Anni perduti – e da dimenticare

(appunti sparsi sullo stato mio e della nazione)

di Paolo Repetto, 24 dicembre 2022

Nel solco di una tradizione recentissima, inaugurata su questo sito solo dodici mesi orsono con lo scritto sui Buoni propositi, propongo un sintetico resoconto dell’anno che sta mestamente per chiudersi. È un bilancio da economia domestica, nel quale si mescolano le voci più disparate: ma proprio per questo credo corrisponda nella maniera più veritiera a ciò che tutti abbiamo percepito di un anno decisamente infausto.
In questa prima parte ho inserito senza aggiornarle alcune riflessioni maturate nel corso dell’estate: non vanno oltre il livello di una bozza, ma mi sembra rimangano tuttora valide. A breve saranno postate quelle più recenti. Mi propongo di sviluppare meglio in futuro alcuni degli argomenti toccati, ma prima di tutto spero di muovere anche altri ad occuparsene. A quanto pare il mio ottimismo resiste, è a prova di sanità pubblica e di imbecillità private, di crisi energetiche e di smottamenti a destra. Per questo non ho ritegno a fare (e a farmi) ancora gli auguri.

Anni perduti 01

Se esiste una mente universale,
deve necessariamente essere sana?

La Débâcle

Non piove praticamente da nove mesi. Fiumi in secca, laghi che scompaiono, ghiacciai che si sciolgono o si disintegrano a ritmi sempre più accelerati. Mentre i campi e le risaie sono bruciati dall’arsura, le sorgenti e i rubinetti cominciano a tossire. Di quando in quando, con frequenza incalzante, arriva una tromba d’aria a movimentare un po’ il paesaggio. Da qualche giorno poi hanno ripreso a crepitare anche gli incendi. La peggiore siccità dell’ultimo secolo, si dice, ma solo perché non sono possibili raffronti con quelli precedenti. Saranno anche fenomeni in larga parte indipendenti dalle attività umane, come testimonia la ciclicità delle glaciazioni, ma non si può negare che l’umanità ci stia mettendo molto del suo, con comportamenti che moltiplicano gli effetti degli sconquassi naturali.

Anni perduti 02

In compenso sono ricomparsi il covid, che s’inventa sempre nuove varianti, e l’inflazione, invocata fino a ieri come la pioggia, ma subito sfuggita di mano e schizzata a due cifre: e soprattutto la violenza, tanto quella pubblica come quella privata. Qui la natura non c’entra, facciamo tutto da soli.

La violenza internazionale è riesplosa improvvisa persino nel vecchio continente. Anche se si mantiene stabilmente “a bassa intensità”, da febbraio il conflitto tra la Russia e l’Ucraina chiede il suo quotidiano tributo di morti (di quelli russi non si sa), desertifica intere regioni e le spoglia delle loro strutture produttive, impedendo tra l’altro l’esportazione di quel grano dal quale dipende la sopravvivenza di metà della popolazione africana. Di conseguenza questa a breve si sposterà con un esodo ben più che biblico verso le coste europee. Le sanzioni inflitte alla Russia dall’occidente si sono rivelate un boomerang, stanno logorando soprattutto le economie europee e hanno spinto i Russi nelle braccia sempre tese (a prendere) della Cina.

Anni perduti 03

In questo allegro panorama le “democrazie” occidentali sono guidate da governi deboli e da classi politiche decisamente incapaci. La nostra è neppure più guidata: siamo riusciti a mandare a casa anche il meno peggio, e affideremo tra un paio di mesi il nostro destino al “paese reale”.

In situazioni come queste non esiste una terminologia capace di rendere appieno l’entità di quanto sta accadendo. Almeno nella lingua italiana, che in linea con il nostro modo di pensare bada più a lasciare spazio alle sfumature sottili di significato, consentendoci di giocare con interpretazioni ambigue o riduttive. Il francese, invece, dispone quasi sempre della parola giusta, capace di riassumere tutti i sinonimi e di andare oltre. Lo abbiamo già visto in un’altra occasione, con bêtise. Nel caso attuale la parola appropriata e definitiva mi sembra débâcle, che sta per sconfitta, disfatta, batosta, resa umiliante, disastro, sfacelo, fallimento, ecc., e sottintende un ampio margine di responsabilità umana.

Il riassunto che ho fatto è ovviamente tanto generico da sembrare banalmente superfluo: il disagio che tutti quanti stiamo vivendo è evidente, anche se si manifesta nei modi più disparati. Ogni tanto però fa bene anche sintetizzare la situazione in un quadro generale, perché di norma tendiamo a preoccuparci dei singoli problemi uno alla volta: il che è normale e comprensibile, ma finisce poi per distrarci dal guardare in faccia l’aspetto più angosciante e immediato della tragedia, che è proprio lo stato del “paese reale”.

(luglio 2022)

 

Un paese di farlocchi

Giudicato in base all’immagine che ci torna dai media, il paese reale è una jungla (secondo la stampa) o un serraglio di deficienti (secondo la televisione). Sappiamo però che i media non raccontano la verità, e allora proviamo a fidarci dei nostri occhi, del nostro intuito. Ci diciamo che questa è una falsa immagine, che in fondo a guardarci attorno siamo circondati da un sacco di gente normale, di persone che fanno il proprio lavoro, che non uccidono la moglie o i vicini di casa, non frequentano i siti pedofili e non incassano pensioni per finte invalidità.

Ed è anche vero: ma nemmeno questa è un’immagine oggettiva del paese reale. Certo, se evitiamo di frequentare le discoteche o i parchi cittadini, di uscire a fare quattro passi la sera, di andare allo stadio per partite o mega-concerti, di partecipare alle adunate politiche, di farci candidare alle amministrative o semplicemente alla rappresentanza condominiale, allora sì, abbiamo l’impressione che tutto sommato le cose funzionino. Ma se soltanto usciamo di un passo dal perimetro di sicurezza che ci siamo ritagliati, e che si riduce ogni giorno di più, allora il paese reale lo incontriamo davvero.

C’è una quotidianità che non possiamo ignorare, a dispetto dell’ottimismo della volontà cui facciamo sempre meno convintamente ricorso. Parlo delle piccole irritazioni dalle quali siamo continuamente assaliti, dal momento in cui scendiamo a buttare la spazzatura a quello in cui cerchiamo di prendere sonno a dispetto di sagre, di sfide motoristiche notturne o di cani che latrano tutta la notte alla luna, anche quando la luna non c’è. Parlo della sensazione che nulla sia più sotto controllo, che se ci è andata bene oggi già domani potremo imbatterci in un pazzo o in un cinghiale in libertà, o trovarci coinvolti in un crack finanziario di cui nessuno alla fine sarà tenuto responsabile e tutti (o quasi) pagheranno le conseguenze. Non è questione di catastrofismo: è evidente come su questa percezione pesi anche il battage dei media, ma lo è altrettanto il fatto che lo smottamento sociale procede palpabile e accelerato. Questo è il “paese reale”.

Del quale, naturalmente, facciamo parte anche noi. Ne fanno parte i piccolissimi e costanti cedimenti alla non legalità o alla non correttezza cui siamo costretti per sopravvivere (anche perché quali siano la legalità e la correttezza non è mai ben chiaro), che riusciamo a giustificare con sempre meno rimorsi e ai quali ci stiamo velocemente assuefacendo.

Da sociale dunque il problema diventa in prima battuta individuale. Lo smottamento coinvolge anche noi, già per il solo fatto, quando non troviamo una risposta credibile al “cosa posso farci io, concretamente” (di fronte all’inquinamento, ai cambiamenti climatici, al degrado sociale, culturale, scolastico, linguistico, ecc…) di assistervi inerti. E peggio ancora va quando la risposta la diamo abbracciando posizioni che non tardano a diventare ideologiche, quando chiamiamo a responsabili tutti gli altri, quelli che si ostinano a non capire, dall’alto di una nostra presunta (e presuntuosa) esemplarità.

Anni perduti 04

Qualche giorno fa (per la precisione il 19 giugno) Luca Mercalli, meteorologo, climatologo e divulgatore scientifico superdecorato e onnipresente in tivù, ha tenuto a Lerma una “Chiacchierata ecologica”, per spiegare al popolo quanto gravi siano i problemi ambientali, quanto siamo in ritardo per risolverli e quali piccoli accorgimenti comportamentali ciascuno di noi può adottare da subito per dare un suo contributo. Tutte cose molto giuste e vere, supportate da fior di dati sull’oggi e di proiezioni sul domani, in una serata talmente afosa da far percepire sulla loro pelle agli astanti la portata dei cambiamenti climatici. Tanto che ad un certo punto qualcuno ha pensato di procurare a un Mercalli grondante sudore un paio di bottigliette di acqua minerale. Lo avesse mai fatto! Le bottigliette (di plastica) sono state sgarbatamente respinte dall’oratore, in coerenza perfetta quanto al merito con ciò che andava predicando sull’inquinamento, ma molto meno, quanto ai modi, con quel che pretendeva di insegnare sui comportamenti. Dubito che la chiacchierata abbia segnato qualche punto a favore della causa ambientalista. Il giorno successivo nessuno probabilmente ricordava qualcosa dell’argomento, ma tutti avevano ben presente la malagrazia dell’illustre ospite. Mi sembra un esempio palese di come ogni integralismo, anche quello applicato a giuste cause, finisca per perdere di vista quello che è il nocciolo di qualsivoglia problema sociale, ovvero la mancanza di buona educazione.

(luglio 2022)

Anni perduti 05a

Un fil di fumo

Avrei svariati motivi per sentirmi a terra. Alcuni sono indubbiamente seri, e richiedono continui e sempre più faticosi colpi di reni per rialzarsi. Altri, non meno seri, sono comuni a tutti, riguardano la situazione politica, e più ancora quella ambientale, ma sembrano ormai sfuggire ad ogni nostra possibilità di controllo e spingono alla rassegnazione. Altri ancora, invece, possono apparire decisamente futili, sono sindromi del tutto personali, ma per accumulo provocano alla lunga un’insostenibile pesantezza.

Io patisco soprattutto questi ultimi, nel senso che ai primi bene o male reagisco, mentre di fronte ai cumuli di cretinate mi sento impotente. Soffro di una sensibilità addirittura morbosa per la stupidaggine, segnatamente nei confronti di quella che viaggia col passaporto “culturale”. Mi arrabbio ad esempio se sento su RaiTre che vogliono consacrare a museo un appartamento abitato da Pasolini per qualche mese, interrompo immediatamente la lettura di un saggio filosofico sull’avventura quando vi trovo scritto che nel 1794 le truppe napoleoniche (?) marciavano sulla superficie ghiacciata del Reno, spengo il televisore se mi propone un dibattito sul sacro cuore di Maradona o un concerto polemico del maestro Muti, diserto le mostre sui cugini o sui vicini di casa degli impressionisti, ma anche quelle sugli impressionisti stessi, e le conferenze degli storici a gettone. Va da sé poi che evito come la peste i film che “devi” vedere, i libri che “devi” leggere, i musicisti che “devi” ascoltare per non sentirti fuori sintonia. Intendiamoci, ciascuno è libero vedere e leggere e ascoltare ciò che gli pare, purché non pretenda poi di dettare più o meno larvatamente un canone.

Un’attitudine di questo tipo crea naturalmente dei problemi. A volte mi sento sotto assedio, soprattutto quando vedo cannibalizzati e banalizzati a merce di consumo interessi, argomenti, personaggi che coltivo da sempre con devozione quasi religiosa. Allora trovo conforto solo nel mio frutteto, e più ancora nella mia biblioteca, che un filtro sessantennale ha reso affidabile, ma che mi spinge inesorabilmente a guardare indietro. È la depressione post-postmoderna. O forse è solo lo scotto da pagare all’invecchiamento galoppante, uno scotto nel mio caso particolarmente pesante perché si somma ad una disposizione congenita. Insomma, è dura.

Non voglio però ricominciare con le geremiadi: al contrario, voglio testimoniare che è possibile, sia pure per qualche attimo, uscire dal rigor mortis della post-modernità e da quello dell’ineluttabile consapevolezza della propria irrilevanza. Che quando sembra nulla valga più la pena di essere visto o ascoltato, tentato o sperato, basta davvero poco a squarciare la bruma grigia che avvolge il mondo.

Anni perduti 05

È accaduto la primavera scorsa. Incontro per una conversazione extracurricolare un paio di classi terminali dell’ultimo liceo che ho diretto, su sollecitazione di un docente col quale si è creata una buona sintonia. Logorroico e semirimbambito quale sono, la tiro in lungo per quasi due ore, ma constato con crescente meraviglia che non uno dei cinquanta ragazzi presenti si alza e si assenta per urgenze: il che, stante la debolezza ritentiva dei nostri giovani, è quasi un miracolo. Non solo: dal momento che amo conversare deambulando, posso realizzare che nessuno si trastulla con lo smartphone, risponde a messaggi o si addormenta con gli occhi aperti (se accadesse, non la tirerei così in lungo). I ragazzi mi seguono con lo sguardo, avanti e indietro, come in una partita a tennis al rallentatore, e non in ossequio ad ordini di scuderia, né per una particolare reverenza dovuta a un dirigente: quando sono entrati in quel Liceo me n’ero già andato da un pezzo, e non mi hanno mai visto, e comunque quella forma di rispetto per i ruoli è venuta meno da un bel pezzo. Forse è l’argomento a intrigarli, perché la conversazione viaggia un po’ fuori degli schemi, ma alla fin fine non si parla né di calcio né di Greta Thunberg, della crisi ambientale o dei problemi adolescenziali: si parla di filosofia, o meglio, delle possibili e conflittuali visioni del mondo che stanno dietro ogni nostra scelta o comportamento. Non devo interrompermi nemmeno per un secondo, malgrado in queste occasioni sia molto esigente rispetto all’atteggiamento dell’uditorio: e magari m’illudo, ma ho l’impressione che quei ragazzi capiscano tutto ciò di cui sto parlando, anche se molte delle cose tirate in ballo non sono loro affatto consuete. Insomma, ne esco stupito, mi prende persino un po’ di nostalgia dei bei tempi dell’insegnamento, cosa che non mi capitava più da quel dì.

Ora, il passaggio logico successivo, quello che ci si aspetta (e arriva inesorabilmente) nei talk show, dovrebbe essere un proclama di assoluta fiducia nei giovani e di speranza che saranno loro a salvare il mondo. Invece no. Non nutro alcuna fiducia speciale nei giovani, non ne ho motivo, ma allo stesso modo in cui non la nutro nei biondi o nei mancini o nelle persone che portano gli occhiali, o in qualsiasi altra categoria morfologica o anagrafica. I giovani oltretutto, purtroppo per loro, saranno tali solo per breve tempo. Non so se salveranno il mondo o lo affosseranno definitivamente, so soltanto che lo abiteranno nei prossimi sessanta o settant’anni e temo che non sarà uno spasso; senz’altro sarà meno facile di quanto lo è stato per noi. Credo però nelle persone educate e responsabili, e quindi intelligenti. Il passaggio successivo è dunque che mi sono stupito di trovarmi di fronte, raccolte in un’unica sala e nello stesso lasso di tempo, tante persone con queste ultime caratteristiche. Non c’ero più abituato.

Ho anche provato ad immaginare la stessa situazione retrodatandola di sessant’anni e spostandomi in mezzo all’uditorio. Che tipo di attenzione avremmo prestato io e i miei compagni? Senz’altro silenziosa, per una coazione tutt’altro che tenera alla disciplina (l’aver lasciato cadere una penna dal banco mi fece sbattere una volta fuori dalla classe, dopo una solenne lavata di capo), e magari anche un’attenzione genuinamente interessata, se il relatore e l’argomento trattato lo avessero meritato: ma non posso dimenticare che io stesso, per tanti aspetti allievo modello, seguivo le spiegazioni dei miei insegnanti con un doppio taccuino, uno per gli appunti e uno per le mie creazioni artistiche, sul quale annotavo però anche il ricorrere di certi intercalari, per determinarne in maniera quasi scientifica la frequenza e arrivare ad anticiparli; oppure sottolineavo l’uso di termini che potevano essere piegati ad un doppio senso (era il massimo della licenziosità che all’epoca potevamo permetterci). Altri si tenevano svegli con distrazioni non molto diverse. Insomma, dietro la facciata, come nei western all’italiana, spesso c’erano solo dei pali di sostegno e dei tiranti.

