Nulla a posto e tutto in ordine

di Paolo Repetto, 20 dicembre 2023

L’anarchia è la più alta espressione dell’ordine.
Elisée Reclus

Caro signor professore, alla fine sarei stato molto più volentieri professore basileese che Dio; ma non ho osato spingere così lontano il mio egoismo privato, da tralasciare, per causa sua, il riordino del mondo. Lei vede, bisogna fare sacrifici, come e dove si viva.
Friedrich Nietzsche (a Jacob Burckardt, 5 gennaio 1889)

Anni fa fui invitato da un amico a raggiungerlo in una dimora di campagna che aveva da poco acquistata. Era estate piena, la casa era circondata da un bel giardino e naturalmente prima ancora di visitare l’interno ho voluto esplorare il luogo. Tutto bene, un giusto equilibrio tra piante ornamentali e alberi da frutta, niente gazebo o padiglioni vittoriani, o nani di gesso, o fontanelle con la venere di Milo. Tutto tranne una nota decisamente stonata: giacevano infatti sparse qua e là, disposte apparentemente a casaccio e rovesciate su un fianco, alcune grossolane riproduzioni di anfore romane. Non ci ho pensato due volte, e anche se dubitavo che in quel luogo le anfore avessero un gran senso le ho rimesse in piedi una ad una. Col risultato che quando l’amico e le nostre rispettive mogli mi hanno raggiunto sono stato sommerso da una fragorosa risata. L’effetto “rovine classiche” era voluto, e io ho fatto la figura del burino che ignora l’arte della decorazione dei giardini. Lì per lì ho abbozzato, ma rimango convinto che le anfore fossero delle intruse. E che comunque andassero almeno disposte in bell’ordine.

Questa pulsione a “raddrizzare” ha risvolti che in qualche caso rasentano i limiti dell’educazione (ma non li superano. Sia chiaro, mi permetto certe cose solo con coloro ai quali le permetterei nei miei confronti). La settimana scorsa, ad esempio, nello studio di un altro amico ho raddrizzato un paio di quadri che non erano perfettamente orizzontali, con lui che mi guardava sogghignando (perché non era la prima volta) e diceva: “Sono settimane che mi chiedo cosa non andasse in questa stanza. Ora ho capito”. In più di un’occasione ho pareggiato libri sugli scaffali altrui, o ne ho cambiata la disposizione perché gli accostamenti erano clamorosamente sbagliati. Uno dei beneficiari della mia non richiesta consulenza ha detto che neppure Monk è tanto pignolo.

Non è del tutto vero. Sono un perfezionista solo in alcuni settori, e quello dei libri viene naturalmente per primo. I miei devono trovare una giusta collocazione (cioè quella che io reputo tale) e devono tornare esattamente al loro posto una volta utilizzati. Considerando che la consistenza della mia biblioteca ha superato ormai da trent’anni la quintuplice cifra, non è cosa di poco impegno.

Altrettanto puntiglioso sono naturalmente per quanto concerne il contenuto dei libri. Non mi riferisco agli argomenti o alle idee, ma alla forma, alla correttezza ortografica, grammaticale e sintattica. Un paio di refusi urtanti o un verbo mal coniugato mi rendono difficile proseguire in qualsiasi lettura, e a volte me la chiudono.

In altri campi invece, dal modo di vestire a quello di parcheggiare, sono solo ordinato o disciplinato. Non amo i contrasti, sono quasi monocromatico (non ho indossato mai un paio di pantaloni rossi, o bianchi), e lo stesso varrebbe per l’arredamento, non fosse che tutte le pareti della mia abitazione sono fasciate da libri disposti sulle scaffalature in legno naturale che io stesso ho costruito, e quindi il problema non si pone. Quanto ai parcheggi, non ho mai pensato che le righe abbiano solo una funzione decorativa.

Sono un maniaco, questo sì, della puntualità. Non sopporto i ritardi dovuti alla trascuratezza e non alla necessità, li patisco come una mancanza di rispetto. E meno ancora sopporto di essere io in ritardo, soprattutto se condizionato dalla indolenza e dalla trascuratezza altrui.

In compenso, per un sacco di altre cose non sono affatto metodico: trascrivo indirizzi o numeri telefonici sul primo pezzo di carta disponibile, col risultato che essendo sommerso dalla carta non li ritrovo mai al momento del bisogno. Oppure rimando il pagamento di imposte, bolli, balzelli vari, o la compilazione di documenti che mi sono richiesti, a volte fino a dimenticarmene e a beccarmi le sanzioni previste. O ancora, non leggo tempestivamente le mail che arrivano, suscitando spesso il sarcasmo dei miei corrispondenti. Ma in questo caso non parlerei di un’attitudine disordinata: in genere sono inconsce rimozioni.

Tutto sommato, comunque, si può dire che sì, sono un amante dell’ordine, un uomo ordinato; oppure, prendendola da un altro punto di vista, un uomo decisamente ordinario.

Nulla a posto 02Ordinare è un lemma dai molteplici significati, tutti assimilabili, tutti connessi alla stessa radice, sia pure a diversi gradi di parentela[1]. Nell’uso corrente lo troviamo soprattutto nei significati di “impartire un ordine”, “fare un ordine”, “mettere ordine”, ma può anche significare inscrivere in un ordine religioso o cavalleresco, o volendo anche naturale, nel senso di classificare, ecc … A me i primi tre si attagliano tutti, anche se con diverse tonalità e sfumature. Ad esempio, so dare ordini: penso che avrei potuto essere un buon sergente, ma sul piano pratico preferisco poi fare personalmente anche ciò che potrei demandare ad altri, probabilmente per un eccesso di presunzione. Ho anche imparato a fare ordinativi via mail, ma solamente quando si tratta di libri, e soltanto per quelli che non trovo in libreria. E persino in pizzeria sono in genere io alla fine a fare l’ordinazione, soprattutto quando ci sono le nostre compagne e la scelta minaccia di andare per le lunghe.

Come si sarà già capito, però, è il terzo impiego del termine a caratterizzarmi davvero. Sono un maniaco dell’ordine, sia pure non a livelli ossessivi, perché applico le mie ubbie innanzitutto a me stesso. E l’ordine che ho in mente ha una forte componente conservatrice. Voglio che le cose “rimangano” in ordine, o al più procedano ordinatamente verso il cambiamento. Non sono dunque un rivoluzionario: e tuttavia paradossalmente mi considero un ribelle.

Prima di proseguire credo di dovere un paio di spiegazioni a chi si fosse presa la briga di leggere questo pezzo (e ancora non avesse smesso). Innanzitutto perché e come mai (che non sono la stessa cosa) ho pensato di scriverlo. È molto semplice, tutto nasce dal titolo di un testo che ho ripreso in mano a distanza di qualche tempo. Si tratta de L’ordine libertario, di Michel Onfray, e traccia una biografia intellettuale di Camus, nonché dello stesso Onfray. Ma di questo parlerò appunto in un pezzo a venire. Sulla mia decisione di oggi ha agito invece solo il titolo, che mi sembra sintetizzare nella maniera più efficace il mio atteggiamento psico-sociale e si attaglia perfettamente ad una breve riflessione preserale, di quelle che mi fanno andare a cena con più appetito, e in questo caso anche pre-natalizia.

Nulla a posto 03 CamusL’apparente chiasmo racchiuso in L’ordine libertario sintetizza, come dicevo, la mia concezione del mondo, degli uomini e dei loro rapporti coi loro simili e col mondo stesso. Quella ideale, naturalmente, di come questi rapporti dovrebbero essere, che non si oppone però alla consapevolezza di come le cose funzionino nella realtà. Non sono ancora così psichicamente turbato da credere in una reale possibilità di riordino del mondo, e da volerla. Ma penso sia importante, ai fini delle nostre scelte e del nostro agire, avere all’orizzonte un traguardo al quale le nostre azioni si ispirino, una direzione nella quale muovere. Sapendo tuttavia che l’orizzonte si sposta in avanti ad ogni passo che fai, e soprattutto che è importante, mentre cammini, tenere sott’occhio il paesaggio circostante e la terra su cui posi i piedi.

La mia direzione va in senso opposto a quella prospettata dalla conoscenza scientifica, secondo la quale, in base alla legge dell’entropia, ogni sistema isolato si trasforma ed evolve nel tempo fino a raggiungere uno stato di equilibrio finale. Che paradossalmente è anch’esso un ordine, ma diverso da quello che noi intendiamo e percepiamo come tale, in base a una nostra forma mentis, alle nostre consuetudini e alle nostre concrete esigenze. In altre parole, quell’equilibrio per noi è un disordine.

Provo a spiegarmi. È come se la mia biblioteca fosse talmente frequentata e utilizzata fuori del mio controllo da trovarsi ad un certo punto con tutti i volumi sparpagliati, rimescolati e disposti secondo criteri totalmente differenti da quelli con i quali l’ho costruita e in base ai quali sino ad oggi è cresciuta (è quello che quasi certamente accadrà, anche se preferisco non pensarci). O peggio ancora, potrebbe essere smembrata e finire sulle bancarelle dei mercatini, o addirittura al macero. Non so se questa possa essere definita una legge di natura, so che è però un futuro probabile. L’entropia è dunque la misura del disordine del sistema: uno stato con poco disordine è quello nel quale gli elementi che lo costituiscono sono stati ordinati – lo stato di partenza, la mia attuale biblioteca; uno stato ad alto disordine è quello in cui il sistema è disposto a caso. La somma dei componenti, magari sotto specie diverse, rimane la stessa, ma il senso dell’insieme cambia completamente. Si passa così da una situazione iniziale di ordine a una finale di disordine.

Ora, quando scrivo che vado in direzione opposta non significa che neghi la verità scientifica, o che creda alla possibilità di invertire la rotta naturale verso il disordine (che è poi tale solo nella nostra percezione della dislocazione delle risorse). Voglio dire che esiste un ordine naturale, del quale dobbiamo essere coscienti, e che è un ordine in divenire costante ma lento; ma ne esiste poi uno culturale. I due hanno viaggiato per un lungo tratto della vicenda umana in una passabile sincronia, fino a quando improvvisamente il secondo ha conosciuto un’accelerazione, concretizzatasi in un crescendo di complessità, e i ritmi hanno iniziato a divergere. L’ordine culturale ha finito per sovrapporsi, e questa non è solo una nostra percezione, a quello naturale, prolificando per partenogenesi all’insegna dell’artificio e della complessità, e finendo fuori controllo. Esattamente come sta accadendo alla mia biblioteca, dove essendo ormai esaurito ogni spazio utile nei cinquanta e passa scaffali disponibili, e a dispetto delle doppie file sui ripiani e dell’occupazione persino dei vani finestra, cominciano ad accatastarsi sul pavimento pile di volumi: e dove, avendone io accumulati troppi, e create suddivisioni tematiche che alla gran parte dei testi vanno strette, non ho più il governo della memoria e sempre più spesso mi è difficile localizzare ciò che al momento mi serve. A volte mi arrovello per giorni, non riuscendo a scovare testi che so per certo esserci.

Nulla a posto 04Questo sta accadendo. Rispetto a ciò, se fossi un rivoluzionario, cercherei di cambiare non solo l’ordine e la disposizione dei volumi, ma muterei radicalmente l’approccio coi libri, buttandomi sul supporto digitale. In questo modo guadagnerei, forse, in efficacia e in efficienza, ma perderei tutto quel valore aggiunto che il possesso e il rapporto fisico con il libro cartaceo mi garantisce. Sacrificherei alla praticità uno dei maggiori piaceri che la vita, nella dimensione dell’ordine culturale, può offrire.

