di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022
Tag: Norvegia
Mai oramai, ma ora!
di Fabrizio Rinaldi, 10 luglio 2021
Si girò e, deciso, s’incamminò verso casa. Non sapeva cosa era successo ma di qualunque cosa si trattasse sapeva di avere ormai speranza e che quel che era stato poteva tornare a essere.
Hubert Selby Jr., Canto della neve silenziosa, Feltrinelli 1994
Nel suo ultimo libro “Il calamaro gigante” , Fabio Genovesi definisce l’avverbio “oramai” come “assassino” perché “non passa mai di moda, e ora come allora serve a non partire, non fare, non provare mai a cambiare le cose intorno a noi. È una parola corta, ma basta a riempire una vita di scontento, giorno dopo giorno, fino all’ultimo, raccontandoci che per essere felici è troppo tardi, ormai”.
Questa parolina contradditoria, nata dall’unione di un avverbio indicante il tempo presente (ora) e della sua negazione (mai), stronca ogni velleità di immaginare un mutamento. È vero che la si può usare anche nell’accezione positiva (“oramai hai vinto”, “ormai è fatta”), ma non ha eguale peso, è meno efficace.
La usiamo invece un po’ troppo spesso per negarci la possibilità di provare strade apparentemente precluse, di azzardare soluzioni alternative, di scavallare i muri che noi stessi ci costruiamo attorno. Insomma, di tentare, quando ci rimane solo quello.
Eppure il nostro istinto di homo ci indurrebbe al cambiamento, ad evolvere per migliorare le nostre e le altrui condizioni. Questa spinta è però riferibile soprattutto alle situazioni economiche e lavorative: su altri aspetti, come quelli sentimentali e relazionali (famiglia, affetti e amicizie), siamo molto meno inclini all’innovazione, tendiamo a considerarli immodificabili. Perché più delicati, ma anche – e forse principalmente – per non rischiare di scompaginare ciò che oggi conta di più: il ruolo lavorativo, la sicurezza e la pace sociale che ne derivano.
E allora tiriamo avanti così, fingendo di viaggiare verso un mondo più equo, social, solidale, bio, eco, rincorrendo insomma tutti i suffissi di moda oggi, ma in realtà usiamo queste parole per illuderci di credere ancora in un fantomatico progredire, per non guardare negli occhi il mostro marino che con i suoi tentacoli ci avvolge e ci trascina nell’abisso dei nostri convincimenti. “E naufragar m’è dolce in questo mare”, direbbe Leopardi. Tanto, “oramai”, cosa possiamo farci?
Da un lato sta dunque l’apparentemente quieta superficie delle “certezze” che diamo per acquisite; ma dall’altro c’è il nostro personale Pequod, la nostra irrequietezza, con le vele spiegate in direzione del cambiamento e gonfiate dal vento che spira da una società sempre più “liquida”, che i vecchi convincimenti se li lascia alle spalle.
Non so se a scuotere la nave delle nostre certezze sarà la caccia a Moby Dick, la scelta di salpare, o saranno i tentacoli di Kraken (il calamaro gigante), la resa all’“oramai”; ma certamente prima o poi i conti con le creature dell’abisso toccherà farli. È bene quindi essere sempre preparati al momento in cui comparirà un’ombra oscura sotto la chiglia del nostro Pequod.
Cosa significhi essere preparati lo testimonia la vicenda di Francesco Negri, un placido curato quarantenne della Ravenna del Seicento. La sua avventura è ricordata anche nel libro di Genovesi, portata ad esempio di come si può non accettare l’“oramai” imposto dal comune sentire. Negri avrebbe potuto continuare a crogiolarsi nelle sue sicurezze perseguendo una carriera ecclesiastica già ben avviata: preferì invece non affogare in quella palude di consuetudini per incamminarsi in un viaggio ai confini del mondo, incurante di chi lo sconsigliava ritenendolo “oramai” troppo vecchio per un’esplorazione che lo avrebbe portato in terre ignote e inospitali e dava per certo che non sarebbe sopravvissuto.
Mentre la moda dell’epoca celebrava e favoriva i viaggi nel medio e nell’estremo oriente, lui divenne il primo esploratore a spingersi fino all’estremo nord dell’Europa mosso semplicemente dalla sete di conoscenza e di ignoto.
