Leggere al buio

Saggi e conferenze (2008 – 2016)

di Marcello Furiani, 30 gennaio 2017

Leggere al buio

Introduzione

Abbiamo lasciato il campo cantando
Etty Hillesum, ovvero ricostruire l’infranto

Ci diciamo parole oscure
Paul Celan o narrare l’indicibile

Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine
ovvero apocalypsis cum figuris

Con una bella ferita sono venuto al mondo
Ein Landarzt di Franz Kafka

Le nostre labbra s’impolverano d’esilio1
Scrittura tra esilio e dimora

Quando dio e il mondo erano da soli
ovvero quale libertà per l’uomo postumo

Un inverno lunghissimo
ovvero il silenzio come esilio

Introduzione[1]

1.

Finché è acceso un fuoco dentro una casa, dice un adagio dell’est, qualcuno ti aspetta.

Mi piace pensare che, poiché ogni parola autentica nasce da una perdita, questo fuoco rimanga in attesa a ogni crocevia, a ogni curva, a ogni tornante in cui si racconta una mancanza, il franare di una persuasione, il venir meno di una certezza.

E accanto a un fuoco, forse, è possibile dare un nome alla perdita che riempie la vita, narrando il dentro e il fuori, il qui e l’altrove, come nella tragedia antica, che non è racconto luttuoso, ma narrazione degli inconciliabili, fare esperienza del limite.

La scrittura chiede alla lingua di resistere al sonno d’ombra nel donare fiato alla memoria dopo la caduta, malgrado il distacco, principiando dalla perdita., facendosi carico dell’azzardo di diventare indicibile, di contrarsi in un groviglio nella gola, di irrigidirsi in un lamento inarticolato, pur di dire una parola perduta e dispersa come il ricordo a cui deve il respiro.

Rilke dice di una bellezza che è tremore in quanto soglia dello sconosciuto, cioè del nuovo sul feriale, dell’imprevisto sul quotidiano, dell’incognito che frantuma ogni abitudine malata, in uno sforzo di agnizione che consenta di abitare il mondo.

 

2.

Ma oggi tutto questo può ancora essere vero?

Può essere vero nel tempo di quella diffusa malafede più o meno inconsapevole che Sartre chiamava mauvaise foi, una sorta di falsa coscienza, dove ogni elemento perturbante viene tenuto lontano?

Può ancora essere vero nel tempo del postmodernismo dilagante, dalle arti figurative alla storia, dalla filosofia alle scienze umane, delegittimando i valori e i fondamenti della modernità come la ragione, l’eguaglianza, la trasformazione del reale e vanificando ogni resistenza consapevole?

Può ancora essere vero nel tempo dell’ossessione della crescita economica, del monoteismo del mercato lasciato a se stesso e diventato un golem automatico, svincolato da ogni laccio, vezzeggiato nelle sue turbe, soccorso nei suoi vizi e che – identificando le cifre della produzione con quelle del benessere – scambia il tetto dei dividendi per la fortuna dei popoli?

Può ancora essere vero nel tempo della progressiva estinzione della democrazia, dello svuotamento degli strumenti della partecipazione, del decisionismo estemporaneo in nome della governabilità e dell’emergenza economica, della redistribuzione verso l’alto della ricchezza, della frantumazione e della precarizzazione del lavoro, dello smantellamento dei diritti economici e sociali più elementari?

Può ancora essere vero nel tempo della crisi di ogni senso che non sia quello della valorizzazione, con conseguente mercificazione totale delle cose e degli uomini, sacrificati all’essenza dell’Occidente che è essenzialmente volontà di potenza?

Può essere ancora vero nel tempo che omologa coscientemente ogni differenza in un analfabetismo di ritorno e in una sottocultura consumistica, relegandoci in un’esistenza postuma, che si aggira tra rovine in un dialogo tra morti?

Perché siamo sempre più gusci vuoti, una sorta di ectoplasmi, corpi svuotati e stremati sempre meno umani. Corpi inabili a trasformarsi in nulla, che parlano un linguaggio incenerito, senza memoria, solitari consumatori di merci, sensibili solo alla prosa del potere, incantati dall’imbroglio del superfluo e del piacere inabile alla dilazione che li avvilisce  fino all’afasia e all’ottusità.

Nel silenzio postumo (e definitivo) di dio.

 

3.

No, probabilmente non è più vero.

Eppure non rimane altro da fare che lasciare fascine di legna per l’inverno, scrivere lettere sconfinate a chi è lontano, affidare gusci di noce alle acque di un oceano in tempesta, dire una parola strozzata contro l’oblio.

Non rimane altro, finché il sangue durerà, che scrivere parole nella nostalgia incurvata di un colloquio perduto, parole così prossime alla notte da affamare di luce un vento di tramontana, così vicine allo sguardo, così contigue ai richiami, alla mortalità dei volti, amando come se sempre si apprestasse un ritornare, un voltarsi.

E forse, qualche volta, accadrà di vedere dentro una casa straniera un fuoco acceso che attende un ritorno.

 

 

Abbiamo lasciato il campo cantando

Etty Hillesum, ovvero ricostruire l’infranto.

Non c’è più deserto se tutto è in noi.

Non c’è più morte.”

(Yves Bonnefoy)

 

 

I.

Dante Alighieri nel Convivio chiama fortezza (“o vero magnanimitate”) la virtù che indica all’uomo che fugge “lo loco dove è da fermarsi e da pugnare”. Il riconoscimento di questo luogo è presumibilmente, prima e oltre ogni esito, determinante in ogni forma di combattimento: dalla qualità del fermarsi, dell’interruzione della fuga scaturisce in linea retta la qualità del pugnare. Ovvero: c’è un momento dell’esperienza in cui tutto il vivere, nella sua molteplicità e abbondanza di sentimenti, si converte in una sola necessità: quella di affrontare un combattimento.

Questo momento terribile, dove l’esposizione al pericolo non è più differibile, è propriamente il momento della fortezza.

In ogni tempo – a partire dal dialogo tra Ettore e Andromaca sulle porte Scee nel libro VI dell’Iliade – la poesia ha riconosciuto le passioni che si confondono nel cuore di un uomo che acconsente alla necessità della battaglia come un luogo simbolico della genesi del sentimento della poesia. Se l’opera del poeta è il contenitore che custodisce e tramanda la memoria dell’avventura terrena dell’eroe (“Sacri vasi i poeti sono, / dove il vino della vita, degli eroi lo spirito / si serba” scrive Hölderlin, ma l’idea è antichissima) è la stessa poesia, d’altra parte, a insegnare che la sostanza pregiata, il nucleo dell’eroismo non va rinvenuto sul terreno imponderabile delle vittorie conseguite, ma su quello, unicamente interiore e dunque inviolabile, dell’accettazione di quella necessità, dell’obbedienza a quella ineluttabilità.

Degli adolescenti greci pronti a immolarsi nella battaglia delle Termopoli, Leopardi potrà scrivere, nella canzone All’Italia, che si apprestavano al sacrificio, all’”acerbo fato” di una morte precoce, con la stessa leggerezza di chi si accinge alla danza o a una festa (“Parea ch’a danza e non a morte andasse / ciascun de’ vostri, o a splendido convito”). “Ridenti” definisce Leopardi i giovani guerrieri votati alla morte e in questo aggettivo sembrano compendiarsi quella pienezza di vita e quella sovrana energia spirituale che, divine prerogative degli Antichi, il poeta moderno, figlio di un tempo di povertà (direbbe Heidegger) e di disincanto, potrà solo celebrare con impotente nostalgia. Dentro questa struggente concezione della Storia (fondata sull’idea del tempo come caduta, separazione immedicabile da un bene originario perduto) non c’è nemmeno posto per il nome di un singolo individuo eroico. L’eroismo, più che una virtù privata, appare, a chi guardi agli Antichi dal baratro della modernità, come una generale condizione antropologica, a cui appartengono tutti i giovani greci, indipendente da qualsiasi forma individuale del carattere. È nel tempo presente, così come la poesia moderna l’ha concepito, che la sicurezza dell’eroe di fronte alla propria fine si caratterizza come la traccia di una singolare, irripetibile eccezionalità. Miracolosamente, quella forza condivisa da intere generazioni degli Antichi riveste di sé un individuo che sembra quasi non appartenere a questo mondo, tanto è faticoso ormai scrollarsi dalle spalle il fardello della paura, vincolo di una razza d’uomini che prova vergogna nei confronti del morire, figuriamoci a incamminarsi a pazzo di danza verso quel vuoto.

William Butler Yeats nella poesia Un aviatore irlandese prevede la sua morte racconta un solitario impulso di gioia (“a lonely impulse of delight”) che guida il maggiore Robert Gregory, caduto sul fronte italiano nel gennaio del 1918, a lasciarsi per sempre alle spalle la terra, per spingersi verso il “tumulto fra le nuvole” della sua ultima battaglia. L’aviatore irlandese -così come appare nel monologo immaginato da Yeats- è il custode di una gioia così solitaria da spezzare ogni legame con i suoi simili, una gioia che sacrifica ogni argomento umano (politico e morale, storico e psicologico) all’assoluta perfezione del gesto, dove non sono il dovere o la legge a spingerlo all’incontro con il suo destino, “da qualche parte fra le nuvole”. La sua forza consiste essenzialmente nella capacità di ripensare tutta la vita che precede quell’estremo momento verificandone, come in un risveglio a lungo atteso, la metafisica evanescenza. Passato e futuro non sono più conoscibili e franano in un unico, trascurabile “spreco di fiato” e l’uomo risiede pienamente nella purezza di un presente affrancato dalla soggezione simmetrica alla memoria e alla volontà. Viene alla memoria l’uomo orfico di Rilke, il “calmo amico delle molte lontananze”, anch’egli in grado di permanere in equilibrio all’incrocio di forze opposte, di dire “io scorro” alla terra immobile, ma anche “io sono” all’acqua che scorre. Yeats e il suo aviatore protraggono fino al limite estremo l’esercizio della conoscenza, nel tentativo di ritrarre, per quanto è possibile al linguaggio umano, il momento del trapasso, quell’appuntamento con il destino preannunciato fin dall’inizio del racconto. “In equilibrio con questa vita, questa morte”, come recitano le ultime parole del monologo, restano passato e futuro, ormai immiseriti a spreco di fiato: in equilibrio con questa vita che diventa questa morte.

Solo Tolstoj, credo, abbia descritto meglio questo risolutivo affrancamento dalla paura nelle ultime righe della Morte di Ivan Il’ič: l’ultimo pensiero del protagonista di Tolstoj, che vive la storia più “semplice, comune e terribile” che si possa raccontare, la storia del morire e della paura della morte, della malattia e dell’immedicabile solitudine del malato, è gremito di quella luce che cresce a misura del dissolversi del timore. È finita la morte, dice Ivan: finisce quella morte che affligge l’uomo incapace di prendere congedo dal vivere.

Certo, l’aviatore di Yeats sconta un grave tributo alla mitologia novecentesca dell’inimitabile e la sua stessa perfezione, nel consegnarlo a una morte giovane, sigilla una distanza incolmabile con i suoi simili. Affinché questa virtù della fortezza si incarni umanamente, forse dovrà scaturire dal suo contrario, essere l’esito di uno smarrimento, di un timore innominabile, forse anche di una umiliazione. Nel capitolo XII della sua lettera più autobiografica, più sferzata da affetti e risentimenti personali, la seconda ai Corinzi, Paolo di Tarso ha descritto questa possibilità umana di fortezza, edificata su fondamenta interiori tanto più durevoli quanto più è acuta la consapevolezza della propria tremante, creaturale fragilità, apparente paradosso dell’idea di un’impensata germinazione della forza dall’inermità: “virtus in infirmitate perficitur”, dice la Vulgata. Che cos’è quella “spina nella carne” che Paolo confessa? Certo appartiene alla sfera corporea, ma come tutti i patimenti non esaurisce in sé il suo significato, ma allude a quella morte senza nome, quel volto della medusa sul quale l’infermità – come viene descritto con straziante trasparenza nella Morte di Ivan Il’ič – apre agli occhi degli uomini un agghiacciante spiraglio. E allora comprendiamo che quella forza, per potersi incarnare e dispiegarsi, necessita a sua volta della debolezza cui porge soccorso, in un rapporto di mutua implicazione, e in cui la forma della forza è definita dalla particolare e unica configurazione dell’infermità.

Ed ecco che il loco di cui parlava Dante diventa il luogo in cui la molteplicità dei desideri e delle nature trova una forma di convivenza che è possibile solo nel conformarsi alle possibilità che di giorno in giorno il passare del tempo offre al vivere.

 

 

II.

Le pagine di un diario scritto da una studentessa ebrea di Amsterdam durante i mesi dell’occupazione nazista tessono, tra fatiche e turbamenti, la consapevolezza che è solo l’inermità della vita, integralmente accettata in quanto tale, che dona un possibile profilo a quella forza e la sorregge.

In queste pagine nulla racconta di un eccesso o di una ridondanza di ricchezze interiori: la vita interiore di questa studentessa di letteratura russa che si chiamava Etty Hillesum, è assolutamente normale. Quando osserva la forza del nemico non è per sfuggirle, né per cercare illusioni sulle intenzioni dei nazisti riguardo a lei e alla sua gente, né per combatterla sul suo stesso piano.

La sua intuizione sostanziale, trasformata in pochi mesi in ferma condotta di vita, riguarda la finalità ultima di quella forza ostile: l’annientamento della dignità morale della vittima ancor prima che della sua esistenza fisica.

Etty ha compreso che l’unica forma di resistenza al Male si trova all’interno di individui persuasi ad amare la vita contro ogni evidenza, rischiando se necessario anche un’apparente estraneità troppo facilmente imputabile di egoismo. Lo spazio di questo amore, incrinato e diffidato giorno dopo giorno, è ciò che potremmo definire l’anima di Etty: “Chi riposa in se stesso” scrive “non tiene conto del tempo; una vera maturazione non può tenere conto del tempo”. Quanto più incalza lo stato d’emergenza, quanto più la precarietà e lo smarrimento diventano la misura quotidiana del vivere, tanto più è necessario sciogliersi dai legami della temporalità, scavare dentro sé verso la sorgente di quel riposo.

Che cosa significa questo? Significa che la forza di cui abbiamo parlato fino a ora potrà abitare (compiersi, nel vocabolario paolino) solo in chi sarà stato capace di spezzare ogni legame di complicità con la morte e il suo pervasivo linguaggio. Etty non odia i tedeschi poiché è dentro di sé – là dove la necessità storica non può perpetuare il suo ricatto – che scopre le condizioni di un rapporto veramente libero con il mondo.

E in fretta, senza nemmeno affinare il proprio mezzo linguistico, Etty impara a pregare; l’esercizio della forza, scrive, è “pronunciare il nome di Dio”. La preghiera, unitamente all’esperienza dell’amore e alla lettura dei libri che ama (una sua preoccupazione è riuscire a far entrare nello zaino per il campo di concentramento L’idiota di Dostoevskij e il Libro d’ore di Rilke) è la barriera insopprimibile che erige dentro sé a fronte del potere di distrazione posseduto dagli eventi che devastano il mondo circostante. Etty impara faticosamente (lei che in alcune righe confessa la propria difficoltà e ritrosia a inginocchiarsi) a trasformare il tragico di quel mondo nella conciliazione del suo spazio interiore.

Etty non esita a impiegare il nome “Dio” per quanto a un certo punto confessi la propria perplessità a riguardo: Dio le sembra una sorta di “metafora”, “una costruzione di fortuna” o un semplice “approccio” alla sua avventura interiore. Non importa che Dio possa sembrare un nome forse sovraccarico di tradizione, forse superfluo o inadeguato a rendere la semplicità delle acquisizioni raggiunte: Etty necessita di un interlocutore nel proprio dialogo interiore (dove in realtà si rivolge a una parte di sé), ha bisogno di mantenere aperta la relazione con un’alterità che, conservando una distanza da sé, la salva dalla deriva intimistica e dallo sprofondamento in se stessa. Dio è il dativo e il vocativo in cui trasferire e svuotare un sentire che, più scende in profondità, più abbisogna di una dimora.

Non è vero che sia estranea al mondo, alla realtà, alla storia. E non solo per le numerose parole di comprensione dei bisogni del prossimo, per il suo altruismo, ma proprio per la qualità del suo sguardo che sacrifica l’aspetto transitorio a favore di un contenuto immemoriale e immutabile, che potremmo definire come il silenzio del divino che abita lo schiamazzo delle cose. La preghiera è per lei un piegarsi nella direzione di questo silenzio.

In realtà Etty aderisce nella forma più profonda al suo tempo, scavandone con tenerezza l’impossibilità che lo pervade; stringe il suo tempo come se dovesse spogliarsene stringendolo, come se non fosse un tempo quotidiano, ma tutto il tempo di una vita.

Quando scrive “Non possono farci niente, non possono veramente farci niente” non sta sperimentando un espediente retorico di rassicurazione, né scrive in nome di un’ascetica rassegnazione al male, ma esorta a una accettazione di un dolore che non ha scelto. Ormai internata nel campo di Westerbork (un campo di passaggio in attesa della destinazione finale) scrive in una lettera a un’amica: “La gente non vuole riconoscere che a un certo punto non si può più fare, ma soltanto essere e accettare”. Occorre però comprendere bene la natura di questa diffidenza verso il fare, considerando anche che, nella situazione estrema in cui scrive, non ha tempo o modo di adeguare le parole alla complessità dei pensieri. La vita interiore deve ancorarsi al presente, sottrarsi a quell’agire che, angosciosamente proteso sulle sue conseguenze future, trasforma qualsiasi esperienza in una prolungata, prostrata e umiliante attesa della morte. Ecco, nel presente – come appare chiaro a Ivan Il’ič nell’estrema intuizione del suo sentire – finisce la morte, quell’ipoteca che il timore del futuro proietta sul paesaggio della conoscenza e ne intorbida i colori e ne deforma le linee. Chi tiene stretto il presente fra le dita custodisce il bene dell’esperienza, abbandona ogni ostinazione di possesso, svincola l’amore dalla paura della privazione e dal computo del dare e dell’avere, del giusto e dell’ingiusto.

Alla scrittura, che si alza sopra il coro delle lamentazioni, è demandato in queste pagine un ruolo molto più complesso di quello della pura testimonianza. Si tratta di dare forma a un mondo, anzi a un’invenzione del mondo nel quale – grazie a un esercizio di quella forza che cresce nel grembo della più insanabile prostrazione – anche frantumi e schegge di macerie, se pur con dolorosa fatica, possano raccontare altro al di là della cupa evidenza del proprio disfarsi. E qui – come precisa in un suo saggio Wanda Tommasi – Etty, con la sembianza della scrittura come ciò che scaturisce da una sorgente interiore, “dimostra di avere grande fiducia nel lavoro inconscio che si compie dentro di noi, a nostra insaputa, in una sorta di passività attiva, quello della gestazione e della maturazione interiore”.

Non si tratta di salvezza, né di redenzione, né di riscatto: nulla allontana o rallenta il corso del dolore, nulla redime o attenua la memoria dell’ingiustizia che colpisce l’innocente, del dolore consegnato ai deboli. Etty ben sa che l’unico misticismo plausibile è quello che nasce da una concreta e disillusa conoscenza della realtà. La sua forza, che è assoluta indipendenza spirituale, non la innalza dalla terra, dall’ineludibile vincolo delle necessità.

Etty non possiede né l’infantile purezza del cuore di Anna Frank né le salde certezze della fede di Edith Stein: né ebrea né cristiana, né donna né bambina, né madre né figlia, costruisce dal nulla il suo tempio invisibile con il povero materiale che le è toccato in sorte.

Il suo è stato un cammino assolutamente personale, guidato, scrive Gaarlandt, il primo editore dei Diari, da “un ritmo religioso tutto suo, che non è dettato da chiese o sinagoghe, né da dogmi, né da nessuna teologia, liturgia o tradizione, cose che le erano completamente estranee”.

Per questo l’opera di Etty Hillesum si stabilisce su quel ponte che la letteratura crea tra storia e sentire umano, ci consente di sentire la dimensione esistenziale della Shoà. La sua esperienza spirituale è profondamente psicologica e poetica (e proprio per questo così concreta e capace alla fine di donazione completa di sé): il divino liberato dalla paura si esprime poeticamente, e anche qui Etty – attraverso Rilke, il poeta più amato – si connette alla linea poetica che da Friedrich Hölderlin in poi, e fino a Paul Célan e a Mario Luzi, esperimenta un dire trans-egoico che, ponendosi in ascolto delle proprie profondità, assiste, per dirla con Rimbaud, “allo schiudersi del pensiero: lo osserva, lo ascolta”.

E in questo ascolto il dire scopre di essere aperto dentro di sé, scopre di essere abitato da dimensioni altre, da profondità abissali, da altre parti di sé tutte da scoprire e con cui entrare in relazione. L’Altro cioè non è solo fuori di noi, ma è dentro di noi, ed Etty ricorda frequentemente che il Male è anche dentro di noi: “il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi”, scrive. Questo fu d’altronde il nucleo profetico dell’intuizione sul destino del ventesimo secolo racchiuso sia nello Hyde di Stevenson che ne I démoni di Dostoevskij: l’ombra mostruosa rimossa dall’ego occidentale è destinata a emergere e travolgere la maschera di razionalità di cui l’europeo tra 800 e 900 si era ammantato.