Sono invece un ribelle, se così la vogliamo mettere, perché, pur essendo consapevole che la vita dei miei libri non sarà eterna, e la mia tanto meno; che quelli già domani potrebbero essere considerati obsoleti, un inutile ingombro, e che tutto ciò che da essi ho appreso e su di essi ho costruito scomparirà con me; che dunque mi sto battendo per una causa già persa; ebbene, a dispetto di ciò non mi passa affatto per la mente di rassegnarmi, e mi ostino ad acquistarne altri, a leggerli e a inserirli diligentemente in un quadro che magari vedo solo io, ma che c’è. Ed è un quadro ordinato.

In sostanza, e finalmente fuor di metafora, sono “solo” un ribelle perché non pretendo di avere raggiunto una superiore “coscienza politica”. Non vedo le cose dall’alto, non leggo le trame necessarie e nascoste della storia, non ne prevedo gli sviluppi e non credo di poterli orientare: insomma, non so pensare e agire rimanendo indifferente alle contingenze, ai limiti e alle aspettative e alle sofferenze dei singoli, in nome di un bene comune che domani dovrebbe giustificare il tutto. Mi sono fermato alla “coscienza etica”, che non ha bisogno di un disegno superiore o della speranza in un remoto riscatto collettivo per dare senso ad ogni esistenza individuale. Un senso alla mia esistenza voglio darlo subito, senza attendere che scenda dal cielo o vada a consolare le generazioni venture. Voglio celebrare e difendere tutto ciò che di positivo la vita mi ha riservato, quel poco che ho costruito e quel molto che altri hanno costruito prima di me, e nei limiti delle mie possibilità correggere i risvolti negativi. Questo è l’unico senso che riconosco. Non presumo dunque di migliorare il mondo in base ad un’idea astratta, in funzione di un futuro che se ci sarà apparterrà ad altri; e neppure voglio far tornare in vita un improbabile Eden passato. Non progetto la città ideale, ma cerco di tenere pulita e in ordine quella che abito. E devo quindi ribellarmi al disordine, (anche sapendo che è il destino di tutte le cose), non per fermare l’entropia materiale e morale che avanza, ma almeno per alleviarne il peso e ritardarne il trionfo[2].

Nulla a posto e tutto in ordine 07Ma tutto questo, poi, all’atto pratico, in cosa si traduce? Per quanto mi concerne sono convinto che la mia vera attitudine fosse quella del correttore di bozze, o dell’editor, come si usa oggi (sto dicendo sul serio). Alla maniera di Sebastiano Timpanaro. Non “scrivere una storia” (o “la” storia)”, ma aiutarla a scorrere senza troppe frizioni. Sono però anche consapevole che difficilmente avrei potuto svolgere quella mansione, perché tendo ad allargarmi troppo: non mi sarei limitato a emendare i testi, ma avrei anche discusso della loro pertinenza nello specifico, o della loro opportunità in assoluto. Ho trasferito allora la mia coazione a correggere sulle sovrascritture che ciascuno di noi lascia, come traccia del suo passaggio, su quel testo indecifrabile che s’intitola “vita”.

Ciò non significa che mi sia dato la missione di andare in giro a raddrizzare anfore e quadri nelle case altrui o a predicare disciplina nei posteggi. Questi sono effetti collaterali. Significa semplicemente che mi sforzo di praticare, nella quotidianità delle azioni e delle relazioni, quella resistenza anti-entropica che la mia natura, ed evidentemente anche il mio tipo di cultura, mi dettano. Lo faccio per conservare il rispetto di me stesso, e non mi costa nulla: in realtà non mi sforzo affatto, perché si tratta di comportamenti molto “ordinari”, limitati a quell’agire ordinato che non crea contrasti, attriti, ossia perdite di energia per motivi inutili e futili, e si oppone al realizzarsi del disordine entropico (almeno quello delle relazioni interpersonali, ma senz’altro anche quello fisico). Queste stesse pagine, ad esempio, che futili lo sono senza alcun dubbio, a me hanno creato benessere, perché scrivere mi piace e mi aiuta a riordinare le idee, mentre agli altri non recano alcun danno, perché, al di là del fatto che sono liberi di leggerle o meno (ciò che vale quasi sempre), non sborsano una lira o non subiscono un secondo di pubblicità per farlo (ciò che non accade quasi mai).

Naturalmente l’agire ordinato importante è ben altro: “in positivo”, va dal sorridere a una persona in ascensore al congratularsi con qualcuno per come svolge il suo lavoro, fino al saldare tutti i debiti, morali e materiali, magari senza attendere le scadenze canoniche o il clima un po’ ipocrita delle festività: “in negativo”, dal ricordare a qualcuno che le code si rispettano, senza dare in escandescenze, all’esigere, sempre con calma e senza trascendere, che qualcun altro faccia bene il proprio lavoro, fino al non lasciare nella natura tracce troppo sconvolgenti del nostro passaggio.

Se poi questa diventa una forma di testimonianza, tanto meglio, ma direi anche “poveri noi!”. Mi rifiuto di pensare che la normalità debba diventare “esemplarità”. E soprattutto, a dispetto di quanto magari potrebbe sembrare, diffido dei santini. Conosco un poco la natura umana (abbastanza da sapere che una “natura umana” non esiste, ma che è comodo supporla), e segnatamente la mia, e ciò mi spinge, se non ad accettare, almeno ad ammettere le sue debolezze. Fanno parte della dotazione originaria.

La mia distanza dal “rivoluzionario” sta dunque già in una disposizione di fondo, che reputo innata, nei confronti del mondo e della vita. Amo l’uno e l’altra. Il mondo e la vita si possono amare anche, e forse più, quando si è perfettamente coscienti della “estraneità” del primo nei nostri confronti e del fatidico limite della seconda (Leopardi in questo senso docet, anche se la vulgata vorrebbe il contrario). Li amiamo quando non reagiamo alla oggettiva assurdità del nostro esistere mossi dal risentimento per quelle che consideriamo promesse mancate, ma riconosciamo che ogni illusione e aspettativa ce la siamo creata noi stessi, e ne abbiamo la totale responsabilità.

Fuori c’è il nulla, avrebbe detto Camus. Intendeva che c’è tutto un mondo (e stanti le sue origini mediterranee si riferiva soprattutto alla luce, al sole, al mare) del quale possiamo anche innamorarci, ma che non è lì per noi. Abbiamo solo l’opportunità di visitarlo come turisti, per un fugace passaggio. Possiamo goderne, ma nella coscienza della nostra transitorietà, e questa coscienza ci responsabilizza. Dobbiamo decidere se arrenderci passivamente all’assurdo, continuando a fingere di ignorarlo, e a comportarci come protagonisti attorno ai quali ruota tutta la rappresentazione, o cominciare da subito a guardare dentro la nostra effimera esistenza e a mettere ordine almeno lì. A darle noi un senso, qui ed ora.

Perché la coscienza del nulla paradossalmente ci rende liberi. Se non da una programmazione biologica sulla quale per fortuna non possiamo ancora intervenire, almeno nelle nostre scelte culturali. Siamo liberi, e quindi responsabili, nei confronti nostri, degli altri e del mondo che temporaneamente ci ospita, che dovremmo cercare di trasmettere domani il più ordinato possibile. E questa responsabilità, se accolta in positivo, costituisce essa stessa il senso.

Nulla a posto e tutto in ordine 06 Sartre e CamusUn quasi gemello di Camus, Jean Paul Sartre, prima sodale del nostro e poi rancoroso rivale, ha scritto: “L’Uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa”.

Ecco, la differenza sta lì: nel leggere la nostra condizione come una condanna o come un privilegio. E infatti, Sartre era un “rivoluzionario” (sia pure da salotto), Camus era un “ribelle”.

Nulla a posto 05 Motivazione-al-cambiamento

NOTE

[1] Per i curiosi, il sostantivo latino ordo deriva da una radice sanscrita or (che è la stessa da cui nascono orior, nasco, e ordior, comincio), più una desinenza do, che indica un modo di essere o di fare qualcosa (dulcedo, valetudo, fortitudo). Sta dunque ad indicare la disposizione di ciascuna cosa al suo posto.

[2] Per Schrödinger “gli esseri viventi evitano il decadimento in uno stato di equilibrio termodinamico (vale a dire nella morte) estraendo entropia negativa, o ordine, dall’ambiente, per compensare l’aumento di entropia che essi producono vivendo”. Parte di questa energia viene inevitabilmente dissipata in calore, e ciò è indispensabile per mantenere un organismo a temperatura costante. In tal modo un organismo vivente cede calore all’ambiente.

Parce sepulto

di Carlo Prosperi, 16 giugno 2023

Sono infastidito, se non nauseato, da tutto il can can mediatico seguito alla dipartita di Silvio Berlusconi, all’insegna ora del “servo encomio” ora del “codardo oltraggio”. Con rare eccezioni. Tutto eccessivo. Resto del parere che il personaggio, per cui non ho mai nutrito particolare simpatia, resti nel bene e nel male il simbolo dell’imprenditore ganassa, spaccone ed esibizionista, geniale ma incurante spesso delle leggi e della morale, dotato di un ego straripante, talora ipertrofico, in grado di sedurre, blandire, corrompere. Da perfetto imbonitore, da istrione di razza, all’italiana. Non è un caso che abbia contribuito a rafforzare agli occhi degli osservatori stranieri i più classici e triti stereotipi dell’italiano: gli stessi da lui interpretati per conquistare il consenso, l’ammirazione e l’approvazione della gente comune, in particolare dell’italiano medio e di quanti, con le sue televisioni, ha trasformato da spettatori in consumatori. A beneficio soprattutto delle piccole e medie aziende, dei pubblicitari.

Parce sepulto 02Invece di preoccuparsi di elevare il livello morale e culturale dei suoi compatrioti, ne ha solleticato i bassi appetiti, le voglie insane, il mal costume, a scapito del buon gusto, della serietà, dell’impegno coscienzioso, della buona creanza. Finendo paradossalmente per prestare il fianco alla satira più scomposta e ridanciana, diciamo pure volgare, fino a divenire lui stesso il bersaglio privilegiato di comici e vignettisti senz’arte né parte che, grazie a lui, dall’oggi al domani hanno trovato modo non solo di campare, bensì di prosperare. Magari dileggiandolo, calunniandolo, nutrendosi di quella stessa volgarità cui aveva dato la stura, ovvero la possibilità di esprimersi, di salire alla ribalta, di trionfare. Alla faccia dell’arte vera, della vera cultura. Sì, perché lo spettacolo, spesso peraltro di modesta qualità, ha finito per surclassare la cultura, la riflessione pacata ha ceduto il posto al dibattito estemporaneo, il confronto civile e ponderato all’alterco e alla rissa tra sedicenti esperti, quando non alla chiacchiera, al pettegolezzo, al lazzo e al frizzo, all’insulto, alle scurrilità, a chi la dice più grossa. L’intrattenimento da bar, da salotto, da baraccone o da night-club ha tolto spazio all’educazione, ha distolto dall’approfondimento, dall’esame accurato delle questioni problematiche.

