Per incerti sentieri

di Tonino Repetto, 30 dicembre 2017

Per incerti sentieri copertina

Ai lettori eventuali

Dove il giorno è qualsiasi

Per incerti sentieri

Da un luogo perduto

Imminenti, le ombre

In quella poca luce

Da questa distanza più niente (di Paolo Repetto)

Ai lettori eventuali

Hanno una lunga storia le poesie pubblicate in questo libretto, vengono da molto lontano. Alcune risalgono addirittura al 1989, ai miei esordi (tardivi) di poeta, le altre sono state composte via via nel periodo compreso fra gli anni ’90 del secolo scorso e il primo decennio del 2000. Nella primavera-estate del 2010, dopo averle ordinate in sezioni tematiche e raggruppate in una raccolta organica, le ho trascritte a mano – antico amanuense scampato al progresso tecnologico – su piccoli quaderni moleskine con la copertina nera, che ho distribuito ai miei amici intimi (pochi, di numero inferiore ai 25 canonici lettori manzoniani). Titolo di quel manoscritto semiclandestino: Per incerti sentieri.

Con lo stesso titolo appare ora, a cura di Paolo Repetto, per i tipi di Viandanti delle Nebbie, la mia seconda opera poetica a stampa dopo Sono nato una sera di Novembre, uscita presso lo stesso Editore nel 2015. Le poesie sono ancora le stesse, ma – non so come dire – non sono più le stesse del quadernetto moleskine del 2010. Rileggendole a distanza di tempo, ho ritenuto necessario apportarvi varie modifiche: minime a volte, ma per me indispensabili. Soprattutto per esigenze ritmiche e musicali, ho sostituito o soppresso aggettivi, aggiunto o cancellato virgole, cambiato assetti strofici, accorpato, spostato o espunto versi. Immutato, salvo lievi cambiamenti nei titoli, l’impianto strutturale in cinque sezioni, che sviluppano, per frammenti e illuminazioni, un preciso percorso autobiografico. Al centro, un canzoniere d’amore, omaggio ironico e postmoderno, forse, al dolce stil novo.

Nessuna poesia, dunque, è sfuggita al mio perfezionismo patologico e alla mia smania variantistica. Lo spietato restyling ha risparmiato, anzi ha reso più evidenti, le immagini tipiche del mio mondo poetico, già presenti in questi vecchi  e nuovi versi e ricorrenti anche in Sono nato una sera di Novembre, che racconta in un lungo flashback rievocativo l’infanzia dell’uomo tormentato, disperso pellegrino, di Per incerti sentieri: l’ombra, la luce, le notti e le albe, gli interni claustrofobici, le finestre, le rampe di scale che precipitano nel buio, i colpi di clacson che annunciano arrivi e partenze…

 

  

Dove il giorno è qualsiasi

 

 Non cela segreti la superficie

dei giorni inerti opachi uguali.

Cade ora una pioggia sottile

nel silenzio dei viali.

Da finestre mal chiuse,

da strappi nelle tende,

la luce, quando arriva,

ferisce gli occhi partorisce

le immagini di sempre.

È lento il risveglio

al crescente brusìo

di voci indistinte,

al calpestio consueto dei passi

nella luce d’esordio

di un giorno feriale.

Bisbigli al telefono, è minima

dell’esistenza la voce,

dietro la parete se ascolti,

nel mattino enigmatica.

La rampa di scale precipita,

una porta si apre

dove il giorno è qualsiasi.

È una maschera deforme

il volto allo spioncino.

Mi chiedo chi sei

tu che bussi alla porta dicendo

aprimi, sono io.

Nelle notti nei giorni senza scampo

è l’orrore profondo

di questa vita non vissuta, implosa…

Avida sulle briciole

vola nera si posa,

ronza la mosca merdosa

intorno a me, non m’abbandona.