III.

Etty Hillesum muore ad Auschwitz il 30 novembre del 1943.

Il 7 settembre, prima di salire sul vagone che la porterà ad Auschwitz, ha modo di gettare sulla banchina della stazione di Westerbork in Polonia una cartolina su cui ha scritto le sue ultime parole, affidandole alla pietà di una mano che le raccogliesse: “Abbiamo lasciato il campo cantando”.

Ci diciamo parole oscure

Paul Celan o narrare l’indicibile.

 

 

  1. Narrare l’indicibile è materia da sopravvissuti.

A proposito dell’Olocausto, Imre Kertész si chiede se una lingua capace di dire l’orrore non rischi di essere così terribile e funebre da distruggere chi la parla[2]. Elie Wiesel si è a lungo interrogato sulla parola inadeguata che “minimizza l’esperienza vissuta, più che trasmetterla[3]. Gorge Steiner asserisce che “il mondo di Auschwitz si trova al di fuori del discorso, com’è al di fuori della ragione[4]. Jean Améry, nel suo Intellettuale ad Auschwitz, si sofferma “sull’opportunità di varcare la soglia dell’espressione verbale[5]. Primo Levi, alla vista dei suoi compagni trasfigurati in fantasmi miserabili, misura quanto “la nostra lingua” manchi “di parole per esprimere[6] l’offesa che annienta l’essenza dell’umano.

E potrei continuare.

Ognuna di queste riflessioni sembra sancire lo scacco del linguaggio, la sua resa all’inesprimibile, poiché le potenzialità comunicative della lingua vengono trascese dalla qualità dell’evento: la lingua è costitutivamente inabile, inadeguata, manchevole, profondamente lontana dal suo oggetto. Mentre racconta, misura la sua impotenza. Il silenzio, l’ammutolire sembrano l’unica risposta adeguata all’orrore.

Walter Benjamin – in cui i rapporti fra narrazione ed esperienza sono centrali in molte sue riflessioni – parla di “atrofia dell’esperienza[7], che è anche l’atrofia della possibilità di narrare.

Eppure, proprio mentre constatano “la non dicibilità del negativo assoluto[8] – per usare un’espressione di Pier Vincenzo Mengaldo – non rinunciano a narrare la propria esperienza, ciò che hanno visto e provato; esprimono cioè una irreparabile aporia.

Unitamente alle varie dichiarazioni di indicibilità, ciò che angoscia i sopravvissuti è l’incertezza della credibilità delle loro testimonianze[9], perché ciò che è indicibile non è credibile e se l’indicibilità spegne l’evento, la non credibilità cancella il testimone e disconosce, vanifica la sua sofferenza, la rende fantastica.

A questo proposito Jorge Semprun afferma che “raccontare bene significa: in modo da essere capiti. E ciò non sarà possibile senza un minimo di artificio[10]. E continua: “soltanto coloro che sapranno fare della loro testimonianza un oggetto artistico, uno spazio di creazione, o di ricreazione, riusciranno a raggiungere questa sostanza, questa densità trasparente[11].

La testimonianza deve tendere a diventare una forma d’arte, in altre parole lo scrittore deve maturare un’attenzione profonda alla costruzione formale di ciò che racconta per far sì che la propria testimonianza non nasca già morta. La drammaticità della propria esperienza narrata passa in definitiva attraverso una retorica del racconto, dove il grido soffocato riesce a farsi parola, il caos dell’afasia o del balbettio si organizza in discorso, si fa logos.

Blanchot in pagine densissime ha esposto interrogativamente il problema della “custodia”, ovvero della trasmissione della Shoa, che rimanda alla sua traduzione linguistica: “L’olocausto, evento assoluto della storia, storicamente datato, questa bruciatura-totale in cui l’intera storia si è incendiata, in cui il movimento del Senso si è inabissato, in cui il dono, senza perdono, né consenso, è andato in rovina senza donar luogo a nulla che possa affermarsi, negarsi, dono della passività stessa, dono di ciò che non può donarsi. Come custodirlo, almeno nel pensiero, come trasformare il pensiero in un pensiero che custodisca l’olocausto in cui tutto si è perduto, anche il pensiero custode?[12]

  1. Paul Celan non entrò mai in un campo di concentramento da deportato. Ma, come scrisse Ladislao Mittner – uno dei germanisti più famosi e autore tra l’altro di una colossale storia della letteratura tedesca – la sua poesia “è nel suo insieme un grandissimo requiem[13] sugli ebrei sterminati dal nazismo.

Originario di Czernowitz, nella rumena Bucovina – un territorio oggi diviso tra la Romania e l’Ucraina, che fa parte della Moldova – a seguito dell’occupazione tedesca fu rinchiuso nel ghetto per poi riuscire a nascondersi in un luogo sicuro che gli permetterà di sfuggire ai campi, a differenza dei suoi genitori che, per una sorta di rassegnato fatalismo, rinunciano alla fuga.

Tornato in qualche modo alla normalità dopo la liberazione ad opera dell’Armata Rossa, Celan visse in uno stato di grande prostrazione per la perdita dei familiari (in particolare della madre, cui era particolarmente legato) e per il senso di colpa di non averli salvati e di essere egli vivo. Attraverso diverse testimonianze, conobbe direttamente gli orrori dei campi di lavoro, le condizioni dei deportati e i massacri compiuti dai tedeschi, accrescendo dentro di sé un dolore che si farà smarrimento e che cercò di superare e di elaborare attraverso l’esercizio della poesia.

A parte alcuni scritti giovanili raccolti in un volume dal titolo Scritti rumeni, Celan scriverà sempre in tedesco, sostenendo che solo nella lingua materna si può esprimere la propria verità. La lingua materna è la sola dimora che resta, malgrado la spaesamento dell’uomo nel mondo (quello spaesamento che Heidegger considera il destino dell’uomo)[14]; “come una specie di seconda pelle […] l’idioma materno non si può tradurre e non si può tradire[15]. E infatti Celan guarda alla sua lingua come a qualcosa che, tra tante perdite, rimase intatta: Unverloren, non perduta scrive Celan[16] e vuol dire insieme il timore che vada perduta, ma anche lo sforzo per non perderla. Perché il rischio è che si riveli estranea proprio quella lingua che, pur non avendo scelto, ci attraversa da parte a parte, che è il luogo delle nostre sofferenze, delle nostre passioni, dei nostri desideri, che dà voce ai nostri pensieri, alle nostre speranze, proprio quel luogo intimo, in cui non potremmo non identificarci. “La lingua materna è me prima di me, prima che io possa dire io.”[17]

Già nei primi testi possiamo rinvenire la ricerca di un io incapace di agire e di muoversi all’interno di un dramma esistenziale, nonché l’ossessione della morte, quasi a prefigurare la sua tragica fine. Nelle liriche successive emergono sostanzialmente due nuclei tematici: il ricordo del lutto, del male e – quasi a essere una sorta di antidoto – la viva rappresentazione di situazioni amorose. Tutto ciò attraverso una scrittura tramata da una serie continua di immagini criticamente allusive, ma anche di grande concreta evidenza nella loro “tragicità testimoniale”.[18] Per Celan la tragedia del genocidio ebraico non ha e non può avere corrispettivo nella parola comune, nel suo significato corrente, ma solo nella unicità della trasformazione analogica, della trasfigurazione metaforica dove risuona tutto lo strazio che lo segnerà fino alla fine.

Vorrei proporvi ora solo un piccolo estratto di una poesia che s’intitola Todesfuge, cioè Fuga della morte:

Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera

noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte

noi beviamo e beviamo

noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto

Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive

che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete

egli scrive egli s’erge sulla porta e le stelle lampeggiano

egli aduna i mastini con un fischio

con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra

ci comanda e adesso suonate perché si deve ballare

[…]

Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte

noi ti beviamo al meriggio la morte è un Mastro di Germania

noi ti beviamo la sera come al mattino noi beviamo e beviamo

la morte è un Mastro di Germania il suo occhio è azzurro

egli ti coglie col piombo ti coglie con mira precisa

nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete

egli aizza i mastini su di noi ci fa dono di una tromba nell’aria

egli gioca colle serpi e sogna la morte è un Mastro di Germania

i tuoi capelli d’oro Margarete

i tuoi capelli di cenere Sulamith[19]

Allora, senza dilungarmi nell’analisi della struttura del testo (la stretta rete di rapporti delle metafore, il gioco degli echi, le variazioni tematiche ecc.): da una parte musicalità del dettato (quasi una danza macabra), dall’altra evocazione metaforica. Quindi, tentativo di unire il bello estetico e il dolore indicibile che strozza la voce. Celan attraverso un ristretto novero di nuclei tematici variamente allegorizzati e consecutivamente riproposti in variazioni che ne rinnovano il valore (Mittner a questo proposito ha indicato il genere musicale della “fuga a quattro voci”)[20], attraverso analogie che convertono simbolicamente le immagini esaltandone l’intensità poetica, si incarna nel dolore dei condannati, facendo propria la loro voce resa muta, parlando la loro inesprimibile, inaccessibile lingua di morte, come per offrire ai Mani della memoria il proprio tributo di sopravvissuto.

La scrittura di Celan, sempre prossima a spezzarsi, può essere letta come un infaticabile e affannoso impegno quasi sacrificale di medicare per noi lo scandalo dell’orrore “portando la poesia allo stesso grado di incommensurabilità[21]. Adorno scrisse che le poesie di Celan narrano col silenzio l’estremo orrore: esse mimano una lingua al di sotto di quella manchevole e inadeguata degli uomini, anzi, dice Adorno, “al di sotto di ogni lingua organica, imitano la morta lingua della pietra e della stella[22].

  • È stato osservato come Celan sviluppi una scrittura che ha anche un rilievo poetologico. Per chi non lo sapesse, la “poetologia” (o logica poetica), contenuta nella “Poetica” aristotelica, definisce i compiti del poeta e dello storico e assegna alla poesia una funzione filosofica superiore alla storia. In Celan questa rilevanza poetologica è data dalla sua drammatica riflessione intorno al rapporto possibile tra il dire poetico e l’indicibilità dell’oggetto. “Oggetto specifico, e non la realtà come tale”.[23]

È il problema della dicibilità di un’esperienza unica, di per sé indicibile, che per Celan deve trovare tuttavia le parole che la dicano, parole esatte, cioè giustenel senso dell’ebraico tzaddìk,[24] per fedeltà verso i morti, per evitare l’oblio sul loro dolore. Peter Szondi, grande lettore di Celan, scrisse che la morte e la memoria dei morti sono all’origine di tutta la poesia di Celan.[25]

Ecco, la poesia di Celan – dove affiorano spietati simboli di sofferenza, visioni inquietanti pervase di significati biblici, mutuati dalla cabala[26] – è un dialogo disperato alla ricerca di colmare lo iato irriducibile che separa parola e oggetto, è conversione in infinito della pura mortalità e lettera morta.Per Celan il poema è l’atto spirituale per eccellenza, procede verso l’utopia, nell’impraticabile sentiero dell’impossibile, interruzione e insieme difesa del concetto di bello, ricerca ed interrogazione dell’Altro, lamento di lamento, accusa verso l’oblio e l’indifferenza davanti all’orrore.

C’è una prossimità, una contiguità, se non un legame determinato, tra corpo minacciato dalla morte e il linguaggio insidiato dal silenzio. Un linguaggio che, come in Paul Celan, chiede alla poesia di proseguire a dire dopo le rovine, malgrado le rovine, muovendo dalle rovine. Una poesia ai confini dell’indicibile, spinta alle soglie del silenzio, che rischia il silenzio per esprimere la contraddizione di una parola bruciata.

La discesa di Celan nel mondo delle tenebre (che lo inghiottiranno, perché l’ombra lunga della Shoa raggiunse anche i suoi superstiti), la catabasi agli inferi della memoria immaginativa avviene grazie a una simbologia cifrata, iniziatica, in una lingua che si costituisce come sistema a sé stante con significati propri al limite della comunicazione umana, un’altra lingua, una contre-langue capace di testimoniare un’assenza[27], una lingua disumana come è la negazione dell’uomo, una lingua del morire per dar voce ai morti. Se, come ebbe a sostenere Hegel, la dimora del poetare è l’interiorità, l’olocausto è stato ciò che ha distrutto l’io, la dimora interiore della poesia, creando uno stato di lutto permanente che Celan esprime attraverso il suo “pauroso ammutolire”. Non dimentichiamo che il tedesco, la lingua di Celan è anche la lingua del nazismo: condivisa dagli assassini; per rinascere in Celan ha dovuto riempire un vuoto, come fosse stata partorita da un lutto,[28] ha dovuto ritrovare i veri nomi delle cose nello sforzo sovraumano di una nuova agnizione, di una diversa nominazione, iterando il gesto di Adamo, dando un nome alle cose come esistessero per la prima volta nello stupore della sua meraviglia.

Un poetare che la “schmerzliche Reim”, la dolorosa rima, frantuma, piega all’accoglimento del salmo e della negazione, del ricordo e della visione, della cenere e del nulla. La distruzione – della vita, del senso, della storia – abita la sillaba, e scompiglia l’ordine espressivo. Sullo sfondo, la terra dell’addio, cioè il perduto “paese di fontane”, il cielo, l’immagine della madre: la lingua non fa che nominare l’esilio. Esilio che è nel cuore stesso delle parole: “con nomi imbevuti di ogni esilio” Celan ha attraversato con l’asprezza di una solitudine immedicabile la terra della poesia.

Celan non ha cercato di rappresentare la realtà attraverso la poesia, ma di far diventare la poesia realtà.[29]

Ma questo è possibile solo affacciandosi sul ciglio del silenzio, dell’afasia, nel disperato e incerto desiderio che solo attraversando l’indicibile sopraggiunga il tempo dove è possibile forse instaurare un dialogo, dire la parola caduta nell’abisso e custodirla:

 

 

Corona

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.

Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:

lui ritorna nel guscio.

Nello specchio è domenica,

nel sogno si dorme,

la bocca fa profezia.

Il mio occhio scende al sesso dell’amata:

noi ci guardiamo,

noi ci diciamo oscure parole,

noi ci amiamo come papavero e memoria,

noi dormiamo come vino nelle conchiglie,

come il mare nel raggio sanguigno della luna.

Noi stiamo allacciati alla finestra, dalla strada ci guardano:

è tempo che si sappia!

È tempo che la pietra accetti di fiorire,

che l’affanno abbia un cuore che batte.

È tempo che sia tempo.

 

 

Con questi frammenti ho puntellato
le mie rovine

ovvero apocalypsis cum figuris

Solo la nudità alla fine ci raggiunge[30]

Antonella Anedda

Prologo: la dispersone in frammenti.

Un inquieto presagio di apocalisse percorre gran parte della letteratura del Novecento, come uno spettro che chieda udienza a una coscienza distratta e colpevole, con la minaccia di affiorare, di venire alla luce con il suo carico di devastazione, di caos, di sovversione, oscurando sempre più paesaggi, sguardi e orizzonti.

Se per frammenti si può parlare di frammenti (il che significa che il frammento deve possedere una sapienza, deve cogliere l’essenziale, perché non è la parte di un tutto, ma è quella parte che sa contenere il tutto o alludere a un tutto o indicarlo, non è il coriandolo emotivo o l’epigramma biografico), allora proverò un attraversamento di due opere apocalittiche, nate da una immedicabile crisi personale dei rispettivi autori ma che – per la natura stessa della scrittura e per le dilatazioni di senso che la letteratura sa generare – hanno raggiunto una valenza storica collettiva, diventando metafora proprio nel senso etimologico di trasferimento di significato.

Sono due altrove letterari in cui l’allucinazione è il compimento di una esasperazione nervosa portata all’estrema tensione narrativa, espressione di quella “sindrome che è l’essere moderni[31], come l’ha definita Gianni Celati. La dispersione in frammenti di una precedente unitaria tradizione, lo svelamento della disarticolazione della totalità (la celebre “anarchia di atomi[32] di Nietzsche) presenta tra gli esiti l’affiorare della figura del collezionista e il decretarsi di un mito: quello del bazar archeologico, che recupera, cercando di riscattarli, scarti, scorie e rifiuti strappati alla loro origine, un bazar carico di tonalità infernali.

La terra desolata

Il primo testo a cui mi riferirò è La terra desolata di Thomas Stearn Eliot, che restituisce con forza il “consapevole disorientamento di un’epoca[33], sbocco di una crisi personale che allo stesso tempo documenta la crisi di una civiltà. Nel 1921 Eliot ebbe un crollo nervoso originato, cito dalle sue stesse parole, da “un’abulia e uno sconvolgimento emotivo che è stata una sofferenza permanente”, e legato a gravi tragedie personali: la guerra gli aveva interdetto il ritorno a Parigi, impedendogli allo stesso tempo di raggiungere la famiglia in America, e aveva ucciso l’amico Jean Verdenal, cui Eliot aveva dedicato nel 1917 la sua prima raccolta di poesie. Il padre era morto nel 1919, la moglie Vivienne stava sprofondando nella follia.

La terra desolata è una partitura/mosaico in cinque stazioni, o movimenti, in cui si mescolano – ma sarebbe meglio dire si accalcano, si ammassano – ironici “conversation pieces” (quella pittura inglese del Settecento che rappresentava famiglie dell’aristocrazia e dell’alta borghesia con i loro bambini, i domestici, i cagnolini: figure deliziose, eleganti, aggraziate delle quali grande è la tentazione di immaginare le passioni e i vizi, al di là della fissità del quadro) e ritorni al sublime, citazioni dai classici e dalle filastrocche infantili, dalla Bibbia e dalla filosofia indiana, in una struttura frammentaria e plurilinguistica, dovuta anche alla spregiudicata operazione di bricolage attuata da Pound sul corpo originario del poema, ma basata essenzialmente su uno schema mitico ricalcato sul libro From Ritual to Romance di Jessie Weston (che indagava la sopravvivenza di rituali pagani di fecondità nella leggenda medievale del Graal), con suggestioni tratte dal Ramo d’oro di James Frazer, classico dell’antropologia.

I rimasugli di una tradizione storica frantumata da un trauma epocale convergono nell’ordinato disordine di quella che sembra una rassegna archeologica. Il mosaico di Eliot manca di molte tessere; a volte più che un mosaico sembra un collage surrealista del tipo di quelli di Max Ernst, con ritagli monumentali della Déscription de l’Egypte (che fu una serie di pubblicazioni, iniziata nel 1809 e proseguita fino al volume finale pubblicato nel 1829, che conteneva una descrizione scientifica completa dell’antico e del moderno Egitto), affiancati a figurine di obsoleti cataloghi di moda o illustrazioni dei romanzi di Verne. Una struttura che ha fatto subito “modernità”, motivata da un verso divenuto famoso: “con questi frammenti ho puntellato le mie rovine[34].

Ma cosa interviene a tenere insieme i frammenti?

Nelle intenzioni dell’autore, e nella maggioranza delle interpretazioni, l’agente di coesione è il sottofondo mitico. Un sincretismo che disponga in parallelo diversi racconti mitici ed epoche lontane fra loro, insinuando il senso di una compresenza, è per Eliot l’unico modo di mettere ordine nel caos della disperazione postbellica (“Vent’anni in gran parte sciupati, gli anni dell’entre deux guerres[35], avrebbe scritto anni dopo nei Quattro Quartetti).

Una delle caratteristiche della modernità come si è affermata nel Novecento è l’operare con frammenti, detriti, relitti strappati alla propria origine, rifiuti di una tradizione allo stremo, con simboli che non è più possibile connettere all’altra parte con cui formavano una totalità, e dunque bisogna necessariamente riconsiderare, intendendoli non più come pezzi di preesistenti unità disintegrate, ma come nuove totalità.

Poema apocalittico e iniziatico, di morte e rigenerazione, The Waste Land presenta un significativo uso dei rifiuti, e degli sconvolgimenti climatici, come correlativi dell’ansia della fine e dell’abiezione in cui è precipitato l’uomo senza più miti. Il poema stesso appare come un paesaggio devastato dopo che un fiume melmoso ha trascinato con sé detriti e relitti; paesaggio da cui emergono, come monoliti in rovina, suggestioni decadenti, di decorativismo ottocentesco (alla Swinburne, come nella prima sequenza di Una partita a scacchi), citazioni dissimulate e deliberate riscritture da poeti francesi e latini, scene dialogate e apparizioni ironiche e tragiche.

Quella della catastrofe climatica o naturale, come ha ricordato Piero Camporesi[36], è una tradizionale componente della “condizione infernale”, insieme all’accalcarsi, allo stiparsi dei corpi, e alle deiezioni: marciume, fango, escrementi. L’inferno come cloaca, discarica. Se Piero Boitani ha potuto definire a ragione l’intero poemetto come “inferno rivisitato[37], altri lettori, come Northrop Frye, vi hanno applicato il modello della “discesa agli inferi[38] come allegoria dell’iniziazione[39], e Mario Luzi vi ha colto la desolata testimonianza “dello smarrimento dell’uomo contemporaneo che ha perso il senso del sacro[40].

