Archimede sulla spiaggia di Ortigia

di Maurizio Castellaro, 11 dicembre 2020,

Ho trovato in rete la foto di questa aula scolastica. Al centro della parete troneggia una lavagna digitale, ai lati due piccole lavagne di ardesia. Manca il videoproiettore, quindi il dispositivo è di fatto un grosso pezzo di metallo inutilizzabile. Immagino che la lampada del videoproiettore si sia bruciata e non sia più stata sostituita (costa parecchio). Presumo allora che le attività didattiche in classe trovino sfogo sulle due lavagne ai lati, piccole e poco visibili ancelle del metallico totem silenzioso che è stato posto sull’altare (sopra di lui infatti resiste solo il crocefisso). L’immagine è chiaramente un simbolo del fallimento delle velleitarie politiche di digitalizzazione della scuola, ma ora non ho in mente questo.

Vorrei tentare un confronto tra lavagna digitale e lavagna analogica (quella tradizionale di ardesia, per capirci), basandomi semplicemente sulla mia esperienza di insegnante. Se voglio spiegare ai ragazzi come si calcola ad esempio il minimo comune denominatore tra frazioni devo: mettermi accanto alla lavagna, controllare il tono di voce, cercare gli sguardi dei ragazzi, coinvolgere i più distratti, chiedere ai più fragili se han capito, fare ridere tutti con qualche battuta scema, gratificarli per le risposte giuste, accogliere quelle sbagliate, rispiegare tre volte in modi diversi. Insomma, il solito armamentario che già raccomandava Socrate, maestro dell’ascolto e della domanda, e che oggi chiamiamo causalità circolare, feedback, tranfert, ma che è insomma sempre quella roba lì. In questo processo la lavagna di ardesia è un’alleata discreta. Non fa rumore, è immediatamente pronta all’uso, consuma poco (due o tre gessi all’ora) e non ha memoria.

Proviamo ora ad immaginare la stessa spiegazione con una lavagna digitale. Se sono riuscito ad accendere PC, lavagna e proiettore, e a far partire il programma di gestione, devo verificare che le licenze d’uso siano ancora attive, che la penna digitale non abbia le batterie scariche e che non cada a terra danneggiandosi, che gli studenti, indecifrabili nella penombra, non si distraggano troppo (è noto che la lavagna digitale è nemica del sole, come i vampiri). Tutti gli attori sono rivolti al totem luminoso, mentre la concreta gestione del dispositivo viene a interporsi nella relazione insegnante/classe, rendendola più faticosa. Così descritta la lavagna digitale può essere definita un medium che si mette in mezzo, non un facilitatore, ma un ostacolatore della relazione, che cerca macchinosamente di riprodurre la fluida dimensione analogica dell’apprendimento. Facile e immediata l’obiezione: e l’accesso alle infinite risorse della rete dove lo mettiamo? A parte che ormai i ragazzi hanno accesso illimitato a internet grazie ai cellulari che tengono spenti nello zaino (la scuola, monoteista e monocratica, vede i cellulari individuali come possibili tentazioni ereticali, anche se sono utilizzati per imparare), vogliamo parlare dell’efficienza della rete nelle scuole? Nelle scuole che conosco anche la linea più performante ha, nell’ultimo tratto che porta agli utilizzatori finali, un’efficienza che è paragonabile a quella delle attuali gallerie sull’A26 nel tratto tra Ovada a Masone. Se a questo si aggiunge l’ulteriore dispersione del segnale conseguente alla connessione wi-fi di decine di dispositivi in contemporanea, si hanno come risultato lezioni di DAD che assomigliano spesso a commedie degli equivoci disperanti perché mal scritte, che tutti sperano finiscano prima possibile, dato che alzarsi e andarsene è maleducazione.

Io non sono esperto di neurofisiologia, ma penso che la storia della nostra evoluzione abbia stretto un nodo indissolubile tra il modo in cui funziona il nostro cervello e il modo in cui funzionano le nostre dita. Prima ancora della scrittura penso ai meravigliosi disegni dei primitivi nelle grotte, e prima ancora ai frammenti di pietra e di osso afferrati e lavorati grazie ai nostri pollici opponibili. Stiamo parlando di milioni di anni di esperienze di manipolazione e concettualizzazione racchiuse nel nostro DNA, in cui il sistema del pensiero ha affinato la capacità di interconnettersi con il sistema della motricità fine, in un rapporto di interdipendenza, in cui il pensiero rimanda al gesto e al segno, per poter produrre nuovo pensiero. È quello il nostro linguaggio macchina, fondamento di tutti gli altri linguaggi derivati. Se volete una prova immediata di tutto questo, pensate al valore in termini di interiorizzazione dell’apprendimento garantito dal “copia/incolla” dalla rete che gli studenti propinano da anni a insegnanti inconsapevoli o conniventi, e confrontatelo con il livello di apprendimento che si ottiene sintetizzando lo stesso testo a mano su un foglio di carta, utilizzando frecce, colori, sottolineature, cancellature. E’ evidente, non c’è partita. In fondo se ci facciamo caso lo stesso mondo del digitale è ben consapevole della sua subalternità alla realtà analogica. Imita il libro di carta, la tavoletta dello scriba, la tavolozza del pittore, lo strumento del musicista. Intendiamoci, io questi programmi li uso da anni per lavoro e li trovo indispensabili, e credo che in infiniti settori della nostra vita il digitale e la rete ci stiano migliorando la vita. Però se pensiamo al mondo dell’educazione e dell’apprendimento, e soprattutto alla fase evolutiva degli studenti, dobbiamo ammettere che, dopo l’entusiasmo iniziale, sempre più numerosi ci scopriamo a pensare che forse a questo meraviglioso flusso di silicio fatto di zero e uno, in fondo, manchi qualcosa. Forse è la profondità, forse è il tempo, forse è il peso della materia che viene piegata dal gesto. E allora mi ritrovo a ipotizzare che tra vent’anni quella lavagna digitale da cui siamo partiti, inutilizzato e arrugginito simbolo di una fase della nostra cultura dell’educazione, verrà finalmente smontata e depositata in scantinato, mentre nel frattempo milioni di piccoli gessetti bianchi, grazie alle due piccole e umili lavagne di ardesia, avranno comunque aiutato i cervelli di decine di migliaia di ragazzi a capire il calcolo del minimo comune denominatore tra frazioni, e forse anche altre cose non meno importanti.

Archimede di Siracusa, sulla spiaggia di Ortigia, traccia segni sulla sabbia con uno stecco. Sta lavorando ad un nuovo teorema, ma per ora la soluzione gli sfugge. Corregge e cancella col palmo della mano, riscrive e cancella ancora. Ora si è preso una pausa, sa che le idee arriveranno, prima o poi. Si sofferma a guardare un attimo il tramonto e sorride tra sé e sé. 

Le regole del gioco

di Marco Moraschi, 19 aprile 2020

A quanti giochi sapete giocare? Giochi di carte, altri giochi da tavolo, giochi all’aperto, videogames, giochi di squadra, solitari. Sicuramente moltissimi e, se ve la cavate abbastanza bene, sapete anche che esistono alcune semplici regole, comuni a tutti i giochi, da rispettare:

  1. Tutti i giocatori devono conoscere le regole del gioco
  2. Tutti i giocatori devono rispettare le regole del gioco

Fine delle regole comuni. Perché il gioco funzioni è infatti necessario che tutti i giocatori ne conoscano le regole. Vi è mai capitato di “fare una mano” con le carte scoperte per insegnare a qualcuno come si gioca? O di accordarvi all’inizio della partita per sapere se gli altri giocatori usano il 3 o il 7 nella briscola? Bene, allora sapete cosa intendo. Se poi qualcuno bara, il gioco diventa molto meno divertente e probabilmente salta.

Inoltre sapete anche che in tutti i giochi alla fine qualcuno vince, mentre gli altri perdono, difficilmente vincono tutti. Il bello di questi giochi, però, è che esiste la possibilità di fare sempre partite nuove e quindi hanno tutti la possibilità di vincere e di giocare partite più fortunate e altre meno. Ora vorrei però segnalarvi un gioco al quale sto giocando da moltissimo tempo, diverso da tutti quelli di cui abbiamo parlato finora. Si chiama: società civile.

Anche in uno Stato, infatti, esistono delle regole specifiche e valgono sicuramente anche le due regole comuni a tutti i giochi di prima, ovvero:

  1. Tutti i cittadini devono conoscere le regole (leggi) dello Stato
  2. Tutti i cittadini devono rispettare le regole (leggi) dello Stato

Vivere “in società” con altri significa infatti darsi delle regole e rispettarle, per il bene di tutti, ovvero per fare in modo che, a differenza di tutti gli altri giochi, nel gioco dello Stato tutti possano vincere. La prima delle regole comuni è abbastanza rispettata: tutti conosciamo le regole di base di una convivenza civile all’interno dello Stato, magari non sappiamo bene cosa succede se non le rispettiamo, non conosciamo i commi o i codici del diritto, ma sappiamo che non bisogna uccidere, bisogna pagare le tasse e poche altre regole fondamentali. I problemi arrivano invece sulla seconda regola comune: non tutti infatti rispettano le leggi dello Stato. Ed è per questo che in tutti gli Stati esiste una magistratura, che vigila sul rispetto delle leggi e punisce i trasgressori. Con la nascita della magistratura a vigilare sul rispetto delle regole, ecco però che è nata una stortura nel gioco. Normalmente quando giochiamo a Monopoli, per esempio, sono gli altri giocatori che vigilano sul rispetto delle regole, e comunque noi tutti che giochiamo siamo coscienti che se decidessimo di imbrogliare toglieremmo tutto il divertimento del gioco a noi e ai nostri amici, perché la partita sarebbe truccata. In altre parole giocando con i nostri amici non imbrogliamo perché capiamo che è giusto così, non perché altrimenti i nostri amici se ne accorgono e ci facciamo una figuraccia. Ecco, nel gioco dello Stato purtroppo ci troviamo spesso davanti a questa situazione: rispettiamo le regole non perché siamo convinti della loro importanza o efficacia, ma perché altrimenti veniamo multati o processati. E ancora quando veniamo multati o processati, anziché prendercela con noi stessi che non abbiamo rispettato le regole, ci lamentiamo perché siamo stati beccati in fallo, che sarà mai per una volta, lo fanno tutti, perché non dovrei farlo anche io? La magistratura esiste quindi per fare in modo che la maggior parte dei cittadini non sia tentata di infrangere la legge e per punire i trasgressori, ma ovviamente non può vigilare costantemente su tutto e su tutti. Spetta quindi a noi rispettare le regole del gioco perché è giusto farlo, per i nostri amici e i nostri parenti, per tutti coloro che vivono in società con noi all’interno di questo gioco.

Bisogna pagare le tasse perché le tasse finanziano i servizi dello Stato (e non sono pochi) e sono fondamentali perché il gioco possa proseguire. Durante una pandemia non bisogna uscire di casa, non perché se mi fermano non so come giustificarmi, ma perché è giusto adottare un comportamento responsabile nel rispetto degli altri. Non bisogna rubare non perché altrimenti si va in prigione, ma perché in questo modo imbrogliamo e il gioco perderà tutto ciò che ha di bello. Eccetera.

Il bello del gioco dello Stato è poi che in ogni momento si possono cambiare le regole del gioco. Certo non possiamo cambiarle da soli e decidere, per esempio, che da oggi andiamo a lavorare nudi perché i vestiti sono una moda obsoleta, perché così facendo verremmo gentilmente accompagnati dai carabinieri in un ospedale psichiatrico. Ma pescando dalle carte della democrazia possiamo raccogliere firme, organizzare comizi e tavoli di discussione, portare una proposta in Parlamento e convincere gli altri che occorre cambiare una regola per rendere il gioco migliore e più divertente per tutti.

Vivere in uno Stato significa siglare un patto con chi “gioca” insieme a noi, aderire a delle regole comuni e decidere di rispettarle perché solo in questo modo il gioco dello Stato può funzionare. E voi avete mai giocato al gioco dello Stato?    

Con svista sul campo

di Fabrizio Rinaldi, 12 aprile 2020, Pasqua

Dall’esilio imposto dalla pandemia, raccolgo l’esortazione di Paolo (“Camera con vista sul futuro”) a raccontare aspetti della convivenza col virus, e a soffermarmi su quelli che in un’altra condizione non avrei mai colto.

A differenza della sua situazione, che lo vede costretto in un palazzo in città, io vivo sulle colline ovadesi. Sto in mezzo a una campagna che non vedeva da almeno una generazione tante persone improvvisarsi contadini, sfalciare l’erba, potare alberi, rose e viti in abbandono, arare il campo incolto montando il cingolato del padre o addirittura quello del nonno, che stava a riposo (il cingolato, non il nonno) in garage da decenni. Pure io ho completato – finalmente, a sentir mia moglie – il recinto per il cane, e ora tinteggio la casa e zappo l’orto.

Si stanno riportando alla luce fasce di terreno ormai abbandonate da secoli, per rispondere alla necessità di avere della verdura e non pagarla come oro. Sarà opportuno imparare velocemente a coltivarla con cura, perché è presumibile che la situazione non si risolva a breve e non ho voglia di mangiare la finta – e cara – insalata del Bennet.

Il problema è che non abbiamo l’esperienza e le malizie dei nostri avi, che il mestiere del contadino lo praticavano quotidianamente. Ci ho messo una vita a piantare dei pali, e sono al mio terzo dito martellato. Il mio vicino sta strozzando il decespugliatore e fra poco avrà il problema di trovare qualcuno che gli sostituisca il motore fuso.

Non trovando altre scuse a cui aggrapparci per rimandare ulteriormente i lavori che chi vive in campagna vede crescere attorno e dentro casa, siamo in obbligo a eseguirli per dare un senso a questa stasi forzata e per spuntare – finalmente – ciò che nella normalità ci è comodo evitare di fare.

Confesso che è anche un’ottima scusa per sfuggire per qualche ora al cappio familiare. Sembra essersi stretto un immaginario sodalizio fra il virus e un ministro clericale della famiglia, così da imporre con vincolo governativo che si stia sempre assieme, pena la morte per mano della malattia. Eppure nelle sacre scritture non c’è accenno al fatto che il Giuseppe della “santa” famiglia ciondolasse continuamente in casa con moglie e figlio. Ogni tanto sarà andato anche lui a bere un goccetto con gli amici, o in bottega a fare il suo mestiere (imprecando anche lui all’ennesima martellata sulle dita).

Alle famiglie “comuni” invece tocca questa convivenza forzata, che fa emergere differenze, incomprensioni e insofferenze, capaci, a lungo andare, di minare il rapporto. Per evitare il divorzio al termine della pandemia è necessaria una rigida disciplina di rispetto dei reciproci spazi fisici e mentali. Io, ad esempio, non voglio scocciature quando provo a scrivere due righe; mia moglie, dopo che le bimbe vanno a letto, e quando anch’io mi tolgo dai piedi, si gode il film romantico di turno. Ho comunque la fortuna di vivere in una casa relativamente grande, circondata dal bosco, e questo permette qualche momento di isolamento e distrazione. Non oso pensare a quelli che sono costretti in ambienti angusti con molti familiari, e magari nemmeno li sopportano.

Insomma, se questa situazione andrà avanti per molto, ne usciremo più poveri, ci sarà un mare di divorzi e tanto lavoro per i psicologi.

E veniamo ai figli: sono sempre fra i piedi. Sempre! Spendono molte energie per rivendicare giustamente il loro status, quindi pretendono attenzioni, esempi, e che ci si sostituisca agli insegnanti, o ci si improvvisi esperti digitali per le video-lezioni (di qualunque tipo), ecc …

Trovano soprattutto astuti stratagemmi per far emergere le differenti visioni di mamma e papà sulle modalità educative, in modo da trarne sempre vantaggio. E in genere ottengono ulteriore tempo da dedicare al gioco, anziché dare un minimo contributo a tenere in ordine la casa. La conseguenza ultima è l’uccisione di ogni istinto primigenio fra i genitori.

Le mie figlie sono ancora bambine, quindi vivono apparentemente senza grandi traumi questa forzata prigionia, trascorrendo la gran parte della giornata a giocare, disegnare, arrampicarsi sugli alberi e battibeccare. Sono ancora nell’età in cui desiderano stare con i genitori, e l’occasione è propizia ed abbondante. Lamentano ogni tanto l’impossibilità di incontrare i compagni di scuola, ma poco altro. Le ripercussioni, per loro e per i coetanei, si vedranno fra un po’, quando i rapporti da infantili diverranno adolescenziali. Saranno pianti, temo …

Ho infatti amici con figli adolescenti che vivono in modo traumatico questa convivenza obbligata. In una fase della crescita dove l’esperienza della interazione fra corpi è cruciale, questa lontananza risulta frustrante. Per non parlare dell’annientamento delle coronarie dei genitori …

Chi ha figli in età scolastica sta anche facendo i conti con la didattica via web. È encomiabile la dedizione con cui molte insegnanti si sono adeguate, imparando in pochi giorni a usare strumenti di non immediata comprensione, specie per chi non è nativo digitale ma più vicino al pallottoliere. Stanno facendo il possibile per completare il programma didattico, mettendo in campo tutte le loro capacità affabulatorie per catturare nelle video-lezioni l’attenzione di bambini distratti da contesti domestici sicuramente non propizi alla concentrazione: magari nell’altra stanza mamma passa l’aspirapolvere, e papà tira lo sciacquone.

