Limature

di Nicola Parodi, 13 aprile 2022

La limatura è nel caso specifico il residuo delle conversazioni tenute al tavolino del bar con Paolo Repetto. La polvere di ferro sembra materiale di scarto, ma in realtà è utilizzata per curare le piante, modificare il colore dei fiori, fare esperimenti scientifici sui campi magnetici. Non avendo speranza di cambiare alcunché, né necessità di curare qualcuno o di fare esperimenti, noi la usiamo come zavorra per tenerci ancorati alla realtà.
In genere funziona.

Sputi

Mentre guido verso Grognardo, dove andrò a dare un’occhiata e un po’ d’acqua alle piantine di carciofo che ho trapiantato due settimane fa, ascolto su radio 3 Uomini e profeti. Ad un certo punto il conduttore (il “filosofo” Felice Cimatti), che sta interloquendo con l’antropologo Marcello Massenzio a proposito della riedizione del libro di Ernesto De Martino Il mondo magico, cita il fatto che i contadini prima di mettersi a zappare si sputavano sulle mani. “Si capisce che quello è uno scongiuro: stai per fare una specie violenza alla natura e quindi esorcizzi quella violenza. In quel senso quell’uomo non è solo, c’è una cultura che lo autorizza a compiere quel gesto.” L’antropologo plaude e ringrazia per l’assist.  Quel contadino non è solo – dice – perché porta con sé tutta una tradizione culturale che gli consente di riformulare all’interno di un linguaggio socialmente condiviso il proprio smarrimento di fronte all’immensità del mondo.

Li avessi a tiro li prenderei a zappate. Sicuramente non hanno mai visto le mani di uno che ha passato la vita a zappare. Purtroppo non  ho un linguaggio condiviso che mi consenta di riformulare altrimenti il mio smarrimento e la mia indignazione di fronte alle stronzate. Le piantine comunque hanno preso bene, adesso devo rincalzare un po’ la terra. Non mi sputo sulle mani, ho un vecchio paio di guanti da lavoro. La natura, spero, mi perdonerà.

Limature 02

Suicidi

“Se un attacco nel cuore dell’Europa ci ha colto impreparati, è perché eravamo impegnati nella nostra autodistruzione. Il disarmo strategico dell’Occidente era stato preceduto per anni da un disarmo culturale. L’ideologia dominante, quella che le élite diffondono nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo, ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Secondo questa dittatura ideologica non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare. Questo è il suicidio occidentale.”

È il biglietto da visita dell’ultimo libro di Federico Rampini, Suicidio occidentale, non so se dettato dall’autore o redazionale, ma che riassume perfettamente l’assunto del libro. Sul quale posso essere in linea di massima anche d’accordo, ma che mi è suonato subito come un qualcosa di già sentito. In effetti, chi abbia seguito negli ultimi venticinque anni, prima sulla rivista cartacea e poi sul sito, il percorso dei Viandanti, queste cose le ha già sentite da quel dì: non hanno fatto che ripeterle. Fa dunque piacere che anche Rampini ci sia arrivato, ma non posso non sottolineare che ci è arrivato con almeno un quarto di secolo di ritardo. E non posso nemmeno rallegrarmi del fatto che questa consapevolezza sarà finalmente trasmessa ad una utenza larghissima, perché avendo un po’ di pratica del personaggio e degli scenari in cui si muove so che il messaggio passerà soprattutto per gli schermi televisivi e i salotti dei talk, che sarà cioè banalizzato e assoggettato allo spettacolo e agli inserti pubblicitari. Arriverà talmente tardi e talmente annacquato da non essere più nemmeno politicamente scorretto.

Quando i messaggi indossano le bretelle, significa che hanno già perso la forza di reggersi da soli.

Limature 03

Vero o falso per me pari sono

La valanga  di notizie più o meno verosimili che ogni giorno riceviamo mi richiama alla mente un editoriale scritto nel dicembre del 2018 da Marco Cattaneo, direttore de Le Scienze. Presentando gli articoli contenuti nella rivista il Direttore commentava: “L’intelligenza artificiale sta mettendo alla portata di tutti strumenti in grado di manipolare file audio e video in modo che siano praticamente indistinguibili dagli originali”. E citava un video, palesemente manipolato, nel quale si vede Obama insultare Donald Trump, per mostrare come sia facile alterare la realtà utilizzando le nuove tecnologie dell’ intelligenza artificiale.

Il problema è talmente serio che l’agenzia della Difesa statunitense dedicata alle tecnologie ha sviluppato un programma apposito per individuare le firme digitali dei falsi. Ma anche qualora il programma funzionasse alla perfezione, se per verificare audio e video occorreranno tempi lunghi (e non parlo di mesi, ma di ore) ogni sforzo sarà vano, in quanto le fake news fanno il giro del mondo in tempo reale e una volta diffuse reggono a qualsiasi smentita.

Ora, al di là del fatto che lo scandalo nel falso video di Obama sarebbe semmai che qualcuno perda tempo a inveire contro Donald Trump, il nocciolo è che se diffondere falsi sempre meno verificabili è diventato un gioco da ragazzi la credibilità dell’informazione va a farsi definitivamente benedire.

Beninteso, non è un problema di oggi. Tutta la letteratura mitologica, religiosa e storica del passato è una narrazione dei fatti come minimo “addomesticata” e gestita dai vincenti o dai dominanti, e in questo senso poco o nulla è cambiato. Il cambiamento riguarda invece la quantità e la velocità delle informazioni che oggi riceviamo. Sono queste nuove caratteristiche a mettere paradossalmente in discussione ogni nostra reale possibilità di conoscenza di ciò che accade. E a fare sì che la veridicità di ciò che apprendiamo sia tutto sommato l’ultimo dei problemi.

Mi spiego. Anche dopo l’invenzione della stampa e la nascita dei giornali l’informazione è rimasta appannaggio di una percentuale bassissima della popolazione. Le poche notizie che circolavano erano create in genere dalle stesse fonti, e su tutto si esercitava il controllo e la censura dai poteri politici ed economici. Le nuove tecnologie dell’informazione però covavano una serpe in seno: potevano essere usate anche, sia pure in mezzo a mille difficoltà, dal pensiero dissidente, dalle opposizioni, per cui chi davvero lo volesse poteva farsi un’idea approssimativa di come stavano le cose confrontando le diverse versioni. Il numero delle informazioni essenziali era contenuto e c’erano tempi sufficienti per lasciar decantare le notizie e verificarne bene o male l’attendibilità. Si conosceva poco, ma quel poco, vero o falso che fosse, si riusciva a inserirlo in un quadro passabilmente coerente, sul quale poi ci si regolava per i comportamenti politici e sociali.

Questo è valso sino alla rivoluzione telematica. Poi è cambiato tutto, e oggi siamo davanti all’assurdo che il fatto che una informazione sia vera o falsa è quasi irrilevante, perché essa va comunque a perdersi in un oceano nel quale non siamo più in grado di stare a galla o di scorgere un qualsiasi approdo cui volgerci.

L’effetto è devastante, e cominciamo ad averne coscienza davanti ad eventi come la pandemia o la guerra in corso nell’est europeo. Siamo sommersi, travolti dalle notizie, ma ne siamo sempre meno toccati. Centocinquanta morti quotidiani per Covid o mille per scontri e rastrellamenti sono entrati nelle nostre abitudini come il caffè, davanti agli “speciali” televisivi o ai reportage dal fronte degli inviati speciali (ma quanti sono?) o ai messaggi di papa Francesco cambiamo velocemente canale, leggiamo i giornali partendo dalla decima pagina o dalla cronaca locale.

Mai gli uomini hanno avuto accesso ad una tale quantità di informazioni, mai gliene è fregato di meno.

Limature 04

Archimede sulla spiaggia di Ortigia

di Maurizio Castellaro, 11 dicembre 2020,

Ho trovato in rete la foto di questa aula scolastica. Al centro della parete troneggia una lavagna digitale, ai lati due piccole lavagne di ardesia. Manca il videoproiettore, quindi il dispositivo è di fatto un grosso pezzo di metallo inutilizzabile. Immagino che la lampada del videoproiettore si sia bruciata e non sia più stata sostituita (costa parecchio). Presumo allora che le attività didattiche in classe trovino sfogo sulle due lavagne ai lati, piccole e poco visibili ancelle del metallico totem silenzioso che è stato posto sull’altare (sopra di lui infatti resiste solo il crocefisso). L’immagine è chiaramente un simbolo del fallimento delle velleitarie politiche di digitalizzazione della scuola, ma ora non ho in mente questo.

Vorrei tentare un confronto tra lavagna digitale e lavagna analogica (quella tradizionale di ardesia, per capirci), basandomi semplicemente sulla mia esperienza di insegnante. Se voglio spiegare ai ragazzi come si calcola ad esempio il minimo comune denominatore tra frazioni devo: mettermi accanto alla lavagna, controllare il tono di voce, cercare gli sguardi dei ragazzi, coinvolgere i più distratti, chiedere ai più fragili se han capito, fare ridere tutti con qualche battuta scema, gratificarli per le risposte giuste, accogliere quelle sbagliate, rispiegare tre volte in modi diversi. Insomma, il solito armamentario che già raccomandava Socrate, maestro dell’ascolto e della domanda, e che oggi chiamiamo causalità circolare, feedback, tranfert, ma che è insomma sempre quella roba lì. In questo processo la lavagna di ardesia è un’alleata discreta. Non fa rumore, è immediatamente pronta all’uso, consuma poco (due o tre gessi all’ora) e non ha memoria.

Proviamo ora ad immaginare la stessa spiegazione con una lavagna digitale. Se sono riuscito ad accendere PC, lavagna e proiettore, e a far partire il programma di gestione, devo verificare che le licenze d’uso siano ancora attive, che la penna digitale non abbia le batterie scariche e che non cada a terra danneggiandosi, che gli studenti, indecifrabili nella penombra, non si distraggano troppo (è noto che la lavagna digitale è nemica del sole, come i vampiri). Tutti gli attori sono rivolti al totem luminoso, mentre la concreta gestione del dispositivo viene a interporsi nella relazione insegnante/classe, rendendola più faticosa. Così descritta la lavagna digitale può essere definita un medium che si mette in mezzo, non un facilitatore, ma un ostacolatore della relazione, che cerca macchinosamente di riprodurre la fluida dimensione analogica dell’apprendimento. Facile e immediata l’obiezione: e l’accesso alle infinite risorse della rete dove lo mettiamo? A parte che ormai i ragazzi hanno accesso illimitato a internet grazie ai cellulari che tengono spenti nello zaino (la scuola, monoteista e monocratica, vede i cellulari individuali come possibili tentazioni ereticali, anche se sono utilizzati per imparare), vogliamo parlare dell’efficienza della rete nelle scuole? Nelle scuole che conosco anche la linea più performante ha, nell’ultimo tratto che porta agli utilizzatori finali, un’efficienza che è paragonabile a quella delle attuali gallerie sull’A26 nel tratto tra Ovada a Masone. Se a questo si aggiunge l’ulteriore dispersione del segnale conseguente alla connessione wi-fi di decine di dispositivi in contemporanea, si hanno come risultato lezioni di DAD che assomigliano spesso a commedie degli equivoci disperanti perché mal scritte, che tutti sperano finiscano prima possibile, dato che alzarsi e andarsene è maleducazione.