Impiegò tre lunghi anni (dal 1663 al 1666) per risalire tutto il continente e raggiungere Capo Nord, e durante il viaggio raccolse dati inediti su quelle terre estreme, la Svezia, la Norvegia e la Lapponia, dove “nessun frutto vi può rendere per l’estremo freddo al testimonio de’ scrittori; e pure vi si sostenta il genere umano. Non si trova altra terra abitata, che si sappia, sotto il suo parallelo, e la zona glaciale artica è totalmente ignota. Dunque è forza che quel paese abbia qualità agli altri non comuni, ma singolari; dunque sarà la più curiosa parte del mondo per osservarsi”.
Nel suo peregrinare imparò dai locali lo sci di fondo e sicuramente fu il primo italiano a praticarlo: “Hanno due tavolette sottili, che non eccedono in larghezza il piede, ma lunghe otto o nove palmi, con la punta alquanto rilevata per non intaccar nella neve. Nel mezzo di esse sono alcune funicelle, con le quali se le assettano bene una ad un piede e l’altra a l’altro, tenendo poi un bastone alla mano, conficcato in una rotella di legno all’estremità, perchè non fóri la neve; ovvero anche senza tal bastone camminano sopra la neve, in tempo che non è agghiacciata, nè atta a sostentar un uomo”. Naturalmente, trattandosi di un viaggiatore atipico, la sua relazione non suscitò alcuna attenzione, tanto che fino alla fine dell’Ottocento in Italia nessuno praticò lo sci, neppure sulle Alpi.
Usava il latino come lingua franca con i pastori protestanti che presidiavano il lontano territorio, e questi divenivano suoi mediatori con le popolazioni locali. A differenza di altri “turisti dell’esplorazione” venuti dopo, aveva grande considerazione del popolo Sami, delle sue pratiche quotidiane e religiose. Annotava ogni particolare, insieme alle storie, alle leggende e alle minuziose descrizioni di animali artici. Aveva poi un approccio molto pragmatico rispetto all’evangelizzazione dei Sami: liquidava le pratiche sciamaniche come marginali e sottolineava invece la spontanea generosità di quel popolo.
Una volta rientrato a Ravenna si dedicò ad una puntigliosa revisione dei dati raccolti nel suo peregrinare parlando con pescatori, contadini e curati di quella parte del continente ancora in gran parte inesplorata, a verificare la correttezza dei dati e l’attendibilità delle fonti. Tre anni di viaggio e trent’anni per ponderare e redigere il volume “Viaggio settentrionale”, che non fece neppure in tempo a veder pubblicato, poiché morì nel 1698. Gli eredi riuscirono a stamparlo solamente nel 1700.
La cura dei testi durata per ben tre decenni ci fa immaginare quanto abbia voluto tornare sugli anni della sua peregrinazione, rivivendo almeno in parte le emozioni provate. Ciò gli permetteva probabilmente di sopportare la monotona quotidianità della vita di curato di campagna, intento a recitar messa, assolvere i peccatori da atti e pensieri impuri e predicare i sacramenti. La sua era stata decisamente un’ottima soluzione per sottrarsi all’“oramai”. Aveva dato sfogo alla sua natura più intima, che così descriveva: “Mi stimolò sempre sin da’ primi anni il genio curioso, inseritomi dalla natura, a far qualche gran viaggio per osservar le varietà di questo bel mondo; mi s’accrebbe poi col tempo questo desiderio”. Dopo, non c’era tempo per i rimpianti, doveva sistemare i dati raccolti.
Negri è un esempio di come si possa reagire ad una vita di comode certezze per intraprendere un viaggio dall’esito incerto, ma che faccia rivivere le emozioni provate in gioventù o viverle per la prima volta in assoluto. In fondo tutti invidiamo i bambini, non tanto per la loro giovinezza, ma per la gioia e la paura che vediamo nei loro occhi quando provano qualcosa di nuovo; che sia reggersi dritti in piedi, le prime simpatie, i sapori dei cibi, gli esami scolastici o le paure di cadere. Mi piace immaginare gli occhi di Negri come quelli di un bambino, spalancati su sempre nuove meraviglie.
Arrivato alla soglia dei cinquant’anni, posso affermare di essermi costruito la mia (credo) solida Pequod che naviga su un oceano tranquillo, fatto di famiglia, amici, lavoro e certezze. Al momento non vedo l’ombra oscura sotto la chiglia: ma temo comincino ad aggrapparsi ad essa alcuni tentacoli degli “oramai”, riferiti a ciò che non ho fatto, provato e visto. Dovrò premunirmi per tempo, per abbozzare almeno una risposta adeguata, prima che mi ghermiscano. Levigare l’arpione e controllare le vele per tentare una fuga, quando il Kraken mostrerà il suo occhio ammaliante.
