di Paolo Repetto, 22 agosto 2019
Avevo promesso agli amici una relazione veridica sulla mia scappata in terra ispanica, ed eccomi sollecito all’appuntamento. La butto giù così, a caldo (è proprio il caso di dirlo, date le temperature di Madrid), cercando di non disperdere le impressioni e le suggestioni che si sono affastellate in questi giorni roventi. Non sarà quindi una cosa ordinata e sistematica, buona per le guide EDT (del resto, non credo si aspettino alcunché del genere), ma una zuppa leggera e fredda – un gazpacho, tanto per entrare in tema, tanto sale e poche vitamine. Mi sono imposto però un minimo di traccia: parlerò prima di quel che ho visto e poi di quel che ho fatto.
Con una premessa: in pratica questo è stato il mio primo vero – per quanto breve e circoscritto ad un’area molto limitata – soggiorno in Spagna. Avevo toccato il suolo spagnolo un paio di altre volte, l’ultimo pochi anni fa, con incursioni brevissime, e non ne avevo tratto alcuna impressione. O meglio, nell’occasione più recente ero scappato via di corsa, dicendomi, alla maniera di Obelix: “Sono matti questi spagnoli”. Arrivavo da un giro nella zona catara, dai paesini pacifici e addormentati dei Pirenei francesi, e appena attraversato il confine mi sono trovato in mezzo a ruspe, cantieri, pavimentazioni e asfaltature a tappeto, in ogni angolo. Dava la sensazione di un furore demolitorio febbrile, nel tentativo di recuperare il tanto tempo perso tra guerra civile e franchismo, ma senza alcun criterio o rispetto conservativo del passato: in buona sostanza, quel poco che avevo visto non mi era piaciuto affatto. Quanto agli spagnoli in genere, ne avevo un’immagine un po’ stereotipa, condizionata dalle reminiscenze manzoniane, dagli orrori della Conquista e dallo strapotere calcistico: per il resto, non dico flamenco e paella, ma quasi (di alcune ragazze spagnole, invece, conservo da sempre un ottimo ricordo).
Insomma, appena approdato a Madrid l’impressione di attivismo frenetico si è rinnovata: cantieri ovunque, lavori in corso in ogni quartiere. Ma con una differenza: intanto i cantieri una volta aperti vengono poi anche chiusi, a differenza che a casa nostra, nel senso che le cose viaggiano, e a ritmi cinesi. La più alta concentrazione di martelli pneumatici e perforatrici per chilometro quadrato mai vista, inizio lavori alle sette del mattino e sospensione in tarda serata, con l’accorgimento però di creare il minor disagio possibile alla viabilità dei residenti e ai flaneurs come me. Poi, i risultati si vedono: i palazzi del sei e del settecento paiono costruiti ieri, le facciate tutte riportate a nuovo, e non solo nel centro della città, ma ovunque. Gli spagnoli sembrano avere in orrore la patina del tempo, e detto così potrebbe dare l’idea di una città posticcia, di un enorme outlet turistico, ma l’effetto non è quello. Anzi, dopo un primo sconcerto ti accorgi che il risultato è una personalità specifica e forte: una città con un grande passato, che lo mostra tirato a lucido e proiettato nel futuro. L’esatto contrario di quel che accade, ad esempio, per Roma. Anche un passatista come me, nostalgico dell’ancient time, deve ammettere che gli spagnoli hanno centrato gli interventi. I viali sono magnifici, gli stili architettonici dei palazzi che li costeggiano sono perfettamente amalgamati, anche quando la “rivisitazione” è stata più pesante, nelle vie interne sono conservate tutte le vecchie insegne, le vetrine e i rivestimenti caratteristici, ma tutto è ripulito e restaurato, le piazze sono luoghi di vita e di incontro e non enormi parcheggi, il traffico è scorrevole, la metropolitana ti porta ovunque, non c’è una buca nei marciapiedi. Ho visto quel che vorrei vedere quando giro per l’Italia, e non trovo mai. La mia non è esterofilia: semmai, al contrario, è eccesso di amore per il mio paese, e disappunto nel vederlo così ridotto.