Per questo, se provo a mettermi nei panni dei miei insegnanti, credo che avrei nutrito forti dubbi di poter trarre qualcosa da quegli adolescenti pieni di brufoli e pateticamente presuntuosi. E invece il qualcosa è venuto fuori: non in termini di “successo”, che non considero un indicatore di rilievo, e del quale non ho mai tenuto un registro, ma senz’altro in termini di qualità umana. Non c’è un mio ex-compagno che non riveda o che non rivedrei con piacere.

La stessa cosa potrebbe senz’altro verificarsi domani per i ragazzi di quelle due classi. Magari a vederli poi in giro, l’uno accanto all’altro ma ciascuno immerso nei suoi social, siamo portati a scrollare il capo e a chiederci cosa ne sarà tra vent’anni, e difficilmente ci diamo risposte positive: ma questo è accaduto dai tempi di Adamo nei confronti di ogni nuova generazione, anche se la nostra attuale perplessità parrebbe più che giustificata dalla accelerazione impressa alle trasformazioni dei costumi e dei rapporti. Forse però dovremmo avere maggiore fiducia nella capacità umana di fare fronte a cambiamenti anche traumatici, in quella che oggi con un termine abusatissimo negli pseudo dibattiti televisivi e quindi sempre più vago viene definita “resilienza” (in questo caso assunta nel suo significato originario). Se in una qualsiasi occasione questi ragazzi hanno dimostrato collettivamente intelligenza e responsabilità, significa che possono essere intelligenti e responsabili. Basta dar loro l’opportunità di esserlo. Che siano poi anche giovani è un valore aggiunto, una condizione né necessaria né sufficiente.

Dove voglio arrivare, con tutto questo giro? Semplicemente al fatto che di norma prestiamo attenzione solo a quello che non va, che non funziona, che ci disturba, mentre ignoriamo piuttosto ciò che proprio perché funziona ci sembra scontato. Ecco, io credo che il gesto veramente rivoluzionario, l’unico ancora possibile, sia quello di non dare nulla per scontato, e meno che mai le manifestazioni di una intelligente normalità. Queste andrebbero al contrario sottolineate, in maniera sobria ed efficace, puntando sull’effetto emulativo che può avere la pura e semplice ripetizione. Non si tratta insomma di riesumare il premio “Livio Tempesta”, quello che si assegnava ai miei tempi ai bimbi buoni che si prendevano cura dei loro compagni sfortunati o dei nonni, o percorrevano il mattino chilometri di sentieri con l’amico disabile a spalla per arrivare a scuola (anche se rispetto a quelli che quotidianamente si distribuiscono per le motivazioni più insensate ci starebbe tutto): il sentir ribadire ogni mattina che un comportamento intelligente paga, in termini di risultati, ma prima ancora di amicizia e di rispetto di sé, potrebbe fornire qualche rassicurazione ai molti che sarebbero portati a tenerlo, ma sono resi dubbiosi sulla propria normalità dall’esemplificazione malefica proposta in maniera martellante dai media.

Sto cercando di dire, anche se temo di non essere stato abbastanza chiaro, che a dispetto di tutto abbiamo ancora la possibilità di fare qualcosa. Come, lo vedremo la prossima puntata (e stavolta la prossima puntata ci sarà davvero).

(agosto 2022)

Anni perduti 06

Passati prossimi e futuri imminenti

di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022

(Dis)obbedire

di Marco Moraschi, 22 aprile 2021

Accolgo l’invito di Paolo (in “Primavere perdute“) a riflettere ancora una volta su ciò che stiamo vivendo da ormai più di un anno. Facendo una rapida cernita, mi accorgo che da quando è iniziata la pandemia questa è già la quinta riflessione che scrivo sugli stessi argomenti: a dire la verità sono anche un po’ stufo di non trovare altro di cui parlare, ma è anche (purtroppo) inevitabile che sia così dal momento che questa è praticamente l’unica esperienza che abbiamo da oltre un anno, a parte quelle vissute sul lavoro o immaginate nei libri che per fortuna ci è ancora concesso leggere. È la quinta volta dicevo, ma incredibilmente sembra che ogni volta gli argomenti siano diversi dai precedenti e ci sia sempre qualche aspetto che la volta prima mi era sfuggito o sembrava diverso. In effetti molte riflessioni sembrano nuove semplicemente perché cambia il nostro modo di approcciarci agli stessi problemi: per fortuna siamo ancora capaci di fare tesoro delle esperienze passate nonostante l’eterno presente in cui ci troviamo e questo ci consente di affrontare ogni giorno uguale come se fosse un’assoluta novità. Sai che novità, direte voi. 

Un altro aspetto interessante è che le nostre opinioni maturano e la fortuna di averle messe per iscritto è che possiamo rileggere cosa pensavamo in un determinato momento del passato, trovandoci nuovamente d’accordo o sentendoci invece un po’ sciocchi. La verità, ancora una volta, è che questa situazione, lo abbiamo già detto, è totalmente inedita per le nostre vite e quindi ciò che ne pensiamo matura col tempo, mano a mano che i giorni si sommano gli uni con gli altri. Vorrei quindi proporvi un esercizio totalmente inutile: ho riletto tutto ciò che ho scritto da febbraio dell’anno scorso e mi sono segnato alcune frasi, per commentarle a posteriori, perché a distanza di tempo tutto sembra assumere un significato e una valenza diversi. In genere è un esercizio che si fa con i politici: si pescano frasi che hanno detto o scritto in passato e li si mette davanti al loro imbarazzo nel mostrare come hanno cambiato idea, anche se il vero imbarazzo è piuttosto non cambiare mai idea. Queste cose le ho scritte nei mesi passati, su qualcuna concordo, su altre no:

  • (Dis)obberire 02Per molti la medicina rischia di essere peggiore della malattia.” Lo penso ancora e questo è vero specialmente se si considerano i devastanti effetti delle chiusure generalizzate. Vorrei precisare una cosa però: non dobbiamo pensare che esista una mutua esclusione tra decidere di salvare l’economia o di salvare delle vite umane, né che queste siano le uniche due possibilità. Se, come sembra, questa pandemia ci accompagnerà per chissà quanto tempo ancora, dobbiamo trovare un’alternativa valida alla chiusura come unico mezzo per combattere la diffusione del virus. Non sono un medico né faccio parte del famoso comitato tecnico scientifico in qualità di “esperto”, ma mi rifiuto di credere che l’unica via sia quelle delle chiusure: vorrei semplicemente che si investisse di più nella ricerca di alternative, potenziando la sanità e al contempo elaborando dei protocolli affinché le attività possano riaprire in sicurezza. Badate, non è una questione puramente economica, è una questione di dignità: il mio lavoro mi ha salvato in questa pandemia, perché mi ha dato uno scopo, dei compiti e delle attività da svolgere quando tutto intorno era fermo e non si vedeva una via di uscita. Posso ritenermi molto fortunato, ma non è stato così per tutti purtroppo: chiudere un’attività non significa solamente togliere una fonte di sostentamento economico a chi su quell’attività campa (e non venitemi a parlare dei ridicoli indennizzi statali, buoni solo a far del debito), ma anche privare la vita di quelle persone di un pezzo importante del loro essere, perché quando sentiamo dire che “il lavoro nobilita l’uomo” è dannatamente vero.
  • Prima”. Continuiamo a sentire confronti tra com’era “prima” e com’è adesso. Vi dico la verità, a me di com’era prima non interessa nulla, perché quel prima è ormai andato e per certi aspetti dobbiamo augurarci che quel prima non torni mai più. La speranza è invece che ragionando su com’è adesso possiamo decidere (e non subire) come sarà il “dopo”, se mai ci sarà. Francamente, non nutro molta speranza.
  • Siamo impreparati: giornalisticamente, politicamente, economicamente. A tutti i livelli si procede in ordine sparso. Viviamo nella dimostrazione del principio di incompetenza di Peter.” Questa è una delle prime cose che ho scritto. Ahimè, si commenta da sola: è vera, e non è cambiato nulla. Cambiano i governi, cambiano le classi dirigenti, ma a tutti livelli l’incompetenza rimane salda al suo posto.
  • (Dis)obberire 03 ThoreauTutti i cittadini devono rispettare le regole (leggi) dello Stato”. Ve lo confesso, su questa ho dei seri dubbi e la colpa è mia che non ho ancora capito Thoreau. Perché in questo anno di decreti legge e DPCM ne abbiamo lette e sentite come si dice “di cotte e di crude”, e se sarà pur vero che “la libertà è coscienza del dovere”, la mia coscienza mi impone di non stare zitto di fronte all’assurdità di certi provvedimenti, suggerendomi che la vera libertà è scegliere deliberatamente di non rispettarli, non per nuocere a qualcuno, ma per evitare che essi stessi possano continuare a prendersi gioco della nostra intelligenza. Sono stato il primo ad accettare i sacrifici e anzi, a rendermi conto che la vera libertà era scegliere di essere dalla parte della responsabilità, ma l’immobilismo e l’irrazionalità di certe decisioni mi hanno decisamente stufato: non sto dicendo che da domani inizierò a uscire dopo le 10 di sera o a fare delle feste in casa, continuerò a non vedere gli amici, a rispettare il coprifuoco e a mettere la mascherina all’aria aperta, ma se un anno fa lo facevo con convinzione, adesso proseguo solamente per inerzia. La verità è che dopotutto non sono così coraggioso: uscirei volentieri a fare una passeggiata dopo le 22 pur di contravvenire a una norma idiota e lo farei nel pieno rispetto di alcune misure che invece ritengo efficaci, ovvero uscire da solo e indossando la mascherina. Ed è qui che entra in scena Thoreau e vorrei davvero che qualcuno me lo spiegasse, perché forse non l’ho capito: se mi comportassi come ho detto starei praticando quella forma di protesta definita come disobbedienza civile o sarei più idiota della norma stessa? Quand’è che la nostra insubordinazione smette di essere un gesto nobile e diventa invece prevaricazione? Siamo noi a decidere sulla base delle nostre convinzioni personali, oppure ci dev’essere un comune sentire affinché si tratti di disobbedienza civile? La pandemia ha scatenato in me queste domande, perché mi ha posto di fronte a delle scelte: prima non le avevo mai avvertite perché ero in pieno accordo con le leggi dello Stato, o quantomeno le leggi che conosco. Non mi sarei mai sognato di ammazzare qualcuno come forma di disobbedienza civile, ma ora che queste leggi (non tutte, sia chiaro) mi appaiono così distanti dalla logica, non so come comportarmi. Se ci siete, vi prego, aiutatemi, ci vediamo in piazza alle 22.

Link: L’insicurezza degli oggetti

La giusta lentezza

di Fabrizio Rinaldi, 27 marzo 2021

Da mesi non riesco ad avere un pensiero degno di essere trascritto. Senz’altro importa solo a me, ma vorrei comunque spiegarne le ragioni.

In quest’anno pandemico la mia vita lavorativa ha subito dei cambiamenti sostanziali (e purtroppo sono in buona compagnia). Prima il mio orario era flessibile. Ora per svolgere il mio ruolo devo recarmi di buon mattino dove lavoro: quindi, abitando parecchio lontano, parto nel cuore della notte e torno per cena, per stramazzare nel letto subito dopo. Tempo per strizzarmi il cervello, praticamente zero.

Per molti le conseguenze del coronavirus sono state la perdita del lavoro (loro sì che avrebbero da sbraitare, ma la protesta è sopita dalle norme di sicurezza), l’innaturale stasi (resa possibile dalla cassa integrazione, che inibisce la creatività), lo smart working (che in realtà ha ben poco di “smart”). Per altri più “fortunati” – me compreso – si è trattato di uno stravolgimento dei ritmi lavorativi e biologici, che avrà, credo, anche delle conseguenze sulla salute.

Nell’epoca in cui è imposta una vita ritirata, molti si danno al jogging per evadere dalle mura domestiche; io invece mi ritrovo a fare una vita più sedentaria di prima (casa, auto, lavoro, auto e nuovamente casa), con conseguente incremento del mal di schiena e dei trigliceridi.

Durante l’ultima donazione di sangue la dottoressa ha evidenziato un aumento di questi ultimi, conseguenza delle nuove abitudini acquisite: i manicaretti cucinati in famiglia durante i week-end, non bilanciati dalle passeggiate per portar fuori il cane (troppo brevi, occorre fare attenzione a rimanere dentro i confini comunali – abbiamo imparato che essere in zona rossa comporta anche un divieto di scollinamento), stanno producendo un accumulo di zuccheri nelle mie vene. Lo sento in particolare quando non riesco a stare al passo di mio padre, quasi ottantenne, durante la potatura degli alberi, già squassati dal peso della neve invernale.

Nel fine settimana avrei la possibilità di mettermi al computer nelle ore a me più congeniali (dalle 3.00 alle 8.00 circa, quando tutti dormono e il cane russa pure), ma mi ritrovo a leggere l’ennesimo articolo sul Covid-19 o farmi ammaliare dalle sirene dei social.

Ho difficoltà a mantenere la necessaria attenzione su un argomento. La mente è come un uccello che vola da un albero all’altro, senza riuscire a sceglierne uno dove fare il nido. Il rischio è dimenticare come farlo e a cosa serve, e svolazzare senza un perché sino a sbattere contro il parabrezza di qualche auto.

Credo che questo disturbo sia una conseguenza della forzata immersione totale nel mondo digitale, dove tutto è frenetico. Ciò che comprendo, conosco o acquisto oggi sarà obsoleto già domani, e la “verità” del giorno dopo mi induce a credere che ciò che so e ho in questo momento sia errato o superato. Tutto l’apparato col quale mi confronto pare una macchina impazzita, che viaggia in accelerazione continua e deve capitalizzare quanti più “fruitori” possibili: al di là delle formule di rito, non c’è il minimo interesse a indurre un po’ di sana riflessione, a fare mente locale su ciò che, al di là del flagello pandemico, non funziona nel nostro modo di reagire, a stimolare un vero dibattito, e non delle vetrine per politici e virologi e imbonitori. Patisco particolarmente la cosa perché ho già dei problemi di mio nel metabolizzare ciò che apprendo, mi ci devo soffermare più di altri, non so fare il passo successivo se non sono del tutto convinto di quelli già fatti. Altrimenti non avrei scritto anni fa un pezzo intitolato “Io sono lento. Prego, si regoli di conseguenza”.

Credo comunque che tutti coloro che amano davvero scrivere, sia quelli che lo sanno fare che quelli che come me ci provano, siano accomunati dalla stessa sensazione: che tutto sia già stato scritto, o comunque che altri lo abbiano già fatto meglio. E non è un grosso incentivo a battere le dita sulla tastiera.

In effetti è vero, tutto è già stato scritto, da Omero in poi. Ma Omero non era me, e il mio vissuto non è lo stesso di coloro che sono stati prima e saranno dopo di me. E allora mi basta la consapevolezza, anche se non sono uno scrittore e neppure uno che mastica bene la materia, che si può scrivere anche solo per essere più lucidamente coscienti di quanto ci accade, per fissare sulla pagina eventi o sensazioni che altrimenti scomparirebbero con lo scorrere del tempo. Si può scrivere per non dimenticare troppo in fretta, per non lasciarsi risucchiare dalla velocità della macchina.

Stanno accadendo sin troppe cose in questo periodo. Siamo testimoni di qualcosa di epocale, e ce ne accorgiamo sino ad un certo punto (com’è forse naturale che sia, peraltro). Sentiamo parlare quasi solo di virus, di vaccini, di chiusure e di ristori. Ma la nostra quotidianità sta cambiando anche al di là delle mascherine e dei divieti, cambia sotto aspetti per i quali non abbiamo forse tutta l’attenzione dovuta, e cambia senza aver modo di esercitare sulla trasformazione il minimo controllo, senza darci il tempo per orientarci minimamente rispetto alle possibili direzioni future.