Io non sono esperto di neurofisiologia, ma penso che la storia della nostra evoluzione abbia stretto un nodo indissolubile tra il modo in cui funziona il nostro cervello e il modo in cui funzionano le nostre dita. Prima ancora della scrittura penso ai meravigliosi disegni dei primitivi nelle grotte, e prima ancora ai frammenti di pietra e di osso afferrati e lavorati grazie ai nostri pollici opponibili. Stiamo parlando di milioni di anni di esperienze di manipolazione e concettualizzazione racchiuse nel nostro DNA, in cui il sistema del pensiero ha affinato la capacità di interconnettersi con il sistema della motricità fine, in un rapporto di interdipendenza, in cui il pensiero rimanda al gesto e al segno, per poter produrre nuovo pensiero. È quello il nostro linguaggio macchina, fondamento di tutti gli altri linguaggi derivati. Se volete una prova immediata di tutto questo, pensate al valore in termini di interiorizzazione dell’apprendimento garantito dal “copia/incolla” dalla rete che gli studenti propinano da anni a insegnanti inconsapevoli o conniventi, e confrontatelo con il livello di apprendimento che si ottiene sintetizzando lo stesso testo a mano su un foglio di carta, utilizzando frecce, colori, sottolineature, cancellature. E’ evidente, non c’è partita. In fondo se ci facciamo caso lo stesso mondo del digitale è ben consapevole della sua subalternità alla realtà analogica. Imita il libro di carta, la tavoletta dello scriba, la tavolozza del pittore, lo strumento del musicista. Intendiamoci, io questi programmi li uso da anni per lavoro e li trovo indispensabili, e credo che in infiniti settori della nostra vita il digitale e la rete ci stiano migliorando la vita. Però se pensiamo al mondo dell’educazione e dell’apprendimento, e soprattutto alla fase evolutiva degli studenti, dobbiamo ammettere che, dopo l’entusiasmo iniziale, sempre più numerosi ci scopriamo a pensare che forse a questo meraviglioso flusso di silicio fatto di zero e uno, in fondo, manchi qualcosa. Forse è la profondità, forse è il tempo, forse è il peso della materia che viene piegata dal gesto. E allora mi ritrovo a ipotizzare che tra vent’anni quella lavagna digitale da cui siamo partiti, inutilizzato e arrugginito simbolo di una fase della nostra cultura dell’educazione, verrà finalmente smontata e depositata in scantinato, mentre nel frattempo milioni di piccoli gessetti bianchi, grazie alle due piccole e umili lavagne di ardesia, avranno comunque aiutato i cervelli di decine di migliaia di ragazzi a capire il calcolo del minimo comune denominatore tra frazioni, e forse anche altre cose non meno importanti.

Archimede di Siracusa, sulla spiaggia di Ortigia, traccia segni sulla sabbia con uno stecco. Sta lavorando ad un nuovo teorema, ma per ora la soluzione gli sfugge. Corregge e cancella col palmo della mano, riscrive e cancella ancora. Ora si è preso una pausa, sa che le idee arriveranno, prima o poi. Si sofferma a guardare un attimo il tramonto e sorride tra sé e sé. 

Raccontare storie a colori

di Paolo Repetto, 21 maggio 2020

La storia non è soltanto ciò che è stato,
ma anche ciò che se ne è fatto
Marc Bloch, Apologia della storia

Durante una delle interminabili passeggiate alessandrine con Mario Mantelli, di ritorno dall’appuntamento rituale delle sedici al Libraccio (accadeva quasi sempre che mi accompagnasse sin sotto casa, e fossi poi io a riaccompagnare lui alla sua, perché non si poteva lasciare il ragionamento a metà) sentii parlare per la prima volta di Michel Pastoureau, del quale fino a quel momento ignoravo persino il nome (non aggiungo “colpevolmente” perché, insomma, non si può pretendere di conoscere tutto). Il tema quella sera era il significato simbolico dei colori, e in effetti su quell’argomento il suo “Medioevo simbolico” è oggi una Bibbia. Ma io, ripeto, non lo sapevo, e a non saperlo mi sentivo in quel momento davvero un po’ colpevole, perché sulle simbologie medioevali più di quarant’anni prima avevo fatto approfondite ricerche (dopo la scoperta del Medioevo fantastico di Jurgis Baltrušaitis mi si era aperto tutto un mondo, nonché un modo diverso di pensare la storia). Mi sono assolto solo quando ho verificato che gli studi di Pastoureau sono apparsi attorno all’inizio del nuovo secolo, quando ormai i miei interessi viaggiavano in altre direzioni.
L’importanza che Mario attribuiva a questi studi e l’ammirazione che tributava a Pastoureau mi hanno però spinto a tornarci su: in sostanza, sono andato a leggermi prima “Nero. Storia di un colore”, e poi “Medioevo simbolico”. Con enorme diletto, devo dire, e con altrettanto profitto. Ora, però, non ne farò qui la recensione: conviene che leggiate gli originali, se già non lo avete fatto. Ne prendo spunto, invece, per alcune riflessioni sull’insegnamento della storia, su quello “che se ne è fatto”, come scriveva Marc Bolch, e su quello che attualmente se ne fa. E parto necessariamente dalla mia esperienza didattica e più in generale dalle mie velleità di divulgatore.
Ho insegnato Storia (uso sempre la maiuscola quando mi riferisco alla disciplina di studio) per trentadue anni, ho scritto di Storia entro quello che potremmo definire il circuito “ufficiale” per un breve periodo, ho raccontato Storia (o storie) per il resto della mia vita. Lo sto facendo anche adesso. Questa esperienza mi ha lasciato la convinzione che la storia dalle nostre parti sia conosciuta poco o male perché coloro che dovrebbero raccontarla lo fanno in genere nella maniera sbagliata (non che altrove sia conosciuta molto meglio, ma questo avviene per altri motivi).
Questa affermazione potrebbe sembrare quanto meno opinabile: esiste oggi un’offerta ricchissima, addirittura esorbitante, di divulgazione storica, e quest’ultima viene praticata con tutti gli strumenti e su tutti i supporti possibili, dalla conferenza al racconto per immagini, documentario, cinematografico o informatizzato. Ma non è una questione di quantità: “quella” storia trattata come una “merce” culturale qualsiasi, venduta a pezzi come il muro di Berlino, truccata, imbellettata, sia pure, nel migliore dei casi, coi “documenti d’archivio”, insomma condita e precotta e confezionata per il pronto consumo come i quattro salti in padella, non è la stessa cosa di cui parlo io. Io parlo di “senso” storico, inteso naturalmente come sensibilità educata nel soggetto conoscente, e non di un significato intrinseco all’oggetto conosciuto.
Ho scritto sensibilità “educata” perché il primo approccio serio con la storia si ha a scuola: è lì che nasce, o muore, l’imprinting, e la nostra scuola in tal senso non è affatto attrezzata a preservarlo. Ne ho già trattato a più riprese altrove. Non che manchino gli strumenti didattici, anzi, ce ne sono a mio parere sin troppi, e si fa troppo affidamento sul loro ruolo. Ma paradossalmente questi strumenti, anziché contribuire a creare una atmosfera “speciale”, a coltivare un apprendimento che entri sottopelle e circoli in vena, adattano e livellano questo apprendimento ai modi della quotidianità, ad una percezione confusa e indistinta della realtà. Col risultato che la narrazione storica finisce per confondersi e assimilarsi alle altre infinite narrazioni che passano attraverso schermi, teleschermi e monitor.
Faccio un esempio banalissimo. Le scelte iconografiche che corredano oggi i libri di testo delle elementari, giustificate con l’intento di educare gli allievi ad un rapporto e a una dimestichezza precoci con le “fonti documentali”, ottengono l’effetto opposto. Il valore evocativo di un dagherrotipo d’epoca che ritrae Nino Bixio è infinitamente minore rispetto a quello che aveva un tempo la figurina disegnata di un garibaldino, o di Bixio stesso, con la sua brava camicia rossa: illustrazione che avrebbe potuto essere trasposta di sana pianta in uno dei fumetti di capitan Miki o di Tex, o presa da esso, e che rimandava alla dimensione dell’avventura (alimentando peraltro la voglia di andare più tardi a scoprire che faccia aveva davvero quel garibaldino, e di cercare quindi il dagherrotipo). È evidente che oggi le stesse immagini non evocherebbero più nulla, perché nessun ragazzino legge più Miki o Tex, ma ciò che è andato a sostituirle non ha assolutamente un altrettale potere di suggestione, e non potrebbe averlo anche se usato nel migliore dei modi: semplicemente perché su quel versante la mente dei ragazzini è già colonizzata da ben altri effetti speciali.
Il discorso deve dunque spostarsi sul fattore umano. Occorre riscoprire finalmente la centralità della famigerata “lezione frontale”. E qui il problema si presenta nel suo vero aspetto. Ciò che davvero manca sono gli insegnanti, i narratori capaci di trasmettere quel senso di “pervasione del tutto” che solo giustifica e rende possibile la vera conoscenza storica. Mancano perché coloro che si confrontano oggi con i ragazzi a loro volta la storia non la conoscono, o la conoscono male, o ne hanno una conoscenza parziale in termini quantitativi e partigiana in quelli qualitativi. La loro impreparazione è frutto di quarant’anni di improvvisate e raffazzonate riforme dei piani di studio, che hanno sconvolto la tradizionale scansione delle tappe dell’apprendimento per sostituirla con modelli completamente sganciati dalla realtà. La sgrossatura che un tempo era affidata alla scuola elementare, e che con tutti i suoi limiti offriva quantomeno l’idea di un percorso “storico”, di una cavalcata attraverso i tempi, ha lasciato il posto ad una pretesa approfondita “immersione” (l’intero terzo anno dell’odierna primaria dedicato alla preistoria, i due successivi alle civiltà classiche) che rompe i ritmi e ingenera nella mente dei ragazzini – abituata per altri versi ai tempi rapidi di comunicazione degli spot o a quelli frenetici dei videogiochi – un senso di saturazione e un sostanziale disinteresse. Contemporaneamente, il preteso ribaltamento del punto di vista eurocentrico, la pregiudiziale messa sotto accusa della civiltà occidentale e l’ambizioso proposito di trattare sullo stesso piano tutte le civiltà (delle quali chi insegna sa naturalmente ancor meno che della nostra) ha creato un approccio disordinato, velleitario e inversamente “negazionista”.
Chi si è formato in una babele didattica di questo genere non può non essere confuso e inadeguato. Intendiamoci: non sto dicendo che “un tempo” tutti gli insegnanti di storia fossero bravi a raccontarla, o obiettivi nella trattazione, e nemmeno che lo fosse la maggioranza: io stesso ho incontrato nel mio percorso scolastico dapprima una esposizione arida, noiosa e nozionistica, e successivamente una “imposizione” fortemente ideologizzata e altrettanto nozionistica, e ho anche pagato, in termini di valutazioni, i miei timidi tentativi di rendere il tutto un po’ meno insipido aggiungendo qualche grano di sale. Ma quegli insegnanti avevano comunque di fronte degli allievi che il nozionismo, per forza d’abitudine, erano in grado di digerirlo, e di cavarne quindi alimento anziché tossine. Anche quello meno bravo, se appena appena faceva un po’ il suo dovere, qualche plinto di fondazione riusciva a gettarlo. Poi ciascuno, in base alle sue capacità e alle sue disposizioni, ci costruiva sopra l’edificio che voleva. Oggi l’utenza è diversa, e non è certo con i giochini spettacolari offerti da nuovi media, coi quali gli allievi hanno una consuetudine ben superiore a quella dei loro docenti, che si conquista la loro attenzione. Con quelli, quando va bene, li si tiene buoni per qualche mezz’ora. Quindi non si scappa: o si reimpara a narrare, pur con tutti gli ausili e i supporti che si vuole, o si condannano le nuove generazioni all’ignoranza storica.
Naturalmente non mi sto riferendo alle capacità affabulatorie: quelle o si possiedono o no, anche se un buon allenamento può dirozzare o ammorbidire la tecnica di esposizione. Parlo invece di una disposizione mentale che in parte può essere un regalo di natura, ma per il resto va costruita. Ciò che maggiormente difetta, infatti, è la capacità di fare storia con tutto, e quindi di far comprendere ai ragazzi che tutto fa storia. Per rimanere nella metafora gastronomica di cui sopra, manca la capacità che aveva mia madre di costruire piatti appetitosi partendo sempre dagli stessi quattro ingredienti poveri di cui disponeva. Il che significa non essere onniscienti, ma avere la capacità di cogliere in qualsiasi ambito un potenziale di indagine, di chiarimento o di spiegazione storica. Che equivale a dire: di divertirsi e di abituare a un divertimento intelligente chi ti segue.
Conviene però a questo punto passare immediatamente agli esempi, per evitare di girare a vuoto tutto attorno e di strangolarmi da solo. E anche per spiegare il riferimento iniziale. Pastoureau entra in questo discorso perché i colori hanno fatto la loro parte di storia (e lui l’ha raccontata), ne sono stati testimoni e ne sono a loro modo anche motori. Vediamo come. Senza riassumere Pastoureau, ma sviluppando le indicazioni di metodo che ha fornito.
Quando si racconta agli allievi la vicenda della Riforma protestante è difficile appassionarli al dibattito teologico, al problema del libero arbitrio, della grazia o non grazia, della validità o meno dei sacramenti, ecc… Il che non significa che non si debba parlarne, al contrario: ma occorre farlo portandoli a toccare con mano le conseguenze tangibili, immediatamente visibili, delle diverse scelte. Questo lo si può ottenere, ad esempio, comparando la diversa presenza dei colori in un’opera fiamminga della seconda metà del cinquecento e in una del seicento: Brueghel e Rembrandt, tanto per andare sul sicuro. Credo non ci sia nulla che faccia immediatamente percepire il salto di mentalità meglio del passaggio dagli abiti variopinti e chiassosi de la Danza nuziale a quelli neri, uniformi, rigidi della Lezione di Anatomia. Il nero è negazione della varietà dello spettro cromatico, della diversità, della possibile coesistenza di differenti concezioni del mondo: quindi spiega la caccia alle streghe, le guerre di religione, le intolleranze reciproche, ecc … L’uniformità stessa del colore degli abiti rimanda immediatamente all’idea di “uniforme”, nelle accezioni sia sostantivale che aggettivata, e quindi all’operazione di intruppamento dei corpi e delle menti perseguita tanto dai riformatori come dai controriformisti, gli uni e gli altri avendo alle spalle i nascenti stati moderni. E l’associazione nella cultura occidentale del nero col demoniaco, con il pericolo, con la violenza, con il lutto, può magari anche aiutare a far comprendere fenomeni come quello del razzismo.
Allo stesso modo, un piccolo excursus sulle simbologie negative del rosso o del giallo può diventare intrigante, e al tempo stesso, se ben pilotato, sgombrare il terreno da pregiudizi popolari radicati. Quando è associato a tratti morfologici, come il colore dei capelli o della pelle, il rosso connota tradizionalmente una disposizione negativa. Sono rossi i capelli e la barba di Giuda, ad esempio, così come ricorrono nella pittura medioevale (e sopravvivono in quella successiva), ma anche quelli di numerosissimi personaggi biblici o mitologici, o dei reprobi dei poemi cavallereschi, fino a quelli della letteratura romantica, e oltre (il Rosso Malpelo di Verga). Ora, questa valenza simbolica negativa ha un’origine facilmente identificabile: presso quasi tutte le etnie del mondo, con la parziale eccezione dei popoli scandinavi, gli individui di pelo rossiccio rappresentano delle esigue minoranze, e sono quindi percepiti immediatamente come dei “diversi”, alla stessa stregua ad esempio dei mancini. Non a caso, nella rappresentazione iconografica (ancora Giuda) e letteraria i due attributi marciano spesso di conserva. Il rosso diventa quindi per antonomasia il colore che connota, in progressione negativa, una differenza, una anomalia, un pericolo, il male. Diventa il colore di Satana. E l’identificazione simbolica finisce alla lunga per prescindere dal suo movente originario, al punto da imporsi anche presso quelle culture (le nordiche di cui sopra) nelle quali la motivazione della differenza morfologica non ha senso.
Altrettanto intriganti e rivelatori sono poi i risvolti attuali di questo simbolismo. Perché ad un certo punto quello dei reprobi da simbolo infamante diventa invece vessillo di riscatto ed è adottato come bandiera, e questo malgrado il rosso rimanga convenzionalmente associato al pericolo e alla devianza (la bandiera rossa sulle spiagge, il segnale rosso dei semafori, la sottolineatura degli errori su questo computer, le zone rosse dei contagi, ecc). Anzi, è proprio il messaggio di pericolosità connesso al simbolo ad essere rivendicato (le camicie rosse dei garibaldini, l’Armata rossa – cui la reazione oppone naturalmente quelle bianche), e usato come un monito minaccioso da mandare ai nemici. Nello stesso modo in cui viene fatto proprio, e ribaltato nelle sue valenze etiche e politiche, il simbolismo connesso a tutto ciò che concerne la “sinistra”.
Anche qui, una passeggiata nell’iconografia, in particolare in quella sacra, si rivela particolarmente istruttiva. Si considerino ad esempio le trasformazioni avvenute nell’abbigliamento della madonna, nel quale a partire dalla Controriforma il rosso tende a cedere sempre più il posto al bianco, sino alla definitiva affermazione di quest’ultimo dopo il dogma dell’immacolata concezione. La madonna pellegrina che io stesso ho visto nei primi anni cinquanta transitare per Lerma, nel corso di un pellegrinaggio preelettorale che coprì palmo a palmo tutto il territorio nazionale, per esorcizzare il pericolo del fronte popolare, era rigorosamente ammantata di bianco e azzurro: il rosso campeggiava solo nei manifesti che proponevano l’immagine terrificante dell’orso bolscevico.
Dal canto suo, anche il giallo ha conosciuto una associazione simbolica negativa, solo appena più sfumata. Nell’iconografia medioevale, ma anche in quella successiva, è il colore del tradimento e della menzogna, come tale identificato non tanto nei tratti morfologici (ché, anzi, dopo le conquiste normanne il colore biondo dei capelli diventa il tratto distintivo della nuova nobiltà di spada) quanto nell’abbigliamento (dietro il quale, appunto, ci si nasconde). La veste di Giuda è spesso gialla, così come gialla è la stella identificativa degli ebrei, e tali sono molti capi di abbigliamento degli ebrei stessi, o dei buffoni di corte e dei saltimbanchi. In questo caso ad essere sottolineata è una diversità non “naturale”, ma sociale e culturale.
Come si vede, le potenzialità di sviluppo di un discorso di questo tipo sono infinite. Il filo principale può essere svolto, per esempio, partendo dai colori primari, pieni e nitidi, usati da Giotto e nella pittura francescana, passando per quelli opulenti del Beato Angelico e di Benozzo, risalendo a quelli più sfumati della pittura rinascimentale, che coincidono con la liberazione del pensiero da contorni troppo netti e marcati; e si dipana poi, dopo il barocco, con un ritorno al cromatismo vivace, alle tinte pastello nel Settecento, e successivamente con l’utilizzo di tonalità più cupe, e il ritorno al nero degli abiti, nel Romanticismo. Insomma, la storia della nostra civiltà può essere riassunta anche attraverso il filtro cromatico.
Per inciso, in un discorso di questo genere rientrano, naturalmente su un piano diverso, proprio le escursioni storico-antropologiche di Mario Mantelli nel mondo delle impressioni infantili: sia pure circoscritte apparentemente a un microcosmo provinciale, e ad un periodo molto particolare, ma allargate oltre che alle immagini e ai colori anche ai sapori e agli odori, raccontano l’educazione “sensoriale” prima che sentimentale di una intera generazione (tema sul quale Mario è tornato anche recentemente): e questo racconto vale più di qualsiasi dotta indagine o dissertazione per spiegare le scelte ideologiche o esistenziali dei nostri coetanei.