Ma scendiamo più nel particolare, alle cose cui ostinatamente bado quando mi muovo fuori d’Italia, o che mi si impongono, e rappresentano i criteri coi quali misuro la temperatura civile di un luogo. Anche qui, vira tutto al positivo. Non ho visto, o quasi, escrementi di cani per le strade. A dire il vero ho visto anche pochi cani. Dal che si desume che gli spagnoli sono poco inclini alla moda animalista che da noi furoreggia, oppure che sono più responsabili e ripuliscono accuratamente. Opterei per la prima ipotesi. Ho trovato, inoltre, servizi igienici pubblici pulitissimi (e gratuiti) in tutte le piazze, nei musei, nei giardini e in ogni luogo che ho visitato: il che, soprattutto per gli amanti un po’ attempati, come me, del latte al cioccolato e della birra, ha la sua importanza. Nessuno ha poi tirato a fregarmi sui prezzi e mi è stato rilasciato sempre ed ovunque, nei bar, nei negozi, nei ristoranti, lo scontrino fiscale. Ho trascorso diverse serate bighellonando attorno a quello che è l’ombelico di Madrid, la Puerta del Sol, ascoltando rapito i concertini di un fantastico sestetto d’archi che si esibiva per strada, ma soprattutto ammirando lo spettacolo della folla che scendeva compostamente o risaliva verso la piazza da sette grandi vie laterali, e non ho sentito una volta qualcuno alzare la voce, malgrado la metà almeno dei turisti fosse italiana, e per la maggioranza romana. Segno che la città stessa induce ad una fruizione pacifica, discreta, rispettosa anche coloro che di norma hanno comportamenti diversi. C’è in giro molta polizia (la stazione della metropolitana di Puerta del Sol è stata teatro dell’attentato del 2004), ma è una presenza tutt’altro che invadente. Gli ambulanti abusivi sono provvisti di teli a chiusura rapida, per facilitare le fughe repentine, ma in realtà sembra siano tollerati o addirittura ignorati dagli agenti: credo che la pantomima del fuggi fuggi che scatta alla comparsa di una loro auto faccia parte delle attrattive turistiche, perché non una volta ho visto l’auto fermarsi e gli agenti scendere. E ho anche notato che ci sono pochissimi mendicanti, a smentire l’immagine che della città davano gli scrittori spagnoli fino a tutto l’800. Ancora, ho mangiato bene, e molto, ovunque, a prezzi più che onesti, esattamente quelli dichiarati nei menù esposti, ho ritrovato intatto lo zainetto che avevo dimenticato in trattoria e sono stato pazientemente e cortesemente assistito a più riprese dagli addetti di fronte ad ogni operazione di prelievo, versamento o acquisto automatizzato, che per me costituiscono ostacoli quasi insormontabili. Cose che possono apparire normalissime, ma nella mia quotidiana battaglia in patria non lo sono affatto. Infine, fondamentale, ho avuto accesso gratuito a tutti, sottolineo tutti, i musei della città, semplicemente esibendo il documento d’identità con su scritto Dirigente scolastico (in qualche caso non ne ho avuto neppure bisogno, perché nei festivi l’ingresso è gratuito). Da noi non sono considerati validi neppure gli attestati specifici rilasciati dalle scuole.
Ora, magari sono stato fortunato, o magari sono altri i parametri di giudizio da adottare: ma per quel che mi riguarda Madrid (e così anche le altre due città che ho visitato) è promossa a pieni voti.
Veniamo ora a quel che ho fatto, che non è poi granché diverso da quel che fanno tutti i turisti. Ho appunto visitato tutti i possibili musei, a partire dal Prado, ma ho trovato eccezionale, per come è strutturato e per quel che offre, soprattutto il Thyssen-Bornemisza. Vi sono ospitate, tra l’altro, alcune tele stupende dei miei negletti paesaggisti nordamericani, Bierstadt, Church e Cole, e persino di George Catlin (non una delle loro opere è presente nei musei italiani). Al Prado la sala dedicata a Jeronimus Bosch vale da sola il viaggio sino a Madrid. Al contrario, al Reina Sophia faceva un po’ specie vedere la folla accalcarsi ad ammirare “Guernica” (che, diciamolo, al di là del valore ideologico è un grande falso, furbescamente costruito) e ignorare completamente le opere di Tanguy e di Magritte. Dal momento che a me interessano più i visitatori che le opere, e che ero in grado di cogliere solo i commenti degli italiani, limitati in genere alle lamentele per la lunga coda sotto il sole giaguaro del primo pomeriggio, non ne ho ricavato un gran campionario. Solo, all’uscita della sedicesima sala dei pittori novecentisti spagnoli, un: “A Marià, m’hai fatto rostì n’ora là fori, pe’ ste du’ palle!”