Al termine dell’attraversamento della Terra desolata, nonostante la tensione di Eliot verso una soluzione metafisica, ciò che rimane nella memoria è l’immagine del “mucchio di immagini infrante[41].

Attraverso la connessione di pezzi sparsi della tradizione poetica in vista dell’aspirazione a una rinascita, Eliot denuda il proprio stesso disorientamento di poeta terminale di un intero corso storico, che egli stesso ha tradotto in una personale genealogia canonica che va da Virgilio a Dante a Baudelaire, passando per i drammaturghi elisabettiani e i poeti metafisici inglesi. Ma al contempo riferisce dell’esigenza di una rigenerazione che non può fare a meno del confronto con il passato, anzi deve riattraversarlo. Il poeta-rondine, privato della lingua (come nel mito di Filomela narrato da Ovidio[42])  balbettando e stridendo dà il suo annuncio al mondo.

Frammenti, ritagli, schegge, avanzi, brandelli, residui, incollati assieme in un assemblage apparentemente arbitrario, si ricombinano dunque in un quadro nuovo. Quella collezione di disiecta membra con cui Eliot ha puntellato le sue rovine non è più formata da reliquie sacre, ma da relitti archeologici, che chiamano a una nuova interpretazione nel nuovo organismo frammentario in cui sono riassorbiti; perché la tempesta, il trauma storico, li ha separati dalla loro unità originaria.

Sono le aride ossa[43] della civiltà che pregano sulla spiaggia dopo il disastro[44]; disarticolati, affastellati l’uno accanto all’altro, i frammenti riacquistano una nuova unità secondo nessi e contesti attraverso un nuovo oggetto: il resto-citazione, che riecheggia negli altri, alludendo pur sempre alla propria estraneità di reperto.

L’altra parte

 

Vorrei continuare presentando L’altra parte di Alfred Kubin, illustratore e romanziere boemo, noto per le sue espressioniste invenzioni: scure, spettrali, simbolicamente eccedenti, spesso assemblate in serie tematiche di disegni. L’altra parte è un’opera singolarissima, definita da Roberto Calasso “esempio di fantastico allo stato chimicamente puro[45]; un romanzo che influenzò sensibilmente Kafka[46].

L’ambiente che fa da sfondo all’unico romanzo scritto da questo pittore (per cui l’aggettivo visionario non è affatto di circostanza) e pubblicato nel 1909, è una città fantastica chiamata Perla, un mosaico di ruderi, di antichità, di avanzi decrepiti e corrosi del passato, depredati da tutti gli angoli del mondo. Ma dietro Perla si intravede Praga, trasfigurata dalla potente deformazione che la rende la capitale di un “Mondo del Sogno” che è lo stato personale di un enigmatico ed elusivo dittatore, Klaus Patera. Il quale ha convocato a Perla tutti gli oggetti dimenticati, passati di moda, relegati nelle soffitte: la città è una scena teatrale composta di fatiscenti case, costumi obsoleti, tecnologie arretrate, secondo le suggestioni di una poesia del banale e delle cose comuni che ha molteplici connessioni sia con alcuni tratti del simbolismo europeo sia con i fermenti destinati a sfociare nelle avanguardie artistiche del primo ‘900. Gli abitanti sfoggiano crinoline e panciotti di metà Ottocento come in una mascherata alla Ensor, e il magnetismo delle case è tanto potente che a volte sembrano loro i veri individui. Il clima contra naturam è ancora una volta il dato essenziale che muove la rappresentazione verso l’ordine apocalittico: Perla è immersa in un crepuscolo costante, in una nebbia perenne e in un caratteristico odore. Perla è affondata in un incantesimo di decomposizione, di corrosione: emanazione diretta del potere spettrale e invasivo di Patera.

Il romanzo è accompagnato da 48 disegni a penna, dai tratti fitti e frenetici (“psicografie” le chiama Kubin) che diventano sfondo irrinunciabile e crepuscolare della flânerie nella poesia oggettuale di una città-rifiuto, il sortilegio di una città-mercato di ciarpame e cianfrusaglie il cui fascino rimanda a Praga così come l’ha memorabilmente descritta Ripellino in Praga magica[47], cioè un autentico “mercato di ciarpe e cianfrusaglie” in cui l’accozzaglia di oggetti eterogenei, decrepiti e disparati provoca uno choc di altro tipo rispetto a quello del sublime classicamente inteso.

È il sublime triviale, quel sublime all’altezza della vita che ha cominciato ad abitare i romanzi a partire da Puskin e Balzac[48], da cui si irradia quell’aura che affascinava i collezionisti descritti da Benjamin (come Eduard Fuchs[49]), il cui orgoglio di possedere tutto e raccogliere tutto era radicato in un titanismo tipico della generazione francese del 1830. Gli escrementi, gli oggetti penosi e degradati che la coscienza reale disprezza, sono riscattati in letteratura e originano piena euforia estetica.

La critica ne sottolinea l’aspetto apocalittico e giustamente lo inserisce nell’atmosfera di rovina del cadente mondo austriaco: Paolo Chiarini giudica L’altra partenon soltanto frutto di un incubo notturno, ma altresì prefigurazione poetica della fine di un mondo di cui essa è l’altra parte[50]; Ernst Junger così commentò la sua opera grafica: “Ciò che vediamo qui riflessa è la fine della vecchia Austria”[51] Mittner lo definisce un romanzo tipico dell’espressionismo ceco-praghese[52]; per Furio Jesi è una sorta di anticipazione mitica e visionaria di Hitler e del nazionalsocialismo[53]

Così ne scriveva invece Angelo Maria Ripellino recensendo quella “apocalisse in stile liberty” che è La nube purpurea di Matthew Phipps Shiel: “Il terrore si propaga per vie olfattive. Penso ai miasmi di vecchie robe stantie e di cianfrusaglie muffite, «sottile miscuglio di farina e di stoccafisso secco», che esalano dalle strade di Perla […]. La demonìa si insinua con una crescente progressione di tanfi […][54].

E infatti troveremo la città di Kubin anche in quel baedeker barocco della città di Praga[55], dove quel lezzo e quel marciume sono correlativi dell’angoscia ispirata a Kubin da Praga, nonché – sul piano storico – del disfacimento della finis Austriae. È lo stesso Kubin, nel suo unico scritto autobiografico in cui illustra anche il proprio difficile rapporto con il padre, a parlare della genesi de L’altra parte connettendola alla crisi attraversata dopo la morte del genitore, e alla sua assoluta incapacità di disegnare, malgrado la “grande volontà di lavoro[56] che avvertiva dentro di sé.

Il romanzo rappresenta dunque “il punto cruciale di uno sviluppo psichico[57], approdato alla certezza che i più alti valori della vita si celassero nelle cose comuni e disadorne dell’esistere quotidiano, cariche di misteri. Gli stessi in cui opera quella “vita universale[58] che muove le creature animali così come le cose inanimate.

Ma il rovescio del sogno ha contorni sinistri: nella irreale controfigura di Praga sorta dalle ossessioni di Kubin, tutto è vecchio, ossidato; la città, immersa in un grigiore perenne, è un autentico museo di anticaglie, un “Eldorado per collezionisti[59] (somigliante alla Pietroburgo raccontata da Spengler)[60] in cui, tra rifiuti e sudiciume, è possibile rintracciare capolavori d’arte e di decorazione. Le opere d’arte sono però valutate soprattutto come oggetti d’uso. Gli artigiani di Perla non fanno che restaurare e rattoppare la valanga di oggetti desueti che arriva da tutto il mondo.

L’esito estetico di questa città-soffitta è il patchwork di stili e di epoche; blocchi di civiltà diverse si sovrappongono e concrescono in uno straordinario disordine, affastellati e ammassati gli uni sugli altri. Eppure tutto questo esprime una poesia dello squallore non disgiunta da una certa dose d’inquietudine. C’è un romanzo di Paul Auster, Nel paese delle ultime cose, in cui il prefigurarsi di un mondo alla fine è contrassegnato dalla perdita della memoria[61]; in Kubin invece la memoria è un’ossessione, Perla è un mucchio di memorie inutili, lo stesso sovrano Patera ha una memoria prodigiosa.

Il protagonista del romanzo, trasparente controfigura dell’autore, è stato invitato nel Mondo del Sogno dallo stesso sovrano Patera; incontri e avvenimenti successivi lo precipiteranno in una discesa agli inferi faccia a faccia con le proprie allucinazioni e con i mostri dell’inconscio.

Una delle quali è apocalittica in un senso ulteriore, perché, nel momento in cui il protagonista si smarrisce in un sotterraneo, e viene investito da brividi d’angoscia, porta nel romanzo proprio uno dei cavalli[62] che figurano nel libro neotestamentario.

Ovvio è il rimando al brano dell’Apocalisse di Giovanni con i Quattro Cavalieri a rappresentare carestia, guerra, pestilenza e morte, secondo una lettura semplificata, ma molto diffusa, per cui ognuno di essi sarebbe legato a un male che tormenta l’umanità e cavalcherebbero sulla terra il giorno dell’Apocalisse, dando inizio alla Fine del mondo. Il cavallo è figura esplicita del morbo di decadenza che invade Perla, e che proviene direttamente dal suo sovrano Klaus Patera, la cui sembianza è disseminata ovunque, e che sembra detenere un controllo mentale assoluto su quella realtà artificiale, ridotta ad emanazione della sua persona. Gli abitanti non sono che burattini in balia del suo potere psichico. Addolorato, spossato, ma in grado di ipnotizzare chiunque, il sovrano Patera è in tutto e per tutto uno spettro: un golem-fantoccio, un’apparizione onirica e polimorfa, il mutamento fatto persona, ma anche un re disperato che ha “edificato un regno sulle rovine dei suoi possedimenti[63].

Non abbiamo il tempo di andare a fondo nell’analisi e nella psicoanalisi di questa figura fantastica, ma vorrei sottolineare soltanto che – come ha evidenziato Giacomo Debenedetti[64] – malgrado i suoi vivi contatti con le avanguardie artistiche del suo tempo, Kubin era fondamentalmente un isolato e si rese conto solo a posteriori di essere vissuto nell’epoca di Freud. Ciò non toglie che L’altra parte offre al lettore spettacolari emersioni di ciò che negli anni della sua apparizione si andava definendo e specificando come inconscio e come perturbante.

La situazione apocalittica del romanzo precipita con l’arrivo in città di un personaggio, Hercules Bell, che rappresenta la tensione verso il progresso e l’inarrestabile pragmatismo occidentale, di contro al disfacimento simboleggiato da Patera. Hercules sobilla gli abitanti contro il sovrano, e in seguito la città viene invasa da una “epidermica sonnolenza”. A questa, in una progressiva accelerazione, si succederanno l’invasione degli animali e un misterioso morbo che fa marcire e dissolvere ogni cosa, affrettando il decadimento degli oggetti. L’incubo è completo, e le visioni di Kubin diventano, se possibile, ancora più oniriche, deformanti e crudeli.

Ben presto Perla si muta in un inferno sulla terra, un caos da giorno del giudizio, una discarica di rifiuti e cadaveri in fiamme; tra orge e assassinii il romanzo attraversa intense visioni cosmogoniche per chiudersi con il riconoscimento della sostanziale unità dei due principi in conflitto (Bell e Patera), e della contraddittorietà di ogni slancio umano, tradotta in una frase che sembra provenire direttamente dalla terra del dormiveglia: “Il Demiurgo è un ibrido”. L’antagonista è in noi: bene e male, vita e morte, realtà e sogno. E disegnando un confine sottilissimo tra gloria e ridicolo, tra essenziale ed effimero, Kubin spezza gli ultimi residui di significato nei simboli del quotidiano concordemente accettati, vanifica qualsiasi possibilità di rappresentazione pacificata del mondo, ne rivela l’inferno conflittuale e la putrefazione dei suoi valori: per questi motivi lo scrittore boemo è profeta di Catastrofi[65].

Patera, il sovrano dittatore, si metamorfosa in fantoccio e poi cadavere, e diventa infine rifiuto: un fagotto abbandonato in un angolo, una fragile reliquia rattrappita e contorta.

 

 

Conclusione: il feticcio come esorcismo contro il nulla

Ma nelle immondizie

troverò tracce del sublime[66]

(Andrea Zanzotto)

Il rimando fra le terre desolate qui abbozzata è giocoforza incurante dei nessi temporali, ma non delle affinità di aura, delle consonanze tra opere abissalmente diverse eppure accomunate da alcuni tratti. Sono due atti di scrittura liberatori nonché terapeutici per i propri autori, due città trasfigurate nel sogno, due aldilà letterari, due altrove che alludono al presente per speculum in aenigmate, in cui il clima stravolto (fra violente tempeste, aridità e perenne crepuscolo) è essenziale per definire l’atmosfera apocalittica; e questo avviene perché la fogna, la discarica rappresenta la resa dei conti tra natura e cultura, il momento in cui il rimosso torna a galla e reclama i suoi diritti di fronte alla coscienza vigile e repressa.

Ne risulta una peregrinazione in città-rifiuto ingombre di oggetti scompagnati, immagini rotte, ciarpame, resti di un vecchio mondo collassato, “a metà strada fra l’allucinazione e il mito[67].

Siamo di fronte a due discese agli inferi che proiettano una luce di minaccia sul nostro mondo, anticipando cosa potrebbe diventare o è già diventato.

Lo statuto singolare degli oggetti e il loro rapporto con la fine di una memoria sistematica e sancita storicamente ha un ruolo centrale nel renderli quasi dei protagonisti in alcune parti di queste opere. Ciò grazie a due autori collezionisti, sebbene in modo molto diverso: Eliot esibisce il naufragio di una cultura ma ne addita anche la segreta essenza-consistenza, mentre gli oggetti di Kubin sono semplicemente appassiti, relegati in un grigio mondo laterale, in una fantasticheria crepuscolare dai contorni inquietanti dove tutto sa di soffitta, con la fascinazione perversa di una premodernità contaminata da sarcasmi circensi e malinconie gotiche.

Ma terra desolata significa anche terra ferita: la fine della civiltà come spossamento. Qui sta il punto di convergenza delle diverse identificazioni. Qui c’è un pensiero della fine. La fine di un’epoca (che sia l’impero austroungarico, la vecchia aristocrazia europea o la società dei consumi) trova nei rifiuti la chiave per accedere alla categoria dell’apocalisse: in queste città-discarica il collezionista vecchio stampo tenta di preservare il pregresso sistema della memoria sottraendo l’oggetto al suo valore d’uso originario, all’insieme delle sue relazioni funzionali (secondo la visione di Benjamin nel Passagenwerk): il repertorio degli oggetti accumulati dal collezionista nella sua resistenza alla dispersione diventa “un’enciclopedia magica, un ordine universale” in cui ogni oggetto esprime il destino che egli, come un fisiognomico delle cose, ha saputo divinare nella sua contemplazione. Scrive Benjamin: “Materia in rovina: è l’innalzamento della merce allo stato di allegoria. Carattere di feticcio della merce e allegoria[68]. E continua: “L’allegorista costituisce in un certo senso l’antipodo del collezionista: ha rinunciato a far luce nelle cose attraverso la ricerca di ciò che a esse sarebbe in qualche modo affine e omogeneo, le scioglie dal loro contesto e rimette fin da principio alla propria accorta profondità il compito di illuminare il loro significato[69].

Ma un buon uso delle rovine annuncia un ulteriore passo in avanti: occorre piuttosto che i disiecta membra siano intesi come nuove totalità, dotati di un nuovo destino, e riuniti in assemblaggi inusitati dove il frammento povero acquista la massima valenza. L’uso del frammento residuale, dimenticato, definisce la modernità come percezione straniata, in cui il collezionare oggetti è un flusso eteroclito, stravagante, un bric-à-brac, non un sistema storico. È l’oggetto stesso la guida verso il repertorio casuale del rimosso storico, non un contesto o un ordine esterno. Attraverso le reliquie, la modernità rivolge su se stessa uno sguardo archeologico. Il frammento archeologico, cioè privo delle sue motivazioni originarie, è Altro, è differenza pura, non semplice negazione dell’identità, e tramite la sua singolarità indica la possibilità di una storia alternativa, molecolare non monumentale, che si può attraversare secondo la capricciosa disponibilità di un’onirica flânerie fra scarti e detriti. Ma c’è di più, ed è ciò che più conta ai fini del nostro percorso. Ha scritto Gianni Celati: “L’oggetto perduto, il frammento che non può ricondurci all’unità originaria di un disegno, introduce nel presente l’effetto d’un’apocalisse sotterranea e invisibile appena passata, o ancora in atto[70], trasformando la peripezia nella città moderna in una discesa agli inferi particolarmente congeniale ai surrealisti (come si vede in Nadja di Breton).

Senza approfondire questo aspetto, vorrei ricordare che c’è un simile pensiero dietro i più spregiudicati artisti d’avanguardia che hanno prodotto assemblages con i resti di merci e immagini della nostra età morente, da Kurt Schwitters che ha eretto un autentico monumento-bricolage alla spazzatura con il suo Merzbau, a Joseph Cornell, che con le sue celebri scatole ha rimagnetizzato il rifiuto e il ciarpame in senso magico, nella sua solitaria tensione verso una “fanciullezza riconquistata[71] In questo senso ri-nominare gli oggetti, come fa Cornell con surrealistica gioia, equivale a dare loro un nuovo destino liberandoli dalle funzioni che li incatenavano a un precedente vissuto.

È il sentimento della poesia del banale – così importante per le avanguardie – espresso da Rimbaud in Una stagione all’inferno: “Amavo le pitture idiote, sovrapporte, decorazioni, tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari; letteratura fuori moda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle nostre bisnonne, racconti di fate, libriccini per l’infanzia, vecchie opere, ritornelli scemi, ritmi ingenui[72].

Il piacere molto teatrale del trovarobato, dell’ammucchiamento di oggetti, di fecondare di un senso ulteriore e casuale l’eteroclito, l’agglomerato di cianfrusaglie, attraversa l’opera di alcuni grandi scrittori trascurati del Novecento, ed è inteso non come allegoria di una disperazione storica, ma come esorcismo contro una dissoluzione prima di tutto metafisica.

In alcuni poeti, come il Pessoa ortonimo del Faust o di Episodi, gli oggetti, perfidi e arcigni, diramano dall’estraneità la loro minaccia all’integrità dell’individuo: “Ma ci son sempre cose dietro di me. / Sento la loro assenza d’occhi che mi fissa, e rabbrividisco[73], ma per il poeta-collezionista quest’estraneità irridente diventa paradossalmente salvifica: leggiamo ancora Ripellino, ma il Ripellino poeta, in un testo dedicato proprio a Schwitters e all’ossessione degli oggetti:

Ma io ho bisogno di loro, il loro scherno

altezzoso e malefico mi aiuta

a vincere l’angoscia dello spazio, a rivestire di nomi l’abisso,

ho bisogno d’infarcire il vuoto

di ciarpame, di rancidi feticci.

Sto ammucchiando forcine, cappelli, provette,

ciondoli di vecchie cassapanche,

nastri, chiavette, luminelli, trucioli

in un denso viluppo, in un ordito

che non lasci passare, che disperda

le lusinghe, le raffiche del nulla.[74]

Quando tutto appare distrutto dalla violenza, dal male, dall’orrore della storia, restano frammenti, dettagli, che ci chiamano a resistere, a non smettere di credere nella bellezza.

Così ad Andrej Rublëv, dopo lo scempio dei tatari nella cattedrale, viene indicato un frammento del suo affresco: ciò che si è salvato e che resiste, tra cadaveri e calcinacci, è soltanto un frammento, ma i frammenti sono fessure attraverso cui cogliere l’universale, “un mondo in un granello di sabbia”[75] per dirla con Blake, esponendosi, inermi, alle cose; quindi luogo di compassione, di dolore e di quella bellezza verso cui, come il principe Miškin verso Nastaša Filippovna, siamo irresistibilmente chiamati.

 

Con una bella ferita sono venuto al mondo

Ein Landarzt di Franz Kafka

(della metafora)

Franz Kafka è uno di quei autori che andrebbe maneggiato con cautela.

Kafka descrive situazioni, situa avvenimenti nello spazio della pagina o nello spazio del discorso, ma non descrive svolgimenti, successioni logiche, sequenze più o meno concatenate di eventi. È in altre parole una scrittura che ha poco a che fare con il tempo e molto con lo spazio, come forse è ineluttabile per chi si misura con l’assoluto e non con la cronaca, con le dimensioni metastoriche e non con la storia o le storie.

Il regno di Kafka è una sorta di limbo che si dispone tra le dimensioni del conscio e dell’inconscio: descrive luoghi della mente. Quindi il problema non è di scoprire come va a finire una vicenda (che non c’è quasi mai, intesa almeno come plot, cioè come costruzione coerente e organica di un accadimento o di una serie di accadimenti). Anche Il processo, che ha un inizio e una conclusione, non è che un susseguirsi di luoghi mentali, una successione di sincronie. L’idea stessa di diacronia non esiste in Kafka: le sue opere hanno un’enorme concentrazione simbolica.