Sto positivamente constatando quanto impegno ci mettano insegnanti e bambini nell’insegnare e nell’imparare, forse più che a scuola. La mia è una esperienza di paese, quindi per fortuna le classi sono piccole e possiedono una buona preparazione generale: il programma scolastico della primaria è stato interrotto quando erano già a buon punto. Sicuramente si tratta di una situazione privilegiata rispetto a quella in cui si svolgono le lezioni nelle città. E ancora più ostica immagino sia la condizione per i livelli scolastici superiori. Mi chiedo soltanto perché settimanalmente ci siano due appuntamenti con italiano e matematica, uno con religione, occasionalmente con scienze, a discapito della matematica, e nessuno con l’inglese. Capisco la necessità di mantenere i contatti con chi ci guarda di lassù, ma non sarebbe male curare anche gli altri.

Oltre alle video-lezioni con le insegnanti, i genitori sono chiamati a gestire anche quelle con gli istruttori e i responsabili di quei corsi che in tempi normali servivano a scrollarsi di dosso la prole per alcune ore.

Le mie figlie seguivano corsi di arrampicata, di teatro e frequentavano gli scout. L’istruttrice del primo ha scritto in un messaggio: “Vista la situazione, fate gli esercizi di riscaldamento che riuscite e, se lo avete, giocate in giardino”. Pragmatismo e sintesi in istruzioni di buon senso.

Invece i capi-scout e l’insegnante di teatro sommergono i bambini (e di conseguenza i genitori) in un turbine parossistico di compiti e istruzioni per realizzare balletti, disegni, esercizi teatrali e altro, attraverso canali youtube e lezioni via whatsapp e skype.

Qui ci esco di matto: per me sono incompatibili le finalità originali dei corsi (scarpinare, mettere alla prova i corpi, la capacità di esprimersi con essi e favorire le relazioni con i coetanei) e le attività proposte in remoto, che ovviamente non prevedono la partecipazione fisica e collettiva degli iscritti. L’unica giustificazione è dare un senso alla retta già pagata. Ma francamente non mi basta. Ci vorrebbe un po’ di realismo: ammettere che il corso non può proseguire ed esser disponibili a restituire parte della quota. Tra l’altro, vista la difficoltà contingente, credo che pochi la vorrebbero indietro.

Mi irrita soprattutto la perseveranza degli scout nel richiedere l’invio del video sul piatto cucinato dai lupetti, o quello sul canto propiziatorio, e la competizione a presentare i migliori prodotti (in genere filmati), con bambini sempre più svogliati nell’eseguire il balletto o il canto. Temo ci sia gente che obbliga i figli a rifare la stessa scena decine di volte, per ottenere capolavori di ovvietà.

La distanza sociale che ci separa da parenti e amici ci induce ad utilizzare sempre più spesso le videochiamate, per avere l’illusione di sentirci più vicini, utilizzando gli stessi strumenti impiegati per le lezioni dei figli.

A differenza della consueta telefonata, che implica l’esclusività del rapporto a due, le chiamate video consentono l’interazione con l’immagine in presa diretta di molti interlocutori, ciò va a discapito, oltre che della perdita di unicità della comunicazione, anche della qualità audio, specie in zone impervie come la mia.

Per le videochiamate ci si deve preparare: ci si pettina, ci si da un contegno, preamboli non necessari nell’usuale telefonata. E questa è una prima scocciatura. Inoltre nei volti dei partecipanti si legge l’impazienza a concludere la conversazione: una volta che hai commentato l’immagine dell’interlocutore, ironizzato su ciò che si sta facendo, speso qualche parola di preoccupazione sulla diffusione della pandemia, non sai più che cavolo dire. Forse ci vorrà un po’ di tempo per prender dimestichezza col mezzo e andare oltre le formalità di circostanza.

Di fatto avverto una crescente insofferenza, non solo mia ma generalizzata, nello stare a contatto troppo stretto con altri: come se questa condizione di isolamento andasse creando una barriera comunicativa e sociale. Non si ha più voglia di parlare. È venuto meno il piacere della conversazione. Persino lo sparlare degli altri oggi non dà più soddisfazione, perché manca la fisicità del rapporto. O forse la distanza forzata ci rende brutalmente consapevoli di quali sono i rapporti cui teniamo realmente. Prima o poi dovremo chiederci quali sopravvivranno a questa assenza fisica.

Per quel che mi riguarda, non mi mancano le consuetudini sociali: i giri per negozi, l’andare al bar o il vedere gente. Non ho la possibilità di camminare oltre il mio bosco, e di vedere un po’ di amici e parenti stretti, ma con questi basta la telefonata o il messaggio per dirsi l’essenziale.

Trovo così il tempo anche per rimetter mano al sito, cercando di rendere più visibili i pezzi di Sottotiro review e i vecchi Quaderni, e scoprendo ancora una volta quanto materiale e quanti stimoli al pensiero i Viandanti delle Nebbie abbiano prodotto in un quarto di secolo. Una attività impressionante!

Ma sento vocine ridacchiare nell’altra stanza. Il mio momento privato è già finito. Le bimbe si sono alzate e vogliono rompere le uova pasquali. E ci riescono benissimo!

Collezione di licheni bottone

Introduzione a “Il grande crollo del muro di carta”

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2019

Ancora un tuffo all’indietro per cercare di decifrare il presente. Ripropongo, a vent’anni di distanza, la bozza di presentazione di un progetto nel quale ero stato coinvolto dalla sovrintendenza scolastica regionale.

Il proposito era ambizioso: si trattava di recuperare alla lettura una popolazione studentesca sempre più disamorata e pericolosamente avviata sulla china dell’analfabetismo di ritorno – non solo letterario, ma politico, affettivo, relazionale. Insomma, l’analfabetismo generalizzato oggi dilagante.

Dopo il gran polverone iniziale, con riunioni a Torino, creazione di una commissione, coinvolgimento degli enti locali, insomma, tutta la consueta liturgia, l’iniziativa venne rapidamente ridimensionata: per la mancanza di un reale interesse (e quindi degli stanziamenti promessi) da parte del ministero, che pure l’aveva sollecitata sull’onda di un paio di inchieste allarmanti comparse sui giornali; per la resistenza passiva opposta dalla classe docente, molto più preoccupata per le prospettive che cominciavano a essere ventilate di tagli agli organici, e quindi di trasferimenti o di mancate immissioni in ruolo, che per la disaffezione degli studenti nei confronti della lettura; per l’evidente impossibilità di quantificare concretamente i risultati, e quindi di monetizzarli “politicamente”; e infine, per l’ambiguità già intrinseca al progetto, che in fondo trattava una disposizione da salvaguardare come una competenza da inculcare.

La cosa si è dunque trascinata svogliatamente per un paio d’anni, nella più completa assenza di azioni o almeno di proposte davvero alternative a quelle già sperimentate e palesemente del tutto inutili: qualche spicciolo in più per le biblioteche scolastiche, qualche “incontro con l’autore”, imposto ad allievi del tutto disinteressati, qualche esperimento di “lettura guidata” condotto dai docenti più motivati, ma mirato più che altro a giustificare la richiesta di briciole di finanziamento per i fondi dei rispettivi istituti. Poi tutto è tornato come prima, l’emergenza è tacitamente rientrata, visto che la disaffezione si era ormai trasformata in una condizione ordinaria, e il progetto non ha fruttato un solo lettore in più. Come era prevedibile, e dal mio punto di vista in fondo anche giusto: quando lo scopo è creare dei consumatori, anziché dei lettori, non si possono che salutare senza troppi rimpianti i naufragi.

Ho ripescato il testo nella versione originale che avevo proposto e che era stata inserita – non senza qualche perplessità e qualche modifica – nella prima bozza del documento ufficiale. Che fine abbia poi fatto non lo so, perché appena ho fiutato come si sarebbero messe le cose (e cioè quasi subito) sono sceso dal carrozzone. L’ho ripreso adesso non per una coazione al riciclo (sinceramente, avrei di meglio), ma perché in fondo, al di là del linguaggio “ministerialmente corretto”, dei limiti dettati dall’ambito prettamente scolastico cui si faceva riferimento e del timido ottimismo (timido ma non forzato: un po’ allora ci credevo, altrimenti non avrei accettato) non lo trovo del tutto superato: l’impostazione e i brevi spunti di analisi li condivido in buona parte ancora. I tempi hanno però resa quasi patetica la parte propositiva. Ripropongo queste pagine perché mi offrono il destro di tornare sul problema, che nel frattempo si è aggravato in maniera esponenziale, e di farlo col minimo sforzo, limitandomi ad aggiornare il decorso clinico dell’agonia con qualche cifra e con un paio di riflessioni extra-vaganti.

 

Tramonto del “colonialismo”?

di Fabrizio Rinaldi, 14 settembre 2019

La parola “colonia” evoca di primo acchito nei più un profumo non troppo esotico, piuttosto leggero, che può riuscire conturbante se pubblicizzato da una procace fanciulla. Per quelli politicizzati, o che qualcosa ancora sanno di storia, è invece sinonimo dell’imperialismo occidentale, e rimanda a vergognose vicende di oppressione e sfruttamento. A molti altri ricorda anche l’odore acre dei calzini usati, la presa di coscienza di ritmi e regole diversi da quelli domestici, la scoperta dei propri sensi, aspirando a fare altrettanto con l’altro sesso (intenti sempre delusi), ma soprattutto la voglia di divertirsi, in compagnia di coetanei, al mare o in montagna.

Qualche “colonia di cura” per i bambini malati, soprattutto per quelli affetti da tubercolosi, era già sorta nella seconda metà dell’Ottocento e ai primi del Novecento, gestita da enti religiosi o da associazioni caritatevoli e ispirata ai benefici terapeutici che la medicina cominciava a riconoscere all’aria pura o allo iodio. L’istituto conobbe però uno sviluppo significativo solo negli anni trenta del secolo scorso, questa volta nel quadro di un più vasto progetto di “educazione fascista totale” varato e gestito direttamente dal regime, che riguardava tutti i minori e andava ben oltre le finalità curative. Bisogna riconoscere che, al netto degli scopi propagandistici e di condizionamento, l’impegno in questo campo fu davvero notevole. Per ideare le strutture vennero mobilitati i migliori architetti del periodo, e negli anni immediatamente precedenti la guerra si arrivò ad ospitare in esse poco meno di un milione di bambini.

Nel secondo dopoguerra il fenomeno è nuovamente esploso, e per almeno due decenni ha rivestito una fortissima valenza sociale. A cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta per la maggior parte dei bambini la colonia estiva rappresentava ancora l’unico possibile battesimo del mare, e a molti offriva addirittura il primo contatto con pasti regolari e abbondanti. Dove non arrivavano le istituzioni (le colonie erano di competenza delle amministrazioni pubbliche) intervenivano i privati: ogni grande azienda o gruppo finanziario, moltissime associazioni di categoria e vari istituti religiosi, addirittura le singole parrocchie, facevano a gara nel dotarsi di strutture per le vacanze estive, con livelli di accoglienza molto diversi, speculari ai “ranghi sociali” dei destinatari, ma tutto sommato abbastanza simili nelle finalità e nelle modalità di gestione.

Lo scopo, una volta superata l’emergenza sanitario-alimentare, era quello di offrire ai bambini, soprattutto a quelli abitanti in città che cominciavano a patire i danni dell’inquinamento industriale, una pausa di disintossicazione, e in secondo luogo di favorirne la socializzazione con coetanei di altre zone e di altre regioni. Che poi si divertissero era dato per scontato, ma non costituiva una priorità. Questo spiega ad esempio la percezione negativa dell’esperienza di colonia maturata in genere da chi arrivava dai paesi di campagna (pochi, per la verità): a differenza dei cittadini, costoro si trovavano costretti in una gabbia di orari, di regolamenti e di norme precauzionali ai quali non erano affatto abituati, e che soffocavano la libertà semi-selvaggia nella quale erano cresciuti.

Tutto ciò è andato avanti sino agli anni del boom economico. Poi è iniziata la decadenza. Le famiglie cittadine, anche quelle meno abbienti, quelle operaie, hanno cominciato a potersi permettere brevi periodi di vacanza al mare o in montagna, così che la funzione principale delle colonie è venuta meno: ed anche i bambini, allevati ormai a nutella e televisione in un clima di trionfante lassismo educativo, sono diventati sempre meno disponibili a rinunciare alla loro razione quotidiana di schifezze e a sottostare a regole uguali per tutti.

Il risultato è che la stragrande maggioranza delle colonie non sono sopravvissute al cambiamento. Per rendersi conto concretamente della dimensione del fenomeno e di quanto è successo basta fare un giro lungo la costiera ligure, toscana o adriatica. Si incontreranno numerosissimi edifici, a volte anche decisamente belli e situati in posizioni fantastiche, a un passo dal mare, ormai in totale abbandono, invasi dalla fagocitante vegetazione infestante, quando non già ridotti a scheletri di cemento e a rifugio di sbandati. Solo lungo la costa adriatica ce ne sono più di 200.

Il tramonto di questo “sistema coloniale” è stato determinato naturalmente anche da altre cause, più spicciole. Intanto l’impegno finanziario: i costi per mantenere funzionali questi mastodontici complessi architettonici e adeguarli a normative sulla sicurezza sempre più stringenti sono enormi. Poi ci sono quelli di gestione, anch’essi lievitati in maniera esponenziale assieme al numero di addetti necessari a garantire la sicurezza, l’accoglienza, il divertimento e le aumentate esigenze degli ospiti. Negli anni cinquanta un’educatrice presiedeva gruppi di trenta o quaranta bambini, oggi il rapporto è di molto inferiore. In una società bambinocentrica come quella attuale le responsabilità legali nei confronti dei minori sono pesantissime, e a queste si aggiungono quelle morali create da genitori che mettono costantemente in discussione l’operato delle figure educative a cui sono affidati i figli.

C’è anche un ulteriore aspetto, tutt’altro che marginale, a cui sono particolarmente sensibili i governanti e i sindaci: quale ritorno ha sulla loro immagine politica il finanziamento di queste strutture? La scelta di investire su questi servizi e promuoverli adeguatamente non ha una ricaduta immediata in termini di consenso, non è politicamente remunerativa per una classe politica che ha l’occhio costantemente ai sondaggi o alle prossime elezioni e si preoccupa solo della propria sopravvivenza: sono progetti a lungo termine nei quali paradossalmente sembrano potersi impegnare solo i regimi autoritari, con finalità appunto cui si accennava sopra. Favorire i servizi offerti nelle colonie hanno un ritorno a lungo termine di sensibilizzazione fra coetanei di differenti estrazioni sociali, di arricchimento di esperienze che rafforzano le personalità di chi le vive, di integrazione fra culture lontane e un’infinità di altri fattori stimolanti.

Le colonie di vacanza che sopravvivono sono nel frattempo diventate un’altra cosa. La parola stessa “colonia” è ormai tabù. È stata sostituita per lo più dalla dicitura “centro estivo”, e in effetti la differenza è sostanziale: la prima era un contenitore di esperienze anche fisicamente lontane dalle consuetudini familiari e quotidiane. La seconda è la versione “zuccherata” compatibile con la società attuale: i genitori stazionano in genere a pochi chilometri – se non metri – in modo da poter (dover) intervenire in ogni decisione (la responsabilità è sempre demandata a loro), compreso il programma delle attività che i loro pargoli svolgeranno. Questi ultimi sono dunque parcheggiati in oasi “ricreative”, la cui principale finalità è quella di risolvere i problemi logistici di padri e madri, sempre più indaffarati a fare altro.

Nella logica genitoriale ciò che importa è mantenere un illusorio controllo sul ragazzo (che in realtà è lasciato poi in balìa dei social e della televisione), e questo significa precludergli una esperienza formativa davvero fondamentale, vissuta per più giorni con compagni d’avventura della stessa età, senza avere tra i piedi il parentado pronto al soccorso e alla difesa, resa affascinante proprio dalle paure che uno scopre di poter vincere, dalle piccole complicità che stringe, dalla trasgressione costituita già di per sé dal pernottare fuori casa.

Tuttavia qualcosa sembra stia accadendo. Intanto, se i chiari di luna economici degli ultimi due decenni si protrarranno ancora per un po’ (e sembra certo che sarà così) molte famiglie non riusciranno più ad offrire ai loro pargoli altre vacanze se non un breve periodo di “colonia”. Le resistenze sono molte, per i motivi che ho esposto sopra e per quelli che analizzerò a parte dopo, ma il vento spinge in questa direzione. E spinge già decisamente anche tutta quella parte nuova della nostra popolazione che nelle ex colonie, quelle altre, quelle politiche, ci è nata e c’è scappata sua malgrado, e non ha conosciuto il nostro benessere, e non dispone certo di case per le vacanze.