Gli ’“oramai” infatti si avvinghiano silenziosi al corpo e alla mente per neutralizzare ogni pulsione a uscire dal consueto, dalle abitudini lavorative, comportamentali e sentimentali, per convincerti che è troppo tardi per nuove scelte. Suggeriscono la rassegnazione.
Non sto dicendo che si debba invece correre dietro ad ogni nostro sogno: nella vita occorre anche essere realisti, consapevoli delle nostre reali capacità, sapendo apprezzare quel che la stessa ci ha già dato, senza stare sempre sul piede di partenza per una prossima tappa. In caso contrario si va incontro ad una insoddisfazione perenne e davvero infantile. Ma nemmeno credo che sia tranquillamente praticabile la via della rassegnazione. Non è nella natura della nostra specie sentirsi appagata: e allora il problema sta semmai nel capire a cosa realisticamente aspira: e una volta che lo ha capito, non rinunciare a coltivare quel sogno. Questo implica necessariamente la messa in discussione delle certezze già raggiunte, che non significa buttare all’aria tutto, ma nemmeno permettere a ciò che ci circonda di diventare un vincolo paralizzante. In fondo, solo il mutamento ci aiuta a progredire nella conoscenza dei nostri limiti, e a volte è necessario intraprendere una strada differente anche solo per constatare che non porta da nessuna parte. Perlomeno vivremo, dopo, senza quel rimpianto.
Se invece ci lasciamo avvolgere dai tentacoli dell’“oramai”, di rimpianti ne accumuleremo un sacco. Scegliere è esplorare, per non arrivare alla fine della vita recriminando su tutte le occasioni che ci siamo negati.
Di rammarichi ce ne sono di infiniti esempi. Mi concedo di ignorare i viaggi evaporati, le carriere lavorative o politiche gettate alle ortiche, le mancate avventure sportive e persino culturali, ma non si può non dar voce al principe degli “oramai”: quello verso gli amori impossibili. Ogni tanto – ad ognuno, anche chi lo nega – il vento comincia a soffiare verso di essi, ma l’abbraccio della quotidianità costringe alla bonaccia. Che sia giusto o sbagliato rimanere fra i tentacoli non sta a me dirlo (anche perché rischierei il ben servito …), ma alcune constatazioni si possono azzardare.
Nell’epoca della precarietà lavorativa, dei costanti mutamenti di idee, convinzioni, ideologie e credi, restiamo ancorati ad un modello di rapporto sentimentale monogamo, figlio di secoli di letteratura romantica e decenni di televisione sdolcinata. Probabilmente è una contraddizione. Rischiando il linciaggio, affermo un’idea non originale: l’amore è il sentimento più sopravvalutato, a discapito di altri più fedeli e liberi (amicizia). I tentacoli della consuetudine, anziché trattenerci, potrebbero spingerci lontano dalla bonaccia, verso gli amori irrealizzati, ma poi sapremmo davvero compiacerci di aver raggiunto l’agognata “meta” o avremmo il rammarico di aver svelato ciò che è bene che resti nei nostri più intimi pensieri, al fine di preservarne l’illusoria speranza? Per non rischiare, ancora una volta di ripete anche qui l’ennesimo “oramai”.
Un “oramai” che non accetto riguarda la possibilità di assistere a ciò che Francesco Negri ha descritto, senza peraltro riuscire a dargli un nome: “Un’altro effetto ho veduto, che è ordinario in questa zona glaciale, e non l’ho mai veduto, nè inteso esser seguito al mio tempo in Italia; e qui si vede la notte serena l’inverno, e in varie figure. Una volta io vidi come una lunga nuvola, che cominciava a tre gradi in circa sopra l’orizzonte, e ascendendo al zenit, o punto verticale, andava a terminare all’altra parte, quasi in altrettanta lunghezza. Era così chiara e trasparente, che rendeva qualche poco di lume fino a terra: si piegava in tante forme, ora di arco, ora di corona, ora di serpe e d’altro. […] Stimo dunque che sia un corpo di sua natura rilucente nelle tenebre senza fiamma, e non nell’alto etere, ma nelle regioni dell’aria; poichè non si vede da paesi remoti”.
Quel diavolo d’uomo aveva visto l’aurora boreale. Il bello è che nemmeno l’aveva cercata, gli si è presentata lì. Ma lì c’era anche lui: con la sua scelta “scriteriata” si era messo nella condizione di vederla. E allora, posso e devo vederla anch’io, cascasse il mondo.