Inoltre Kafka è uno scrittore tragico che fa uso di vere e proprie allegorie, ma si capirebbe poco se non si cogliesse che il tragico kafkiano ha tutte le ambiguità e le polivalenze dello humor e della caricatura. Come tutti quelli che hanno intuito la contiguità tra tragedia e grottesco e il sempre possibile scivolamento, slittamento della prima nel secondo (ricordo a questo proposito un verso di Angelo Maria Ripellino che recita “grande è la buffoneria del dolore”), Kafka possiede una sensibilità acuta per il ridicolo e per il grottesco (basta andare a guardare i suoi disegni). In altre parole il tragico quotidiano non ha sempre la scenografia convenzionale e il pathos sublime dei grandi drammi. Si accompagna per lo più alla smorfia, a tutta quella pascaliana miseria o meschinità umana, a tutto quell’umile e prosaico “umano e troppo umano” che l’arte classica o neoclassica esilia nell’ombra o fuori scena.

Nel mondo kafkiano vi è, quindi, anche posto per il riso; certo, non il riso fragoroso di un Rabelais, ma un riso con velature di humor, amarezza e malinconia.

Ora, è evidente che l’ambiguità non è un difetto, bensì una conseguenza delle potenzialità stesse del linguaggio. Nelle pagine kafkiane immagini e metafore esprimono insieme la polivalenza del linguaggio poetico e la polivalenza delle visioni possibili del mondo. Il linguaggio kafkiano, estremamente determinato e preciso fino alla meticolosità nella sua terminologia classicamente realistica, è sempre rivolto intenzionalmente al di là di una realtà data e unilaterale. I contenuti reali, i dati obiettivi sono tramiti, occasioni, arnesi per comporre parabole o fiabe polivalenti nei loro significati. Il realismo di Kafka (realismo magico, come ripetutamente è stato scritto) trasforma i frammenti di realtà in simboli di una realtà più complessa e trasfigurata. Ecco: il fascino della prosa kafkiana deriva soprattutto da ciò che di misterioso e di arcano avvolge l’oggetto più umile dell’esistenza, espresso sempre nella parola più semplice. Eventi e termini dell’esperienza quotidiana, situazioni della vita di ognuno, trascritte nelle immagini più note e familiari, si potenziano di una carica simbolica e mitica e subiscono una interiore metamorfosi per cui diventano segnali o indizi di un destino altro che traluce nelle cose stesse, nella loro estrema banalità senza trascenderle o rimuoverle. Kafka intuisce e rivive la realtà, l’esperienza sensibile nelle forme simboliche e immaginose della fiaba, della breve parabola, dello scorcio mitico. La più semplice e banale avventura dell’esistenza quotidiana diviene paradigma in cui sono racchiusi significati metafisici della condizione umana -se per metafisica non si intende già un sistema compiuto di verità eterne e immutevoli, che Kafka sa benissimo di non possedere, ma un processo di misteriosi, oscuri e problematici rinvii verso una ulteriorità densa di un senso che nessun discorso umano riesce a definire o a comprendere appieno. Se c’è in Kafka una ricerca del significato ultimo dell’esistenza, un’ansia quasi ossessiva -che chiamerei metafisica nell’accezione che ho appena spiegato- di meditare sul rapporto indecifrabile che lega il mondo sensibile, effimero con quel mondo che, spesso, lo scrittore definisce “indistruttibile”, questo anelito è, come scrive Remo Cantoni, “una specie di asintoto che non raggiunge mai la curva ideale relegata in un orizzonte estremo e irraggiungibile”.

L’elemento singolare che Kafka fa nell’uso delle sue metafore è l’esasperazione del carattere indefinitamente aperto e allusivo di queste metafore. Non sono tanto metaforici la singola frase, il singolo periodo, come avviene in alcuni scrittori barocchi, in Shakespeare per esempio, ridondante di metafore o in certi letterati romantici che -come ha osservato Jakobson- usano la metafora in senso antirealistico, voltando le spalle al discorso prosaico e umile di una consunta vita quotidiana. In Kafka ha senso e significato metaforico l’intero contesto del suo intuire, pensare, immaginare, costruire l’opera. In altre parole possiamo affermare che Kafka pensa e scrive nella forma mentis e stilistica della metafora.

 

(della storia)

Dopo questa premessa che credo necessaria per inoltrarsi in una lettura di un testo kafkiano, proverò -collegandomi al tema di questo incontro- a dire alcune parole a proposito di un racconto di Kafka: Ein Landarzt, cioè Un medico di campagna o Un medico condotto, come è stato anche tradotto.

E lo farò consapevole che, pur nell’ambito e nell’atmosfera spesso di una cronaca realistica, ci si trova in questo racconto trasportati in un mondo di simboli polivalenti, di metafore che non si lasciano cristallizzare in alcuna univocità. E, quindi, sarò sicuramente parziale, limitandomi a cogliere solo qualche frammento dalla lettura di un testo così misterioso, complesso e oscuro.

Kafka scrisse quasi tutti i racconti contenuti in Un medico di campagna nei pochi mesi in cui visse al numero 22 della Alchimistengasse, la Via degli Alchimisti a Radčany a Praga. Kafka descrive quei mesi come “l’inverno del dolore”, ma sono anche l’opportunità di manipolare quel dolore fino a trasformarlo in un utensile acuminato e limpido, di temperare quella lama fino a renderla acuta abbastanza da schiudere, nella tessitura dello stile, la profondità di una visione. Nel racconto in questione è l’incarnazione di un impulso ineluttabile della scrittura: quello dell’assenso all’ascolto, grazie a cui l’inerzia dello sguardo ritrova energia.

La vicenda è presto raccontata: è la storia di un medico che, chiamato al capezzale di un malato, non può raggiungere il malato perché manca del cavallo e quando, come per magia, ne trova non uno ma ben due e lo raggiunge, non può curarlo perché, a un primo sguardo, non riesce a ““vedere” la malattia. Anzi, addirittura per il medico “il giovane è sano, la circolazione del sangue è un po’ scarsa, la madre premurosa gli ha dato un po’ troppo caffè, ma è sano e bisognerebbe buttarlo fuori dal letto con uno spintone”.”

Sta per andarsene, quando improvvisamente si avvede che il paziente è malato. Scrive Kafka: “Al lato destro, nella regione dell’anca si è aperta una ferita grande come il palmo della mano. Rosea, tutta sfumata, più scura dov’è più profonda, impallidisce agli orli, leggermente granulosa, il sangue qua e là variamente coagulato, aperta in mezzo come una miniera. Così di lontano. Da vicino appare ancora più grave. E come guardarla senza ansare lievemente? Dei vermi lunghi e grossi come il mio dito mignolo, rosei di suo, spruzzati di sangue, brulicano trattenuti all’interno della ferita, con le testine bianche e le numerose zampine tendenti verso la luce..

(della carità)

Se il viaggio del medico fosse un’ordinaria visita a domicilio, il racconto non potrebbe andare oltre questa identità riconosciuta tra ciò che si vede e ciò che già si sa. L’esistenza quotidiana, di norma, non elargisce altre forme, altri contenuti della conoscenza. Il corpo del malato – di colui che pure ha già invocato dal dottore la sua fine (“Dottore”, gli sussurra appena questi è entrato, “lasciami morire”) – è come un alfabeto imprigionato nella quieta evidenza dei suoi suoni, non consente ancora alla lettura di manifestarsi in un disegno carico di senso. E allora vediamo che qualcosa converte il significato del viaggio, permettendo alle cose già conosciute di elargire allo sguardo il loro aspetto misterioso.

Il medico potrà tornare all’improvviso sui suoi passi, oltrepassare l’apparenza letterale, riconoscere nel corpo apparentemente sano del giovane paziente la ferita, come si riconosce in un suono l’idea che vi era custodita. Questo qualcosa compie il percorso del significato, è il varco aperto nella siepe delle apparenze, il ponte tra la lettera e lo spirito che la rivela.

Cos’è questo qualcosa? È un voltarsi, un rivolgersi indietro, un rifare un cammino già percorso senza averne ricavato alcun frutto. Il legame della carità, la congiunzione tra uno sguardo e la verità inseparabile di un dolore consiste proprio nell’arrestarsi, nel voltare la testa. Ho detto: carità, termine vittima di un declino semantico che rende arduo accompagnarvi una definizione credibile; parole più mansuete e maneggevoli – come solidarietà, ad esempio – hanno occupato il suo posto, relegando la parola carità in quel territorio limbale del vocabolario dove si raccolgono i rimasugli ormai inerti di una lingua. Ma se la carità ha smarrito l’evidenza del suo uso linguistico, la si può riconoscer altrove, esiliata dal suo nome, ma viva nelle vibrazioni di altre parole.

E la si ritrova per esempio nel gesto del ricco mercante che in Tolstoj si getta con il proprio corpo su Nikita, il servitore assiderato (nel racconto Il padrone e il lavorante) o nel gesto di Dracula nel film di Coppola che raccoglie le lacrime dal viso dell’amata, trattenendo la dolorosa bellezza di una nostalgia.

O anche del dipinto di Simone Martini San Martino dona il mantello a un povero del ciclo di affreschi sulla vita di san Martino nell’omonima cappella della Basilica Inferiore di San Francesco ad Assisi dove con esattezza viene descritta la congiunzione tra uno sguardo e la verità di un dolore attraverso proprio quell’arrestarsi, quel voltarsi, quell’interrompere l’andare senza vedere che compone la trama del quotidiano camminare e dove la richiesta “fate la carità” (da parte dei bisognosi, quando almeno possedevano ancora la stessa lingua dei più fortunati) adeguava senza deprezzarla l’essenza numinosa della carità alla sfera d’azione del lavoro umano, cioè di ciò che è passibile fare, come si fanno le scarpe o il vino, le mura delle case e le canzoni d’amore. Ecco, alla base di quel lavoro non c’è altro che la capacità di voltarsi indietro, di ridonare energia all’inerzia dello sguardo. Simone Martini ha dipinto questo: la complementarietà di due gesti contrapposti ricongiungendoli nell’unicità di un destino.

Ma torniamo a Kafka e al suo racconto. Non è il sapere, ma il vedere, il riuscire a vedere ciò di cui parla Kafka, e il vedere non qualsiasi ferita, ma quella singola, irripetibile ferita. Come negli Appunti di un giovane medico di Bulgakov, libro di un’esperienza iniziatica quasi contemporanea alla stesura del racconto kafkiano, cronaca di una distanza impercorribile tra due ambiti dell’esistenza: quella dei libri studiati all’università, dove ogni piaga è convertita in disegno asettico e rispettiva rassicurante didascalia, e quella dei corpi dei contadini del villaggio di Nikol’skoe, corpi  vivi aperti all’imprevedibile. Si tratta quindi di ricucire in qualche modo il mondo dei libri e quello della carne straziata in una oscillazione mercuriale tra biblioteca e tavolo operatorio, allegoria della problematica interpretazione delle cose.

E per vedere la ferita il medico deve avvicinarsi, deve andare vicino, in altre parole, si rende necessario un approssimarsi, un accostarsi, un apprestarsi: da lontano non si vede nulla, la distanza preclude una messa a fuoco che permetta un riconoscere. Di più: il medico deve stendersi accanto al malato. La casa dei contadini si trasforma improvvisamente in uno spazio consacrato, aperto a tutta la comunità come un tempio. Denudato, il medico è steso nel letto, “dalla parte del muro, sul lato della ferita”, scrive Kafka. L’opera della carità contempla dunque uno stadio di spoliazione successivo a quello della visione della ferita. Spogliato del ruolo, il medico si trova a diretto contatto con un simbolo che non può interpretare, ma solo patire nella sua potenza di significante che sopravanza ed eccede la condizione linguistica da cui pure prende forma.

Nudus Christum nudumsequi” recita il più essenziale e icastico dei motti del pauperismo medievale. Anche san Martino nel dipinto, tagliando a metà il suo mantello, mette in scena l’allegoria discreta di un denudamento. Anche in alcune pagine che Angela da Foligno detta a un suo fedele scrivano troviamo figure che, in una cruda narrazione spesso al limite del sostenibile, descrivono il percorso verso la ferita. Anche Flaubert, nella Leggenda di san Giuliano l’Ospitaliere, vagheggia che il Lebbroso inviti san Giuliano a stendersi accanto a lui sul giaciglio di foglie morte, per alleviare il freddo intenso che gli raggela le ossa. E il santo acconsente, aprendosi a un’adesione illimitata. Per questo il linguaggio mistico e quello amoroso hanno una contiguità altrimenti inspiegabile. Scriveva Hans Urs von Balthassar -il teologo svizzero che vide nella teologia il luogo e il senso della bellezza-: “santi e amanti sanno come spiare l’anima e condurla al canto”.

Ecco, chi riesce a vedere nell’altro la ferita diventa un creatore di significato, come fosse sempre possibile trasformare l’ombra in corpo, la lettera in voce, il pensiero in gesto, amando come se sempre si potesse. Accomuna la piaga che esige uno sguardo e lo sguardo che sosta in un unico momento di intimità che vince la solitudine e l’indifferenza di un vivere inchiodato alla cupa evidenza del proprio soffrire, di un isolamento senza memoria. Nulla di più distante dalla consolazione: si tratta di comprendere (tenere dentro) ciò che appare in genere come un’impronta da cui distogliere lo sguardo in fretta, è un esercizio alla resistenza davanti a un mistero ostile che incute paura, è un gesto che ha, appunto, memoria e umore di carità.

Siate radicati nella carità per aver la forza di afferrare” scriveva Simone Weil.

(della mancata conciliazione)

Ma occorre ricordare che il medico di Kafka non parla sostenuto da una sapienza: egli è un medico moderno. Come il dottor Semmelweiss di Céline, per esempio, egli è murato in una solitudine senza memoria e la sua lingua si compone di detriti che non portano il soccorso di alcuna fiducia, che non leniscono il suo senso di inadeguatezza. Famosa l’affermazione del medico kafkiano, paradigmatica per ogni medicina: “Scriver ricette è facile, ma intendersi con la gente è difficile”. Nessuna consolazione, nessuna conciliazione attende chi legge, nemmeno quella che proviene dalla sicurezza di un lavoro ben fatto: il medico kafkiano non conosce ricompense per il suo denudarsi, né alcuna traccia di compiacimento. Così sottratta a un’economia di scambio, la sua carità non conosce la letizia di certi racconti mistici e si muove all’interno delle mura di un mondo imprigionato alla tetra evidenza delle sue ferite. Ciononostante, dopo un’iniziale sguardo distratto, si lascia cadere nella forza di gravitazione della ferita, subendone quello che gli antichi, forti di una vasta esperienza in materia, chiamavano il fascinum.

Così accade, per esempio, che ne L’idiota di Dostoevskij il fascino della bellezza e il fascino della ferita diventino indistinguibili: il principe Myškin non sarà mai capace di distinguere in Nastasja avvenenza e sofferenza. Come se quei lineamenti bellissimi – che lo hanno incatenato fin dal momento in cui, arrivato a Pietroburgo, ha guardato una fotografia della donna – alludessero, pur nascondendola per sempre, all’unica verità ancora possibile per l’uomo che, accettando di aderire al richiamo di quella dolente perfezione, è ormai, nel giudizio della maggior parte dei suoi simili, nulla più che un idiota balbettante la sua indecifrabile verità: la bellezza salverà il mondo.

Peraltro è proprio il medico di Kafka a riconoscere che “una volta dato ascolto […] non c’è più rimedio”. Cristina Campo, in una pagina su Cechov, ha parlato dell’attenzione esercitata dal medico; nel racconto kafkiano questa irrimediabile esposizione al Male si risolve in uno sguardo senza più difese, come se la scienza del medico non consistesse più nel guarire, ma nel guardare la piaga, nel riconoscere senza più infingimenti la sua sconfinata apertura. Ma contemporaneamente, con linguaggio radicale ed essenziale, dice il continuo rischio del naufragio dell’arte medica.

Per il resto, Kafka sapeva benissimo quello che ricorda Ingmar Bergman ne Il posto delle fragole, e cioè che “il primo dovere di un medico è chiedere perdono.”

Le nostre labbra s’impolverano d’esilio1

Scrittura tra esilio e dimora.

 

Le nostre labbra s’impolverano d’esilio

(Bernard Noel, Le rumeur de l’air)

(a guisa di premessa)

Queste pagine si muoveranno per stanze, con uno sguardo micrologico (direbbe Adorno), per piccoli progressivi spostamenti, intorno a minimi coaguli di senso, a grumi di intuizioni intorno all’esperienza della scrittura, intesa come oscillazione tra due estremi: la solitudine esiliata che ogni parola necessita per poter sorgere e la possibilità di cogliere e dar voce a elementi di vita e di mondo che hanno a che fare con le ultime cose dell’uomo. In altre parole tendere verso l’estremo, come ricorda Walter Benjamin discorrendo dei modi di attraversare un testo.

Quindi, da una parte la scrittura richiede un allontanamento, un discostarsi, un esilio dal mondo per poter nascere, si deve smondanizzare per venire alla luce e per poter scendere in una qualche profondità, dall’altra il mondo trova nella scrittura una dimora, cioè una possibilità trasfigurativa di risuonare e di intuire -se non un senso- la cifra di una umanità.

1.

Scrive Franz Kafka il 17 gennaio 1904 all’amico Oskar Pollak:

Bisognerebbe credo leggere soltanto il libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non si scaglia come un pugno sul nostro cranio, a che serve leggerlo? Abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia, che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi.”

Sedici anni dopo questa lettera, in un’altra lettera del 1920 questa volta a Milena, ritroveremo questa profezia come la descrizione del proprio stato: l’uomo della selva, l’uomo dell’esilio estremo. E la ritroveremo anche come la cifra più intima e ultima de Il castello.

Emile Cioran dichiarava di sentirsi avvinto solo a libri capaci di ferire come una lama; più lievemente Marina Cvetaeva parla di libri da capezzale, la cui mancanza ci fa soffrire.

Che cosa dicono, pur nella diversità dei toni, queste parole?

Scrittura come esilio, recita una parte del titolo di queste righe. Ricordo qui brevemente che la condizione dell’esiliato coincide con la condizione umana e ne è perciò una metafora: siamo tutti in esilio. Da un tempo o da un luogo che più non ci appartiene, da cui siamo stati allontanati, che abbiamo vagheggiato, che a volte abbiamo intravisto. Siamo tutti in esilio ogni volta che -vivendo uno spaesamento- misuriamo una distanza da un tempo o uno spazio che avvertiamo più proprio al nostro sentire, in dialogo con il nostro desiderio. Siamo tutti in esilio quando percepiamo che la vita è e altro non può essere, come ha scritto Dante, che “un correre alla morte”.

Ogni libro è un luogo di esilio: pur se non costituisce il tema o non ne determina la condizione, l’esilio è ciò che avvicina e talora congiunge il vivere alla lingua.

Lo spazio della scrittura nasce dentro uno spazio d’esilio, di separazione, di chiusura e di sacralità, lo spazio di un altrove inassimilabile al reale. La scrittura diventa meno vanagloriosa e più necessaria (nel senso che abbiamo prima visto in Kafka) quanto più consapevole della propria sconfitta, della ferita che ripercorre ogni volta, del silenzio e dell’assenza come risposta a una continua interrogazione.

Lo spazio della scrittura è, come diceva Rilke a proposito della morte scrivendo a Witold von Hulewicz, un “altro versante della vita”; è per Blanchot una relazione anticipata con la morte; è, all’interno del proprio vuoto, come scrisse Mallarmé, l’incontro con il nulla, con l’assenza degli dei, è abitare dove il senso latita.

Blanchot, all’inizio de Lo spazio letterario, sostiene che “apprendiamo qualcosa intorno all’arte quando sperimentiamo ciò che la parola solitudine vorrebbe designare”. La solitudine concerne l’opera in sé, il suo autore e anche il destinatario. Non si tratta di un isolamento compiaciuto, ma di un raccoglimento che Blanchot chiama “solitudine essenziale”.  Riflessione per metà assimilabile a quella sviluppata da Levinas, per il quale l’opera è chiusa in una solitudine assoluta e invalicabile, al punto di limitare sensibilmente un effettivo rapporto con essa. Blanchot invece non considera la solitudine dell’opera come un ostacolo alla sua comunicazione: la solitudine essenziale si pone, anzi, come connessione tra autore e lettore. Essi si incontrano nello spazio solitario dell’opera, la quale -nel momento del commiato- determina una sorta di estraneità tra se stessa e l’autore, relegandolo nel tempo e nel luogo della sua genesi, tempo e luogo di esilio.

E il lettore è davvero tale solo se, scrive Blanchot, “entra nell’affermazione della solitudine dell’opera, come chi la scrive appartiene al rischio di questa solitudine”.