Parce sepulto 03È così mancata ogni stimolazione del pensiero critico ben vagliato e ponderato. Si è data l’impressione che l’opinione dello sprovveduto fosse equiparabile a quella dello studioso. Che l’arguzia, la battuta di spirito e finanche l’improntitudine valessero più del ritegno e del contegno, più dell’argomentazione rigorosa. Con riflessi devastanti sull’editoria, dove libelli e pamphlets hanno preso il posto dei grandi saggi, dove la brevitas e la levitas hanno scalzato la gravitas, e la superficialità è ormai sinonimo di brillantezza. Le stalle di Augia da allora hanno infestato e ammorbato l’aria del nostro Paese. Nani e ballerine, strimpellatori e cantanti da strapazzo, mimi e giullari, hanno così finito per diventare maîtres à penser. La sbracatura, il chiasso, la trivialità più becera sono assurti a costume, a moderni e quotidiani panem et c ircenses. Oppio per istupidire le masse.

È probabile che questa metamorfosi in peggio dell’Italia, da altri scambiata per modernizzazione, sarebbe comunque avvenuta: lui l’avrebbe solo intuita e anticipata. Non anche affrettata? Come si fa a dire: “Non ha cambiato la società con la televisione commerciale. Ha capito che il costume era cambiato e ha offerto un modo di fare televisione nuovo, eppure al passo coi tempi”? Poi è vero e non sorprende che il suo operato, soprattutto politico, non vada a genio “ai sinistri, per cui l’umanità non può essere come è. Dev’essere com’è giusto che sia, cioè come dicono loro. Le devianze, se ricorrono, sono per forza riconducibili a un fattore esogeno. L’idea si aggancia a quell’atavica e istintiva spinta a scaricare sul grande uomo, chiunque esso sia, ciò che siamo; a quella cultura popolare che rifugge dalle responsabilità” [PIER LUIGI DEL VISCOVO, Ha offerto una tv diversa a una società nuova, “il Giornale” del 14 giugno 2023]. Ma dov’era, allora, la responsabilità dei dirigenti del servizio pubblico che non tardarono ad assecondare il modello popolare e commerciale della tv privata? Berlusconi, dal canto suo, ha profittato di questo generale scanso di responsabilità, laddove nulla o ben poco ha fatto per raddrizzare il “legno storto” dell’umanità; anzi su quella innata “stortura” ha fatto leva per il proprio successo imprenditoriale. Col risultato di suscitare invidia, odio, rancore in chi si è visto strappare la platea abituale. Di qui l’accanimento giudiziario, i processi, le sentenze: accanimento che, alla luce del marcio imperante nella magistratura, nessuno dovrebbe più negare. L’homo novus di successo suscita sempre il sospetto e l’avversione dell’establishment. Il cane straniero in transito scatena la canea di quanti del canile si sentono i legittimi padroni.

Parce sepulto 04Berlusconi, per di più, era stato avvisato (cfr. la testimonianza di Fabrizio Cicchitto nell’intervista rilasciata a Massimo Malpica per “il Giornale” cit.): non gli bastò vincere, volle stravincere. Nella sua smodata intemperanza si credeva inattaccabile, al di là o al di sopra di ogni sospetto. Fors’anche al di là del bene e del male. Di qui la gogna mediatica e la vergogna del “bunga bunga”, frutto di un radicato trimalcionismo che lo induceva a circondarsi di sodali e cortigiani plaudenti con cui condividere il proprio libertinaggio. Dietro cui s’intravede la sindrome del dongiovanni, la volontà di esorcizzare la vecchiaia e la morte, gl’immancabili convitati di pietra, indossando la maschera, sempre più grottesca, di un giovanilismo a oltranza. O ridendoci su, tra una battuta e l’altra, in una disperata illusione di immortalità.

Per il resto, è indubbio che abbia fatto delle cose buone – per il mercato del lavoro, per la pace, per lo sport, per la semplificazione della politica col bipolarismo, per lo sdoganamento della destra ovvero, a detta di Tomaso Montanari (che evidentemente ha qualche problema con la storia), “dei fascisti al governo”, ecc. – e che gli avversari politici, negandole, insistano invece sul conflitto d’interessi, che loro peraltro si sono ben guardati dal cancellare, sulle leggi ad personam, che pure ci furono; nondimeno è altrettanto vero che l’unica legge ad personam letale fu quella che segnò la momentanea decadenza politica del “caimano”.

Si dice che l’attuale governo Meloni sia l’esito della sua lungimiranza: in realtà Berlusconi non apprezzava affatto la Meloni, come ha dimostrato scarabocchiando in Senato una serie di malevoli giudizi su di lei sùbito inquadrati dalle cineprese in agguato, ed apprezzava ancor meno di essere il terzo della compagnia al governo. Credeva e voleva essere l’ago della bilancia, il sale dell’alleanza. Fino al ridicolo. La vittoria della Meloni ha in realtà segnato la sconfitta del signore di Arcore. Che non era né un angelo né un diavolo, bensì un uomo con le sue qualità e i suoi difetti. Come tutti, se pur dotato di talenti superiori alla media, peraltro non sempre impiegati nel migliore dei modi.

Parce sepulto 06Ma il mio giudizio non pretende di essere insindacabile, né mi azzardo a considerare le più gravi accuse di collusione o di collaborazione con la Mafia sulle quali nemmeno l’occhiuta magistratura è riuscita a far piena luce. Personalmente, ritengo il concorso esterno in associazione mafiosa, fattispecie assente dai codici penali, un’aberrazione giuridica, frutto di quella creatività dei magistrati che mina la certezza del diritto. Non meno della retroattività della pena. E forse ha ragione Rosy Bindi a dire che “il berlusconismo va elaborato”, evitando santificazioni o demonizzazioni intempestive. Nel frattempo, però, del lutto nazionale e delle bandiere a mezz’asta, nonché dell’inqualificabile scialo televisivo avrei fatto volentieri a meno. Con tutto ciò, parce sepulto.

Parce sepulto 07

Commento di Paolo Repetto

Carissimo Carlo, ho letto il tuo pezzo e l’ho immediatamente girato a Fabrizio per la pubblicazione, corredandolo di qualche immagine (allego il risultato). Speravo vivamente che qualcuno dei Viandanti scrivesse un commento serio e pacato, non essendo io stesso nelle condizioni di spirito per farlo. Sono d’accordo su quasi tutto, ma ho qualche dubbio sulla genialità imprenditoriale. In fondo il nostro non è partito affatto dal nulla, ma dai soldi della prima moglie: forse rientra nelle abilità del self made men anche il trovare una consorte danarosa, perlomeno la prima della serie, ma non penso gli si possa ascrivere come una virtù. Anche se va concesso che i più si limitano a dilapidare il patrimonio della coniuge. Comunque, sul personaggio avrei avuto poco da dire, ha già detto tutto lui quel che serviva ad inquadrarlo: è piuttosto il contorno ad avermi schifato, la canea mediatica spudorata che si è scatenata, quasi che la morte, e il rispetto ad essa dovuto, abbia finalmente consentito di dare la stura a tutta una serie di piccole e meschine rivincite e rivendicazioni personali che pesavano da un pezzo sullo stomaco ad un sacco di gente. Non è stata tanto la beatificazione di un personaggio equivoco, quanto l’occasione per tutti i suoi clientes di emanciparsi, di immaginarsi veri e semoventi anche senza Mangiafuoco a tirare i fili. Credo balleranno una sola estate, ma lo spettacolo è stato comunque penoso.
Dall’altra parte, naturalmente, la sinistra si è istradata sulla solita geremiade del ritorno del fascismo. Nessuno sembra capire che il fascismo non c’entra nulla, se non nelle nostalgie antiquarie dei vari La Russa, e che il regime che va prefigurandosi (succedendo a quello instaurato, almeno sul piano culturale, settant’anni fa dalla “sinistra” – da quella irreggimentata come da quella “autonoma”), è qualcosa di completamente nuovo. È il peggiore dei regimi, che prescinde da ogni “lateralizzazione” ed è stato ormai già interiorizzato dalla maggioranza, per cui ogni opposizione non può più essere politica, ma deve trincerarsi sull’etica. Ovvero, è affidata singolarmente a ciascuno di noi, alla resistenza e all’esemplarità dei singoli: e la resistenza può essere opposta individualmente nei modi più svariati.
Per quanto mi concerne, mi rifugio al momento in cose piccolissime, che possono sembrare – ed effettivamente sono – estremamente futili. Ad esempio, sto buttando giù una mini-biografia di Sven Hedin, l’esploratore svedese, cancellato dai libri della memoria per le sue frequentazioni naziste. Sino a ieri in Italia trovavi tradotto uno solo dei suoi libri (ne ha scritto una cinquantina), e non erano state ripubblicate neppure le vecchie edizioni della Treves. Da quest’anno si trovano anche una sua seconda opera e una biografia (che non ho letto intenzionalmente, perché temo fortemente orientata). Bene, Hedin nutriva simpatie – ricambiate con gli interessi – per Hitler, lo conosceva personalmente, ma era in parte ebreo e rivendicava orgogliosamente questa appartenenza. Un libro nel quale compare questa rivendicazione, nel 1938, in Germania non venne pubblicato (ed Hedin era famosissimo e stimato proprio in Germania). Dopo la guerra non fu inquisito né condannato, non c’era materia per farlo, ma venne ostracizzato e morì nel ’52 dimenticato volutamente e ipocritamente dall’establishment culturale, sia in patria che fuori. Credo che il suo mancato recupero attuale, in un’epoca che rivaluta e riabilita qualsiasi scamorza, sia dovuto alla cancel culture, in quanto gli si addebita di aver saccheggiato, assieme ad altri, tesori artistici e letterari rinvenuti nel corso delle sue spedizioni nell’Asia Centrale. Da notare che quelli non saccheggiati sono andati poi perduti, per la violenza iconoclasta mussulmana, per quella semplicemente idiota delle guardie rosse cinesi o per l’ignoranza delle popolazioni locali. Ebbene, in Italia abbiamo avuto il caso di Ardito Desio, per citarne uno, strettamente colluso col fascismo, intimo di Italo Balbo, responsabile della totale fascistizzazione del CAI, che nel dopoguerra non è stato minimamente sfiorato dalle epurazioni ed anzi, si è visto affidare la conduzione della spedizione al K2, condotta con metodi a dir poco mafiosi e raccontata poi ufficialmente per quarant’anni con un mare di menzogne a danno del povero Bonatti. Desio è morto a 104 anni (confermando la mia teoria che la cattiveria e l’egoismo sono un elisir di lunga vita) e in un documentario passato in televisione un paio di mesi fa era presentato come un padre della patria e un pilastro della cultura. Non è l’unico caso, è solo il primo che mi è venuto in mente: per altri la collusione con lo stalinismo (anche attiva, operativa, come nel caso di Longo, Togliatti e co. in Spagna e altrove) non ha mai costituito una macchia sulla fedina umana e politica.
Allora: questo io chiamo regime, la negazione o la rimozione sfacciata della verità, e la sua riduzione a barzelletta quando è scomoda (vedi il caso Moretti). Per questo considero Montanari alla stregua di Borgonovo e di Capezzone: una volta si sarebbe detto ottenebrati dall’ideologia, ma in casi come questi si può solo parlare di malafede, come intelligentemente scriveva Chiaromonte. Io che sono molto grezzo la chiamo stronzaggine congenita, e questa non conosce distinzioni di destra o di sinistra.

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Commento di Marcello Furiani

1. Condivido sostanzialmente lo scritto di Carlo, con piccoli distinguo. Della genialità imprenditoriale di Berlusconi ha già detto Paolo, alle cui parole aggiungerei il mai chiarito il legame torbido con la mafia, l’oscura origine dei soldi con cui ha iniziato (vedi Banca Rasini, ovvero la Banca che riciclava denaro sporco per conto del Vaticano, della mafia e della massoneria deviata): vicende delle quali non ha qui senso scrivere. Ricordo solo che Berlusconi fu quello delle leggi ad personam, della compravendita di senatori, della corruzione e della normalizzazione dell’evasione fiscale, dei rapporti con la P2 e con la mafia, delle frodi fiscali, degli attacchi alla magistratura e delle olgettine, ecc. Ricordo inoltre che senza il potere politico, che gli ha consentito di cambiare i codici a suo vantaggio, Berlusconi sarebbe stato ripetutamente condannato.

