Nulla a posto e tutto in ordine

di Paolo Repetto, 20 dicembre 2023

L’anarchia è la più alta espressione dell’ordine.
Elisée Reclus

Caro signor professore, alla fine sarei stato molto più volentieri professore basileese che Dio; ma non ho osato spingere così lontano il mio egoismo privato, da tralasciare, per causa sua, il riordino del mondo. Lei vede, bisogna fare sacrifici, come e dove si viva.
Friedrich Nietzsche (a Jacob Burckardt, 5 gennaio 1889)

Anni fa fui invitato da un amico a raggiungerlo in una dimora di campagna che aveva da poco acquistata. Era estate piena, la casa era circondata da un bel giardino e naturalmente prima ancora di visitare l’interno ho voluto esplorare il luogo. Tutto bene, un giusto equilibrio tra piante ornamentali e alberi da frutta, niente gazebo o padiglioni vittoriani, o nani di gesso, o fontanelle con la venere di Milo. Tutto tranne una nota decisamente stonata: giacevano infatti sparse qua e là, disposte apparentemente a casaccio e rovesciate su un fianco, alcune grossolane riproduzioni di anfore romane. Non ci ho pensato due volte, e anche se dubitavo che in quel luogo le anfore avessero un gran senso le ho rimesse in piedi una ad una. Col risultato che quando l’amico e le nostre rispettive mogli mi hanno raggiunto sono stato sommerso da una fragorosa risata. L’effetto “rovine classiche” era voluto, e io ho fatto la figura del burino che ignora l’arte della decorazione dei giardini. Lì per lì ho abbozzato, ma rimango convinto che le anfore fossero delle intruse. E che comunque andassero almeno disposte in bell’ordine.

Questa pulsione a “raddrizzare” ha risvolti che in qualche caso rasentano i limiti dell’educazione (ma non li superano. Sia chiaro, mi permetto certe cose solo con coloro ai quali le permetterei nei miei confronti). La settimana scorsa, ad esempio, nello studio di un altro amico ho raddrizzato un paio di quadri che non erano perfettamente orizzontali, con lui che mi guardava sogghignando (perché non era la prima volta) e diceva: “Sono settimane che mi chiedo cosa non andasse in questa stanza. Ora ho capito”. In più di un’occasione ho pareggiato libri sugli scaffali altrui, o ne ho cambiata la disposizione perché gli accostamenti erano clamorosamente sbagliati. Uno dei beneficiari della mia non richiesta consulenza ha detto che neppure Monk è tanto pignolo.

Non è del tutto vero. Sono un perfezionista solo in alcuni settori, e quello dei libri viene naturalmente per primo. I miei devono trovare una giusta collocazione (cioè quella che io reputo tale) e devono tornare esattamente al loro posto una volta utilizzati. Considerando che la consistenza della mia biblioteca ha superato ormai da trent’anni la quintuplice cifra, non è cosa di poco impegno.

Altrettanto puntiglioso sono naturalmente per quanto concerne il contenuto dei libri. Non mi riferisco agli argomenti o alle idee, ma alla forma, alla correttezza ortografica, grammaticale e sintattica. Un paio di refusi urtanti o un verbo mal coniugato mi rendono difficile proseguire in qualsiasi lettura, e a volte me la chiudono.

In altri campi invece, dal modo di vestire a quello di parcheggiare, sono solo ordinato o disciplinato. Non amo i contrasti, sono quasi monocromatico (non ho indossato mai un paio di pantaloni rossi, o bianchi), e lo stesso varrebbe per l’arredamento, non fosse che tutte le pareti della mia abitazione sono fasciate da libri disposti sulle scaffalature in legno naturale che io stesso ho costruito, e quindi il problema non si pone. Quanto ai parcheggi, non ho mai pensato che le righe abbiano solo una funzione decorativa.

Sono un maniaco, questo sì, della puntualità. Non sopporto i ritardi dovuti alla trascuratezza e non alla necessità, li patisco come una mancanza di rispetto. E meno ancora sopporto di essere io in ritardo, soprattutto se condizionato dalla indolenza e dalla trascuratezza altrui.

