di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022
Tag: soccorso
Un nuovo inizio
di Stefano Gandolfi, Kathmandu (Nepal), 30 aprile 2016
Un anno prima del mio licenziamento dall’Ospedale, mi ritrovai all’inizio di un percorso faticoso ma entusiasmante: la metabolizzazione della fine di una fase lunga e totalizzante della mia vita e dell’esordio di una nuova. Probabilmente non me ne rendevo nemmeno conto, poteva essere solo l’ennesimo viaggio in giro per il mondo.
Materialmente si è trattato semplicemente di comprare un biglietto on-line per il Nepal, viaggiare da solo fino a Kathmandu, trovarmi con gli amici e compagni della nostra associazione di volontariato, prendere contatti con i nostri referenti locali, caricare tutte le attrezzature necessarie sulle jeep, salire sulle stesse, fare un viaggio di 5 ore per un tragitto di 50 chilometri su strade sterrate sempre più impegnative e sconnesse, arrivare faticosamente nel villaggio a nord-ovest di Kathmandu ove avevamo il progetto di aiutare i bambini della scuola, distrutta dal terremoto, e la popolazione adulta del villaggio, offrendo a tutti loro due giornate di visite mediche gratuite, con la collaborazione di medici ayurvedici nepalesi, e un breve corso intensivo teorico-pratico, rivolto sia agli studenti sia agli insegnanti ed educatori, sull’igiene, sull’acqua e sui presidi sanitari di base.
Due notti a dormire nelle baracche del villaggio semi-distrutto dal terremoto, l’ospitalità stupenda, nella povertà materiale e nella ricchezza emotiva, della popolazione locale. E poi un giorno di trekking lavorativo camminando a lungo per i villaggi, girando capanna per capanna con la guida e le indicazioni dei nostri collaboratori, a visitare tutte le persone che potessero avere bisogno di un medico. Emotivamente… beh, semplicemente un terremoto, un viaggio sulla Luna e su Marte, qualcosa di apparentemente simile a tanti altri viaggi un po’ avventurosi fatti in passato, ma con prospettive, obiettivi completamente diversi. Non più turismo puro e semplice, certo la componente edonistica del viaggio rimane presente ma coniugata con motivazioni nuove. L’inizio di un nuovo, lungo percorso che sarebbe proseguito negli anni successivi.
Dal punto di vista medico è stata un’esperienza intensa a 360°, in tutti i suoi aspetti positivi e negativi. Quelli positivi: il rapporto umano con le popolazioni locali, ospitali all’estremo, con i bambini curiosi, affettuosi e sempre di buon umore, con persone grate per ricevere anche pochissimo ma che per loro comunque è sempre più di zero, laddove zero è lo standard; persone che probabilmente, molte di esse perlomeno, non hanno mai visto un medico e non si aspettano di vederlo magari per tutta la vita, e che comunque devono pagarsi visite e cure sanitarie anche qualora possano raggiungere la città con gli ambulatori, gli ospedali, le strutture sanitarie esistenti. Persone per le quali è già una cosa rimarchevole essere ascoltati, anche solo per pochi secondi, a prescindere che da quell’ascolto possa derivarne qualcosa di utile e di concreto.
Gli aspetti negativi sono l’altra faccia della stessa medaglia: povertà estrema, difficoltà enormi anche solo nell’accesso ai villaggi, rete sanitaria inesistente, sporadici contatti con medici governativi, spesso praticanti medicina Ayurvedica che nella limitatezza dei mezzi a disposizione (senza entrare nel merito della validità scientifica di tale medicina tradizionale), può fornire poco più che un supporto psicologico, una buona “pacca sulla spalla” e qualche preparato naturale, erboristico, più a portata di mano e più economico delle medicine tradizionali.
La mia esperienza è stata nettamente distinta in due momenti: il primo, quello appunto in cui mi sono trovato fianco a fianco con un gruppo di medici ayurvedici di Kathmandu coi quali si è cercato di dare ascolto a tutta la popolazione dei villaggi radunata nel piazzale della scuola, almeno 200 persone all’incirca, ognuna delle quali esponeva velocemente un rapido elenco dei propri disturbi e altrettanto velocemente riceveva una prescrizione di qualche rimedio ayurvedico o, più raramente e in casi molto selezionati, qualche farmaco occidentale, nei limiti della piccola scorta portata al villaggio con i fuoristrada; ben presto ho capito che in queste circostanze non potevo interferire più di tanto con i colleghi locali, i quali oltretutto erano gli unici a poter avere un rapporto con le persone per via della lingua, mentre io dovevo per forza avere loro come intermediari, parlandoci in inglese. La possibilità di una visita medica, anche solo superficiale, era impedita sia dalla mancanza assoluta di privacy, con 4 medici e 20-30 persone stipate in una piccola baracca di lamiera di 4mx4m, sia dalla necessità di prestare attenzione a tutti nell’arco di una sola giornata al termine della quale i medici locali sarebbero ritornati in città.
