L’epica paesana di Gian Piero Nani

di Carlo Prosperi, 23 marzo 2022

Vorrei premettere a questo scritto di Carlo Prosperi qualche riga di spiegazione. Non che siano necessarie delucidazioni sul testo, che più chiaro ed esauriente di così non potrebbe essere, come accade sempre per le cose scritte da Carlo: semplicemente volevo giustificare il fatto, effettivamente un po’ inusuale, che anziché proporre un’opera se ne proponga direttamente la recensione. Mi accorgo però che anche questa giustificazione non è necessaria, e leggendo il testo capirete il perché. Carlo si “giustifica” egregiamente da solo. Ogni riga aggiunta non potrebbe che essere di troppo. Mi limito allora a segnalare che il principale motivo per il quale questo scritto ha guadagnato tutta la mia attenzione è legato al modo in cui tratta il tema della “nostalgia”: ci sto girando attorno da un pezzo, alla solita maniera confusa, e credo che questo pezzo mi abbia finalmente dato il coraggio di affrontarlo a breve con un po’ di sistematicità. Spero che lo stesso effetto possa avere su qualche altro frequentatore o collaboratore del nostro sito: nel frattempo, affido queste pagine alla vostra riflessione e al vostro piacere.

Quanto all’opera cui il testo si riferisce, le poesie dialettali di Gian Piero Nani, certamente meritano di essere conosciute. Il fatto è che ne esiste una sola privatissima versione scritta, quella appunto curata da Carlo stesso e praticamente introvabile. Per gli appassionati, comunque, il titolo del libretto nel quale stono state raccolte, accanto ad altre poesie di Arturo Vercellino, è Maniman (Castello Bormida, 2012).

(Paolo Repetto)

In principio c’è la piccola patria, il villaggio: un mondo al di fuori del tempo o, meglio, immerso in un tempo ciclico che asseconda il ritmo naturale delle stagioni. La ripetizione, il ritorno dell’identico è la regola che lo governa e, come nella liturgia, i riti – sempre quelli – ne (di)segnano la scansione, con rassicurante cadenza. La civiltà contadina che fa da sfondo e ne è, in realtà, l’anima ha radici che affondano nella notte dei tempi. E sembra avere i connotati dell’eternità, la fissità di un mondo senza storia, dove le novità e le variazioni sembrano meri accidenti, arabeschi che ne corrugano a volte la superficie, ma non ne toccano e non ne intaccano l’immobilità di fondo. Siamo quindi ai margini della modernità, dove è la natura a dettare i tempi della vita – siano quelli del lavoro, siano quelli della festa – e dove è la tradizione a orientare la mentalità dei singoli e della comunità. La famiglia e, appunto, la comunità sono i due poli di riferimento che forgiano e assicurano l’identità dei “paesani”, dalla culla alla tomba. Sappiamo tutti che cosa significa far parte di una comunità: lo ha ricordato in maniera particolarmente incisiva Cesare Pavese: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

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Questo non vuol dire che la comunità sia un’isola, giacché essa è da sempre a contatto con altre comunità, non solo limitrofe, con le quali vige un continuo interscambio di merci, di idee, di persone (grazie soprattutto ai matrimoni), anche se questi rapporti non cancellano, ma se mai sottolineano le differenze (economiche, di carattere, di mentalità, di costume) e, anzi, talora attizzano rivalità e conflittualità di campanile. Le fiere annuali e i mercati settimanali sono le occasioni privilegiate per alimentare i traffici, non solo commerciali, tra i paesi: una variopinta umanità si dà convegno ora in questa ora in quella località, per lo più durante le sagre, e così un tocco di esotico scompiglia piacevolmente le carte della quotidianità, porta una ventata d’aria nuova, suscita un’inedita e curiosa animazione. Un’eccitazione febbrile trascorre per le vie e per le piazze del borgo, dove s’inseguono voci e richiami diversi dal solito, dove inconsuete cadenze dialettali s’intrecciano con quelle domestiche. La festa accende di colori e di suoni la stinta alacrità della vita ordinaria, ma è un’eccezione: il giorno dopo, chiusa la parentesi, la comunità ritorna ai suoi ritmi naturali, come se nulla fosse (stato).