Ho anche il sentore che sia in atto anche un mutamento di sensibilità, che sta inducendo una diversa attenzione al recupero delle vecchie strutture (giustificata, oltre che ecologicamente motivata, dal fatto che le architetture “coloniali” degli anni trenta sono tutt’altro che disprezzabili): anziché lasciarle andare in pezzi in attesa di poter sfruttare diversamente gli spazi, o di “valorizzarle” trasformandole in alberghi o discoteche o centri commerciali, si comincia, almeno in alcune regioni, a ipotizzare per esse un ritorno alla vecchia funzione.

Infine, questo mutamento sembra investire anche il concetto stesso della vacanza in colonia, e ciò avviene paradossalmente presso i ceti di livello culturale più alto, quelli che si stanno convertendo – più per tendenza che per convinzione – alla sobrietà e alla decrescita felice, ma anche ad un modello educativo meno familista. Vuoi per tendenza, vuoi per snobismo, vuoi per genuina convinzione, sembra che i prossimi fruitori di un rinnovato “sistema coloniale” possano diventare proprio quelli che delle colonie avrebbero meno bisogno, disponendo già con larghezza di doppie o triple case, al mare o in montagna. Ed è quindi ipotizzabile che, costituendo queste élites il parametro di riferimento per chi vuol essere anticipatore di una moda di nicchia, si trascineranno dietro col tempo, almeno fino a quando la scelta alternativa non sarà diventata troppo comune, una buona fetta di quella utenza che oggi arriccia il naso.

Quale possa essere un modello rinnovato di esperienza in colonia mi riservo di esemplificarlo nelle pagine in allegato. Per il momento mi limito a constatare che i presupposti per un rilancio della vacanza in colonia, sia pure pensata per finalità diverse e gestita con modalità più adeguate ai tempi nuovi, ci sarebbero quasi tutti. Ne manca purtroppo uno fondamentale: ovvero una classe politica capace di alzare gli occhi dal proprio ombelico e di guardare al futuro, anziché in termini di vitalizi, in termini di progettazione sociale. Ma a questa assenza, nostro malgrado, ci stiamo ormai abituando. Più importante che mai diventa allora la presenza nostra, attraverso la partecipazione attiva alle politiche locali e la pressione ed il controllo continuo esercitati sulle amministrazioni deputate a dire l’ultima parola sulla destinazione dei vecchi immobili “coloniali”. Nel giro di tre anni, ad esempio, l’amministrazione provinciale alessandrina ha svenduto a privati, nella più totale indifferenza dei partiti e dei cittadini, le due proprietà “coloniali” di Arenzano e di Caldirola. Ad una destinazione alternativa, ad un riutilizzo almeno parziale, magari coinvolgendo nella manutenzione essenziale la miriade di associazioni sportive, culturali, assistenziali, di volontariato che operano in provincia, non si è nemmeno provato a pensarci. Lo stesso sta accadendo quasi ovunque.

Ma i politici non sono arrivati da Marte. Li scegliamo noi, sia pure per modo di dire, e ci rappresentano, non tanto in senso attivo, ma senz’altro in quello passivo: sono cioè il nostro specchio. Per questo, se in futuro i nostri nipoti al mare dovremo accompagnarli noi, imbarcandoci in autostrade fatiscenti, affrontando giornate torride, scottandoci su spiagge roventi, col rischio magari anche di non trovarne un fazzoletto libero, bene, potremo ringraziare solo noi stessi. Conosceremo qualcosa che fino ad oggi abbiamo attribuito solo ai vecchi reazionari o ai rimpatriati dalla Libia: la nostalgia delle colonie.

APPENDICE
Ritorno a casa (vacanze)

L’unica importante amministrazione pubblica che ancora riesce a sostenere politicamente ed economicamente lo sforzo di mandare i suoi piccoli cittadini in colonia è quella milanese.

Le strutture di Milano non si chiamano più colonie, ma “Case Vacanza”. Non è una scelta casuale: il nome allude a momenti di svago e divertimento, escludendo la possibile connessione del termine “colonia” con l’aggettivo “penale”: un perfetto esempio di restyling linguistico.

Il contributo chiesto dal comune alle famiglie per mandare i figli in vacanza è relativamente basso e proporzionato al reddito. Nonostante ciò, negli ultimi anni si è riscontrata una riduzione del numero di partecipanti. Le cause non sono chiare, ma sono sicuramente riconducibili ad un mutamento sostanziale rispetto al tipo di società che ha creato queste strutture. Provo ad azzardarne alcune:

  • il rapporto sempre più claustrofobico genitori-figli infonde un senso di colpa nei primi quando affidano ad altri la preziosa progenie;
  • alle vacanze si deve obbligatoriamente partecipare con i familiari, perché sono uno dei pochi momenti in cui ci si ritrova tutti insieme per vivere la stessa avventura; salvo poi scoprire, magari, che quando l’intento è preservare gli equilibri familiari riesce più opportuno affidare i figli alla babysitter;
  • le colonie sono state pensate decenni fa, per truppe di minori abituati a standard di confort imparagonabili a quelli dei viziatelli di oggi, cui fa orrore condividere il bagno con altri;
  • le attività proposte sono extra-ordinarie rispetto alle consuetudini di casa, sono pensate per favorire la socializzazione tra bambini di ceti sociali e culture differenti; e questo si scontra con un crescente bisogno di unicità, con un agire focalizzato sulle singolarità. Lo dimostra il fatto che la gran parte dei bambini vorrebbe riprodurre nel contesto della colonia i modelli comportamentali casalinghi consueti (vedere la tv, giocare su internet, cellulare, playstation, ecc …). Non sono abituati a giocare con gli altri, a confrontarsi per stabilire le regole comuni di gioco, quindi per un nonnulla litigano e vengono alle mani. Non parliamo poi del semplice camminare: ruzzolano a terra lungo un sentiero o anche per le strade del paese, perché non badano a dove posano i piedi. Rischiamo di perdere nel giro di un paio di generazioni i progressi che in milioni di anni hanno condotto alla deambulazione eretta;
  • il genitore cerca spesso un appagamento e una valorizzazione della propria figura e del proprio ruolo nell’offrire ai figli delle avventure “uniche” (a costo di incrementare ulteriormente il debito con la banca): non importa quanto la magnificentissima prole gradisca, ciò che conta è che le stesse avventure siano magari precluse al figlio del collega, che invece va in colonia. Il mercato è lì pronto con i suoi pacchetti di opportunità per soddisfare il desiderio di emozioni indimenticabili ed “esclusive”: fare rafting nelle rapide di fiumi immacolati, andare per cetacei con la promessa di incontrare Moby Dick, attraversare in barca mari ignoti, visitare siti archeologici il più possibile esotici, ecc …

Nelle colonie – o come vogliamo chiamarle – l’offerta è molto più sobria: il loro scopo è far vivere al bambino esperienze connesse al luogo, nel modo più puro: in montagna si cammina, al mare si nuota. Sembrano banalità, ma troppo spesso si cercano sovrasignificati, dimenticando di apprezzare appieno il luogo in cui ci si immerge. In particolare nelle Case Vacanza ci si sforza di dare l’opportunità al bambino di vivere il momento, di godere il piacere dello stare lì con altri compagni.

 

Nelle strutture di Milano intere classi vivono l’avventura di restare lontani da casa anche durante il periodo scolastico. Il soggiorno in una Casa Vacanza è di un’intera settimana, durante la quale i bambini vengono “immersi” nel territorio, tramite escursioni, laboratori e attività connesse all’ambiente locale, e sviluppano ovviamente anche gli obiettivi di conoscenza e approfondimento delle relazioni fra compagni.

Gli studenti milanesi hanno l’opportunità di vivere, nel loro intero percorso scolastico, più settimane in strutture localizzate in contesti molto diversi: si va dalla Casa di Ghiffa sul lago Maggiore per i bambini dell’infanzia, per poi passare nelle Case liguri di Andora e Pietra Ligure durante la primaria, ed infine a Vacciago sul lago d’Orta e a Zambla Alta sulle Prealpi Orobiche per i ragazzi della secondaria. Un ventaglio di contesti ambientali e di avventure davvero ampio.

Purtroppo, è un’opportunità unica che non viene adeguatamente valorizzata dall’amministrazione pubblica – per i motivi che citavo prima – ma neppure dai milanesi stessi, che spesso rievocano l’esperienza vissuta nella loro infanzia, in positivo o in negativo, senza però considerarne gli effetti “socializzanti”, come cioè abbia inciso poi sulla loro vita da adulti.

Ma accenniamo almeno a come si traduce poi, all’atto pratico, questa opportunità: cosa si fa cioè in colonia. L’avventura inizia in realtà già da fuori per il personale docente delle scuole, che ha l’ingrato compito di organizzare le “uscite didattiche”: invia mail, compila moduli, spiega ai genitori (per lo più disinteressati) gli obiettivi che si perseguono, chiede autorizzazioni, ISEE, attestazioni sanitarie, liberatorie e una valanga di altri documenti.

Arrivati poi in struttura e iniziando ad immergersi nell’esperienza, i docenti si distinguono in tre grosse categorie: quelli scafati, che sanno districarsi nelle vie sconosciute della città visitata e che del duomo di turno conoscono più particolari della guida del luogo; quelli che appena possibile lasciano libero il gregge di fanciulli per dedicarsi allo shopping o per fiondarsi in qualche bar o gelateria; quelli infine – piuttosto rari –che perseguono con ostinazione l’obiettivo di condividere con i minori affidati loro l’esperienza di “stare” fuori la scuola e “fare” comunque scuola. Tutti sono però egualmente coscienti del fatto che non verranno adeguatamente retribuiti per lo sforzo che si sobbarcano e per le enormi responsabilità di cui sono investiti nel portare dei minori fuori dalle aule scolastiche.

Gli educatori presenti nelle strutture non impiegano molto a capire come interagire con loro e con gli studenti per sopravvivere senza fare il pieno di bile: spesso i docenti li trattano, specie all’inizio, con sufficienza, salvo poi apprezzarne nel corso della settimana la professionalità, la capacità di assolvere ai compiti che il loro ruolo richiede e di individuare l’esistenza fra i ragazzi di dinamiche aggrovigliate – e magari sbrogliarle.

Come venga recepita la presenza delle scolaresche sul territorio lo si capisce in primis quando si prendono gli autobus di linea per andare dalla Casa Vacanza al museo o al sentiero. Nei volti dei malcapitati anziani che vi viaggiano si leggono il fastidio e il disprezzo nei confronti di una gioventù turbolenta, vivace, un po’ maleducata: lo dice il modo in cui guardano al ragazzino rasta, alla ragazzina col pearcing o a quelli con la pelle più scura. Specie verso questi ultimi il fastidio arriva a venarsi talvolta persino di un filo d’odio. Sono per un attimo spiazzati quando il “rasta negro” si alza e lascia loro il posto a sedere, e se accennano ad un breve sorriso non è per ringraziare, ma giusto per rimarcare il “ci mancherebbe ancora”.

Poi c’è il gioco. Questo dovrebbe rappresentare uno dei momenti più alti dell’avventura. Ma giocare a cosa, visto che i bambini non lo sanno più fare assieme, se non i maschi a calcio e le femmine a commentare le prestazioni calcistiche maschili? Nell’era digitale anche i preadolescenti sono più interessati a smanettare sui cellulari che a confrontarsi con gli altri. Quando sono costretti a stare assieme ai coetanei manifestano la loro noia di fronte a qualsiasi proposta, una semplice caccia al tesoro o altro gioco di gruppo: per poi rimanere sorpresi nel momento in cui realizzano che si stanno divertendo anche senza l’uso della protesi digitale.

I momenti di genuina crescita sono davvero tanti, e molti di essi sono impliciti nell’esperienza stessa, perché portano alla consapevolezza che nel contesto della colonia sono sperimentabili quelle libertà, quei diritti, ma anche quei doveri verso gli altri, che spesso diamo per scontati, ma che sono sempre più minati dalla falsa emancipazione digitale. Andare in colonia significa mettere alla prova la propria capacità di stare con gli altri, e comprendere che la libertà di ciascuno passa attraverso quella altrui. Tutto ciò è il presupposto del fare politica, nel senso più alto del temine: e la speranza è che in futuro i ragazzi di oggi possano mettere a frutto questa esperienza, portandone gli esiti anche nei palazzi amministrativi e governativi.


Collezione di licheni bottone

Una modesta proposta

di Paolo Repetto, 20 aprile 2019

Ho lasciato la scuola ormai da quattro anni e, stranamente, non mi manca affatto. Ho piuttosto l’impressione di essere io a mancarle, ma a quanto pare va avanti lo stesso, anche se molto male. In questo periodo sono stato tentato più volte di stilare un bilancio consuntivo del nostro rapporto, e se ancora non l’ho fatto è perché temo di scrivere l’ennesima autobiografia. Sarebbe davvero troppo.

Del resto, ho già espresso in maniera molto articolata le mie idee sulla scuola e sul suo incerto futuro in un breve saggio risalente a una decina d’anni fa. Nel frattempo le cose hanno volto al peggio con una velocità impensabile anche nella più pessimistica delle previsioni, e devo ammettere che quella mia analisi risulta in buona parte superata. Alcuni dei motivi di questo scadimento li ho accennati ne Il supplente nella neve: naturalmente sono solo quelli più evidenti, i primi che balzano agli occhi. Ce ne sono diversi altri, di egual peso, ma non è nelle mie intenzioni addentrarmi in una disanima puntuale. Non ho più le conoscenze dirette, il polso della situazione, e forse non ho mai posseduto, nemmeno prima, gli strumenti adeguati per farlo: soprattutto, però, devo ammettere che non mi interessa. Voglio soltanto cogliere l’occasione offertami dalla rilettura de Il supplente per ritrovare un po’ di quella carica pacatamente utopistica che Puccinelli coltivava ed esprimeva con tanta genuinità e discrezione.

La mia “modesta proposta” nasce in difesa di una certa idea della cultura e a rivendicazione del ruolo di quest’ultima: e dal momento che considero tutte le altre agenzie “culturali”, dalla televisione al cinema, alla rete informatica e persino all’editoria, asservite ormai totalmente alla logica dell’algoritmo e al primato dello spettacolo, o addirittura consustanziali ad essi, è ristretta al solo ambito dell’insegnamento scolastico.

Parte da una considerazione molto semplice: la cultura si costruisce e si trasmette attraverso strumenti e si concretizza poi in contenuti, e solo in alcuni casi i due momenti coincidono (ad esempio, nell’insegnamento della storia i contenuti possono essere considerati al tempo stesso materiale da interpretare e strumento interpretativo per successivi accadimenti, e sono comunque imprescindibili): per altri si può invece operare una distinzione, che naturalmente non è mai del tutto netta, ma ha una ragion d’essere (le competenze linguistiche, tanto per la lingua madre come per quelle straniere, la padronanza del lessico e delle regole grammaticali e sintattiche, pur se naturalmente finalizzate ad una conoscenza e ad una interazione più ampia, possono esistere anche quando non vengano direttamente applicate alla lettura o alla conversazione. Lo stesso vale per quelle matematiche, che hanno vita propria anche se non impiegate nei più disparati campi conoscitivi, dalla fisica all’astronomia alla statistica). Andando proprio all’ingrosso, direi che occorre distinguere tra potenzialità innate, o quasi, e competenze indotte.

Credo dunque che si dovrebbero concentrare gli insegnamenti delle abilità pure (leggere, scrivere, fare di conto, apprendere una lingua straniera) nella prima fase scolastica, senza disperdere la concentrazione degli studenti in mille altre attività. Queste potevano avere senso quando l’impegno scolastico era limitato per la stragrande maggioranza a cinque o ad otto anni, e si rendeva necessario offrire almeno una infarinatura di tutto: ma ne hanno molto meno in presenza di un obbligo che si prolunga in pratica sino alla maggiore età. Tutto ciò che oggi va ad implementare a dismisura l’offerta come oggetto di discipline specifiche e differenziate, parlo di cose come cittadinanza e costituzione, musica, arte, informatica, scienze naturali, la storia stessa, può benissimo essere offerto in questo primo periodo direttamente in forma di contenuti richiamati all’interno delle discipline fondamentali (letture di italiano o di inglese, problemi di matematica, ecc …), o filtrando e indirizzando con accortezza la fruizione di quanto offerto dalle altre agenzie “formative” (ad esempio: i ragazzini seguono comunque la televisione: si può provare almeno ad orientarli verso le proposte migliori). Ci ho infilato anche la storia, mio malgrado, proprio perché la storia è la disciplina che maggiormente amo e che oggi appare la più bistrattata, perché la ritengo essenziale e vorrei vederla insegnata in maniera decente ed efficace. Per storia, per la storia naturale e per la storia dell’arte, e persino per geografia, ridurrei al minimo le proposte: quel tanto che basta a trasmettere un po’ di senso della profondità del tempo e della vastità dello spazio.