Nel giorno successivo ho avuto invece la possibilità di muovermi a piedi, accompagnato dai compagni del gruppo, dalla dottoressa Roberta e dai maestri del villaggio, in un vero e proprio trekking sanitario che mi portava di volta in volta a incontrare persone lungo i sentieri, davanti alle loro capanne, per terra seduti o sdraiati nella polvere fra bambini curiosi, polli, caprette che razzolavano indisturbate, a visitarli con i pochi mezzi che avevo a disposizione, un fonendoscopio, un apparecchio per misurare la pressione, una pila per guardare in gola, un martelletto per provare i riflessi, un saturimetro per valutare l’ossigeno nel sangue…e mi sembrava già, rispetto al giorno precedente, di essere nel lusso e con sovrabbondanza di mezzi; e la piccola scorta di farmaci che avevo nello zaino, portati dall’Italia quasi in clandestinità perché non avevo un accredito ufficiale del governo nepalese né di qualche grande organizzazione internazionale, mi ha permesso di dare qualche piccola possibilità di fornire cure immediate e concrete.
Ben presto ho capito che era un’utopia l’idea dell’igiene e della sterilità, sopraffatto dalla polvere, dalla terra, dalla sporcizia storica delle persone che visitavo, e in poche ore ho fatto un salto indietro di secoli nell’atteggiamento mentale e fisico, abbandonando ogni remora e preoccupazione cercando di adeguarmi il più possibile, anche sotto questo punto di vista, alle condizioni locali.
Cosa è servita questa esperienza? Molto breve, nella limitatezza del tempo a disposizione, molto eroica non tanto per quello che ho fatto quanto per le condizioni logistiche, assolutamente piacevole nella scoperta di persone che in un’altra parte del mondo e con una lingua sconosciuta, esprimevano tuttavia le stesse semplici e basilari necessità di qualsiasi altra persone del mondo, che fosse in Africa, in Asia o in Sudamerica. Piacevole la consapevolezza di poter innescare un contatto e una comprensione quasi immediata, superando distanze siderali di cultura, religione o quant’altro… piacevole il riuscire a superare la diffidenza e il disagio dal primo contatto con uno sconosciuto venuto da chissà dove, che poi però si sedeva con loro per terra per visitarli.
Strano e inizialmente inquietante il rendersi conto che con tutta la cultura e la preparazione scientifica che ci portiamo dietro, nel momento in cui non abbiamo a disposizione esami di sangue, laboratori analisi, radiografie, ecografie, TAC e RMN, ci scopriamo a doverci reinventare un nuovo modo di ragionare che in realtà è vecchissimo e risale agli albori della medicina, quando bisognava fare affidamento solo sulle proprie mani, sugli occhi e sul cervello per discriminare ciò che si osservava: e ancora una volta piacevole scoprire che nei limiti di un aiuto immediato, si riusciva a dimenticare tutti i dubbi di questa privazione di mezzi, cercando di affinare le proprie intuizioni per una valutazione immediata, magari superficiale ed imprecisa ma finalizzata ad una decisione da prendere comunque subito. Agli antipodi della medicina difensiva che ormai è quasi la prassi odierna, quando si chiede qualsiasi esame disponibile al di là della reale necessità, per essere sicuro di non commettere errori od omissioni di cui si possa essere accusato.
Cosa dire, al di là della retorica che spesso si accompagna a queste esperienze? Che si riscopre, come sempre in un qualsiasi viaggio anche se solo per turismo o per trekking, in zone del mondo povere come questa, l’essenziale contrapposto al superfluo; si riscopre l’importanza di una confezione di antibiotico che può fare la differenza fra la vita e la morte in una banale, ma non troppo, polmonite: così come mi spiegava un medico coreano volontario in uno sperduto ambulatorio medico a 4000 metri a Kunde, un villaggio nella valle dell’Everest semidistrutto dal terremoto del 2015, nel quale al ritorno dal campo base dell’Everest io e un compagno di trekking medico abbiamo portato i nostri zaini carichi di farmaci da lasciare in dono.
Ma si scopre anche l’importanza di una ferrea organizzazione, in assenza della quale tutti gli sforzi o quasi si vanificano nel pantano della inefficienza, dell’inerzia, della burocrazia, per non dire anche di peggio, ovvero la corruzione e la furberia di chi si aspetta per diritto divino ogni genere di aiuto e di regalia come se fosse una cosa ovvia e scontata. Talvolta anche la malafede di chi è convinto che chiunque arrivi dall’occidente sia così ricco e carico di soldi da poterne elargire a pioggia in modo illimitato e perpetuo.
Si impara presto a selezionare su chi e cosa finalizzare gli sforzi, psico-fisici ed economici, si pensa ai bambini, agli studenti, che molto più dei loro genitori e nonni potrebbero avere una chance di cambiare la loro vita e il loro atteggiamento nei confronti del mondo. Si impara, perché no? e questo veramente in controtendenza rispetto all’ipocrisia della retorica, a essere cinici, magari anche duri, con chi ostacola o non capisce gli sforzi che si fanno. C’è molto da imparare, nel bene e nel male, da un viaggio e da un’esperienza come questa. E senza alcun dubbio ci si arricchisce e, questa volta in pieno ossequio alla retorica, si riceve molto più di quanto si dà.