Sei squallidamente solo,

mentre incombe drastica la notte

e cappotto e cappello sono appesi

nell’angolo con l’unico ombrello.

Nel buio

la punta della sigaretta

disegna breve

il tuo percorso d’ombra nella stanza.

Muto percorre

la parete uno sguardo,

sospira lenta la notte

nel silenzio raggiunto.

Se brancoli,

al tatto le trovi

le cose che sfiori

imminenti nel buio.

Il tempo non trascorre,

ristagna con i giorni

dei passi corti strascicati,

rasenti al muro nel cortile

lente si alternano le ombre,

la porta si richiude e i segni

sulla parete sono incisi con le unghie.

Scavano i tarli il legno delle sedie,

della sveglia in cucina

invecchiano le ore,

le foglie e i giorni al vento

i mesi gli anni volano

mulinano nei viali.

Sono rari i rumori

leggeri dell’alba,

camminano dove

i dolori si svegliano.

Ferisce lento, ritorna,

illumina scialba una luce,

lo sgocciolare del tempo che aggiorna.

Come si rivolgono ansiosi

gli sguardi alle finestre.

L’immagine è quella del deserto,

se si susseguono le porte

ancora chiuse delle case

ai due lati della strada.

Le mani che bussano le ascolti?

Dimmi chi sei, rivelami che esisti.

Dove ti nascondi, se tutto

il tuo squallore è visibile,

seduto in cucina,

dalla finestra senza tende

una domenica mattina?

Al momento si aggira per la casa

disabitata dove,

fra macerie e immondizie,

quanti la gatta incinta

partorirà gattini e quando?

Nella città che si affolla

non hanno traguardi le strade,

s’aggrovigliano i giorni.

Le immondizie s’ammucchiano,

marciscono sul marciapiede.

Stingono sui giornali

le vecchie notizie.

Ormai solo i fari

intervallano il buio.

Sono opachi i rumori,

da questa distanza più niente

d’importante è là fuori.

Dopo il cinema o la partita,

nella domenica vuota

la tristezza è infinita.

Di un giorno qualsiasi, feriale,

questa è la luce squallida che illumina

la stanza polverosa di ricordi,

dimenticati sulle mensole,

diventati senza scampo muti.

S’abbuiano le scale,

cade l’ombra

nel vuoto fra le case.

Nel pianerottolo

s’affacciano le porte,

sulle targhe d’ottone

i viventi sono nomi.

Solitudini inquiete

aprono gli occhi e aspettano

la luce in ritardo del mattino.

La maniglia della porta.

Nella stanza, in attesa,

l’angoscia è all’erta,

insonne ascolta.

Per incerti sentieri

L’alba ritorna

riappare alle finestre,

il velo d’ombra solleva

riscopre le strade.

Si svegliano pallidi i giorni

nel vecchio paesaggio,

camminano scalzi,

riprendono il viaggio.

Perentori i richiami

del clacson dalla strada:

devi deciderti e partire.

Oscilla, ancora accesa,

la lampadina appesa al filo

nella cucina vuota, spegnila.

Nebbiosi inverni ai vetri,

sottopassaggi, scale,

e fogli di giornale

nell’improvviso vento turbinosi.

Del treno in arrivo

l’altoparlante ripete

l’annuncio ritardo

in italiano e in inglese.

Dei viaggiatori del dove e del quando

incerti che sfilano

ai finestrini quei volti

i percorsi i ritardi

le partenze i ritorni

Sono veloci a ritroso le case.

Li apri tardi gli occhi,

quando fuori è già buio

e del viaggio che finisce

il paesaggio è perduto.

Un passeggero che scende

alla luce dei fari

sorprende la neve

sulla banchina e i binari.

Spalanca finestre quel vento

che gonfia le tende e per squarci

è l’azzurro che appare.

Finisce o comincia il tuo viaggio

se lasci per primo la stanza:

la sedia è già vuota.