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A questo punto va detto che il quadro or ora disegnato non esiste più. Almeno nella sua integrità. Tutt’al più ne (r)esistono qua e là radi scampoli o anemici residui. Del resto, il quadro stesso, se non si vuol ridurre a oleografia, va preso con beneficio d’inventario, nel senso che la vita comunitaria non è affatto così paradisiaca come a tutta prima potrebbe sembrare. Valori e livori vi coesistono, l’armonia apparente non deve dissimulare talune grettezze ed anche una diffusa conflittualità. La solidarietà che unisce il paese si spiega anche con la necessità di far fronte a scompensi, inconvenienti, problemi che rischiano di comprometterne l’ordine, la stabilità, talora anche la sussistenza. Insomma, l’idillio non ha ragion d’essere, anche se è indubbio che la vita comunitaria, radicata in uno spazio geografico circoscritto e in una solida tradizione, era più a misura d’uomo, più attenta a preservare le differenze, le specificità individuali, di quanto non lo sia la società urbana o di quanto consenta la globalizzazione. La prima, infatti, favorisce o incrementa l’alienazione, la seconda l’omologazione e la standardizzazione. I loro ritmi esistenziali sono “altri”, dettati dal tempo lineare, scanditi dall’orologio meccanico. Mille miglia lontani da quelli naturali della terra e delle stagioni.

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Questa lunga premessa è necessaria per capire la poesia di Gian Piero Nani, che è strettamente e diremmo visceralmente legata alla tradizione comunitaria, al mondo rusticano di Montechiaro – il suo paese – anch’esso travolto e stravolto, a dispetto delle apparenze, dai marosi della modernità e del progresso. Quel mondo è andato in gran parte sommerso, ma nei versi di Nani continua a vivere e sussistere come se fosse tuttora vegeto, come se il cordone ombelicale che ad esso lo congiunge non fosse mai stato rescisso. Non c’è nostalgia nei suoi versi, perché il trauma del distacco o della perdita non si è mai consumato. O almeno così sembra. Per questo il poeta, come un antico rapsodo, può permettersi di rappresentare la vita paesana nella sua imperturbata, inconcussa attualità, con sguardo fermo e oggettivo. Nessuna lacrima gli fa velo, nessun rimpianto lo tormenta. La rassegna è quasi distaccata: uomini e cose sfilano integri nella loro perfetta identità, scolpiti da nomi, soprannomi e parole come figure di bassorilievo, colti nella loro infungibile individualità. Il dettato è perentorio. Il poeta sembra davvero Adamo che dà il nome alle cose e, così facendo, le trae dall’indifferenziato, le carica di senso.

Si capisce che egli non parla da estraneo: la sua voce proviene dall’interno di quel mondo che va rappresentando. Ed anche il suo sguardo, per taluni aspetti, è connivente, allineato alla prospettiva dei personaggi, calato nella loro realtà. Se si concede qualche scarto, tra bonomia e ironia, non è mai eccessivo, perché in fondo vibra di compartecipazione, di simpatia. Si tratta, in altri termini, di uno sguardo al tempo stesso divertito e compiaciuto. Il poeta, mentre affabula, strizza l’occhio al suo pubblico, ne cerca la complicità, ma senza mai sovrapporsi, con falso moralismo, ai suoi personaggi, che, anzi, rispetta nella loro specificità, fino a riprodurne i tic, gli idiomatismi, la gestualità e finanche – se vi sono – le eccentricità. In qualche caso egli, con avvertita regressione, s’immedesima in loro, dà loro la parola, così da farne emergere, quasi teatralmente, senza interferenze autoriali, la personalità e la sensibilità. Scambi di battute, metafore equivoche, sottintesi maliziosi: il dialetto si dimostra in questi casi particolarmente versatile e malleabile, tanto da adattarsi senza esitazioni alle varie circostanze, ora alludendo ora ammiccando, dimostrando in ogni caso straordinarie capacità mimetiche e performative.