In compenso, per un sacco di altre cose non sono affatto metodico: trascrivo indirizzi o numeri telefonici sul primo pezzo di carta disponibile, col risultato che essendo sommerso dalla carta non li ritrovo mai al momento del bisogno. Oppure rimando il pagamento di imposte, bolli, balzelli vari, o la compilazione di documenti che mi sono richiesti, a volte fino a dimenticarmene e a beccarmi le sanzioni previste. O ancora, non leggo tempestivamente le mail che arrivano, suscitando spesso il sarcasmo dei miei corrispondenti. Ma in questo caso non parlerei di un’attitudine disordinata: in genere sono inconsce rimozioni.

Tutto sommato, comunque, si può dire che sì, sono un amante dell’ordine, un uomo ordinato; oppure, prendendola da un altro punto di vista, un uomo decisamente ordinario.

Nulla a posto 02Ordinare è un lemma dai molteplici significati, tutti assimilabili, tutti connessi alla stessa radice, sia pure a diversi gradi di parentela[1]. Nell’uso corrente lo troviamo soprattutto nei significati di “impartire un ordine”, “fare un ordine”, “mettere ordine”, ma può anche significare inscrivere in un ordine religioso o cavalleresco, o volendo anche naturale, nel senso di classificare, ecc … A me i primi tre si attagliano tutti, anche se con diverse tonalità e sfumature. Ad esempio, so dare ordini: penso che avrei potuto essere un buon sergente, ma sul piano pratico preferisco poi fare personalmente anche ciò che potrei demandare ad altri, probabilmente per un eccesso di presunzione. Ho anche imparato a fare ordinativi via mail, ma solamente quando si tratta di libri, e soltanto per quelli che non trovo in libreria. E persino in pizzeria sono in genere io alla fine a fare l’ordinazione, soprattutto quando ci sono le nostre compagne e la scelta minaccia di andare per le lunghe.

Come si sarà già capito, però, è il terzo impiego del termine a caratterizzarmi davvero. Sono un maniaco dell’ordine, sia pure non a livelli ossessivi, perché applico le mie ubbie innanzitutto a me stesso. E l’ordine che ho in mente ha una forte componente conservatrice. Voglio che le cose “rimangano” in ordine, o al più procedano ordinatamente verso il cambiamento. Non sono dunque un rivoluzionario: e tuttavia paradossalmente mi considero un ribelle.

Prima di proseguire credo di dovere un paio di spiegazioni a chi si fosse presa la briga di leggere questo pezzo (e ancora non avesse smesso). Innanzitutto perché e come mai (che non sono la stessa cosa) ho pensato di scriverlo. È molto semplice, tutto nasce dal titolo di un testo che ho ripreso in mano a distanza di qualche tempo. Si tratta de L’ordine libertario, di Michel Onfray, e traccia una biografia intellettuale di Camus, nonché dello stesso Onfray. Ma di questo parlerò appunto in un pezzo a venire. Sulla mia decisione di oggi ha agito invece solo il titolo, che mi sembra sintetizzare nella maniera più efficace il mio atteggiamento psico-sociale e si attaglia perfettamente ad una breve riflessione preserale, di quelle che mi fanno andare a cena con più appetito, e in questo caso anche pre-natalizia.

Nulla a posto 03 CamusL’apparente chiasmo racchiuso in L’ordine libertario sintetizza, come dicevo, la mia concezione del mondo, degli uomini e dei loro rapporti coi loro simili e col mondo stesso. Quella ideale, naturalmente, di come questi rapporti dovrebbero essere, che non si oppone però alla consapevolezza di come le cose funzionino nella realtà. Non sono ancora così psichicamente turbato da credere in una reale possibilità di riordino del mondo, e da volerla. Ma penso sia importante, ai fini delle nostre scelte e del nostro agire, avere all’orizzonte un traguardo al quale le nostre azioni si ispirino, una direzione nella quale muovere. Sapendo tuttavia che l’orizzonte si sposta in avanti ad ogni passo che fai, e soprattutto che è importante, mentre cammini, tenere sott’occhio il paesaggio circostante e la terra su cui posi i piedi.