Ma la storia non è solo colorata: può essere anche “colorita”. E qui entra in gioco l’uso dell’aneddotica. Tutti i miei studenti ricordano ancora oggi che Cavour voleva prendere a calci nel sedere Vittorio Emanuele II dopo l’armistizio di Villafranca (storico: testimoniato da Costantino Nigra). Magari ricordano solo quello, e non le date di san Martino e Solferino, ma almeno sanno chi erano Cavour e Vittorio Emanuele, e che rapporti intercorrevano tra i due, e che è stato stipulato un armistizio a Villafranca, e che quindi in precedenza c’era stata una guerra, e perché questa guerra era stata combattuta. Sarei curioso di fare oggi un test a campione sugli studenti usciti dalla scuola secondaria da un paio di anni, per verificare che conoscenza hanno di quei personaggi e di quelle vicende. Lo stesso valore di chiodini nel muro della memoria possono assumere un sacco di altre informazioni, al limite del pettegolezzo, che riescono ad accendere l’attenzione per la loro curiosità e a mantenerla poi desta anche sui fatti essenziali cui sono collegate. Non si tratta di “banalizzare” la storia, cosa che accadrebbe se si raccontassero solo i pettegolezzi, ma di vivacizzarla un po’, di farla uscire dal recinto sacro della disciplina di studio e farla entrare in quelli dell’interesse e del divertimento.
Un discorso analogo vale per la proposta di approcci un po’ sfalsati e marginali rispetto a quello canonico e rituale. La Storia può essere raccontata ad esempio passando attraverso l’esame delle risorse, a partire da quelle alimentari per arrivare alla disponibilità di materie prime indispensabili al processo industriale. Sapere che nell’area mediterranea e mediorientale erano presenti in natura trentadue delle cinquantasei specie erbacee domesticabili ad uso alimentare, contro le undici delle Americhe, le sei dell’Africa subsahariana e dell’Asia orientale e le due dell’Australia, aiuta i ragazzi a capire le ragioni dei diversi tempi di sviluppo di queste zone, e il conseguente fenomeno della dominazione europea, molto più della conoscenza in dettaglio dei rapporti internazionali, o perlomeno consente di spiegare molto meglio questi ultimi. E così, un minimo di storia dell’alimentazione, quel tanto sufficiente a far comprendere che senza l’introduzione in Europa del mais e delle patate forse non ci sarebbe nemmeno stata la rivoluzione industriale, o sarebbe avvenuta in altri luoghi e con altri tempi, rende molto più semplice e chiara la situazione. Allo stesso modo, la sostituzione del petrolio al carbone come fonte energetica primaria spiega la decadenza dell’Europa, e la presenza solo in Africa di elementi come il litio o il coltan ci fa immediatamente intuire perché quel continente non abbia pace.
In definitiva: io credo che la strategia per riaccendere nei giovani, o almeno di una parte di essi, l’interesse per la storia passi in primo luogo per la segnalazione di diversi possibili percorsi: una segnalazione che, se gestita con criterio, scegliendo i momenti e profittando degli agganci opportuni, non confonde affatto le idee dei ragazzi, ma al contrario, apre le loro menti alla curiosità e all’autonomia di pensiero. Il resto, l’apertura agli “eventi”, la ricognizione dei “luoghi storici”, le conferenze dei professionisti della divulgazione, i supporti multimediali, tutto lo strumentario al quale oggi sembra affidarsi e ridursi la didattica, ha valore solo in quanto usato all’interno di questo piano, né più né meno di come lo avevano le carte geografiche appese ai muri delle nostre aule. Ma fin qui credo di non dire in fondo nulla che almeno teoricamente non sia già contemplato nelle linee di indirizzo periodicamente diffuse anche nella nostra scuola. Di nuovo, anzi, a dire il vero, di antico, c’è che questo progetto di riscatto presuppone da un lato, negli allievi, un sostrato essenziale ma solido di conoscenza degli eventi (leggi: nozioni, date, nomi, luoghi) e di competenze nel loro inquadramento cronologico; dall’altro, nei docenti, la capacità di non ridurre il tutto ad imbonimenti autoreferenziali o a pappine precotte. I percorsi possibili vanno suggeriti, assistiti, esemplificati quanto basta, ma lasciati poi aperti e incompiuti. Con le stesse cautele possono anche essere azzardati degli schemi interpretativi che consentano agli studenti non soltanto di guardare alla storia con occhiali diversamente colorati, ma anche di scegliersi particolari postazioni di lettura. Cito, per fare qualche esempio, quelli relativi alla contrapposizione per il passato remoto tra popoli nomadi e popoli sedentari, o tra civiltà particolaristiche “democratiche” e civiltà idrauliche dispotiche; per quello più prossimo, tra popoli che guardano alla terra e popoli che guardano al mare.
Ecco, suggestioni di questo tipo sono, come dicevo, materia estremamente delicata, e vanno trasmesse assieme alla consapevolezza che si tratta di possibili modalità di lettura della storia, e non di chiavi magiche che aprono al suo senso: e che ogni angolo prospettico va confrontato con gli infiniti altri, non per contraddirli o negarli, ma anzi, per trarne conforto e ulteriori stimoli. È una cosa meno facile di quanto possa sembrare: le idee forti, i modelli interpretativi ad alto tasso di assertività esercitano un’indubbia attrattiva sulle menti adolescenziali (e non solo su quelle), che hanno bisogno di spiegazioni semplici, di un “senso” all’interno del quale e in funzione del quale collocare gli eventi storici. Ma d’altro canto queste suggestioni “integraliste” sono una tappa obbligata nel cammino di chi va alla scoperta della storia. Importante è che non rimangano l’ultima: cosa che invece accade quando le alternative offerte non sono altrettanto seducenti.
Per chiudere torno dunque al colore e al mio sussidiario di terza elementare. In esso anche gli opliti di Leonida o i legionari romani erano rappresentati con figurine coloratissime, quanto attendibili nella ricostruzione dell’abbigliamento non so, ma senz’altro capaci di colpire la fantasia, tant’è che ancora le ricordo. In quello di mio nipote le figurine sono state sostituite da fotografie di statue o di monumenti classici, molto belle, per carità, ma tendenti a indurlo a pensare che gli uomini dell’antichità fossero di marmo e che Atene e Roma fossero imbalsamate in un sudario bianco. E come tali, ben poco vivaci e interessanti. Allo stesso modo, per riallacciarmi a quanto dicevo sopra a proposito dell’aneddotica, sono scomparsi dalla narrazione Muzio Scevola e Attilio Regolo, col risultato che della divisione in tribù e in curie, meticolosamente descritta, e dei comizi curiati o centuriati non ricorda già ora nulla, e nemmeno gli è rimasta traccia di quegli episodi simbolici che trasmettevano comunque l’idea di un certo modo di concepire il rapporto tra individuo e stato.
Quindi? Quindi l’argomento è troppo complesso per essere affrontato e liquidato in quattro paginette. Ma anch’io, che pure adolescente non sono più da un pezzo, ho conservato alcune idee semplici e forti, e approfitto di ogni occasione per ribadirle. Non devo argomentare e giustificare l’utilità dello studio della Storia, lo hanno già fatto moltissimi altri, a partire almeno da tremila anni fa, da quando una rudimentale coscienza storica è comparsa a connotare in maniera ancor più netta la “diversità” del genere umano. E neppure intendo entrare nel merito di “cosa” della storia si è fatto, altro tema dai risvolti infiniti. No, semplicemente volevo esprimere la mia preoccupazione per l’uso che se ne farà una volta che nella stragrande maggioranza degli umani quella coscienza storica si sarà atrofizzata: perché questo è il processo in atto, non so dire quanto sapientemente guidato o quanto irresponsabilmente accettato. La riduzione della Storia a spettacolo, a merce culturale, ne rappresenta oggi l’aspetto più fastidioso, in quanto più immediatamente visibile: ma dietro ci sono la sostanziale cancellazione della conoscenza storica, la sua perdita di profondità, il suo appiattimento sul presente, il leopardiano (ma già omerico) “trascolorar del sembiante”, e quindi la sua continua possibile riscrittura su richiesta (on demand, si usa oggi) dei nuovi committenti: dietro c’è un futuro senza conoscenza, e quindi senza coscienza storica.
Non posso assistere inerte a questa deriva, anche se di quel futuro ne vedrò poco. Credo sia doveroso ostinarsi a chiarire, a sé e agli altri, che le colorazioni con filtri speciali, del tipo di quelle operate sui vecchi film western, rovinandoli e falsandone completamente l’aura, così come gli interventi di restauro radicale, che cancellano quella patina del tempo che della storia è segno distintivo, non sono affatto dei rimedi, e la deriva anziché arginarla l’accelerano. Ridare colore alla storia non significa cambiare l’ordine degli eventi o ricalibrarne la rilevanza. Significa molto più semplicemente ricaricare lo sguardo che ad essa rivolgiamo di quello stesso stupore e di quella curiosità che l’hanno originata.