È desolata la strada

solitaria che porta

nei giorni piovosi

al di là del cancello,

dopo l’ultima curva

s’avventura nel fango.

Profondi solchi lasciano le ruote

della carrozza lenta che s’inerpica

al ritmo sobbalzante del ritorno

il paesaggio antico si rivela

non è poi così tardi come dici

se alle finestre si accendono le luci

Verso la terra di confine

le strade a poco a poco che si svuotano

promettono la fine.

Se la piazza è vuota

la corriera è partita,

sarà per un’altra volta

sarà per un’altra gita.

L’antenna altissima e la torre

non sono raggiungibili.

Dal cassonetto al cornicione

– andata e ritorno –

il volo è breve del piccione:

abita il marciapiede,

zampetta sull’asfalto,

va in cerca delle briciole.

Calpestano il solito asfalto

sui muri si posano scabri

nell’andirivieni penoso

i passi gli sguardi

Conduce a mano la bicicletta.

Non è perfetta la solitudine

della piazza deserta

che adesso attraversa.

Disarcionato cavaliere,

non è soltanto tua la tristezza,

anche dell’oggi, sai, non c’è certezza.

Sono opachi di sera i riflessi

delle luci sui vetri, se piove,

sulla strada fangosa

dei passanti, più radi,

lentissimi i gesti.

Le scarpe abbandonate

ai bordi della strada.

La polvere del viaggio, il corridoio

illuminato a giorno.

Riascolto la tua voce

al mio ritorno.

Dalla finestra una debole luce

sul tavolo. Il letto, una sedia.

Ritorna. Apre la porta si trova

in una stanza disadorna.

Il giallo intermittente

all’alba dei semafori

non proroga più a lungo

lo sveglio desiderio del mattino

di uscire per le strade,

riprendere il cammino.

Gli arbusti i cespugli le spine

la polvere il vento la strada

sono pochi lontani

i viandanti superstiti

Così fitto, il fogliame

impedisce la vista, dirotta.

La luce delle torce zigzagando,

nel sentiero che s’inoltra

s’allungano le ombre.

Il sibilo del vento

che scorre tra le canne

dove il sentiero finisce

non porta più lontano

tu voltandoti che dici

il viaggio è stato vano.

Dove c’è l’albero,

dallo stradone

tu svolti a sinistra

e imbocchi il sentiero.

 

Da un luogo perduto

Le bandiere le barche

le vele bianche le nuvole

Era ridicolo, dici, quel tempo

di clamori continui

di utopie a portata di mano

di slogan ritmati, di inni

alla rivoluzione imminente?

Del sorriso di Giulia

il ricordo è struggente.

Il marciapiede e l’edicola

le ombre lunghe dei portici

le strisce di sole nel vicolo.

Qualcuno si volta,

l’apparizione ritarda.

Non il vento, la pioggia,

la città immersa nel buio,

la tua ombra silenziosa

dietro il vetro appannato,

l’intermittente lanterna,

fioca per la distanza.

Da un luogo perduto ritorna,

ogni tanto, il tuo sguardo.

Di troppo tempo, di anni,

ricompari a distanza,

da una misteriosa lontananza.

Tutto quel vento e la bandiera rossa,

segnale di pericolo.

Puntuali nel ricordo

di quel giorno al mare, alte

sugli scogli le onde, bianche

le vele all’orizzonte.

A rischio di spine,

cogliendo una rosa.

Dopo le strade e i rumori,

il silenzio nei vicoli.

Delle scale in penombra

i passi furtivi

salivano i gradini.

Senza fard senza rossetto

senza trucco e senza inganno,

percorri a piedi nudi il pavimento,

nel silenzio sola dell’appartamento.

Un clacson dalla strada intermittente.

Le tue mani

scostano le tendine lentamente.

Ricordo la casa, dicevi:

“Anche se per poco, che importa?”

mentre aprivi la porta.

