per la vecchia Russia ortodossa, che gli appare come un mondo di affascinante mistero. È alla ricerca di un senso superiore, di una ricchezza spirituale che l’Occidente ha perduto3.

Appena gli è possibile si trasferisce a Mosca, praticamente senza un soldo e senza bagagli ma armato di un apparecchio fotografico, e si immerge nella vita della parte più umile della popolazione russa. Subisce il fascino del clima arcaico e della sacralità che circonda le chiese dei Vecchi Credenti, e comincia a muoversi, sempre a piedi, alla scoperta di sempre nuove suggestioni.

Percorre le montagne del Caucaso, poi si spinge a nord negli Altai e sino a Arcangelo, quindi a sud fino al Mar Nero, e di lì via Costantinopoli sino alla Terra Santa, dove arriva in compagnia di un gruppo di pellegrini.

Racconta questi viaggi in libri come Vagabondo nel Caucaso, Russia Sconosciuta e Con i pellegrini russi a Gerusalemme, che lo fanno conoscere anche oltreoceano. Può quindi recarsi in America, dove percorre mille chilometri per arrivare a Chicago e ha lo stesso impatto negativo già registrato da Hamsun e da Gorkji.

Allo scoppio del primo conflitto mondiale torna in Russia come corrispondente di guerra e dopo la caduta dello Zar si arruola nelle guardie scozzesi, con le quali combatte in Francia. Nel 1919 torna negli Stati Uniti, conosce Vachel Lindsay e cammina con lui nelle Montagne Rocciose.

Nel 1921 altro viaggio a piedi che dall’Italia, via Jugoslavia, lo porta in Grecia, torna poi attraversando Bulgaria, Romania Cecoslovacchia e Polonia, e quindi Germania e Francia. A questo punto non ha quarant’anni e vivrà ancora per oltre mezzo secolo (è nato nel 1884 e muore nel 1975), senza fermarsi un attimo.

Camminare è dunque per Graham qualcosa di molto affine al pellegrinaggio: una ricerca di verità e di intuizioni che potrebbero ridisegnare la sua vita e la sua visione del mondo. È però anche molto diverso, perché questa ricerca non ha per meta un luogo di culto, anzi, non si propone alcuna meta ma piuttosto diventa un metodo. E lo scopo, quello della rigenerazione spirituale, può essere raggiunto attraverso la pratica stessa, se questa è libera da ogni condizionamento mentale.

Per questo Graham mescola Thoreau:

Se indossi gli abiti vecchi e ti metti per strada, fai senz’altro il gesto giusto

a Stevenson:

Sono incline a misurare il tempo impiegato, non le miglia. Se copri un centinaio di miglia in una settimana significa solo che hai vagabondato più a lungo rispetto a se fossi andato di fretta in tre giorni» e riecheggia anche Nietzsche «Solo se hai passato una notte sotto la pioggia, o hai perso la strada in montagna e mangiato tutto il cibo, puoi capire se hai un cuore forte e sei pronto a ogni evenienza.

Ma soprattutto intuisce già quale deriva sta prendendo la faccenda:

Guardati dall’andare a Gerusalemme, solo per poter tornare indietro e dire al mondo che ci sei stato. Rovineresti tutto ciò che trovi lungo il cammino.

La cosa un po’ paradossale è che lui al mondo lo ha detto.

9. Il nostro excursus sulla trasformazione di significato subita dal gesto di camminare potrebbe fermarsi proprio qui, sul paradosso di Graham. Graham appartiene ancora al novero dei camminatori “classici”, ma rappresenta anche il momento di transizione alla camminata post-moderna. Dopo di lui accade per la marcia esattamente quello che accade nell’alpinismo. La dimensione sportiva, agonistica, spettacolare e professionale prende il sopravvento su quella “ricreativa”.

Esistono tuttavia altri modi di camminare, che magari si collocano un po’ a margine rispetto alla nostra ricerca, ma mi paiono comunque degni di un cenno. Sono a margine per motivi diversi.

Il camminare può ad esempio essere strumento per una ricerca condotta eminentemente con lo sguardo rivolto verso l’esterno. Magari alla natura di per sé, e non ai riflessi che ha su di noi.

Un caso emblematico è quello di Richard Jefferies. Jefferies è un irrequieto sin da ragazzino. Trascorre l’infanzia in una fattoria del Wiltshire, lascia presto la scuola e a sedici anni scappa in Francia con un cugino con l’intenzione di raggiungere a piedi la Russia (ha letto evidentemente i racconti di John Dundas Cochrane, del quale parleremo). Il tentativo naturalmente fallisce, così come quello immediatamente successivo di imbarcarsi per l’America.

Deve rassegnarsi e comincia a peregrinare da solo per le campagne attorno a Swindon, allampanato, un po’ curvo, rapidissimo nella falcata. Questo, e il fatto che sia molto trasandato nell’abbigliamento, porti i capelli lunghi e abbia sempre con sé una pistola, gli guadagnano una comprensibile fama di folle. Ma in realtà Jefferies ha trovato attorno a casa quel che voleva cercare lontano.

Comincia a scrivere articoli sulla vita rurale, si trasferisce a Londra e batte sistematicamente le campagne dell’Inghilterra meridionale, producendo nel corso della sua breve vita (muore nel 1887, a soli trentanove anni) alcuni tra i libri di storia naturale più amati dai lettori inglesi – The Poacher Amateur (1879) e Round About a Great Estate (1880) – oltre a Bevis, un classico della letteratura per ragazzi.

Scrive anche, come Butler, un romanzo del genere post-apocalittico, Dopo Londra (1885), nel quale immagina che dopo una catastrofe la campagna inglese torni a essere dominio della natura selvaggia e i sopravvissuti retrocedano a una forma di vita medioevale. Il romanzo influenzerà molti autori successivi di distopie, tra i quali William Morris.