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È un’epica paesana quella che alla fine si squaderna sotto i nostri occhi. Come se, per qualche prodigioso incanto o sortilegio, il tempo si fosse fermato. Come se il mondo rappresentato non fosse stato scalfito dalla modernità, dissanguato dagli esodi e minato a morte dai cambiamenti epocali nel frattempo intervenuti. Vien da chiedersi come sia possibile tutto ciò. La risposta che sorge spontanea è che Nani ha saputo serbare e salvaguardare lo sguardo ammirato del puer ed è probabilmente guardando dentro di sé che riesce pertanto a rimettere in moto il film del suo piccolo mondo antico. Egli in questo è rimasto un uomo d’altri tempi, fedele alla terra, alle radici: legato più alla natura che alla storia, la quale magari non sarà “la devastante ruspa che si dice” (Montale), ma intanto fa danni. Né “la fine della storia” preannunciata da Fukuyama sembra, in questo senso, promettere di meglio. Tra le poesie di Nani ce n’è una – Da là da ’na piànca – che ci sembra particolarmente significativa, non solo perché la riteniamo un piccolo capolavoro, sì anche perché costituisce una specie di “carta d’identità” del poeta, che in essa ci rivela alcuni “segreti del mestiere”, consentendoci così di meglio comprenderne e definirne la poetica. Ebbene, qui Nani ci presenta la cascéin-na dove è nato e dove ha trascorso la sua infanzia a contatto con la natura. È indubbiamente l’occhio meravigliato del fanciullo (della masnò) a travisare la realtà di quella cascina in quella di un castello (in casté). L’epos nasce, non troppo diversamente, da un’analoga alterazione della realtà: da una meraviglia che ingrandisce e abbellisce le cose, trasferendole in una dimensione mitica. Ma fatalmente viene poi il momento del disincanto, ed è un vero e proprio risveglio. Per il poeta questo momento coincide con la fine dell’infanzia, quando l’innata e istintiva spontaneità cede il posto alle convenzioni sociali. Quando dalla natura si passa alla società, con i suoi obblighi, i suoi vincoli e i suoi divieti. La libertà viene così ingessata. E dal mito si trapassa alla storia.

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Paradossalmente, però, comincia a questo punto il tempo della poesia. E nasce proprio dallo sguardo e dal cuore di quel fanciullo che, nonostante le escoriazioni della storia e le costrizioni della società, è in qualche modo sopravvissuto a se stesso ed ha saputo mantenerli vivi e reattivi. Non esistono paradisi che non siano perduti, ma il poeta-puer, con la sua vis immaginativa e con l’icastica potenza del suo linguaggio nutrito di umori naturali, impastato di terra e di sangue, riesce ad evocarli, a renderli accessibili e credibili. Riesce, in altre parole, ad attingerli al di là della storia e delle sue nefande dissacrazioni. E a riproporceli tali e quali. D’altra parte, nelle liriche più soggettive, dove il poeta dà voce ai propri sentimenti, si avverte che davvero l’antico fanciullo innamorato (alla lettera) della natura non è mai morto del tutto in lui, ed anzi torna all’abbraccio fidente e sensuale della terra con rinnovato trasporto. Fino ad annullarsi in lei, nel suo intatto stupore. Il sogno è, insomma, quello di regredire al grembo materno e di ritrovare, là accovacciato in posizione fetale, l’armonia perduta.

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Il salto dalla beata (e dotta) ignoranza dell’età infantile alla (triste) cultura della scuola, dalla libertà naturale ai condizionamenti sociali, ricorda per certi versi il passaggio dall’oralità alla scrittura. Già Platone nel Fedro disapprovava la scrittura per tutta una serie di ragioni: perché pretende di ricreare fuori della mente quello che solo all’interno di questa può esistere; perché finisce per distruggere la memoria; perché infine i testi scritti non sanno rispondere alle domande che essi suscitano o sollecitano. Diverso è il caso di Nani: la sua poesia nasce per essere recitata e per questo ama interpellare direttamente un pubblico di uditori. Il poeta sa cioè adeguarsi alle situazioni, adattare di volta in volta, in maniera estemporanea, i suoi testi alle esigenze o alle aspettative degli ascoltatori, improvvisando sul momento variazioni o aggiunte ad hoc. Il contesto ambientale assume in tal modo – come ha ben rilevato l’antropologo Walter J. Ong – un’importanza singolare nel determinare il senso del discorso, proprio mentre l’accorto dosaggio della mimica e della gestualità, per non parlare del tono o dell’inflessione della voce (decisivi ai fini di quello che don Gonella di Villadeati – riconosciuto maestro del nostro – chiamava “il gheddu”, cioè il brio e la forza icastica dell’espressione), consentono al récit orale scorciatoie o forme di sintesi inimmaginabili in uno scritto. L’immediatezza dell’oralità, tutta concentrata sull’hic et nunc, ha che fare con il tempo reale, continuo e ininterrotto, laddove la scrittura, spazializzando il tempo, ne elude la puntualità e la processualità, e proprio per questo può permettersi, attraverso l’ipotassi, d’imprimere una maggiore organizzazione al discorso. L’oralità, mettendo al centro l’azione umana, è più spedita e più pragmatica. La paratassi le è quindi più congeniale.