Né aquiloni né fuochi

d’artificio i pensieri

non s’alzano in volo, sprofondano

nel silenzio di quando

– il tempo rallenta la sua corsa,

quasi si ferma, ti dimentica –

la porta si chiude e la storia

non è più raccontabile.

Nella notte lenta nel buio

accompagnami dove

stilla più dolce il dolore

senza rimedio del giorno

sfuggito di mano e l’angoscia

conquista una tregua s’attenua

affievolisce nell’ombra il rumore

e la scintilla improvvisa che illumina

assomiglia all’amore

Con quale dolcezza di mani,

dopo tanto tempo,

adesso sei tu che raccogli

o ti sciogli i capelli e rimani

nell’ebbrezza del vento.

Improvvisa la cosa accade,

ti volti per andartene,

succede sul marciapiede.

Porti con te con lacrime un dolore,

che subito mostrando

le spalle, non si vede.

Fa di tutto, tenta

la donna innamorata

con diligente amore, con malizia…

… Charlie fa finta di niente,

non si muove,

di sé non dice nulla,

il suo sguardo nel vuoto

è l’unica notizia.

Diversamente le cose

da come s’immagina accadono.

Stanno in silenzio, si guardano,

nel tempo sospeso di quando

di un treno si annuncia il ritardo.

Le parole costano.

Invecchio con te, non rispondi,

guardi fuori impassibile.

Dalla finestra l’inverno

è di colpo visibile.

Nella danza tardiva

il dolore quasi lo dimentichi,

riscopri l’illusione.

Ma che malinconia, che strazio,

quello scalpiccio sul pavimento,

chi guarda l’ora pensa

non ho più molto tempo.

Ansimante l’eco dei passi,

il corridoio che svolta, la rampa

di scale precipita,

non riesco a trovarti nel buio.

Con un rumore di passi sul selciato,

la striscia azzurra

del cielo sopra il tetto,

riappare alla finestra, senza tempo,

una mattina di maggio,

luminosa, senza vento.

Forse è un giorno di vacanza,

è limpido il mattino e tu ritorni,

si abbrevia la distanza,

i passi si avvicinano,

entri adesso nella stanza.

Imminenti, le ombre

Un’ombra oscillante sul muro,

la rampa di scale nel buio.

Sugli attaccapanni i cappotti,

man mano che passano gli anni

i ricordi si allungano.

Sulla neve le orme,

sgocciolante l’ombrello,

quel mattino d’inverno.

Addossato al muro,

sono al riparo di un portico, è grigio

il giorno d’autunno che guardo,

mentre una pioggia sottile

marcisce le foglie nel cortile.

Ecco, i passi si rincorrono,

svoltano nel vicolo.

L’antico e nuovo,

nel tardo pomeriggio,

rumore della vita

ascolto da lontano.

Notti precoci, se ricordi,

quei pomeriggi, era nero

il cielo di nuvole e un vento

si alzava improvviso,

nel polverone accecante

cartacce volavano, foglie,

illuminata appariva la scala

da una luce lenta, crepuscolare,

nel cortile l’albero, il vento.

Ancora imperversa

la pioggia nei vicoli,

di Genova è oscura la sera

che a tratti rischiarano i lampi.

Solitario girovago il vento,

muri ciechi lo chiudono.

Nel set abbandonato le finestre

delle case sono buchi,

nel cielo trascorrono le nubi.

Sollevando la polvere

il vento artificiale fra i detriti,

una figura desolata appare,

trascina una valigia di cartone,

mi hanno lasciata sola, dice,

dov’è la stazione?

Sono anonimi i volti,

fra le spire di fumo

i colpi lenti di tosse.

L’immagine del treno su quel ponte,

veloci luci nella notte,

nello scompartimento chi dormiva,

chi domandava insonne dove siamo.