La mia direzione va in senso opposto a quella prospettata dalla conoscenza scientifica, secondo la quale, in base alla legge dell’entropia, ogni sistema isolato si trasforma ed evolve nel tempo fino a raggiungere uno stato di equilibrio finale. Che paradossalmente è anch’esso un ordine, ma diverso da quello che noi intendiamo e percepiamo come tale, in base a una nostra forma mentis, alle nostre consuetudini e alle nostre concrete esigenze. In altre parole, quell’equilibrio per noi è un disordine.

Provo a spiegarmi. È come se la mia biblioteca fosse talmente frequentata e utilizzata fuori del mio controllo da trovarsi ad un certo punto con tutti i volumi sparpagliati, rimescolati e disposti secondo criteri totalmente differenti da quelli con i quali l’ho costruita e in base ai quali sino ad oggi è cresciuta (è quello che quasi certamente accadrà, anche se preferisco non pensarci). O peggio ancora, potrebbe essere smembrata e finire sulle bancarelle dei mercatini, o addirittura al macero. Non so se questa possa essere definita una legge di natura, so che è però un futuro probabile. L’entropia è dunque la misura del disordine del sistema: uno stato con poco disordine è quello nel quale gli elementi che lo costituiscono sono stati ordinati – lo stato di partenza, la mia attuale biblioteca; uno stato ad alto disordine è quello in cui il sistema è disposto a caso. La somma dei componenti, magari sotto specie diverse, rimane la stessa, ma il senso dell’insieme cambia completamente. Si passa così da una situazione iniziale di ordine a una finale di disordine.

Ora, quando scrivo che vado in direzione opposta non significa che neghi la verità scientifica, o che creda alla possibilità di invertire la rotta naturale verso il disordine (che è poi tale solo nella nostra percezione della dislocazione delle risorse). Voglio dire che esiste un ordine naturale, del quale dobbiamo essere coscienti, e che è un ordine in divenire costante ma lento; ma ne esiste poi uno culturale. I due hanno viaggiato per un lungo tratto della vicenda umana in una passabile sincronia, fino a quando improvvisamente il secondo ha conosciuto un’accelerazione, concretizzatasi in un crescendo di complessità, e i ritmi hanno iniziato a divergere. L’ordine culturale ha finito per sovrapporsi, e questa non è solo una nostra percezione, a quello naturale, prolificando per partenogenesi all’insegna dell’artificio e della complessità, e finendo fuori controllo. Esattamente come sta accadendo alla mia biblioteca, dove essendo ormai esaurito ogni spazio utile nei cinquanta e passa scaffali disponibili, e a dispetto delle doppie file sui ripiani e dell’occupazione persino dei vani finestra, cominciano ad accatastarsi sul pavimento pile di volumi: e dove, avendone io accumulati troppi, e create suddivisioni tematiche che alla gran parte dei testi vanno strette, non ho più il governo della memoria e sempre più spesso mi è difficile localizzare ciò che al momento mi serve. A volte mi arrovello per giorni, non riuscendo a scovare testi che so per certo esserci.

Nulla a posto 04Questo sta accadendo. Rispetto a ciò, se fossi un rivoluzionario, cercherei di cambiare non solo l’ordine e la disposizione dei volumi, ma muterei radicalmente l’approccio coi libri, buttandomi sul supporto digitale. In questo modo guadagnerei, forse, in efficacia e in efficienza, ma perderei tutto quel valore aggiunto che il possesso e il rapporto fisico con il libro cartaceo mi garantisce. Sacrificherei alla praticità uno dei maggiori piaceri che la vita, nella dimensione dell’ordine culturale, può offrire.

Sono invece un ribelle, se così la vogliamo mettere, perché, pur essendo consapevole che la vita dei miei libri non sarà eterna, e la mia tanto meno; che quelli già domani potrebbero essere considerati obsoleti, un inutile ingombro, e che tutto ciò che da essi ho appreso e su di essi ho costruito scomparirà con me; che dunque mi sto battendo per una causa già persa; ebbene, a dispetto di ciò non mi passa affatto per la mente di rassegnarmi, e mi ostino ad acquistarne altri, a leggerli e a inserirli diligentemente in un quadro che magari vedo solo io, ma che c’è. Ed è un quadro ordinato.