Ancora un altro giorno

di Marco Moraschi, 12 ottobre 2018,da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Non mi sono mai soffermato a riflettere compiutamente sulla morte, se non di sfuggita in qualche pensiero fugace. Forse perché non l’ho mai incontrata da molto vicino, forse perché quando si è giovani non si riesce a concepire la fine della vita, ma solo l’inizio e ciò che ne consegue. La prima volta che ho incontrato la morte è stato molto tempo fa, con la perdita della mia bisnonna, avevo 8 anni credo; a quell’età la morte ci appare come qualcosa di molto strano e curioso, qualcosa che accade per sbaglio alle persone anziane distratte e che tuttavia sembra avere un rimedio, un passaggio a un altro stato dell’essere, che ci provoca profondo dolore momentaneo, ma che svanisce velocemente, appena si trova un altro gioco sufficientemente divertente. In seguito, la morte si è ripresentata in altre occasioni, con la scomparsa di un cugino di mio padre e di una zia di mia madre. Non ho molti ricordi di quei momenti, sono passati abbastanza in fretta, non per insensibilità, ma perché ero ancora “piccolo” e nonostante l’affetto che potevo provare per quei parenti prossimi, non erano persone che frequentavo così spesso da sentire un profondo vuoto dalla loro mancanza.

L’occasione che nella mia vita mi ha portato per la prima volta più vicino alla morte è sicuramente quella della dipartita dei miei nonni paterni, avvenuta ormai più di 6 anni fa. Avevo quasi 18 anni all’epoca, il che significa che ero sufficientemente grande per rendermi conto di quanto stava succedendo, ma non so perché la loro scomparsa non mi fece l’effetto che credevo: mi aspettavo di rimanere disorientato e di provare un forte dolore, visto quanto erano presenti nella mia vita. Mi sorpresi invece abbastanza forte e nuovamente incuriosito da quello strano evento, in cui due persone che conoscevo così bene diventavano in breve tempo pallide e rigide, con un’espressione più rilassata di quella che avevo visto loro nell’ultimo anno di malattia. Mio nonno era tornato ad essere la persona gentile e composta che ricordavo prima della sofferenza, e mia nonna era di nuovo una signora elegante dal carattere forte, non quella vecchietta che straparlava e non riconosceva i suoi cari a causa della demenza senile. Sembrava quasi che la morte avesse aggiustato tutto, avesse riportato le cose a uno stato di perfezione originaria, in cui si cancella il ricordo del dolore e dei cambiamenti che la malattia porta con sé, riportando alla luce i momenti, i ricordi, le persone nel loro stato di massima vitalità.

I miei nonni ci hanno lasciato quando avevano 87 anni. Non so se c’entri qualcosa oppure no, ma è probabile che la loro età mi abbia convinto che, dopotutto, la morte non poteva tardare ancora molto ad arrivare, e non avrei quindi dovuto prendermela troppo quando ciò fosse successo. Sono cambiate molte cose da quando i miei nonni se ne sono andati, non so se oggi riconoscerebbero il loro nipote, con la barba sul volto e i suoi libri di scienza, sempre insieme alla sua fidanzata, ma senza un dio che lo accompagni per la strada. Da quando sono diventato ateo ho provato più volte a chiedermi come avrei dovuto affrontare la morte. Esiste un modo giusto per affrontarla? Cosa dobbiamo pensare della morte? Queste domande mi hanno travolto in almeno un paio di occasioni di recente, non per la perdita di una persona a me cara, ma per l’improvvisa scomparsa dei cari di qualcun altro, la morte di un amico e quella del padre di un mio coetaneo. Sarà che sono cambiato, che ho più voglia di riflettere, ma questi due episodi mi hanno colpito più a fondo di quanto avvenne tempo fa per i miei nonni. Hanno fatto nascere in me la voglia di cercare domande e risposte, nonostante sappia perfettamente che queste non esistono. Forse vi starete chiedendo come si possa rimanere più colpiti dalla morte di qualcuno che non ci è vicino, piuttosto che dalla perdita di una persona cara. Non lo so, da quando mi sento più “maturo” per fortuna non ho incontrato la morte vicino a me e questa è probabilmente la ragione per cui mi sono trovato a riflettere di più nelle uniche occasioni che mi sono passate vicino. John Donne ha detto a suo tempo parole meravigliose sulla scomparsa di un uomo: “La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”. Sarà proprio così allora, come diceva John Donne, non importa se è morto qualcuno che conoscevo poco o non conoscevo, nessun uomo è un’isola e quando ne muore anche solo uno, tutto il mondo è diminuito del suo valore. Insieme a questo, la morte improvvisa di qualcuno, o anche annunciata, ma in un’età che non dovrebbe prevederla, provoca in me, in noi, un profondo disorientamento e un senso di ingiustizia. Il nostro cuore si spezza e ci porta dolore, riflessione, non ci dà tregua, mentre il nostro cervello cerca di mantenerci a galla, convincendoci che le emozioni vanno curate per sopravvivere ogni giorno fino alla prossima alba. Non credo esistano cure o rimedi magici per affrontare la morte, credo che ognuno di noi abbia bisogno del suo tempo e dell’aiuto dei vivi per remare nel suo mare in burrasca; d’altronde i funerali non servono alle persone che ci lasciano, ma a quelle che rimangono, perché possano trovare nei volti amici un aiuto alla propria umanità. Steve Jobs diceva che nemmeno coloro che vogliono andare in Paradiso desiderano morire per andarci, ed effettivamente aveva ragione. Nessuno è preparato alla morte, né i credenti che hanno fede, né noi atei che non l’abbiamo. Davanti alla morte siamo tutti nudi, indifesi e soli, ma allo stesso tempo dobbiamo essere guerrieri leali per affrontarne le conseguenze senza esserne travolti.

Ad essere sincero, la morte non mi ha mai spaventato. La mia morte intendo. Non so come, quando, dove succederà, ma sono abbastanza certo che non mi accorgerò di quanto starà accadendo in quel momento. Epicuro scrisse che non dobbiamo temere la morte perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi. Ciò che mi spaventa di più non è quindi la mia morte, ma la morte altrui, perché noi invece sopravviviamo alla dipartita degli altri e rimaniamo quindi un pochino più soli ad affrontare la vita. La morte degli altri lascia in noi un senso di vuoto, quello che Carlo Rovelli chiama il dolore dell’assenza. E nel suo libro “L’ordine del tempo” riassume benissimo il motivo per il quale, nonostante il dolore, la morte ha in sé qualcosa di affascinante e di incredibilmente vivo. “Questo è il tempo per noi. Il ricordo e la nostalgia. Il dolore dell’assenza. Ma non è l’assenza che provoca dolore. Sono l’affetto e l’amore. Se non ci fosse affetto, se non ci fosse amore, non ci sarebbe il dolore dell’assenza. Per questo anche il dolore dell’assenza, in fondo, è buono e bello, perché si nutre di quello che dà senso alla vita.” Il dolore che la morte porta con sé è sì legato alla scomparsa e all’assenza, ma è giustificato dall’amore, dall’affetto, dalle emozioni umane legate alla vita ed è quindi bello e buono in qualche modo, perché nasce dal sentimento e dal romanticismo nel suo senso più ampio, traendo energia dall’umanità forte che è dentro ognuno di noi.

Quando la morte arriverà non sarò pronto, così come non lo era chi se ne è andato prima di me, ma farò di tutto per essere preparato, per rendere il dolore dell’assenza meno forte, per realizzare il sogno che cantava Giorgio Faletti in uno dei suoi testi più belli: spero che la morte mi trovi vivo.

 

2. Il filo di Arianna

di Marco Moraschi, 28 settembre 2018, da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Al di là di un eventuale futuro distopico in cui sia possibile salvare la propria “coscienza” (qualunque cosa essa sia) sul cloud, come nel caso del libro citato da Edoardo, le implicazioni del ricambio delle parti che costituiscono un “tutto”, e che ne determinano il suo essere “originale”, sono forse più attuali di quanto possa sembrare in prima istanza. Mi vengono infatti in mente due condizioni normalissime della natura umana: la crescita e il ricambio cellulare. Quando guardiamo una foto di noi da bambini, stiamo guardando la foto di un organismo totalmente diverso da noi, nell’aspetto, nella composizione e nell’interazione delle sue parti. Il nostro corpo cambia forma e sostanza più volte nel corso della vita, l’Io bambino è diverso dall’Io adolescente, così come l’Io adulto è diverso dall’Io vecchio. È per questa ragione che, a mio avviso, non esiste una definizione univoca di morte (evidentemente non intesa in senso medico), in quanto un individuo muore più volte nel corso della sua vita e l’ultimo passo, quello definitivo, quando cioè ogni sospiro di vita cellulare svanisce, non è altro che un ulteriore gradino di un naturale processo che giunge a compimento e che si è in realtà verificato più e più volte. Il mio Io bambino, pestifero e agitato, è svanito ormai da molto tempo e, seppure non sepolto in qualche luogo, è certamente morto e defunto, senza che nessuno ne senta la mancanza come si fa con la perdita definitiva di una persona cara. Osservate che è morto non solo in senso “allegorico”, ma anche in senso fisico. Come spiega il professor Paolo Piton, docente di patologia generale all’Università di Ferrara: “In un essere umano adulto ogni giorno muoiono dai 50 ai 100 miliardi di cellule. In un anno la massa delle cellule ricambiate è pari alla massa del corpo stesso. Ma in un organismo, non tutte le cellule hanno la stessa durata di vita: in un corpo umano le cellule della pelle vivono in media 20 giorni, quelle dell’intestino 7 giorni, i globuli rossi 120 giorni, quelli bianchi 2 giorni e le cellule neuronali e muscolari per tutta la vita. […] Ogni giorno si ha quindi un ricambio cellulare perpetuo, con cellule giovani che vanno a sostituire quelle vecchie”.