In questo modo si otterrebbe un triplice risultato: una minore dispersione dell’impegno e dell’attenzione dei ragazzi, un maggiore adeguamento dei contenuti alle reali capacità di ricezione critica e consapevole, l’eliminazione di quelle ripetizioni che portano poi gli allievi adolescenti a stufarsi e a dare per conosciuto quello che hanno già affrontato, ma malamente (provate a far apprezzare nella sua eccezionalità musicale, linguistica e filosofica Il sabato del villaggio a chi lo ha già studiato in quinta elementare e parafrasato alle medie …). Inoltre ritengo che lasciare un po’ nel vago proprio le idee di vastità spaziale e di profondità temporale possa preservare una curiosità più genuina, spingere i ragazzi ad indagare coi propri mezzi e a penetrare volontariamente i misteri. E non solo: credo anche sia più efficace offrire loro la versione reale dei fatti al momento giusto, dopo che hanno conosciuta quella fasulla proposta dai media, per esempio dai film o dalle serie storiche viste in televisione, anziché il contrario. Esiste un piacere speciale nella conoscenza, quello di vedere le cose andare al loro posto, di trovare loro una spiegazione convincente.

Questo dovrebbe essere il compito della fase superiore degli studi. Dare a ragazzi che hanno appreso a usare correttamente gli strumenti, e per farlo hanno indubbiamente già dovuto confrontarsi con alcuni contenuti e manipolare un po’ di materiali, la possibilità di applicare delle competenze solide a materiali robusti ma al tempo stesso delicati, che vanno maneggiati con cura.

Anche a questo livello andrebbero identificate alcune discipline fondamentali, quelle che concorrono alla costruzione del cittadino consapevole e partecipe, per le quali l’insegnamento dovrebbe essere obbligatorio, e altre più o meno opzionali, che assecondino le tendenze, le aspirazioni e le attitudini specifiche dei singoli allievi. Opzionale non significa buttato lì: anzi, implica una responsabilizzazione e un impegno maggiori, dal momento che sono frutto di una libera scelta. Senza tanti giri di parole: sappiamo tutti benissimo che con l’inglese scolastico un nostro studente non sarebbe nemmeno in grado di uscire dall’aeroporto di Londra e che con la pratica sportiva fatta a scuola non distinguerebbe un campo da bocce da uno di baseball e non reggerebbe duecento metri al piccolo trotto. Non a caso la maggioranza dei ragazzi è piena di impegni pomeridiani specifici, per lo sport o per la musica, e frequenta corsi speciali di lingua o di informatica se vuole ottenere quel minimo di padronanza della materia necessario per le certificazioni. Tutte queste cose, in una scuola ridisegnata in funzione dell’ossatura primaria del cittadino, potrebbero in realtà essere ricondotte in maniera davvero efficace nell’ambito dell’istituzione.

Resta però inteso che nessuno di questi cambiamenti avrebbe senso se non si operasse preventivamente una diversa selezione degli educatori, con effetto anche retroattivo. L’ipotesi più radicale, che nessuno avrà mai il coraggio di abbracciare, per motivi di impopolarità prima ancora che di impraticabilità “tecnica”, è quella di un accertamento serio dell’idoneità all’insegnamento rispetto a chi è già in cattedra. Mi rendo conto che significherebbe lasciare a casa il sessanta per cento almeno dei docenti, indirizzarli ad altre mansioni o direttamente al reddito di cittadinanza, e comporterebbe un periodo di grossa difficoltà per garantire la continuità dell’insegnamento. Ma consentirebbe di reclutare poi, sempre che si elaborassero criteri validi e imparziali, una nuova classe docente davvero motivata e preparata alla bisogna.

La grande riforma comporterebbe naturalmente anche una ridefinizione del ruolo dei dirigenti, che dovrebbero tornare, da manager aziendali quali sono diventati, a quello che un tempo era il compito dei presidi: garantire non l’aumento del fatturato in termini di iscrizioni, ma l’esistenza all’interno della scuola delle condizioni per imparare e per insegnare: quindi tenere a bada genitori invadenti e allievi maleducati, e vigilare sull’operato dei docenti.

Spero sia evidente che sto procedendo per ipotesi paradossali: ma in verità la cosa davvero paradossale è che si accetti di vedere la scuola ridotta ad un immenso parcheggio ad ore di anime e corpi a tutt’altre faccende interessati, funzionale a genitori che chiedono solo di essere sollevati da ogni responsabilità educativa, conferendo però una delega all’intervento molto limitata, e ad educatori che hanno perso per la gran parte il senso della dignità e dell’importanza del loro lavoro.

Quindi: ipotesi impraticabili, ma a fronte di una realtà comunque i-naccettabile. E allora, tanto vale pensare in grande. O almeno tenere ben presente che quello dovrebbe essere l’obiettivo ideale, sul quale parametrare d’ora innanzi ogni ipotesi di riforma.

A meno di voler pensare che la scuola è comunque obsoleta, al pari del sistema dei diritti, o della democrazia, o della razionalità: cosa di cui molti sembrano ormai convinti. Non io, evidentemente: ma, tanto per l’una come per le altre cose, a patto che vengano seriamente ripensate e riportate all’originaria accezione.

L’unica scelta davvero rivoluzionaria oggi è battersi per la conservazione.


 

Guerra per bande

Paolo Repetto, 25 gennaio 2019

Se il buon giorno si vede dal mattino siamo messi bene. Stamane il primo telegiornale annunciava lo smantellamento di una gang di adolescenti veneziani, tutti tra i tredici e i sedici anni e tutti di “buona famiglia”, che si ritrovavano quotidianamente in punti diversi della città per progettare e mettere in atto le loro imprese: pestare un qualsiasi coetaneo di passaggio, e all’occorrenza anche chi ne prendeva le difese, derubare turisti e residenti, inscenare violente scorribande lungo le calli. Naturalmente sono stati individuati, ma non fermati e legati e bastonati per bene: saranno severamente ammoniti. È possibile che cambino zona e orari di lavoro.

Non è una novità: la settimana scorsa accadeva a Napoli, un mese fa a Milano. Nei notiziari se parla però solo in casi estremi, quando qualcuno finisce all’ospedale, perde un occhio o è storpiato per sempre, o quando va a fuoco un senzatetto. Se non si arriva a questi eccessi, se le vittime se la cavano solo con denti rotti, lividi e occhi neri, è considerata normale amministrazione. Documentata, tra l’altro, dai video che i nostri eroi diffondono orgogliosamente sui social.

A questo punto dovrebbe partire un pistolone psico-sociologico, di quelli ammanniti in tivù dai vari Galimberti o Recalcati o Morelli o altri ordinari partecipanti ai talk show, per dimostrare che quei disgraziati sono essi stessi vittime, della società, dei genitori, della scuola, della televisione, dei videogiochi, e che vanno seguiti e recuperati, perché nessuno è naturalmente malvagio. Dimenticando sempre che forse andrebbero seguiti prima quelli che della violenza sono stati vittime, le cui ferite morali non si rimargineranno mai più. Ma ve lo risparmio. Per due motivi: perché non credo in nessuna di queste balle e perché ho intenzione di trattare l’argomento da un punto di vista non conforme.

Posso farlo con cognizione di causa, perché da ragazzo sono stato io stesso un capobanda. Ma devo subito operare una distinzione, che non è solo linguistica. Una banda non è una gang. Non so quali siano in inglese le alternative a questo termine, e se ce ne siano, ma nell’uso italiano gang rimanda immediatamente ad una associazione a delinquere, mentre banda ha una gamma di possibili interpretazioni molto più vasta, che vanno dall’accezione più folkloristica (la banda musicale) a quella storico-sociale (la banda del Matese nell’800) a quella decisamente criminale (la banda della Magliana o quella della Uno bianca). Fino a ieri, quando si parlava di “bande giovanili”, o meglio ancora adolescenziali, la connotazione era decisamente ludica, al più rimandava a un termine specifico dell’antropologia. Se esistevano bande criminali composte da adolescenti si trattava comunque di organizzazioni create e controllate senza tanti scrupoli da adulti, come quella del perfido Fagin in Oliver Twist. Io parlo invece di quelle aggregazioni spontanee che col mondo adulto avevano nulla a che fare, e funzionavano secondo codici propri: ma che mai si sarebbero date come unico scopo la violenza gratuita e lo sprezzo di ogni valore. Proprio su questa differenza, sulle sue origini e sulle sue motivazioni vorrei fare qualche riflessione, partendo appunto dalla mia esperienza.

Dicendo “da ragazzo” mi riferisco al periodo a cavallo tra gli anni cinquanta e i sessanta, quando anche a Lerma arrivavano notizie delle gesta dei teddy boys inglesi, mentre sullo schermo del cinema parrocchiale sfilavano i motociclisti del “Selvaggio” e gli studenti de “Il seme della violenza”. Dietro le mie bande però non c’erano quei modelli. C’era invece tantissimo John Ford, e c’era la migliore letteratura per ragazzi che mai sia stata prodotta, da L’isola del tesoro a Capitani Coraggiosi e a Hukleberry Finn.

Il riferimento assoluto era naturalmente rappresentato da “I ragazzi della via Pàl” (ancora oggi darei chissà cosa per ritrovare la vecchia edizione Salani, per anni la mia Bibbia). Il mio campione tra i ragazzi ungheresi era Boka, un ”giusto”, come lo definisce Molnàr, un capo naturale, grande organizzatore, più maturo ed equilibrato degli altri: ma per certi versi mi riconoscevo anche in Csónakos, il campagnolo robusto, ottimo arrampicatore di alberi, che non teme nessuno e riesce a sconfiggere anche il più forte dei temibili gemelli Pásztor. Finivo persino per identificarmi con Franco Áts, il capo delle rivali camicie rosse, perché almeno dimostra di apprezzare il coraggio del povero Nemecsek e gli concede l’onore delle armi.
Non ho mai capito perché I ragazzi della via Pàl non sia da sempre un testo obbligatorio nelle scuole (così come avrebbe dovuto essere per La guerra dei bottoni. Quest’ultimo era stato edito in Italia già nel 1929, nei classici del ridere di Formiggini, tra l’altro con le illustrazioni di Gustavino, ma fino agli anni sessanta non era più ricomparso e quindi non faceva parte del nostro bagaglio). Libri come quelli conquisterebbero alla lettura un sacco di preadolescenti che trovano noiosissime le pappine politicamente corrette propinate oggi loro da educatori progressisti. Non è affatto vero che si tratti di letture datate: se un ragazzino attorno ai dieci anni non ha il cervello già centrifugato dai videogiochi o dal parcheggio continuativo davanti alla tivù li troverà divertenti e stimolanti come li abbiamo trovati noi. Gli esperimenti che ho fatto con figli e nipoti e figli di amici, ai quali ho sempre e solo regalato, oltre a quelli già citati, La freccia nera o Un capitano di quindici anni, e Salgari in ogni salsa, mi confortano in questa idea.
Ne i “I ragazzi della via Pàl” si trovavano tutti gli elementi fondamentali per la costituzione di una banda: un territorio (con tanto di capanna), il tesoro e il codice comportamentale (oggetto del giuramento). Nel caso nostro, per esigenze strategiche e perché i miei genitori in queste cose erano abbastanza tolleranti, il territorio tendeva quasi sempre a coincidere con il pratone e col bosco sottostanti la mia abitazione, dove in genere sorgeva la capanna, e che consideravamo “zona di assoluto rispetto”: l’accesso era interdetto a chiunque non conoscesse la parola d’ordine e i confini erano segnati alla maniera indiana (Renzo, il figlio del macellaio, procurò una volta delle mandibole scarnificate di maiale, che per qualche tempo sorrisero sinistramente sulle punte dei pali al limitare del bosco). C’erano poi aree “protette”, come gli orti, i frutteti o le vigne delle famiglie degli associati alla banda, nelle quali teoricamente non dovevano essere compiute scorrerie (mentre il resto del territorio era aperto alle operazioni di approvvigionamento. C’erano infine delle zone franche, come la piazzetta del castello, dove avevano luogo sotto gli occhi del viceparroco gli incontri pacifici e le partitelle di calcio, e delle vere e proprie terre di nessuno, come il bosco della Cavalla o il fiume, dove invece avvenivano gli scontri.

L’epicentro della vita di banda era naturalmente la capanna. Ciascuno doveva contribuire alla sua costruzione con materiali di recupero, ma in qualche caso più che di recuperi si trattava di vere e proprie espropriazioni, col risultato che più di una volta ci trovammo a smantellare tetti o pareti per restituire travi e lamiere a parenti o a vicini imbestialiti. Una volta attorno alla capanna erigemmo una vera e propria palizzata, un capolavoro di architettura militare rimasto a lungo nella memoria collettiva, ma che all’epoca non impedì a mio padre di chiedere la restituzione alla veloce dei pali. Oltre a quella ufficiale le bande avevano anche delle capanne “segrete”, punti di appostamento, nascondigli, o anche solo provocazioni per gli avversari, quando erano piazzate addirittura dentro il territorio nemico. Ne abbiamo disseminate un po’ dovunque, sugli alberi o dentro anfratti di roccia, nei boschi o sul greto del torrente. Un inverno costruimmo con blocchi regolari tagliati nel ghiaccio anche un igloo, al centro di un vero fortino con mura di neve pressata: lo innaffiavamo tutte le sere, e per l’eccezionale rigidità dell’inverno rimase in piedi sino all’aprile successivo. Era riuscito talmente bene che la banda delle cascine chiese l’autorizzazione a giocarvi, collaborando in compenso alla manutenzione: fu stipulata una tregua invernale, che come prevedibile venne rotta quasi subito e finì in una battaglia a palle di neve.

Ho continuato a costruire capanne a lungo, anche oltre l’adolescenza: l’ultima, eretta per mio figlio, ha resistito sino a mio nipote. Anzi, quella definitiva, riassuntiva di tutte, è proprio l’attuale “capanno”, che è stato (e rimane) la sede dei Viandanti delle Nebbie. Ho cambiato i materiali, ma la destinazione è rimasta in fondo la stessa.

Il tesoro era il nostro Graal: all’inizio era costituito solo da vecchie monete fuori corso, ma col tempo si arricchì di perle finte raccolte per strada dopo un incidente motociclistico, di banconote tedesche d’anteguerra da cinque o dieci marchi, sottratte a mia zia, di spille prese a prestito definitivo da madri o sorelle. Il tutto era custodito in un cofanetto di latta, nascosto nei luoghi più improbabili. Ogni tanto si facevano delle verifiche contabili e si cambiava nascondiglio, ma quando alla fine ci fu sottratto non riuscimmo più a recuperarlo, neppure sottoponendo alcuni indiziati alla tortura (sto parlando sul serio). Forse a furia di segretezza avevamo semplicemente dimenticato l’ultima ubicazione, e il cofanetto sta ancora là, dietro qualche pietra di un muro intonacato da decenni.

I testi sacri erano costituiti dalla formula del giuramento, dal codice cifrato e dall’elenco degli adepti: tutti naturalmente segretissimi. Ricordo che nella versione più elaborata, quella dell’ultima banda, coincidente con l’uscita dall’adolescenza, la formula faceva riferimento anche al bushido (che avevo sentito nominare ma in realtà non sapevo affatto cosa fosse) e al codice dei templari. Scrivemmo il giuramento su una carta da lettere antica, decorata da uno stemma, che avevo trovato e immediatamente requisito in una vecchia scrivania. In un paio di casi producemmo anche documenti top-secret con il resoconto delle azioni compiute, delle punizioni inflitte, di eventuali donazioni (quelle che andavano ad arricchire il tesoro).

Fondamentale era naturalmente il codice segreto. Questa era una mia specialità. Sono arrivato ad elaborare un codice alfanumerico complicatissimo, che poteva essere modificato di giorno in giorno. Essendo io invariabilmente il capo della banda, fondatore e organizzatore, ero anche l’unico detentore della chiave del codice, il che evidentemente ne rendeva impossibile l’utilizzo. D’altro canto non c’era necessità di comunicare segretamente alcunché, per cui andava bene così: l’importante era possedere una terribile arma segreta, che ci avrebbe eventualmente permesso di trasmettere dispacci vitali senza il timore che fossero intercettati.

A tutto questo si aggiungeva nelle mie bande un rituale particolare, che ne faceva qualcosa di assolutamente diverso dagli altri sodalizi giovanili spontanei dei dintorni. I nostri riti iniziatici, il giuramento e la pronuncia della formule, erano piuttosto spicci: ho sempre sofferto di un senso del ridicolo persino eccessivo, non ho mai sopportato le teatrali liturgie di tipo massonico e meno che mai quelle ipocrite di stampo mafioso o camorristico, che prevedono addirittura lo scambio di baci. Ma non ho saputo resistere al fascino della fratellanza di sangue, e non solo a quello del significato del vincolo ma anche a quello del gesto esteriore che lo sancisce. L’avevo visto fare in una delle prime strisce di Tex, e l’avevo poi ritrovato ne “La freccia insanguinata”. Praticando una piccola incisione sul polso si fa uscire qualche goccia di sangue, che va a mescolarsi con quelle del polso del tuo compagno. L’AIDS era lontano a venire, ed evidentemente eravamo corazzati anche contro il tetano o altre infezioni, perché noi l’incisione la praticavamo con un chiodo, invariabilmente arrugginito, e solo più tardi col coltello a serramanico di mio nonno, quello col manico di madreperla che ancora conservo, non molto più asettico. Il polso doveva essere rigorosamente il destro, l’incisione leggera (una volta il solito Renzo, che era un entusiasta e prendeva le cose sul serio, si beccò in pieno una vena e rischiò di dissanguarsi). Compiuta la cerimonia, applicato un po’ di fango mescolato a saliva e ad erba per cicatrizzare la ferita, si era fratelli di sangue.