La passione naturalistica è raccontata da Jefferies in The Story of My Heart (1883), dove il camminare è sempre presente ma non è mai protagonista, lasciando invece spazio a ciò che scorre ai lati della strada o del sentiero.

Dello stesso tenore è il rapporto che intrattiene col camminare Edward Thomas. Thomas è un saggista, poeta e biografo – scrive non a caso le biografie di Jefferies e di George Borrow, mentore del supertramp William H. Davies e amico di Robert Frost, ma soprattutto è un camminatore infaticabile. È mosso da una forma di depressione, il che lo classificherebbe tra gli affetti da quel determinismo ambulatorio del quale parleremo tra breve, ma non vaga a caso.

Cammina lungo «strade antiche e indelebili consunte dagli zoccoli, dai piedi scalzi e dai bastoni strascicati di molte generazioni ormai scomparse». Cerca le vie antiche, strade romane o sentieri medioevali, che hanno lasciato tracce appena percettibili anche a un occhio esperto e che, una volta individuate, disegnano un reticolo non solo geografico ma anche storico. «Sempre e ovunque l’uomo ha camminato venando la terra di sentieri visibili e invisibili, lineari e tortuosi. There are walks in which we tread in the footsteps of others,In ogni passeggiata noi calpestiamo le orme di altri» dirà nel poemetto In Praise of Walking il suo connazionale Thomas Clark.

E Thomas rintraccia proprio queste venature e queste orme, ne ricostruisce il complesso intreccio e ce lo fa ripercorrere in libri come Beautiful Wales (1905), dedicato alla sua terra d’origine, e The Heart of England (1906).

A differenza di Jefferies non cerca ciò che sta a lato della via, ma tutto ciò che serve a caratterizzare topograficamente la via stessa, pietre miliari, resti di ponti, terrapieni, svolte, incroci, segnali: e immagina coloro che la via l’hanno percorsa nei tempi, le relazioni umane che da essa sono state favorite. Esattamente come per Jefferies la sua ricerca viene precocemente interrotta dalla morte: cade a trentanove anni, nel 1917, combattendo in terra francese.

Non è affatto indispensabile però essere stravaganti, o essere inglesi, per entrare nel novero dei camminatori classici. Contemporanei di Graham sono ad esempio sul continente diversi cantori del camminare, primo tra tutti Hermann Hesse, che portano sfumature nuove in questa pratica.

Hesse, ad esempio, deve molto ai suoi riferimenti culturali orientali: cammina come Stevenson, o come Leslie Stephen, ma non è altrettanto disincantato.

Robert Walser invece è decisamente lontano dallo stampo del camminatore inglese: la prende molto più bassa. Si potrebbe dire che sta ai marciatori anglosassoni come nell’alpinismo Kugy sta agli scalatori inglesi, a Mummery e a Mallory.

Ne La Passeggiata ci dà forse la più esemplare giustificazione di quella che ancora, ai suoi tempi come a quelli di Kierkegaard, era considerata una pratica oziosa. E lo fa senza tirare in ballo le endorfine. Così infatti risponde a un giudice che gli imputa l’oziosità e il vagabondaggio:

Ogni passeggiata è piena di incontri, di cose che meritano d’esser viste, sentite. Di figure, di poesie viventi, di oggetti attraenti, di bellezze naturali brulica letteralmente, per solito, ogni piacevole passeggiata, sia pur breve. La conoscenza della natura e del paese si schiude piena di deliziose lusinghe ai sensi e agli sguardi dell’attento passeggiatore, che beninteso deve andare in giro a occhi non già abbassati, ma al contrario ben aperti e limpidi, se desidera che sorga in lui il bel sentimento, l’idea alta e nobile del passeggiare. Senza le passeggiate e la relativa contemplazione della natura, senza questa raccolta di notizie, che allieta e istruisce insieme, che è ristoro e incessante monito, io mi sento come perduto, e realmente lo sono.

Come Walser, altri si sentono perduti se non possono sgranchire le gambe. Ma, a differenza di quanto a lui accade, per molti il problema non è costituito da ciò che si perde, quanto dalla compulsione incontrollata al movimento.

Alla fine dell’Ottocento viene individuata una singolare patologia, la “dromomania”, caratterizzata da una precisa sindrome che prende il nome di “determinismo ambulatorio”. In una tesi di medicina pubblicata nel 1887, Les aliénés voyageurs di Philippe Tissié, si analizza il caso di un operaio francese che in preda a questa compulsione maniacale era più volte “fuggito” compiendo percorsi che lo portavano da un continente all’altro, senza alcuna meta specifica, e che a ogni ritorno mostrava di avere solo confusissimi ricordi dei luoghi dove era transitato. Il suo non è per nulla un caso isolato: sembra anzi che il contagio si stia rapidamente diffondendo su entrambe le sponde dell’Atlantico.

L’attenzione per questa sindrome è notevole, tanto che lo stesso Freud vi farà ripetutamente cenno nella sua prima opera importante, L’interpretazione dei sogni. Poi va rapidamente scemando e la compulsione ambulatoria viene rubricata tra gli effetti collaterali della schizofrenia e di altre patologie.

In realtà avviene che, su un fenomeno da sempre esistente, si focalizza improvvisamente l’attenzione per la concorrenza di due fattori chiave: da un lato lo sviluppo delle scienze psicologiche, con la definizione di protocolli di “normalità” alla luce dei quali interpretare e classificare tutti i comportamenti, e segnatamente quelli che escono dai binari, per riuscire in qualche modo a gestirli; dall’altro l’effettivo aumento generalizzato del vagabondaggio, anche in quei paesi, come l’Inghilterra, dove erano state precocemente elaborate misure per contenerlo o estinguerlo.

Il fenomeno si diffonde in tutto il continente, in modo particolare nei paesi scandinavi, e alla categoria dei vagabondi e degli sradicati si comincia a dedicare a cavallo tra i due secoli, anche negli Stati Uniti e in Russia, una particolare attenzione sia sociologica che letteraria.