Ho fatto naturalmente anche la cosa più turistica che si possa immaginare, quella che ho sempre pensato riservata ai giapponesi. Ho preso il bus che fa il giro della città, quello col piano superiore scoperto, e non me ne sono pentito affatto. Col biglietto giornaliero si può scendere a ciascuna delle fermate previste e risalire sul mezzo successivo (ne transita uno ogni dieci minuti), e la cosa è estesa anche al circuito esterno, che porta nelle zone più periferiche. In questo modo ho potuto constatare come la pulizia e il risanamento abbiano toccato o stiano toccando ogni parte della città. Sono stati operati interventi ciclopici, per destinare ad esempio al verde pubblico immense aree in pieno degrado, che un tempo accoglievano attività produttive ormai obsolete. Ma il verde non manca nemmeno al centro della città: il parco del Retiro mi ha consentito di difendermi egregiamente dal solleone nei pomeriggi più torridi, in mezzo ad un silenzio vivo, animato.
Non mi sono comunque limitato alle visite d’obbligo. Avevo in mente alcune mete ben precise. Sono dunque andato in traccia di Cervantes: ho visto la casa in cui ha abitato nell’ultimo periodo (in Calle Cervantes, naturalmente: tra l’altro, una parte dell’edificio è in vendita, e mi sono informato sul prezzo), ho visitato la sua tomba nel convento delle Trinitarie Scalze (una delusione: una lastra marmorea recentissima, con su una breve frase del poeta e per il resto completamente spoglia, che fa a pugni con l’arredo pesantemente ma coerentemente barocco grondante dalle pareti e dal soffitto della chiesa), ho mangiato (bene) nel ristorante Cervantes (che chissà perché si spaccia per ristorante italiano – il cuoco è cinese, il padrone spagnolo, il cameriere sudamericano) e ho cercato libri antichi (troppo cari per le mie tasche) nella libreria Cervantes y Compañia (comunque, un gioiellino). Forse, dopo questa immersione, mi deciderò a rileggere come si deve il Don Chisciotte. Nella stessa via è nato ed ha abitato per tutta la vita anche Lope de Vega, che a quanto pare se la passava bene, perché la casa è piccola ma molto carina, e ha mantenuto tutti i tratti originari: i due comunque non si sopportavano, e immagino che, abitando a brevissima distanza, abbiano dovuto fare salti mortali per non incontrarsi. Lope mi è caro, come si suol dire, “di sponda”, per la traduzione e la messa in scena di molte sue opere da parte di Camus. Rileggendolo con gli occhiali camusiani ho scoperto un autore incredibilmente attuale, ma di una modernità che sta agli antipodi di quella del Chisciotte. Ho anche cercato e trovato, ma non visitato, la casa di Ortega y Gasset. La mappatura dei luoghi nei quali i nostri autori preferiti hanno trascorso la loro esistenza, specie se erano sedentari e abitudinari come Ortega e Lope, non è l’attività puramente collezionistica e gratuita che potrebbe sembrare: l’orientamento delle loro finestre spiega al contrario moltissimo di come vedevano il mondo. Ad esempio, Ortega y Gasset abitava proprio di fronte all’ingresso principale del parco del Retiro, di quello cioè che, complici le giornate torride, mi è sembrato un vero e proprio eden: e deve aver assistito con angoscia alla sua crescente appropriazione e magari indisciplinata frequentazione da parte dei borghesi e dei proletari massificati nel periodo tra le due guerre. Dalle sue finestre assisteva alla progressiva “dissacrazione del mondo”, non temperata da una crescita di istruzione e quindi della capacità individuale di responsabilizzarsi. Per questo ne “La ribellione delle masse” prefigura l’avvento prossimo del populismo fascista e anche quello più remoto, quello al quale stiamo assistendo, del populismo mediatico “democratico”.