2. Berlusconi e il fascismo. La Russa e compagnia avranno anche delle “nostalgie antiquarie”, ma quando fu eletto Presidente del Senato mi venne in mente un passo de “Le memorie di Adriano”: “Sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all’interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto”. Voglio dire che ciò che Berlusconi ha sdoganato a destra è diventato “normale”, è stato lentamente assorbito, soprattutto a livello inconscio, al punto da non sollevare più alcuna indignazione. Detto questo, l’Italia di Berlusconi non è il fascismo. Il fascismo è stato essenzialmente violenza, è stato conquista violenta del potere, in esplicita eversione delle leggi, trovando terreno fertile nella complicità di settori cruciali dello Stato, e nell’acquiescenza di tutti gli altri. Ma Silvio Berlusconi ha traghettato la destra postfascista nelle stanze del potere – una destra che non è più fascista ma che non è disposta a dirsi antifascista – facendo diventare mainstream parole d’ordine e idee prima marginali nel dibattito pubblico, tra cui la diminutio delle colpe del fascismo nella promulgazione delle leggi razziali, e la persecuzione degli ebrei come macchia su un regime che tutto sommato aveva fatto bene fino a quel momento.

3. Durante i suoi Governi Berlusconi propose leggi che misero le basi per la manomissione dei diritti sociali e economici di questo paese. Governò il paese come si amministra una impresa, pensandosi come il padrone, svilendo il ruolo delle opposizioni e inventando il pericolo comunista. Legittimò la cultura politica del privilegio e dell’interesse personale, al quale tutto può essere piegato, persino le istituzioni. Chi pensa che il berlusconismo sia una moda destinata a scomparire col tempo e con il suo leader non si è reso conto del complesso sistema di potere che ha eroso tutti i sostegni delle istituzioni democratiche. Il berlusconismo è penetrato nel tessuto della politica e non solo, lo ha plasmato, diventando carne, sangue, pensieri, pregiudizi, stereotipi, disvalori.

4. Ha ragione Paolo: “ogni opposizione non può più essere politica, ma deve trincerarsi sull’etica”. Il berlusconismo ha corrotto la coscienza morale, incarna la sconfitta del primato dell’etica e sancisce il primato del successo a ogni costo, incurante di ogni scrupolo e di ogni merito. È la morte di Dio, e il pensiero senza Dio che ne scaturisce porta alla luce una volontà di potenza che null’altro vuole che se stessa. Il concetto di Dio ha rappresentato fino a un certo punto “l’emozione vitale” che trascende l’Io, il potere, il piacere, qualsiasi attribuzione venga operata nei suoi confronti. Il berlusconismo riproduce la disfatta di questa tensione morale, dove il denaro è l’unico generatore simbolico di valore, perché per il berlusconismo tutto si compra, poiché tutto è in vendita, tutti hanno un prezzo: una religione neopagana che ha azzerato il livello di indignazione etica e ha tumulato il valore della cultura svilendo tutto a seduzione, adescamento, corruzione.

P.S. Su Tomaso Montanari si possono avere opinioni differenti, ma mi risulta sia stato l’unico a disobbedire e rifiutarsi di abbassare a mezz’asta le bandiere.

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Commento “Ancora caldo” di Nicola Parodi

Caro Carlo, ho letto le tue considerazioni sulla scomparsa di Silvio Berlusconi. Se fossimo su una panchina del viale della stazione a confrontare le nostre opinioni in proposito ti direi che i primi tre capoversi del tuo Parce sepulto li sottoscrivo, ma già al quarto la sintonia entra in crisi. Da premesse condivise non arriviamo a valutazioni condivise.

Siamo in sintonia nel riconoscere i guasti che possono produrre i cattivi maestri, oggi identificabili soprattutto in coloro che tramite la TV (immagini e suoni sono molto più “invasivi” delle sole parole) solleticano le pulsioni più egoistiche, quelle che la chiesa definisce vizi capitali nelle intenzioni o peccati nella pratica. E anche sul fatto che esiste, indubbiamente, un pensiero “di sinistra” convinto di una “naturale bontà umana”, per il quale i comportamenti errati, i peccati, sarebbero frutto solo di questi “cattivi maestri”. C’è però anche un pensiero di sinistra che poggia su basi razionali, illuministiche, e non si avvale delle categorie religiose di “peccato/male, virtù/bene”, ma ragiona in termini di “funziona/non funziona”[1]: che non è un criterio prettamente utilitaristico, è semplicemente il più naturale da adottarsi per mantenere in equilibrio le società umane. Questo significa che il giudizio su Berlusconi dovrebbe prescindere, almeno in prima istanza, dai nostri convincimenti morali o dai nostri modelli etici, ma basarsi sulla concretezza dei portati, positivi o negativi, delle sue azioni rispetto a questo equilibrio. E qui direi che dubbi non ce ne sono: Berlusconi ha trovato una società immatura e confusa, ci ha nuotato dentro come uno squalo nel Pacifico, pilotando i suoi circhi mediatici in abissi di bassezza, e ha lasciato una società becera e assuefatta al peggio. Non sarà tutta opera sua, ma ha dato senz’altro un contributo sostanziale.

Convengo anche sul fatto che nella società ideale che vorremmo la TV pubblica non avrebbe dovuto perseguire il modello populista e commerciale: ma è evidente che quando i criteri di “efficienza” sono parametrati non sull’equilibrio sociale ma sul liberismo sfrenato la scelta di fronte ai bivi è già scontata. C’è ancora dell’altro. Berlusconi, come tu ammetti, ha approfittato delle “storture” umane per farsi gli affari suoi. A mio parere ha fatto di peggio: si è proposto come modello con un detto/non detto il cui significato era: i miei e i vostri non sono vizi, ma virtù.

Ora, le nostre società sono regolate da una sorta di codice comportamentale, da regole di convivenza riconosciute e osservate da tutti: il trasgredirle comporta la perdita della buona reputazione e l’essere esclusi/espulsi dalla comunità. È assodato che i valori ai quali queste regole fanno riferimento, quelli che definiamo valori morali, si sono evoluti e fissati, diventando innati, e sono fondati primariamente sui principi di uguaglianza ed equità. Naturalmente nelle società composte da migliaia o addirittura miliardi di individui al codice comportamentale deve aggiungersi, senza contraddirne le radici innate, un sistema di leggi che vengono fatte osservare, quando la riprovazione sociale non è sufficiente, dallo Stato, al quale spetta l’uso monopolistico della forza. Per questo nelle democrazie moderne il potere giudiziario deve essere distinto dagli altri due. Per evitarne, nella misura del possibile, la manipolazione e l’abuso.

Qui volevo arrivare. In questo sistema la narrazione della persecuzione giudiziaria può essere letta si come convincimento della “bontà” dei propri comportamenti, ma anche come tentativo di conservare una reputazione di ottimo cittadino anche quando la realtà racconta altro. O di scombinare l’ordine dei valori, “legalizzando” quelli che in precedenza erano considerati comportamenti devianti. Può essere che un ego straripante sia necessario per realizzare grandi imprese, ma un grande ego significa anche grandi appetiti, cosa che confligge con i principi di equità e uguaglianza su cui si reggono le società. E i giudizi negativi non è detto siano dovuti sempre a invidia o odio o a rancore: sono strumenti necessari per preservare l’integrità di una società la cui crisi creerebbe a ciascuno di noi enormi problemi di sopravvivenza.

Per questo, per districarsi meglio fra i processi di Berlusconi, oltre che Il Giornale può servire leggere anche Il Fatto Quotidiano.

Spero insomma tu convenga che mettere in crisi un meccanismo che ha radici evolutive e permette di garantire la sopravvivenza delle istituzioni rientra tra i “peccati capitali”, se vogliamo prendere a prestito la terminologia della chiesa. E comunque ti assicuro che i vizi che in questo tipo di società hanno fatto di uno come lui un uomo di successo sono gli stessi che mi fanno pensare che non l’avrei mai voluto come vicino di destra nello schieramento della falange[2].

[1] Cfr: https://viandantidellenebbie.org/2020/11/28la-morale-e-le-favole/

[2] “L’oplita … fianco a fianco con i compagni di linea, cercando protezione per il lato scoperto sotto lo scudo del commilitone di destra.” Giovanni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Ed. Il Mulino.

​Ariette 4.0

di Maurizio Castellaro, 16 agosto 2021

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

​Al fondo

Ariette 4_1“Essere o non essere”? Il dubbio amletico si incide nella nostra pelle davanti ai resti del teschio di nostro padre, o di nostro nonno. Non uno dei mille anonimi teschi “memento mori” dei quadri napoletani o dei sotterranei siciliani: un teschio che aveva nome e cognome, che apparteneva a chi abbiamo amato. Penso ai nostri progenitori che, nel buio delle grotte, oltre al resto, dovevano imparare a gestire anche questa assurdità della scomparsa dei corpi. Nessuno mi leva dalla testa che la nascita dell’arte e di ogni forma di platonismo possibile nasca dalla necessità di elaborare in qualche modo questo scandalo originario, affrontato e risolto brillantemente da buddhismo e cristianesimo con le due opzioni obbligate della reincarnazione e della resurrezione integrale. Qualcosa era, e poi non è mai più. Tutte le meraviglie della cultura, della spiritualità e dell’arte sono forse state costruite in migliaia di anni per occultare questa semplice verità, o per provare a spiegarla. Soli, di fronte a quelle ossa, queste maestose impalcature del pensiero e dell’azione tradiscono le loro strutture di sostegno. Armati di un milione di risposte possibili, restiamo al fondo senza risposte, ancora e sempre atterriti, nel buio della nostra grotta. E allora? L’arte, ancora e sempre: “Dormire, forse sognare”.

​ A Roberto

Ariette 4_2Calasso, il Grande Elleno che da poco ha smesso di scrivere, ci ricorda che la scrittura è stata donata agli uomini da Cadmo, il fenicio che aveva salvato Zeus, e sembra questione che ci riguarda poco, se dimentichiamo che l’Italia del Sud a quei tempi si chiamava Grecia. La prima colonia in Italia l’hanno fondata a Ischia nell’VIII secolo a.C. i greci dell’Eubea. Il loro alfabeto era una variante di quello attico, e le loro lettere si sono poi diffuse in Lazio, fornendo il modello per l’alfabeto etrusco, per quello latino, e poi a seguire per quello italiano e inglese, insomma in realtà parliamo sempre di noi. Tutto questo per arrivare alla “Coppa di Nestore”. L’hanno trovata in una sepoltura ad Ischia, ed è il messaggio più antico nella “nostra lingua” finora riemerso dagli abissi della storia. Raccomanda i valori della poesia, della convivialità e dell’amore: “Io sono la bella coppa di Nestore, chi berrà da questa coppa subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona”. Forse Cadmo l’ha voluta salvare dalle ingiurie del tempo per avvisarci, per salvarci ancora.