Non si tratta però, anche nelle forme estreme, di qualcosa di nuovo. Per restare sul continente, clamoroso è il caso del poeta tedesco Jakob Lenz, allievo di Kant a Königsberg, divenuto dopo l’incontro con Goethe, Herder e Lavater uno degli esponenti più rappresentativi dello Sturm und Drang.

Considerato un genio già a quindici anni, a venticinque comincia a manifestare i sintomi di una follia che lo spinge improvvisamente a vagabondare in stato di semincoscienza.

Questa patologia lo conduce a vivere un’esistenza perennemente nomade e irrequieta, tra i Vosgi e la taiga russa, inframmezzata da brevi momenti di quasi lucidità, nei quali elabora grandiosi progetti di riforme sociali. Viene trovato morto in mezzo a una strada a Mosca, nel 1792, non ancora quarantenne. Oggi è sconosciuto persino il luogo della sua sepoltura.

Anche Gérard de Nerval, l’esponente forse più rappresentativo del romanticismo gotico e scapigliato francese, negli ultimi quindici anni della sua esistenza è preda di una progressiva psicosi, che si manifesta in lunghi stati depressivi, manie di persecuzione, allucinazioni, ma che si traduce soprattutto nell’ossessione ambulatoria.

Fino a quando è in grado di mantenere su di essa un certo controllo scarica l’irrequietudine nei viaggi, per mezza Europa o nel Vicino Oriente: poi il calore della mente si fa insopportabile e brucia ogni curiosità e interesse.

A differenza di Nietzsche, Nerval non si muove alla ricerca di qualcosa, bensì in una fuga costante, dilaniato dagli spasmi di un’attrazione-repulsione per i contatti col prossimo: visite lampo alle case dei conoscenti e degli amici, giusto il tempo di fare il giro del tavolo, seguite da lunghe peregrinazioni diurne e notturne, sempre lungo gli stessi itinerari, e poi improvvisi rientri e altrettanto immediate risparizioni.

Vera anima del purgatorio, come quelle che popolano i suoi romanzi, non cammina in uno stato di esaltazione, ma in preda alla malinconia. Vaga per le campagne del Valois, nei dintorni di Parigi o lungo le strade della città stessa, si fa arrestare più volte e può liberarsi dell’ossessione solo dandosi alla fine una tragica morte.

10. Le demenze ambulatorie di Lenz e Nerval ci costringono a riconsiderare il rapporto tra i piedi e i pensieri. In teoria, e in base a quanto abbiamo visto sino a ora, il rapporto risulterebbe positivo quando la corrente viaggia col voltaggio giusto dai primi ai secondi: muovere le gambe aiuta a fare ordine nella mente.

È negativo invece quando viaggia fuori controllo nella direzione contraria, se cioè l’impulso parte da una mente surriscaldata e si scarica sui piedi. Ma naturalmente la cosa è più complessa: intanto, è sempre il cervello a fare la prima mossa, a chiedere il movimento liberatorio (solvitur), perché avverte uno stato di congestione, e nel momento in cui il rimedio funziona si crea un un effetto volano, una corrente di ritorno che alimenta l’impulso e ne chiede la reiterazione. Il guasto può verificarsi in questa fase, se la tensione della corrente indotta crea un sovraccarico nel cervello e disattiva gli stabilizzatori.

Per farla breve (e non dire altre stupidaggini), il confine tra il camminare come terapia e il deambulare ossessivo, prima come spia e poi come manifestazione più conclamata della malattia, è estremamente incerto. Esiste una larga striscia di confine, dalla quale vanno e vengono o nella quale stazionano quasi tutti i personaggi che ho citati.

Thomas de Quincey dice ad esempio di Wordsworth che ha percorse le incredibili distanze cui abbiamo accennato perché era

una modalità di sforzo che, in lui, aveva lo stesso effetto dell’alcol o di qualsiasi altro stimolante dello spirito; alla quale egli era obbligato per vivere una vita di felicità senza nuvole (e noi le siamo grati per ciò che vi è di eccellente nei suoi scritti).

In altre parole, era obbligato, dal suo corpo e dal suo spirito.

Thoreau ammetteva:

Non posso starmene nella mia camera per un solo giorno senza sentirmi subito arrugginire, e quando a volte mi riduco a poter fare una passeggiata in extremis solo alle quattro del pomeriggio, troppo tardi per riscattare la giornata, quando le ombre della notte già stanno cominciando a mescolarsi con la luce del giorno, sento come se avessi commesso qualche peccato che deve essere espiato.

Trevelyan lasciava la sua trepidante neosposina perché non poteva affrontare una giornata, fosse anche quella del matrimonio, senza sgranchirsi le gambe. Persino Dickens scrive: «Se non potessi camminare lontano e veloce, penso che dovrei semplicemente esplodere e perire».

Senza arrivare ai casi limite di Lenz e di Nerval, e per altro verso a quello di Nietzsche, i sintomi di una vera e propria dromomania sono ravvisabili un po’ in tutti. In alcuni, poi, si va ben oltre i sintomi: lo sconfinamento è continuo.

Arthur Rimbaud, «l’uomo dalle suole di vento», come Lenz a quindici anni era già considerato un genio, faceva man bassa a Charleroi di premi in composizione latina, e a sedici era in galera a Parigi per vagabondaggio.

I pugni nelle tasche rotte, me ne andavo

con il mio pastrano diventato ideale;

sotto il cielo andavo, o Musa, a te solidale.

A diciannove scriveva le sue ultime poesie e dava inizio a una peregrinazione che lo avrebbe portato in tre anni in Belgio, in Inghilterra, in Germania, in Svizzera e in Italia, quindi in Austria, in Baviera, e di lì in Olanda (dove si arruolò nelle truppe coloniali, giungendo sino a Batavia e disertando immediatamente dopo).