Non c’è però solo Madrid, di cui pure, anche dopo una permanenza di una sola settimana, rimarrebbe molto altro da dire. Ho visitato, con blitz giornalieri, le due città più vicine alla capitale, Toledo al sud e Segovia al nord, attraversando per arrivarci un paesaggio lunare (soprattutto nel viaggio verso Toledo): brullo, piatto, bruciato completamente dal sole. Mi sono chiesto come potessero sopravviverci le pecore di cui il cavaliere della Mancha fa strage, nella totale assenza di un solo arbusto o filo d’erba verdeggiante. E ho anche visto, ai margini dell’autostrada, le scorie di un boom che per qualche anno, a cavallo tra i due millenni, deve avere dato alla testa agli spagnoli: intere aree commerciali e industriali abbandonate, capannoni tirati su in tutta fretta quindici o venti anni fa e già vuoti e fatiscenti, che in prospettiva non saranno neppure rimangiati dalla vegetazione perché vegetazione non ce n’è, e che avviliscono ulteriormente con la loro bruttura e il loro messaggio di precarietà un panorama già di per sé desolante.
Tanto più sorprendente è dunque trovare quasi all’improvviso, in un simile ambiente, piccole città che conservano intatta tutta la loro bellezza storica e architettonica, e che investono sul turismo senza lasciarsene, almeno per il momento, deturpare. Segovia, in particolare, ha attivato tutti i miei sensori alla bellezza, resi ancora più acuti proprio dallo squallore sofferto durante il viaggio. C’è un acquedotto romano perfettamente integro, che sovrasta di trenta metri l’ingresso della città e unisce per una lunghezza di oltre settecento i due versanti della valle. È costruito con blocchi di granito posati a secco, che si reggono a incastro, e sta lì da duemila anni, mentre i nostri ponti autostradali crollano dopo nemmeno mezzo secolo: per cento generazioni, quelle di coloro che vivevano alla sua ombra o che lo scorgevano di lontano, ha simboleggiato tanto la grandezza del passato quanto la sicurezza di una continuità nel futuro; anche perché fino ad un paio di decenni fa è rimasto attivo, continuando a rifornire d’acqua metà della cittadinanza.
Un discorso analogo vale per la cattedrale, o per l’incredibile Alcazar, ma anche per qualsiasi altra vestigia dell’altrieri, chiese, palazzi nobiliari o case borghesi, botteghe artigianali. Mentre ne ammiri il disegno o la semplicità elegante o la ricchezza non puoi non pensare alle sofferenze di tutti coloro che queste cose le hanno costruite, alle fatiche che sono costate, alle ingiustizie di cui sono impastate le mura, i pilastri e le colonne; ma hai l’impressione che un sia pur minimo riscatto di tutto ciò arrivi proprio dalla loro durata, dalla sfida vittoriosa al tempo e dalla testimonianza di un gusto del bello che ancora ci affascina ma che non siamo più in grado di coltivare concretamente.
Queste considerazioni valgono naturalmente per ogni luogo che abbia mantenuto ben visibile il suo rapporto con la storia, quindi non sono applicabili solo alla Spagna. Ma la mia impressione è che in terra spagnola questo rapporto sia davvero ancora pulsante, sia molto più intensamente e genuinamente sentito che dalle nostre parti. E che non si traduca dunque solo in un feroce campanilismo interno o in atteggiamenti sciovinisti nei confronti dell’esterno. Non so per quanto tempo ancora gli spagnoli riusciranno a gestirlo positivamente, senza scadere nelle caricature rozze e ideologiche dietro le quali altrove si nasconde la realtà dell’uniformazione culturale. Al momento, visto che anche a prezzo di una lunga “marginalità” storica hanno conservato quasi intatte e, sia pure per necessità, bene o male funzionali le loro vestigia storiche, sembrano ancora capaci di difendersi. È un’impressione a pelle, ripeto, limitata a una porzione molto piccola e probabilmente molto particolare del paese. Ma è sufficiente a farmi pensare che la Spagna sia un paese molto vivibile (sempre che i suoi abitanti si diano in tempo una calmata).
Da ultimo, aggiungo un paio di digressioni estemporanee, che non hanno a che vedere con lo specifico spagnolo, quanto piuttosto con l’occasione creata dal viaggio.