Né le urgenze della realtà vissuta né l’immagine che ne danno i media aiutano a farlo. Ci nutriamo di numeri: contagi, decessi, percentuali, curve. E rientriamo nel reale solo quando, sfortunatamente, queste cifre si traducono in persone.

È il caso della presenza fra gli oltre 100 mila morti italiani per Covid 19 di Ziad Zawaideh, mio medico per 35 anni. Ha contratto il virus pochi mesi dopo essere andato in pensione, e gli si è arreso solo dopo un lungo ricovero. Ho avuto altri amici e conoscenti portati via da questo morbo, ma la sua assenza mi tocca in modo particolare. Non che fossimo amici, ma era la persona sempre sorridente che mi accoglieva durante le rare mie visite nel suo ambulatorio, e con la quale scambiavo qualche battuta sulla disarmante realtà ambientale ovadese o sulla situazione del medio orientale, da dove proveniva. Ho una gran nostalgia di quel riso benevolo e della forte stretta di mano con cui ci accomiatavamo.

Ecco, Ziad mi ha soccorso anche adesso. Il suo ricordo mi ha fatto superare il blocco nei confronti della scrittura. Davvero stanno accadendo troppe cose. Ma di alcune è un obbligo dare testimonianza. Con i tempi giusti. Con un po’ di lentezza.

Collezione di licheni bottone

Giorni da asporto

di Vittorio Righini, 16 gennaio 2021

Ieri il meteo dava sole per oggi. Ho sentito il mio amico, medico, ultra-sessantenne anche lui, entrambi appassionati di fotografia, sia analogica che digitale. Ci siamo detti: usciamo, si va su verso Cimaferle, Moretti, Bric Berton; facciamo un po’ di foto, c’è il sole, due bei palmi di neve nei prati, nei boschi gli alberi sono nudi e i torrenti neri e freddi, si ottengono belle immagini, poi ci fermiamo in una delle poche trattorie sopravvissute (alla globalizzazione, ai McDonalds, ai pub, al Covid) e dopo un lauto pranzetto torniamo a casa. Che bello potersi sedere in un piccolo caldo accogliente locale di un paesino di mezza montagna, gustare ravioli di brasato, coniglio alla ligure, una bottiglia di barbera in due. Bello. Bello, bello.

Mi sveglio e il tempo è bigio. Il mondo sembra immobile alle 8 del mattino di una domenica di dicembre. Non l’eco di un’auto, non un rumore dalla città. Realizzo, con colpevole ritardo, che siamo entrati in zona arancione. Il che significa ristoranti chiusi, bar chiusi, gente chiusa. Perché, se anche uscisse, a parte far la spesa di domenica, dove cazzo andrebbe, la gente? Scrivo al mio amico, mi dice vieni, prendi un caffè a casa mia. Mi lavo, mi vesto, e mi fermo al mio baretto; il più scassato della città, ma io vado lì e non ci sono santi. Quando entro la mia vecchia amica barista dice oggi no, si sta fuori: asporto. Asporto? si gela. La guardo. Non c’è nessuno, mi passa un pezzo di focaccia, l’acqua in un bicchiere di carta. Mangio veloce, non c’è nemmeno il giornale per scorrere i titoli. Poi, un caffè. Sempre nel bicchierino di carta. Sempre guardandosi intorno, in attesa che arrivi un dipendente dello Stato di Polizia (scusate, ho inavvertitamente invertito due parole) per farti 400 euro di multa e altrettanti alla barista per un crimine immondo come quello appena commesso. Pago e esco con l’aria di uno che voleva comprare il latte fresco ma era terminato.

Arrivo dal mio amico. Suono il campanello, niente. Guardo il cellulare, c’è un messaggio che dice: quando arrivi telefonami, sto lavorando di sotto (ma se dovevo venirti a prendere per andare via cosa cazzo stavi lavorando di sotto? m’avessi detto: sono al cesso, scusa! ah, ok, questo ci sta; oppure, vieni, faccio colazione, entra, anche questo ci sta!); lo chiamo al cellulare e mi mostra i progressi ottenuti coi suoi lavori all’interno del garage. Ora, devo riconoscere che da quando ho scoperto che si può vivere anche senza lavorare (per lavorare, intendo il concetto uniformato del lavorare), sono restio a sentir parlare di lavoro. Quando uno mi descrive ho fatto questo, ho fatto quell’altro, in genere mi dispiaccio per lui, senza capire che invece lui ne va fiero. Ecco perché con me è meglio non parlare di lavoro. È come parlarmi dell’importanza delle blatte nel ciclo mondiale della natura. Della Regola benedettina gradisco l’ora (et labora poco).

Poi mi porta di sopra, mi offre un caffè. Diamo per scontato che la giornata è andata persa, perché il tempo non accenna a migliorare. I primi dieci minuti mi ascolta, parliamo di tutto, poi lo vedo pensieroso. Sua moglie è tornata a lavorare, come un topo nel formaggio. E anche lui si sente attratto, o in colpa, non so. Si assenta, e dopo un paio di frasi del genere … d’altra parte è così… mi liquida e torna a rosicchiare il formaggio. Io mi domando: ma non dovevamo uscire? quindi, anche se non siamo usciti, non potevamo prenderci il nostro tempo? no, per me è così, non per tutti, chi sono mai io per dire cosa fare e cosa (soprattutto) non fare?

Rientro a casa e ritrovo le normali regole da rispettare: una carriola di legna per il camino, preparo tavola, cucino (queste due ultime incombenze mi piacciono). Mio figlio mi scrive un messaggio e mi dice che ieri sera l’hanno fermato (vive in Belgio) e non trovava la ricevuta della polizza dell’assicurazione. Gli fanno tre volte il palloncino. Risulta tre volte negativo (ma sarà mio figlio?). Alla fine, il poliziotto belga lo lascia andare a casa senza danni e senza curarsi della polizza apparentemente scaduta. Per non dimenticare, verifico gli assegni e constato di aver pagato regolarmente. Poi scrivo una mail alla mia assicurazione, che la leggerà domani, e chiedo gentilmente di ricevere una copia scansionata da inviargli.

Bene, penserete voi, è tutto finito, il problema è risolto. No, non è tutto finito. Mia moglie scatena una caccia al certificato di polizza, una ricerca che ci coinvolge, sgombriamo anche la gattona dal divano nel caso il foglio si fosse infilato sotto un cuscino. Mi chiedo perché. Perché? se hai un problema e non hai la soluzione, perché ti preoccupi? ma se hai un problema e hai la soluzione, perché ti preoccupi? così scrivono i cinesi.

Nel mentre mi scrive Paolo, al quale avevo detto che leggendo Lhasa di Hopkirk, che mi ha appena imprestato, avevo trovato quel riferimento a Savage Landor che lui ricordava ma non collocava. Ora ricorda il fatto, si lamenta del tempo che passa e della testa sempre più insicura. E mi scrive una frase che dà l’avvio a questo mio sfogo: soffro a non poter fare quasi nulla, ma soffro ancor più pensando che anche se potessi non saprei cosa fare, e che anche se lo sapessi non avrei voglia di farlo.

Allora mi scatta la rabbia: siamo gente libera? o siamo un branco di pecore in balia di lupi affamati? (considero i lupi uno degli animali più belli e intelligenti in natura, mi scuso con loro se li paragono a chi pretende di dirigere la nostra vita). Ai tempi del colera si stava peggio di ora? non lo so, non c’ero, ma almeno avevi delle certezze; della morte, per esempio. Ora non hai nemmeno la certezza del vaccino, per non parlare della cura. Oberati da vomitevoli forme di informazione a mezzo tv, whatsapp, giornali (Trump? facile prendersela con lui; con un po’ di buonsenso, si era capito fin da subito che era uno instabile di mente, quattro anni c’ha messo la Pelosi per definirlo così. Ma se un branco di idioti ha invaso il Parlamento USA è perché la stupidità, la volgarità, l’ignoranza, la violenza, il razzismo viaggiano sui social: facebook, twitter, instagram. Cancellano Trump? beh, comodo salire sul carro del vincitore e poi tenere aperti i profili dei leader iraniani, turchi, egiziani, etc. etc.). Non c’è più niente di vero, non c’è più nulla di serio, tutto è una bufala, tutto è una fake news, dal non fare il vaccino perché un team di scienziati irlandesi ne denuncia il pericolo (chi?), a un branco di parlatori televisivi tutti autorizzati dalle più alte cariche dello Stato a parlare di Covid, quasi tutti con laurea in medicina biologia, virologi e scienziati, tuttologi e arrivisti, che ci inoculano, una dopo l’altro, catastrofiche predizioni tipo Nostradamus col mal di denti, tutti pronti a terrorizzare, nessuno a dire… a dire cosa?

Beh, per esempio: ora, noi tuttologi, pubblicheremo un elenco completo dei morti di Covid; indicheremo età, patologie pregresse e in corso prima di morire (ci sono le cartelle cliniche per quello) e faremo un report preciso, per vedere quanti sono morti DI Covid e quanti sono morti COL Covid; poi, scopriremo perché molti medici di base, all’insorgere di dubbi su un paziente, invece di prescrivergli dell’eparina, utile a proteggere da trombi e fluidificare il sangue, prescrivevano tachipirina. Due poveri semplici medici di Pavia, lo ricordo bene, nella primavera 2020 furono lapidati verbalmente da uno dei Santoni Televisivi solo perché avevano detto che da quando usavano l’eparina avevano visto i casi di morte scendere a zero. Poi, noi tuttologi indagheremo sul perché uno dei nostri più stimati colleghi, Burioni, prima dice: possibilità che il virus arrivi in Italia dalla Cina? pari a zero… poi diventa uno dei numi tutelari televisivi. E perché Report dedica un’ora di programma (ricco di allarmanti accuse e sospetti) al Commissario Straordinario Arcuri e ai suoi maneggi con le mascherine cinesi? Ma, soprattutto, perché queste decisioni di chiudere a determinati orari, di non far più lavorare i ristoranti, i bar, e molti altri settori (dopo che gli hai fatto spendere migliaia di euro per sanificare in primavera)? Infine, perché si manda una economia e una società a puttane in questo modo? Non ne usciremo più, molti economicamente, molti psicologicamente. Le file davanti alle mense per i poveri nei vicoli di Napoli e altre grandi città, di persone che una volta avevano un reddito e anche contribuivano ai redditi delle famiglie dei loro collaboratori, mi hanno ulteriormente intristito. Io sono fortunato, davvero tanto fortunato.

Ormai siamo segnati, abbiamo un marchio sul polso, una croce, un simbolo, un numero. Siamo i rovinati del 2020. E loro discutono: Renzi rientra, no Renzi esce del tutto. Beh, direte voi, tu parli ma non sai cosa significa il Covid. Eh no, modestamente io il Covid lo nacqui… nel senso che l’ho fatto io, mio figlio, mia figlia. Per loro è stata una passeggiata, hanno trent’anni, io sessantacinque, è stata abbastanza dura ma non sono finito in ospedale, e ora sto abbastanza bene. Vivo in un’ambiente contiguo alla Sanità, e mi permetto di dire la mia: ci sono solo 5 strade da percorrere:

  • test rapido per tutti;
  • curare con i medicinali giusti, ormai dovrebbero aver capito tutti quali sono;
  • cercare di guarire;
  • Ma, subito, non tra un mese, riaprire tutte quelle attività che stanno morendo;
  • vaccinare il maggior numero di sani.

Oggi ho preso la scheda elettorale è l’ho buttata nel camino. Scelta stupida, diranno molti di voi. Dettata dalla rabbia, giustamente direte voi. Si, mi sento stupido. Stupido e codardo, insignificante e inutile. Hanno vinto loro, ma almeno non mi avranno più come loro complice (come diceva il simpatico tenente Lo Russo in Mediterraneo, nella scena finale). Ora vado a finire di leggere Lhasa di Hopkirk; finora ha raccontato di tutti quelli che hanno fallito nel tentativo di arrivare per primi, come stranieri, a Lhasa; ma sono sicuro che, prima della fine, dovrà per forza raccontare di qualcuno che è riuscito finalmente a vedere il Palazzo del Potala…

Altruista sarà lei!

di Nicola Parodi e Paolo Repetto, 10 dicembre 2020

Per l’evoluzione non è importante essere intelligenti,
ma agire in modo intelligente[1].

In un precedente intervento (“La morale e le favole”) Nico Parodi ha elencato una serie di “postulati” (che non sono verità rivelate, ma “strumenti affidabili di lavoro”), da usarsi come base di partenza per approfondire la riflessione sul “come siamo arrivati qui”. Sottolineo il “come”, in quanto il “perché” ci porterebbe subito su un piano delicato, nel quale gli strumenti indicati da Nico tendono a trasformarsi in armi ideologiche a molteplice taglio. D’altro canto, crediamo entrambi fermamente che il nostro problema (“nostro” è riferito a coloro che le domande fondamentali se le pongono, e aspirano ad una conoscenza che non sia solo di superficie) stia proprio nella inveterata confusione tra i due avverbi, quella a cui aveva cercato di ovviare già un paio di secoli fa il buon Kant: possiamo legittimamente sforzarci di capire “come” funzionano sia la nostra mente che il mondo in essa riflesso, ma se ci chiediamo il “perché” sconfiniamo nella metafisica. La confusione purtroppo permane, e non perché il monito di Kant non fosse chiaro, ma per la nostra ostinazione a cercare un senso e uno scopo là dove non esistono (e se esistessero sarebbero comunque al di fuori della nostra portata). Il senso, lo scopo, siamo chiamati a conferirlo noi, e possiamo farlo solo partendo da una conoscenza la più ampia e approfondita possibile dell’ambiente naturale in cui viviamo, dei fenomeni che lo hanno trasformato e che continuano a farlo, dei processi evolutivi che ci hanno condotti a diventare, da animali inconsapevoli, esseri che si pongono le domande.

Il compito di rispondere a queste ultime è demandato alla “scienza”, che è appunto l’attività conoscitiva indirizzata a decifrare il “come”. Ciò non toglie che tutte le possibili direzioni di ricerca siano comunque connesse a un retropensiero metafisico, ovvero che ad ogni nostra indagine sia sottesa la domanda sulla motivazione, prima ancora che quella sulla causa. Ma nel caso della scienza possiamo far conto su un buon margine di obiettività: la scienza indaga su fatti (situazioni compiute) o su eventi (situazioni in essere), non su delitti. E in natura non si trovano motivazioni, ma risposte adattive a stimoli o a trasformazioni (per quella organica) e relazioni di causa ed effetto (per quella inorganica). Dovremmo imparare ad accontentarci di conoscere e chiarire queste, e fermarci sull’orlo di quella presunzione che secondo i nostri progenitori (che sul “come” erano – giustamente – ancora parecchio confusi, ma sugli azzardi del “perché” avevano già le idee molto chiare) è costata a Lucifero e compagni la caduta.