Come nel film Il sapore della ciliegia, di Abbas Kiarostami dove un uomo erra alla ricerca di qualcuno che lo accompagni verso la fine, compiendo per lui il gesto estremo di seppellirlo quando sarà morto.

L’ultima speranza, sotto un cielo immobile, dimora in quel qualcuno che non ha nome né volto.

2.

In quanto espressione dell’indicibile, la parola poetica è contigua al silenzio e all’esilio.

Il silenzio, custode di in mistero inespresso, è ritorno alla propria interiorità, è la scelta di chi può parlare: “Tacere può soltanto chi può parlare” scrive Romano Guardini e “l’autentico tacere è possibile solo nell’autentico discorrere” ribadisce Martin Heidegger.

Decifrare il silenzio è, per la parola poetica, accostarsi, approssimarsi a esso con una voce che, nell’assoluta essenzialità della mimèsi, alluda intuitivamente all’ombra sfinita dell’assenza che percorre il nostro volto e abbuia il nostro sguardo, confine con il nulla.

Accanto al silenzio delle cattedrali o a quello dell’oblio, al silenzio come naufragio o come rifugio, al silenzio sgomento o a quello che tradisce nostalgia della parola, scorre l’eventualità di una poesia che al silenzio allude e il silenzio addita come recupero di quel gheriglio essenziale che è l’altrimenti incomprensibile, inaridita e inespugnabile acqua sorgiva del “mare gelato dentro di noi” a cui si riferisce Kafka.

Scrive Hugo von Hofmannsthal nella famosa Lettera a Lord Chandos: “una per una le parole fluttuavano intorno a me; diventavano occhi, che mi fissavano e nei quali io a mia volta dovevo appuntare lo sguardo. Sono vortici, che a guardarli io sprofondo con un senso di capogiro, che turbinavano senza sosta, e oltre i quali si approda al vuoto.” Siamo al limite estremo dell’esilio, della indicibilità nel disfacimento progressivo delle parole e delle cose, dove, citando Vladimir Jankèlèvitch, “il silenzio è ciò che permette di sentire una voce altra, che parla un’altra lingua: una voce venuta da altrove…” Questa voce altra, quest’altra lingua, questo altrove sono la dimora della parola poetica che, dissimulata nel clamore della quotidianità, richiede quella che sempre Jankèlèvitch chiama “vista di secondo grado che è l’intuizione”, grazie alla quale si possono raccogliere “nel buio essenze invisibili nascoste dietro le esistenze visibili”, offrendo rifugio e asilo ai “sottintesi nascosti sotto le cose dispiegate” e riconoscendo “le voci del mistero universale”. Da qui la sua natura esiliata, separata da ogni rassicurazione, perché quando la poesia chiama e reclama si viene attratti da un principio notturno la cui logica non è quella delle notti del mondo, ma quella di un’estraneità che non dona riposo né oblio, notte mai compiuta, eternamente sospesa che si rinnova sempre dal principio.

Il silenzio è la landa desertica dove nasce la poesia, la cui parola, assottigliatasi al punto da ottenere la necessaria trasparenza, è più contigua al silenzio quanto meno vi si discosta, quanto meno gli dissomiglia. Quando viene meno la parola abusata, feriale, quotidiana, solo una parola che alluda al silenzio che ne consegue, fitto di memoria, ferita e dolore può colmare una distanza arresa, una lontananza ritratta in cui si addensa la fragile speranza di un’attesa.

La parola poetica muove da un limite, si leva dalla propria fragilità per riconoscere un dolore che assedia il tempo del presente e il gesto del quotidiano.

Nella prima aria della cantata nuziale di Bach BWV 202 c’è tutta la gioia dischiusa dalla promessa e dall’attesa d’amore. Eppure com’è fragile e indifesa la sua bellezza, com’è già assediata dal tempo in quel suo indugiare a presagi di nostalgie, in quel suo allentarsi già quasi in un ricordare.

Scrive Cristina Campo a proposito di questa capacità della musica (ma dell’arte in generale): “Bernhard dice che il più grande peccato non è disperarsi, ma non voler accettare. Io non so se accetto o no la mia vita -disgregata, dispersa- da tanti anni la vivo così com’è, ma vi sono ore, momenti… Come stasera questo andante di Mozart, che sa tutto e dice tutto -quello che non vorremmo fosse saputo o detto- e per avere meglio ragione di noi lo dice con la dolcezza di chi ha accettato per tutti”.

Cerco due note che amano” aveva scritto lo stesso Mozart.

C’è una prossimità, una contiguità, se non un legame determinato, tra corpo minacciato dalla morte e il linguaggio insidiato dal silenzio. Un linguaggio che, come in Paul Celan, chiede alla poesia di proseguire a dire dopo le rovine, malgrado le rovine, muovendo dalle rovine. Una poesia ai confini dell’indicibile, spinta alle soglie del silenzio, che rischia il silenzio per esprimere la contraddizione di una parola in rovina, di una parola bruciata.

Forse non si dà poesia se non nella consapevolezza della contiguità con la morte, nella soglia dolorosa del suo non-essere, nell’incontro sulle porte Scee tra Ettore e Andromaca, dove l’amore è quel sostare sofferente, luogo simbolico della genesi del sentimento della poesia, punto d’incontro, nella coscienza viva della morte, tra esistenza e parola, tra vita e poesia.

La parola poetica nasce nello spazio che si crea tra lo sguardo e l’ascolto, nel respiro che accorda la vista all’udito, nella sosta che permette di cogliere quel tu con il quale le cose si rivolgono all’orecchio, chiamando, chi è capace di ascolto, a farne parte. Scrive Antonella Anedda: “occorrerebbe fermarsi sul ciglio di ogni verso”, alludendo al processo inverso che dalla poesia conduce alle cose.

3.

Quindi c’è sempre un fiato di speranza in ogni scrittura, anche in quella che dispiega un dolore immedicabile, una perdita irrisarcibile, anche quando il dio dei poeti non è Apollo Delfico, ma Orfeo dilacerato per aver visto Euridice.

Una ferita “d’una intimità spaventosa”, scrive Roland Barthes, segna indelebilmente il “centro del corpo”, una “piaga radicale (alle radici dell’essere)” e non rimarginabile sfregia l’alba e il tramonto, il giorno e la notte. C’è una scheggia di eternità in questa piaga: l’esilio da questa dimensione dell’eterno è il destino ineluttabile del desiderio d’infinito (desiderio infinito, ha detto Freud) che ci abita. Il momento in cui acquisiamo questa consapevolezza è il momento del risveglio e insieme della nostra unicità. Ed è il momento di una nostalgia ingovernabile.

La nostalgia è commisurarsi con ciò che è andato perduto, confrontarsi con ciò che poteva essere e non è stato, misurarsi con ciò a cui abbiamo rinunciato. La memoria – quella che Wordsworth chiamava “punti di tempo”- diventa, come ci insegnano i greci, l’artigiano della sofferenza.

Nel Salmo 137, detto appunto dell’esilio, è scritto: “sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto al ricordo di Sion”; Madame de Staël giunse a sostenere che “la passione del ricordo è il più inquietante dolore che possa impadronirsi dell’anima”.

Ma già Immanuel Kant, in anticipo sulla psicanalisi, intuì che la nostalgia è il rimpianto di un tempo più che di un luogo: ed è il tempo dell’infanzia, delle origini, del paese natale, della genesi. L’età dell’oro, scrive Novalis, è dove sono i fanciulli che abitano il tempo che cancella la discordanza e custodisce l’armonia tra cielo e terra. Il desiderio di tornare alla dimora è il ritorno a un tempo sacro. Ne segue che non esiste alcun ritorno che guarisca questo sentimento del patire, che riscatti la sfida impossibile contro il tempo.

Esiodo e poi Platone narrano di un’epoca mitica in cui il grano cresceva senza coltivarlo e l’uomo non doveva operare alcuno sforzo per nutrirsi; Virgilio racconta di un’età dell’oro in cui le belve erano domestiche e la terra produceva ogni tipo di frutto. La vita stessa si dipanava in maniera autonoma dall’intervento umano, come indica il concetto greco di automatos bios, cioè quella condizione in cui ogni cosa accade senza che l’individuo desideri qualcosa o si adoperi per essa. È il regno dell’indistinto, dove l’assenza, il desiderio, la mancanza e il bisogno non hanno ragione d’essere. Tutto questo, dice Virgilio, è già accaduto e potrà tornare ad accadere: il mito per l’età dell’oro contiene dentro di sé una nostalgia per il passato e un desiderio per il futuro.

E ancora: Huizinga scrive, a proposito del Medioevo, del disegno di “un passato ideale”, il cui contenuto consiste nel desiderio di far ritorno alla perfezione di un passato immaginario che, osservato con il basso continuo della nostalgia, viene glorificato. Più tardi Rousseau promulgò un ritorno a uno stato di natura come ideale condizione umana.

Il sogno di tornare a una condizione felice -pervasa dalla bellezza e dalla semplicità, cioè dalla libertà dal conflitto- nutre la propria illusione nell’ipotesi di una riunione con la natura. Da Teocrito fino ai romantici del diciannovesimo secolo gran parte della scrittura è intrisa di questo rimpianto per ciò che si è perduto, è accomunata da questo voltarsi indietro.

Questo doloroso desiderio è irreparabilmente dentro il tempo in cui, secondo Jaspers, “tutto ciò che diviene deve andare in rovina”: destinato alla mortificazione, allude alla caducità delle cose e insieme all’Erlosung, la rilkiana seconda patria “ibrida e ventosa” in cui abita. Il luogo di questo invocare è Abendland, cioè terra della sera, occidente dove il sole e con esso l’uomo declina, dimora d’esilio che dice l’oscurità di un cielo ormai privo di stelle. La sehnsucht romantica, lo struggimento che nel suo consumarsi acquieta, diventa heimweh, nostalgia del ritorno verso una dimora inabitabile, disperata deriva d’ogni appello.

La storia dell’uomo porta con sé una ferita irredimibile fin dalla nascita, una colpa inespiabile che rende il suo sguardo attonito e spalancato sul nulla in un corpo, scrive Trakl, “appestato di malinconia”, che si consuma nella nostalgia di un altrove trascorso, di una distanza non colmabile. L’assenza che ha affascinato e percorso soprattutto la letteratura moderna è anche condizione nostalgica della vita che sarebbe potuta essere e non è stata, in quanto ridotta a estraneità in cui l’uomo si sente esiliato. “Ma piangeva un rimpianto senza nome / muto in me della vita” scrive Hofmannsthal: è nostalgia per l’assenza di una vita mai vissuta, di qualcosa che si è perduto senza mai possederlo. Ricorda Claudio Magris a questo proposito: “Il rimpianto non va a quella che è stata veramente l’esistenza […] bensì a un’esistenza che non c’è stata mai, a una pienezza di senso e di felicità che il bambino soltanto attendeva e l’adulto soltanto rimpiange”.

Ma allora, come si chiede Oblomov: “Quando si vive?”. L’era moderna non sa il presente, ma conosce solo un dileguare del tempo, un trascorrere senza mete né arricchimento. La vita, dice sempre Oblomov, “scorre accanto”, come un fiume. Si vive, ma esiliati, senza abitare il vivere.

Agathe, nell’Uomo senza qualità, ripete spesso una frase di Novalis: “Che posso fare per la mia anima che abita in me come un enigma insoluto?”. E la stessa Agathe guarda nello specchio l’immagine del suo corpo nudo, con un sentimento di stupore da cui sporge il profilo sconosciuto di una rivelazione ancora confusa e ignota, necessaria, ma sfuggente. Il suo sguardo in realtà sembra volgersi altrove, lontano dall’immagine del proprio corpo che lo specchio riconsegna come un panorama sconosciuto, come una terra inesplorata: è lo sguardo sulla caducità, sulla labilità, sull’impermanenza dell’essere che affiorano dall’usura del tempo e dalla seduzione della morte.

C’è addirittura una scrittura che persegue la vera e proprio esilio come sospensione nel tempo e nello spazio, lontano dalla pienezza del vivere, dove nulla svanisce, poiché nulla accade. I personaggi di Robert Walser mirano all’inconsistenza, alla irreperibilità, tendono a dissimularsi nell’anonimato; Bartebly, lo scrivano di Melville, sembra muoversi in un altrove inespugnabile; Wakelfield di Hawthorne vive per decenni in una latitanza solitaria e priva di ogni fremito; Niels Lyhne di Jacobsen celebra la vita come vittoria dell’effimero dove ogni giorno è solo il commiato da se stesso nel rimpianto di una totalità inarrivabile.

Il tempo scorre in un’assenza di eventi, di desideri e di attese, come nell’inerzia di un letargo o in un sonno disertato dai sogni.

4.

È Baudelaire che ha portato nel cuore della modernità l’assillo di un’appartenenza negata, di un azzurro avvilito, di una libertà celeste imprigionata. Ecco l’albatros, “in terra, fra grida di scherno, solo”, che mostra nella sua goffaggine, nella sua sofferenza animale, l’altro di cui è emblema sacrificale. Per il suo biancore abbagliante fa pensare all’albatros-arcangelo di Moby Dick che appare un mattino a Ismaele sulla tolda della nave. Ma questo bianco abbaglio non significa più, dice solo l’irrimediabile lontananza dell’altrove. Ecco il Cigno dei Quadri di Parigi, che Baudelaire dedica all’esule Victor Hugo (che definiva l’esilio “luogo d’ombra e nostalgia”): il cigno con le zampe palmate gratta sul pavé asciutto, le ali bagnate nella polvere, lontano dal suo lago, nel cuore di una metropoli trasformata in un immenso cantiere, sventrata perché nasca la città moderna. Dietro il cigno “esule comico e sublime”, dietro Andromaca che specchia il suo dolore in un “opaco” fiume come fosse il Simoenta, appaiono le figure della dimenticanza, le silhouettes che salgono dall’oblio, dal margine, dalla non appartenenza, dalla negazione del nome, e chiedono ospitalità alla lingua della poesia: la “negresse” tisica, coloro che han perduto quel che più non ritorna, gli orfani, i marinai dimenticati in un’isola, i prigionieri, i vinti, ed altri, altri ancora.

Il cigno di Baudelaire, peregrinando nei versi di altri poeti, manterrà la sua condizione di esiliato, ma nei versi di Mallarmé a lui dedicati la sua “bianca agonia” e il suo “éclat”, il suo abbaglio – così diverso dal “lampo” della passante – avrà il gelo cristallino dell’apparenza: il sogno e l’assenza sono come incantati nella forma, nel dominio della forma. Di ascendenza mallarmeana è la scrittura dell’esilio che sarà propria di Saint-John Perse (i quattro poemi che compongono Esilo): alla violenza della storia, al suo tumulto, la scrittura dell’esilio oppone il farsi del canto, alla lontananza la presenza della parola che accoglie, descrive, invoca, al discorso pieno l’erranza del senso. Il mare, la pioggia, la neve, la straniera sono le figure che fluttuano in questa erranza, e infatti non radicano la lingua a un luogo, a un centro. E tuttavia, la solennità celebrativa del canto di Saint-John Perse non apre varchi nella lingua, ma solo nel senso, non va verso l’interrogazione ma verso l’esclamazione: è l’ approdo alla poesia, che è forma, terra, identità.

C’è un altro tratto proprio dell’esiliato, che ci ricorda Maria Zambrano ne I beati: la ricerca dello sconosciuto che è in sé, dello straniero che abita dentro ciascuno. È a questo movimento che la scrittura di Edmond Jabès ha dato forma e respiro. Da Il libro delle interrogazioni a Il libro dell’ospitalità (che segue il libro dedicato proprio allo straniero), Jabès ha rappresentato lo straniero come figura dello spaesamento, dell’estraneità alla lingua. Lo straniero è anzitutto l’altro che ciascuno può riconoscere in sé. Fine del nomadismo estetico. Questo spaesamento del sé si fa a un certo punto prossimità all’altro: è il ritmo della fraternità. Un ritmo che all’origine ha il riconoscimento dell’estraneità di sé a sé: “La distanza che ci separa da uno straniero, dice Jabès, è la distanza che ci separa da noi stessi”. L’esilio, per Jabès, è anzitutto esilio dal Libro, dal suo impossibile compimento, dalla sua voce priva di volto. Libro di un’assenza – assenza di Dio – che ha consegnato l’uomo al dolore del mondo. Si spalanca il deserto, figura della spoliazione di senso, del silenzio, dell’assenza di protezione, della lontananza dall’oasi. Del deserto la scrittura di Jabès ha narrato i cieli di pietra, le impronte cancellate, le voci che il vento agita – voci di profeti e saggi e martiri e poeti – ha narrato le vertigini, le tracce di un senso ferito. Nel deserto il pensiero affronta il suo limite, cioè l’impensato che lo sovrasta, la parola affronta il nulla che la consuma. “Parola di sabbia” dirà Jabès della propria scrittura. Parola esposte al vento della cancellazione, parola che non potendo dire il nulla, modula le metafore del nulla: il vuoto, il bianco, il deserto. La tradizione di un ebraismo fantastico e affabulatorio, ateologico e dialogico si unisce alla tradizione di una poesia che sperimenta la ferita e la perdita del senso, che è prossima al silenzio che abita la sillaba, e accoglie il bianco che circonda la parola. L’esilio è per Jabès la forma spaesata, incompiuta della scrittura: insieme estrema e irrisolta, affacciata sull’abisso e curva sul dolore del mondo, prossima al cielo – alle nuvole, all’impalpabile, al metamorfico – e prossima alla sofferenza del singolo, leggera e ferita.

Con un’altra parola ferita chiuderei questa breve traversata nella terra della poesia, con la parola di un amico di Jabès, Paul Celan. Una parola che la “schmerzliche Reim”, la dolorosa rima, frantuma, piega all’accoglimento del salmo e della negazione, del ricordo e della visione, della cenere e del nulla. La distruzione – della vita, del senso, della storia – abita la sillaba, e scompiglia l’ordine espressivo. Sullo sfondo, la terra dell’addio, cioè il perduto “paese di fontane”, il cielo, l’immagine della madre: la lingua non fa che nominare l’esilio. Esilio che è nel cuore stesso delle parole: “con nomi imbevuti di ogni esilio” Celan ha attraversato con l’asprezza di una solitudine immedicabile la terra della poesia.

5.

Solo l’arte -che viene incontro all’uomo attraverso una forma e accorda così che anche il dolore sia guardato, rendendo compatibili, nella compiutezza della figura e della forma, l’orrido e il sublime- permette talora la rappresentazione simbolica del mondo assente, muta il dolore dell’assenza in ricerca di creazioni simboliche: il principe Myskin nel L’idiota o Kirillov in Delitto e castigo aprono lo sguardo sull’insanabile lacerazione del vivere umano tra possibilità di trascendenza e certezza del morire.

Nulla di più distante dalla consolazione: già Kafka sapeva che l’arte è conoscenza del dolore, ma non la sua compensazione. Si tratta di comprendere (tenere dentro) ciò che appare in genere come un’impronta da cui distogliere lo sguardo in fretta, è un esercizio alla resistenza davanti a un mistero ostile che incute paura, è un gesto che ha memoria di vicinanza, umore di carità (termine ormai desueto, ridotto a una specie di uccello impagliato in un progressivo impoverirsi delle riserve di significato contenute nella lingua, a cui si preferiscono parole più docili, più maneggevoli, più innocue, come solidarietà, per esempio).

Parlavo prima della possibilità di uno sguardo alla ferita altrui che, se non salva né riscatta, riconosce.

E nella scrittura questo gesto diventa creatore di significato, trasforma la parola in respiro, l’ombra in corpo, unisce la piaga che esige uno sguardo e lo sguardo che sosta in un unico momento di intimità che persuade la solitudine e l’indifferenza di un vivere inchiodato alla cupa evidenza del proprio soffrire, di un isolamento senza memoria.

Attraverso la fatica della scrittura e della lettura, come osserva Benjamin, la lingua rende giustizia al passato, percorre quella distanza tra l’ieri e il presente, tra morte e vita riscattando l’esilio del pellegrino eternamente oscillante tra luce e ombra.

Mi sarebbe piaciuto parlarvi del gesto del ricco mercante che in Tolstoj si getta con il proprio corpo su Nikita, il servitore assiderato (nel racconto Il padrone e il lavorante) o del gesto di Dracula nel film di Coppola che raccoglie le lacrime dal viso dell’amata, trattenendo a dolorosa bellezza di una nostalgia.

O anche del dipinto di Simone Martini San Martino dona il mantello a un povero del ciclo di affreschi sulla vita di san Martino nell’omonima cappella della Basilica Inferiore di San Francesco ad Assisi dove con esattezza viene descritta la congiunzione tra uno sguardo e la verità di un dolore attraverso proprio quell’arrestarsi, quel voltarsi, quell’interrompere l’andare senza vedere che compone la trama del quotidiano camminare e dove la richiesta “fate la carità” (da parte dei bisognosi, quando almeno possedevano ancora la stessa lingua dei più fortunati) adeguava l’essenza numinosa della carità alla sfera d’azione del lavoro umano, cioè di ciò che è passibile fare, come si fanno le scarpe o il vino, le mura delle case e le canzoni d’amore. Ecco, alla base di quel lavoro non c’è altro che la capacità di voltarsi indietro, di ridonare energia all’inerzia dello sguardo.