In sostanza, e finalmente fuor di metafora, sono “solo” un ribelle perché non pretendo di avere raggiunto una superiore “coscienza politica”. Non vedo le cose dall’alto, non leggo le trame necessarie e nascoste della storia, non ne prevedo gli sviluppi e non credo di poterli orientare: insomma, non so pensare e agire rimanendo indifferente alle contingenze, ai limiti e alle aspettative e alle sofferenze dei singoli, in nome di un bene comune che domani dovrebbe giustificare il tutto. Mi sono fermato alla “coscienza etica”, che non ha bisogno di un disegno superiore o della speranza in un remoto riscatto collettivo per dare senso ad ogni esistenza individuale. Un senso alla mia esistenza voglio darlo subito, senza attendere che scenda dal cielo o vada a consolare le generazioni venture. Voglio celebrare e difendere tutto ciò che di positivo la vita mi ha riservato, quel poco che ho costruito e quel molto che altri hanno costruito prima di me, e nei limiti delle mie possibilità correggere i risvolti negativi. Questo è l’unico senso che riconosco. Non presumo dunque di migliorare il mondo in base ad un’idea astratta, in funzione di un futuro che se ci sarà apparterrà ad altri; e neppure voglio far tornare in vita un improbabile Eden passato. Non progetto la città ideale, ma cerco di tenere pulita e in ordine quella che abito. E devo quindi ribellarmi al disordine, (anche sapendo che è il destino di tutte le cose), non per fermare l’entropia materiale e morale che avanza, ma almeno per alleviarne il peso e ritardarne il trionfo[2].

Nulla a posto e tutto in ordine 07Ma tutto questo, poi, all’atto pratico, in cosa si traduce? Per quanto mi concerne sono convinto che la mia vera attitudine fosse quella del correttore di bozze, o dell’editor, come si usa oggi (sto dicendo sul serio). Alla maniera di Sebastiano Timpanaro. Non “scrivere una storia” (o “la” storia)”, ma aiutarla a scorrere senza troppe frizioni. Sono però anche consapevole che difficilmente avrei potuto svolgere quella mansione, perché tendo ad allargarmi troppo: non mi sarei limitato a emendare i testi, ma avrei anche discusso della loro pertinenza nello specifico, o della loro opportunità in assoluto. Ho trasferito allora la mia coazione a correggere sulle sovrascritture che ciascuno di noi lascia, come traccia del suo passaggio, su quel testo indecifrabile che s’intitola “vita”.

Ciò non significa che mi sia dato la missione di andare in giro a raddrizzare anfore e quadri nelle case altrui o a predicare disciplina nei posteggi. Questi sono effetti collaterali. Significa semplicemente che mi sforzo di praticare, nella quotidianità delle azioni e delle relazioni, quella resistenza anti-entropica che la mia natura, ed evidentemente anche il mio tipo di cultura, mi dettano. Lo faccio per conservare il rispetto di me stesso, e non mi costa nulla: in realtà non mi sforzo affatto, perché si tratta di comportamenti molto “ordinari”, limitati a quell’agire ordinato che non crea contrasti, attriti, ossia perdite di energia per motivi inutili e futili, e si oppone al realizzarsi del disordine entropico (almeno quello delle relazioni interpersonali, ma senz’altro anche quello fisico). Queste stesse pagine, ad esempio, che futili lo sono senza alcun dubbio, a me hanno creato benessere, perché scrivere mi piace e mi aiuta a riordinare le idee, mentre agli altri non recano alcun danno, perché, al di là del fatto che sono liberi di leggerle o meno (ciò che vale quasi sempre), non sborsano una lira o non subiscono un secondo di pubblicità per farlo (ciò che non accade quasi mai).