Tornato fortunosamente in Europa ricominciò dall’Irlanda per passare a Liverpool, a Londra, rientrare a Parigi e l’anno successivo impiegarsi in un circo ad Amburgo, e con questo andare a Copenhagen e a Stoccolma. Ancora un imbarco, questa volta per l’Egitto, sbarco a Civitavecchia, rientro a Parigi, e poi ancora verso sud, ad Alessandria d’Egitto, passando per Svizzera e Italia. Il resto sono le avventure africane.

Buona parte di questi tragitti Rimbaud li compì a piedi, ma lo spirito non era quello di un Wordsworth. Non trovava la pace e non incontrava la natura, camminando: piuttosto, godeva l’ebbrezza di una libertà assoluta, che doveva essere però costantemente rinnovata.

Sono il pedone della strada maestra attraverso i boschi nani

il rumore delle chiuse copre quello dei miei passi

vedo lungamente il malinconico bucato d’oro del tramonto.

Nel suo camminare non c’era appagamento, ma accanimento. Questo spiega forse l’atroce sorte che lo vide a trentasette anni, dopo quindici di estenuanti marce nel deserto, subire la sorte peggiore, l’amputazione di una gamba. La morte deve essere stata per lui una vera liberazione.

La biografia di Rimbaud presenta molte analogie con quella di Dino Campana, che la patologia deambulatoria la eredita addirittura dalla madre. Non potendo permettersi altri mezzi di trasporto, stanti le precarie condizioni economiche della famiglia, deve necessariamente spostarsi a piedi per raggiungere da Marradi le valli più vicine, o per viaggi più lunghi, fino a arrivare a Firenze.

Gira quindi per quelle che all’epoca sono ancora le zone più selvagge della Toscana, cercando ospitalità presso i radi cascinali o nelle case dei montanari e scrive e studia soprattutto in montagna. I successivi vagabondaggi per l’Europa o nell’America Latina sono solo la prosecuzione di questo peregrinare. Al di là degli aspetti maniacali, la dromopatia di Campana si esprime poeticamente nei termini più semplici:

La stradina è solitaria:
Non c’è un cane: qualche stella
Nella notte sopra i tetti:
E la notte mi par bella.
E cammino poveretto
Nella notte fantasiosa,
Pur mi sento nella bocca
La saliva disgustosa. Via dal tanfo
Via dal tanfo e per le strade
E cammina e via cammina
Già le case son più rade.
Trovo l’erba: mi ci stendo
A conciarmi come un cane:
Da lontano un ubriaco
Canta amore alle persiane.

La sua sarà anche una sindrome di determinismo ambulatorio, ma c’è in questi versi qualcosa che ci appartiene comunque come specie, e come specie pensante e desiderante.

Nell’ennesimo L’arte di camminare, scritto nel 1918 da Christopher Morley, un americano rende omaggio al modello inglese, proponendo una sua biblioteca ideale sull’andare a piedi che comprende la gran parte dei testi che ho citato, e stilando una vera e propria Hall of Fame che annovera come camminatori storici, oltre all’immancabile Wordsworth, i vari Tennyson, FitzGerald, Matthew Arnold, Carlyle, Kingsley, George Borrow, Meredith, Richard Jefferies, fino a Leslie Stephen, oltre ai suoi contemporanei Hilaire Belloc ed Edward Thomas. Alla fine commenta: «A volte sembra come se la letteratura fosse un co-prodotto di gambe e testa». Per un certo periodo, tra la rivoluzione francese e il primo conflitto mondiale, almeno per le letterature dell’Europa settentrionale è stato effettivamente così.

Mentre quello di Hazlitt, comparso quasi esattamente un secolo prima, era un manifesto programmatico, il contributo di Morley ha il sapore di un bilancio di fine stagione: tira le somme di un fenomeno nato nell’ambito e dalle scelte anticonformiste di una élite intellettuale, ma che sta assumendo nella sua epoca connotazioni e motivazioni molto diverse da quelle originarie.

Intanto è significativo che Morley non prenda in considerazione tra i grandi camminatori proprio i più famosi suoi connazionali, Thoreau e Muir, e nemmeno citi i loro scritti teorici, mentre dà largo spazio, ad esempio, a Vachel Lindsay. Sembra che l’afflato quasi religioso che ha caratterizzato le marce degli americani vada per Morley, pensatore decisamente laico, a guastare la purezza del gesto e che egli già intravveda le possibili derive di una militanza ambulatoria sacrificata ad altri fini, quali si sono manifestate effettivamente dopo il secondo conflitto mondiale.

Si schiera poi con la linea dura di chi sostiene convenga camminare da soli, ma è anche più esplicito, affermando chiaramente quello che altri – lo stesso Hazlitt, Stevenson e Stephen, ad esempio – avevano sempre soltanto sottinteso: pensare di poter fare una sana camminata assieme a rappresentanti del gentil sesso è una bestialità.

Non ne fa una questione di differente potenziale fisico (che dà evidentemente per scontato), ma sottolinea piuttosto il fatto che le donne sono più legate alle convenzioni sociali e non consentono quella assoluta libertà che costituisce invece a un tempo il premio e il modo del camminare.

Rispetto a un’attività che aveva coinvolto sin dai primissimi esordi Dorothy Wordsworth, sembra un atteggiamento un po’ drastico, ma se si prescinde dal politicamente corretto e si tiene conto dell’ottica “difensiva” di Morley, che teme lo snaturamento e le contaminazioni prodotte da una pratica di massa, non è del tutto immotivato.

Anche se Morley non ne era forse pienamente consapevole, a posteriori il suo elogio del camminare suona come un epitaffio. Proprio la sottolineatura di certi aspetti come caratterizzanti ci dice che il periodo d’oro è finito, che le cose non stanno più come un tempo, mentre i silenzi suggeriscono che i germi della trasformazione erano già presenti, appunto in autori come Thoreau e Muir.

Ciò che era nato come gesto di indisciplina nei confronti dell’esterno e di conseguente armonizzazione del corpo al desiderio spirituale di libertà, si sta traducendo in una disciplina imposta al corpo stesso con finalità prima quasi ascetiche, poi propagandistiche, agonistiche e professionali.