O nello sconvolgente racconto Un medico condotto di Kafka dove il ragazzo ferito, prima di morire, esige uno sguardo sul suo corpo lacerato: e cos’è questo sguardo se non un gesto di riconoscimento che intenda dire: la tua ferita è comprensibile, ciò che allo sguardo del mondo può apparire come il sigillo di un mistero ostile, dal quale volgere gli occhi, si rivela un segno di riconoscimento, di prossimità, di intimità tra uomini così stretta che la ferita non appartiene più a nessuno in particolare. Tutto questo pur nella consapevolezza che non ci attende alcuna consolazione e nella solitudine senza memoria del medico di Kafka, in questo simile a un altro personaggio moderno della letteratura del novecento, il dottor Semmelweis di Céline.

Chi ha visto Il posto delle fragole di Bergman ricorderà che “il primo dovere di un medico è chiedere perdono”.

6.

Concludendo vi parlerò invece I morti di Joyce che chiude con una nota straziante i racconti di Gente Di Dublino.

L’idea del racconto è di far balenare il fuoco di una rivelazione al centro del più incongruo degli scenari possibili: un ricevimento. La possibilità di un significato, e quella interruzione sospesa che lo circonda, sorgono improvvisi nel mezzo del rito mondano, sempre uguale a se stesso nel volgere degli anni, e non più nel silenzio della solitudine e del deserto dove il roveto che arde senza bruciare elargisce il suo insegnamento all’uomo spaurito.

Per buona parte del racconto non accade nulla, o meglio, ciò che pure accade è talmente prevedibile da poter passare praticamente inosservato. Questa bonaccia subirà un’improvvisa quanto inarrestabile accelerazione, come un fiume tranquillo giunto nella zona delle rapide, solo alla fine del racconto e del ricevimento. E non sarà un avvenimento a determinarla, quanto un’interrogazione, destinata peraltro a rimanere sospesa sulla fine del racconto, senza mai risolversi con certezza.

Il ricevimento volge alla fine, si scambiano le ultime battute, si indossano i soprabiti, stanno arrivando le carrozze per il ritorno a casa. La festa sta finendo, ma c’è ancora qualcuno che si attarda al piano di sopra, da dove proviene il suono fievolissimo di qualche accordo di pianoforte e di una voce che canta. Dalla penombra dell’atrio Gabriel (critico letterario di provincia, uno dei due protagonisti) si avvede di una presenza, un’ombra immobile in cima alla prima rampa delle scale, sospesa e come riluttante ad abbandonare la festa. È sua moglie Gretta, appoggiata al corrimano, rapita nell’ascolto della canzone. In lei, in quel momento, al confine tra i due piani della casa, tra la festa e i congedi, si addensano, scrive Joyce, “grazia e mistero”, tali da trasformarla nel simbolo di qualcosa (“a symbol of something”) che non arriva a precisarsi alla luce della coscienza di Gabriel, ma appunto dal suo rimanere nell’ombra deriva una sorta di inquietante fascino. E Gabriel continua a chiedersi di cosa mai potrebbe essere simbolo quella donna ferma sulle scale buie, che ascolta una musica lontana. Ecco, l’unica cosa certa di questa apparizione è il suo profondo legame con la musica, con quella musica: una sorta di complicità che stringe l’ombra al suono, senza che l’una aiuti a decifrare il significato dell’altro o viceversa. Quel corpo accoglie in sé la melodia lontana e se ne lascia lentamente soggiogare, acquistando qualcosa della sua essenza: la complicità finisce per rivelarsi, in uno di quei slittamenti peculiari al simbolico, un’identità. Poche pagine dopo il corpo di Gretta, desiderato con violenza da Gabriel, verrà definito musicale: ed è davvero musicale, se ascoltare vuol dire trasformarsi in ciò che si ascolta, condividerne in qualche maniera il destino, aggirando la barriera dell’identità.

Il titolo della vecchia, struggente ballata irlandese che ha catturato Gretta sulle scale è La fanciulla di Aughrim e parla di un abbandono d’amore; ma da dove viene quella musica nella vita di Gretta, e cosa ha risvegliato nella sua memoria? E qui comincia il gesto del raccontare, e per Gretta il racconto ha inizio insieme alle lacrime, come quello di Enea che è costretto a renovare dolorem ricordando a Didone i fatti di Troia, come quello di tante anime di Dante, di Francesca da Rimini, che sente che non c’è maggior dolore di quello del narratore, di colui che deve ricordare il tempo felice dentro la miseria del presente, come quello di Marlow in Cuore di tenebra. E Gretta racconta di un ragazzo a cui voleva bene e con cui, quand’era ragazza, faceva lunghe passeggiate in campagna; un sentimento di affetto e nulla di più, lui le cantava La fanciulla di Aughrim, la ballata che l’ha colta di sorpresa scendendo le scale alla fine della festa. Debole di salute, questo ragazzo -dopo la notizia che Gretta avrebbe lasciato la campagna per andare a studiare in convento- una notte di pioggia d’inverno, la notte prima della partenza, aveva lasciato il suo letto di malato per andare nel giardino di Gretta e, nonostante gli scongiuri di lei a tornarsene a casa, non si era più mosso. Dopo una settimana era già morto.

E qui Gretta dice, con una lingua semplicissima e diretta, senza filtri dietro cui nascondersi: “I think he died for me”, dice Gretta. Credo sia morto per me, sono parole difficilissime da pronunciare, il cui evidente sapore liturgico sigilla il compimento dell’avvenimento: il giovane malato che aveva sperperato l’ultimo residuo di vita sotto la finestra dell’amata, è tornato tra i vivi. La memoria è riuscita a farsi carico di quel puro e sconsiderato impulso di passione e gli ha assegnato un luogo dentro il linguaggio dei vivi, dentro la vita di chi ha continuato a vivere.

Colui che la vita ha esiliato nel paese degli spettri, ritrova per un attimo, attraverso la scrittura, una dimora nel ricordo e nel suo racconto, che almeno in parte riparano un torto mentre riaffiora alla superficie della lingua. Come diceva Benjamin, una “favilla di speranza” si accende anche nel passato, perché raccontare una storia significa sempre parlare una lingua che deriva la sua autorevolezza da ciò che non è più, e che torna nel mondo dei vivi affinché essi gli assegnino un luogo.

Ciò che ha scatenato l’esercizio doloroso della memoria è stata una ballata popolare, perché non sono necessari pretesti inauditi, casi mirabili serbati in sorte a individui eccezionali, dal momento che su tutto può incombere, pronta a rivelarsi, la qualità discontinua e fuggevole del simbolico, che vale certo più per l’interrogazione che produce e non per le risposte che consente. Mi vengono in mente gli oggetti di certe sequenze dei film di Tarkovskij (il telefono che squilla in Stalker, le cianfrusaglie inghiottite dall’acqua nello Specchio…) che derivano quella loro vibrazione poetica proprio dall’essere al polo opposto del sublime, cose di tutti i giorni che affollano il vivere, prossimi al mondo delle consuetudini.

A questo punto Gretta, spossata, si addormenta. E Gabriel non può non raccogliere il testimone di questo riscatto, di questo risarcimento: le ultime righe de I morti descrivono soprattutto una perfetta solitudine, la solitudine di chi sta al termine dell’intreccio narrativo, ma lo rende possibile, lo suscita dal nulla, colui, cioè, che ascolta una storia. Una solitudine entro cui si travasano le lacrime di Gretta, dalla parola all’ascolto, dal suono del racconto al silenzio che lo accoglie.

Joyce sa benissimo di non poter ridare fiato e parola ai morti, di doversi limitare a rammentarne la musica lontana e la sproporzione tra i destini lascerebbe accecati se, consegnata alla giustizia della lingua, la memoria non diventasse l’alimento della vita smemorata, del tempo che scorre. Un reciproco soccorso può unire allora chi invecchia nell’uniforme transito dei giorni e chi, appena affacciatosi, cade d’amore e di pioggia.

Quando dio e il mondo erano da soli

ovvero quale libertà per l’uomo postumo

1.

Noi consideriamo la libertà un principio e un valore inalienabile, facente parte di quel tabernacolo che definisce la nostra identità. Ma – come sarebbe opportuno muoversi di fronte alle parole che rischiano dogmaticamente e semplicisticamente di entrare nella percezione collettiva, rassicurando le nostre coscienze beate – cominciamo a chiederci: che cosa significano oggi termini come libertà o identità, quali sono le ambiguità, le oscurità, i fraintendimenti, le mistificazioni che le percorrono appena sotto pelle? Voglio dire: di quale libertà stiamo parlando? Hanno ancora un qualche valore (o meglio: hanno ancora effetti di realtà) i concetti di libertà come scelta, come responsabilità, come liberazione dalle passioni (cioè da sé); ha ancora un senso la libertà inseguita da Spartaco o la libertà di Kant fondamento della moralità o la libertà intesa come emancipazione collettiva e come rigenerazione dell’umanità, o la libertà che trova rifugio nella sfera privata?

2.

C’è un romanzo della prima metà del Novecento che – per definizione del proprio autore – è un romanzo sul nulla, che non rincorre sperimentalismi come quelli tentati negli stessi anni da Joyce, proprio perché il suo autore è scettico sulle possibilità e sul senso di una narrazione. Si tratta de L’uomo senza qualità, dove il personaggio musiliano, l’uomo senza qualità, appunto, “è un insieme di qualità senza l’uomo, senza un centro che le unifichi[76].

Solo apparentemente assimilabile ad altri ignavi della letteratura come Oblomov di Gonciarov o lo scrivano Bartleby di Melville, ma nemmeno troppo vicino alla tipologia degli inetti come lo Zeno di Svevo o ad alcuni personaggi di Federigo Tozzi, come il Remigio del Podere, Ulrich è in realtà l’interprete di un nomadismo senza scopo e senza ritorno che si spinge all’estremo, verso nuove costellazioni e interpretazioni dell’essere, e diventa continuamente altro da sé, si getta e si progetta in avanti mutando la sua fisionomia e la sua natura. In verità Ulrich possiede molte qualità e tutte di prim’ordine: ha percorso, come il suo autore, la carriera militare, quella dell’ingegnere e dello scienziato, per scegliere poi una vita di ozio contemplativo. A tali molteplici qualità non corrisponde peraltro nessuna capacità di agire.

Si muove in un’odissea rettilinea, in una continua interrogazione e sperimentazione del mondo che è l’antitesi del processo dialettico: la sua odissea non è il viaggio circolare di Ulisse che parte per ritornare, cambiato e cresciuto, a casa; non è il percorso hegeliano o marxiano del soggetto che, “nelle sue avventure diventa ancora più intensamente se stesso e ritorna a sè ricco dell’esperienza, di tutti gli oggetti che ha incontrato e fatto propri nelle sue peripezie[77]. In Musil tra vitalismo irrazionalista e abolizione della realtà si svolge una parodia di azione, metafora dell’immobilismo dell’impero asburgico.

Interprete della decadenza europea, (siamo alle soglie della prima guerra mondiale e poi del nazismo in Germania) Musil è forse uno dei primi scrittori a esprimere la coscienza che la disarticolazione della totalità (o “sintesi definitiva”, come la definisce Severino[78]) infrange il grande stile. Ma cos’è il grande stile? È la facoltà della poesia di convertire il mondo all’essenziale e di governare la proliferazione del reale in un’essenziale unità di significato; il grande stile controlla e riconduce le dissonanze anche dolorose del vivere – ma anche le sue diversità e la loro irriducibilità – alla compatta e solida armonia della forma. Il grande stile è quindi anche violenza, come hanno ammonito Nietzsche[79] e Heidegger[80], “è la violenza metafisica di un pensiero che impone alle cose una camicia di forza e fa di esse i simboli di un universale e di un’identità che viola la loro singolarità e la loro autonomia[81].

Musil avverte pienamente l’impulso al dominio immanente ad ogni pensiero che esiga di dirimere in una sua propria unità le contraddizioni del reale e di integrare incessantemente ciò che gli è altro e alieno, facendone un’antitesi da annettere, oltrepassare e invalidare in una sintesi successiva.

La rete di pensiero a cui si riferiva Nietzsche si è dilatata sino ad assediare tutto il mondo, per assoggettare la sua molteplicità. Ogni pensiero che accorda unità – o meglio la propria unità – al mondo è un gesto d’autorità, che intima silenzio a ciò che è profondamente diverso e lo bandisce dalla storia: tutta l’evoluzione del pensiero occidentale, secondo Nietzsche e Heidegger ma già secondo Hegel, “è la vicenda di quest’autorità che espropria e aliena tutto ciò che le è irriducibilmente estraneo, di questa volontà di potenza che soffoca la realtà multiforme e cangiante della vita[82]

La volontà di verità, per Nietzsche, è la volontà di ridurre all’uno le proteiformi maschere del molteplice che costituiscono l’autentico tessuto della vita: è la tattica che ogni potente e ogni tiranno, come osserverà Elias Canetti[83], impiega nei confronti della ricchezza vitale per meglio governarla.

La metafisica – e in questo senso tutto il pensiero occidentale è metafisica – prescrive al mondo un senso, esigendo che vi siano una realtà sostanziale e un senso vero, mentre quest’uniformità è l’attrezzo, lo strumento del suo dominio, che nell’età della tecnica diverrà pianificazione e amministrazione razionale del mondo.

Contro l’uniformità e l’identità universale Nietzsche dichiara il carattere plurimo e mutevole del reale, l’inconsistenza di un vero volto dell’essere dietro le maschere del divenire, l’infondatezza di una realtà o di una verità data, in luogo delle quali sussiste per lui solo il gioco degli dei con i dadi, la giostra delle illimitate interpretazioni possibili, il mutevole trascolorare delle possibilità.

Il romanzo di Musil scaturisce da questa esigenza di sviluppare la realtà come un compito e un’invenzione e di respingere ogni proposizione all’indicativo ossia ogni asserzione definitiva e assoluta a favore del congiuntivo, del senso delle possibilità[84]. Se esiste il senso della realtà, si legge nell’Uomo senza qualità, deve esistere anche il senso della possibilità[85]. Colui che lo possiede non dice che questa o quella cosa è accaduta, accade o accadrà, ma che potrebbe anche accadere o che tutto potrebbe essere diverso. Egli non dispensa maggiore importanza a quello che è rispetto a quello che potrebbe essere. Vedere il mondo come possibilità significa pensare che ciò che gli uomini ammirano, credono e condividono non è per ciò stesso lodevole, bello e lecito, né che esprime tutta la realtà.

Musil si indirizza verso le non ancor deste intenzioni di Dio, – ossia da ciò che ancora non è, da ciò che ancora non è stato pensato o detto, ma che risuona nella possibilità di determinarsi – addirittura verso le possibilità nemmeno ancor potenziali, verso l’estraneo non assimilabile, ossia verso forze che non si lasciano più unificare e ordinare, vale a dite oggettivare e reificare da un soggetto legislatore. Il romanzo musiliano disdegna, come ha scritto Cesare Cases, di .arrotondare gli spigoli del reale[86].

Il grande stile, infatti, si infrange quando vengono meno due preliminari fondamentali: l’idea di soggetto e l’idea di sostanza. Il grande stile, scriveva Hofmannsthal, è innanzitutto la capacità di tacere il pullulare dei particolari a beneficio dell’essenziale, è ciò che consente di dare un senso alla vita e di farlo percepire in ogni dettaglio, che in tal modo appare sempre ricco di significato e mai incongruente o irrelato: nella mazurca di Natascia o nei baffi tratteggiati col carbone sulla bocca di Sonia – come scrive Claudio Magris – c’è tutto il respiro di Guerra e pace, la serenità dell’esistenza e della storia al di sopra della lacerazione.

Ma questo grande stile presume un soggetto che sia dotato di una sostanza compatta, prevede le più elevate capacità creative e organizzative di un soggetto che si stabilisca quale ordinatore del reale e si impossessi di esso, convertendolo a oggetto e dominandolo.

Con L’uomo del sottosuolo di Dostoevskij e col Zeno Cosini di Italo Svevo il soggetto apprende invece di essere non già il centro unitario che compendia e gerarchizza le contraddizioni, bensì il luogo caotico e malfermo nel quale le contraddizioni si incrociano, si addensano e si confondono senza mai conciliarsi.

Nel romanzo di Dostoevskij il mondo si sgretola, si mette in discussione e si dissolve; l’uomo nuovo, che vuole nascere da queste macerie, intende affrancarsi dalla severa gerarchia dell’io cioè dall’oppressione che lo ha dissociato dal fluire della vita.

Per altro vorrei ricordare come sia possibile – trasposta su un piano filosofico – identificare la matrice dell’intera opera dostoevskiana con il problema filosofico della libertà. Molti tra i più importanti interpreti di Dostoevskij hanno letto i suoi romanzi precisamente sotto questo segno. “La libertà sta al centro stesso della concezione di Dostoevskij. Il suo sacro pathos è il pathos della libertà[87] scrive Berdjaev nel suo celebre lavoro sul narratore russo. E così Remo Cantoni: “Sarebbe possibile interpretare tutte le opere di Dostoevskij alla luce di questa categoria fondamentale ed essere sicuri che l’interpretazione si muove sempre intorno all’asse centrale della problematica dostoevskiana[88]. E anche Rozanov, Solov’ev, Šestov, Pareyson dispongono le proprie riflessioni su Dostoevskij intorno alla questione della libertà[89].

E ben lungi dall’essere consolatoria, questa considerazione si rivela una botola spalancata sull’abisso, perché alle fondamenta del suo pensiero si trova pure il massimo grado d’instabilità. La libertà in Dostoevskij è dono terribile da ricusare, peso insopportabile, errore divino, insostenibile dovere da servire alla guisa degli schiavi, merce di scambio con la promessa di benessere e di felicità, ostaggio del miracolo, del mistero e dell’autorità, contraddizione con la morsa della necessità che brucia ogni speranza, vertigine, tragedia dell’inanità umana.

Ma è, comunque, fondamento, senso, origine.

Tornando a Musil, la realtà diventa una serie inesauribile di centri, e l’arte, per esserle fedele, simula e ricalca “nella propria disarticolazione la sua molteplicità anarchica[90], la sua molteplice complessità di stili irriducibile all’unità, come la casa di Ulrich che è un accatastamento eterogeneo di stili inconciliabili.

Ciò implica una dispersione indistintamente aperta, uno sgretolamento risolutivo della totalità, che si infrange come le stelle cadenti di cui parla Trakl[91]. Essa, dice Musil, non vive più; ogni tentativo di ricostruirla può essere solo “posticcio, calcolato, inautentico, artefatto”e può arrecare alla vita soltanto “paralisi, esaurimento, rigidità cadaverica[92].

Il romanzo di Musil è un’incessante mimesi dell’incompiuto, un’assidua emancipazione del particolare dalla totalità che è sempre oppressiva in quanto insabbia e asfissia l’anima, “quella metà che” egli dice “seguita sempre a mancare quando tutto è già intero[93].

Eppure, come una bava di lumaca, rimane la traccia della nostalgia della totalità: “come si volgerà Agathe” si chiede Musil in un abbozzo de L’uomo senza qualità destinato al viaggio in paradiso cioè all’estasi della perfetta unione amorosa “come sorriderà verso la riva?[94]. Con leggiadria, egli risponde, come ogni vera perfezione. Ma quando si domanda cosa sia la bellezza, che è sempre bellezza di un particolare, osserva che una curva può essere chiamata bella in quanto si conosce o si ipotizza la totalità del cerchio di cui essa è parte, e che quindi la comprende la trascende e la chiude.

Ma se dietro questo infinito di mare e cielo non c’è niente, aggiunge Musil, se esso è inesorabilmente aperto? In quella spiaggia sospesa fra cielo e mare l’infinito si esibisce ai due amanti come uno squarcio sul nulla, come lo sconfinato brandello di un’apertura che somiglia a una ferita.

La nostalgia degli amanti si sporge oltre quell’infinito, per avere notizia se esso nasconda un senso oppure il niente. Nell’illimitata apertura di quell’orizzonte dell’essere non si manifesta alcun ente concreto. L’essere è avvertito non quale pienezza, bensì quale incrinatura e mancanza.

L’aperto è dolore, logora ed estingue l’amore dei due amanti inabili a reggere all’incessante nostalgia dell’intero. Nel bagliore magnifico e senza pietà dell’apparenza il greco presocratico diceva di intravedere, come afferma Nietzsche, il bagliore delle lance degli dei che si trastullavano nei loro olimpici giochi e tornei.

Per gli amanti di Musil quel riflesso è una lancia che lacera, è una freccia d’Apollo nel fianco. Ma tale pungolo straziante non si traduce mai in tragedia: questa è irreperibile nella scrittura di Musil, anche nei momenti di più alta tensione drammatica e dolorosa, perché anche la tragedia concerne a quella dimensione dell’individuale e dell’umanesimo da cui Musil si allontana.