Mi era già capitato molte altre volte di cogliere in mezzo alla folla delle fisionomie famigliari, ma a Madrid il riconoscimento da casuale è diventato ad un certo punto intenzionale, scatenando un vero e proprio gioco di ricerca. Tutto ha avuto inizio quando ho incrociato in una calle un tizio che somigliava come una goccia d’acqua ad un mio conoscente di Montaldeo. Stavo per avvicinarmi e salutarlo, ma mi sono trattenuto all’ultimo momento, quando anche lui ha incrociato me e non ha dato segno di riconoscermi. Ancora sotto l’impressione di quella straordinaria epifania, nemmeno un’ora dopo ho incontrato su un passaggio pedonale il sosia quasi perfetto di un altro conoscente. Non l’ho salutato ma mi sono bloccato a metà dell’attraversamento, a vederlo allontanarsi di schiena, rischiando di farmi investire da un automobilista impaziente. Di lì è partita, ed è andata avanti anche nei giorni appresso, una serie di altre quasi-agnizioni, favorite ormai dal fatto che in tutti i volti che incrociavo cercavo le possibili somiglianze.
Per fortuna il gioco non si è fermato lì. Sarebbe stato piuttosto stupido. Mi ha portato invece a riflettere sul senso e sull’origine di queste somiglianze, con un percorso altrettanto strampalato, ma che penso valga la pena ricostruire sommariamente. Si dice che ciascuno di noi abbia in qualche parte del mondo almeno un sosia. A me pare una bufala colossale, ma è anche vero che su sette miliardi di persone, o su due se escludiamo gialli, neri, andini e ed esquimesi, qualcuno che ci somigli parecchio potrebbe ben esserci. Non ha dunque senso sperare (o temere, a seconda dei caratteri) di incontrare un sosia, mentre è interessante definire tutta una serie di particolari tipologie morfologiche, che possono essere anche trasversali rispetto al colore o ai caratteri specifici che in genere connotano un’etnia.
Senza tirarla troppo per le lunghe: i “tipi” fisici individuati dalle varie scuole fisiognomiche, da Aristotele a Lombroso, passando per Giovanbattista della Porta e Lavater, in effetti esistono. Sono senz’altro da rigettare le correlazioni dirette tra l’aspetto esteriore e le qualità dell’anima, o il carattere, se vogliamo metterla giù in termini laici, soprattutto quelle individuate dalla deriva pseudo-scientifica lombrosiana o ipotizzate a supporto dell’ideologia razzista, ma non si può nemmeno escludere che le successive ricombinazioni genetiche agiscano entro uno spettro vastissimo, e pur tuttavia limitato. In altre parole, sono convinto che la determinazione genetica di alcuni caratteri fisici (alto, basso, esile, massiccio, ecc…) combinandosi con le condizioni ambientali (naturali, sociali e culturali), determini o favorisca l’assunzione di comportamenti o modelli di pensiero simili. E che ciascuno di noi sia dotato di sensori “naturali” per il riconoscimento di tali caratteri, se sa dare loro ascolto.
Questo con Madrid non c’entra niente, ma a me trasmette una certa sicurezza. Ho l’impressione di sapere “a pelle”, anche a migliaia di chilometri di distanza dalla nicchia dei miei rapporti consueti, con chi ho o potrei avere a che fare. E devo dire che in genere la cosa funziona. A Madrid, ad esempio, ha sempre funzionato.
Infine, un passaggio al volo. Anzi, all’imbarco per il volo. Al momento della prenotazione del biglietto le compagnie offrono la possibilità di accedere, per una decina di euro in più, alla priority di imbarco: tradotto, sali prima sull’aereo. Dal momento che i posti sono comunque già assegnati (e non in base alla priority), e che allo sbarco l’uscita è vincolata unicamente alla distanza dal portellone, l’unico vantaggio è appunto quello di imbarcarsi con qualche minuto d’anticipo. Al Gate 20 dell’imbarco per Bergamo la fila della priority era sei volte più lunga di quella dei viaggiatori “ordinari”: col risultato che tra gli ultimi della priority, che avevano pagato dieci euro in più, e gli ultimi della fila normale non è trascorso nemmeno un minuto, sempre ammettendo che stiparsi uno o dieci minuti prima in quella scatola di sardine comporti un qualche vantaggio. Mi è venuto in mente l’episodio del cancelliere Ferrer: E tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde s’annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti s’alzavano. E ho pensato che quando gli irriducibili come me saranno ridotti a meno del dieci per cento, la compagnia dovrà abolire la possibilità di accesso ordinario e inventare qualche nuova forma di priorità.
Insomma, sono andato a Madrid in cerca di Cervantes, e sulla via del ritorno ho ritrovato Manzoni. Se si spegne la tivù, anche in Italia è rimasto qualcosa di buono.