Il più crudele?

di Paolo Repetto, 24 aprile 2021

Aprile è il più crudele dei mesi? Non saprei, anche gli altri non scherzano. So comunque che per i Viandanti (e non solo per essi, purtroppo) l’aprile dello scorso anno, quello della prima terribile ondata, è stato crudelissimo. Esattamente un anno fa ci ha portato via due amici, due viandanti onorari, Mario Mantelli e Armando Cremonini. Mario e Armando erano entrati da tempo a far parte del club degli “ultimi illuminati”, e a pieno titolo: il primo quasi mettendoci in soggezione, a dispetto della sua mitezza, per l’eccezionale sensibilità estetica e per la vastità della cultura che la alimentava, il secondo facendosi amare per il sottilissimo umorismo, per quell’aria sorniona che assieme al sigaro gli dava un che di anglosassone (ma un anglosassone tutt’altro che freddo).

Non voglio raccontare di loro, l’ho già fatto e chi volesse conoscerli meglio può trovarli su questo stesso sito (per Mario, oltre ai suoi libri – Di cosa ci siamo nutriti e Viaggio nelle terre di santa Marta e san Rocco – e ai quattro Quaderni di prose e di poesie pubblicati dai Viandanti, si possono leggere: Una raccolta di silenzi; Arrivederci, maestro!; Visite guidate nei giardini della memoria; Che belle figure!. Per Armando, Il collezionista).

Queste poche righe vogliono solo scongiurare il silenzio attonito e subito distratto col quale siamo ormai ridotti ad accettare la scomparsa degli amici. Per me, per noi, non è così. Gli amici ci lasciano, ma non scompaiono. Alla faccia di aprile.

Primavere perdute

(e un solo lungo inverno)

di Paolo Repetto, 9 aprile 2021

I remake sono già insopportabili al cinema, figuriamoci quando a riproporsi tale e quale è una realtà come quella della clausura coatta. In queste prime giornate d’aprile, infatti, quanto a numeri dei contagi e dei decessi, e a conseguenti restrizioni, siamo esattamente nella condizione di un anno fa. E andrebbe addirittura peggio, se terapie più mirate non contenessero bene o male le dimensioni della strage.

A non essere più lo stesso è invece lo stato d’animo col quale affrontiamo la pandemia. Forse siamo meno spaventati. Ma se avvertiamo una pressione minore è solo perché ci stiamo abituando, e se prendiamo le regole meno alla lettera è perché in realtà abbiamo introiettato e troviamo naturali le precauzioni elementari (parlo delle persone normali, naturalmente: gli idioti non fanno testo, anche se fanno danni). Soprattutto, la speranza che ci sorreggeva la primavera scorsa, per cui l’estate avrebbe posto fine all’incubo, quella è totalmente svanita. Adesso sappiamo che con la pandemia dovremo convivere ancora per molto, cosa che per quelli della mia età significa per sempre. Nemmeno i vaccini riescono a rischiarare il futuro (ultimamente lo hanno reso anzi ancora più cupo: perché non ci sono, o perché quelli che ci sono non sembrano funzionare granché).

Abbiamo una sola certezza: che nulla sarà più come prima. E dato che già prima avevamo un’idea molto confusa di come le cose andassero veramente, tendiamo a mitizzare quel recentissimo passato, a ricordarlo come un’età dell’oro. Non è solo frutto di una deformazione prospettica: in effetti, paragonata alla situazione che stiamo vivendo, quella di un anno e mezzo fa appare paradisiaca. Se allora navigavamo in acque poco tranquille, oggi siamo proprio in balia della tempesta. Stiamo perdendo d’un colpo tutte le sicurezze che secoli di “progresso” sembravano averci garantito.

Ora, a livello individuale questo sconquasso viene naturalmente vissuto in maniere molto diverse, a seconda delle condizioni oggettive, anagrafiche, di salute, di lavoro, di famiglia, o di ciò che effettivamente si è perduto: ma intervengono poi anche le differenti disposizioni caratteriali, per cui ciascuno è portato a leggere la situazione da un suo particolare angolo prospettico. E dato che ritengo abbia poco senso tentare sintesi di ampio respiro rispetto alla condizione nuova in cui siamo venuti a trovarci, e meno che mai azzardare dei bilanci, vorrei parlare proprio di questi atteggiamenti individuali. Nella fattispecie, come al solito, del mio: per cui è facile che ripeta cose già scritte in questi mesi. Ma lo metto in conto ad una sclerotizzazione tipica dell’età, e anche al fatto che d’altro non c’è in fondo molto da dire.

Allora, pur rimanendo consapevole che delle mie sensazioni e della mia attitudine non può fregare di meno a nessuno, provo a fare mente locale sulla particolarissima percezione che ho della tragedia e dei suoi anche più banali risvolti quotidiani: non fosse altro che per conservarne un po’ di memoria per i tempi in cui l’emergenza sarà alle spalle (sempre che arrivi a vederli), quando ciò che oggi mi sembra intollerabile sarà diventato normale: oppure per confrontare, già da subito, la mia percezione con quella altrui. Penso che non sarebbe male se un’operazione del genere la facessero tutti: aiuterebbe a mitigare i possibili (e molto probabili) eccessi di entusiasmo, e ad evitare di ripetere almeno un po’ degli errori che la pandemia ha messo drammaticamente in luce.

Partiamo dunque da ciò che sento di aver perso, iniziando dalle cose più serie, da quelle che non sono legate a semplici mie impressioni.

Primavere perdute 02

Ho (abbiamo) perso, ad oggi, quasi centoventimila vite. Questo dato tendiamo a rimuoverlo. È troppo grande, ci spaventa e non riusciamo a visualizzarlo. Oppure lo stemperiamo, dicendoci che si tratta delle vite di persone molto anziane (anche se non è vero). Siamo ridotti a pensare che a breve sarebbero comunque morte, e che in fondo avevano già vissuto una buona fetta di esistenza: cercando, o fingendo, di dimenticare che tutti moriremo comunque, prima o poi, e che in genere nessuno ha voglia che sia prima, o pensa di avere già vissuto più che a sufficienza. Non voglio fare il menagramo e pronunciare degli infausti memento mori, e nemmeno sono motivato dal fatto che tra gli anziani di medio periodo rientro ormai anch’io. Constato semplicemente che di fronte a certe cifre, che in tempi normali parrebbero spaventose, abbiamo maturato una quasi indifferente assuefazione. Io stesso, che pure da questa ecatombe continuo ad essere particolarmente turbato, non riesco ad andare molto oltre il dato numerico.

D’altro canto, è naturale che riusciamo a visualizzare solo le perdite prossime. E, come quasi tutti, ne ho anch’io di molto personali da piangere. Amici della mia generazione o più giovani di me, persone con le quali sino a dieci giorni prima facevo progetti. Nella mia percezione di queste perdite ha avuto un rilievo fortissimo l’assenza dei funerali. Loro sono stati defraudati del diritto ultimo che rimane a un defunto, quello di essere salutato dagli amici, e io sono stato defraudato di quello di salutarli. Può sembrare assurdo, ma se sto poco alla volta abituandomi alla loro scomparsa, non ho accettato affatto l’impossibilità di salutarli un’ultima volta. È come se le loro anime non potessero essere pacificate fino a quando in qualche modo non avrò dato loro un addio decente.

Queste perdite hanno cancellato molte consuetudini che avevo ritualizzato: le conversazioni davanti al caminetto o attorno alla tavola, le lunghe passeggiate urbane, il ritrovo ai mercatini o alle mostre, il semplice piacere di condividere in una telefonata scoperte, letture, aneddoti. Mi sono venuti meno dunque un sacco di riferimenti fissi, e lo dico sommessamente, consapevole che c’è chi con queste scomparse ha perso molto di più.

La sfera nella quale il Covid ha pesato maggiormente, anche quando non in maniera così brutale, è appunto quella delle amicizie. L’amicizia può esistere (e resistere) anche a distanza, ma si tratta di casi eccezionali. Di norma è legata alla possibilità di una consuetudine diretta. Mi riferisco al bisogno fisico e psicologico di vedere determinate persone, di portare avanti colloqui fatti a volte anche di poco o nulla, addirittura di silenzi, che riescono in presenza a loro modo eloquenti, del conforto difficilmente rappresentabile che danno certe prossimità. La clausura non mi ha fatto perdere delle amicizie, ma certamente me le ha fatte riconsiderare. Mi ha consentito di capire quali erano interinali e quali a tempo indeterminato, e il criterio di valutazione, se di criteri si può parlare rispetto ad un’amicizia, è stato proprio il bisogno della presenza fisica, di concertare o immaginare o fare cose assieme. Ricordo che nella prima fase pandemica si celebrava il soccorso arrecato dai social, dalle reti virtuali: ma non c’è voluto molto per rendersi conto di quanto questo surrogato sia fragile, insipido ed evanescente.

Anche le restrizioni negli spostamenti e negli incontri hanno naturalmente ridimensionato, in qualche caso azzerato, le vecchie abitudini. Per quanto abbia interpretato i divieti in maniera piuttosto permissiva, improntata al buon senso piuttosto che alla lettera (non è stato difficile, vista l’incredibile confusione delle normative che si sono succedute), ho forzatamente diradato o annullato riunioni conviviali, escursioni di gruppo, conferenze e occasioni svariate di incontro e di scambio: tutte le cose attorno alle quali, sia pure in maniera molto improvvisata e aperta, era ormai organizzata da qualche anno la mia vita. Mi mancano particolarmente i seminari di storia delle idee, perché in fondo erano la naturale prosecuzione di una attività didattica svolta per tutta la vita, con in più il piacere del confronto alla pari, della libertà assoluta nella scelta dei temi e nei modi della loro trattazione, ma soprattutto perché erano una miniera di stimoli e arricchivano senz’altro più me che non i miei uditori. Ho preferito non proseguire quelle attività on-line, da remoto, perché sono convinto che il loro vero valore risieda nell’empatia comunicativa che solo può crearsi in presenza, che si trasmette attraverso l’immediatezza sincera dei gesti, delle posture, degli sguardi.

Ciò nonostante ho continuato per tutto questo ultimo anno a immaginare argomenti per le future conversazioni, a concepire per ogni nuova suggestione la forma di una trattazione colloquiale, come facevo prima: ma riesce difficile quando non c’è una destinazione precisa, una scadenza da rispettare. E anche il mettere le cose per iscritto è un impoverimento, rispetto a quello che può emergere nel corso di una esposizione orale. Platone lo aveva già ben chiaro duemila e passa anni fa, quando negava alla scrittura una vera capacità maieutica. Insomma: avverto ancora più pesante la sensazione di aver accumulato tante cose delle quali vorrei fare partecipi altri, e che invece sembrano destinate all’inutilità.

Diversa è la situazione riguardo ai viaggi e agli spostamenti. A mancarmi, in questo caso, è piuttosto la possibilità di immaginarli, di programmarli, che non la loro concreta realizzazione. Si tratti di viaggi veri e propri o di semplici scappate di giornata, mi rendo conto che per me il motivo maggiore di piacere era l’idea di poterlo fare. Di decidere, prendere su e andare. Dopo una lunga stasi avevo ricominciato a sentir prudere le gambe, forse nell’inconfessata consapevolezza che i tempi per permettermi queste cose (così come tutte le altre) stringono: ora, costretto al tapis roulant fisico e mentale, sento già affievolirsi le forze e la voglia.