Musil non delimita e non conclude l’aperto, né integra il frammento; non trascura l’aspirazione a cercare quel pezzo mancante, forse impercettibile, che conclude il cerchio spezzato, ma sa che “finché si pensa in frasi con il punto finale certe cose non si lasciano dire[95]. L’intero, riflesso dalla totalità definita della frase, inibisce la pluralità del reale ad affiorare nella sua inenarrabile frammentarietà.

Ogni organico intero è ormai solo un mediocre surrogato e alla prova dei fatti si rivela la caricatura di se stesso, “non la cattedrale ma la prigione dell’essere[96].

Per Musil la legge della storia non è dunque altro che il fortwursteln, il tirare a campare della vecchia Austria, un perenne disorientamento, un continuo smarrimento e il reale è un infinito e instabile terreno di connessioni governato dal principio d’indeterminazione.

Pochi libri delineano con altrettanta trasparenza la morte delle gerarchie e delle repressioni implicite in ogni gerarchia, e insieme l’impotente elisione reciproca degli infiniti soggetti resisi autonomi: “tutto il nostro essere […] non è che un delirio di molti” e “la più profonda associazione dell’uomo coi suoi simili è la dissociazione[97].

Da questo punto di vista, l’Uomo senza qualità, con la sua odissea rettilinea e inflessibile taglia radicalmente ogni ponte col passato, non a caso il mondo di “Musil ignora la procreazione e la discendenza, la continuità e la ripetizione edipica[98], mentre l’Ulisse è l’epos circolare ed edipico, paterno e materno che rinviene, custodisce e tramanda la continuità di quell’ordine.

Abbiamo visto che non sono le qualità a mancare al personaggio di Musil, ma la determinazione necessaria per realizzarle, per metterle in opera. Manca di un centro che le accorpi e le traduca in atto. Si lamenta una difficoltà a intrattenere un rapporto concreto con il mondo che lo circonda, che viene percepito come un universo di convenzioni e di abitudini, anche mentali, ormai vuote di significato e prive di fondamento. Tutto (mondo e rappresentazione del mondo) appare ordinato e finalizzato solo in apparenza: in realtà niente porta a niente e tutto è in preda al caos, ogni certezza è relativa e provvisoria. Insomma, la vita non dimora più nella totalità, come già scriveva Nietzsche nel Caso Wagner, la realtà, il discorso e l’io stesso si risolvono in un’”anarchia di atomi[99]. Tutto ciò invalida visibilmente ogni ideale di formazione dell’individuo e ogni Bildungsroman, cioè romanzo di formazione, che si rivela impraticabile quando viene meno la fiducia nell’identità dell’Io e quindi anche la possibilità di un’esperienza individuale unitaria del reale.

Ma è soprattutto il linguaggio musiliano a definire tutto questo, o meglio: l’esperienza della crisi o della dissoluzione del soggetto implica anche quella del linguaggio; non esiste più un soggetto unitario che possa stringere, distinguere e aggregare il molteplice da una prospettiva superiore e dunque comprendere e compendiare il mondo nell’ unità della frase. Come Canetti col gorilla dell’Auto da fé e con Massa e potere, Musil affonda fino al gesto originario dell’incrinatura, della ferita, rinviene e dà voce alla vicenda stessa di quella scissione e fa della follia, ossia dell’alterità radicale, un soggetto autonomo. Distrugge ogni tassonomia categoriale nel rimando analogico, disaggrega la connessione logica prescritta socialmente e culturalmente ai singoli fatti e percorre quelle aperture che si spalancano quando le parole, i segni che strutturano il reale, cedono nelle imbastiture. Instaura dettami contro la grammatica, estende il campo semantico di ogni segno fino a contenere contemporaneamente tutti i significati contrari, scinde e incrementa se stessa in un tramaglio smisurato di segni momentanei, subito spazzati come foglie al vento. Le sue parole sono puri significanti strappati alla dittatura del significato, metafore che non si scoprono all’interpretazione del pensiero logico-rappresentativo, bensì al gioco che istituisce il discorso poetico.

E viene alla memoria un’altra opera della crisi della Vienna fin de siécle, quella Lettera di Lord Chandos di von Hofmannsthal, la celebre lettera dell’immaginario poeta Lord Chandos a Francis Bacon, in cui si dichiara un tormentato addio alla parola e alla sua funzione referenziale. Nulla rimane della magia e del mistero che attraversano l’ineffabilità del discorso poetico, si evidenzia solo “l’assoluta insufficienza e inadeguatezza del medium linguistico davanti alla multiforme e brulicante eterogeneità delle cose e degli eventi[100], inadeguatezza che è la ragione della crisi creativa, dell’abiura della scrittura e della rassegnazione al silenzio della pagina bianca.

La letteratura novecentesca si affolla così di aspiranti poeti e scrittori vocati all’afasia, come Orlando, l’androgino protagonista dell’omonimo romanzo di Virginia Woolf.

Contemporaneamente, scrive Musil, guardare al mondo come possibilità rivela “la capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è[101]“. Quindi lo sguardo si dilata verso la massima apertura, schiude una ferita dolorosa per la nostalgia dell’intero di cui si conserva memoria e costringe se stesso a misurarsi con una realtà che si rivela frammentaria e disarticolata. Nella quale concetti come verità, volontà, desiderio, libertà smarriscono i fondamenti che li hanno definiti senza rinvenirne di adeguati al nuovo scenario, dove tra l’altro non dimora più alcuna idea di telos, cioè di scopo, ma sopravvive solo la natura autoreferenziale del desiderio, che ha per oggetto se stesso. È la stessa capacità di fare esperienza, di vivere e sentire nelle forme e nelle modalità consuete che frana, si ammala e si annulla: l’uomo non è più soggetto di qualcosa, quanto soggetto a qualcosa[102], in maniera passiva e involontaria.

Il legame compiuto, senza scarti tra esperienza e narrazione che fino ad allora aveva concretizzato il grande racconto poetico ed epico costituito sull’unità del mondo e del soggetto si spezza e all’uomo de-privato non rimane che indagare i residui e i frammenti che questa deflagrazione lascia dietro di sé[103]. Da qui la natura frammentaria di molta scrittura del 900, immersa in una dimensione magmatica, fluida, informe, dove l’incompiuto, il non finito, il frammento, appunto, conquistano sempre più rilievo, orientati oltre l’esperibile, oltre la forma, oltre la parola, oltre la narrazione, diventando meta-narrazione[104].

3.

Ora, quale libertà si dà all’uomo musiliano o per l’uomo postumo, secondo al definizione di Nietzsche?

Il concetto di libertà come comunemente è stato inteso, in questa frammentazione che ho cercato di evidenziare, non ha più sostanza, poiché il fondamenti che l’hanno definito si sono svuotati di senso, corrosi da quella volontà di potenza che è unico fondamento del valore, dove, come sappiamo anche Dio è morto e non crea più mondi, cioè il mondo accade e diviene come se Dio non ci fosse.

Non c’è più un centro comune o, se c’è, è un centro vuoto dove non risiede una verità da comunicare, ma si manifesta un’assenza, un oscuro rimando a un’origine, la traccia di un limite invalicabile, di un conflitto che non attende una conciliazione.

In questo scenario parlare di libertà come qualcosa di definito è solo uno spot pubblicitario, è come ballare il valzer nella Finis Austriae, valzer che ha poco a poco si trasforma in danse macabre, come nella Valse di Maurice Ravel che disegna musicalmente il disfacimento di quel mondo, la “gaia apocalisse” di cui parla Hermann Broch[105]. D’altra parte, ha scritto Thomas Eliot: “è questo il modo in cui il mondo finisce / non già con uno schianto ma con un lamento[106], con un piagnucolio.

L’odissea musiliana si affaccia verso un destino che non è l’orizzonte dell’uomo storico ed nemmeno l’esito di ogni tragedia, della tragedia stessa del suo perire: così i discorsi dei suoi personaggi che rincorrono una definizione dell’amore, si interrompono davanti all’“alito come immobilizzato della natura morta”, alla “felice inesauribile malinconia” del mare al sesto giorno della creazione, “quando Dio e il mondo erano soli, senza gli uomini[107].

Un inverno lunghissimo

ovvero il silenzio come esilio

 

 

Il silenzio non si può dire, ma se ne può parlare, purché ci si svincoli, se possibile, dai pregiudizi che il silenzio circondano, intessuti di fastidio, paura o viceversa di infatuazione.

Da una parte viene assimilato quasi a una condizione di impotenza, di privazione, di menomazione: l’oscuro rovescio del suono, della parola, della musica, del rumore, una tenebra di solitudine opposta alla luminescente compagnia dell’eloquio, del brusio: il silenzio come mancanza, come assenza sospetta, indiziata a tendere imboscate alla democratica vivacità del suono.

Dall’altra parte, specularmente, a fronte del crescente inquinamento acustico e dell’incessante cicaleccio di vanità e di parole incenerite, il silenzio si ammanta di un’aura mitica, è oggetto di più o meno sprovvedute e ingenue fascinazioni, diventa balsamo, rimedio, unguento, unica espressione di autenticità.

Ora io credo che se nell’odierna galassia le parole hanno fatto bancarotta, se la chiacchiera (“un’arte della parola senza cuore e senza amore”, come scrive Ebner) ha alterato le parole in “necrologi del pensiero” (Lec) anche il silenzio non goda ottima salute. Perché dobbiamo sapere che alla deriva del linguaggio, a quella che Calvino, nelle sue celebri Lezioni americane, chiama “un’epidemia pestilenziale” che ha “colpito  l’umanità”, “una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, distratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive” e via dicendo, non esiste silenzio capace di opporsi, se non perseguendo una condizione di esilio, se non facendosi esso stesso esilio, cioè addentrandosi lungo quell’inverno lunghissimo dove non esiste conforto, soccorso, rassicurazione, ma solo il gelo di una distanza, di una separazione.

E allora proviamo a percorrerlo questo inverno, muovendoci per stanze, confidando nella speranza che sempre Calvino individua nella letteratura come farmaco, anticorpo contro le parole bruciate, fallite, feriali, inerti, coatte.  Una speranza che interroga la tentazione del silenzio della poesia come della filosofia, quando la parola sembra non avere più presa sulla realtà o di fronte all’inafferrabilità delle cose o dell’esperienza della soggettività o del tempo o della morte.

In altre parole: in un’epoca di omogeneizzazione dei modi di agire, ma anche di pensare e di vivere, il problema non è difendersi dal ‘rumore bianco’ – vale a dire l’immenso brusio indistinto che finisce per essere silenzio – con il silenzio. Il problema è sempre quello di trovare le parole che dicano anche il silenzio, che testimonino anche l’impossibilità di parlare. La grandezza della poesia e dell’arte del XX secolo è stata anche quella di attestare l’afasia, di testimoniare la caduta della parola. Paul Celan, Beckett, Kertész, ma anche Pollock e Lucio Fontana, sono soprattutto questo. E risalendo all’inizio del moderno, anche Kafka, Montale, Eliot, nonché Freud, Bataille.

1.

Pensiamo a ogni libro come un luogo d’esilio: pur se non ne costituisce il tema o non ne determina la condizione, l’esilio è ciò che avvicina e talora congiunge il vivere alla lingua. È la distanza che si rianima dentro una voce che non è più solo grido o gemito di sofferenza, è la lontananza che trova il passo per raccontarsi in un ritmo, in una cadenza che accoglie e sottrae all’abbandono ciò che è perduto in un gesto d’ospitalità che riunisce due mancanze. Da una parte la nostalgia che avvolge un passato di luogo o tempo perduto, dall’altra il limite di una lingua che -se non si china per raccogliere un sentire, se non compie quell’atto di umiltà, di attenzione, di ascolto- non ha parole per germogliare. Perché se attraversare un testo, come ricorda Benjamin, è un modo di tendere verso l’estremo, di misurarsi con le ultime cose dell’uomo, anche nella scrittura ci sono povertà che arricchiscono: come ricorda Marina Cvetaeva, “a volte bisogna dare in ginocchio, come i poveri quando chiedono”.

2.

Perché lo spazio della scrittura è uno spazio d’esilio, di separazione, di chiusura e di sacralità; è lo spazio di un altrove inassimilabile al reale. La scrittura è tale nella consapevolezza della propria sconfitta, della ferita che ripercorre ogni volta, del silenzio e dell’assenza come risposta a una continua interrogazione.

Lo spazio della scrittura è, come diceva Rilke “l’altro versante della vita”; è per Blanchot una relazione anticipata con la morte; è, all’interno del proprio vuoto, come scrisse Mallarmé, l’incontro con il nulla, con l’assenza degli dei, è abitare dove il senso latita.

Già Kafka sapeva che l’arte è conoscenza del dolore, ma non la sua compensazione.

Ma è anche il gesto del ricco mercante che in Tolstoj si getta con il proprio corpo su Nikita, il servitore assiderato; è la struggente ballata della Fanciulla di Aughrim  che, nella memoria capace di conservare e di restituire la purezza estrema di un gesto d’amore, similmente alla colomba trakliana che proviene dall’infinita e lacerante distanza del ricordo, fa dire a Gretta ne I morti di Joyce: “I think he died for me”; è anche Orfeo che ridiscende verso Euridice, il luogo indicibile e oscuro verso cui la parola aspira, cercando nell’oscurità ciò che la notte dissimula, è il gesto di Dracula nel film di Coppola,  che raccoglie le lacrime dal viso dell’amata, è trattenere la bellezza dolorosa di una nostalgia.

E la bellezza è tale perché è labile, perché rivela a ogni sguardo la sua natura di ostaggio del tempo; è come il volto di Nastasija ne L’Idiota di Dostoevskij che racchiude indistinguibili avvenenza e sofferenza, contenendo irrisolta la contraddizione tra armonia e tragedia.

In La sirène du Mississippi di Truffaut, Louis Mahé, osservando Marion/Julie, ribadisce più d’una volta come il guardarla sia insieme una gioia e una sofferenza.

Il patto, poi disatteso, di Orfeo con Plutone dio degli Inferi di non voltarsi verso Euridice ribadisce che la bellezza è immateriale, è un’idea di bellezza, che permette solo un’estasi silenziosa, che nega ogni possesso, scontato fatalmente con la morte.

Forse occorrerebbe conservare nella memoria le parole della decima elegia udinese di Rilke: “E noi che pensiamo la felicità / come un’ascesa, ne avremmo l’emozione / quasi sconcertante /di quando cosa ch’è felice, cade”.

3.

Ogni figura del dolore come della bellezza contiene dentro di sé l’ombra dissimulata di un segreto inespresso e forse indicibile, condannato al silenzio.

Scrive Joe Bousquet dalla stanza in cui è esiliato dalla vita per oltre trent’anni: “Vorrei avere solo pensieri capaci di fiorire e insieme di parlare all’uomo con tutti i suoi sensi; così che la sua vita sia arricchita da ogni minuto piuttosto che separata da tutti quelli che ha vissuto”. La pagina scritta ha un senso se spartisce il gesto del dolore, se dice come l’esperienza delle cose nasca dallo smarrimento, dal sentirsi minacciati e dalla necessità di continuare. La scrittura è liturgia, è dare al mondo una nuova disposizione, è resistenza, custodia e soccorso. È salvifica nell’opporsi al non senso della morte (e dell’infermità che è anticipazione della morte), trasformando il proprio spazio angusto e il proprio tempo d’esilio in uno spazio e in un tempo di silenzio che rinomina le cose.

Se bellezza, dolore, segreto sono monadi sparse, se le ferite che ci segnano non sono fessure, spiragli, bocche che parlano non c’è nemmeno nella scrittura quel gesto che avvicina l’anima al mondo e viceversa, quello “sfiorarsi di labbra” dove il sentirsi esiliati trova una pur instabile dimora.

 

 

4.

Nell’ultimo lieder del ciclo ieder eines fahrenden Gesellen di Mahler il viandante procede al passo di una marcia funebre nel viaggio verso”l’estrema provincia della memoria”: l’assenza di una patria, di una heimat è quindi anche la morte, il luogo definitivo. Ma non è un viandante romantico, colto e rivolto all’introversione, come il goethiano viaggiatore nell’invernale regione dello Harz. E’ uno sconfitto, un vinto; la pietà che ispira nasce dalla commozione davanti a chi è “trafitto da disperato amore”.

È “uno in cammino”, secondo la definizione di Quirino Principe, uno che ha un destino, poiché un evento lo ha determinato per sempre (gli occhi azzurri che lo hanno guardato e lo hanno condannato all’erranza), e il suo è il destino esiliato per eccellenza: non riuscire mai a prendere la strada che si vorrebbe percorrere. Camminare su un sentiero, attraversare un prato o vivere nel mondo significa sapere che il sentiero, il prato, il mondo non ci apparterranno mai. Il tempo è sempre il tempo che ci è sottratto, non il tempo di cui dovremmo godere e non godiamo.

Il personaggio mahleriano, in un silenzio che chiude il cuore, perde il mondo prima di averlo conosciuto e trova il soccorso di un conforto solo nel riposo del sonno, ai piedi di un tiglio (figura amica e alleata), dove l’oblio dissolve il sapore aspro del vivere e disperde il dolore e l’affanno, il tutto cadenzato su un tempo di marcia funebre.

Scrive Adorno a proposito della musica di Mahler: “il lungo sguardo che si appunta su tutto quanto è condannato”.

5.

Fotografia di bagnanti sconosciute. Scattata sul fiume Parka (Croazia settentrionale) all’inizio del Novecento. Autore ignoto”. È la didascalia della logora foto in bianco e nero in cui si osservano tre donne vicino a un fiume che apre Il museo della resa incondizionata di Dubravka Ugrešić. Questa immagine che l’autrice tiene sulla propria scrivania e che perdura sfibrata è una metonimia della condizione di esule dell’autrice, poiché racconta il silenzio inabissato e dolente che consuma ogni forzata partenza.

Nel prologo del romanzo affiora l’elenco sconclusionato degli oggetti recuperati dallo stomaco dell’elefante marino Roland ed esposti in una vetrina del giardino zoologico di Berlino. Questa accozzaglia di utensili, di attrezzi, di cose di uso quotidiano, inglobate dal “bizzarro appetito di Roland”, racconta una casualità e una insensatezza che rimandano alla frantumazione e alla dispersione del passato di chi attraversa l’esilio. Pronuncia schegge che la lontananza ha disgregato, reazioni centrifughe che disperdono i rottami di ciò che era omogeneo.

Contemporaneamente allude a un’infaticabile ricerca e salvaguardia di quei brandelli, un’attitudine a ospitare nella memoria ogni frammento, una pazienza inesausta di riscrizione in una totalità tutta da rinnovare, ad ogni risveglio, giorno per giorno, grazie a un ascolto illeso da negligenze.

6.

Interno con donna seduta di Vilhelm Hammershøi.

La linearità borghese di Vermeer sembra un’eco leggera, più simile alla solitudine moderna che animerà i dipinti di Edward Hopper. Interno spoglio e silenzioso e la schiena di una donna, lo sguardo discreto di chi osserva una femminilità non esibita, nascosta nell’intimità domestica. Una figura che sembra venire da un’inquadratura di un film di Carl Theodor Dreyer, suo conterraneo.

Un quadro muto senza racconto con un interno e una donna seduta, ritratta di spalle dentro un alone di colori neutri: di bianco e di grigio. Pochissimi gli elementi: un tavolo, una sedia, un quadretto alla parete, nessuna finestra, non c’è un “fuori”, non c’è nessun mondo oltre il limite geometrico delle pareti. Può richiamare il mito della caverna di Platone, ma il mondo che smaglia davanti alla donna presa di spalle sulla sedia è un mondo senza vita, vuoto, spigoloso, geometrico, pietrificato, negato ad ogni trascendenza.

Non c’è alcun desiderio di volgere lo sguardo indietro, come dice Heidegger, e di scoprire la verità nascosta nelle figure che appaiono sul fondo, per farsi poi ambasciatore di verità. Unica realtà che invade la stanza è la luce, ma è una luce fredda che rimuove ogni illusione. E anche se la porta è aperta, là dove la luce piove sul pavimento, come a indicare una strada di uscita, di fuga, la donna non manifesta desiderio di alzarsi e di percorrerla.

Come nei versi di Notizie dall’Amiata di Montale “ti scrivo di qui, da questo tavolo / remoto”, più che una distanza spaziale, si nasconde il sofferto distacco di chi guarda la vita da fuori e vi medita sopra, come da monastica attesa solitaria.

7.

Hotel room di Edward Hopper.

La donna seduta sul letto di una stanza d’albergo indossa unicamente la biancheria intima. Tra le mani appoggiate sulle ginocchia stringe un pieghevole o un depliant, forse un orario di treni o di pullman. Appare spaesata, incerta, disarmata. La valigia e la borsa ai piedi del letto sono ancora intatte, l’arredamento spoglio e disadorno: si respira l’aria anonima delle camere d’albergo di un viaggiare che non intravede un approdo, del respiro di una sosta prima della ripartenza. Dal soffitto cala una luce gelata e invadente che brucia ogni segreto. Ombre di pensieri gravano come nubi, pensieri sradicati e senza dimora, un’inquietudine senza interlocutore. Malinconia di lontananza incrina il viaggio, tra smarrimento e vaghezza.