Ogni traccia di ciò che ero 15 anni fa o più è pressoché svanita, in un ricambio delle parti che ricorda quello della nave di Teseo. Si può dire che io sia la stessa persona? Il Marco dei 4 anni è lo stesso di quello dei 24 anni? Si potrebbe obiettare che, come fa notare il professore, le cellule nervose e cognitive ci accompagnano per tutta la vita. In realtà, però, se ci pensate bene, un organismo è una cooperazione di cellule specializzate che lavorano insieme per un fine comune. Se pensate a un computer forse può essere più semplice capire ciò che intendo. Il PC sul quale sto scrivendo è composto da milioni di celle di memoria, da varie parti, dalla tastiera allo schermo, che lavorano insieme sotto la guida (pessima) di Windows 10. Se io decidessi di installare un altro sistema operativo, per esempio Ubuntu, il mio computer sarebbe formato dalle stesse parti di prima, che collaborano in maniera simile, ma differente rispetto a quanto facevano con il sistema operativo di casa Microsoft. Il mio computer, in quel caso, sarebbe lo stesso di prima? Così i miei neuroni sono connessi da sinapsi che permettono lo scambio di informazioni sotto forma di impulsi elettrici. Gran parte delle sinapsi presenti nel mio cervello all’età di 4 anni sono ormai mutate: alcune sono svanite, altre si sono rinforzate e altre ancora sono invece nate. Se quindi, come ha detto bene Edoardo, la coscienza altro non è che “un modo di reagire agli stimoli esterni determinato, in modo molto prosaico, da una combinazione di sostanze chimiche in varie proporzioni, e dalla presenza di una struttura che ha molto più in comune con la meccanica di quanto non abbia con la concezione cristiana dell’anima”, del mio Io bambino non solo non è rimasto più il corpo, ma nemmeno la coscienza. Sono quindi già morto almeno una volta, senza rendermene conto. Cos’è che fa di me sempre me stesso? Non lo so, Saramago diceva “dentro di noi c’è una cosa che non ha nome, e quella cosa è ciò che siamo”. Voi cosa siete?

Ritratto del viandante da cucciolo

di Marco Moraschi, 22 settembre 2018,da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Introduzione di Paolo Repetto

Lo schizzo autobiografico che segue non è un selfie realizzato con altri mezzi. Nasce da una precisa sollecitazione rivolta al suo autore: volevo capire qualcosa del rapporto che un “nativo digitale”, sia pure della primissima ora, ha intrattenuto con ciò che si lascia alle spalle, la scuola, e delle aspettative che ripone in ciò lo aspetta, la vita “adulta”. Da quando la scuola l’ho lasciata anch’io, dopo sessant’anni, non ho molte occasioni per frequentare e osservare da vicino questa generazione (e i figli per queste cose non fanno testo). Ciò che mi arriva è solo quanto riportano i giornali e la televisione, in qualche caso quanto gira sui social: fonti assolutamente inattendibili, che tuttavia riescono lo stesso a creare una sensazione di vuoto o di tristezza assoluta.

Marco lo conoscevo bene più di tre lustri fa, e posso assicurare che era davvero pestifero e ipercinetico come lui stesso si racconta. In seguito l’ho ri-visto saltuariamente, ogni volta stupendomi della trasformazione in atto, di come stesse incanalando in positivo tutta quell’energia. E non è un caso iso-lato: conosco diversi suoi coetanei che hanno fatto lo stesso percorso. Forse sono solo fortunato, o forse varrebbe la pena rivedere un po’ il discorso sull’influenza che la scuola e la famiglia possono ancora esercitare, alla faccia della loro conclamata crisi e dello strapotere degli altri canali formativi.

Per intanto, godetevi assieme a me questo pezzo: è raro ascoltare la voce di qualcuno che non si sente in credito con la vita, non cova rancori, non si atteggia a vittima della società, sa di doversi assumere delle responsabilità ed è pronto a farlo. È raro, ma non perché Marco sia un esemplare unico, da WWF: è solo perché questi qualcuno hanno un sacco di cose da fare, hanno progetti per sé e per gli altri, vogliono dare un senso alla propria esistenza, senza aspettare che arrivi loro con lo spirito santo, e quindi non possono e non vogliono concentrarsi sul proprio ombelico (che sta in mezzo alla pancia), e preferiscono far girare il cervello.

Magari non li vedremo in tivù, ma ci sono: e ciò è sufficiente a far saltare ogni alibi per l’atteggiamento rinunciatario col quale troppo spesso assistia-mo passivi allo sfascio. C’è speranza, finché circolano viandanti di questa specie.

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Non è ancora chiaro quando tutto ebbe inizio. Che le cose andassero male era già abbastanza evidente da alcuni mesi, quando quella povera donna di mia madre scoprì che doveva stare immobile nel letto se non voleva perdere la sua immensa creatura. Sicuramente, però, le cose precipitarono martedì 06 settembre 1994, alle 15.30 circa. A quell’ora di un pomeriggio di fine estate non si ha voglia nemmeno di digerire, figuriamoci di dare alla luce un figlio. Pensate quale sorpresa devono avere avuto in sala parto quando hanno scoperto che a nascere ero proprio io. Non che fossi tanto più bello degli altri, anzi, a giudicare dalle foto ero abbastanza rachitico, il figlio brutto di Mortimer Mouse. Però, insomma, ero proprio io. Naturalmente i miei genitori non potevano saperlo, che ero proprio io intendo, altrimenti mi avrebbero dato subito in adozione.

Fu quindi così che cominciò la mia vita. I primi tre anni non li ricordo, e forse meglio così. Pensate che imbarazzo ricordarsi le moine di nonni, genitori e amici che ti parlano come fossi il capostipite del genere homo, una scimmia antropomorfa con un cervellino di 510 cm3. I primi ricordi risalgono ai tempi dell’asilo, quando avevo almeno una fidanzata ed ero il bullo della sezione Coccinelle. A quanto mi dicono tiravo i giocattoli mentre gli altri mettevano in ordine, mi spalmavo lo stracchino in faccia come fosse schiuma da barba e sputavo nel piatto degli altri bambini per mangiare anche la loro porzione. Quali desideri volete che abbia un bambino così, vivevo più o meno alla giornata, ma fin da subito fu chiara una cosa: dovevo avere qualcosa da fare. Se la mia mente era impegnata in una qualunque attività, che trascendesse ciò che io ritenevo essere “la noia”, le persone intorno a me potevano almeno sperare di godersi la tranquillità che avevo loro tolto.

Le mie prime gesta sono tutto sommato abbastanza banali, ho superato l’asilo con la media del 6 e le mie aspirazioni erano di diventare pompiere, allenatore di Pokemon e altri classici sogni dei bambini di quell’età. Le cose iniziarono a migliorare con le scuole elementari, quando trovai a tentare di educarmi due maestre straordinarie: Laura e Manuela, è giusto che i loro nomi vengano qui ricordati a futura memoria di ciò che hanno sofferto in quegli anni. Poco alla volta riuscirono a tirare fuori da quella peste esagitata un bambino abbastanza tranquillo, studioso e curioso. Dalla regia in verità mi suggeriscono che il processo non è probabilmente terminato, e che dietro un’apparenza tranquilla e diligente nascondo un carattere ribelle e anarchico. Visto che questo è il mio racconto, credete a me: sono fin troppo equilibrato. Ma torniamo alle elementari. Ho ricordi molto piacevoli di quel periodo, andavo d’accordo coi compagni di classe, venivo perfino invitato alle feste di compleanno degli altri bambini. È stato un periodo molto positivo, che credo abbia scolpito una buona parte dei pezzi di cui sono ora composto. Verso la quarta – quinta elementare, avevo aspettative per il mio futuro decisamente diverse rispetto ai primi tempi della scuola materna: desideravo diventare archeologo, paleoantropologo e zoologo erpetologo (lo so, non si è mai sentito nessun bambino dire “Voglio fare lo zoologo erpetologo”, ma ve l’ho detto fin dall’inizio che io sono io, no?).

Superata anche la quinta elementare, è iniziato un periodo abbastanza insulso della mia vita, poco stimolante, forse per confronto rispetto al periodo precedente. Intendiamoci, andavo sempre bene a scuola, che poi significa semplicemente che facevo il mio dovere, niente di straordinario, ma non ho ricordi piacevoli delle scuole medie. È un’età un po’ stupida in effetti, o per lo meno lo è stata per me e, combinazione, per tutti gli altri bambini che frequentavano la mia stessa scuola. Non offendetevi, per carità, ci siamo passati tutti. È un’età in cui non si è più bambini, ma non si è nemmeno ragazzi, si inizia ad essere maliziosi, a scoprire il sesso (non a farlo, per fortuna) e si tenta di entrare a gamba tesa nel mondo dei grandi senza averne i requisiti. Per fortuna dura solo tre anni. Da zoologo erpetologo il mio futuro lavorativo prevedeva in quel tempo di diventare sacerdote e, anzi, puntavo ai piani alti: volevo diventare papa. Dopo tanti anni, a vedere l’anticristo che sono diventato, viene da sorridere, ma tant’è: siamo la sommatoria delle infinitesime esperienze che viviamo. Sono fiero della persona che sono oggi e non cambierei un solo giorno. Nemmeno le scuole medie, tutto sommato ho avuto buoni professori, soprattutto quella di matematica (non se la prendano gli altri), che mi ha fatto scoprire la passione per le materie scientifiche.

E così si arriva al liceo. Prima del liceo, però, esattamente a metà tra la fine di un percorso e l’inizio di quello nuovo, è successo un altro fatto incredibile, il secondo della mia vita. Il primo è stato quando sono nato, ricordate? Il secondo il 24 agosto 2008, quando ero poco più di un bambino e all’improvviso mi sono scoperto uomo. Ero ancora immaturo, cristiano e senza barba, ma è stata quasi una seconda nascita, un rito di passaggio all’età adulta: ho conosciuto mia moglie. Tranquilli, i miei genitori non hanno programmato il mio matrimonio così in anticipo per liberarsi finalmente del loro secondogenito, mi sono semplicemente innamorato e fidanzato con una ragazza straordinaria. L’evento è incredibile per almeno tre ragioni, che è bene riassumere per capire chi sono. La prima è che, ormai lo avrete capito, anche se non lanciavo più i giocattoli, la mia testa era sempre la stessa ed è quindi incredibile che una ragazza si sia innamorata di me. La seconda è che fino ad allora non avevo mai guardato le ragazze, probabilmente in segno di protesta per essere nato in una famiglia con due sorelle. Ilaria era dunque la prima (a parte la fidanzata dell’asilo, è valida o no?). E la terza è che dopo più di dieci anni siamo ancora insieme. Incredibile, ve l’avevo detto.