Ma più in là. “Oramai” siamo fuori stagione.
Utopia a 66°33’
di Stefano Gandolfi, Norvegia, agosto 1992; Alessandria 12 settembre 1997
O.K. lo so, era un non-luogo, un vero classico non-luogo, quello al quale ci stavamo avvicinando con sentimenti contrastanti: io, sempre più inquieto ed eccitato, ero ormai da vari minuti assorto nei miei pensieri; Antonio, riservato e silenzioso, stava senz’altro anche lui elaborando il “suo” approccio emotivo alla meta; Augusta, logica, razionale e meno problematica cominciava lentamente ad agitarsi subodorando la fregatura estetico-paesaggistica in agguato; Katia, in un’altra dimensione, dormiva.
Certo, doveva essere un non-luogo, e non sai mai cosa aspettarti da un non-luogo…
Da due giorni avevamo lasciato Trondheim e la regione dei fiordi, il sud della Norvegia più popoloso e più dolce, psicologicamente più rassicurante con le sue città ed il suo tessuto urbano più esteso.
Dopo Trondheim cambiò tutto.
La E6, la mitica strada che collega Oslo a Capo Nord, costituiva l’unico legame con la civiltà tecnologica: i pochi paesini disseminati lungo di essa, spesso minuscoli e distanziati anche di decine di chilometri, ti strappavano un sospiro di sollievo e un sollecito rabbocco di benzina.
Questo interminabile rettilineo nastro d’asfalto taglia per centinaia di chilometri grandi foreste di conifere e di betulle, inizialmente bellissime e mozzafiato, poi sempre più inquietanti: anche ciò che è grande, esteso, troppo grande, troppo esteso, diventa un non-luogo, perché ti vengono a mancare i punti di riferimento, i parametri per poterne prendere le misure e rapportarli ai piccoli spazi della tua vita quotidiana; l’immensità è un non-luogo, un’utopia, e la piccola e limitata mente umana a un certo punto ne richiede un limite, una via d’uscita … oppure lentamente, impercettibilmente, il viaggiatore si lascia vincere, dominare, senza chiedere risposta, cercando l’abbraccio protettivo dell’infinito.
Viaggiavamo, dunque, da due giorni.
Rare, maestose Volvo Polar station-wagon ci incrociavano ogni due-tre ore salutandoci con i loro fari anabbaglianti perennemente accesi, anche di giorno[1]: davano l’impressione di poter viaggiare anche da sole, senza bisogno di controllo umano, e d’altra parte l’uomo è una presenza insignificante, in questi luoghi…
Da alcune ore il paesaggio, gradualmente, stava cambiando: le grandi foreste stavano scomparendo, una vegetazione sempre più brulla e rada ne stava prendendo il posto; un’altra varietà di infinito, un altro non-luogo si stava materializzando quando mi resi conto che da alcune decine di chilometri stavo guidando in un immenso altopiano roccioso quasi lunare, senza vegetazione, libero, da ogni parte, all’orizzonte.
Una pioggia fine, fastidiosa, veniva sbattuta dal vento contro i tergicristalli.
Arrivammo, non so come e quando, arrivammo e ci fermammo: un cippo, un mappamondo stilizzato, una incredibile, improbabile caffetteria stile stazione lunare alla “2001 Odissea nello spazio”, pochi turisti, camionisti e viaggiatori accigliati e infreddoliti: tutto stava lì a dimostrarci che eravamo a 66 gradi e 33 primi di latitudine nord, al Circolo Polare Artico.
Katia bevve un caffè, Antonio, diligentemente, documentò l’evento con una serie di fotografie. Augusta, rassegnata e senza parole, rabbrividiva per il freddo e per l’atrocità materiale del posto.
Io, come sempre in queste situazioni, rimasi completamente in trance, per alcuni minuti estraniato da tutti, guatando, respirando, assimilando l’essenza del posto: un’utopia, un luogo dello spirito, un non-luogo! Ero contento, potevamo proseguire, attrezzati eternauti.
Vedemmo un ragazzo tedesco, un turista? un camionista? E gli chiedemmo di farci una foto ricordo davanti alla stazione lunare. Seimila chilometri e mille anni dopo, facendo sviluppare il rullino, capimmo che lo sconosciuto compagno di viaggio aveva alimentato il suo spirito con lo spirito: la foto era mossa!
Quale migliore ricordo di quattro fantasmi in un luogo di fantasmi?
[1] la cosa appariva strana in quanto all’epoca in Italia non era ancora in vigore l’obbligo di accendere i fari anche di giorno,