Naturalmente l’agire ordinato importante è ben altro: “in positivo”, va dal sorridere a una persona in ascensore al congratularsi con qualcuno per come svolge il suo lavoro, fino al saldare tutti i debiti, morali e materiali, magari senza attendere le scadenze canoniche o il clima un po’ ipocrita delle festività: “in negativo”, dal ricordare a qualcuno che le code si rispettano, senza dare in escandescenze, all’esigere, sempre con calma e senza trascendere, che qualcun altro faccia bene il proprio lavoro, fino al non lasciare nella natura tracce troppo sconvolgenti del nostro passaggio.

Se poi questa diventa una forma di testimonianza, tanto meglio, ma direi anche “poveri noi!”. Mi rifiuto di pensare che la normalità debba diventare “esemplarità”. E soprattutto, a dispetto di quanto magari potrebbe sembrare, diffido dei santini. Conosco un poco la natura umana (abbastanza da sapere che una “natura umana” non esiste, ma che è comodo supporla), e segnatamente la mia, e ciò mi spinge, se non ad accettare, almeno ad ammettere le sue debolezze. Fanno parte della dotazione originaria.

La mia distanza dal “rivoluzionario” sta dunque già in una disposizione di fondo, che reputo innata, nei confronti del mondo e della vita. Amo l’uno e l’altra. Il mondo e la vita si possono amare anche, e forse più, quando si è perfettamente coscienti della “estraneità” del primo nei nostri confronti e del fatidico limite della seconda (Leopardi in questo senso docet, anche se la vulgata vorrebbe il contrario). Li amiamo quando non reagiamo alla oggettiva assurdità del nostro esistere mossi dal risentimento per quelle che consideriamo promesse mancate, ma riconosciamo che ogni illusione e aspettativa ce la siamo creata noi stessi, e ne abbiamo la totale responsabilità.

Fuori c’è il nulla, avrebbe detto Camus. Intendeva che c’è tutto un mondo (e stanti le sue origini mediterranee si riferiva soprattutto alla luce, al sole, al mare) del quale possiamo anche innamorarci, ma che non è lì per noi. Abbiamo solo l’opportunità di visitarlo come turisti, per un fugace passaggio. Possiamo goderne, ma nella coscienza della nostra transitorietà, e questa coscienza ci responsabilizza. Dobbiamo decidere se arrenderci passivamente all’assurdo, continuando a fingere di ignorarlo, e a comportarci come protagonisti attorno ai quali ruota tutta la rappresentazione, o cominciare da subito a guardare dentro la nostra effimera esistenza e a mettere ordine almeno lì. A darle noi un senso, qui ed ora.

Perché la coscienza del nulla paradossalmente ci rende liberi. Se non da una programmazione biologica sulla quale per fortuna non possiamo ancora intervenire, almeno nelle nostre scelte culturali. Siamo liberi, e quindi responsabili, nei confronti nostri, degli altri e del mondo che temporaneamente ci ospita, che dovremmo cercare di trasmettere domani il più ordinato possibile. E questa responsabilità, se accolta in positivo, costituisce essa stessa il senso.

Nulla a posto e tutto in ordine 06 Sartre e CamusUn quasi gemello di Camus, Jean Paul Sartre, prima sodale del nostro e poi rancoroso rivale, ha scritto: “L’Uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa”.

Ecco, la differenza sta lì: nel leggere la nostra condizione come una condanna o come un privilegio. E infatti, Sartre era un “rivoluzionario” (sia pure da salotto), Camus era un “ribelle”.

Nulla a posto 05 Motivazione-al-cambiamento

NOTE

[1] Per i curiosi, il sostantivo latino ordo deriva da una radice sanscrita or (che è la stessa da cui nascono orior, nasco, e ordior, comincio), più una desinenza do, che indica un modo di essere o di fare qualcosa (dulcedo, valetudo, fortitudo). Sta dunque ad indicare la disposizione di ciascuna cosa al suo posto.

[2] Per Schrödinger “gli esseri viventi evitano il decadimento in uno stato di equilibrio termodinamico (vale a dire nella morte) estraendo entropia negativa, o ordine, dall’ambiente, per compensare l’aumento di entropia che essi producono vivendo”. Parte di questa energia viene inevitabilmente dissipata in calore, e ciò è indispensabile per mantenere un organismo a temperatura costante. In tal modo un organismo vivente cede calore all’ambiente.

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