Eravamo quindi rimasti al liceo. Se le medie sono state l’inferno (si fa per dire) e le elementari il paradiso, il liceo è quanto di più simile al purgatorio riesco a immaginare. È un posto sufficientemente bello per non essere chiamato inferno, ma sufficientemente difficile per non essere il paradiso. Un limbo a metà tra la “spensierata giovinezza” e l’età adulta, in cui cerchi di capire chi sei e a quale mondo appartieni. Per dovere di cronaca, essendo seri, occorre dire che ho trovato professori straordinari. Mi hanno insegnato a credere nelle mie capacità, mettendomi alla prova con corse a ostacoli e salti con l’asta. All’epoca non ne ero ovviamente così entusiasta, ma a posteriori i brutti ricordi svaniscono, un po’ come quando muore qualcuno: si finisce sempre per parlarne bene, “ah che brava persona che era”.

Al liceo ho sicuramente consolidato le basi del mio carattere, della mia personalità, dei miei interessi. Ho amato la matematica e l’italiano, ho imparato a leggere la storia e a indagare il pensiero con la filosofia, ad ascoltare tutto il mondo con l’inglese e a pesare il cuore delle persone creandomi un’identità. Se ci pensate non esiste un’altra età della nostra vita così straordinaria come il liceo. E quindi vi renderete conto da soli che è un gran peccato che il liceo sia … una scuola. Presi tra verifiche e interrogazioni non riusciamo a goderci questo periodo straordinario in cui tutto ciò che ci è richiesto è di esplorare tutti i campi del sapere. Non abbiamo bollette da pagare, non dobbiamo misurarci con i problemi del nostro futuro, è un periodo di formazione e basta, in cui diamo un nome a ciò che siamo e che possiamo diventare. A posteriori il consiglio che mi darei è di preoccuparmi meno dei voti: studierei per imparare, approfondirei le cose che mi piacciono e tralascerei un po’ di più quelle brutte e noiose, vorrei aver avuto meno ansia da prestazione, vorrei essermene fregato un po’ di più di apparire come lo studente modello, sempre preparato, sempre studioso, per dedicarmi un po’ di più a scrivere le mie passioni, senza il terrore finale di un giudizio. In quarta liceo pensavo che da grande avrei indossato il camice: sarei stato un medico. In quinta liceo sapevo, o per lo meno, credevo di sapere cosa avrei voluto fare, avrei studiato ingegneria. Se c’è qualche ragazzo di quinta liceo che sta leggendo questo racconto, aprite le orecchie: non permettete a nessuno di darvi consigli non richiesti.

Il mio ultimo anno di liceo è stato una cantilena ripetitiva: devi scegliere una facoltà che ti dia molte opportunità di lavoro, che non ti precluda “delle porte” a priori, che ti permetta di trovare stabilità economica, così potrai sposarti, farti una famiglia, avere dei bambini, rigorosamente un maschio e una femmina, ed essere felice per tutta la vita, nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, non so se capite cosa intendo. Non ho sentito nessuno che mi abbia consigliato di seguire il mio cuore e fare semplicemente ciò che mi piace e mi rende felice. Ho ascoltato esperti di orientamento che mi hanno spiegato le mirabolanti imprese dei loro straordinari mestieri, senza che nessuno mi spiegasse davvero cosa si studia in una facoltà piuttosto che in un’altra. Intendiamoci, ho scelto di studiare ingegneria “in totale libertà e consapevolezza” come si suol dire, ma vorrei che qualcuno mi avesse detto prima quali materie avrei affrontato, quali sarebbero state le difficoltà e non solo i vantaggi di questa o un’altra scelta. La verità, purtroppo, è che l’orientamento è il business di chi la spara più grossa, abbiamo messo in competizione scuole e università, che cercano di accaparrarsi clienti per la loro sopravvivenza, in una sanguinosa lotta a somma zero. Dopo cinque anni di ingegneria sono ormai quasi alla fine del mio percorso di studi. In questo momento non mi sento di dire con certezza di aver fatto la miglior scelta che potessi fare. Sono abbastanza soddisfatto, forse più per alcune persone che ho incontrato durante questi anni di università che non per ciò che mi sembra di avere imparato, per la verità abbastanza poco. Se non avessi intrapreso questo percorso non avrei conosciuto alcuni tra i miei amici più sinceri, non avrei potuto apprezzare alcuni docenti illuminati (due?) che hanno acceso in me una scintilla. Magari non avrei un blog, non mi sarei appassionato alla divulgazione scientifica e chissà cos’altro. Sicuramente non avrei letto una frase scritta sulla porta di un gabinetto al Politecnico, frase peraltro prostituita su internet nell’eterno presente della rete: “Gli studenti non sono vasi da riempire, ma fuochi da accendere”. All’università ho trovato molta terra, ma poca benzina.

Grazie per essere arrivati fin qui. Per ora. Vi farò poi sapere com’è andata.

Nuovi iPhone: riflessioni a valle (o a monte?)

di Marco Moraschi, 16 settembre 2018,da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Il 12 settembre è andata “in onda” la cosiddetta “messa laica”, come qualcuno ama chiamarla, ovvero c’è stato il tanto atteso evento di pre-sentazione dei nuovi modelli di iPhone da parte di Apple. Dopo ormai molti anni che seguo in diretta gli eventi di presentazione dei nuovi prodotti tech, non potevo perdermi neanche questo, che infatti ho se-guito con interesse. Con interesse non perché io sia intenzionato ad ac-quistare l’ultimo modello di iPhone (anzi, non ne ho mai avuto uno), ma perché, da ingegnere e da appassionato, trovo interessante seguire l’evoluzione della tecnologia e dell’elettronica di consumo anno dopo anno. Per contro, occorre dire che, soprattutto in ambito smartphone, il mercato è diventato abbastanza noioso, con dispositivi che si assomi-gliano tutti e che si copiano l’un l’altro. Naturalmente anche quest’anno i nuovi iPhone sono i più tutto di sempre: i più belli, i più potenti, i più grandi. Sparito lo storico design con cui abbiamo conosciuto l’iPhone nel 2007, i nuovi iPhone hanno linee di design ispirate all’iPhone X visto lo scorso anno, ma con schermi più grandi, processori più potenti, nuove fotocamere e nuovi colori. Per dovere di cronaca occorre dire, però, che sono anche i più pesanti, i più invadenti e, last but not least, i più costosi.

Proprio questi ultimi punti, nonostante le novità presentate, credo debbano essere tenuti in considerazione per un bilancio che sia sincero. In un altro articolo ho già espresso le mie perplessità in merito al mondo degli smartphone, ma ci sono tuttavia alcuni punti che vorrei rimarcare e che traspaiono dalle ultime novità di casa Apple (come di tutte le altre case di produzione peraltro, il keynote Apple del 12 settembre è solamente il “casus belli“). Seguendo la presentazione ho infatti storto il naso in ben più di un’occasione; la più consistente è stata quando i nuovi iPhone sono stati presentati come dispositivi eccezionali per guardare film e fare editing video. Una premessa: non ne faccio una colpa ad Apple, se mi conoscete sapete anzi fin troppo bene che apprezzo molto l’operato di casa Apple per la sinergia tra hardware e software, che le permette di creare prodotti di eccezionale qualità e longevità. Le grandi aziende tecnologiche inseguono i trend del momento poiché ovviamente il loro obiettivo è vendere e fare profitti, non trattandosi di organizzazioni no-profit. Per chi tuttavia è un osservatore esterno viene invece naturale analizzare questi trend e chiedersi dove ci porterà questo lungo cammino fatto di piccole innovazioni. Torniamo quindi dove eravamo rimasti. Il trend attuale è sicuramente quello del mobile-first, tutto si sta spostando intorno alle piattaforme mobili che stanno passando dall’essere strumenti di fruizione dei contenuti a strumenti di creazione dei contenuti stessi. C’è tuttavia qualcuno che in questa logica perversa tenta di resistere, e il sottoscritto ne è un esempio; non perché voglia rigettare l’ingresso del digitale nella sua vita, per carità, ma semplicemente perché vorrebbe poter cogliere il meglio da ogni strumento che gli viene posto davanti, utilizzandolo per le funzioni per le quali è stato pensato inizialmente, senza stravolgimenti e forzature, in modo da trarre un reale beneficio dal suo utilizzo. Nella presentazione di Apple c’è stata qualche stortura di questo tipo, come, dicevamo, il fatto di utilizzare l’iPhone per guardare film o fare editing video. Il “cellulare” è nato con l’obiettivo di essere uno strumento utile per la comunicazione fuori casa; ben vengano alcune sue innovazioni seguenti, come il GPS per le mappe o la fotocamera integrata, ma pensare di utilizzare uno schermo di quelle dimensioni per guardare un film è francamente una stonatura. Vero è che le dimensioni degli smartphone sono aumentate a dismisura dalla loro invenzione, ma forse è proprio questo il problema, abbiamo perso di vista l’obiettivo per il quale sono nati (essere telefoni comodi da portare in giro) e quindi abbiamo iniziato ad aumentare le dimensioni dei loro display, affinché diventasse meno scomodo farci tutt’altro.

Mi chiedo inoltre quando e dove dovrei utilizzare lo smartphone per guardare un film: a casa? Sul treno? In piscina? Se la risposta è affer-mativa per la prima domanda allora c’è qualcosa che non va, perché a casa ci sono altri dispositivi molto migliori sui quali guardare un film, chiamasi computer e, ancor meglio, televisori. Se invece la risposta è affermativa alle altre due domande allora abbiamo nuovamente un problema, in quanto stiamo sprecando il nostro tempo, alimentando quelle orde di zombie che quotidianamente si vedono sui mezzi di tra-sporto: con le cuffiette e gli occhi incollati allo smartphone, ignari di qualunque altra cosa succeda loro intorno. Questa prima parte sugli smartphone più invadenti e più pesanti è già diventata sufficientemente lunga e apocalittica, proporrei quindi di passare all’ultima caratteristica: più costosi. Quest’ultima non è a mio avviso così trascurabile. Qualcuno potrebbe ribattere: se ti sembrano troppo costosi basta non comprarli! Ed effettivamente non ho alcuna intenzione di acquistare gli ultimi modelli. Di nuovo, inoltre, non facciamone una colpa ad Apple: i competitor fanno altrettanto e spesso in maniera ancora meno giustificata, ci sono fior fior di esperti di marketing che occupano gli uffici a Cupertino e inoltre, se nonostante i prezzi si continuano a vendere milioni di smartphone, significa evidentemente che non sono poi così tante le persone che trovano esagerati i loro prezzi. Trascurando chi acquista questi dispositivi per reali necessità lavorative (su le mani), per la maggior parte (maggior parte = non tutti) delle altre persone è probabilmente diventato un vezzo, simbolo di una rivalsa di successo che non si riesce ad ottenere in altri modi, di una insoddisfazione personale e di un’infelicità che non si riesce a colmare diversamente. Se per le classi più abbienti un iPhone è uno status symbol che si può ottenere con poca fatica, per molte altre persone è un costoso sacrificio che si ripaga facendo mostra di sé quando viene estratto dalla borsetta o dai pantaloni. Nel caso del modello più costoso presentato, stiamo infatti parlando di un esborso che supera i 1600€, ovvero più di una mensilità media in I-talia, che si attesta intorno a quota 1500€. Trattandosi di una media, è ovviamente “mediata” da chi ha stipendi molto più alti (decine di mi-gliaia di euro) e molto più bassi (sotto i 1000€ mensili). Ognuno con i propri soldi può ovviamente far ciò che vuole e infatti non si sta discu-tendo questo: tutti spendiamo soldi in maniera più o meno sensata se-condo i nostri gusti, che sono tutti diversi e opinabili. Il punto qui però è un altro: perché siamo arrivati a prezzi così folli per gli smartphone? Considerando il fatto che i giganti tech dispongono da soli di capitali superiori a quelli di molti stati sovrani (Apple e Amazon, per esempio, sono le prime due società al mondo ad aver superato una capitalizza-zione di 1000 miliardi di dollari USD) e che nel mondo il 99% della ric-chezza è in mano all’1% delle persone, visti inoltre i numeri di vendita, significa che molte persone, pur non potendo permetterselo, sono di-sposte a pagare queste cifre per l’acquisto degli smartphone. Perché? In definitiva, a parte qualche accenno qui sopra, non ho una risposta. Tutto ciò che mi sento di dire è che forse dobbiamo riconsiderare il nostro rapporto con la tecnologia, per non venirne infine fagocitati. Non è quindi forse un caso se il nuovo iPhone si chiama XS, che letto in inglese suona “Ex-Es”, fin troppo simile a “excess”, eccesso.