Non so quanto gli altri ne fossero convinti, ma credo che in realtà il giuramento di sangue piacesse: anche perché non era allargato a tutti i membri della banda, ma univa solo quelli che avevano acquistato particolari meriti, per fedeltà al gruppo o per gesta compiute. Non era automatico, ma al tempo stesso non escludeva nessuno: sanciva un particolare stato di servizio. Rispetto agli estranei la cosa ci rendeva diversi: gli altri intuivano che tra noi esisteva un legame segreto, e fino a quando un traditore non lo rivelò continuarono ad arrovellarsi per capire cosa diavolo fosse. Dato che il sigillo cruento dura tutta la vita, sono ancora oggi fratello di sangue di molti miei coetanei: una buona parte non li ho più rivisti e altri probabilmente nemmeno se ne ricordano. Io invece lo ricordo, e penso di aver continuato sino ad oggi a comportarmi nei loro confronti di conseguenza.

Avevo introdotto questo rito pittoresco perché rispondeva a una mia precocissima passione per le sette e le società iniziatiche, ma soprattutto perché mi sembrava siglasse un rapporto speciale di fiducia e responsabilizzazione reciproca, all’insegna di una totale lealtà e franchezza. Sin da bambino ho concepito l’amicizia come un legame più forte di qualsiasi parentela. Quest’ultima te la trovi, l’amicizia te la conquisti. Mi sono anche chiesto se a muovermi fosse un’idea di possesso esclusivo, ma in tutta onestà non era così: mi piaceva allargare costantemente le mie amicizie e non ne sono mai stato geloso. Al contrario, ero mosso dal desiderio di vedere tutti vivere in una armoniosa e costruttiva concordia. Una sindrome da dio insoddisfatto di come gli è venuta la creazione, che cerca di mettere ordine, magari anche con le maniere brusche (sindrome della quale non mi sono mai liberato).

La disposizione all’apertura ha fatto paradossalmente di me anche un intollerante: in linea di principio sono sempre stato convinto che tutti meritassero la mia amicizia, e felice di ottenere la loro: ma di fatto, per guadagnarla certi requisiti mi sono sempre sembrati imprescindibili. In assenza di questi, scatta pesante l’esclusione.

All’epoca, le bande avversarie e i loro componenti facevano parte di un gioco. Le nostre battaglie erano in fondo l’equivalente di partite di calcio, senz’altro meno cruente di quelle che avremmo combattuto pochi anni dopo sui campi dei tornei a sette organizzati nel circondario. I combattimenti erano leali (quasi sempre) e c’era un limite, come nei duelli al primo sangue. Esistevano regole non scritte, ma condivise: chi non vi si fosse attenuto era fuori, messo al bando dai suoi prima ancora che dagli avversari. Non avevamo motivo per odiarci o disprezzarci a vicenda: anzi, il nostro valore era parametrato su quello dell’avversario: e comunque, al di fuori dal gioco condividevamo pacificamente le aule scolastiche e il circolo parrocchiale. Intendo dire che l’appartenenza ad una banda o all’altra dipendeva in genere da fattori del tutto contingenti, dalle parentele, dall’abitare nella parte alta o in quella bassa del paese, o nei cascinali dei dintorni. E questo faceva sì che riconoscessimo un livello superiore a quello dell’appartenenza, nel quale valeva la stima individuale, così che le amicizie veramente profonde potevano svilupparsi anche con membri delle bande avverse. In fondo, lo stesso Franco Ats va a fare visita al povero Nemecsek morente e a rendergli omaggio, e questo gli vale più di qualsiasi vittoria sul campo.

Forse ho dato l’impressione che nella mia banda regnasse un regime monocratico, ma non è esattamente così. Il principio fondante era anarchico: da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni. Che nel nostro linguaggio suonava: se sai fare meglio una cosa, la fai tu: se hai bisogno di qualcosa, ti aiutiamo noi. E tradotto ulteriormente significa: se vogliamo che la cosa funzioni, e che tutti ne traggano vantaggio, largo alle competenze. Ora, in effetti io di competenze ne avevo parecchie, sia teoriche che pratiche. Avevo letto più libri, praticamente tutto Salgari, buona parte di Verne e di Dumas e tutto Tex; ero il proiezionista del cinema parrocchiale e quindi avevo visto più film western, magari due volte, e li ricordavo a memoria, attori e regista compresi: conoscevo le regole dei duelli, l’organizzazione dei Compagnons de Jehu, le strategie dei tigrotti malesi, i codici d’onore, ecc … Sapevo poi scrivere un regolamento in bella calligrafia e nel linguaggio giusto, e da buon figlio di contadino sapevo distinguere gli alberi, scegliere il legno adatto per le spade, quello per gli archi e quello per le cerbottane. Soprattutto, da amante della noble art me la cavavo bene nelle scazzottate e nella lotta libera, e da sognatore impenitente riuscivo a dare un tocco di epicità a tutto ciò che accadeva (un po’ quello che sto cercando di fare adesso). Insomma: avevo quanto occorreva per guidare un gruppo, e mi era riconosciuto.

Questo non significa che fossi preda dell’ebbrezza del comando. Lo vivevo anzi come una enorme responsabilità: mi sentivo responsabile di tutto e per tutti. Ma proprio questo mi spingeva a rendere il più possibile democratica la guida della banda. Ho riconosciuto molto più tardi questo atteggiamento nello Swann dei “Guerrieri della notte”. Credo la si sarebbe potuta definire una democrazia rousseauiana. Volevo avere attorno gente convinta di quel che faceva, persone che avessero le loro opinioni e sapessero farle valere, non dei gregari a rimorchio. Il mio compito era di proporre delle idee e di stimolare le critiche e le proposte altrui (e in questo senso, anticipavo il Keating de “L’attimo fuggente”). Alle decisioni poi dovevano partecipare tutti, con egual peso (nell’ultima fase avevamo introdotto anche lo scrutinio segreto, con pietre bianche e nere) e tutti erano tenuti a rispettare quanto deciso dalla maggioranza.

Ora, in tutta onestà non sono proprio sicuro che le cose stessero esattamente così: così le ricordo io a sessant’anni di distanza, e comunque, se il quadro era forse meno idillico, la sostanza era quella. Non ho inventato nulla, al più ho un po’ semplificato le cose: è vero che in genere era la mia opinione a prevalere, ma questo avveniva nel rispetto delle regole di quel gioco. Sottolineo che di fatto si trattò sempre della stessa banda, rimasta in vita per almeno quattro anni: ogni anno cambiavano la denominazione e i rituali, perché nel frattempo avevamo letto nuovi libri o visto nuovi film, e ci furono degli avvicendamenti, ma lo zoccolo duro rimase sostanzialmente immutato. Chi non era d’accordo era liberissimo di andarsene, e chi lo faceva provava spesso a fondare bande sue, che si scioglievano quasi immediatamente. Veniva riaccolto a braccia aperte.

La stagione delle bande è stata entusiasmante. Almeno per me, che ero animato da un infaticabile spirito organizzativo. Come in tutte le avventure di questo tipo la fase più divertente era naturalmente quella iniziale, con la costruzione delle capanne, i rituali iniziatici, i primi scontri con gli avversari, quando c’erano avversari. In assenza di questi ultimi, e soprattutto dopo che nel cinema parrocchiale erano stati proiettati I due capitani e Passaggio a Nord-ovest, le attività della banda potevano assumere un carattere esplorativo-scientifico, e un paio di spedizioni a risalire il Piota sono rimaste memorabili. Poi subentrava la noia, veniva meno la novità, si verificavano le prime insubordinazioni, qualche volta anche tradimenti, da parte di chi riteneva di non aver ottenuto un grado e un ruolo adeguati. Di positivo c’era il fatto che, a differenza dei governi, le bande possono essere ricostituite ex novo in quattro e quattr’otto, e non hanno nemmeno bisogno del voto di fiducia, perché nascono già su quel presupposto.

La stagione si chiuse comunque un attimo prima che le cose potessero degenerare e diventare pericolose. Costruimmo l’ultima grande banda nell’estate del ‘62, l’anno del passaggio dalle medie alle superiori, e la faccenda finì con una spedizione punitiva contro tre diciottenni, rei di avere distrutto la capanna dei nostri avversari e sottratte le quattro suppellettili che l’arredavano. Si creò un’alleanza immediata, tenemmo un consiglio di guerra congiunto che neppure le SS, e scatenammo una caccia all’uomo che fece perdere il senso della misura un po’ a tutti. Quando la sera trovai un carabiniere a colloquio con mio padre capii che l’età dell’innocenza era finita, e che di lì innanzi avrei dovuto cambiare registro. Ormai avevamo messo un piede nel mondo degli adulti.

***

Ho fatto questo lungo giro per arrivare a chiedermi cosa sia successo dopo, e quando, visto che ci ritroviamo oggi a parlare non più di bande, ma di vere e proprie di gang di minorenni: il che poterebbe far temere che voglia comunque infliggere un sermone sociologico. Non è così. Magari non sembra, ma sono per le spiegazioni semplici (non semplicistiche) dei fenomeni sociali: ritengo infatti che anche quelle minuziose e complesse siano comunque parziali, dal momento che ci restituiscono delle medie, e non delle persone. Tanto vale quindi proporre anche la mia, che analizza solo uno dei tanti fattori del cambiamento, neppure quello più evidente, e che parziale lo è proprio in tutti i sensi: ma ha almeno il merito di toccare un nervo sul quale in genere si tende a glissare.

Per cominciare, partirei dal “quando”.

Io detesto costui. È malvagio. Quando viene un padre nella scuola a fare una partaccia al figlio, egli ne gode; quando uno piange, egli ride. Trema davanti a Garrone e picchia il muratorino perché è piccolo; tormenta Crossi perché ha il braccio morto; schernisce Precossi che tutti rispettano; burla persino Robetti, quello della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino. Provoca tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male.” Questa è la voce di Enrico, il protagonista del libro Cuore. Parla di Franti, uno che nella mia banda non sarebbe mai entrato, o ci sarebbe entrato solo dopo una buona rieducazione a dosi giornaliere di legnate. Perché i Franti esistono, ma finché esistono i Garrone sanno qual è il loro posto, e si adeguano.

l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme; o si è, come Franti ha tentato, uno scolaro che ride in scuola, o un analfabeta di avanguardia. E forse Franti, […] si apprestava in una lunga ascesi a esercitare, all’alba del nuovo secolo, sotto il nome d’arte di Gaetano Bresci.” Questa è invece la voce di Umberto (Eco), autore dell’Elogio di Franti (1963).

Che poi, dieci anni dopo (1973), rincara la dose:

“Ma la storia non si è fermata lì Nel 1966, Franti faceva una riapparizione gloriosa con la «Lettera a una professoressa» dei ragazzi di Barbiana: «Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate»… Franti capiva che non era né cattivo né stupido, e si rifaceva a una scuola a misura di subalterno, rifiutava Enrico come un Pierino oppressore e veramente diventava l’eroe positivo (ma questa volta a tutto tondo) del nuovo “Cuore”, modello – speriamo – ai ragazzi italiani di domani.

Tuttavia all’università Don Milani non c’era, e Franti tenta nuove maschere nel 1968, all’università di Torino: il discorso di chiusura dell’anno accademico viene steso da Franti su «Quaderni Piacentini» sotto il nome d’arte di Guido Viale. Meno equilibrato del discorso dei Franti di Barbiana, senz’altro meno costruttivo e più iconoclasta. Ma l’Italia trema. […]

Franti ora occupa le assemblee e impone la sua presenza. Franti ora è fuori dalla scuola. Non è morto, studia sui fogli della controinformazione.”

La data è importante. L’anno precedente Franti e i suoi nuovi compagni, ridotti in stato confusionale dallo studio, hanno “giustiziato” sparandogli alle spalle il commissario Calabresi, reo di aver fatto volare dalla finestra l’anarchico Pinelli (salvo poi risultare che al momento della tragedia il commissario non era nemmeno presente nella stanza – e a dirlo è Gerardo d’Ambrosio, magistrato definito “comunista”. Come poi ci sia volato è un altro discorso). Negli anni successivi, avendoci preso gusto, giustizieranno altre 130 persone, annullando ogni differenza di classe e spaziando da Guido Rossa a Marco Biagi.

Nel 1963, quando usciva l’Elogio di Franti, avevo già superato i limiti d’età per le bande paesane. Dieci anni dopo, quando Eco rincarava la dose, ero in fascia utile per entrare nelle bande armate. I requisiti sociali non mancavano: tra i tantissimi “rivoluzionari” che ho conosciuto nessuno era più proletario di me. C’erano anche i requisiti politici: avevo partecipato al ‘68, non come primo attore, naturalmente, ma come uomo del servizio d’ordine o come stuntmen. C’erano infine le competenze organizzative: vantavo un curriculum invidiabile di creatore di bande. Due cose però mi differenziavano dai Franti: anzi, tre. Non ero un allievo di Umberto Eco. Non potevo concepire che si ammazzasse qualcuno sparandogli alle spalle, o che si gioisse se qualcuno lo faceva. Leggevo libri di storia anziché quelli di Mao o di Guido Viale. E continuo a leggerli ancora oggi.

Ora, non vorrei che quella nei confronti di Eco apparisse una mia ossessione personale, una monomania persecutoria che me lo fa ritenere responsabile di ogni nefandezza. Non è affatto così. Diciamo che l’ho assunto a simbolo di un certo atteggiamento e di un certo modo essere, e un simbolo per essere efficace va scelto nel top della gamma. Se lo chiamo continuamente in causa è perché lo stimo molto più intelligente della media di quegli intellettuali o sedicenti tali che nell’illusione (ma per molti non esiterei a parlare di semplice vezzo da garantiti) di cambiare il mondo hanno fatto esattamente il gioco del sistema che pensavano di combattere. Era talmente intelligente da non aver mai creduto davvero in quella delirante incoscienza, dall’aver sempre frapposto alla sua adesione il filtro dell’ironia: ma a quanto sembra non era altrettanto onesto da prenderne nettamente le distanze e da raccontarla per quello che era. E questo mi irrita, perché se l’intelligenza c’è, e su quella di Eco, ripeto, non ci piove, ma si fa poi il contrario di quanto essa suggerisce, allora il sospetto è che a prevalere siano il cinismo, la presunzione, la supponenza. Non parlo di opportunismo, quello lo riservo agli squallidi guitti alla Dario Fo, o di ipocrisia, che è propria dei “cantori degli ultimi”, alla Fabrizio de André, celebrati da una sinistra da buffet che ha bisogno di santi laici a buon mercato: ma mi delude terribilmente che uno come Eco non abbia avuto la faccia di dire che gli analfabeti di avanguardia li aveva evocati proprio lui.

Purtroppo c’è anche di peggio. Nell’appello apparso sull’Espresso pochi mesi prima della morte di Calabresi, nel quale si denunciavano i “commissari torturatori”, quando ancora la fitta cortina fumogena creata dagli apparati non consentiva di valutare come realmente si fossero svolti i fatti, la prima firma era la sua. E non ho letto, nemmeno dopo, una sola sua parola che stigmatizzasse questo proclama di Lotta Continua: “È chiaro a tutti che sarà Luigi Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara… nessuno, e tantomeno Calabresi, può credere che quanto diciamo siano facili e velleitarie minacce. Siamo riusciti a trascinarlo in Tribunale, e questo è certamente il pericolo minore per lui, ed è solo l’inizio. Il terreno, la sede, gli strumenti della giustizia borghese, infatti, sono giustamente del tutto estranei alle nostre esperienze … Il proletariato emetterà il suo verdetto, lo comunicherà e ancora là, nelle piazze e nelle strade, lo renderà esecutivo… Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati: ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato assassino.” Per uno che sulle parole ci ha campato avrebbe dovuto essere chiaro che si trattava di una vera e propria fatwa, di una istigazione ad uccidere. E il silenzio su questa infamia ha solo due spiegazioni: la complicità o la viltà.

Qui si scende però su un terreno molto pesante, e scivoloso, perché di quel silenzio e di quella rimozione si sono fatti complici nella quasi totalità gli altri settecentocinquanta firmatari dell’appello (compresi alcuni tra i nomi più illustri della nostra cultura, certamente al di sopra di ogni sospetto, da Primo Levi a Bobbio). Non voglio spingermi troppo avanti, almeno in questa sede. Qualcosa da rimproverare in proposito l’avrei anche a me stesso, qualche emozionale simpatia che non può essere giustificata e liquidata con la scusante dell’età: e forse solo l’aver conosciuto da vicino alcuni “maestri” della giustizia proletaria, alcuni tribuni degli sfrattati, e averli subito pesati “a naso”, con un po’ di buon senso contadino, mi ha impedito di andare oltre.