Tutto questo ha però niente a che vedere con il senso di soffocamento che sembra rendere impossibile la vita a buona parte dei miei connazionali (chissà come si sentirebbero se vivessero in Cina). Il fatto di non essere totalmente libero di muovermi o di incontrare gli amici non lo considero un attentato alla mia libertà. Penso al contrario che non dovremmo nemmeno aspettare che siano altri ad imporci delle limitazioni, dovremmo arrivarci per conto nostro. Questa è la vera libertà: essere consapevoli del rischio, per la salute nostra e per quella degli altri, che questi movimenti e questi incontri possono comportare. La libertà è coscienza del dovere, solo alla quale consegue legittimamente la rivendicazione del diritto: e dal momento che il mio primo dovere è di non recare danno a nessuno, l’espressione massima della libertà è proprio questa, sapere e potere agire in modo da non nuocere.

Quella che percepisco di meno, e la cosa può apparire paradossale, perché ho piena consapevolezza del disastro che si profila, è il disagio economico. Non è questione di miope egoismo: come pensionato godo per il momento di una situazione privilegiata, ma so perfettamente che è destinata a durare ancora per poco, e che chi non è stato ancora colpito lo sarà al più presto. A furia di scostamenti il bilancio si sporgerà oltre l’orlo e finirà rovinosamente a terra, e il debito qualcuno dovrà pagarlo. Rispetto a queste cose, a differenza che nei confronti del Covid, sono vaccinato: stanti le mie origini mi sto preparando da una vita ad una evenienza del genere. Non me la auguro, ma nemmeno vivo questa prospettiva nel segno dell’angoscia: sarebbe solo il ritorno ad una condizione di precarietà che ho già conosciuto, e che ho la presunzione di saper affrontare. Il problema vero è che ho figli e nipoti, e loro a questa condizione sarebbero del tutto impreparati. Questo mi preoccupa.

Primavere perdute 03

Qualcosa ho perso anche nei confronti della scuola. Non direttamente, perché con la scuola non ho mantenuto alcun rapporto o impegno diretto. Ma indirettamente constato l’accelerazione dello smottamento attraverso coloro che la scuola la frequentano, o chi vi è ancora impegnato, e trovo che sia devastante. Continuavo a coltivare l’illusione, pur sapendo benissimo che di illusione si trattava, che un qualche evento particolare, felice o drammatico che fosse, avrebbe costretto a mettere finalmente mano a un risanamento della scuola. Parlo di risanamento, e non di rinnovamento o di riforma, perché di queste ne abbiamo avute sin troppe, una più rovinosa dell’altra. Risanare la scuola significa per me riconferirle un ruolo, un prestigio, una missione. E questo può essere fatto solo attraverso la ridefinizione di quelle che sono le sue finalità, la revisione di quelli che sono gli strumenti e le strade atti a raggiungerli, il reclutamento di operatori che sappiano davvero usare questi strumenti e percorrere queste strade. Scopi chiari, criteri di valutazione certi (degli studenti come degli insegnanti), luoghi sicuri, tempi congrui.

Sta accadendo esattamente l’opposto. L’emergenza è stata affrontata con provvedimenti uno più insensato dell’altro (i banchi a rotelle!), con decisioni prese sempre sull’onda delle pressioni mediatiche, per mostrare che qualcosa si stava facendo, senza una volta dire chiaro e tondo come stanno le cose: e cioè che la didattica a distanza non è una opportunità ma una sciagura e che le riaperture a singhiozzo avevano l’unico scopo di tacitare i genitori sfiniti. Si sono confusamente raccontate favole alla Baricco sulla “nuova intelligenza digitale”, si sono reclutati insegnanti “di supporto” con compiti sempre più espliciti di assistenza al parcheggio, ci si è riempiti la bocca di termini inglesi per mascherare la fuffa concettuale. Il risultato è che si sono persi due anni scolastici, né più né meno come se le scuole fossero rimaste chiuse, e non si è profittato di questa pausa per fare un concorso decente che sia uno o per riparare almeno le falle dei tetti degli edifici. Banchi a rotelle e piattaforme digitali. L’unico valore in crescita positiva è rimasto quello dell’analfabetismo di ritorno.

Quella che non ho perso del tutto è invece la fiducia nella scienza, anche se devo fare un bello sforzo per continuare a nutrirla. E sono tra i non molti che sanno che dietro i pagliacci esibiti in tivù c’è un sacco di gente in gamba. Figuriamoci la considerazione che possono averne tutti gli altri, coloro che nemmeno immaginano esista una realtà al di fuori di quella raccontata dal teleschermo, e attraverso quello hanno assistito al balletto delle comparsate e dei contrapposti protagonismi. La vicenda dei vaccini è emblematica. È stata ridotta ad un problema di tipo prettamente industriale, di rivalità politiche ed economiche, e a nessuno sembra minimamente interessare il percorso scientifico che sta a monte di quelle fiale. Anche in questo caso, ciò che è frutto di una conquista, di un sapere, di un modello conoscitivo che non è quello degli sciamani o dei taumaturghi ayurvedici, è percepito come qualcosa di dovuto. Si contesta la scienza, ma ci si attende e si pretende che risolva poi ogni nostro problema, e si scalpita se tarda a farlo.

Stavo per scrivere, in conclusione, che ho perso definitivamente il Futuro. In realtà non è stata una gran perdita, non lo vedevo più da un pezzo: diciamo che la pandemia mi ha aiutato a metterci definitivamente una pietra sopra. Questo significa che ho perso soprattutto la voglia, un po’ in generale tutte le voglie. Per questo non mi pesano più di tanto le restrizioni, che come dicevo ho preso con filosofia: non soffro la mancanza di libertà, ma il fatto che di questa libertà non saprei che fare, e che se anche lo sapessi non avrei più voglia di farlo. Questa primavera non ho messo a dimora nemmeno un alberello, e neppure una piantina di rose. Mi sono limitato a una svogliata manutenzione di routine, in campagna e in casa. Mi rimangono il presente e il passato. Nel primo galleggio, nel secondo sono sempre più immerso, ma senza coltivare nostalgie: cerco di rimettere ordine nei ricordi consegnati agli scaffali, e ogni tanto ne risfoglio qualcuno. Non mi chiedo più che ne sarà dopo.

Ma non è così che voglio chiudere. All’inizio ho accennato alle banalità che ci danno il senso di una cesura totale col passato, e ho finito poi per parlare solo di cose serie. Invece le percezioni piccole ci sono, arrivano da dove meno te le aspetti. Mi limito ad un esempio, per non scadere come al solito nell’aneddotica.

In questo periodo ho dovuto frequentare con una certa assiduità lo studio del mio dentista. Lì la percezione di una perdita c’è naturalmente già in partenza, e riguarda tanto il tuo portafoglio quanto la tua bocca. Ma questo valeva anche prima del Covid. Il tocco nuovo, la sfumatura significativa, l’ho conosciuta invece nella sala d’aspetto. Non c’è più una rivista. Quei dieci minuti o la mezz’ora di attesa li riempivo con una scorpacciata di informazioni che solo in quella occasione o in altre simili (studi medici, parrucchiere, ecc…) ero in grado di procurarmi. Mi aggiornavo sui prezzi delle auto con Quattroruote (anche se un po’ in ritardo, perché le riviste erano sempre vecchie di almeno sei mesi), sui modelli più raffinati di doppiette o sovrapposti con Diana o con Sentieri di caccia, ma soprattutto sul gossip, sulle ultime disavventure di Al Bano o di Emanuele Filiberto attraverso Cronaca vera o Chi. Scomparse. Ho provato a portarmi un libro ma non funziona, lì non attacca. Il piacere era nei titoli dei reportage, nelle foto, e nella serialità. Da un anno e passa ho perso totalmente di vista Al Bano: non so se sia vivo o morto, o magari cresciuto, se si sia beccato il Covid o abbia fatto outing, se sia tornato con Romina. La nebbia assoluta. E questo dà la misura della mia distanza dal mondo, spiega perché ne capisco così poco.

Ma non basta. Recentemente ho avuto occasione di seguire, senza volerlo, in un altro studio medico (mi sembra ormai di non frequentare altro), la conversazione tra due signore che come me erano in attesa. Una volta si sarebbero immerse nella lettura, al più avrebbero commentato malignamente gli ultimi amori della Hunziker o la scollatura di qualche giornalista televisiva: invece, orfane delle riviste, stavano parlando delle trame del governo, della pandemia creata ad hoc per imbrigliarci tutti, del complotto dei vaccini. Non so se siano finite sugli ebrei perché nel frattempo era arrivato il mio turno. Sono uscito traumatizzato. Ho capito che ci stavamo davvero perdendo molto più di quel che temiamo, ma che il futuro, purtroppo, non ce lo siamo affatto perso. È quello e, a dispetto della rassicurante continuità delle beghe interne al PD, è già cominciato.

Primavere perdute 04

Avvisi di fermata

di Paolo Repetto, 12 marzo 2019

Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
GIORGIO CAPRONI

Ultimamente i messaggi che mi chiamano a riflettere sulla morte si sono moltiplicati. Ce ne sono di espliciti, direttamente inviati dal mio fisico e, sia pure con encomiabile tatto, dalle ditte di onoranze funebri: di sottintesi, come gli appelli dell’AIDO per la donazione di organi e della chiesa per altri tipi di donazione; oppure di minacciosi, testardamente recapitati porta a porta dai Testimoni di Geova. Ma non è di questi che voglio parlare. Mi riferisco invece a segnali che non sembrano specificamente mirati e che non nascondono secondi fini.

Questi ultimi mi hanno colpito per la loro successione ravvicinata e perché provenienti da fonti inattese: e non credo si tratti solo di un acuirsi della mia sensibilità, dovuto al fisiologico approssimarsi del gran giorno. In realtà io alla morte non ci penso granché, e il tema non ricorre spesso nemmeno nei discorsi dei miei coetanei. Al più vi si accenna in occasione della scomparsa di un amico, ma almeno in apparenza senza particolari inquietudini. Può darsi si tratti di una strategia per esorcizzare la paura, ma sinceramente mi sembra altro: mi sembra quasi indifferenza.

Sul perché adesso l’argomento torni così insistentemente, e tirato in ballo da gente molto più giovane di me, che quando pensa al futuro ha qualche opzione in più rispetto all’inumazione o alla cremazione, non ho spiegazioni plausibili. Forse è l’inconscia risposta al nuovo governo, o ai cambiamenti climatici, oppure è l’effetto dei social-media che comincia a farsi sentire: sta di fatto che i segnali ci sono.

Qualche avvisaglia l’ho avuta tempo fa da un divertente e spero prematuro necrologio dedicatomi da Fabrizio (Una dose di pensiero divergente, pubblicato sul sito il 30 aprile 2018). Fabri vede la mia anima aleggiare attorno al Capanno anche dopo la mia scomparsa, e la cosa mi piace molto. È un po’ come leggere il proprio nominativo sui manifesti a lutto, ciò che a me accade spesso, data la diffusione della mia schiatta nella zona. Quando capita non mi affretto a toccarmi per scaramanzia, mentre sono invece intrigato dalla possibilità di vivere (appunto) la situazione contemporaneamente nei panni del protagonista e in quelli dello spettatore. Lo scritto di Fabrizio, poi, era già scaramantico di per sé, direi rassicurante. Per uno come me, che ha la sindrome del controllo, è importante avere un’idea anche di come ti penseranno dopo (e soprattutto sapere che ti penseranno). Nel frattempo, comunque, mi sono deciso a fare al Capanno alcuni lavori di consolidamento e ad apportare qualche miglioria: mi piacerebbe aleggiare a lungo, e in sicurezza.