 

Elogio dei telefoni stupidi

Ovvero come tornare offline può renderci più felici

di Marco Moraschi, 21 luglio 2018, da sguardistorti n. 03 – luglio 2018

Lo chiamano “dumb-phone movement”, ed è un trend in crescita. Nasce dalla contrapposizione, più evidente in inglese, tra lo “smartphone” (smartphone, ovvero “telefono intelligente”) e il “dumb-phone” (“telefono stupido”). Sembra nascere sempre di più in molte persone, infatti, il desiderio di distaccarsi dal mondo digitale della distrazione di massa, per tornare alle origini di un rapporto più umano con le persone, sicuramente più presente nell’era pre-smartphone. Il nostro attaccamento a questo dispositivo tecnologico, solo in apparenza “intelligente”, è dovuto a quella che molti studiosi chiamano FOMO, ovvero “Fear Of Missing Out”: la paura di essere tagliati fuori. Ok, ma tagliati fuori da cosa? La paura è quella di non essere aggiornati con le ultime notizie, di perdersi ciò che avviene sui Social e sulla rete, di non leggere subito le e-mail che ci arrivano, di rimanere esclusi da una società in cui tutti nuotano (annegano?) nel digitale, in cui tutti possiedono uno smartphone, un profilo Facebook, Instagram, Twitter, … la paura di perdere delle opportunità che grazie al digitale sono nate negli ultimi vent’anni. Ma proprio questa FOMO ci sta invece facendo perdere ciò che da sempre contraddistingue l’essere umano, ovvero la capacità di comunicare e dialogare con le persone, di stabilire un contatto che con le e-mail e i tweet non è possibile ottenere, in quanto essi ci danno solamente l’illusione del confronto.

Sarà capitato anche a voi: ogni volta che cerchiamo di leggere un libro, di sederci a riflettere, di fare due passi all’aria aperta, finiamo per prendere in mano il telefono. Ci convinciamo che c’è qualcosa di molto più urgente da fare in quel momento: cercare su Google informazioni su qualcosa di assolutamente irrilevante che abbiamo sentito o letto di sfuggita negli ultimi dieci minuti, leggere il feed delle notizie, sempre uguali e tristi come l’ultima volta che le abbiamo consultate, “scrollare” la bacheca di Facebook o di Instagram perché anche se non c’importa nulla di ciò che postano o scrivono gli altri, magari c’è qualche novità o qualche scoop che non ci hanno detto. Il problema è che, anche se ci rendiamo conto di quanto tempo sprechiamo nel tentativo di rincorrere vanamente l’ultima notizia e l’ultima foto su Instagram, non riusciamo a farne a meno. Non riusciamo a farne a meno. C’è sempre questa maledetta paura di restare esclusi da qualcosa, non sappiamo bene cosa, ma il nostro cervello è entusiasta all’idea di vedere l’icona rossa di una nuova notifica, di una nuova e-mail, di una risposta a un nostro tweet, che imperterriti proseguiamo la nostra corsa alla ricerca di questa agognata e intima soddisfazione. A ben guardare, occorre precisare che non è nemmeno tutta colpa nostra: i nostri smartphone, con le loro linee di design, i loro schermi nitidi, le icone colorate e i suoni piacevoli, sono appositamente studiati per farci trascorrere davanti ad essi più tempo possibile. E la colpa, se vogliamo, non è nemmeno di chi li progetta o sviluppa le loro applicazioni: il fine ultimo di un’azienda, ci piaccia o no, è generare profitto, e chi lavora nel settore del digitale sa perfettamente che più tempo le persone passano davanti a uno schermo con il suo dispositivo o la sua applicazione, più alti saranno i suoi guadagni.

Ogni volta che prendiamo in mano il telefono, non solo distogliamo la nostra attenzione da ciò che stavamo facendo in precedenza, ma diventa poi più difficile ritornare a concentrarci sulla nostra attività perché il nostro cammino mentale è stato disorientato. Secondo alcuni studi, addirittura, non solo prendere in mano il telefono ci distrae, ma anche averlo semplicemente a portata di mano può essere un freno alla nostra concentrazione e immaginazione, perché i nostri sensi rimangono vigili nel caso lo schermo dovesse illuminarsi per l’arrivo di una nuova notifica. Scoprire in un istante il titolo della canzone in riproduzione alla radio, seguire minuto per minuto gli aggiornamenti politici, meteo, quotazioni di borsa, poter ascoltare potenzialmente qualsiasi brano sia mai stato registrato nella storia della musica mentre siamo sulla metropolitana. Le possibilità che il digitale ci offre sono infinite. Letteralmente. Tutto è possibile, qui e ora. Qualunque informazione desideriamo, la abbiamo a portata di click in un secondo. Non c’è mai stata un’epoca così straordinaria per la conoscenza. Come ha detto lo scrittore Donald Miller: “Nell’era dell’informazione, l’ignoranza è una scelta”. Il punto è: siamo sicuri di averne così bisogno? O meglio, di averne bisogno in ogni momento della nostra vita? Siamo sicuri che ciò che abbiamo ottenuto in cambio della nostra privacy sia valso davvero la pena? Il “dumb-phone movement” propone proprio questo: mettere da parte i nostri cellulari super intelligenti, smart e pieni di funzioni (leggi distrazioni), per riprendere in mano la nostra vita. Per posare ogni tanto il nostro computer e uscire a fare una passeggiata, uscire fuori a cena con amici trascorrendo la serata a parlare insieme, senza guardare lo schermo dei nostri cellulari che ci mostrano ciò che succede altrove. Ritornare a giocare con i nostri figli, e non tenerli buoni facendoli giocare a qualche giochino stupido sul tablet, ma aiutandoli a scoprire il mondo e a meravigliarci insieme a loro di quanto è bello. Andare a un concerto e guardarlo dal vivo con i nostri occhi, non attraverso il piccolo schermo del nostro telefono, affinché il ricordo rimanga vivo e impresso nella nostra mente.

Come può un telefono stupido aiutarci a raggiungere questo obiettivo? Per comprenderlo, elenco qui di seguito alcuni vantaggi che ha un tale dispositivo:

  • Distraction-free. Non si possono installare applicazioni come Facebook, Twitter e Instagram. Si potrebbe ribattere che basterebbe disinstallarle anche dai nostri moderni smartphone, ma il solo fatto che questa possibilità esista (cioè poter accedere ai Social tramite il browser, o poter reinstallare queste app in pochi secondi) è per molti di noi, me compreso, deleteria. Sono poche le persone che hanno una volontà di ferro, specialmente nelle situazioni dove sembra non essere così necessario. Spesso tendiamo a sopravvalutare le nostri reali capacità di resistere alle tentazioni, con il risultato che, chi prima chi dopo, ci ricaschiamo puntalmente. Se non posso installare queste applicazioni e il browser non è sufficientemente avanzato da potersi connettere velocemente e con una buona esperienza d’uso ai rispettivi siti internet, sono sicuro che terrò lontano queste distrazioni. Avere tutto a portata di mano, come su uno smartphone, e scegliere quando lasciarmi distrarre e quando no, è un lusso che non posso permettermi.
  • È uno stimolo. Avere continuamente a disposizione ogni informazione che vogliamo, per esempio le indicazioni stradali per andare da una località a un’altra, sta disabituando la nostra mente a memorizzare le informazioni, con il risultato che abbiamo perso l’arte della memoria, come fa notare spesso il mentalista Vanni De Luca. Se in passato infatti eravamo abituati, per lavoro e/o necessità, a memorizzare molte informazioni, come un’arringa da esporre in tribunale nel caso di Cicerone (uno dei primi a fornirci efficaci tecniche di memorizzazione), oggi facciamo enorme fatica a ricordare anche solo un numero civico o di telefono, per non parlare delle date di compleanno dei nostri amici, attività che abbiamo vergognosamente delegato a Facebook. Un telefono stupido queste informazioni non può semplicemente fornircele, o sicuramente non in maniera agevole, trasformando un’apparente carenza in un utilissimo esercizio per la memoria (o volete sprecare i traguardi che il nostro cervello ha raggiunto in migliaia di anni di evoluzione darwiniana?). Uno stimolo ulteriore arriva dal fatto che abbiamo perso la capacità di annoiarci. Quando siamo in fila dal medico, o alle poste, oppure in viaggio sul treno, “ammazziamo il tempo” con futili attività pescate a caso dal nostro smartphone: non ci annoiamo più. Ma il “dolce far nulla”, come starsene mani nelle mani in attesa del nostro turno, è una delle attività più prolifiche per la nostra mente! Solamente quando la nostra mente è libera da qualunque attività è in grado di mettere realmente in moto l’intelletto e la fantasia. E non dovremmo stupirci se la maggior parte delle idee ci vengono la notte quando non riusciamo a dormire o mentre siamo nella doccia. Dobbiamo permettere più spesso alla nostra mente di non essere intrappolata da vincoli che non aggiungono alcun valore significativo alle nostre attese. Torniamo ad annoiarci, chissà che la nostra prossima idea per un’azienda non nasca proprio da un pensiero fugace comparso all’improvviso mentre eravamo sul tram, che mai avremmo avuto se anziché viaggiare tra i pensieri fossimo stati passivamente a guardare le ultime foto su Instagram di una influencer.
  • Meno preoccupazioni. Se ce lo rubano, se cade o lo perdiamo, poco importa. Costa poco, non abbiamo perso granché. Non ci sono dati personali sopra, a parte il registro chiamate e i messaggi scambiati; la nostra vita è altrove. Possiamo portarlo in spiaggia, a correre, sulla metro senza la continua preoccupazione di avere con noi un dispositivo di grande valore e che contiene molte informazioni personali. Non avendo applicazioni come Facebook, Twitter, Instagram che scambiano continuamente dati in background, la batteria dura molto di più. Non dobbiamo più preoccuparci di cercare una presa a metà giornata o di portarci dietro una powerbank, la batteria durerà per tutto il tempo che abbiamo bisogno.
  • È più comodo. Pensate ai nostri attuali smartphone: diagonale da 5,5” in media per un peso oltre i 160 grammi. Non sono più “mobile phones” (telefoni cellulari portatili), ma piccoli mattoncini che a fatica stanno nelle nostre tasche e appesantiscono borse e borselli. Il loro peso, le loro dimensioni e il tempo che trascorriamo a “spippolare” sono poco confortevoli, e ciò è sempre più spesso causa di patologie come il tunnel carpale o infiammazioni a nervi e articolazioni della mano.
  • Siamo più presenti. Senza tutte queste distrazioni e preoccupazioni, possiamo finalmente tornare a concentrare l’attenzione su ciò che conta davvero: la natura umana. Minuto dopo minuto, consultando Facebook e i nostri smartphones, senza rendercene conto, buttiamo via parecchie ore al giorno, che potremmo impiegare diversamente, magari facendo una passeggiata all’aria aperta, uscendo a cena con gli amici, o facendo l’amore con la persona che amiamo. Fate una prova: a fine giornata controllate nelle impostazioni della batteria quanto tempo lo schermo del vostro smartphone è rimasto acceso, mediamente leggerete un tempo che va dalle 2 alle 4 ore. Significa che quel giorno avete guardato lo schermo del vostro telefono per almeno 2 ore! Pensate a quante cose in più potreste fare ogni giorno se aveste a disposizione tutto quel tempo: finire di leggere il libro che avete da tempo iniziato, o finire di scrivere quello rimasto a metà nella vostra testa, mettervi in forma andando in palestra o in bicicletta, o semplicemente dedicarvi di più alla vostra famiglia. Non è strabiliante?