Voglio rimanere invece sull’Elogio di Franti. Pochi mesi prima di morire Eco ha scritto: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Al solito, ha fotografato perfettamente ed efficacemente la situazione, anche se non era il caso di attendere il suo imprimatur per rendersene conto. D’altro canto, non c’era da aspettarsi di meno da uno che già sessant’anni fa scriveva: “Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra a contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto [… ] pone grande cura nel non impressionare lo spettatore, non solo mostrandosi all’oscuro dei fatti, ma altresì decisamente intenzionato a non apprendere nulla”, cogliendo tempestivamente i segni (non a caso era un semiologo) di quale sarebbe stato il futuro del mondo governato dai nuovi media.

Ma allora perché, proprio nello stesso libro, nel Diario minimo, compare la riabilitazione di Franti, che dallo smascheramento delle ipocrisie della società e della cultura borghese scivola poi irrimediabilmente nell’irrisione e nella demolizione di ogni valore: e perché la ripresa del libro, nel decennale della prima comparsa, si fa esaltazione compiaciuta dei comportamenti sballati e ignoranti, spacciandoli per comportamenti prerivoluzionari, dando tutto sommato dell’idiota a chi in quei valori voleva continuare a crederci, e voleva semmai riappropriarsene, spogliati naturalmente di tutta la melassa e della retorica appiccicosa nelle quali la scuola li annegava, ma nella consapevolezza che quella scuola era l’unica porta d’accesso agli strumenti di “purificazione”. Non potevano certo esserlo i libretti di Mao o quelli di Guido Viale, e nemmeno gli editoriali di Lotta Continua.

E qui devo tornare mio malgrado sul terreno pesante, perché certe tacite assolutorie rimozioni proprio non le digerisco e perché l’episodio cui mi riferisco ha tragicamente toccato un amico, e l’ho pertanto sempre davanti agli occhi, mentre pare scomparso dalla labile memoria collettiva. Proprio mentre l’intelligencija auspicava un nuovo libro Cuore, che avesse a modello positivo lo scolaro che sghignazza in classe e tormenta i compagni più deboli, in perfetta coerenza Lotta Continua si faceva portavoce dei rigurgiti “autenticamente rivoluzionari” provenienti dall’universo carcerario, incitandoli ad esprimersi, a esplodere: così che un anno dopo il sciagurato ritorno sul Franti da parte di Eco venivano uccisi in una rivolta carceraria, proprio nella città di quest’ultimo, e oggi anche mia, cinque ostaggi, tra i quali un medico che con un gesto degno di Garrone si era offerto in sostituzione di una sua infermiera. Quel medico Cuore lo aveva certamente letto e, al contrario di Eco, sapeva che dei Franti non ci si può fidare: ma ha voluto rischiare lo stesso, perché evidentemente credeva nei valori che quel libro, “turpe esempio di pedagogia piccolo borghese, classista, paternalistica e sadicamente umbertina”, gli aveva comunque trasmesso: mentre i Franti, “la cui grandezza morale e le cui ragioni sentimentali e sociali emergevano a dispetto dell’acrimonia con cui l’autore e il suo piccolo diarista filisteo ce lo presentavano” freddavano vigliaccamente lui e altri quattro inermi sventurati.

Allora. Ci rendiamo conto che nessuno oggi ricorda queste cose, che nessuno se ne è mai assunto un briciolo di responsabilità, anche solo morale? Che dietro l’indubbia incompetenza e il cinismo dimostrati dalle autorità nel corso delle trattative e nell’assalto finale è stata totalmente oscurata la responsabilità delle Pantere Rosse, il nucleo che traduceva in prassi all’interno delle carceri il mandato “rivoluzionario” di Lotta Continua? Un bella riflessione su questa vicenda, magari anche una Bustina di Minerva, magari fatta anche trent’anni dopo, intitolata “Come abbiamo potuto essere così stupidi, così irresponsabili”, forse non avrebbe intaccato la fama del professore (che naturalmente da Lotta Continua, al contrario che da Franti, aveva preso per tempo le opportune – ma molto misurate – distanze).
Il 1963 si presta come data simbolica anche per un altro motivo. È l’anno in cui prese avvio la riforma della scuola media, che in teoria avrebbe dovuto aprire a tutti l’accesso ad una istruzione superiore, e in pratica, pur con tutte le confusioni e incongruenze tipiche delle riforme all’italiana, bene o male operò una rivoluzione nella scuola. Ma nel momento stesso in cui le porte finalmente si spalancavano quella scuola veniva messa alla berlina, irrisa e svalorizzata, da chi peraltro aveva goduto del privilegio di avvalersene, e a quanto pare ne aveva tratto adeguati strumenti critici per metterla in discussione. Lo stesso Eco che scriverà “Il nome della Rosa” sosteneva in quegli anni, proprio intervenendo sulla riforma: “L’ossessione del latino è una manifestazione di pigrizia culturale, o forse di forsennata invidia: voglio che anche i miei figli abbiano gli orizzonti ristretti che ho avuto io, altrimenti non potranno ubbidirmi quando comando”. La cosa ha molto il sapore di una ripulsa snobistica nei confronti di ciò che è ormai alla portata di tutti. E se anche così non fosse stata nelle intenzioni, lo diventava nel modo in cui poteva essere recepita da chi prima era tenuto a starne fuori. E dal momento che io ero tra questi, non mi piaceva affatto.

Contro la scuola nella quale ero entrato, le sue storture, le diseguaglianze, il vecchiume dei metodi e dei contenuti, ho cominciato ad agitarmi da subito anch’io: ma su tutto resisteva la coscienza che stavo godendo per una volta anch’io di un privilegio, che se fossi nato nella generazione precedente quell’occasione non mi sarebbe stata concessa, che era un mio diritto goderne ma un mio dovere approfittarne nel migliore dei modi, e che il migliore dei modi era quello di trarne tutti gli strumenti di conoscenza possibili. Non potevo attendere che mi si regalasse nulla, non è così che funziona nel mondo dal quale arrivavo, ma non dovevo mollare, perché le cose vanno guadagnate, e traggono senso e valore e danno piacere in ragione dell’impegno che ci metti. Questo ha fatto la differenza tra me (e quelli come me) e coloro che all’epoca della contestazione gridavano: “vogliamo tutto”. Io non volevo tutto, non avrei saputo che farmene, volevo quella cosa lì particolare, la conoscenza, e volevo solo che mi fossero offerte le occasioni per conquistarmela.

Ha a che fare quindi Umberto Eco (ma adesso basta con i simboli: voglio dire tutta quella “élite progressista” di cui Eco era solo il più qualificato rappresentante, quella che veste all’occasione i panni proletari e beve barbera in locanda per farsi avanguardia, ma gira in loden per congressi e beve cognac per farsi gli affari propri), con le gang di piccoli delinquenti di cui raccontava stamane la televisione o con gli imbecilli di cui appunto Eco stesso parlava? Certo che sì. Stiamo qui ad assistere a fenomeni che non sono più solo inquietanti, ma devastanti, e a commentarli sconsolati, e a dirci magari che è sempre stato così, che nel mezzo delle grandi trasformazioni culturali sempre si è rimpianto ciò che si stava perdendo, nell’incapacità o nell’impossibilità di prevedere quel che stava arrivando: e ancora non siamo stati capaci di fare i conti con l’atteggiamento tafazziano che buona parte della nostra generazione ha tenuto nei confronti di tutto l’universo di valori edificato bene o male dalla cultura occidentale. “Una risata vi seppellirà” era uno degli slogan più abusati contro la psicologia piccolo borghese. Ma per seppellire qualcosa occorre scavare buche, non aspettare che sprofondi, e per ridere sarebbe bene, paradossalmente, avere motivi seri.

Non stiamo facendo l’una cosa e non abbiamo l’altra. La rivolta contro l’educazione tradizionale non ha sostituito a quest’ultima alcuna pedagogia rivoluzionaria. Ha semplicemente demandato il compito alla televisione, oggi ai videogiochi. La contestazione della scuola piccoloborghese ha declassato la scuola tutta a parcheggio di transito tra un impegno sportivo, uno sociale e uno musicale dei ragazzi. La demonizzazione dell’autoritarismo familiare ha trasformato i genitori in avvocati difensori “a prescindere” dei loro pargoli. L’attenzione alle problematiche dell’adolescenza ha creato stuoli di psicologi che ci campano su, stilano certificazioni di bisogni educativi speciali e traducono in redditizia terapia quello che spesso un paio di ceffoni risolverebbe in un minuto (o perlomeno, sortirebbe lo stesso inutile effetto).

Ecco dunque cos’è che mi irrita. Mi irrita constatare, proprio mentre scrivo queste righe, che sto dicendo cose simili a quelle scritte sugli stessi temi da Marcello Veneziani, un altro che quanto trascorsi non ha nulla da invidiare a nessuno (ma gli riconosco la coerenza), o da gente dello stesso calibro, e questo mi inquieta e mi sgomenta: ma non ho intenzione di sottostare a ricatti morali che fungono poi in verità da alibi. Costoro stanno facendo, a modo loro e per i loro fini maligni, quanto una sinistra seria avrebbe dovuto fare in altro modo e autonomamente da un pezzo: confrontarsi con il passato, almeno a partire dal secondo dopoguerra, (ma un’occhiatina anche a prima non guasterebbe) non per liquidarlo o nasconderlo sotto il tappeto, ma per fare un po’ di pulizia, ristabilire un minimo di verità sottratta alle convenienze del momento e ricavarne qualche lezione per l’oggi. Per capire, soprattutto, le radici vere di una crisi così profonda e rapida, ma non certo inaspettata e inspiegabile.

Mi irrito perché io a questa storia della sinistra caparbiamente ci credo ancora: ma credo che essere a sinistra non significhi solo volere un mondo più giusto, ma cominciare a costruirlo partendo proprio da se stessi, esigendo da se stessi sincerità, lealtà, equità, senza attendere che qualcuno vengo a imporle o che tutti miracolosamente inizino ad apprezzarle. E penso che il peggior nemico della sinistra non siano i Marcello Veneziani o Casa Pound o i Salvini, ché quelli ci saranno sempre e vanno messi in lista come il coperto, ma quella pseudo-sinistra stessa che ha pensato a lungo ci si potesse trastullare con le parole, con le lotte, con gli slogan, con le rivoluzioni, senza accorgersi che l’età per il gioco delle bande era finita: salvo poi, una volta resasi conto di quanto quei travestimenti stavano diventando imbarazzanti, abbandonare il terreno di gioco lasciandolo ingombro di macerie, e spostarsi altrove, perdendo pezzi ad ogni trasloco.

Mi irrito perché su un terreno lasciato in quelle condizioni è diventato quasi impossibile giocare, non si capisce più nulla, e allora ti spieghi i pargoli veneziani che viaggiano senza regole, senza limiti, orfani di qualsivoglia principio di lealtà e rispetto della dignità propria e altrui: e mi freme dentro la voglia di trascinare qualcuno per le orecchie, come facemmo noi con i tre sprovveduti diciottenni che erano venuti a devastare il nostro campo, e di imporgli di ripulire tutto e di rimettere in piedi il sogno. Almeno, dopo quella rinfrescata i nostri fratelli minori hanno potuto continuare per qualche tempo a costruire capanne. Ancora una volta, Eco una cosa importante l’aveva capita, quando proprio nel Diario minimo raccomandava ai genitori di far giocare i loro figli con armi giocattolo, pistole e spade e pugnali, per consentire loro di togliersi la voglia in un’età innocua. Chi non gioca alle bande da ragazzo rischia di volerlo fare poi da adulto, con conseguenze tragiche, e chi ci gioca senza un codice, non per costruire capanne ma solo per distruggere quelle altrui, sarà per tutta la vita uno sbandato.

Quanto a lui, al povero Eco che sin qui ho vigliaccamente bistrattato (dico vigliaccamente, perché non si dovrebbe attaccare chi non è lì a difendersi: ma nel caso di Eco, lo difendono in realtà egregiamente le sue opere), al di là di ciò che ho già detto circa la sua assunzione a simbolo, voglio ristabilire la verità della mia posizione nei suoi confronti.

Allora. Penso che Eco sia stato un grandissimo saggista, forse il massimo semiologo dell’ultimo mezzo secolo, un erudito formidabile e un critico acutissimo del costume contemporaneo. Ha incarnato l’immagine del vero sapiente, onnivoro e capace di digerire tutto lo scibile e trasformarlo in materiale da costruzione, ma anche e soprattutto in oggetto di piacere. È l’autore del primo romanzo postmoderno, scritto dal computer.(non è un refuso, ho proprio scritto dal, per sottolineare che la scrittura col computer è tutt’altra cosa di quella a mano o a macchina. Del resto, è quella che sto usando io in questo momento. Non significa che le cose vengano scritte dal computer, ma che sono da esso direttamente e pesantemente condizionate, e quindi vengono scritte, e persino pensate, diversamente da come lo sarebbero alla vecchia maniera. Che l’autore sia sempre l’uomo e l’influenza del computer sia solo “strumentale” lo dimostrano del resto gli esiti, che sono ben differenti tra la scrittura di Eco e la mia). Il nome della Rosa è anche un gran bel libro, tra i più belli del Novecento, ma poi fermiamoci li, perché i tentativi letterari successivi sono andati scivolando via via verso il penoso. Per essere un grandissimo romanziere, uno ad esempio come Manzoni, gli sono mancate di quello l’umiltà e la consapevolezza. Manzoni aveva capito che quando ti riesce un’opera come I promessi sposi devi chiudere e non scrivere altro.

Quindi, sotto il profilo intellettuale, uno dei massimi del nostro tempo. Per quello umano non so, non l’ho mai neppure intravisto di persona, quindi sarebbe stupido dare qualsiasi giudizio. Di certo a dieci-dodici anni aveva già moltissime più competenze di me, ma non credo fossero quelle necessarie per diventare un capobanda. E nemmeno mi pronuncio sulla fratellanza di sangue. Le poche volte che l’ho seguito in televisione era circondato da leccaculo o intervistato da conduttori adoranti. E, per essere uno che ha lanciato molti sassi, non sempre (quasi mai) si è assunto la responsabilità di quelli che rompevano i vetri, anziché la superficie melmosa dello stagno.

Ma la verità è che avrebbe senz’altro decrittato facilmente il mio codice segreto: e questo, una banda che vuol continuare a sognare non può permetterlo.

P.S. Se nel leggere queste righe qualcuno ha avuto l’impressione del dejà vu, lo conforto subito: ha ragione. Al di là del fatto che scrivo ormai quasi sempre le stesse cose, la prima parte di questo pezzo riprende, a volte integralmente, la bozza di una racconto iniziato molti anni fa e mai portato a termine, dal quale nel tempo ho pescato vari spunti che ho sparso poi in giro. Anche le considerazioni finali non sono originali, le ho anticipate, sia pure solo per accenni, in almeno un paio degli scritti più recenti. Segno senz’altro dell’inesorabile scivolamento nelle monomanie senili, ma anche del fatto che i temi della deriva idiota o addirittura criminale delle società contemporanea, e non solo delle bande giovanili, e quello dell’inaridimento dell’amicizia mi stanno veramente a cuore.


Piccoli Truman crescono

di Fabrizio Rinaldi, 4 settembre 2018da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Ma tu, che lavoro fai? Quando rispondo: coordino un gruppo di persone in una struttura educativa, quasi mai la spiegazione suscita una qualche curiosità nell’interlocutore. In genere è seguita da un silenzio quasi imbarazzato, dal momento che la domanda era stata posta per riempire del tempo durante una conversazione futile. È dunque un modo per liquidare velocemente discorsi inutili e dirottare l’attenzione dell’interlocutore verso altri, con cui commentare magari l’ultimo modello di SUV.

Ma non và sempre così. L’altro giorno il figlio adolescente di un’amica ha insistito: Sì, vabbé, ma che cosa fai tutto il giorno? Il suo era un interesse genuino, ma o non erano sufficientemente chiare le mie parole o non riusciva ad incasellarle nella sua griglia mentale dei mestieri: in fondo non era tra quelli manuali o ben riconoscibili. Allora m’è venuta alla mente un’immagine suggeritami da un collega: Hai presente il film “The Truman Show”? Ecco, io sono il regista di quel baraccone per bambini “Truman”. Ho colto nel suo sguardo lo sconcerto, ma qualcosa deve averlo capito. Cosa francamente non lo so, anche perché è un paragone un po’ azzardato: ma almeno mi sono liberato della sua curiosità.

La storia è nota: fin dalla nascita Truman è inserito in un programma televisivo che trasmette a sua insaputa ogni attimo della sua vita. Il bambino non sa di vivere dentro un mondo fittizio creato attorno a lui. Comincia a camminare, a parlare, si relaziona con gli altri, s’innamora, fino a quando prende coscienza che c’è altro oltre quel mondo, e vuole esplorarlo, ma tutti glielo impediscono.