Di lì a poco mi ha colpito un bellissimo pezzo di Marco Moraschi (Ancora un altro giorno, in sguardistorti n. 04 – ottobre 2018). Marco è un ragazzo eccezionalmente maturo, e chi segue il nostro sito ha avuto più di un’occasione per constatarlo: ma quel breve articolo era una cosa davvero speciale, inattesa, spiazzante. Trattava il tema della morte con una lucidità e una serenità sorprendenti, e più sorprendenti ancora erano la partecipazione delicata e il senso profondo della perdita. Voglio dire che se lucidità e serenità possono essere spiegate dalla distanza che un giovane giustamente immagina rispetto all’ineluttabile, la profondità e la partecipazione possono essere frutto solo di una sensibilità fuori del comune. Mi sono chiesto se alla sua età mi fossi mai fermato a riflettere seriamente su queste cose, e devo confessare di non ricordarlo affatto. Neppure la morte di mio nonno, che era forse la persona con la quale sentivo maggiore affinità, aveva prodotto qualcosa di diverso dalla registrazione un po’ egoista di una perdita personale. Parlando delle sensazioni provate di fronte alla morte dei suoi nonni Marco invece scrive: Sembrava quasi che la morte avesse aggiustato tutto, avesse riportato le cose a uno stato di perfezione originaria. Alla propria perdita antepone il loro ritorno alla perfezione originaria, il loro diritto alla dignità. E poi aggiunge: Ad essere sincero, la morte non mi ha mai spaventato. La mia morte intendo. Ciò che mi spaventa di più non è la mia morte, ma la morte altrui, perché noi invece sopravviviamo alla dipartita degli altri e rimaniamo quindi un pochino più soli ad affrontare la vita. Non so quanto sia diffuso questo modo di considerare la cosa, almeno tra i giovani. Pensavo fosse una prerogativa degli anziani, indotta dal progressivo accumularsi sulle loro spalle della responsabilità di essere i prossimi. Probabilmente lo è invece delle persone intelligenti, a prescindere dall’età.

Passano un paio di settimane e arriva un nuovo input. Questa volta da Roberto, che mi chiede notizie di un libro di Shelly Kagan, “Sul morire”. L’autore è un docente di filosofia, ha scritto libri come La geometria del deserto e I limiti della morale, non pubblicati in Italia ma piuttosto popolari negli States. Il libro non lo conoscevo, ma ne ho scaricato un estratto e mi son fatto un’idea. Sembra abbia avuto un grande successo in America, e da quel poco che ne ho letto posso anche capire perché: ma dubito che ne avrà altrettanto in Italia. Nell’introduzione l’autore promette: Cercherò di convincervi che l’anima non esiste. Cercherò di convincervi che l’immortalità non sarebbe un vantaggio. Che la paura della morte non è una risposta appropriata alla morte. Che la morte non è particolarmente misteriosa. Che il suicidio, in determinate circostanze, può essere giustificato sia razionalmente sia moralmente. Con un lettore italiano sfonderebbe porte aperte e perderebbe il suo tempo: non ne conosco uno che sia convinto che l’anima è immortale o che la morte sia particolarmente misteriosa. E soprattutto, che sia davvero interessato all’argomento. Credo che solo gli americani possano appassionarsi a queste cose.

A Roberto ho dunque risposto così: “Il modo migliore per sapere se un libro merita di essere letto è cominciare a leggerlo. Naturalmente, senza comprarlo. Per i libri pubblicati in formato kindle è possibile scaricare un estratto, in genere molto sostanzioso, che risponde perfettamente alla nostra esigenza. L’ho scaricato e te lo allego. Personalmente ho provato a leggerlo, ma ho smesso molto presto. É scritto bene, offre argomentazioni chiare e semplici, ma è il tema a non interessarmi. Non si tratta di un rifiuto scaramantico, semplicemente credo di aver troppe cose ancora da sistemare e da conoscere in vita per preoccuparmi del dopo, sempre che ce ne sia uno. Preferisco cercare di capire il passato, sul quale almeno qualche certezza seria si può avere. Al resto, casomai, avremo tempo di pensare.

A dirla tutta il libro mi ha persino un po’ infastidito. Non per il tema in sé, ma per il modo nel quale lo tratta e per le finalità che si propone. Mi ricorda un po’ la crociata atea di Richard Dawkins, che ha speso cinquecento pagine per dimostrare che Dio non esiste, ottenendo il risultato di renderlo quasi simpatico. Se l’intento è quello di esorcizzare la paura, o di sfatare il mistero, temo si risolva in un flop completo. Per queste cose non c’è spiegazione razionale che tenga. È questione di attitudine di fondo. Quando l’autore afferma: “Riflettere sulla morte. La maggior parte di noi si sforza di non farlo” ne ho la riprova. Appartengo a quella minoranza che non ha bisogno affatto di sforzarsi. Come recita la poesia di Caproni, sono approdato alla “disperazione calma, senza sgomento”.

La domanda secca, diretta, mi è stata infine rivolta, pochi giorni orsono, da un’amica, questa volta una mia coetanea. “Ma tu, ci pensi mai alla morte?” mi ha chiesto. Così, secco. Avrei potuto rispondere: “Beh, per forza; mi ci state tirando tutti per la giacchetta”, ma per una volta ho voluto essere serio, e mi sono limitato a dire semplicemente: no.

È così. Non mi riesce proprio di pensarci, e se anche ci provo mi distraggo subito. È vero quel che ho risposto a Roberto: mi manca il tempo, ho sempre qualcosa che urge da sistemare, da riordinare o da inventare.

Eppure proprio adesso ne sto scrivendo. Lo faccio per lo stesso motivo per il quale scrivo su ogni altro possibile argomento. Per liberarmi di qualcosa che ha cominciato a ronzarmi nella mente (in questo caso per istigazione esterna) devo trattarlo come un libro trovato al mercatino: sfogliarlo, farmene un’idea, rimetterlo in ordine con un po’ di restauro e una bella ripulita, e finalmente riporlo nel posto che gli spetta (ho aggiunto nuovi scaffali e lo spazio ora c’è). Quindi tratterò in questo modo anche del mio rapporto con la morte: il che significa che non lo affronterò in termini “esistenziali”, ma facendo mente ai risvolti prosaicamente “fenomenici” , immediati, pratici.

Non è una rimozione. Anzi, mi sento a disagio, perché davvero non ne penso nulla, e sembra impossibile anche a me. Come si fa a non pensare alla morte? A meno che … a renderla invisibile e indicibile non sia proprio la coscienza costante della sua presenza. Magari la spiegazione è proprio questa: se hai della morte una consapevolezza piena, non di cosa è ma del fatto che c’è, finisci per dimenticarla, perché sei troppo occupato a riempire di senso la vita. O forse è solo un lascito dell’educazione cattolica, che con la morte ambiguamente ci gioca, e alla fine impedisce di prenderla sul serio.

Quando mi butto in queste riflessioni rischio però sempre di incartarmi. Preferisco non spingermi troppo in là e approfitto invece per redigere un breve testamento spirituale e biologico.

Nella prospettiva di partire per un’assenza a tempo indeterminato è importante fare un consuntivo di ciò che si lascia: debiti, ricordi, affetti, cose (e già l’ordine in cui questi lasciti mi sono venuti in mente è probabilmente significativo).

a) Debiti. Non ho bisogno di un foglio molto grande per farne l’elenco. Da buon contadino non ne ho mai contratti di materiali: la regola di mio padre voleva liquidata ogni pendenza entro la fine di ciascun anno. Diverso è invece il discorso per quelli morali. Ho un po’ di cose segnate in rosso: incomprensioni o irrigidimenti dovuti al mio carattere poco duttile, impuntature che viste in questa prospettiva appaiono proprio stupide, e che per fortuna dovrei essere ancora in tempo a sanare. Anche perché a soffrirne sono probabilmente molto più io che non i miei creditori.

b) Ricordi. Ci tengo naturalmente a lasciare un buon ricordo in chi mi ha conosciuto: una cosa ristretta e a tempo, senza ambizioni d’immortalità: piuttosto per quella leggera increspatura dell’acqua che il ricordo positivo, e prima ancora la condizione o la relazione che lo crea, possono produrre, e che sia pure in misura microscopica aiuta la corrente della storia a fluire un po’ più limpida. Gli esempi di chi mi ha immediatamente preceduto sono stati fonda-mentali nella mia vita. Nel dubbio ho avuto sempre la possibilità di chiedermi cosa avrebbe pensato, cosa avrebbe fatto, come si sarebbe comportato: di avere insomma una bussola nel mio agire. Mi piacerebbe trasmettere a mia volta qualche utile coordinata a chi verrà immediatamente dopo.

c) Affetti. Spero di aver ricambiato almeno in parte l’affetto dal quale sono stato circondato. E se non l’ho fatto non è per aridità, ma per un certo burbero impaccio nel manifestarlo, che a volte può essere stato interpretato per freddezza. Non lo era: posso onestamente affermare di aver amato i miei simili, e penso di essere stato sempre fortunato, perché non ho dovuto sforzarmi molto. Le arrabbiature e il sarcasmo sono nati sempre dal disappunto non per il male che gli altri potevano fare a me – perché, davvero, non me ne hanno mai fatto – ma per quello che si stavano facendo con le proprie mani.

d) Le “cose” richiedono invece un discorso un po’ più articolato. Non volendo farla troppo lunga lo riassumo in quattro domande:

Cosa sarà dei miei libri? Può sembrare assurdo, ma la preoccupazione maggiore, rispetto al dopo, riguarda proprio loro. E non è così assurdo che mi preoccupi del loro futuro, perché in fondo sono la parte di me meno deperibile, ciò che più concretamente rimarrà. Potrei far incidere sullo stipite della porta del mio studio il motto di Scholem: Io non ho una biografia, ho una bibliografia. I miei libri sono e raccontano la mia storia. Per questo vorrei che rimanessero assieme, che non andassero divisi e dispersi, e probabilmente vincolerò ogni altro lascito (poca roba) alla loro salvaguardia. Tenerli tutti, e mantenerli nella loro attuale disposizione, che non è casuale, ma ha un senso.

Cosa sarà della mia campagna? Il rapporto con la campagna è diverso. Non posso pretendere che significhi per chi verrà dopo le stesse cose che ha significato per me. Certo, mi piacerebbe che qualcuno avesse cura della terra e del Capanno, chiunque possa essere. Ma se ciò non avvenisse, provvederà la natura stessa a riprenderseli, e va bene anche così.

Cosa sarà della mia casa? Ne faccio un problema sia tecnico che affettivo. Tecnico perché è un edificio molto vecchio (la struttura originaria risale alla prima metà del Settecento) che necessita di costanti attenzioni, e non sono sicuro che ci sarà qualcuno disposto a prestargliele (d’altro canto, avendolo restaurato in gran parte con le mie mani, impianti elettrici e idraulici compresi, sono in realtà l’unico a conoscerne i segreti, i punti deboli, ecc…). Affettivo perché mi piacerebbe che i miei figli, a dispetto delle tendenze nomadi che manifestano, vivessero con la casa lo stesso rapporto che ho vissuto io. Ne sarebbero senz’altro ripagati. Come per i libri, se ameranno la mia casa ameranno anche tutta quella parte di me che ho mescolato a pietre, mattoni e cemento nel rimetterla in piedi.

Ecco che pensando alla terra e alla casa vien fuori il mio vero rovello di fronte all’idea della morte. Ad ogni lavoro che faccio, ad ogni risistemazione che opero è tacitamente sottesa la domanda: come farà il mondo senza di me? C’è rammarico non per ciò che perderò io, ma per ciò che perderà il mondo, privato dell’opportunità che rappresento. Non di grandi gesta, di capolavori o di scoperte scientifiche fondamentali, ma di quella manutenzione spicciola della quale ha un gran bisogno. Hai voglia a dirti che l’umanità ha tirato avanti per quattro milioni di anni facendo tranquillamente (insomma) a meno di te, e che presumibilmente lo farà anche in futuro: ma senza di te non sarà la stessa cosa.