 

Le considerazioni proposte nell’intervento precedente da Nico e in questo nostro sono frutto del dialogo serrato e stimolante che abbiamo avviato negli ultimi mesi, riprendendo una consuetudine risalente addirittura a cinquantacinque anni fa, quando sedevamo nello stesso banco al liceo. Le strade diverse che abbiamo poi percorso, le scelte di studio e quelle lavorative, i modi e i luoghi dell’impegno politico e sociale, ci hanno tenuti lontani per un sacco di tempo, ma ci hanno condotto alle stesse convinzioni, a maturare un identico sguardo sulla vita in generale e sugli uomini in particolare. Ho voluto sottolinearlo perché la cosa mi sembra emblematica: se hai introiettato la lezione kantiana puoi prendere i sentieri che vuoi, viaggiare a piedi, a vela o a motore, ma alla fine approdi comunque alla stessa spiaggia. Ed è confortante trovarti in buona compagnia. Ti ridà la carica per proseguire con nuova convinzione nel viaggio. (P. R)

È trascorso un bel po’ di tempo da quando stavamo nello stesso banco. Di quel periodo non è possibile, per noi che si arrivava da paesi ancora totalmente immersi nella cultura contadina, non ricordare la scoperta dell’esistenza di mondi culturali diversi e sorprendenti. Con la curiosità e la voglia di apprendere il nuovo propria degli adolescenti (di quel tempo?, ci si confrontava su tutto, senza timore di affrontare argomenti che andavano ben oltre le nostre competenze. Ora, avendo introiettato come dice Paolo la lezione kantiana, dopo oltre mezzo secolo di studi e letture che hanno almeno parzialmente colmato le lacune, torniamo ugualmente motivati, più carichi d’anni ma anche più ricchi di esperienze, a rivivere quel confronto. Le considerazioni che proponiamo ne sono il primo frutto. (N.P.)

Riprendiamo dunque il discorso là dove Nico lo aveva interrotto la volta scorsa (e quindi, quanto segue va letto avendo presenti i “postulati” che aveva individuati in “La morale e le favole”). Lo facciamo proponendo un’ulteriore considerazione, che non era stata anticipata perché proietta quelle precedenti in uno scenario nuovo, andando a verificarle nella realtà storica (per essere più precisi, nella preistoria). I “postulati” riguardavano l’idea di morale e il suo riflesso sulla cooperazione (ma anche sulla competizione) in seno ad un gruppo. Vediamo se e come trovano conferma nei fatti.

Da un certo periodo in poi (diciamo tra i quindici e i cinquemila anni fa) al nomadismo legato all’economia di caccia e raccolta si è progressivamente sostituita una stanzialità connessa alle prime forme di domesticazione delle piante. La transizione non è stata incruenta, e ha lasciato traccia nelle narrazioni mitologiche di tutti i popoli, a partire da quella biblica del conflitto tra Caino coltivatore stanziale e Abele cacciatore-allevatore nomade. Ora, la domanda che ci poniamo è se il passaggio all’agricoltura abbia migliorato le condizioni di vita e di salute dei nostri antenati[2], o se invece non le abbia addirittura peggiorate (come appunto sosterrebbe la Bibbia), incidendo in negativo anche sulla libertà e sull’equità. La risposta oggi più accreditata (dalla paleontologia, oltre che dalle Scritture) è la seconda, anche se il tema è ancora parecchio controverso, soprattutto perché il dibattito è troppo spesso falsato da coloriture ideologiche. I dati dei quali siamo in possesso ci dicono che il passaggio da una dieta mista, carnivora e vegetariana, ad una basata essenzialmente sui cereali provocò un forte abbassamento degli standard alimentari, con una serie di conseguenze negative evidenziate dagli studi antropologici: riduzione dell’aspettativa di vita, significativa diminuzione dell’altezza media, carenze vitaminiche, e quindi maggiore mortalità infantile, diffusione delle malattie infettive e delle patologie degenerative delle ossa. Insomma, un quadro tutt’altro che confortante, che spiega come mai per diversi millenni, malgrado la produzione agricola fosse in grado di supportare una densità maggiore di popolazione e di creare riserve per i periodi di carestia, il tasso di crescita della popolazione mondiale sia pressoché rimasto stabile. Diciamo che si può affermare senza troppe esitazioni che gli agricoltori avevano condizioni di vita peggiori dei cacciatori raccoglitori.

A noi qui comunque interessa vedere che conseguenze ebbe il passaggio all’agricoltura sulla “morale sociale”. Va chiarito che questo ha a che vedere molto marginalmente con la discussione tuttora vivace su un aumento o meno della conflittualità tra gruppi e dell’attitudine interspecifica alla violenza. Ci sembra scontato che una maggiore densità demografica crei più occasioni di conflitto, mentre i recenti ritrovamenti di fosse comuni che risalgono a trentamila anni fa e che contengono i resti di individui barbaramente trucidati stanno a testimoniare come anche quella dei cacciatori-raccoglitori fosse una cultura tutt’altro che pacifica. Per “morale sociale” intendiamo dunque quella che ispirava e regolava i rapporti all’interno dei singoli gruppi, fermo restando poi che poteva essere eventualmente estesa ad altri gruppi, attraverso vincoli matrimoniali o convenienze collaborative.

La cosiddetta “rivoluzione neolitica” è avvenuta gradualmente, in tempi diversi e con processi autonomi nelle diverse aree, innescati in genere dall’esaurimento delle risorse di caccia conseguente un eccessivo sfruttamento, il restringimento del raggio d’azione di ciascun gruppo o un significativo cambiamento del clima. Questa rivoluzione ha comunque stravolto le modalità di acquisizione del cibo e ha modificando in modo pesante i valori su cui si basava la collaborazione (come vedremo nei punti successivi). In sostanza, gli “strumenti morali” prodotti nel corso dell’evoluzione non erano più rispondenti ai modelli di distribuzione e di cooperazione che si accompagnavano all’avvento delle società agricole. Condizioni di vita come quelle determinate dal passaggio all’agricoltura mettevano a dura prova l’istinto collaborativo, anche se questo non è mai venuto meno del tutto, in quanto la cooperazione rimaneva comunque necessaria per difendersi dalle scorrerie dei nomadi o dall’espansionismo di gruppi rivali (ma anche, al contrario, per guadagnare nuovo spazio alla coltivazione), e per la conservazione e la trasmissione di particolari contenuti culturali. In sintesi: per centinaia di migliaia di anni sono stati selettivamente premiati dei comportamenti collaborativi (quelli di cui si parlava in “La morale e le favole”) che poi, al mutare del regime economico, non avevano più una ragione evolutiva di essere.

Il cambiamento cui ci riferiamo è comunque avvenuto da troppo poco tempo per lasciare tracce genetiche estese e profonde nell’umanità. La mutazione “culturale” originata dalla trasformazione dell’economia (con la divisione specialistica del lavoro, la nascita di reti commerciali e di convenzioni sui valori di scambio, lo sviluppo della proprietà privata) ha generato nel corso degli ultimi dieci millenni modelli sociali (gli insediamenti ad alta densità di popolazione, la struttura gerarchica, la creazione di élites) e istituzionali (amministrazione centralizzata, organizzazioni politiche) totalmente sconosciuti in precedenza alla specie. Ma al contrario di quelli culturali, che hanno viaggiato al ritmo di una accelerazione costante (e hanno conosciuto una vera impennata negli ultimi due secoli), i meccanismi evolutivi procedono silenziosamente e lentamente: potrebbero essere attualmente al lavoro per modificare la nostra predisposizione alla collaborazione, ma – a meno di interventi di ingegneria genetica, sui cui esiti nutriamo più timori che dubbi – avranno necessità di altre centinaia di generazioni per ridisegnare significativamente il nostro corredo cromosomico. Il che significa che stiamo per entrare, o meglio, siamo appena entrati in una fase di anatra zoppa, per dirla all’americana, con la natura e la cultura che spingono in direzioni opposte.

Il fatto è che l’incongruenza fra i nuovi modi di produzione e i vecchi meccanismi morali selezionati evolutivamente, oltre che creare attriti fra gli individui, può innescare un meccanismo che inverte il processo di “autodomesticazione”[3]. Non stiamo mettendo in dubbio il successo dell’agricoltura nell’aver permesso, nel tempo, una maggiore disponibilità di cibo (e cibo = energia: diventare consumatori primari consente di saltare un passaggio nella catena alimentare, un buon vantaggio, considerando che ogni passaggio nella catena comporta una perdita dell’energia del 90%), ciò che ha consentito l’aumento della popolazione e un avanzamento culturale altrimenti impensabile: ma intendiamo dire che il nuovo modo di produzione ha messo in discussione gli strumenti morali che regolavano i rapporti tra gli individui, e che il risultato di questa sfasatura è stato in molte parti del mondo la trasformazione di modelli basati sulla cooperazione altruistica e sulla sostanziale uguaglianza fra gli appartenenti al gruppo in un modello di società, quella che oggi conosciamo, nella quale l’equità nella distribuzione delle risorse lascia molto a desiderare (l’un per cento della popolazione mondiale detiene e sfrutta oltre il cinquanta per cento delle risorse). Questo induce un’altra serie di considerazioni:

  • Intanto ci permette di valutare l’efficienza o meno di organizzazioni socioculturali che contrastano con le radici biologiche dei nostri comportamenti morali. La crescita demografica umana era indubbiamente iniziata (sia pure con una progressione lentissima) già prima della comparsa dell’agricoltura, favorita dalla conquista di sempre nuove aree di sfruttamento a spese di altre specie o di rami collaterali dell’ominazione. Le regole morali avevano quindi dovuto essere integrate culturalmente, per rispondere prima appunto all’aumento della popolazione e alla conseguente organizzazione tribale e poi al mutamento del modo di produrre cibo e alla specializzazione delle attività. Nel corso di questo processo di “culturizzazione” della morale il senso dell’equità, che attraverso l’evoluzione selettiva si era connaturato tanto da manifestarsi spontaneamente nell’infanzia, è stato messo a dura prova dagli squilibri nella distribuzione dei beni e dalla difficoltà nell’isolare i profittatori. In sostanza, in una organizzazione che favoriva il cumulo delle ricchezze (terre, immobili, averi) e una polarizzazione verticale del potere, i prepotenti, anziché essere isolati e puniti, hanno trovato col tempo il modo di giustificare le loro angherie, e il meccanismo di premio/punizione in molte comunità ha cambiato di segno, ad esempio punendo chi non accettava l’imposizione.

 

  • Ciò non significa affermare che “prima” i rapporti all’interno dei gruppi fossero idilliaci. Semplicemente, si davano meno occasioni di competere e più motivazioni a cooperare. La “morale sociale” nasceva da queste condizioni, dalla selezione adattiva degli individui con maggiore attitudine alla collaborazione e alla reciprocità. Venute meno queste condizioni, le carte si sono sparigliate. In qualsiasi società si scontreranno sempre l’interesse del singolo individuo e l’interesse del gruppo. Le differenze individuali esistono; preso atto che ci sono individui più intraprendenti ed attivi o abili in certe attività e che queste sono qualità utili, non funziona correttamente un meccanismo sociale che non ne riconosca l’utilità per il gruppo. Ma la cultura di società complesse è frutto appunto della storia di quel gruppo e di tutti (o quasi) i suoi componenti; senza questi contributi nessuno, per quanto intraprendente ed abile, riuscirebbe in qualunque impresa che vada oltre una difficilissima sopravvivenza.
    L’oggettività del fatto che la cultura – e la sua conservazione – sono prodotto della società e non dei singoli, rende fragili le basi del presunto “diritto naturale” sul quale si basa il capitalismo. Detto molto schematicamente, questo diritto si fonda sulla convinzione che la ricchezza prodotta sia merito pressoché esclusivo delle capacità imprenditoriali soggettive (gli altri fornirebbero solo forza lavoro), il che legittimerebbe l’imprenditore a trattenere tutta la ricchezza prodotta. La maggior parte delle società moderne assegna la funzione premiale quasi esclusivamente all’arricchimento, dando scarsa o nessuna importanza ad altri possibili meccanismi; è senza dubbio più facile far agire gli uomini utilizzandone i vizi (interessi egoistici individuali, espressioni del conflitto fra interesse a riprodursi come singolo fenotipo e necessità di collaborare[4]) piuttosto che far leva sulle spinte alla collaborazione che si sono evolute nel tempo. Per questo è necessaria una discussione più che approfondita per capire fino a che punto un tale riconoscimento in positivo dell’individualità può essere accettato senza mettere in crisi gli “strumenti” morali collaborativi indispensabili al benessere del gruppo, dal quale dipende quello del singolo. Studiosi di neuroscienze e di scienze cognitive, con estrema cautela, iniziano ad interrogarsi/ci sul libero arbitrio e su quello che ne consegue, ad esempio in termini di giustizia e funzione della pena[5].

 

  • Quindi: la morale che utilizziamo si è storicamente strutturata in modo piramidale, con le parti più vecchie che sono sostanzialmente integrate nel patrimonio genetico. E allora non è sensato imporre norme che entrino in contrasto con le strutture morali più antiche. Nico ricorda che quando iniziò l’epidemia di AIDS c’era chi si poneva il problema della ricaduta che la paura del contagio avrebbe avuto sui rapporti sociali. I “progressisti” più radicali parlavano di istituire l’obbligo per tutti i genitori di mandare i figli a scuola in ogni caso, in nome di una morale “superiore”, per evitare discriminazioni nei confronti dei bimbi contagiati o figli di contagiati. Dal suo punto di vista la proposta era insensata, perché contrastava con l’istinto di protezione dei genitori, e nel caso fosse stata approvata era destinata a creare reazioni fero oci, oltre che la fuga da certe scuole. Riteneva anche che avrebbe indotto la maggioranza dei cittadini a punire politicamente qualsiasi schieramento la sostenesse.
    Un atteggiamento del genere è stato adottato, all’inizio dell’epidemia da coronavirus, dai “moralisti laici”, che censuravano ogni gesto che potesse sembrare discriminatorio nei confronti dei cinesi. Certo, la discriminazione spaventa per principio, ma in quel frangente chi se la sarebbe sentita di criticare una mamma con un bambino che incrociando un italiano di origine cinese, magari mai stato in Cina in vita sua, si fosse spostata istintivamente sull’altro marciapiede? Non si vuol dire che un gesto simile fosse razionale e corretto: stiamo solo prendendo atto che in quel frangente, e considerando anche il tipo di informazione confusa che arrivava (non che ora sia più chiara, ma abbiamo forse un po’ imparato a difenderci da soli: e infatti cambiamo marciapiede comunque, senza più fare discriminazioni su base etnica), era la risposta naturale, basata su una “morale sociale” ancestrale, ad un rischio per la sopravvivenza.