Quando il film uscì molti ci lessero un preciso riferimento alla società attuale, nella quale i sentimenti, gli oggetti, la comunicazione e, in generale, le scelte quotidiane, sono ridotti a beni di consumo gestiti dalle aziende e dai governanti – in questo preciso ordine –,a fini di guadagno e di potere e a discapito dei reali bisogni e del benessere della comunità.

In effetti ci sono riferimenti al mito platonico della caverna, che narra di prigionieri cresciuti sin dalla nascita in quello spazio chiuso, incatenati con le spalle volte all’ingresso, ignari dell’esistenza di un altro mondo al di fuori. A loro è concesso solamente vedere le ombre della realtà esterna proiettate sulla parete di fondo come da una lanterna magica. Un giorno uno di essi viene liberato e condotto all’uscita, dove con un misto di paura e meraviglia scopre poco a poco le stelle, il verde dei boschi e infine la luce accecante del Sole. Resosi conto dell’inganno nel quale era vissuto decide di tornare nell’oscurità per far conoscere la verità ai suoi compagni: ma questi non gli credono, pensano che sia impazzito a causa di ciò che ha visto e alla fine lo uccidono. In pratica scelgono di continuare a vivere nella finzione piuttosto che affrontare i pericoli (e le responsabilità) comportati dalla verità.

Come nello show di Truman, i miei collaboratori ed io cerchiamo quo-tidianamente di governare quella caverna, che nel nostro caso è una struttura ricettiva per classi della scuola primaria o, in estate, per minori della stessa età: e facciamo sì che le “ombre” proiettate siano piacevoli, divertenti ed “educative”, secondo precetti e indicazioni condivisi non con loro, ma con adulti che credono d’interpretarne i desideri, le necessità e anche le frustrazioni.

Per il tempo del soggiorno, in genere, siamo bravi a predisporre una programmazione alternativa a quella scolastica, colma di attività di esplorazione e di conoscenza. Le “ombre” che mandiamo in “scena” sono escursioni nel territorio, laboratori manuali ed espressivi, giochi organizzati e guidati. Il tutto sta in piedi grazie ad un progetto educativo elaborato negli anni per permettere agli educatori di gestire la naturale tendenza dei bambini a sottrarsi alle regole imposte da altri: facciamo trascorrere loro un breve periodo in un contesto inusuale e contemporaneamente “straordinario”, che consente esperienze di autonomia e di responsabilizzazione che per molti rimarranno purtroppo uniche.

Qui hanno infatti l’opportunità di vivere in una comunità differente da quella scolastica, con coetanei che non conoscono e con cui, gioco forza, devono imparare a condividere i tempi, gli spazi e la reciproca presenza (aspetto diventato estraneo). Questo li porta a sperimentare anche frustrazioni e sentimenti raramente provati prima. Nel nostro “laboratorio” viene testata – e da noi governata– quella che Umberto Galimberti definisce la “risonanza emotiva dei comportamenti”: certi atti “trasgressivi”, magari tollerati nell’ambito familiare o addirittura in quello scolastico, in una collettività come la nostra non possono essere accettati, perché ne minerebbero il senso stesso. Quel freno che oggi molti ragazzi sembrano non conoscere più, a causa di un crescente analfabetismo emotivo, da noi si sviluppa quasi spontaneamente in virtù della forzata e ritualizzata condivisione di un’esperienza che inizia sin dai primi gesti del mattino, dallo svegliarsi e dal lavarsi i denti assieme.

Questo apparato in linea di massima regge e funziona: tant’è vero che abbiamo alti “indici di gradimento”. Anche qui – come in ogni programma televisivo e quasi in ogni lavoro – l’impegno e l’aderenza alle promesse fatte, sono misurati attraverso un questionario, di quelli con faccine più o meno felici. Si rileva in questo modo quanto i bambini, i genitori e gli insegnanti stessi siano rimasti soddisfatti dell’esperienza fatta. È un riscontro fondamentale: l’indice di gradimento è ormai diventato un despota che ha il potere di far vivere o morire un’attività lavorativa. E ne siamo tutti complici: quando consultiamo Tripadvisor per decidere dove cenare e troviamo un ristorante con recensioni negative, tendenzialmente lo escludiamo. Se altri come noi fanno altrettanto lo condanniamo alla chiusura.

I ribelli che ho sempre amato sono inguaribili utopisti, animati da un’utopia con la minuscola: non quella dei grandi ideali con cui cambiare il mondo e affermare la società perfetta, ma l’utopia dell’istintivo, insopprimibile bisogno di ribellarsi. E anche quando la sconfitta appare ormai ineluttabile, quando la realtà vorrebbe imporre loro l’accettazione di un compromesso per “salvare il salvabile”, continuano a battersi per quella che Victor Serge definiva “l’evasione impossibile”.
PINO CACUCCI, Ribelli!, Feltrinelli 2003

Comunque, alla fine del film, Truman sceglie di uscire dalla realtà fittizia e di immergersi in quella vera, sia pure consapevole degli ostacoli che lo attendono; mentre i nostri bambini, al termine della settimana, non possono scegliere, ma devono tornare dai loro familiari. In genere sono contenti di tornare nella loro caverna domestica, qualche volta no, perché troveranno una realtà che li spaventa, che non li accetta o da cui vorrebbero fuggire: ma purtroppo la regia di questo show non è affidata a loro.

Proprio questi bambini restano maggiormente impressi nella memoria. Sono i ribelli di Platone e i Truman, quelli che più creano scompiglio nel nostro baraccone, che contestano il modello creato a loro uso e consumo e si oppongono a una sceneggiatura che vorrebbe gestire anche il loro rifiuto di quel modello.

Non mi riferisco naturalmente a marmocchi viziati, che oppongono resistenza solo per una volontà di protagonismo maleducato coltivata in loro dalle famiglie. Quelli sono ben contenti di tornarsene a casa, dove possono spadroneggiare in mezzo a una premurosa indifferenza. Parlo di una sparuta minoranza, di coloro che apparentemente si rifugiano dietro un rifiuto ostinato, ma in realtà intravvedono negli spiragli offerti dalla settimana “diversa” una via di fuga da una condizione a volte davvero insopportabile. Nei loro confronti si crea una situazione paradossale. Da un lato siamo noi a far conoscere loro possibili “mondi” o esistenze alternative, dall’altro siamo ancora e sempre noi a stabilire le regole di appartenenza e di sopravvivenza in questi mondi. Questa potrebbe sembrare un’operazione subdola di “domesticazione” totale, di asservimento persino delle fantasie di fuga di quei poveri ragazzi. E noi potremmo apparire come gli esecutori della strategia più avanzata e totalizzante del sistema. Ma non la vedo così. Il paradosso rimane, ma ha un suo risvolto positivo.

Mi spiego. Questi bambini, tutti, i ribelli come gli entusiasti o i rassegnati, vivono davvero costantemente in una realtà virtuale, in un sogno indotto che a volte può assumere anche le sfumature dell’incubo, ma di norma ha un andamento rassicurante e accattivante. Si nutrono di televisione e dei prodotti che essa promuove, materiali e spirituali, di smartphone e di pseudoamicizie virtuali, di videogiochi che alimentano la convinzione che tutto sia lecito e innocuo, che non esistano responsabilità personali, che sia sufficiente un click per chiudere e per avviare un gioco diverso. Né più né meno, del resto, di come vivono i loro genitori. Teoricamente questi bambini dovrebbero trovare una voce discordante nella scuola: ma così com’è ridotta e concepita oggi, la scuola non fa altro che inseguire pateticamente la realtà esterna (vedi la corsa agli ammennicoli tecnologici – LIM e compagnia bella – per attrezzare le aule, mentre sono del tutto scomparse le vecchie carte geografiche). Le occasioni per un risveglio, per intravvedere un barlume di esistenza non conformista, sono ben poche. E ritengo che una di queste poche possiamo crearla, e già in parte la stiamo creando, proprio noi.

Non sto parlando di una istigazione all’anarchismo, alla ribellione, al rifiuto delle regole. Tutt’altro. Sto parlando di educazione alla vera libertà, che è essenzialmente responsabilizzazione personale nelle scelte.

Vediamo cosa accade nella sostanza. Nella nostra azione coesistono due piani. Uno è quello della “normalizzazione”. Di fronte alle esplosioni di ribellione, ad esempio, cerchiamo di far rientrare tutto nel “gioco delle parti”: adeguiamo le “ombre”, facendole diventare ancor più ingannevoli e accattivanti, affinché il bambino attenui il desiderio di evadere dallo show. È il nostro lavoro, è il compito per il quale siamo qui, e che non si esaurisce nell’opera di “contenimento”. Non siamo dei parcheggiatori.

Del moto di ribellione rimane traccia in schede che evidenziano le “non conformità”, e che dovrebbero prevedere anche adeguate strategie “correttive”. E fin qui, rientra tutto in una sceneggiatura politicamente corretta, che anzi sarebbe doverosa, più ancora che corretta, se poi qualcuno davvero questi bambini li ascoltasse, e non si limitasse a certificarne la devianza da uno standard. Il problema è che nella maggioranza dei casi ciò non accade: e non accade non solo per trascuratezza o per incompetenza, che pure hanno la loro parte, ma per un vizio d’origine del sistema. Il sistema non è attrezzato a capire, ma solo a classificare.

È a questo punto che possiamo lavorare sul secondo piano. Abbiamo di fronte degli individui che vivono una situazione eccezionale, insolita, nella quale si chiede loro non di ottenere dei risultati, ma di esprimersi, non di mettersi in competizione, ma di collaborare: in sostanza, di divertirsi. E di farlo in modalità diverse da quelle cui sono normalmente abituati, alle quali sono stati avviati dalla famiglia e persino dalla scuola (da noi l’uso dello smartphone o dei videogiochi se lo scordano).

Se non lo fanno, se non stanno al gioco, e non per mania di protagonismo ma perché quel gioco appare loro futile, totalmente estraneo alla realtà in cui quotidianamente vivono, sta a noi, fuor di copione, dimostrare che futile e falsa, e comunque non unica, è invece proprio quella realtà. In sostanza, che la realtà non è quella già data, già scritta nelle pagine della sceneggiatura, ma quella che ciascuno riesce a costruirsi con l’impegno e con l’assunzione di responsabilità nei confronti di se stesso e degli altri. Questo non li renderà più felici, ma senz’altro li sorprenderà e li renderà un po’ più consapevoli, e desiderosi di scoprire altro.

Non c’è un metodo per ottenere questo risultato, non ci sono teorie pedagogiche a soccorrerci. Serve invece crederci, e mostrare sinceramente che ci si crede ai nostri ospiti: serve, insomma, l’esemplarità. Se non si crede in questa possibilità di dare a questa esperienza un senso più alto di quello della semplice vacanza, se non si è i primi ogni volta a “divertirsi”, nel significato etimologico del termine, che è quello di uscire dai percorsi già tracciati e imposti, allora conviene fare un altro mestiere.

Ogni settimana siamo chiamati a reinterpretare daccapo un copione prestabilito che rischia di ingabbiarci, di uccidere in noi ogni entusiasmo. L’interpretazione deve essere sempre eccellente, come se fosse la prima volta, affinché i nuovi ospiti considerino tutto ciò che offriamo come una loro esclusiva. La messa in scena per l’accoglienza deve essere calorosa, le spiegazioni accattivanti e le attività proposte le più coinvolgenti e didatticamente corrette. È quanto si aspettano tutti, i bambini, i genitori, i docenti che ospitiamo. È ciò che siamo tenuti a dare, e dobbiamo farlo con professionalità.

Ma possiamo fare di più, per noi e per loro. Sta a noi riconoscere le voci dissonanti dei Truman che risuonano nel buio della caverna, seguire lo scompiglio che provocano e governarlo: ma non troppo.

È il riconoscere le nostre ombre che ci permette di evadere.

Quindi, caro Truman, ti aspettiamo lunedì.

Bisognerebbe allenare e abituare gli adulti a capire i bambini. Un antico proverbio cinese dice: l’unica costante del mondo è la mutazione. Se uno cerca di fermarla si ferma lui e invecchia male. Fino a un certo punto gli adulti dovrebbero insegnare ai bambini, poi dovrebbero imparare da loro a conoscere il mondo. Il mondo reale, non quello artificiale degli affari.
BRUNO MUNARI, Da cosa nasce cosa, Laterza 2008

Collezione di licheni bottone

Il ritorno dell’acchiappatore nella segale

di Fabrizio Rinaldi, 30 giugno 2018, da sguardistorti n. 03 – luglio 2018

Se davvero avete voglia di sentire questa storia … vi dico subito che il “cacciatore nella segale” non è un ricercatore di rarissime specie di frumenti, il cui uso è riservato a pochi sapienti, come qualcuno – spero pochi – può aver ipotizzato.

È sulla cattiva strada anche chi, al sentir parlare di “ritorno”, pensa ad un’ambientazione western.

Il mio titolo allude invece alla traduzione letterale di quello del libro più famoso di Jerome David Salinger: The catcher in the ray, in italiano diventato Il giovane Holden.

Quanto al “ritorno”, sta a significare che fisicamente è tornata fra le mie mani la copia del libro che avevo letto e prestato anni fa. È questa eventualità, decisamente rarissima, che vado ad analizzare: il fortunato caso in cui, dopo parecchio tempo, i libri prestati tornano al legittimo proprietario.

Di norma i casi sono due: o il libro ti viene restituito in tempi ragionevoli o, più sovente, puoi ritenerlo perduto.

In quest’ultimo caso la nostra memoria, forse per difendersi dal torto subito, fa un’operazione non so quanto inconscia: cerchiamo di dimenticare a chi abbiamo prestato il prezioso libro, anzi, di scordarci proprio di quel libro, di averlo posseduto e di averlo letto.

È una reazione che s’innesca per proteggere e preservare ciò che riteniamo più importante, cioè il legame con l’altra persona, rispetto al quale il libro, per quanto amato, passa in secondo piano.

Ma non è così facile. La mente non si lascia ingannare per troppo tempo, e il dolore – anche fisico – per l’assenza del libro in questione ristagna, e ogni tanto riemerge.

I “percorsi mentali” che intraprende un lettore assiduo diventano dopo un po’ dei sentieri, segnalati da stupa non di pietre, ma di libri letti. Questi libri identificano il viaggiatore letterario più della carta d’identità: questa invecchia, mentre il piacere di aver letto Pessoa, Chatwin, Rigoni Stern e Sbarbaro rimane sempre vivo. Certi autori segnano il carattere come le cicatrici la pelle. Ora, proprio perché l’identità del lettore rimane immutata, la tendenza è quella di ripercorrere gli stessi passi lungo le mulattiere letterarie, sedersi ogni tanto sulle pile di libri che siamo certi di possedere ed accorgersi che la pila è più bassa del solito. Frugando nella libreria personale alla ricerca del libro che è tornato alla mente scopriamo che non si trova dove dovrebbe essere. Lo cerchiamo in altri ripiani, ma non c’è verso: il libro, di cui ricordiamo il colore della copertina, le frasi sottolineate, addirittura l’odore, è definitivamente sparito.

Allora ci sforziamo, inutilmente, di ricordare a chi lo abbiamo dato, fino poi ad arrenderci, incolpando magari l’avanzare dell’età. In realtà non credo sia questa a farci scordare il beneficiario della nostra fiducia. La mente cancella la persona a cui avevamo dato il libro, come se avesse compreso che evidentemente non era all’altezza della nostra stima, e la rimuove dalla memoria.

Non è questo il mio caso. Io ricordavo invece benissimo la beneficiaria.

Quando abbiamo a che fare con il mondo femminile tutto si complica – e non credo valga solo per me. Entrano in gioco i sentimenti, specie quelli adolescenziali: all’epoca provavo per questa persona un’infatuazione di quelle che lasciato il segno, anche se è vero che col tempo ci si ricorda più dell’infatuazione che della persona.

Nonostante abbia avuto occasione ogni tanto di incontrarla, non le ho mai chiesto indietro il mio Holden, perché temevo mi dicesse che non rammentava di averlo ricevuto o, peggio ancora, di averlo letto. Sarebbe evaporata l’idea di lei che mi ero costruito e che si era scolpita nella mia mente. Mi piaceva pensare che quel libro l’avesse letto e che quell’oggetto fosse rimasto l’unico tramite del nostro rapporto, di un rapporto beninteso totalmente idealizzato e mai concretizzato.

Sono un povero idiota!

Questo è il guaio con le ragazze. Ogni volta che fanno una cosa carina, anche se a guardarle non valgono niente o se sono un po’ stupide, finisce che quasi te ne innamori, e allora non sai più dove diavolo ti trovi. Le ragazze. Cristo santo. Hanno il potere di farti ammattire. Ce l’hanno proprio.
J. D. SALINGER, Il giovane Holden, Einaudi 1961

Il ritorno a casa del mio Holden non è stato del tutto fortuito. Se ne è fatta intermediaria mia moglie, che casualmente è collega della ragazza. Le è bastato chiedere il libro indietro per ottenerlo immediatamente: una semplice richiesta, quella che a me era parsa impossibile per anni.