Fuori la notte non ha il brivido di una luce.

8.

Scrive Jëzim Hajdari, poeta albanese: “Piove sempre in questo paese forse perché sono straniero”.

C’è una ferita immedicabile in chi ha scelto come Hajdari l’esilio come risposta etica alla sopraffazione e all’immoralità di chi governa il suo paese. Chi lascia una lingua e una terra deve varcare molte lingue e molte terre prima di individuarsi in una o nell’altra, ma in questi versi resta solo il sentirsi perpetuamente esule, accogliendo su di sé lo spasimo insanabile dell’inappartenenza.

Ascolto il mio silenzio: è la paura di morire in un’altra lingua non in questo freddo che non mi appartiene”: la lingua come perdita definitiva di una identità, e senza il proprio idioma da afferrare rimane solo il silenzio, di fronte a cui anche un cielo piovoso e gelido parla un linguaggio estraneo, sottolinea un’incurabile distanza da ogni centro.

9.

Leggiamo dall’epistolario di Carlo Michelstaedter: “Ho paura di trovarmi tra la gente, allora mi sento più isolato” e più avanti, sempre alla famiglia: “Voi non potete immaginare come mi sia dura la lontananza da voi e in genere la solitudine del silenzio. Tutto questo mi forma un fondo di malinconia che non riesco a levarmi di dosso”. C’è in Michelstaedter l’esilio come isolamento drammatico, vissuto nella solitudine di una personale consapevolezza che si fa carico di una universalità umana insostenibile.

La sua scrittura è la scrittura del distacco; l’irraggiungibilità e la distanza – esemplificati nelle immagini del vento, del mare, del deserto – sono le estremità dove si muove il suo vivere, tra dolore, angoscia e una solitudine inaccessibile a quel silenzio capace di riconciliazione.

10.

In quanto espressione dell’indicibile, la parola poetica è contigua al silenzio.

Il silenzio, custode di un mistero inespresso, è ritorno alla propria interiorità, è la scelta di chi può parlare: “Tacere può soltanto chi può parlare” scrive Romano Guardini e “l’autentico tacere è possibile solo nell’autentico discorrere” ribadisce Martin Heidegger.

Decifrare il silenzio è, per la parola poetica, accostarsi, approssimarsi a esso con una voce che, nell’assoluta essenzialità della mimèsi, alluda intuitivamente all’ombra sfinita dell’assenza che percorre il nostro volto e abbuia il nostro sguardo, confine con il nulla.

Scrive Hugo von Hofmannsthal nella famosa Lettera a Lord Chandos: “una per una le parole fluttuavano intorno a me; diventavano occhi, che mi fissavano e nei quali io a mia volta dovevo appuntare lo sguardo. Sono vortici, che a guardarli io sprofondo con un senso di capogiro, che turbinavano senza sosta, e oltre i quali si approda al vuoto.” Siamo al limite estremo della indicibilità nel disfacimento progressivo delle parole e delle cose, dove, citando Vladimir Jankèlèvitch, “il silenzio è ciò che permette di sentire una voce altra, che parla un’altra lingua: una voce venuta da altrove…” Questa voce altra, quest’altra lingua, questo altrove sono la dimora della parola poetica che, dissimulata nel clamore della quotidianità, richiede quella che sempre Jankèlèvitch chiama “vista di secondo grado che è l’intuizione”, grazie alla quale si possono raccogliere “nel buio essenze invisibili nascoste dietro le esistenze visibili” offrendo rifugio e asilo ai “sottintesi nascosti sotto le cose dispiegate” e riconoscendo “le voci del mistero universale”.

Il silenzio è la landa desertica dove nasce la poesia, la cui parola, assottigliatasi al punto da ottenere la necessaria trasparenza, si discosta dalla parola abusata, feriale, quotidiana, colmando una distanza arresa, una lontananza ritratta in cui si addensa la fragile speranza di un’attesa.

L’oggetto poetico è tale solo nella consapevolezza della contiguità con il silenzio e con la morte, nella soglia dolorosa del suo non-essere, è qui: nell’incontro sulle porte Scee tra Ettore e Andromaca, dove l’amore è quel sostare sofferente, luogo simbolico della genesi del sentimento della poesia, punto d’incontro, nella coscienza viva della morte, tra l’esistenza e la parola, tra vita e poesia.

C’è una prossimità, una contiguità, se non un legame determinato, tra corpo minacciato dalla morte e il linguaggio insidiato dal silenzio. Un linguaggio che, come in Paul Celan, chiede alla poesia di proseguire a dire dopo le rovine, malgrado le rovine, muovendo dalle rovine. Una poesia ai confini dell’indicibile, spinta alle soglie del silenzio, che rischia il silenzio per esprimere la contraddizione di una parola in rovina, sfinita e incenerita, dove anche il nome di Dio è nominato invano, nel senso originario di chiamare Dio a testimonio per cose vane.

 

11.

In Lucrezio ricorre frequentemente il termine nequiquam: invano. È l’avverbio che percorre tutte le sue pagine, da cui emergono la tragedia amorosa, il tormento che divide gli amanti, l’inferno gelido e sgomento in cui franano. C’è una solitudine incurabile nell’esilio lucreziano, perché il suo esilio non è lontananza dal luogo amato, ma presentimento che il luogo amato non è più abitabile, non è più proprio, forse non lo è mai stato.

L’uomo di Lucrezio soffre per un vulnere caeco, una ferita cieca ed enigmatica senza medicamento che ne allevî il sanguinare, in un sentimento d’estraneità dove anche l’origine stessa del male è oscura.

12.

Ma c’è sempre un fiato di speranza in ogni scrittura, anche in quella che dispiega un dolore immedicabile, una perdita irrisarcibile, anche quando il dio dei poeti non è Apollo Delfico, ma Orfeo dilacerato per aver visto Euridice. Questa speranza vive nella consegna di chi legge di guardare e riconoscere quella ferita, di decifrarne l’alfabeto, di aderirvi come in un gesto innamorato, di farla emergere dal silenzio.

Nulla di più distante dalla consolazione: si tratta di comprendere (tenere dentro) ciò che appare in genere come un’impronta da cui distogliere lo sguardo in fretta, è un esercizio alla resistenza davanti a un mistero ostile che incute paura, è un gesto che ha memoria di solidarietà, umore di carità.

E nella scrittura questo gesto diventa creatore di significato, trasforma la parola in respiro, l’ombra in corpo; unisce la piaga che esige uno sguardo e lo sguardo che sosta, in un unico momento di intimità che persuade la solitudine e l’indifferenza di un vivere inchiodato alla cupa evidenza del proprio soffrire, di un isolamento senza memoria, come quello del dottor Semmelweis di Céline.

Per questo il linguaggio mistico e quello amoroso hanno una contiguità altrimenti inspiegabile. Scriveva Hans Urs von Balthassar -il teologo svizzero che vide nella teologia il luogo e il senso della bellezza-: “poeti e amanti sanno come spiare l’anima e condurla al canto”.

Attraverso la fatica della scrittura e della lettura, come osserva Benjamin, la lingua rende giustizia al passato, percorre quella distanza tra l’ieri e il presente, tra morte e vita riscattando l’esilio del pellegrino eternamente oscillante tra luce e ombra.

Come nel film Il sapore della ciliegia, di Abbas Kiarostami dove un uomo erra alla ricerca di qualcuno che lo accompagni verso la fine, compiendo per lui il gesto estremo di seppellirlo quando sarà morto.

L’ultima, silenziosa speranza, sotto un cielo immobile, dimora in quel qualcuno che non ha nome né volto.

[1] La maggior parte di questi brevi saggi (e di quelli inclusi in Sul far della sera, proseguimento del presente volume) sono rielaborazioni di interventi tenuti in occasione della program­mazione dell’associazione culturale “Oròn orònta” (http://www.oronoronta.org), presso il Ca­stello di Cisterna d’Asti dal 2008 al 2016

[2] Cfr. Imre Kertész, La lingua esiliata, Bompiani, 2007, p. 222.

[3] Elie Wiesel, Parole di straniero, Spirali, 1986, p. 8.

[4] Gorge Steiner, Linguaggio e silenzio, Rizzoli, 1972, p.145.

[5] Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, Boringhieri, 1987, p. 23.

[6] Primo Levi, Se questo è un uomo, in Opere, Einaudi, 1977, p. 210.

[7] Cfr. Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, 1976, pp. 235-236.

[8] Pier Vincenzo Mengaldo, La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoa, Borin­ghieri, 2007, p. 99.

[9] Cfr. Primo Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 653 e cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoa, cit. pp. 91-99.

[10] Jorge Semprun, La scrittura o la vita, Guanda, 1996, p. 119.

[11] Ivi, p. 20.

[12] Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, SE, p. 63-64.

[13] Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, 1978, tomo terzo, p. 1635.

[14] Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’”umanismo”, in Segnavia, Adelphi, 1987.

[15] Donatella Di Cesare, articolo su Il Manifesto, 26 agosto 2003.

[16] Cfr. Paul Celan, La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, Einaudi, 1993, p. 35.

[17] Donatella Di Cesare, cit.

[18] Carlo De Matteis, Dire l’indicibile, Sellerio, 2009, p. 174.

[19] È evidente il riferimento alla Margherita della tradizione letteraria tedesca (vittima di Faust e Mefisto­fele) e alla bellissima e scura sposa del Cantico dei Cantici, qui sineddoche per tutte le donne ebree.

[20] Cfr. Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit. p. 1641.

[21] Giuseppe Bevilacqua, Letture celaniane, Le Letter, 2001, p. 95.

[22] Theodor W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, 1975, p. 538.

[23] Giuseppe Bevilacqua, Eros – Nostos – Thanatos: la parabola di Paul Celan, in Paul Celan, Poesie, a cura e con un saggio introduttivo di G. Bevilacqua, Milano Mondatori, 1988, p. LI.

[24]Lo tzaddìk, afferma il Salmo 1, sta come un albero in riva all’acqua: le sue radici ne assorbono, a poco a poco, costantemente; ed egli darà al tempo esatto il proprio frutto, secondo la propria natura.

[25] Cfr. Peter Szondi, L’ora che non ha più sorelle. Studi su Paul Celan, Gallio Editori, 1990.p. 17.

[26] Cfr. Marino Fraschi, Storia della letteratura tedesca, Newton Compton, 1995, p. 93.

[27] Elio Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoa nella cultura del dopoguerra, Il Mulino, 2004, p. 140.

[28] Cfr. Ivi, pp. 149-150.

[29][29] Cfr. Peter Szondi, cit., p. 17.

[30] Antonella Anedda, Spazio dell’invecchiare, in Salva con nome, Mondadori, 2012, p.39.

[31] Cfr. Gianni Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Einaudi, 2001.

[32] Cfr. Friedrich Nietzsche, Il caso Wagner in Scritti su Wagner, Adelphi, 1979, p. 180 e seg.

[33] Mario Praz, prefazione a Thomas Stearn Eliot, La terra desolata, Einaudi, 1965, pag 5.

[34] Thomas Stearn Eliot, La terra desolata, cit, p. 49.

[35] Thomas Stearn Eliot, Quattro quartetti, in Opere, Bompiani, 1986, p. 285.

[36] Cfr. Piero Camporesi, La casa dell’eternità, Garzanti 1998.

[37] Cfr. Piero Boitani, Letteratura Europea e Medioevo Volgare, Il Mulino, 2007.

[38]Northrop Frye, T.S. Eliot, Il Mulino, 1989

[39] Va sottolineato che Northrop Frye intende l’apocalisse non come catastrofe, ma come aspettativa e desiderio di una vita più ricca e di un mondo migliore, poiché nella sua visione cristiana, predilige la lotta che conduce alle nozze piuttosto che la morte che conduce alla desolazione: cfr. Northrop Frye, Anatomia della Critica, Einaudi 1969 e Northrop Frye, Il grande codice: la Bibbia e la letteratura, Einaudi, 1986.

[40]Cfr.  Mario Luzi, Colloquio, Garzanti, 1999.

[41] Thomas Stearn Eliot, La terra desolata, cit, p. 17.

[42] Cfr. Publio Ovidio Nasone, Le metamorfosi, Einaudi 2005.

[43] Ogni sforzo di Eliot per affrontare la crisi sul piano metafisico, ancor più nelle prove successive alla Terra desolata, è legato all’ossessione della resurrezione delle ossa. Le ossa sono sempre aride (dry), come negli Uomini vuoti (1925), ancora una volta brancolanti in una condizione infernale in riva all’Ache­ronte-Tamigi, mentre in Mercoledì delle ceneri (1930)  in un purgatoriale deserto sono protagoni­ste di uno straordinario racconto che ha i colori di una miniatura medievale.

[44] Cfr. Thomas Stearn Eliot, Quattro quartetti, cit. p. 293.

[45] Roberto Calasso, “Così inventammo i ‘libri unici’”, la Repubblica, 27 dicembre 2006.

[46] Cfr. http://www.aclivalli.it/wp-content/uploads/2010/05/2009-Minima-kafkiana.pdf e AA.VV. Stu­dia Austriaca VI, Cuem, 1998, p. 21, in cui si sottolinea soprattutto l’influenza del romanzo di Kubin sul Castello di Kafka.

[47] Cfr Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Einaudi, 1973, p. 258-259.

[48] A questo proposito cfr.  Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi, 1993.

[49]All’interno della cesura che Benjamin stabilisce tra l’arte tradizionale e quella moderna, dove l’aura dell’opera d’arte scaturisce dal suo rapporto non tecnologicamente mediato tra la genesi della forma stilistica e la sua coesione con la natura come forma, viene  riportata l’opinione del collezionista Eduard Fuchs secondo la quale l’arte antica nel suo complesso non fu che il meglio che l’animalità po­tesse esprimere.

[50] Paolo Chiarini, L’espressionismo. Storia e struttura, La Nuova Italia, 1969, p. 159.

[51] Ernst Junger, I demoni della polvere, in Foglie e pietre, Adelphi, 1997, pp. 97-98.

[52] Cfr. Leo Mittner, L’espressionismo tedesco, Laterza, 1975, pp. 9, 36, 76-77, 110 sgg.

[53]Cfr. Furio Jesi, Germania segreta, Silva, 1967 p. 213-220.

[54] Angelo Maria Ripellino, Nel giallo dello schedario, Cronopio, 2000, p. 66.

[55] Cfr. Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Einaudi, 1973, p. 204.

[56] Alfred Kubin, Demoni e visoni notturne, Abscondita, 2004 p. 52.

[57] Ibidem, p. 52.

[58] Ibidem, p. 54.

[59] Alfred Kubin, L’altra parte, Adelphi, 1993, p. 76.

[60] Cfr. Fortunato Cacciatore, Indagini su Oswald Spengler, Rubettino, 2005, p. 54

[61] Cfr. Paul Auster, Nel paese delle ultime cose, Einaudi, 2007, dove la perdita della memoria collet­tiva diventa simbolo di tutti i sintomi della fine della storia, dell’irruzione nella sensibilità di fine se­colo di paure nuove.

[62] Cfr. Alfred Kubin, L’altra parte, cit., p. 104.

[63] Alfred Kubin, L’altra parte, cit, p. 58.

[64] Cfr. Giacomo Debenedetti, postazione a Alfred Kubin, Demoni e visoni notturne, cit. p. 84.

[65] Cfr. Massimo Cacciari, Introduzione a Alessandro Nigro, Alfred Kubin, profeta del tramonto, Offi­cina, 1983.

[66] Andrea Zanzotto, Altri 25 aprile, in Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, Nottetempo, 2007.

[67] Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, cit. p. 153.

[68] Walter Benjamin, Opere complete. IX – “I passages” di Parigi, Einaudi 2000, p. 217

[69] Ibidem, p. 222.

[70] Gianni Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, cit., p. 217.

[71] Charles Simic, Il cacciatore di immagini, Adelphi, 2005, p. 124.

[72] Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno, Mondadori, 1979, p. 89.

[73] Fernando Pessoa, Episodi, in Una sola moltitudine, volume primo, Adelphi, 1979, p.209.

[74] Angelo Maria Ripellino, Schwitters, in  Non un giorno ma adesso, Roma, Tipografia Grafica, 1960, ora in Poesie prime e ultime, Aragno,2006, p. 96.

[75] William Blake, Selected poems,Einaudi, 1996, p. 187.

[76] Claudio Magris, Itaca e oltre, Garzanti, 1982, p. 50.

[77] Claudio Magris, http://www.greendayfactory.it/musil_web.htm

[78] Cfr. Emanuele Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo, vol 3. La filosofia contemporanea, cap. 1, Rizzoli, 2004.

[79] Per Nietzsche il grande stile è il sentimento sommo della potenza, e la potenza è il dominio della calma che conserva e trasfigura gli opposti. Il grande stile è il dispiegamento antropocentrico del domi­nio terrestre. Non si comprende appieno la nozione nietzschiana di grande stile se non accanto alla riflessione che Nietzsche nello stesso tempo elabora sull’importanza dell’elemento fisiologico nell’arte, che rappresenta una premessa irrinunciabile dello stile. In altre parole, quest’ultimo è estraneo sia “all’irrigidimento della forma nel pedante e nel formale, sia dal puro delirare nell’ebbrezza” come scrive Heidegger. “Nasce con Nietzsche un’estetica estrema, al di là dell’estetica moderata di Kant e di Hegel, nella quale il sentire è seguito fino all’estremo stato fisiologico del corpo: ciò tuttavia non vuol dire cedimento nei confronti del naturalismo, della mera fattualità empirica. (Mario Perniola, http://www.marioperniola.it/site/dettagliotext.asp?idtexts=8)

[80] Cfr. Martin Heidegger, Nietzsche, Adelphi, 1995.

[81] Claudio Magris, http://www.greendayfactory.it/musil_web.htm

[82] Ivi

[83] Cfr. Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, 1981.

[84] Cfr. Claudio Magris, L’anello di Clarisse, Einaudi, 1984, pp.216-217.

[85] Cfr. Robert Musil, L’uomo senza qualità, vol. 1, Einaudi, 1972, p. 12.

[86] Cesare Cases, prefazione a Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, 1972.

[87] Nikolaj A. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Torino, Einaudi, 1945, p. 67.

[88] Remo Cantoni, Crisi dell’uomo. Il pensiero di Dostoevskij, Milano, Mondadori, 1975, p. 159.

[89] Cfr. Vasilij Rozanov, La leggenda del Grande Inquisitore, Marietti, 1989; Vladimir Solov’ev, Dostoev­skij, La Casa di Matriona, 1990; Lev Šestov, La filosofia della tragedia. Dostoevskij e Nie­tzsche, Marco, 2004; Luigi Pareyson, Dostoevskij, Einaudi, 1993.

[90] Claudio Magris, http://www.greendayfactory.it/musil_web.htm

[91] Cfr. Georg Trakl, Poesie, Einaudi, 1979,  pp.132-135.

[92] Robert Musil, Diari, vol 2, Einaudi, 1980, p. 1780.

[93] Ivi, p. 1781

[94] Ivi, p. 1778

[95] Cludia Sonino, prefazione a Robert Musil, L’uomo senza qualità. Pagine inedite, Il Saggiatore, 1983

[96] Claudio Magris, http://www.greendayfactory.it/musil_web.htm

[97] Robert Musil, L’uomo senza qualità, vol. 1, cit., p.33

[98] Claudio Magris, Itaca e oltre, cit., p. 54

[99] Cfr. Friedrich Nietzsche, Il caso Wagner in Scritti su Wagner, Adelphi, 1979, p. 180 e seg.

[100] Michela Volpe, Il linguaggio liminale, Aracne, 2011, p. 138.

[101] Robert Musil, L’uomo senza qualità, vol.1,cit., p. 12.

[102] Michela Volpe, cit., p. 148.

[103] Si rimanda qui lateralmente anche al “colore della fantasia”, espressione con cui Walter Benjamin – nelle sue esplorazioni di quei luoghi-non luoghi, di quegli stati, di quei media che consentono di annul­lare la forma e di oltrepassare i limiti determinati dell’esperienza e dell’espressione – definisce ciò che ha tale potere in quanto realizza una dissolvenza dei confini delle cose e li dissesta in una va­ghezza primordiale rendendoli dinamici, variabili, illimitati, schiusi a nuove possibilità e nuovi mondi al di là di quelli abituali.

[104] Si rimanda qui anche al concetto di vagueness (vaghezza, imprecisione, ambiguità) di Charles San­ders Peirce – e ripreso tra gli altri da Bertand Russell e Ludwig Wittgenstein – che indica la conoscenza probabile priva di quel carattere quantitativo e misurabile necessario per essere considerata logica­mente fondata, ma che è comunque un aspetto intrinseco del significato razionale.

[105] Cfr. Hermann Broch, Hofmannsthal e il suo tempo, Adelphi, 2010.

[106] Thomas Stearns Eliot, Gli uomini vuoti, in Opere, Bompiani, 1986, p. 131.

[107] Robert Musil, L’uomo senza qualità, vol. 2, cit.