Siamo partiti da una riflessione di Rousseau sul camminare di natura squisitamente qualitativa. Una volta trapiantata oltremanica, e più ancora oltreoceano, questa riflessione diventa immediatamente anche quantitativa: si traduce anche in tempi e distanze, in omaggio alla tradizione sportiva e pragmatica anglosassone.

Thoreau non poteva fare a meno di camminare «per almeno quattro ore», mentre De Quincey, parlando di Wordsworth, calcola che abbia percorso nella sua vita almeno centottantamila miglia, qualcosa come trecentomila chilometri, quasi otto volte il giro della terra: e intende quelle macinate per scelta, non per necessità o esigenze naturali. Muir tiene quotidianamente il conto delle miglia macinate. Questa attenzione ai numeri, alle quantità, di tempo o di spazio, non rimane però a lungo una prerogativa dei camminatori di lingua inglese. È il portato di una nuova mentalità, quella “moderna”, che da Seicento in poi comincia a permeare ogni aspetto della vita individuale e collettiva. Una mentalità fondata sulla “razionalizzazione” del mondo e dei rapporti con esso e tra chi lo abita. Nel corso del XIX secolo la dimensione quantitativa, a dispetto del bagaglio leggero rivendicato da Graham, si afferma, e in quello successivo finisce per prevalere.

11. La pratica del camminare per scelta esce nel Novecento dai circoli letterari e si diffonde in una versione non più genuinamente sportiva – nel senso di disinteressata, quale era ancora in Stevenson o in Trevelyan – ma, a seconda dei casi, “performativa” o “ideologica”.

Quest’ultima declinazione è riscontrabile già dalla seconda metà dell’Ottocento nella nascita e nelle intenzioni statutarie dei primi club alpinistici: esplode poi agli inizi del nuovo secolo nelle associazioni “naturistiche” giovanili, i Boy Scout in Inghilterra, il Wandervogel in Germania, la Naturfreunde in Austria, che del camminare a piedi fanno una pratica rituale e il prodromo a una coscienza nazionalistica dei propri legami col territorio. In America sono associazioni come il Sierra Club, fondato da John Muir, a promuovere lunghe escursioni nella natura selvaggia (le High Trip, camminate di gruppo di tre o quattro giorni).

Se per un verso questo può sembrare il periodo aureo del camminare, perché la scelta diventa davvero alternativa – è l’opzione per la lentezza in un mondo che si va sempre più velocizzando e fa della velocità il nuovo mito –, per un altro, quello che concerne la purezza del gesto, siamo invece in presenza di una evidente involuzione.

Dopo il secondo conflitto mondiale diventano impensabili imprese totalmente disinteressate come quella di Patrick Leigh Fermor (di cui si parlerà più ampiamente in una prossima pubblicazione), che viaggia a piedi da Londra a Costantinopoli sull’onda di una semplice suggestione letteraria, e non calcola una sola volta le distanze percorse, o una prassi come quella degli Inklings (un gruppo informale di scrittori oxfordiani e conservatori, che accoglieva tra gli altri John Ronald Tolkien, Clive Staples Lewis e Charles William) che negli anni Trenta da Oxford si recavano quasi ogni fine settimana a tenere conferenze nelle città vicine, affrontando trasferte sino a cinquanta e più chilometri a piedi, e concedendosi brevi pause a ogni pub incontrato per strada.

Non oso pensare a quel che poteva venire fuori in quelle conferenze, ma la cosa indubbia è che gli oratori vi arrivavano dopo aver avuto modo di stimolare al massimo i loro pensieri. Questa prassi è irripetibile, almeno nella sua versione genuina, perché nel frattempo il camminare è stato caricato di infinite altre valenze ed è tornato a essere strumento, mezzo anziché fine.

Come ha ben intuito Morley, la coazione alla performance arriva dall’America. È questione di spazi: lo era per la mistica della camminata ambientalista, lo è per la corsa ai record.

Nel 1884, a venticinque anni, Charles Fletcher Lummis viene assunto come giornalista dal Los Angeles Times. Abitando a Cincinnati, decide di arrivare al nuovo posto di lavoro dopo aver attraversato a piedi il continente, «sono americano e mi vergogno di conoscere così poco del mio paese»: percorre 2.200 miglia in 143 giorni e invia settimanalmente un reportage al suo nuovo giornale. Inutile dire che all’arrivo è già famoso. Raccoglierà poi i suoi scritti in A Tramp Across the Continent, pubblicato otto anni dopo.

Durante il viaggio scopre le bellezze del sudovest americano e se ne innamora, così come matura una profonda ammirazione per i nativi americani di quell’area, per la cui difesa e per preservare la cui cultura si batterà, prima come giornalista poi come editore, per tutta la vita. Lummis sembra sentire forte l’influenza della scrittura di Mark Twain, perché infarcisce il racconto di episodi comici, di bravate e anche di qualche esagerazione, per onorare l’impegno di dare in pasto ai suoi lettori qualcosa di divertente.

Ora, l’usanza di andare a piedi ad assumere un nuovo lavoro, per quanto lontano, era comune anche agli europei. Lo hanno fatto tra gli altri De Quincey e Borrow, lo fa anche il prussiano Johann Gottfried Seume. Ma quando in America il lavoro ti viene offerto dall’altra parte del continente, si parla di distanze enormi. Tutto è proiettato immediatamente una dimensione epica e questa dimensione si presta a essere tradotta in “spettacolo” per un vasto pubblico. I numeri cominciano a apparire già nei titoli dei resoconti: lo abbiamo visto a proposito di Muir. Nel secolo successivo saranno costantemente sottolineati, quali che siano la provenienza del camminante e lo spirito che lo anima.