  • Uno dei prodotti culturali di maggior successo sono le credenze religiose e i culti comparsi nella preistoria e nelle successive epoche storiche, in risposta a esigenze e situazioni diverse. Secondo alcuni studiosi le religioni “moralizzatrici” sono nate quando le società avevano già raggiunto una popolazione ragguardevole: non hanno quindi contribuito alla nascita di società più numerose, ma sono piuttosto un portato di queste ultime. Questo significa che i caposaldi attorno ai quali si è poi articolato il nostro “sentimento morale” cooperativo risalgono a periodi precedenti quelli della comparsa delle religioni strutturate: e che queste ultime hanno semmai “consacrato” delle attitudini che erano già presenti negli umani pre-storici e che erano frutto dell’evoluzione naturale selettiva. In tal senso la predicazione cristiana dell’amore universale e il tabù induista dell’uccisione delle vacche sacre istituzionalizzano dei principi rispondenti, sia pure in maniera diversa, alle stesse finalità di sopravvivenza del gruppo. Non intendiamo comunque qui dare giudizi sull’utilità dimostrata in passato dalla religione, e consideriamo per quel che ci riguarda la tendenza religiosa un “effetto collaterale” dello sviluppo del cervello: ma vorremmo soffermarci a considerare se le religioni abbiano o meno ancora una funzione, in società che hanno raggiunto il livello culturale e tecnologico della nostra.
    Non c’è bisogno di essere degli appassionati di storia per richiamare alla memoria le guerre fatte o giustificate in nome della religione. Ne abbiamo purtroppo ancora testimonianza quotidianamente. In particolare, sono state molto attive in questo senso le tre religioni monoteiste, che con i loro libri sacri e le loro verità rivelate non accettano “l’empio orgoglio di Homo sapiens di decidere da sé nella vita collettiva e individuale”. È quindi indubitabile che le religioni hanno sempre pesantemente ostacolato la libertà di pensiero. Considerandole ora alla luce della funzionalità evolutiva, le religioni fondate sull’esistenza di una verità rivelata non funzionano più, sono diventate un ostacolo all’espandersi delle conoscenze, delle libere scelte e della convivenza cooperatrice. E quando affermano di non voler imporre nulla ai non credenti, lo dicono solo perché non sono più in grado di farlo.
    Ora, noi siamo però rimasti ancorati ad un concetto di difesa della libertà religiosa che ha avuto un senso fino a che la religione è stata in grado di imporre le sue verità. In quelle condizioni affermare che ciascuno aveva diritto di praticare la sua di religione, ovvero di credere a quello che riteneva giusto, era funzionale al libero pensiero e all’affermarsi della razionalità. Oggi, al contrario, permettere la divulgazione di credenze irrazionali mette a rischio la sopravvivenza dei principi su cui la libertà di pensiero si basa, i soli in grado di garantire la convivenza.
    E qui nasce un problema. Come la mettiamo allora con le religioni storiche? Mettere in discussione la libertà religiosa sembra infatti rappresentare una contraddizione, una violazione di quelle stesse libertà che si vuole continuare a garantire. Quindi di norma riteniamo che ogni professione religiosa vada rispettata, fatta salva naturalmente la clausola della reciprocità. Quando invece parliamo di fenomeni come quelli rappresentati dagli antievoluzionisti, dai no-vax, dai terrapiattisti, dai banditori di teorie le più strampalate, ma più in generale dalle varie “religioni laiche” che prosperano nel vuoto lasciato da quelle tradizionali, non abbiamo problemi a liquidare queste cose come idiozie, e come idioti pericolosi che andrebbero fermati i loro sostenitori: e un tale atteggiamento non lo consideriamo affatto liberticida. Questo perché in noi quello che abbiamo definito un “effetto collaterale” continua ad esercitare la sua influenza, e siamo almeno emozionalmente più vicini a chi cerca soluzioni del tipo religioso tradizionale.
    Per superare quella che può apparire una contraddizione è necessario dunque distinguere. In realtà le due cose, le religioni tradizionali e le nuove “religioni laiche” che si stanno affermando, pur nascendo da uno stesso bisogno di spiegazioni “metafisiche”, non sono affatto equiparabili: perché le prime, al netto delle strumentalizzazioni politiche ed economiche di cui sono state oggetto e malgrado il distacco dai fondamenti morali originari, rappresentano, o almeno hanno rappresentato, un rafforzamento dell’etica sociale, mentre le seconde preludono (ma potremmo ormai dire, conseguono) a un cambiamento sostanziale dei valori morali di fondo, ovvero al rigetto di quelli creati dall’evoluzione. Le prime in sostanza facevano leva sull’altruismo come cemento del gruppo (ciò che vale anche per le loro versioni secolarizzate, marxismo compreso), le altre favoriscono l’atomizzazione sociale e vellicano gli egoismi individuali. E quindi, mentre per le une, almeno in linea teorica, potrebbe anche essere ipotizzabile un ritorno alla valenza sociale originaria, proprio in ragione della loro decrescente rilevanza economica e politica (con l’eccezione dell’Islam, che costituisce un capitolo a parte), per le altre il discorso del ripristino di una “morale sociale” è chiuso in partenza.

 

  • Ma allora, alla luce di quanto abbiamo visto sin qui, del conflitto millenario tra una morale indotta dal meccanismo evolutivo e una di matrice essenzialmente culturale (cosa intendiamo in questo contesto per “cultura” dovrebbe ormai essere chiaro), in che direzione evolverà l’attuale modello “ibrido”? Senza voler giocare agli indovini, si possono almeno ipotizzare degli scenari. Il dato dal quale non possiamo prescindere è che non sono affatto venute meno le pressioni ambientali che avevano indotto lo sviluppo di una morale cooperativa. Dopo una breve stagione nella quale una parte almeno dell’umanità si era illusa di tenerle sotto controllo, o semplicemente se ne era dimenticata in nome delle “magnifiche sorti e progressive”, e aveva inaugurato una presunta “liberalizzazione” morale, quelle pressioni si ripresentano oggi nel formato globale: polluzione demografica, degrado ambientale, sconvolgimenti climatici, esaurimento delle risorse a causa di uno sfruttamento scriteriato, sono problemi che toccano ora direttamente e contemporaneamente più di sette miliardi di umani, e ai quali non si può ovviare come un tempo semplicemente spostandosi altrove. Il conto che la natura ci sta presentando è salato. A fronte di questo, le ipotesi prospettabili si riducono in linea di massima a tre.
    La prima, la più probabile perché in continuità diretta con ciò che già abbiamo sotto gli occhi, è che si continui a non prendere atto dell’evidenza, e l’umanità prosegua allegramente verso il baratro, applaudendo e ridendo come gli spettatori del teatro in fiamme raccontati da Kierkegaard. In tal caso gli scenari futuri non sarebbero molto diversi né da quelli mostrati in un sacco di libri (da L’ultima spiaggia a La strada) e di film (dalla saga di Max Mad a Equilibrium) del filone post-apocalittico, né da quelli immaginati quattrocento anni fa come originari da Hobbes, con un ritorno alla situazione dell’homo homini lupus, all’egoismo individuale di sopravvivenza precedente la nascita della morale.
    La seconda possibilità è che l’egoismo “culturale”, quello legato non alla sopravvivenza ma alla sopraffazione, abbia antenne talmente sensibili da cercare di ovviare all’imminente catastrofe con un riordino sociale forzato, dai costi umani altissimi, che implicherebbe la perpetuazione di un assetto fortemente gerarchico e cristallizzato. Parliamo di quella che oggi viene da molti preconizzata come una “dittatura tecnologica”, riconducibile al modello dell’alveare, che ha svariate possibili declinazioni, dall’eco-dittatura al modello cinese, e che in fondo ha costituito una costante nell’immaginario utopico. In tal senso avremmo il trionfo della componente culturale su quella evolutiva. Per l’umanità si tratterebbe non solo di una “fine della storia”, ma anche della fine del processo evolutivo, della sua storia naturale.
    Rimane la terza, senz’altro la più improbabile, che trova però un minimo di conforto in un dato biologico: il nostro cervello è plastico, e pertanto quegli stessi agenti che avevano spinto originariamente l’evoluzione di una moralità sociale, l’addestramento, la trasmissione di cultura, le pressioni esercitate attraverso i sensi di colpa, il desiderio di mantenere la reputazione sociale ecc., possono ancora essere determinanti, sia pure nelle mutate condizioni ambientali. D’altro canto, fino all’età di sei o sette anni il senso di equità sembra essere indipendente dalla cultura in cui si cresce, mentre gli effetti di quest’ultima iniziano a farsi sentire in età successiva. Si tratta quindi di dare un adeguato terreno “culturale” di applicazione a quel senso dell’equità che a questo punto possiamo considerare innato, di rafforzarlo attraverso le modificazioni che i fattori culturali cui accennavamo sopra sono in grado di produrre in un cervello ancora in crescita. Ciò significa che le scelte future in materia di moralità sociale si giocheranno sugli stimoli che le generazioni dei nostri nipoti riceveranno in questa fascia d’età. E le scuole di formazione religiosa, le società marziali e istituzioni similari hanno dimostrato quanto funzioni “addestrare” gli individui prima della maturità (ferma restando la differenza tra un semplice travaso di credenze e nozioni e l’educazione ad un atteggiamento cooperativo).
    Stiamo parlando in questo caso di una rivoluzione radicale, che riguarda tanto i modi quanto i contenuti della conoscenza. Ovvero dell’altra faccia dell’utopia, la rivoluzione “dal basso”, che parte dall’individuo stesso: quella che ancora con Kant era immaginata come una “uscita dalla minorità”, e che oggi assume piuttosto l’aspetto di un “rientro nella moralità”.
    Probabilmente siamo ormai fuori tempo massimo per sperare in una svolta del genere, perché la natura non aspetta i nostri comodi e perché i segnali che quotidianamente arrivano, politici e comportamentali di massa, parrebbero andare in un’altra direzione. Varrebbe comunque la pena provarci. Il cervello poi, in modo automatico, farà le sue scelte morali, perché non dobbiamo dimenticare che le stesse spinte “culturali” possono funzionare anche in direzione contraria. In aree geografico-sociali in cui esistono particolari subculture questi meccanismi culturali per la formazione di moralità hanno spesso prodotto risultati opposti.
    Dobbiamo allora anche chiederci se nelle società moderne funzionano ancora quei meccanismi di premio/punizione indispensabili alla conservazione del gruppo. E constatare che alcune scelte fatte in nome del progresso, e funzionali alla salvaguardia del diritto individuale, vanno in controtendenza. Le leggi sulla privacy, ad esempio (in linea di principio giuste e per alcuni aspetti encomiabili), contrastano con la funzione di guardiano della moralità sociale esercitata dal “pettegolezzo” e, se esasperate, producono danni. Anche alcune idee laiche, frutto dei lumi della ragione, rischiano di essere utilizzate per rafforzare il conformismo sociale con lo stesso meccanismo del dogmatismo di tipo religioso (il famigerato “politicamente corretto”).
    La stessa accresciuta stanzialità ha bloccato uno dei meccanismi con cui un gruppo poteva escludere gli individui che non rispettavano le regole. Nelle società pre-agricole se il gruppo si spostava chi era tendenzialmente non cooperativo non aveva altra possibilità che restare isolato, correndo i rischi conseguenti, o seguire gli altri adeguandosi alle loro norme di convivenza. L’aumento della concentrazione degli abitanti nelle grandi città, e ancor più la facilità degli spostamenti, hanno portato all’isolamento generalizzato degli individui, alla rarefazione dei rapporti sociali e quindi al mancato funzionamento del controllo sociale. Le norme indotte dalla crescente complessità della società più che rispondere al “senso di equità” servono a codificare diritti “difensivi”, di salvaguardia individuale, legati sia al modo di produzione che ai mutati rapporti fra persone. L’esplosione demografica eccede la capacità di gestione dei rapporti interpersonali costruita dall’evoluzione.

 

  • Anche altri meccanismi vitali, che agiscono sia negli unicellulari che negli organismi via via più complessi, in una società “progredita” come la nostra rischiano di produrre risultati che ostano al replicarsi della vita. Ci riferiamo alla “omeòstasi”, alla indispensabile capacità dei viventi di mantenere, generalmente attraverso meccanismi di retroazione, nello stato migliore i parametri vitali dell’organismo; caratteristica che, come sostiene Damasio, produce anche una “omeòstasi” sociale e culturale[6]. Gli esseri umani hanno tradotto le spinte vitali dell’omeòstasi in “ricerca della felicità”, e hanno addirittura inserito questa finalità nelle dichiarazioni di diritti universali e nelle costituzioni. Ma la ricerca della felicità, che serve a gratificare il “fenotipo”, confligge con la sua funzione biologica di quest’ultimo quale replicatore di geni, oltre che con gli interessi della società. Chi come noi vive nella parte del mondo economicamente più florida conosce svariati esempi di individui dalle elevate capacità culturali e morali che, per soddisfare le proprie aspirazioni, non si riproducono. In un mondo in cui Homo sapiens sapiens è rappresentato da un numero di individui superiore, a dir poco, di quattro o cinque volte a quello ottimale, questo potrebbe sembrare un fatto positivo: ma quale sarà l’effetto nel lungo periodo sulla conservazione e sul progresso della società? Quel che sembra certo è che il meccanismo della selezione si è inceppato, e che noi non siamo in grado di prevedere se ciò produrrà effetti positivi o negativi. Ma certamente i segnali non sono confortanti.
    La storia e la cronaca di questi giorni raccontano che non appena si manifesta una qualche emergenza spuntano i profittatori che cercano di lucrare sulle necessità altrui (il caso mascherine è solo l’ultimo, per il momento). C’è chi spiega il fenomeno, quando addirittura non lo giustifica gesuiticamente, con le leggi della domanda e offerta: ma questa interpretazione della correttezza dei comportamenti su base “mercantile” confligge con le intuizioni morali che si sono affermate evolutivamente. Ora, i profittatori ci sono sempre stati, sin dai tempi di Pericle. Ma almeno erano oggetto della pubblica riprovazione, e in qualche caso anche della mano della giustizia. Oggi i meccanismi di quest’ultima sono inceppati da una serie infinita di salvaguardie e guarentigie nei confronti del trasgressore, per non parlare del malfunzionamento e della corruzione, e l’opinione pubblica è talmente subissata da sempre nuove informazioni, vere o fasulle che siano, da dimenticare immediatamente o ignorare del tutto qualsiasi denuncia. Quel che è peggio, però, è che a queste situazioni ci stiamo assuefacendo, non ci sorprendono e non ci inducono allo sdegno, le liquidiamo con un po’ di disgusto e le rubrichiamo come quasi normalità. Il che significa che i tiranti morali che sostenevano una costruzione sociale durata millenni si sono allentati: e queste situazioni preludono di norma ad un crollo (anche qui, gli esempi sono freschi).

Ricapitolando. Sembra evidente che con l’aumento della popolazione e dopo l’avvento dell’agricoltura il modello di “strategia evolutivamente stabile” che ci ha accompagnato probabilmente per milioni di anni sia entrato in crisi.

Di intervenire a correggere i meccanismi evolutivi non se ne parla nemmeno (in realtà se ne sta parlando sin troppo: ci riferiamo all’ingegneria genetica): è un rischio inaccettabile, quand’anche fossimo in grado di correrlo, e davvero non sappiamo dove potrebbe condurre. Possiamo però almeno mettere in discussione quelle costruzioni culturali che essendo artificiali entrano in conflitto con la morale radicata nella nostra mente. Un esempio molto semplice e, soprattutto per gli italiani, di verificabilità immediata: condoni e iniziative analoghe provocano un deterioramento di quello che sociologi ed economisti chiamano “capitale sociale[7]” e sono perciò da rifiutare. E in positivo sarebbe semmai utile vagliare tutte le nuove norme alla luce della loro capacità di accrescere o distruggere “capitale Sociale”.

Sul futuro dell’umanità non ci pronunciamo. Ci sono sicuramente molti ottimisti, ma sembrano prevalere i pessimisti. Ad esempio, il premio Nobel Christian de Duve sostiene: «Quand’anche il nostro cervello – come è molto probabile – fosse perfettibile, le nostre società moderne non potrebbero fornire un’opportunità che consentisse alla selezione naturale di favorire i cambiamenti genetici pertinenti. Supponiamo, per esempio, che una combinazione promettente fosse presente nel genoma di Mosè, Michelangelo, Beethoven, Darwin, Einstein o chiunque altro; non ci sarebbe stata alcuna possibilità di propagare questa combinazione in forza di un qualche vantaggio evolutivo. Al contrario, le nostre società favoriscono semmai la tendenza opposta. […] Il cervello, che ha determinato il nostro successo, potrebbe anche provocare la nostra rovina, semplicemente per non essere abbastanza bravo a gestire le proprie creazioni.[8]» Ci trova perfettamente d’accordo.

 

NOTE

[1] Citazione a braccio, autore sconosciuto

[2] Marvin Harris – Cannibali e re – Feltrinelli

[3] Michael Tomasello – Storia naturale della morale umana – Raffello Cortina

[4] Richard Dawkins – Il gene egoista – Mondadori

[5] Antonio Damasio – Il sé viene alla mente – Adelphi; Stanislas Dehaene – Coscienza e cervello – Raffaello Cortina

[6] «In breve, la mente cosciente emerge nella storia della regolazione della vita – un processo dinamico sinteticamente indicato con il termine di omeostasi–, la quale ha inizio in creature unicellulari come i batteri o le semplici amebe, che pur non avendo un cervello sono capaci di comportamenti adattativi. Prosegue poi in individui il cui comportamento è controllato da un cervello semplice (per esempio i vermi) e continua la sua marcia negli individui il cui cervello genera sia il comportamento, sia i processi della mente (gli insetti e i pesci sono un esempio di questo livello). […]

La mente cosciente degli esseri umani – armata di sé tanto complessi e sostenuta da capacità di memoria, ragionamento e linguaggio ancora più robuste – genera gli strumenti della cultura e apre la strada a nuovi mezzi di omeostasi sociale e culturale. Compiendo un salto straordinario, l’omeostasi si guadagna così un’estensione nello spazio socioculturale. I sistemi giuridici, le organizzazioni politiche ed economiche, le arti, la medicina e la tecnologia sono altrettanti esempi dei nuovi strumenti di regolazione.