Gli smartphone hanno sostituito moltissime cose: l’iPod dei primi anni duemila e i giradischi di tempi più lontani, le sveglie sul comodino, la radio e i giornali che annunciavano le notizie ogni mattina. Non è necessariamente un male in tutti i casi, e non si vuole demonizzare il digitale: è una tecnologia stupenda, uno strumento nelle nostre mani che ci sta permettendo di raggiungere traguardi e risultati prima impensabili. Ma dobbiamo usare lo stesso principio che applichiamo quando facciamo una dieta: di mangiare abbiamo certamente bisogno, non possiamo e non dobbiamo farne a meno, ma forse mettere il barattolo della Nutella in un posto scomodo e non facilmente accessibile, magari sopra a un mobile, non può che farci bene. Qualche volta prenderemo la scala per arrivarci, qualche volta desisteremo, ma, in fin dei conti, ne sarà valsa la pena. Alla fine della mia vita voglio poter ricordare con piacere i momenti che ho condiviso con le persone che amo, le piccole e quotidiane esperienze che fanno di me un essere umano. Il mio tempo è prezioso e limitato; non voglio sprecarlo inseguendo l’infinito stream di notizie, di tweet, di post e di foto che affollano la rete. Non voglio correre il rischio di perdermi il primo passo di mio figlio, il sorriso di una signora sulla metropolitana, o il rumore dei miei piedi che camminano sulla neve perché ero intento a guardare il mio telefono anziché il mondo che avevo attorno. Come disse Henry David Thoreau, non voglio scoprire, in punto di morte, di non essere vissuto. Grazie. …


Essere obiettivo

di Fabrizio Rinaldi, 30 aprile 2018

In fotografia la creazione è un breve istante, un tiro, una risposta, quella di portare l’apparecchio lungo la linea di mira dell’occhio, catturare quello che ci aveva sorpresi nella piccola scatola a buon mercato afferrandolo al volo, senza artifici e senza sbavature. Si fa della pittura ogni volta che si prende una fotografia.
HENRI CARTIER-BRESSON, L’immaginario dal vero, Abscondita 2005

Il racconto nell’album fotografico

C’era sempre una presenza discreta nelle gite, nelle feste e nelle ricorrenze: una macchina fotografica al collo di mio padre. Negli anni Settanta lo ricordo sempre con quella reflex mentre scattava foto ai familiari.
Autodidatta, come me, aveva una vera passione per quella piccola scatoletta: inquadrava, scattava e portava a svilupparne il rullino dal fotografo. …

Fotografia e utopia (di Paolo Repetto)

Il pezzo di Fabrizio sulla fotografia ha casualmente incrociato lungo il mio percorso di letture un breve saggio di Pietro Bellasi comparso trentacinque anni fa su Prometeo (rivista che ancora esiste, o almeno esisteva sino ad un paio d’anni fa) …

La fotografia immemore

Dobbiamo muoverci e pensare ad una velocità sempre maggiore: questo ci chiedono i ritmi imposti dalla modernità. In realtà la nostra mente non è evolutivamente preparata alla brusca accelerazione impressa negli ultimi cento anni, pochissimi se paragonati all’intero arco della storia antropica …

Che i digitali diventino analogici

I bambini ospitati a turni settimanali nella struttura educativa dove lavoro vivono un altro modo di fare scuola. Sperimentano attività e fanno esperienze (le escursioni naturalistiche, ad esempio) che non sono previste nel contesto scolastico abituale …

Riconosciute assenze

L’applicazione della tecnologia digitale alle macchine fotografiche e l’uso diffuso di software di fotoritocco hanno semplificato il gesto del fotografare fino a generare una polluzione incontrollata di immagini, per lo più ordinarie, che ci sorbiamo nostro malgrado e che rispondono a un artificioso bisogno indotto dalla modernità: quello della “spettacolarizzazione di sé” e della condivisione in rete della propria squallida quotidianità…

Riconosciute assenze

s’intravvede, ma non si vede

di Fabrizio Rinaldi, 8 aprile 2018

L’applicazione della tecnologia digitale alle macchine fotografiche e l’uso diffuso di software di fotoritocco hanno semplificato il gesto del fotografare fino a generare una polluzione incontrollata di immagini, per lo più ordinarie, che ci sorbiamo nostro malgrado e che rispondono a un artificioso bisogno indotto dalla modernità: quello della “spettacolarizzazione di sé” e della condivisione in rete della propria squallida quotidianità.

Questa ossessione ha contribuito ad uniformare verso il basso molti aspetti del gesto fotografico, da quelli tecnici relativi al marcato bilanciamento dei colori e ai loro contrasti a quelli contenutistici, relativi alla scelta dei soggetti. Nel novantanove per cento dei casi ad essere ritratto è chi fotografa (selfie), oppure sono familiari, animali domestici, tramonti, edifici, o ancora, “eventi” che si pretendono tali solo perché l’immagine è opportunamente mirata a suscitare una qualche reazione emotiva (per lo più di pancia – o giù di lì).

L’inflazione d’immagini fa si che queste raramente rimangano nella memoria, poiché non suscitano particolari emozioni né in chi le produce, né in chi le guarda. Va così persa una peculiarità fondante del fotografare, ossia l’essere una raffigurazione concreta di un pensiero.

La semplificazione del processo fotografico pone interrogativi a chi, come me, vorrebbe continuare a scattare senza cadere nelle mediocrità del già visto e ambisce a produrre immagini che, almeno a livello personale, trasmettano una qualche tensione emotiva.

Vedere e fotografare, nell’accezione più pura, significa esser consapevole dell’“unicità” di ciò che si sta guardando, che è tale in un tempo concluso, ovvero in quel preciso momento, scegliere di fermare quell’istante e di fissarlo attraverso il mezzo fotografico. Questo gesto richiede una – seppur mediocre – padronanza tecnica, la capacità di mettere a fuoco e isolare il soggetto all’interno dello spazio che occupa, la percezione istintiva della quantità di luce necessaria ad evidenziare ciò che l’obiettivo inquadra, ma soprattutto una buona dose di lucidità e di distacco: ovvero un coinvolgimento emotivo controllato, almeno un po’. È senz’altro necessaria anche una certa presunzione nel riproporre soggetti che quasi sicuramente sono stati fotografati da altri molto più bravi. Basta fare una ricerca in rete per vedere foto davvero belle che fissano quel paesaggio, quel fiore o quello scorcio che ci apprestiamo a fotografare.

Quindi, dobbiamo prevedere nell’equipaggiamento una borraccia piena di presunzione. Ci tornerà utile quando, individuato il soggetto, ci verranno in mente le immagini scattate da fotografi più o meno titolati. Per una frazione di secondo esiteremo prima di schiacciare l’otturatore. Ma a quel punto, bevuto un sorso dalla borraccia, scatteremo la “nostra” foto che regalerà a noi – forse solamente a noi – un briciolo di emozione. Se poi non è paragonabile alle calle di Tina Modotti, ai panorami di Ansel Adams o ai nudi di Man Ray, chi se ne frega!

Piuttosto, una volta premuto l’otturatore avremo l’illusione d’aver fissato quel momento in un’immagine senza tempo: ma non è così.

Anzitutto perché, come detto prima, la memoria diffusa delle immagini è labile e a brevissimo termine, proprio per la quotidiana indigestione che ne facciamo: quindi presto scorderemo quei fotogrammi, che difficilmente si raccomanderanno nella memoria collettiva per una loro intrinseca rilevanza o per le loro qualità estetiche.

C’è poi l’aspetto connesso all’hardware su cui sono conservate le tanto care foto. Il tempo continua a scorrere per noi, ma anche per loro. Apparentemente le immagini rimangono inalterate, ma sia nei file digitali, sia nelle stampe fotografiche è in atto un continuo deterioramento. E a dispetto di ciò che si pensa, se sono immagazzinate in bit il deterioramento sarà ancor più veloce di quello delle fotografie cartacee: si potrebbe guastare l’apparecchio su cui sono conservate, potrebbero esser dimenticate e quindi in un secondo momento cancellate, o, in un continuo copia-incolla, è sufficiente la perdita di qualche “zero” o “uno” per rendere illeggibili i file.

La consapevolezza di questa precarietà, insieme all’importanza che diamo a ciò che viene inquadrato nel mirino della reflex, ci dovrebbero render maggiormente coscienti del “momento fluttuante” che ci accingiamo a fotografare. In questo modo dovrebbe risultare più facile realizzare foto che abbiano una possibilità di rimanere per un po’ nel ricordo, almeno nel nostro.

Quando metto mano alla macchina fotografica mi scopro ad inquadrare per lo più soggetti che escludono la presenza umana. Preferisco soffermarmi sulle tracce riconoscibili del suo passaggio: la sua interazione col territorio, le sue opere, le sue manipolazioni e le sue dimenticanze.

Cerco insomma la “pregnanza” umana che il manufatto, il paesaggio o l’edificio rivelano, che hanno assorbito – magari in tempi antichi – dai loro costruttori. Allora fotografo balconi, finestre, barche dismesse, legni e ferri abituati al lavoro umano, angeli di pietra che sorvegliano gli ingressi, fontane, porte, terrazzamenti e così via, alla ricerca della seduzione di cui l’autore ha impregnato – intenzionalmente o meno – quel manufatto. Oppure perseguo l’incanto inatteso che a volte il degrado e l’abbandono regalano alla materia creata dall’uomo: ad esempio le croste sui muri di vecchie case, sui quali il decadimento fa scaturire la bellezza di una semplice ed autentica disarmonia.

Ho difficoltà invece a fotografare volti: non per superstizione aborigena, ma per la convinzione che ritrarli presupponga un’esposizione del soggetto alla violenza inferta dallo scorrere del tempo e al giudizio estetico – inconscio o meno – di estranei.

C’è poi una personale tensione relativa alle reali intenzioni di chi fotografa e di chi è fotografato: quanto voglio rivelare del soggetto e di me in un’immagine? È un interrogativo rilevante in tutto il mondo fotografico, ma in particolare in quella di ritratto.

Il tempo è impietoso: la foto che ci ritrae oggi pare brutta, ma rivista tra dieci anni potrebbe persino indurci ad affermare che non eravamo male. Per questo i ritratti mi bloccano: hanno qualcosa di maligno, fissano un tempo che si allontana da noi, e ce lo ricordano.

Un’altra domanda che sorge quando guardiamo una nostra foto è: ma è così che mi vedono gli altri? Quesito lecito, che mette in luce la distonia con la nostra corporeità e con lo spazio scenico che occupiamo nella quotidianità.

Lo sguardo diretto sottende una sfida che spesso non voglio sostenere, perché implicitamente mette in discussione anche me. O meglio, riesco a ritrarre la persona solo quando tra me e chi inquadro c’è una rilevanza emotiva. Altrimenti lo scatto finirà in un semplice album familiare, ma di questo abbiamo già parlato.

In ogni gesto del fotografare, ogni volta che la macchina fa clic, c’è una certa violenza, che lo si voglia o no. L’atto stesso di fermare qualcosa è potenzialmente violento, anche se si tratta di una foto molto affettuosa. Io credo nel valore dell’idea indiana secondo cui fotografare una persona equivale a rubarne il volto. C’è una cosa degli aborigeni australiani che mi ha colpito molto: non hanno il permesso di guardare l’immagine di una persona morta. Dunque un morto non dovrà più comparire da nessuna parte, né in un libro, né in una foto. Per questo, quando qualcuno muore, si porta via tutto ciò che potrebbe ricordarlo, ogni sua immagine. Per lo stesso motivo gli aborigeni non amano farsi fotografare: perché sanno che la foto sopravvivrà loro oltre la morte, che ogni foto dura al di là della persona, oltre ogni fenomeno che loro possono cogliere, oltre l’istante in cui è stata scattata. È questo a spaventarli.
WIM WENDERS, Una volta, Contrasto 2015

Sai che non c’è una sola foto di Hillary sull’Everest in quella prima salita del ’53? Hillary aveva l’apparecchio e fotografò Tenzing, il contorno delle montagne intorno, ma non chiese a Tenzing di fargli una fotografia. Non è speciale questo? Hillary era lassù a nome collettivo, era solo un rappresentante della specie umana. Non so se gli venne la tentazione di passare a Tenzing l’obiettivo. So che non lo fece e per me quello scatto mancato è il più bello di tutti, il colpo di umiltà che dà la precedenza all’impresa, non a chi la compie.
NIVES MEROI
da ERRI DE LUCA, Sulla traccia di Nives, Feltrinelli 2016

In fotografia la creazione è un breve istante, un tiro, una risposta, quella di portare l’apparecchio lungo la linea di mira dell’occhio, catturare quello che ci aveva sorpresi nella piccola scatola a buon mercato afferrandolo al volo, senza artifici e senza sbavature. Si fa della pittura ogni volta che si prende una fotografia.
HENRI CARTIER-BRESSON, L’immaginario dal vero, Abscondita 2005

Collezione di licheni bottone