Nel 1958 un inglese, Colin Fletcher, risale a piedi tutta la costa occidentale degli Stati Uniti e lo racconta in L’estate di un migliaio di miglia. Fletcher scrive tra l’altro anche un manuale “tecnico”, Il perfetto camminatore, che parafrasa nel titolo Izaac Walton. Incarna insomma appieno il nuovo profilo del camminatore: scelta mirata dei percorsi, programmazione minuziosa, valorizzazione delle distanze, attenzione per gli aspetti tecnici.

Un altro inglese, Peter Jenkins, a partire dal 1973 attraversa orizzontalmente gli Stati Uniti in un itinerario che diventa, ben oltre le aspettative del suo protagonista, di vita e di conoscenza: esperienza condensata poi in A Walk Across America. In questo caso non siamo di fronte a una concezione puramente atletica, alla caccia al record e alla performance, anzi la scelta di Jenkins è quella della camminata lenta che si concede lunghe pause ed è costantemente aperta all’ingresso di ogni aspetto più comune della vita (amicizie, innamoramenti, persino conversioni religiose). Il viaggio (di oltre tremila miglia) è sponsorizzato da National Geographic: da attività libera si è trasformato in una forma più o meno esplicita di lavoro.

Nell’ultimo quarto del novecento, le performances estreme si moltiplicano in ogni parte del globo: se Alan Booth percorre duemila miglia a piedi attraverso il Giappone (The Roads to Sata. A Two-Thousand-Mile Walk Through Japan) e Bernard Ollivier dodicimila chilometri per andare da Istanbul a Xiang sull’antica Via della Seta (La lunga marcia), George Meegan congiunge a piedi l’intero continente americano, dall’estremo Sud all’estremo Nord, percorrendo tra il 1977 e il 1983 quasi trentamila chilometri (il diario della traversata completa è condensato ne La grande camminata. Dalla Patagonia all’Alaska in sette anni).

Nei tre casi citati le imprese sono portate a termine senza il sostegno (almeno diretto) di sponsor, ma è evidente che il loro spirito viene forzato al conseguimento del risultato e che è quindi venuto meno il valore originario, quello dell’assoluta libertà, magari di staccare a metà o a un chilometro dalla meta.

Così Ollivier, nell’ultimo tratto che attraversa le immense pianure cinesi, confessa:

Camminare, accamparsi, mangiare, dormire, poi camminare ancora, questo è adesso il mio viaggio. Come occupare lo spirito in questo vuoto cosmico, in mezzo al nulla, in cui niente attira il mio interesse?

E Meegan stesso, che in sette anni vede due volte la moglie e i figli, arriva al termine della sua impresa completamente svuotato, nello spirito più ancora che nel corpo.

Ad altri è andata decisamente peggio. Nel 1970 i due fratelli Dave e John Kunst partono a piedi dal Minnesota in compagnia di Willie, un mulo da soma. Arrivano a New York e attraversano poi in aereo l’Atlantico, sbarcando a Lisbona. Sono intenzionati a diffondere in tutto il mondo il loro messaggio di pace (siamo in piena epoca hippie), percorrendo il globo da ovest ad est. Tutto funziona sino a che rimangono in Europa, va un po’ meno bene in Turchia e nell’Iran, precipita quando raggiungono le montagne dell’Hindu Kush. Qui John viene ucciso in un’imboscata, e il fratello è ferito. Ma non domo. Dopo essersi fatto curare in patria riparte per concludere il cammino, portandosi stavolta appresso un terzo fratello, Pete. Con varie interruzioni la faccenda va avanti per oltre tre anni, prosegue nel Pakistan, in India e nella penisola indocinese, arriva all’Australia (dove un innamoramento di Dave rischia di mandare a monte ciò che nemmeno la morte del fratello aveva interrotto), e si chiude finalmente con la traversata dell’altro pezzo dell’America, dalla costa del Pacifico al Minnesota.

Anche la lettura di L’uomo che fece il giro del mondo a piedi, nel quale Dave racconta tutta l’avventura, partendo proprio dal momento più drammatico, lascia l’impressione di un’impresa decisamente forzata, che ha perso per strada lo spirito originario e viene portata a termine solo perché ad un certo punto subentrano la visibilità mediatica e l’obbligo del record. Già in partenza, del resto, le motivazioni missionarie dei fratelli Kunst lasciano alquanto perplessi: i due danno piuttosto l’impressione di buontemponi che cercano l’avventura della vita, con conoscenze molto rudimentali della geografia e delle culture che andranno ad incontrare. Impressione che viene confermata nel corso della vicenda, quando alla fratellanza che volevano predicare subentra, soprattutto durante il percorso indiano, quasi il rifiuto, con la conseguente voglia di macinare le tappe e andarsene il prima possibile. Indimenticabile, e oggetto da sempre dei miei sogni, resta il mulo.

Ci sono anche, a dispetto di Morley o a conferma delle sue perplessità, a seconda dei punti di vista, le emule di Dorothy Wordsworth. Robyn Davidson affronta nel 1977 con quattro cammelli millesettecento chilometri di traversata del deserto australiano (Orme), naturalmente seguita da un fotografo e raccontata in diretta dal National Geographic; la nostra Carla Perrotti si fa a piedi i più grandi deserti del pianeta (Deserti) e Fyona Campbell in undici anni, dopo aver iniziato a diciotto e aver superato a fatica dei lunghi periodi di demotivazione, fa in pratica il giro del mondo (The Whole Story. A Walk Around the Word). Hanno alle spalle grandi aziende produttrici di abbigliamento sportivo o di alimentari, e sui berrettini e sulle magliette i loro loghi.

Qualche volta la sponsorizzazione è meno conclamata, ma molto più ambigua. Marina Abramovic e Ulay, due artisti-performers che facevano coppia da anni nella vita e nel lavoro, si sono prodotti in una performance ambulatoria partendo dai due estremi della Grande Muraglia Cinese per incontrarsi a metà strada. Quella camminata sarà anche in qualche modo classificabile come un gesto artistico, ma non ha portato una gran fortuna al loro sodalizio. Forse il movimento ha smosso i pensieri e portata nelle menti un po’ di luce: sta di fatto che al momento del rendez-vous avevano già deciso entrambi di separarsi, dopo aver comunque ottenuto quel rumore e quella visibilità che erano l’unico scopo del gesto.