Dettagli atroci di alti

reticolati irti di fari

nella notte roteanti, quei volti

feroci, nel fango

la tua orma che affonda

l’ombra fuggiasca non scampa

“Delle ombre imminenti”

– sento dire – “ho paura”,

nella strada che vuota

incerta s’inerpica e svolta.

“A quel tempo era un viottolo

di campagna e quegli alberi

accoglievano il vento”.

Guardiani del nulla,

gli alberi spogli del viale

che percorro in salita,

rischiando a ogni passo il risveglio.

Muove in fretta i suoi passi cercando

un riparo dal buio

che invade il cortile, cammina,

accende adesso la luce in cucina.

Di passaggio le case,

nel paese di notte,

illuminate dai fari.

Dove la strada dirupa,

affonda lo sguardo

nel buio, lo scruta.

Nelle sere d’inverno,

mette in scena la morte

il silenzio che annichila,

dopo l’ultimo clacson,

la piazza deserta.

Di paesaggi volti occhi

dissolvono le immagini,

la trama degli eventi s’interrompe.

Lo schermo è bianco,

si riaccendono le luci.

Una sera di dicembre,

il pallido barlume

del giorno che si spegne.

Nei dintorni la neve.

Lontani bagliori,

e un fruscio leggero di ruote

sulla terra bagnata.

In quella poca luce

Le pozzanghere riflettono

le luci del tramonto.

La giostra imprevedibile s’impenna,

chi ride chi piange chi ha paura.

A ciascuno la sua sorte:

“Venghino, signori,

nel giro della morte”.

Dura poco il bel gioco,

l’altalena si ferma.

È presto finito

lo zucchero filato.

Sulla via del ritorno

piange deluso il bambino, non smette

nello squallore che ha intorno.

Scompare lenta la luce,

il parco si oscura.

La notte puntuale nasconde

fra gli alberi il viale, confonde

i sentieri e le strade.

Come rispunta poi debole il sole

tardivo che illumina

l’inutile giorno per te,

le finestre si chiudono.

Nera sul molo la notte,

mareggiata d’inverno.

E un’ombra lunga cancella

i singhiozzi, l’azzurro

ronzio della fiamma necrofila.

Non ancora.

Accarezzami la gelida fronte

almeno tu, almeno ora.

Mormora piangi sussurra,

sussurrami ancora.

Il lungo inverno non sopravvive

alla madre che muore.

Stanlio e Ollio salutano

il funerale solenne

dai cartelloni di un cinema.

Chi rimane racimola

– lo vedo di spalle,

seduto in cucina –

in silenzio dal tavolo

le ultime briciole.

Senza rumore sfilano le case

fatiscenti del vicolo che affollano

in quella poca luce

i pallidi non vivi

uscendo dalle porte.

“Mamma, dove sei?

Ti cerco fra le ombre”.

Desolato in sogno

immagino la morte.

Per un caso fortuito

e circostanze poco chiare,

il passo è stato breve,

da qui e ora a non so dove

e quando e come.

Qualcuno è passato da poco.

Fino al cancello s’allunga quel vuoto.

Si è spento.

E’ mancato.

Non c’è più.

Se n’è andato.

Con la pioggia, al vento, al sole

i manifesti funebri

ricordano dimenticano,

sbiadiscono sui muri.

Visto di spalle allontanarsi

e scomparire a lungo

senza più voltarsi.

Dopo la tua fuga improvvisa

fruga nel nulla lo sguardo,

rovista a lungo i ricordi,

esplora il dolore.

Con le tue impronte le cose

rimangono mute.

Lo vedi solo se lo immagini

che si toglie il cappello e ti saluta

nella strada di polvere all’arrivo.

Ti viene incontro, lentamente dice

pensami ancora, guardami,

ricordami da vivo.

Al risveglio non sapevo

se era notte o giorno.

Era dicembre, inverno,

la neve sporca ai bordi delle strade,

arriva il carro funebre, l’accolgono

le donne lacrimose nella piazza.