Senza l’omeostasi socioculturale non avremmo assistito alla drastica riduzione della violenza e al simultaneo aumento della tolleranza, tanto evidenti negli ultimi secoli. Né vi sarebbe stata la graduale transizione dal potere coercitivo al potere della persuasione che contraddistingue – a prescindere dai loro fallimenti – i sistemi sociali e politici avanzati. L’indagine sull’omeostasi socioculturale può attingere informazioni dalla psicologia e dalle neuroscienze, ma le radici dei suoi fenomeni affondano in uno spazio culturale. Chi studia le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, le decisioni del Congresso o i meccanismi delle istituzioni finanziarie può ragionevolmente essere considerato, indirettamente, alle prese con lo studio delle stravaganze dell’omeostasi socioculturale.

Sia l’omeostasi a livello fondamentale (guidata da processi non coscienti), sia l’omeostasi socioculturale (creata e guidata da menti riflessive dotate di coscienza) operano come amministratori del valore biologico. Le varietà dell’omeostasi – a entrambi i livelli, fondamentale e socioculturale – sono separate da miliardi di anni di evoluzione e tuttavia, sebbene in nicchie ecologiche differenti, perseguono il medesimo obiettivo: la sopravvivenza degli organismi. Nel caso dell’omeostasi socioculturale, quell’obiettivo si è ampliato fino ad abbracciare la ricerca deliberata del benessere. Va da sé che il modo in cui il cervello umano gestisce la vita richiede che entrambe le varietà di omeostasi interagiscano continuamente. Tuttavia, mentre la varietà fondamentale dell’omeostasi è un’eredità prefissata fornita dal genoma, la varietà socioculturale è un fragile work in progress responsabile di gran parte della drammaticità, della follia e della speranza insite nella vita umana. L’interazione fra questi due tipi di omeostasi non è confinata al singolo individuo. Dati sempre più numerosi e convincenti indicano che, nell’arco di numerose generazioni, gli sviluppi culturali inducono modificazioni del genoma.» Antonio Damasio Il sé viene alla mente – Adelphi

[7] «capitale sociale Insieme di aspetti della vita sociale, quali le reti relazionali, le norme e la fiducia reciproca, che consentono ai membri di una comunità di agire assieme in modo più efficace nel raggiungimento di obiettivi condivisi, come chiarito, per primo, da R. Putnam (Making democracy work: civic traditions in modern Italy, 1993).» Da Enciclopedia Treccani

[8] Christian de Duve – Alle origini della vita – Le Scienze

 

L’insopprimibile desiderio di lanciare meet

di Fabrizio Rinaldi, 3 dicembre 2020

I pellerossa pensavano che la macchina fotografica rubasse loro l’anima.
Io credo che la videocamera rubi a noi il cervello.

Un collega dice “mi lanci un meet” e non mi sorprendo più nell’aver afferrato ciò che vuole: l’avvio di una videoconferenza con lui.

GoToMeeting, webinar, Meet, classroom, Zoom, call, Skype … Un anno fa non avrei associato ad alcuno di questi termini il giusto significato, o almeno quello che abbiamo imparato nostro malgrado a masticare (sicuramente non a comprendere fino in fondo) a causa del distanziamento fisico da pandemia.

Il Covid-19 ci ha imposto di entrare alla velocità della luce nell’era digitale e di superare un deficit di conoscenze che relegava gli italiani fra gli analfabeti informatici (oltre che in altri campi). Ha spazzato via anni di stiracchiati corsi di formazione e di aggiornamento che servivano solo ad attribuire inutili crediti agli insegnanti e a far guadagnare qualcosa a chi li organizzava, ma non miglioravano di una virgola la nostra confidenza con gli strumenti digitali. In pochi mesi abbiamo imparato invece ad usarli con una disinvoltura da veterani. Lavorare in remoto da casa e avere i figli connessi agli insegnanti e ai compagni attraverso una webcam ha imposto di acquisire sul campo competenze che in epoca pre-Covid avrebbero impiegato decenni ad affermarsi.

Tutto questo ha però comportato anche dei radicali cambiamenti nella sfera delle relazioni sociali e lavorative, tanto che vediamo messi in forse anche diritti individuali che consideravamo intoccabili. Senza colpo ferire ci stiamo assuefacendo non solo all’uso della mascherina nella nostra quotidianità, ma anche al progressivo superamento di quei confini sociali e culturali che prima delimitavano la nostra sfera privata.

Bisognerebbe capire se stiamo ancora penetrando più in profondità in quest’epoca dominata dai media e, se sì, come e quando ci fermeremo. Siamo in condizione di usare – bene o male – i programmi informatici (termine ormai obsoleto e sostituito da “app”, anche se credo che pure questo abbia fatto il suo tempo), abbiamo appreso come avviare una call, come condividere schermi, come starci davanti (personalmente no, ma questo è un altro discorso): ma le implicazioni relazionali, sociali, esperienziali ed emotive sono ben lontane dall’essere comprese a fondo.

Viaggiare in aereo non significa saperlo guidare. Noi siamo in una condizione simile: usiamo il mezzo, ma non ne sappiamo quasi nulla, poiché non è interesse di chi lo costruisce istruirci su come evitare pericoli, su come evitare un eccessivo coinvolgimento e su come usarlo al meglio. Al produttore interessa solo che se ne faccia un uso massiccio. Soprattutto importa che si diventi dipendenti dal suo specifico prodotto, per evitare la trasmigrazione verso i concorrenti, e quindi offre semplificazioni e comodità a cui difficilmente sappiamo resistere. Siamo impigliati in una rete che sembra promettere libertà, ma che in realtà ingabbia tutto il nostro pensiero.

Un esempio: mia moglie recentemente ha smarrito il cellulare mentre eravamo per castagne. Lascio immaginare quanto fosse essenziale portarselo dietro in bosco dove quasi sicuramente non c’era segnale, e dove le probabilità di scivolare e perderlo erano maggiori che quelle di trovare qualche porcino. Ma la cosa che mi fa infuriare è che sono stato proprio io a insistere affinché lo portasse. Spesso la mia ragione trasgredisce al lockdown e se ne va a spasso per i cavoli suoi.

Ho ordinato un sostituito a basso costo e Amazon ce lo ha recapitato dopo soli due giorni (non fosse mai che ritrovassimo quello perduto o tornassimo a usare il vecchio telefonino, che faceva solo quello per cui era nato: ovvero, telefonare). Purtroppo, abbiamo constatato che essendo il nuovo acquisto prodotto della nota azienda cinese invisa a Trump, non aveva la possibilità di accedere alla piattaforma stellata di Google su cui mia moglie – e io pure – aveva salvato i numeri telefonici di una marea di persone. Il rischio era di perdere quei contatti, a meno di forzare il sistema operativo ed entrarci con qualche trucco: procedura che comunque, al di là della liceità, della quale francamente in questo caso non mi fregava proprio nulla, è tutt’altro che semplice. Alla fine, per comodità e per la mia insufficiente competenza, ho rimandato indietro il cellulare e ne ho preso un altro che costava un po’ di più ma permetteva di accedere a Google, e quindi di recuperare i numeri telefonici di persone che, in realtà, lei non chiama e loro neppure.

Quindi, anziché rassegnarci ad averli persi e ricominciare pazientemente a scriverli su una vetusta agendina, come si faceva fino a quindici anni fa, abbiamo speso di più per salvare dei contatti assolutamente inutili.

La scappatella della ragione s’è protratta stavolta un altro po’, e ha prevalso la coercizione all’acquisto.

Dovrebbe consolarmi il fatto che i più si sarebbero comportati allo stesso modo, ma trovarsi in una affollata compagnia non significa necessariamente aver fatto la scelta giusta (mi si potrebbe obiettare che forse la scelta sbagliata l’avevamo già fatta prima, quando abbiamo raccolto dei recapiti telefonici come si raccolgono i ciotolini bianchi al fiume, per caricare le tasche e dimenticarsene subito: ma anche qui entriamo in un altro discorso). In realtà, tutto questo è la dimostrazione di quanto siamo vittime consenzienti di un meccanismo pervasivo e persuasivo cui è difficile sottrarsi col doveroso e sano senso critico. In fondo la fidelizzazione del cliente-consumatore è un pilastro della moderna economia. L’impero Apple di Steve Jobs ne è un esempio.

Quindi, usiamo la tecnologia, ma non ne siamo padroni. Anzi, ne siamo schiavi. È vero anche che utilizzare il treno non significa saperlo guidare, ma il mezzo informatico è decisamente più invadente di una motrice (salvo l’esser sui binari…): grazie ai dati che io stesso metto in rete, chi mi profila conosce i miei interessi, le mie passioni, i miei punti deboli, più della mia consorte.

Una breve divagazione nel passato di un quasi nerd: il mio primo computer fu un Commodore VIC 20 che collegavo al televisore catodico di casa. Praticamente stiamo parlando del paleolitico paragonato ai più economici computer o cellulari di oggi. Non si poteva fare quasi nulla, se non scrivere una sequenza di comandi in linguaggio BASIC o in DOS con cui illudermi di avere il controllo di ciò che comandavo alla macchina: una piccola soddisfazione da “nerd”, che ho poi difeso negli anni successivi cercando di stare al passo con l’evoluzione informatica e masticando i linguaggi Pascal e C+. In realtà tutto si è velocemente complicato e la presunzione di piegare il software alla mia volontà si è sgonfiata: oggi per riuscire a provare quella stessa sensazione di potere sulla macchina devi essere uno “smanettone” super-esperto.

Forse sono solo invecchiato, e non riesco ad adeguarmi alla velocità del progresso digitale, mentre i millennials padroneggiano le app come facevo io allora col BASIC: ma sono quasi certo che anche loro nell’informatica attuale abbiano margini di manovra limitatissimi. Per molti l’unico modo di assaporare la sensazione di controllo è forzare i software, usarli senza pagare diritti d’autore, inoltrarsi in un mondo dove il rischio di divenire vittima di illeciti è molto elevato. Ma mentre si illudono di forzare il sistema, ne sono anch’essi vittime.

Torniamo però al tema dal quale siamo partiti, le videoconferenze e le lezioni a distanza. Questa possibilità sta rivoluzionando, oltre che le modalità, il concetto stesso dello stare assieme per un confronto costruttivo, avvenga esso attraverso una lezione, una riunione lavorativa o un corso di cucina o di yoga.

Le ripercussioni sociali ed emotive delle interazioni attraverso le call sono già state trattate in innumerevoli siti, programmi televisivi e libri (questi ultimi presto riempiranno intere sezioni nelle librerie), ma a monte c’è una questione sulla quale non ci si sofferma a riflettere mai abbastanza: siamo le prime generazioni alle quali il sapere non è più trasmesso attraverso i libri, ma molto più spesso attraverso i media.

Che seguano i quizzoni serali o i programmi di Paolo Mieli e Piero&Alberto Angela, i filmati su Youtube o i webinar su specifici argomenti, di fatto oggi i ragazzi – e non solo loro – costruiscono il personale zaino di conoscenze su mezzi che – per loro natura – sono strumenti di imbonimento. Questi devono offrire argomentazioni semplificate con soluzioni sommarie e soddisfacenti per il maggior numero possibile di utenti (come dicevo prima, chi li gestisce ci conosce meglio delle nostre mogli ed è contrario al divorzio mediatico).

In apparenza questi mezzi riversano su chi ne fa uso una valanga di nozioni e di idee, ad una velocità nemmeno lontanamente paragonabile a quella di un testo scritto. E alla fine lo “spettatore” o il “navigatore” ha anche l’impressione che quei concetti (e le scelte conseguenti) siano frutto della sua brillante intelligenza. Vedi l’esempio del telefono …

In realtà però quasi nessuno possiede gli strumenti per valutare criticamente quanto gli viene propinato. Anche se si oppone resistenza, cercando di diversificare le fonti e facendo la tara ai messaggi, prima o poi la comodità e la velocità di accesso all’informazione hanno la meglio.

Induce alla pigrizia anche l’impressione di volatilità estrema delle conoscenze affidate ad un supporto digitale dove nulla è fisicamente evidente, ma tutto è nel “cloud”. Una “nuvola di bit” verso cui, con i cambiamenti informatici (più che quelli climatici), si ha lo spiacevole presentimento che, presto o tardi, tutto evapori.

Ciò che si sta verificando oggi, tuttavia, fa emergere i limiti di questo modello comunicativo e informativo. L’uso massiccio imposto dalla pandemia fa sì che i nuovi media comincino a perdere una parte del loro fascino (come avviene di norma per tutto ciò che appare in qualche modo imposto) e mostrino la loro debolezza sul piano empatico. Quasi tutti, a causa di esigenze lavorative o scolastiche, siamo stati coinvolti con ruoli diversi in noiose lezioni o in interminabili riunioni in remoto. E ci siamo resi conto di quanto barbosi e infruttuosi siano questi momenti, anche quando sono gestiti con la massima abilità e destrezza. Sarà questione di farci l’abitudine, ma l’impressione oggi è che tutti i “connessi” non vedano l’ora di scollegarsi per bersi un caffè. È come assistere ad una rappresentazione teatrale in televisione anziché dal vivo.

Niente di peggio, poi, che illudersi che aumentando i contenuti si ottengano risultati pari a quelli di un incontro in classe o in ufficio: in realtà è la strada più diretta per stendere gli interlocutori. La comunicazione via web vuole semplificazioni, velocità, tempi da spot, pena l’indurre alla fuga o a farsi i cavoli propri di chi non è il momentaneo protagonista.

Forse è per questo che sta maturando una sempre maggiore cura del “dettaglio tecnico” della ripresa. Gli spazi nell’angolo visivo inquadrato dalla webcam appaiono organizzati secondo regole standard: una libreria colma di testi (probabilmente intonsi): una pianta e un oggetto che riconduca all’ambito familiare; i quadri, o in alternativa i primi capolavori del figlio di due anni. La ripresa è tassativamente ad altezza occhi, in favore di luce (quest’ultima non deve arrivare dal basso, per non evidenziare le borse sotto il bulbo, che dopo la quarta call di giornata sono diventate valigie). Ci stiamo mentalmente e inconsapevolmente adattando a dei modi e ad un mondo nuovi, guidati in tutto questo dal modello televisivo (i talk condotti attraverso il multischermo), che impone, oltre che le tecniche e le scenografie, anche la sua sostanziale inconsistenza: tante voci, poche o nessuna idea, scarsissima propensione ad ascoltare le argomentazioni altrui.

Ci abitueremo? È probabile. Ma checché se ne voglia dire, avverrà al prezzo di una ulteriore disumanizzazione. Non dobbiamo illuderci che una volta cessata l’emergenza (sempre che cessi) anche sul lavoro le cose torneranno come prima. Là dove è possibile le grandi aziende e le multinazionali stanno già riorganizzandone le modalità. Vuoi mettere, i risparmi che possono essere ottenuti riducendo i costi per gli spazi, le spese per gli spostamenti, gli sprechi per i tempi morti, azzerando gli incerti delle assenze per malattia e attivando una possibilità di controllo immediato e capillare sulle attività, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo esse si svolgano?

Se poi chi lavora in queste condizioni – senza quel valore aggiunto di piccole consuetudini, la pausa caffè, lo scambio di battute o persino di pettegolezzi, i tic dei colleghi o i gesti e le posture rivelatori dello stato d’animo degli interlocutori, tutte quelle cose insomma che scaricano o abbassano la tensione e “umanizzano” il tempo lavorativo – nel giro di pochi anni si ritrova spremuto come un limone, c’è fuori una massa di disoccupati che premono, pronta a subentrargli.