Insomma, quello che era uno svago è diventato un lavoro, quali che siano le etichette, artistica, sportiva, ideologica che vogliamo appiccicargli: e a questo punto non è nemmeno così certo che il rapporto tra piedi e pensieri rimanga lo stesso. Bernard Ollivier scrive che

quando si raggiunge la media di trenta chilometri al giorno, l’allenamento fisico neutralizza la percezione del corpo. In quasi tutte le religioni, la tradizione del pellegrinaggio ha come obiettivo essenziale, attraverso il lavoro dell’essere fisico, l’elevazione dell’anima: i piedi sul suolo, ma la testa vicino a Dio. Da qui l’aspetto intellettuale del camminare che i beoti non sospettano.

Ciò che lui ancora non sospetta, perché queste cose le scrive all’inizio del viaggio, è che dopo cento giorni e tremila chilometri, se non c’è un Dio al quale guardare ma solo una determinazione che tende progressivamente a vacillare, la testa diventa pesante e viaggia all’altezza dei piedi. Ad accomunare i diari delle lunghe marce contemporanee è uno schema pressoché fisso: entusiasmo della partenza, progressiva assuefazione alla fatica, scoperta di ciò che davvero è essenziale nella vita, caduta delle motivazioni con conseguente crisi fisica, o viceversa, passaggio dall’osservazione esteriore all’introspezione, colpo di reni e di volontà finale. Per questo è difficile leggerne uno sino in fondo: la trama è scontata. A meno che l’autore sia capace di condire il tutto con una forte dose di autoironia.

È quanto fa ad esempio Bill Bryson, che racconta in Una passeggiata nei boschi il tentativo intrapreso da due autentici sprovveduti (uno naturalmente è lui) di percorrere l’Appalachian Trail. Il Trail è un sentiero di tremilaquattrocento chilometri che si snoda attraverso quattordici stati americani, dalla Georgia al Maine, ed è nei sogni di tutti gli amanti della natura e dell’avventura. Bryson naturalmente non lo percorre tutto, bontà sua, ma il racconto è esilarante, in pieno stile Jerome K. Jerome: già il chiamare “passeggiata” il sentiero degli Appalachi, con un involontario richiamo alla Passeggiata verso Siracusa di J. G. Seume, ce lo rende simpatico.

In Una passeggiata nei boschi non ci sono dichiarati intenti parodistici, ma ne esce comunque un quadro spassoso e disincantato degli sconquassi psicologici prodotti dalle mode culturali e dal culto ossessivo della prestazione: è uno sguardo che, pur senza averne le implicazioni drammatiche, potrebbe essere applicato all’odierna corsa di massa all’Everest.

Bryson, credo del tutto inconsapevolmente, fa nei confronti del trekking un’operazione paragonabile a quella a suo tempo condotta da Alphonse Daudet nei confronti dell’alpinismo, col suo Tartarino sulle Alpi. Smitizza una pratica nel momento stesso in cui questa, giocando sulla falsa suggestione di un’appartenenza quasi iniziatica, si sta diffondendo a livello di massa, e sta quindi elaborando norme e rituali sponsorizzati da un pantheon di supereroi.

Non è detto, però, che sia rimasto proprio nulla del vecchio spirito anglosassone. Qualcosa che sta a metà tra Stevenson e Muir, ma aggiornato alle più recenti seduzioni della wilderness, complici libri come Into the wild, e non indenne dal richiamo della performance estrema, lo ritroviamo ne La strada alla fine del mondo.

Erin Mc Kittrik, una biologa, e suo marito Hig, geologo, intraprendono, partendo da Seattle, una ricognizione delle coste nord-occidentali del Canada e dell’Alaska. La motivazione ufficiale è una ricerca ambientalistica, mirata a documentare tanto lo sfruttamento minerario e boschivo della zona costiera quanto l’esistenza di aree incontaminate che ancora possono essere preservate: in realtà il viaggio, che dura un intero anno e copre oltre seimila kilometri (la metà dei quali percorsi a piedi) si trasforma ben presto in una vera avventura, ma soprattutto nella scoperta di una dimensione esistenziale nuova. Tanto che i due decidono alla fine di rimanere a vivere in Alaska e lei, Erin si fa carico di raccontare l’eccezionale esperienza.

Gli ingredienti d’obbligo nella letteratura di viaggio contemporanea, quelli che caratterizzano il best seller, nel libro ci sono tutti: scenari mozzafiato, tra montagne, ghiacciai e scogliere sull’oceano, natura selvaggia, con foreste incontaminate, fiumi in piena e laghi ghiacciati, e persino un pizzico di lotta per la sopravvivenza, contro la fame, il freddo, gli orsi. E a quanto pare hanno funzionato, visto il successo. Ma c’è anche qualcosa di più: ci sono una naturalezza genuina, una semplicità ingenua e diretta del linguaggio che ricordano le sobrie notazioni di Doroty Wordsworth. Col trascorrere dei giorni e con l’alternarsi delle stagioni il tempo sembra perdere per i due giovani consistenza e significato, la meta risulta sempre più vaga e irrilevante, così come le distanze, mentre protagonisti diventano lo sguardo, le gambe e lo zaino. Tutto il resto è contorno.

Per finire, uno sguardo all’Italia. La moda del camminare è arrivata naturalmente anche da noi. D’importazione, al solito, e con un po’ di ritardo, perché prima c’era da soddisfare una vecchia fame di motorizzazione, su due o su quattro ruote, ma ci stiamo rapidamente allineando.