Gli uomini si levano il cappello,

lo seguono in silenzio,

la banda attacca

la marcia lenta d’accompagnamento.

 

 

 

 

“Da questa distanza più niente

d’importante è là fuori”

La luce mattutina entra incerta nella stanza (e nelle poesie “giovanili”) di Tonino: scialba, già stanca, in ritardo. Lo stesso fanno i rumori: sono al più brusii opachi, bisbigli (è minima/ dell’esistenza la voce), scalpiccii malinconici sul pavimento o sul selciato dei vicoli. Il resto è silenzio, rotto solo dal vento, qualche volta da un clacson, ma subito riavvolgente, “annichilente”. Gli altri, i volti, si intravedono attraverso i vetri, deformati dallo spioncino, anonimi dietro i finestrini di autobus o treni. E sono filtrate e incorniciate dai riquadri della finestra anche le stagioni: le mattinate di maggio, i giorni autunnali ingrigiti dalla pioggia, le sere rese deserte e silenziose dalla neve.

Gli ingredienti per etichettare come “tardo-crepuscolari” questi versi parrebbero esserci tutti. Ma sarebbe un’etichetta fuorviante. Il crepuscolo interiorizzato chiude una giornata comunque trascorsa, con o senza di noi: induce semmai il rimpianto di non averla vissuta appieno o il rammarico di non averla vissuta affatto, perché suppone un desiderio struggente per quello che sta là fuori e ci sfugge, o ci sentiamo negare. Questo nei versi raccolti in “Per incerti sentieri” non c’è. Il tempo che vi è raccontato non trascorre, ma ristagna, sgocciola lento, si aggroviglia in giorni che camminano scalzi. Luce, ombra, buio non ne scandiscono la fuga, ma lo fissano in istantanee di un bianco e nero molto sgranato. Le partenze e gli arrivi di viaggiatori “incerti del dove e del quando” sembrano osservati attraverso la lente di un entomologo. La storia stinge dalle pagine dei giornali sulle immondizie che invadono i marciapiedi.

Non c’è crepuscolarismo: e nemmeno nostalgia né rimpianto, e meno che mai autocommiserazione. È invece qualcosa che conosco (e riconosco) benissimo, che mi appartiene, come della raccolta precedente mi appartenevano la Lerma dei timidi stupori dell’infanzia, e forse ancora più: perché non ci ritrovo solo esperienze affini, ma riconosco una comune condizione, o disposizione, nei confronti di ciò che “è là fuori”.

È l’insostenibile, e irrimediabile, senso della distanza.

Tonino ne coglie, sarebbe meglio dire ne vive, tutte le espressioni. La distanza nel tempo, nella quale anche i ricordi, dimenticati sulle mensole, sono diventati muti. Quella nello spazio, che i frettolosi viaggiatori coprono, in treno, in corriera, in bicicletta, per strade che promettono non un traguardo, ma una fine. La distanza che sembra abbreviarsi, solo per un attimo, nell’illusione dell’amore, e quella che invece permane nei confronti di un luogo che ti ha inghiottito, ma non digerito (l’intermittente lanterna, / fioca per la distanza).

E ancora, la distanza che mettono tra noi e loro le persone care che ci lasciano. Infine, non ultima, quella che noi marchiamo nei confronti degli altri, proprio attraverso la scrittura. Tonino non pretende di rendercene partecipi: annota con immediatezza discreta, com’è nel suo stile, immagini e sentimenti. Sta a noi riconoscere certe sensazioni, leggerci anche il nostro breve percorso “disegnato nel buio dalla punta di una sigaretta”.