E anche per quei lavori, come il mio ad esempio, per i quali il contatto, la presenza e il rapporto fisico appaiono imprescindibili, questi ultimi verranno ridotti allo strettamente necessario. Le modalità on line che anche noi stiamo sperimentando in questo periodo, così come stanno facendo tutte le scuole, sono un rimedio momentaneo, ma intanto prefigurano possibili scenari per un futuro nemmeno tanto remoto.

Non si tratta di essere tragici o di scorgere dietro tutte queste trasformazioni oscuri complotti, quando poi in realtà i primi complottisti siamo noi, che delle nuove tecnologie non sappiamo fare a meno neppure (e direi soprattutto) quando sono inutili. Si tratta di essere realisti e pragmatici nel vedere questi cambiamenti anche come un’opportunità ,e di non cercare consolazione nelle possibili benefiche ricadute in termini di inquinamento ambientale: che indubbiamente potrebbero esserci, ma a fronte di un prezzo salatissimo sul piano della salute mentale.

Per farla breve, la riflessione su quanto davvero accade nel mondo del lavoro e della scuola (ma anche in tutta la quotidianità), al di là degli entusiasmi progressisti e delle paure conservatrici, dovrebbe avventurarsi un po’ più negli abissi del suo significato. Quel che sappiamo per certo è che i vaccini in arrivo salveranno, si spera, milioni di vite, ma non garantiranno il ritorno ad una accettabile qualità. Quella dovremo cercare di garantircela noi, azzittendo ad esempio ogni tanto la televisione, arrestando il sistema o spegnendo la videocamera, e uscendo per castagne.

Ma senza cellulare, mi raccomando.

Intanto basta scrivere, lancio un meet e continuiamo lì …

Collezione di licheni bottone

Se in un giorno di ordinaria epidemia Diderot e George Romero si incontrano ​in una villa abbandonata …

di Stefano Gandolfi, 22 novembre 2020

Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè.

Accidenti, Paolo. Che “sturm und drang” ho scatenato con una innocua passeggiata rigorosamente entro i confini del comune di Alessandria (vedi “Estetica delle macerie ed etica delle rovine“), studiata su carta escursionistica 1:25000 con accurata analisi dei limiti comunali per non rischiare multe da lock-down (guai ad entrare nei comuni di Pietramarazzi o Montecastello!), dopo aver escluso brutalmente tutti i territori a ovest-sud-est della città per tragica piattezza dei suddetti e aver trovato l’unica ancora di salvezza nei primi rilievi a nord, sopra Valle San Bartolomeo, gli arcinoti viottoli e sterrati nei pressi del maneggio e del ripetitore, battutissimi da pedoni, ciclisti e cavalieri, ancor di più in questi mesi nei quali il popolo italiano si è scoperto e inventato una vocazione allo sport outdoor! E dove si può provare l’ebbrezza di arrivare a ben 250 metri di altitudine sul livello del mare e di compiere, con opportune varianti, fino a 200-250 metri di dislivello. Perché come mi hai diagnosticato magistralmente, la mia indole di trekker d’alta quota mi porta in sofferenza dopo poche centinaia di metri piatti e orizzontali e il mio debito di ossigeno trova sollievo solo in quei minimi, insignificanti saliscendi che con molta e fervida fantasia mi trasportano sulle Alpi, sulle Ande, in Himalaya, beh, anche sul Tobbio, certamente!

Dunque, una semplice passeggiata, ma con sorpresa: i ruderi di Villa Garrone, ben nascosti nella fitta boscaglia che la circonda. Tu la hai già descritta con dovizia di particolari, quindi non mi dilungo su questi dettagli. Affascinante, misteriosa, inquietante quel tanto che basta da non desiderare più di tanto di essere lì di notte (ahh, mica per paura di presenze aliene e demoniache lovecraftiane, bensì molto più pragmaticamente per le possibili presenze umane che con ogni probabilità ne fanno sede periodica di raduni e consumo di sostanze terrene). Urbex: certo, anche passione e mania fotografica, da eterno ragazzino mai adulto quale sono mia nipote Fiorenza non ha faticato granché per contagiarmi con questa “insana” bizzarria, lei molto più avanti su questo terreno con incursioni in ville abbandonate, alberghi, terme, manicomi, edifici da archeologia industriale e tutto quanto è stato abbandonato dall’uomo. Quante ore a fantasticare con lei su una folle incursione a Prypiat, l’epicentro dell’esplosione di Chernobil (siamo poco normali? va bene, ce ne faremo una ragione!).

E poi comunque Poe, Lovecraft, Matheson, la cosiddetta letteratura di serie B sull’orrido, l’ultraterreno, sulle sudicie creature striscianti che riemergono dagli inferi, e anche G. Romero col primo mitico “Zombie” nel quale, con genio e intuizione a mio avviso insuperabile individuava in un ipermercato il fulcro dell’inizio della fine del genere umano, l’ultimo avamposto di una (inutile) resistenza con i segni già avanzati della rovina, del degrado, della marcescenza del contenuto consumistico ivi contenuto.

Sono partito col botto? Certo, anche perché nulla potrei aggiungere o discutere su quanto hai saggiamente esposto in merito alle macerie e alle rovine e quasi necessariamente (ma non forzatamente) devo iniziare da un punto di osservazione diverso, da buon fotografo devo fare un’inquadratura non banale e non scontata, e forse la chiave di lettura più utile al dibattito è quella relativa all’unico aspetto che forse non hai preso in considerazione, quello della natura.

La convivenza fra naturale e artificiale, il conflitto fra uomo e ambiente, lo scontro fra tecnologia e primordialità, l’inquinamento e la devastazione del pianeta in nome della scienza, del progresso e delle sorti magnifiche e progressive del genere umano, gli effetti collaterali terribili e forse irreversibili derivanti dai comportamenti dell’attuale dominatore del mondo (intendo l’uomo rispetto agli altri animali, non l’ex-presidente U.S.A.!), il negazionismo di Trump (eccolo) sui cambiamenti climatici, il menefreghismo della Cina e dell’India, l’ipocrisia di noi poveri e ininfluenti europei che taciamo sui 500.000 morti annui per cause da inquinamento e poi ci piangiamo addosso per i morti da COVID, legittimamente e inevitabilmente, beninteso: sono Medico, non eretico né negazionista, ho totale assoluta consapevolezza della attuale tragedia ed empatia umana per le vittime dirette e indirette, non voglio sottrarre nulla a tutto questo, semmai vorrei aggiungere anche altri problemi, altre cifre, altre criticità che spesso e deliberatamente vengono ignorate.

La natura, dunque. Certo. Ma anche l’uomo, perché no, solo declinato in qualche variante minoritaria, sconfitta, sparita dalla faccia della terra ma non per questo perdente. Sconfitta non dalle armi, ma dal raffreddore, dall’influenza, dalla sifilide a loro sconosciute e quindi senza alcuna difesa immunitaria, come successo agli Inca da parte dei civilizzatori cattolici spagnoli.

Cosa c’entra tutto questo con Villa Garrone? Ci arrivo subito.

Perù, tanti anni fa, ma potrebbe essere oggi. Cuzco, l’antica capitale incaica. Una strada, apparentemente secondaria, insignificante, un muro di un vecchio edificio, niente di rilevante, sembrerebbe. Poi te la fanno vedere. Una pietra con 12 angoli. Perfettamente incastrata, con perfetti angoli retti, e incernierata con altre 12 pietre, senza chiodi, viti, calce, cemento o quant’altro. 13 pietre squadrate a mano, con precisione millimetrica a sostenere da secoli il muro di una casa. Sopravvissuta a decine e decine di terremoti, mentre gli edifici costruiti dagli spagnoli e dai loro discendenti, regolarmente, ad ogni terremoto, crollavano.

Machu-Picchu, la capitale imperiale. Resti, certo, ma ancora perfettamente integri, solidi, neppure minimamente scalfiti dai terremoti. Archi e portali costruiti con una certa inclinazione e una certa angolatura che li mettevano al riparo dai sismi più apocalittici. Progettati dai loro ingegneri, apparentemente senza alcuna conoscenza scientifica, perlomeno quelle che intendiamo noi oggi.

Ti sembro forse in contraddizione con l’assioma (ovvio, viste le premesse che ho fatto) che la natura è dannatamente superiore all’uomo in ogni sua manifestazione? No, voglio solo dire che l’uomo ha saputo costruire meraviglie e con sistemi meravigliosi, che resistono nel tempo, non immortali ma sicuramente molto longeve. Ma gli uomini che hanno saputo fare questi prodigi, sono stati sconfitti, annientati, annichiliti da altri uomini che non sanno (quasi mai) costruire case antisismiche e che disprezzano completamente il rapporto con la natura.

E sono gli uomini che attualmente hanno il dominio sociale, economico, politico, militare sul mondo. E che abbandonano i loro manufatti alla rovina. A Machu-Picchu e a Cuzco non ho mai avuto un’estasi della rovina e del declino della civiltà umana, ma sempre e solo grande ammirazione per queste civiltà passate. A Villa Garrone tocco con mano il degrado, il declino, l’incuria della nostra civiltà. Non so che farci, sicuramente non sono oggettivo e parto prevenuto, ma questa civiltà della quale volenti o nolenti facciamo parte non mi sta simpatica; troppo arrogante, troppo presuntuosa, troppo convinta che l’armamentario scientifico, tecnologico che possiede e mette in campo sia superiore ad ogni legge della natura, che possa dominarla, modificarla a proprio piacimento senza preoccuparsi delle conseguenze e dei danni che invece provoca, senza peraltro nemmeno ottenere quei risultati millantati, visto che la durata media di tutte le moderne costruzioni umane è ridicolmente inferiore a quella delle costruzioni dei nostri antenati, a ogni latitudine e longitudine.

La povera Villa Garrone è probabilmente una vittima innocente di questi mie strali, ma come tanti altri edifici analoghi diventa per me simbolo di un modo di essere, di vivere, nel quale non si dà più valore a nulla, tutto diventa superfluo, obsoleto, sostituibile, perde valore con noncuranza e perde anche quel senso di legame emotivo, psicologico con gli affetti, con le persone, con le vite stesse che sono state vissute a contatto con questi manufatti.

Tutto può essere ricostruito con facilità senza minimamente preoccuparsi del significato economico, materiale ma anche e soprattutto psicologico del passato, recente o remoto che sia. Si distrugge tutto con voluttà, con violenza, per speculazione, per guadagno, per ingordigia, per costruire oleodotti, autostrade, ferrovie, aeroporti, centri commerciali (George Romero!!!!), tutte cose che a loro volta potranno tranquillamente essere demolite per qualcos’altro. Incessantemente. Si costruisce qualunque cosa e nulla di ciò che si costruisce ha alcun riferimento, contatto, compatibilità, plausibilità di avere un rapporto con l’ambiente in cui viene edificato: e questa estraneità, non appena viene a mancare uno qualunque dei motivi per cui ha senso che rimanga funzionante, fa sì che con grande velocità vada in rovina. Un impianto sciistico dove non nevica più, una miniera da cui non conviene più estrarre minerali o carbone, un albergo dove il turismo è scomparso, un ipermercato non più frequentato perché ne hanno costruito uno nuovo a mezzo chilometro di distanza, un grattacielo perché pericolante, una piscina, un palazzetto dello sport, un cinema, un teatro, un ospedale senza soldi per assumere e pagare i dipendenti, un ecomostro in riva al mare, e potrei continuare a lungo.

E la natura, o ciò che resta di essa, se lo riprende con altrettanta velocità. Lo ingloba, lo fagocita, lo assorbe completamente in spire di vegetazione, di boscaglia che si trasforma in foresta inestricabile. E si prende la sua rivincita. Una vittoria di Pirro, senza dubbio, ma come gli anglosassoni ci hanno insegnato, ci sono anche delle sconfitte gloriose, che danno senso all’inutilità (Mallory e la “conquista” dell’Everest…).

Provo simpatia per questa natura che, non appena l’uomo manda in malora qualcosa, se lo riprende. Ammiro la velocità e l’efficienza con cui lo fa, così come gli enzimi della digestione degradano il bolo alimentare. Rimango affascinato dalla trasformazione di una entità materiale in qualcosa di completamente diverso rispetto alla sua funzione originaria, al suo scopo, alla sua utilità.

Mentre mi aggiro circospetto e con cautela sui pavimenti e sulle macerie di Villa Garrone la mia fantasia vola a immaginare cosa sarà fra dieci, fra cinquanta, fra mille anni. Non provo malinconia, semmai una sorta di eccitazione all’idea della trasformazione, del divenire, del ritorno all’entropia dell’universo, allo sbriciolamento di ogni pezzo di pietra, di legno, di cemento, dei travi, degli infissi, dei vetri, dei cavi elettrici, e al pensiero di come tutto ciò rientrerà a far parte del ciclo degli elementi primordiali della natura, molecole, particelle organiche e inorganiche, atomi. E cosa, a loro volta, diventeranno e di quale organismo vivente faranno parte fra secoli e millenni.

Sono un rinnegato? Disprezzo il genere umano del quale faccio parte? Parteggio acriticamente per la natura vedendo in essa qualcosa di benigno mentre invece sa essere spietata e crudele come e più dell’uomo? No, certo. Però la durezza della natura non è voluta, non è sadica, non è criminale. È e basta, per motivi che a noi sono e devono essere sconosciuti o che forse non esistono nemmeno, è solo il corso delle cose. Distrugge e ricostruisce, con una logica e un’armonia inconcepibile. I più grandi capolavori della natura, i vulcani, le dorsali oceaniche, le montagne che tanto amiamo, sono espressione della mostruosa forza distruttrice e ricostruttiva, quando ammiriamo le forme aggraziate, poetiche, idilliache delle Dolomiti in realtà vediamo semplicemente l’erosione, la fatale inevitabile loro dissoluzione e scomparsa, ma ne rimaniamo affascinati e non proviamo certo angoscia né struggimento, perlomeno io! Quando ho visto da vicino l’Everest e gli altri ottomila himalayani ero ben consapevole di vedere il risultato di eventi geologici di tale potenza da non poter essere compresi dalla mente umana, seppure conosciuti e spiegati dalla scienza. Il ghiacciaio del Perito Moreno che si sgretolava, cadeva nel mare con blocchi delle dimensioni di grattacieli o di portaerei non mi ha intristito né reso malinconico, se non eventualmente per quanto ci sia di intervento umano nel determinare o accentuare il corso degli eventi, i cambiamenti climatici in primis. Ma questi fenomeni di per sé non mi creano angoscia. Panta rei.

No, non rinnego il genere umano e le sue opere, semmai questo tipo di umanità che ha preso il sopravvento, questo pensiero unico del profitto, del guadagno, il Dio crescita, il “potere distruttivo del capitalismo” (sic!), gli effetti collaterali ritenuti indispensabili per il benessere economico, salvo poi cercare maldestramente di correre ai ripari per i danni sulla salute, a curare il cancro, la leucemia, le patologie cardiovascolari, respiratorie e metaboliche da benessere, a giocare a guardie e ladri con la natura, a fare dei danni e poi “guardate come siamo bravi” a trovare dei rimedi che a loro volta, con un perfetto circolo vizioso, creano altri danni che richiedono ulteriori invenzioni per contrastarli; ma intanto l’economia gira, si creano i nuovi vaccini, si aspetterà la prossima epidemia per scoprire nuovamente che i comportamenti umani sono deleteri e dannosi (lasciamo stare le teorie complottiste: fin dal primo giorno dell’ epidemia continuo a sostenere che non è necessario pensare che qualcuno deliberatamente abbia creato tutto questo, è più che sufficiente la situazione ambientale, sociale di certe parti del mondo, l’antropizzazione, la promiscuità con altre specie animali in una elevatissima densità di popolazione, leggersi “Spillover” di d. Quammen che dovrebbe diventare libro di testo in tutte le scuole).