Infine: Cosa sarà del mio corpo? È ciò di cui francamente mi importa meno, e a ragion veduta. Comunque vada, so già benissimo cosa ne sarà. Potrebbe cambiare qualcosa se disponessi di qualche organo riciclabile, ma dubito che sarebbe un buon investimento. I pezzi stanno assieme in un equilibrio ormai precario, smembrati sarebbero da buttare. Forse, se già esistesse il trapianto di cervello, potrei sperare in una distribuzione allargata, in dosi omeopatiche: perché non vada del tutto sprecato quel poco di conoscenze e di consapevolezza che ho acquisito durante questo mio piacevole soggiorno.

Tutto qui. Capisco che rispetto ad un tema che stato, è e presumibilmente, a dispetto della ricerca scientifica cinese, continuerà ad essere centrale per il pensiero umano, possa sembrare terribilmente banale. Non so che farci. Alla fine comunque ho risposto alle sollecitazioni, l’argomento l’ho affrontato. Adesso, per altri vent’anni almeno, non voglio più pensarci. Ma forse, riflettendoci meglio, il problema non sta nel come ci si rapporta alla morte, ma nel come questo rapporto ci dispone nei confronti della vita. Della nostra, e prima ancora, ma conseguentemente, di quella altrui.
Steinbeck scriveva che occorre “vivere in modo che la nostra morte non porti sollievo al mondo”. Spero gliene abbia portato almeno un poco, nel suo piccolo, la mia vita.


Mazze e silenzi

(a proposito di utopie)

di Paolo Repetto, 2017

Per piantare i pali mio nonno Paulin usava una mazza da undici chili. Chi ha provato ad alzarne una normale, di quelle da cinque o da sette, sa di cosa sto parlando.

La prima volta che ho preteso di usarla anch’io mi sono disarticolato una spalla. È vero, non avevo ancora quindici anni, ma a quell’età ero già piuttosto scafato, e soprattutto ero molto convinto di me. Ci ho quindi riprovato e ho continuato a servirmi di quella mazza fino a non molto tempo fa: poi è misteriosamente scomparsa, evitandomi l’imbarazzo di ammettere che non era più alla mia portata. Lo sforzo che imponeva era insensato, come sosteneva mio padre. Se ci lavoravo per un’ora, e a volte erano anche mezze giornate, finivo come i pupazzetti di Ken, ai quali mia figlia staccava regolarmente le braccia. Ma per me un senso lo aveva: in quei momenti non ero più Paolo, ma Paulin, e il peso e il significato della fatica li misuravo su un’altra scala.

Ho nutrito per mio nonno una devozione tutta particolare. Non era un colosso come mio padre: anzi, era alto e magro, tutto nodi e nervi. Somigliava molto al John Carradine di Furore. Se di mio padre ammiravo la forza di volontà, l’ironia e la capacità di trasmettere ottimismo a tutti, di mio nonno mi colpivano invece lo stoicismo, il riserbo, l’accettazione delle prove della vita, compreso il lavoro più duro, come momenti necessari di un ciclo naturale. Ma mi affascinava soprattutto la genuina semplicità con la quale faceva bene ogni cosa, dal dissodare un terreno al costruire una sedia o insaccare un maiale, e teneva in perfetto ordine i suoi attrezzi: lo faceva perché così deve essere, non conosceva altri modi, e non ne provava un particolare orgoglio, o almeno non lo ha mai esibito. Sembrava uscito pari pari da un mondo non solo preindustriale, ma addirittura precristiano.

Tutto quello che gli era arrivato dalla scoperta dell’America erano il tabacco, il granoturco, i pomodori e le patate. Ogni altro aspetto della modernità, la politica, la meccanica, l’alfabetizzazione, la spettacolarizzazione dell’esistenza, gli era assolutamente estraneo. Aveva bisogni elementari, non frequentava il bar, non ha mai visto un film, nemmeno quando ero io a proiettarli al cinema parrocchiale. Fosse ancora vivo se ne starebbe rintanato al Capanno, e io avrei il pezzo di terra meglio curato dell’intera provincia.

Ricordo ogni sua parola, e non è difficile, perché gliene avrò sentite pronunciare si e no cinquanta. La sordità guadagnata al fronte gli evitava il fastidio di essere importunato e di dover rispondere. Ma ho ancora qualche dubbio, perché nei rarissimi casi in cui la faccenda lo toccava davvero dava l’impressione di sentirci benissimo. Amava il vino, non però al punto di abbrutirsi: l’ho visto qualche volta barcollare, ma mai dare fuori o incattivirsi, e meno che mai naturalmente parlare a vanvera.

Lavorando al suo fianco ho imparato presto a capire cosa voleva senza bisogno che lo chiedesse: normalmente era la cosa più logica da farsi, anche quando a me non sembrava tale e avrei voluto introdurre una certa modernizzazione. Le volte che l’ho fatto ho dovuto alla fine ricredermi, e ammettere che il suo buon senso spicciolo valeva più di qualsiasi mia pretesa innovativa.

Del tempo trascorso assieme (troppo poco, purtroppo) rimpiango soprattutto le rare soste nel bel mezzo di uno scasso, o di una vendemmia, quando sedeva a cavallo di un fossato e si arrotolava una sigaretta. Negli ultimissimi anni ero io ad arrotolargliele, perché gli tremavano le mani; è lì che ho cominciato a rollarle anche per me, e non ho più smesso. Fumavamo assieme, in assoluto silenzio, io guardando al lavoro ancora da farsi, lui a quello già fatto. Una volta, proprio durante una pausa dell’impalatura, volgendomi di colpo l’ho sorpreso a fissarmi, e mi è parso di cogliere un lampo di compiacimento nei suoi occhi, prima che li distogliesse: credo che pochi abbiano ricevuto nella vita una gratificazione pari a quella.

Quando in una tarda serata di novembre andai a cercarlo nel suo vigneto lo trovai seduto, appoggiato ad uno dei pali che avevamo piantato assieme, con la cicca spenta ancora tra le dita. Avevo diciott’anni e quell’immagine, malgrado tutto il dolore del momento, mi ha riconciliato per sempre con l’idea della morte. Due giorni prima si era recato in Ovada a piedi, come sempre, per la fiera di sant’Andrea, e ne era tornato con un fascio di lisca per impagliare. Quel fascio lo conservo ancora, dopo mezzo secolo, assieme ai suoi ferri da falegname, anche se ormai è quasi solo polvere.

Ecco, ero partito con l’intento di parlare di crisi delle utopie e ho finito invece per ricordare mio nonno. Ma c’è un nesso: in effetti, credo che le utopie potessero avere dimora solo in un mondo abitato da gente come lui, e che la loro crisi odierna sia dovuta alla coscienza che abbiamo di non poter più tornare indietro, e conoscere ancora quella condizione.

Non sto parlando naturalmente della condizione sociale. Il mondo in cui ha vissuto mio nonno era tutt’altro che un eden, ingiusto e duro ancor più di quello attuale. Non ho di queste nostalgie. Ne ho invece per uomini che possedevano un innato senso della dignità e del dovere, e lo conservavano a dispetto di quella realtà. Anche di loro ho già parlato, raccontando di anarchici, di viaggiatori, di eretici e di scienziati, o più semplicemente di “quasi adatti”. Ebbene, mio nonno, sia pure a modo suo, rientra nella categoria. Evidentemente quelli come lui sono sempre stati una minoranza, vessata e sfruttata, ma c’erano. Magari disponevano di poche conoscenze, ma quelle poche erano solide: e di ciò di cui non sapevano preferivano non parlare.

In questa minoranza Paulin figurava tra gli ultimi, tra quelli che almeno in apparenza non avevano mai avuto l’ardire o la forza di ribellarsi. In realtà, come Bartleby lo scrivano, opponeva una forma particolare di resistenza passiva. Aveva dovuto guadagnarsi il diritto di stare al mondo sin da bambino, con le sue braccia, un giorno dopo l’altro: lo avevano poi strappato a una magra affittanza e a una famiglia appena costruita per spedirlo a combattere sull’Isonzo, una carneficina lunga quattro anni, contro gente di cui sapeva nulla e per una patria che si era fatta viva solo al momento di mettergli in mano un fucile, promettendogli un pezzo di terra: ma al ritorno si era ritrovato con una manciata di medaglie di bronzo e la mezzadria affidata ad altri. La stessa promessa gli era stata fatta trent’anni dopo dai partigiani, e non era cambiato nulla. Arrivò a possedere un fazzoletto di terra solo a settant’anni, e solo perché glielo acquistò mio padre. E tuttavia non l’ho mai udito lamentarsi, recriminare, rivendicare qualcosa.

Ho capito dopo, quando ho provato a ricostruire la sua storia, senza che lui vi avesse mai fatto cenno, che il silenzio non era frutto della sordità, ma della dignità: si rendeva conto che tutti coloro che gli facevano promesse lo stavano semplicemente usando, e non avendo alcuno strumento culturale per difendersi aveva scelto di isolarsi, di evitare almeno di farsi prendere in giro. Ho ancora viva un’altra immagine: lui appoggiato ad un muro nella piazza del castello, con le cartine e la scatola del tabacco in mano, e dal lato opposto un comiziante, forse democristiano, tutto infervorato, che nell’assenza totale di altri uditori gli si rivolgeva direttamente. Mentre risalivamo verso casa gli chiesi un po’ maliziosamente di cosa parlasse quel tizio, e mi rispose nel suo dialetto secco: “Us vendeiva (Si vendeva)”. Aveva capito tutto senza udire niente.

Per questo mi è tornato subito in mente: perché malgrado io gli strumenti culturali bene o male li possegga (o forse proprio in ragione di questo), e ci senta ancora discretamente, sta crescendo in me una gran voglia di imitarlo. Arrivato all’età che mio nonno aveva quando ho cominciato davvero a conoscerlo, mi sento altrettanto a disagio. Credo di averne motivo. Vivo in un mondo nel quale tutto, dalla televisione allo sport, dalle reti “sociali” alla pubblicità, ha congiurato ad abbattere le mura che ancora cinquant’anni fa contenevano gli idioti, e questi dilagano e sono legioni, ed esibiscono un’arroganza spudorata, direttamente proporzionale all’ignoranza. È chiaro che su questa mia sensazione pesa anche la componente anagrafica, una naturale e giustificata intolleranza prodotta dall’età: ma non penso che tutto lo sconfortante spettacolo di miserie intellettuali e morali cui sono costretto ad assistere sia solo una fantasima generata dalla ipersensibilità senile. La trionfale ascesa di incompetenti che non si limitano più a parlare di calcio, il moltiplicarsi di “antagonisti” che non hanno la minima idea di cosa sia il dovere, nei confronti di se stessi e degli altri (e si riempiono quindi la bocca solo di malintesi diritti), l’esibizionismo becero dei reality e dei forum pomeridiani, sono purtroppo tutte realtà oggettive, un termometro agghiacciante dell’istupidimento di massa. E se fossero necessarie ulteriori conferme, è sufficiente fare una passeggiata e considerare lo stato dei bordi delle strade, dei luoghi pubblici, dei muri e dei monumenti. Badando anche, naturalmente, a non farsi falciare da un automobilista nervoso o ubriaco. Che utopie si possono ancora concepire, con un simile materiale umano?

(per saperlo dovete sorbirvi anche l’appendice. Ma potete anche non farlo)