Lo facciamo senza un gran senso della misura, perché non abbiamo una tradizione di camminanti eccellenti cui fare riferimento e tutto è accaduto molto in fretta: tra mio nonno, che tolta la parentesi della Grande Guerra non è mai salito su un mezzo a motore, e io che cammino per passione, sono intercorse solo due generazioni e quella di mezzo aveva pensato di emanciparsi proprio attraverso il rifiuto di camminare.

Oggi gli italiani camminano di nuovo molto, nel loro paese e fuori, almeno a giudicare da quanto ne scrivono. È diventato difficile trovare qualcuno che non abbia percorso la via di Compostela (magari solo le ultime tappe), o non abbia partecipato a qualche camminata dimostrativa, di sensibilizzazione o di dissuasione e, soprattutto, che non lo abbia poi raccontato, in diretta o in differita, su qualche blog. Ci sono anche altri indizi di questa dilagante dromomania: nel settore dell’abbigliamento, ad esempio, l’unico segmento non in crisi è quello dell’equipaggiamento da marcia: magliette trasudanti, scarpe da escursionismo leggero e pesante, felpe e giacche antivento, zaini con telaio in fibra e serbatoio incorporato per le bevande, ultimamente bastoncini per il nordic walking.

È una buona notizia? Certamente. Chi cammina in genere non procura danni agli altri e se non è particolarmente scriteriato, nemmeno alla natura. Quindi c’è da augurarsi che questa moda non trascorra velocemente come le altre che periodicamente ci investono: i pattini, la zumba o l’hula hop. Se tutti gli italiani camminassero ci sarebbe un po’ di congestione sui sentieri, ma molta meno rabbia sulle strade. Sul fatto poi che tutto questo movimento abbia sempre un positivo impatto sul cervello, beh, qui ho invece qualche dubbio.

A differenza di Nietzsche non credo che si pensi perché si cammina, ma piuttosto che si cammina perché si pensa. Il camminare, per come lo intendo io, parte dalla testa, e non dai piedi. Con i piedi ci si muove, ci si sposta, ma se la testa è impegnata a controllare su un display la frequenza cardiaca, o la velocità, o la distanza percorsa e quella da percorrere; o se a portarci da un luogo all’altro non è il piacere di farlo, ma un dovere, un impegno, narcisistico o altruistico che sia: ebbene, tutto questo, signori, direbbero Hazlitt e Stevenson, nulla ha a che vedere col camminare.

Abbiamo visto come tra le esperienze corporee alle quali andiamo progressivamente rinunciando, o che ci vengono negate, o che scambiamo con dei surrogati (sesso virtuale, ecc.), quella sino a ieri più radicalmente sminuita fosse proprio il camminare: e come il venir meno della necessità e della continuità l’abbia almeno parzialmente trasformata in una scelta, operata in contraddizione con la tendenza del tempo.

Nel contesto della realtà contemporanea, il camminare dovrebbe quindi esprimere una forma di resistenza, essere un modo per ridare dignità a un corpo per il resto sempre più inutile o addirittura ingombrante, e questo a dispetto dell’attenzione quasi maniacale che sembra essergli oggi prestata che si esprime in palestre, chirurgia estetica, regimi dietetici, ecc.. In realtà queste attenzioni sono tutte dedicate a negare il corpo quale è e a uniformarlo a standard dettati dal dominio del consumo o da una considerazione tutta sociale e performativa. In un mondo dominato dalla fretta, perdere tempo a camminare costituisce un atto anacronistico. O meglio, dovrebbe.

Nella gran parte dei casi questo anacronismo ribelle è solo apparente. È stato anch’esso fagocitato e addomesticato alle stesse esigenze alle quali sembrerebbe opporsi: la performance, il record, l’omologazione a un trend, ecc.. Questo spiega la promozione e il successo dei vari “cammini”, con le motivazioni più diverse, religiose, sportive, culturali, nostalgiche, politiche, e il fiorire di pacchetti di camminata precostituiti, dietro i quali c’è un enorme business di ristorazione, strutture ricettive, abbigliamento, circuiti turistici e ammennicoli vari, non ultimo il particolare successo della letteratura specifica del camminare e il moltiplicarsi dei siti internet dedicati.

Siamo alle solite. In Qualcuno volò sul nido del cuculo, il capo indiano racconta che la sua tribù, disgraziatamente stanziata su un terreno petrolifero, era stata costretta dalle compagnie di trivellazione a continui spostamenti, e che a un certo punto non riusciva nemmeno più a spostarsi perché ogni possibile spostamento era già stato anticipato e qualcuno aveva già occupato quel nido.

Forse dovremmo rassegnarci: qualunque iniziativa possa venirti in mente oggi è già stata pensata da qualcun altro a tavolino, testata, attrezzata, brevettata, e ti viene restituita nella versione tutto compreso. O forse, invece, riappropriarcene. È più semplice di quanto crediamo. Basta non inseguire record di lunghezza, di durata, di tempi di percorrenza, di ripetizioni e nemmeno dover testimoniare per qualcuno o dimostrare qualcosa a se stessi. Per questo domattina salirò, forse per la millesima volta, il Tobbio.

1 Esiste nella cultura inglese una consuetudine agli spostamenti diversa da quella continentale, legata non solo alla condizione insulare del paese, ma anche alla libertà di movimento di cui, almeno sino all’avvento delle recinzioni, godono gli abitanti, che sono nella stragrande maggioranza uomini liberi (cfr. Due lezioni sulla storia inglese, Viandanti delle Nebbie, 2003).

2 Del più significativo camminatore europeo dei primi dell’Ottocento, il prussiano Johann Gottfried Seume, che percorse nel 1802, in nove mesi, oltre cinquemila chilometri per andare da Lipsia a Siracusa e tornare via Parigi, si parla in “L’Italia a piedi”.

3 Non è il solo. Verso la fine dell’Ottocento esplode, soprattutto in Inghilterra, un vero e proprio revival spiritualistico, che si esprime nelle direzioni più diverse, dalla teosofia allo spiritismo, alla scoperta della religiosità orientale.