Potrei fare anch’io molte citazioni, mi limito a Tiziano Terzani e al suo struggimento per la devastante perdita di tutte le culture asiatiche spazzate via dal capitalismo e dal consumismo occidentale (aveva già capito tutto, la morte prematura perlomeno gli ha evitato l’amara consapevolezza di aver visto giusto). Questa Cina che coniuga il peggio del capitalismo ed il peggio del comunismo!, scartando come immondizia il suo immenso patrimonio culturale e quel poco che ci può essere di positivo nella civiltà occidentale, in termini di democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti umani (ma che pena: l’Unione Europea non riesce nemmeno a farli rispettare all’Ungheria e alla Polonia, poi ci si indignava perché un po’ di anni fa il sindaco di Milano di allora aveva rifiutato la cittadinanza onoraria al Dalai Lama perché non faceva piacere al governo cinese!).

Non ne faccio una questione politica, sarebbe riduttivo, tu sai come la penso in merito, che si tratti di una posizione assolutamente trasversale che ha a che fare solo con il buon senso e con la lungimiranza del giocatore di scacchi che riesce a vedere non solo la mossa successiva, ma anche la successione di eventi fino alla sesta, settima, ottava mossa…

Certo, Villa Garrone c’azzecca poco con tutto questo sproloquio, sono sicuro che sia stata costruita con tutta la perizia, la competenza, le conoscenze del caso, con l’aspettativa di poter durare il più a lungo possibile, che potesse essere vissuta e abitata dalle generazioni successive, e mi immagino il dolore degli ultimi abitanti nell’essere costretti ad abbandonarla perché magari ne è rimasto uno solo vecchio, acciaccato e magari senza più la possibilità economica di mantenerla. Forse qualche erede esisteva pure, ma non gli interessava più perché ormai viveva in un edificio moderno e confortevole. Chi lo sa. Ma non è questo il punto.

Certo, sono affascinato da queste visioni, inquietato, stupito, ma non intristito, non provo nessuna malinconia. Vedo il corso degli eventi, il fluire del tempo, provo sollievo, come quando sono in cima a una montagna, per la consapevolezza della relatività di tutto ciò che sta sotto, della piccolezza e della precarietà della condizione umana, ma in un modo positivo, perché mi aiuta a ridimensionare e a dare la giusta dimensione e importanza alla sofferenza, al dolore, all’angoscia che sempre di più permeano l’esistenza nei pochi decenni di vita che ci vengono concessi. Penso con serenità alla transitorietà della vita, non perché la disprezzo, tutt’altro: perché la amo immensamente e voglio viverla il più intensamente possibile, ma sempre con la consapevolezza che in qualsiasi momento, qualsiasi evento può annichilire tutto. Non disprezzo quanto vi è di positivo nella scienza, sono ben contento che qualcuno mi abbia tolto il tumore dandomi un bel po’ di anni di aspettativa di vita, ma sono sempre più convinto che mi ritroverò addosso qualche altra rogna, anche peggiore, come “regalino” ed effetto collaterale di questa tecnologia alla quale siamo indissolubilmente legati e costretti ad accettare per sopravvivere.

Tornare all’età della pietra? a vivere in caverne con candele di cera o con un fuoco da mantenere sempre acceso per tenere lontane le bestie feroci? Ovvio che no. Pensare a una via di mezzo? Semplicistico, ma forse inevitabile. Smettere di chiamare Greta Thunberg “gretina”? potrebbe essere un piccolo, insignificante primo passo per l’uomo… riuscire a conciliare la necessità di sviluppo, di crescita economica, di benessere, di garantire lavoro e reddito a tutti con l’esigenza di garantire anche la salute? Non essere costretti a dare con una mano (il benessere materiale) e togliere con l’altra (il benessere fisico e mentale)? Utopistico. Forse… ma se diventasse inevitabile? Comincio a rompermi le scatole di tutti quelli che di fronte ad un discorso del genere lo troncano subito (anzi lo stroncano) con la famosa domanda retorica: “meglio morire di fame o di cancro?”. Perché il cancro si può sconfiggere, dicono. Non sempre e comunque non a costo zero (ne so qualcosa). E allora anche la fame si potrebbe sconfiggere, forse a costi minori se lo si fa con lungimiranza.

In definitiva vado a vedere e fotografare questi edifici, queste rovine, queste macerie semplicemente perché mi affascinano e le ritengo un buon soggetto fotografico, con una loro dignità artistica ed emotiva. Gli altri mille motivi per cui lo faccio li hai descritti magistralmente tu, mi identifico sicuramente in molte delle tue analisi. Ho ancora la curiosità per lo strano, l’imprevedibile, il disordinato, l’anomalo… e questo mi conforta perché la neurobiologia dice che possederla significa ancora essere giovani da un punto di vista biologico! Guardo avanti, e le rovine e le macerie del passato per qualche strano motivo mi stimolano ad un’immagine ottimistica del futuro.

Amo sempre di più la natura con tutte le sue possenti, maestose manifestazioni. Vorrei fotografare le eruzioni vulcaniche, i tornado, le tempeste, non per il gusto del catastrofico né per sentirmi onnipotente e sfidare la sorte (non ne ho più l’età da tempo!), ma solo per il fascino che provo di fronte ad eventi inconsapevoli, casuali, non voluti né creati, senza nessuna volontà di violenza, di crudeltà, di sopraffazione, di istinto sadico ed omicida. Forse per contrapposizione al fatto che nelle azioni umane tutti questi elementi sono ben presenti se non predominanti.

E allora ben venga la boscaglia che fra alcuni decenni avrà completamente fagocitato Villa Garrone. Se ci saremo ancora ne andremo a cercare qualcun’altra. Ma tu, per favore, non puoi venirci e farti fotografare in tuta da ginnastica, mi togli tutto il pathos alla scenografia ed alle suggestioni del luogo! Impara da tua figlia Elisa, perfetta modella chiaro-scura che emergeva tenuamente nei pochi raggi di sole filtranti fra le rovine, nel suo perfetto out-fit all-black! 

Naturalmente

di Marco Moraschi, 12 novembre 2020

C’è un aspetto importante che questa pandemia ha fatto riaffiorare, ma che tuttavia non mi sembra sia stato ancora analizzato. Il coronavirus è la prima vera emergenza, non causata dall’uomo, a riguardare l’umanità intera da almeno 50 anni a questa parte. Per quanto mi riguarda, è la prima emergenza mondiale della mia vita. Credo che il disorientamento che molti di noi provano di fronte a questa situazione inedita sia dovuto al fatto che per la prima volta nelle nostre vite avvertiamo la Natura come Matrigna. L’immagine della Natura a cui siamo abituati è quella che vediamo nei documentari: paesaggi incredibili che destano invidia e stupore per un paradiso perduto, divelto dalla mano artificiale dell’uomo. Ovunque nelle pubblicità continuiamo a sentire il richiamo del naturale come qualcosa di incredibilmente attraente, che si contrappone a ciò che è invece artificiale, industriale, umano. Vogliamo cibo biologico ritenendolo più sano e sicuro di quell’altro (non saprei neanche come definirlo), ci facciamo i selfie in montagna per mostrare quanto amiamo l’ambiente selvaggio, lanciamo hashtags sui social per difendere l’orso polare che sta perdendo il suo habitat naturale nel pack artico.

Per noi la Natura è madre, è Madre Natura, una divinità buona e antica, la più antica di tutte, ritornata poi sotto altre vesti in Dio Creatore, buono e misericordioso, che ha creato la nostra bella Terra, l’Eden, paradiso naturale andato perduto per colpa dell’uomo. Le nostre remore di fronte a questo virus, e probabilmente il motivo per cui molti ne sono negazionisti, da chi sostiene che non esista a chi ritiene che sia stato creato in laboratorio, derivano credo tutte da quest’unica convinzione: la Natura non può allo stesso tempo essere Madre e aver creato un virus letale, dev’esserci sicuramente lo zampino dell’uomo. Il conflitto risulta ancora più evidente se anziché alla Madre, si pensa al Padre: come può Dio Padre, buono e misericordioso, che si prende cura dei suoi figli, aver creato quest’abominio? La risposta, a mio avviso, è ovviamente che Dio Padre non esiste, ma lascio i conflitti teologici a chi ha più tempo da perdere di me.

Non siamo mai stati così tanto amanti della natura come da quando ci siamo allontanati parecchio da essa, riparandoci al sicuro delle nostre case con riscaldamento, acqua potabile ed elettricità. Se vivessimo la natura da animali tra gli animali, in una savana piena di insidie e pericoli, ne saremmo terrorizzati. Nessun antibiotico a proteggerci dai batteri patogeni, nessuna protezione dalle intemperie, nessun aiuto da macchine artificiali che ci risparmierebbero la fatica. Così al sicuro nella modernità, chiusi nella nostra comoda bolla tecnologica, ci concediamo il lusso di disprezzare tutto ciò che l’uomo ha creato, credendo che un ritorno alle origini possa portare giovamento alle vite di tutti. Attenzione però, qui non si sta sostenendo che la Natura sia matrigna anziché madre. Il punto della riflessione è che l’aver considerato la Natura come Madre ci ha condotto in errore, così come lo farebbe il considerarla Matrigna. Questi appellativi sono infatti totalmente inadatti alla Natura (da qui in avanti lo scriverò con la n minuscola perché non amo gli assoluti): la natura non è né madre né matrigna, non è né logica né sensata, tutti giudizi che rientrano in sistemi di misura totalmente umani e inadatti a descrivere l’universo. La natura, la vita, l’universo non hanno senso perché il senso è una proprietà delle frasi del linguaggio, ed è un concetto che non ha senso (gulp) applicare altrove. La natura non ha naturalmente una propria coscienza e non può quindi essere buona, bella o cattiva: è semplicemente indifferente. Per la prima volta capiamo che la vita dell’uomo, nell’universo, è trattata alla pari delle altre specie viventi: il leone uccide e mangia la gazzella, i virus intaccano l’uomo e lo uccidono. L’uomo non ha nulla di speciale, è un essere vivente come tanti e in mezzo a tanti. La natura non ce l’ha con lui e non lo protegge: gli è semplicemente indifferente, indifferente alle sue vicissitudini quotidiane. Quali insegnamenti o considerazioni si possano trarre da tutto ciò lo lascio a voi, per il momento ci accontentiamo di questa riscoperta: siamo soli e proprio questo dovrebbe essere sufficiente a renderci conto che nella maggior parte dei casi siamo padroni di noi stessi. La scienza, la tecnologia, sono creazioni umane: ciò per cui vorremo usarle determinerà probabilmente il nostro destino. Il Covid verrà sconfitto grazie alle scoperte e alle tecnologie umane: sì, quelle artificiali.

Echi dal passato

di Marco Moraschi, 5 novembre 2020

Eccomi. Manco da molto tempo su queste pagine, ma da quando ho terminato la mia vita da studente non ho ancora imparato a gestire in maniera ordinata il tempo a disposizione. Mi perdonerete se ci siamo lasciati in pieno lockdown con determinati argomenti e riprendo ora a scrivere con gli stessi argomenti di qualche mese fa. Il fatto è che questi mesi di libertà vigilata mi hanno dato la possibilità di riflettere su ciò che leggevo e scrivevo allora e di poter quindi tirare le somme di quanto abbiamo visto. Si sentano in particolar modo chiamati in causa tutti i Viandanti delle Nebbie, in quanto sono andato a rileggere le loro riflessioni dalla Quarantena per vedere un po’ che effetto fa analizzarle a distanza di qualche mese e in prossimità di un nuovo lockdown. Direi che per non perdere le buone abitudini queste riflessioni debbano necessariamente essere strutturate per punti come in precedenza. Non perdiamo quindi tempo.

1. L’impressione che i più avevano a marzo della nostra classe politica era che nonostante nessuno avrebbe dato loro alcun credito prima della pandemia, siano invece apparsi più brillanti di quanto non sembrassero, prendendo provvedimenti unici “a memoria d’uomo”. La verità è che naturalmente la nostra visione era offuscata dalla condensa del respiro sugli occhiali quando si tiene la mascherina: ci siamo auto convinti che data l’eccezionalità e la difficoltà della situazione qualunque decisione fosse adeguata, purché non fossimo noi a prenderla. Nessuno sano di mente vorrebbe infatti ritrovarsi nei panni del Presidente del Consiglio a gestire una pandemia. Dobbiamo molto probabilmente aver pensato che qualunque errore fosse perdonabile, perché la situazione era del tutto inedita e fosse quindi molto più comodo che a decidere come comportarci fosse qualcun altro. Ci rendiamo ora conto di quanto impreparata sia quest’accozzaglia al governo e non: la seconda ondata è infatti caratterizzata proprio dal fatto che non è la prima e quindi ci si aspetterebbe di aver fatto tesoro dell’esperienza dei mesi passati. La politica si mostra invece nelle stesse doti di prima: decisioni raffazzonate prese da un giorno all’altro (la domenica sera per il lunedì mattina) senza alcun piano alle spalle che indichi come procedere se non a tentoni.

2. Dobbiamo però essere sinceri perché come al solito quando ci lamentiamo del governo non ci rendiamo conto che quasi sempre è lo specchio del paese che governa. E infatti non solo il governo è arrivato impreparato alla seconda ondata, ma in ogni ambito, dal pubblico al privato, vediamo una mancanza di organizzazione francamente demoralizzante. Sembra quasi che i mesi primaverili non siano esistiti. Spero che queste nostre lacune siano dovute al fatto che la storia non la conosciamo o ce la dimentichiamo velocemente, piuttosto che alla nostra ferma volontà di ignorarne deliberatamente gli insegnamenti.

3. Sognavamo di uscire dal lockdown e risvegliarci in un mondo migliore di come lo avevamo lasciato. La verità è che, come qualcuno aveva predetto (non io), nulla è cambiato e anzi la situazione sembra quasi peggiore di prima. Il lockdown ci ha insegnato che il mondo è dei furbi: di chi non rispettava le regole e veniva multato e ha poi fatto ricorso vincendolo, di chi non ha fatto il tampone per non rischiare di essere “bloccato” in casa, di chi se n’è fregato della vita di migliaia di persone e non ha quasi visto crollare i propri consensi (leggi alla voce Trump), di chi ha compreso che lo scaricabarile funziona tanto meglio se in corso c’è una pandemia. Viviamo nell’epoca della non responsabilità: tutti parlano, pochi decidono, nessuno ne ha colpa.

4. Su una cosa ci avevamo azzeccato: il mondo non è finito. Non era ovviamente una previsione così difficile da indovinare. Per il momento non siamo sprofondati nell’anarchia e forse è un peccato: a volte dalle ceneri nascono freschi germogli.

5. Questa situazione inedita mi sta facendo però rendere conto che sono cambiato: inizio a comprendere molto di più quanto avevano da insegnarmi le persone con più anni ed esperienza di me. Per la verità le ho sempre ascoltate con grande interesse, spesso perché ne condividevo di più le idee rispetto a tanti altri ragazzi coetanei. Qualcuno si spingerebbe fino al punto di dirmi che sono nato vecchio: arriverà finalmente il giorno in cui la mia età esterna coinciderà con quella interna, vi aspetto lì. A ogni modo mi rendo conto che fino a non molto tempo fa pensavo che non esistesse compromesso per un ideale: ogni cosa in cui crediamo ritenevo dovesse essere difesa senza se e senza ma. Ma mano a mano che vado avanti mi rendo conto che cercare di cambiare il mondo è una battaglia contro i mulini a vento: inutile, estenuante e con poche soddisfazioni. Il problema nasce dal fatto che non mi sono ancora rassegnato a rinunciare a cambiarlo e mi trovo quindi in una sorta di impasse da cui fatico a uscire: mi sento troppo giovane per rinunciare senza lottare a ciò in cui credo, ma non più così tanto da sperare di ottenerne grossi risultati. La mia unica certezza è che non sono disposto a “cambiare me stesso” come i saggi mormorano negli aforismi. Il compromesso a cui posso scendere è di non prendermi impegni a tempo pieno: perfino Dio si è riposato, non vedo perché non possa concedermi anche io altrettanto. Per stasera è tutto, a cambiare il mondo ci penserò domani.