Mia moglie ha avuto l’opportunità unica di farmi un regalo del tutto inaspettato, permettendomi di tornare in possesso della copia sottolineata dell’Holden. Ma ha avuto anche l’occasione di sfrugugliare nella mia vita adolescenziale, e di verificare quale tipo d’interesse eventualmente la tizia in questione avesse provato o potesse ancora provare per me, e io per lei: insomma, ha attivato quel gusto sommerso di indagare nel passato del proprio compagno che non è esclusivo, ma è senz’altro tipico delle donne, e che prescinde dal fatto che ci siano sospetti di rimpianti o meno. Ha realizzato un capolavoro. Spero non mi fraintenda – anzi, sono certo che non lo farà –, ma è innegabile che il modo in cui si sono sviluppati gli eventi le abbia offerto un grosso vantaggio in quella eterna partita a scacchi che è il matrimonio.

Il cerchio intanto si è chiuso: un’assenza sofferta è divenuta presenza tranquillizzante nella mia libreria. Ho eliminato la copia surrogato acquistata dopo lo smarrimento e ho reintegrato al suo posto la vecchia edizione Einaudi un po’ sgualcita, con il quadrato bianco in copertina.

La ragazza, ormai donna e madre, Il giovane Holden lo ha letto e riletto (lo ha confermato a mia moglie), e lo dimostra anche lo stato di consunzione del libro. Per un feticista dell’oggetto libro sarebbe un colpo al cuore, mentre per me ha acquisito un valore infinitamente maggiore che se fosse rimasto a dormire inutile per tutti questi decenni nello scaffale della letteratura americana.

I libri vanno infatti affidati a chi riteniamo degno della loro lettura. Certo, la separazione è dolorosa, spesso si ha il presentimento che possa essere definitiva. Ma a volte proprio la loro assenza induce a nuove letture, fa posto ad altri libri, apre a connessioni letterarie diverse e a nuovi sentieri. Un libro troppo sacralizzato rischia di creare dei recinti e di chiudertici dentro: la distanza, magari anche solo momentanea, rende più laico il rapporto.

Il ritrovamento dell’Holden mi ha ad esempio incoraggiato a rileggerne alcune parti. Ho realizzato quanto sia, a tratti, lontano dal mio modo d’essere di oggi, ma ho anche compreso il perché all’epoca mi piacque tanto. La lettura non suscita più l’entusiasmo ingenuo di allora, non la stessa identificazione. I decenni trascorsi si sentono. Però hai molto più chiaro ciò che il libro ti ha trasmesso, e in questo caso ha trasmesso a milioni di altri lettori.

Io abito a New York, e pensavo al laghetto di Central Park, vicino a Central Park South. Chi sa se quando arrivavo a casa l’avrei trovato gelato, mi domandavo, e se era gelato, dove andavano le anitre? Chi sa dove andavano le anitre quando il laghetto era tutto gelato e col ghiaccio sopra. Chi sa se qualcuno andava a prenderle con un camion per portarle allo zoo o vattelapesca dove. O se volavano via. 
J. D. SALINGER, Il giovane Holden, Einaudi 1961

Il ragazzo che si chiede dove vattelappesca vadano le anatre d’inverno, quando il lago gela, fa quello che tutti i giovani in un modo o nell’altro fanno (o almeno, facevano): si pone delle domande apparentemente assurde, dei quesiti senza risposta, che lo inducono comunque a immaginare un mondo differente, un pensare ed un agire non “conformi” . Gli adulti non si pongono questo genere di domande perché devono badare alle esigenze quotidiane, hanno la mente piena di apprensioni e ben poco tempo per fantasticare sul dove vadano le anatre d’inverno.

Ma non sempre. Io, per mia fortuna, non ho smesso di cercarle ogni tanto, quelle maledette anatre …

Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzi che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia. 
J. D. SALINGER, Il giovane Holden, Einaudi 1961

Lo so che è una pazzia. Lo so benissimo anch’io, come so che Holden è sostanzialmente un inconcludente, uno che attende che il mondo gli passi accanto per afferrarne qualche brandello, senza avere la benché minima idea di cosa realizzare nella vita.

Ma come si fa a resistere all’assurda e poetica immagine che va a scovare per descrivere il mestiere che vorrebbe fare, un mestiere unico nel suo genere: l’acchiappatore nella segale, colui che trattiene i bambini che corrono nella direzione sbagliata, verso il dirupo. Ci sono degli innocenti, inconsapevoli del pericolo che sta loro davanti, più fragili ancora del protagonista (che è tutto dire). E lui fa la differenza, con un gesto semplice ma decisivo, perché comprende quale possa essere la deriva, e agisce.

Lo fa a suo modo, acchiappandoli prima che la voragine delle scelte di vita sbagliate li inghiotta. Ai bambini offre una seconda possibilità, una differente visione di sé stessi e della situazione in cui si stanno cacciando. Ammette anche i suoi limiti, quando afferma appunto “Lo so che è una pazzia”. Sa che nessuna altra opportunità potrà salvarli, senza una volontà di cambiamento da parte loro.

Esistono ancora acchiappatori capaci di suggerire una visione difforme del comune pensiero? Lo spero tanto, perché altrimenti la segale che abbiamo davanti agli occhi ci impedirà di vedere il burrone verso cui ci dirigiamo.

Io intanto mi piazzo in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco


Collezione di licheni bottone

Il gradiente dell’onesta liberazione

di Fabrizio Rinaldi, 24 giugno 2018, da sguardistorti n. 03 – luglio 2018

Quando cammino nei boschi, immancabilmente, l’occhio si sofferma su qualche fenomeno minuto che avviene la sotto, e mi distraggo dai propositi che mi avevano fatto intraprendere il percorso.

Non c’è verso, mi accade anche quando vado a funghi con mio padre: lui torna a casa col cesto pieno, io con uno, un solo esemplare di porcino, poiché magari mi fermo ad osservare le lumache mentre divorano tranquille l’ovulo che avrei dovuto raccogliere.

Non mi distraggo, invece, mentre passeggio in paese, tra le vetrine dei negozi stracolme di prodotti “indispensabili e irrinunciabili”, di cui mi importa meno che di una mosca sulla cacca di un cane.

Visto che non smanio per scarpe, abiti o cibo esposto, la mia attenzione si ferma sulle tipologie umane. Provo a immaginare delle storie cucite sui pochi indizi che gli incontri mi offrono: vecchi (magari non anagraficamente) rancorosi che ciattellano su questo o quell’altro, coppie già scoppiate (lo si vede da come, pur camminando uno accanto all’altro, fan di tutto per non sfiorarsi), amanti che fan di tutto invece per sfiorarsi pur nascondendolo, poveri affamati e ricchi ostentati. La casistica è infinita, ci sarebbe da scrivere fior di trattati sull’antropologia del quotidiano.

La natura umana attrae però meno il mio interesse. L’uomo agisce troppo velocemente, e io per carattere non reggo questa frenesia, ne sono infastidito e se posso la evito.

Al contrario, durante la passeggiata nel bosco, ignorando moglie e figlie che mi richiamano alla loro compagnia, sono costantemente attratto da ciò che lì succede: la foglia di una pianta che non conosco, le modalità di interazione delle formiche per sopravvivere in quel fazzoletto di terra che a loro parrà sterminato; una roccia sedimentaria che, di passeggiata in passeggiata, di anno in anno, si ricopre lentamente e inesorabilmente prima di licheni, poi di muschi, per ospitare infine felci e fiori.

Là in mezzo si può assistere ai passionali accoppiamenti delle libellule, con acrobazie che fanno apparire banali quelle descritte nel kamasutra, o vedere le femmine di insetto stecco che depositano le uova già fecondate senza neppure accoppiarsi, perché i maschi sono talmente rari che è meglio far da sé. Potere delle donne …

Ma anche l’osservazione di semplici accadimenti naturali offre costanti rimandi all’agire umano. Uno di questi sono gli infiniti, spesso impercettibili passaggi che portano un fenomeno a diventare qualcos’altro. Questi passaggi sono determinati da un complesso di spinte e di azioni-reazioni (ad esempio, la pressione, la temperatura, l’umidità, ecc …), che sono indicate come “gradienti”. Il termine, originario della matematica, è entrato poi in uso anche nelle scienze naturali, e ultimamente in quelle sociali. Un gradiente, dunque, è grosso modo un fattore di mutamento (sarebbe più corretto dire che è la “quantità”, la “rilevanza” di quel fattore). All’interno di un gradiente esistono interminabili progressioni che trasformano un elemento o un fatto in qualcos’altro.

Lungo il percorso nel bosco se ne possono osservare parecchi. Provo qui a individuarne qualcuno che aiuterà a prendere coscienza di come agiscono.

Il primo l’ho già descritto poco fa: è l’esempio base. Si va dalla nuda roccia fino alle fioriture, passando attraverso una sequenza di forme vegetative (licheni e muschi) sempre più complesse.

Mentre cammino mi accorgo che la vegetazione si fa più fitta, con foglie sempre più grandi; compaiono carpini e ontani neri, chiazze di ferrobatteri, felci: spunta anche una salamandra. È evidente che mi sto avvicinando ad una zona umida.

Se alzo poi lo sguardo vedo due taccole che, in un crescendo di nervosi gracchi, importunano con voli radenti il bel biancone che vorrebbe starsene fermo lassù, volando a spirito santo, ad osservare la sua preda: un lungo biacco steso su una rupe.

Qui in basso, a sua volta, un ragno è guidato dalle crescenti vibrazioni della sua tela, stesa tra due arbusti, fino ad arrivare alla farfalla intrappolata.

Insomma, identificare i gradienti permette di cogliere le infinite interazioni naturali che congiungono i diversi elementi della biodiversità in un groviglio di legami, e al tempo stesso rafforzano ogni singolarità specifica.

Ora, se imparassimo a valutare correttamente anche i gradienti sociali avremmo una consapevolezza ben maggiore dei fenomeni che ci coinvolgono: soprattutto ne coglieremmo le possibili derive, e le loro disastrose conseguenze. Con una, purtroppo tragica differenza: la conoscenza dei gradienti naturali di norma ci aiuta ad agire (non sempre: si pensi al problema ambientale), quella dei gradienti sociali sembra invece destinata a rimanere sterile. Voglio dire che era immaginabile, ad esempio, che persino un mediocre caporale, eletto democraticamente dal popolo tedesco, avrebbe potuto diventare la personificazione del male assoluto: e qualcuno in effetti lo ha anche fatto. Ma poi il caporale ha avuto via libera.

Nella società globalizzata le interconnessioni tra fenomeni sociali sempre più complessi e sempre più strettamente legati producono una moltiplicazione di gradienti. L’effetto di deriva è già ben visibile, nel controllo capillare dell’informazione, nella creazione di bisogni indotti e in una politica sfacciatamente mirata a soddisfare l’egoismo di pochi, a tacitare le aspirazioni di molti e ad ignorare i bisogni primari di altri, gli ultimi, quelli del mondo occidentale o quelli provenienti da paesi lontani.

Come viene mascherato o negato questo effetto? Semplicemente ignorando i gradienti, trattando le questioni come fenomeni singoli, separati e indipendenti gli uni dagli altri, con confini ben precisi. Questo illude di controllarli meglio: un mondo di confini impedisce le interazioni. I gradienti invece fondono fenomeni che pensiamo distinti, e che diventano impossibili da controllare e gestire nell’ambito miope della politica di “protezione” degli interessi egoistici e immediati.

È questa semplificazione che ha portato ad esempio ad avere in Italia un governo che si regge sul numero di follower in più rispetto all’avversario, piuttosto che sulle idee e le proposte di senso. Mentre gli italiani sono distratti dal respingimento dei barconi carichi di disgraziati, vengono ignorate questioni ben più importanti. E a giudicare dai sondaggi di voto, l’opera di distrazione riesce perfettamente.

Per fortuna sul lavoro ho quotidianamente la dimostrazione che l’integrazione e l’inclusione sono realtà – lente a sedimentarsi, ma sostanziali nell’affermarsi – che vanno al di là di Salvini e dei suoi appelli alla “pancia” degli italiani.

Le classi milanesi che vengono a trascorrere una settimana al mare, tra i borghi liguri e la macchia mediterranea, sono composte per lo più da bambini di origine straniera (a volte gli italiani si contano sulle dita di una mano) che non danno peso al colore della pelle o alle differenze culturali, ma sono interessati alle reciproche relazioni, alla scoperta del nuovo, alle differenze e alle complessità dei fenomeni che li circondano tutti, nessuno escluso.

Non è difficile capire che il futuro degli italiani sta proprio in queste classi multietniche, perché da esse usciranno i futuri dirigenti e politici. Ma non sarà un percorso facile, privo di ostacoli e di retromarce.

Gli Stati Uniti dopo secoli di discriminazione e di oppressione razziale hanno avuto un presidente “negro”: ma dopo di lui è arrivato Trump, segno che la maturità è ancora ben lontana.

Per questo sarebbe fondamentale un lavoro d’integrazione serio, che è cosa ben diversa dal “vogliamoci tanto bene”, e suppone una idea di “cittadinanza” che non appartiene nemmeno agli italiani.

Si dovrebbe ricominciare a parlare di regole, che sono la base di ogni civile interazione, e soprattutto a rispettarle, tutti quanti. Ciò che appare lontanissimo dagli intenti attuali. La “pancia” invoca solo soluzioni facili, non responsabilizzanti, e le attuali scelte politiche non fanno che assecondarla, riducendo il problema agli stranieri da espellere.

Mi sta diventando impossibile digerire il volto di chi ci governa, e tanto più quello di chi ne premia le scelte. Sono persino fisicamente a disagio e ho perso ogni voglia di provare a comunicare con chi non la pensa come me.

Pensavo che con Berlusconi avessimo toccato il fondo, che almeno si fossero prodotti degli anticorpi contro la mediocrità, il ciarlatanismo, le semplificazioni: invece oggi è forse peggio, perché al potere abbiamo degli sprovveduti totali, armati solo di presunzione, che sbandierano la loro ignoranza come una virtù e irridono i principi fondanti la nostra democrazia. E che sono purtroppo lo specchio veritiero del modo di pensare e di sentire della maggioranza.

C’entra qualcosa questo con i gradienti? Certo che c’entra. Chi ha combattuto Berlusconi per vent’anni ha continuato a illudersi che si trattasse di un’anomalia della storia, di un incidente di percorso della democrazia: senza ricordare che lo stesso si diceva cent’anni fa del fascismo, e poi del nazismo, e che quei principi sono stati messi sotto accusa per tutto questo ultimo secolo anche da chi il fascismo e il nazismo li combatteva.

Non possiamo continuare a raccontarci storie: della democrazia come noi la intendiamo, che non è solo uno dei modi di esercizio del potere politico, ma una scelta di vita e un modello di convivenza, non frega niente quasi a nessuno.

La “gente”, cui si è data “finalmente” la parola, bada a quello che ritiene il proprio immediato interesse ed è sorda ad ogni causa che implichi anche lontanamente un sacrificio: gli intellettuali cercano solo una effimera visibilità e per ottenerla si prestano a fare i giullari del potere; e il potere stesso, che una volta era ben identificabile nella distinzione tra oppressori e oppressi, ha assunto contorni talmente indefiniti e ambigui da rendere problematico anche ogni tentativo di resistenza.

Qual è allora il gradiente fondamentale, in questo bel panorama? È in-dubbiamente l’ignoranza. In termini di conoscenza, perché paradossalmente abbiamo avuto un aumento esponenziale delle conoscenze specialistiche, ma si è persa la capacità di interconnetterle: e in termini di desiderio di conoscenza, intesa come curiosità genuina, non finalizzata alla realizzazione economica o sociale, nei confronti degli altri o del mondo. Persino il ceto “intellettuale” ha creduto di poter scherzare con l’ignoranza, l’ha giustificata e coltivata. Mentre sarebbe bastato tenere d’occhio la piega che le cose stavano prendendo per capire dove ci stava portando la deriva. Salvini e Di Maio non nascono dal nulla. Sono solo gli esiti più clamorosi di un fenomeno di sbracamento culturale che ha investito tutta la società, e al quale nessuno ha opposto seriamente resistenza.

Per questo continuo a issare palizzate di principio attorno alle mie convinzioni: ma temo che ad un certo punto mi troverò completamente circondato, chiuso in un recinto di “sani principi”. E credo che questo stia accadendo ad un sacco d’altra gente. Non sappiamo come uscirne, cominciamo a disperare che sia ancora possibile.

L’unico dato positivo della situazione è che non siamo soli. Il male comune in questo caso non è un mezzo gaudio: ma a patto che sia avvertito appunto come comune, può indurre a unirsi per combatterlo.

Sarà bene che anch’io mi sforzi di mettere la testa fuori del recinto: può essere che veda altri volti spuntare da fortini e senta voci non stonate. Non sarà la liberazione universale, ma darà un po’ di senso ad una resistenza che rischia davvero di diventare pura ostinazione.

Collezione di licheni bottone