Per quanto possa sembrare paradossale, nel rapporto col mondo che ci circonda (e non solo in quello con gli altri) la scrittura – parlo naturalmente di scrittura vera, non di produzione industriale – non è solo un tramite, ma traccia anche un confine: ha la stessa valenza di una stretta di mano rispetto ad un abbraccio. Segna una distanza, crea una fascia di sicurezza. In fondo ci consente di comunicare standocene chiusi nella nostra camera, anzi, solo a quella condizione. Di guardare il mondo dai vetri, “cappotto e cappello appesi nell’angolo/ con l’unico ombrello”. Persino di parlare da soli a noi stessi senza sentirci ridicoli o un po’ svitati.

Questo tipo di scrittura non nasce da una scelta. Guardare il mondo dalla finestra non è un privilegio: “Nelle notti nei giorni senza scampo/ è l’orrore profondo/ di questa vita non vissuta, implosa…” Ma nemmeno significa surrogare la vita con la sua narrazione. Significa invece vivere la lucida consapevolezza che la rivelazione non arriverà: “la luce, quando arriva, / ferisce gli occhi partorisce / le immagini di sempre.” Noi percepiamo solo il “calpestio consueto dei passi”, la porta si apre su un fuori “dove il giorno è qualsiasi” e “l’immagine è quella del deserto”. “Là fuori” non c’è nulla da scoprire, e non c’è sbaglio di natura o breccia nel muro che ci possa rivelare il segreto ultimo delle cose. Si può scegliere o meno la conoscenza, ma la consapevolezza no, quella ce la troviamo nel corredo, e non sappiamo (e in fondo nemmeno davvero lo vogliamo) tacitarla. La conoscenza dovrebbe semmai aiutare a conviverci, a valutare la giusta misura della distanza. Misurare le cose (compresi i sentimenti) è in fondo il primo indispensabile passo per averne un qualche controllo.

Lo sbocco obbligato di questa condizione è l’ironia. Uso questo termine in un’accezione tutta mia, a significare una capacità di prendere le distanze che non inficia la disposizione empatica. Ogni altro atteggiamento nei confronti dell’esistenza, risentito, disperato o aggressivo, rivela che non c’è un distacco ma una lacerazione, che la ferita rimane aperta. L’ironia suppone invece che la cicatrizzazione sia avvenuta. Non comporta rassegnazione o fatalismo, è al contrario guardare la vita negli occhi, sapere che le cose stanno così, che prima o poi “la trama degli eventi si interrompe” e le immagini si dissolvono, si allontanano “di spalle, senza più voltarsi”. Ed è proprio la scrittura, che quelle immagini archivia, a consentire di elaborarne il distacco. Non vengono rimosse, ma trasferite in una dimensione altra, non impastoiata dal tempo. Sono sobrie, essenziali, come il linguaggio che le fissa: “Lo vedi solo se lo immagini / che si toglie il cappello e ti saluta / nella strada di polvere all’arrivo”.

La scrittura non diventa dunque per Tonino una corazza né uno schermo contro l’esterno, e neppure è una costrizione rivolta all’interno. È disciplina, nel suo significato più puro, privo di ogni rigidezza: mette ordine nel sentire e lo rende comunicabile in una forma discreta: quindi è rispetto, per la propria intelligenza e per la sensibilità altrui.

Per questo ho usato di proposito un’accezione “impropria” di ironia: perché frequento l’autore praticamente da sempre, e credo di non aver mai incontrato qualcuno più spontaneo e divertente e nel contempo più corretto. Penso anche che nessuno di coloro che lo conoscono bene sarà sorpreso dalla sincerità cruda e quasi autoptica di questi versi. Non c’è contraddizione tra il nitido senso di perdita e di vuoto che li intride e la simpatia per la quale Tonino è caro a tutti. Anzi, essi sono garanti della sua assoluta genuinità, ce ne fosse bisogno. Solo l’ironia che nasce da una consapevolezza così acuta può indurre una disposizione “pubblica” tanto positiva.

Lo schermo è bianco / si riaccendono le luci”, il sogno si dissolve assieme alle immagini: ma si può sempre, nel guadagnare l’uscita, sorridere agli altri spettatori.

Paolo Repetto