Tra l’altro un poeta eminentemente orale come Nani è anche un attore e, nel recitare le sue composizioni, può far sentire la forza dirompente del ritmo e della rima, che con estrema varietà ne guidano e ne governano il discorso. I suoi versi non assecondano alcuna apparente regolarità metrica, ma le rime disseminate qua e là con grande disinvoltura disegnano dei percorsi imprevedibili, fungono da stelle polari o – come nel caso delle briciole di Pollicino – tracciano d’istinto dei sentieri che basta seguire per arrivare allo scopo. E non a caso abbiamo ricordato Pollicino, poiché è indubbio che il modello privilegiato dal poeta è quello delle filastrocche infantili, delle tiritere o delle folette (listórie) popolari, con le loro “cantilene dondolanti” e i loro “ritmi bilanciati” (Marcel Jousse). Anche per Nani – come per Jousse – il linguaggio è anzitutto mimaggio ed è indubbio che nella trascrizione delle sue liriche molto vada perduto, a cominciare dalla spontaneità, ma se non altro la scrittura permette di conservare la parola nel tempo, mentre “i suoni, la voce fatta d’aria che li articola, sono effimeri” (E. Lledò). Si tratta quindi di un sacrificio, ma è un sacrificio necessario.

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Mazze e silenzi

(a proposito di utopie)

di Paolo Repetto, 2017

Per piantare i pali mio nonno Paulin usava una mazza da undici chili. Chi ha provato ad alzarne una normale, di quelle da cinque o da sette, sa di cosa sto parlando.

La prima volta che ho preteso di usarla anch’io mi sono disarticolato una spalla. È vero, non avevo ancora quindici anni, ma a quell’età ero già piuttosto scafato, e soprattutto ero molto convinto di me. Ci ho quindi riprovato e ho continuato a servirmi di quella mazza fino a non molto tempo fa: poi è misteriosamente scomparsa, evitandomi l’imbarazzo di ammettere che non era più alla mia portata. Lo sforzo che imponeva era insensato, come sosteneva mio padre. Se ci lavoravo per un’ora, e a volte erano anche mezze giornate, finivo come i pupazzetti di Ken, ai quali mia figlia staccava regolarmente le braccia. Ma per me un senso lo aveva: in quei momenti non ero più Paolo, ma Paulin, e il peso e il significato della fatica li misuravo su un’altra scala.

Ho nutrito per mio nonno una devozione tutta particolare. Non era un colosso come mio padre: anzi, era alto e magro, tutto nodi e nervi. Somigliava molto al John Carradine di Furore. Se di mio padre ammiravo la forza di volontà, l’ironia e la capacità di trasmettere ottimismo a tutti, di mio nonno mi colpivano invece lo stoicismo, il riserbo, l’accettazione delle prove della vita, compreso il lavoro più duro, come momenti necessari di un ciclo naturale. Ma mi affascinava soprattutto la genuina semplicità con la quale faceva bene ogni cosa, dal dissodare un terreno al costruire una sedia o insaccare un maiale, e teneva in perfetto ordine i suoi attrezzi: lo faceva perché così deve essere, non conosceva altri modi, e non ne provava un particolare orgoglio, o almeno non lo ha mai esibito. Sembrava uscito pari pari da un mondo non solo preindustriale, ma addirittura precristiano.

Tutto quello che gli era arrivato dalla scoperta dell’America erano il tabacco, il granoturco, i pomodori e le patate. Ogni altro aspetto della modernità, la politica, la meccanica, l’alfabetizzazione, la spettacolarizzazione dell’esistenza, gli era assolutamente estraneo. Aveva bisogni elementari, non frequentava il bar, non ha mai visto un film, nemmeno quando ero io a proiettarli al cinema parrocchiale. Fosse ancora vivo se ne starebbe rintanato al Capanno, e io avrei il pezzo di terra meglio curato dell’intera provincia.

Ricordo ogni sua parola, e non è difficile, perché gliene avrò sentite pronunciare si e no cinquanta. La sordità guadagnata al fronte gli evitava il fastidio di essere importunato e di dover rispondere. Ma ho ancora qualche dubbio, perché nei rarissimi casi in cui la faccenda lo toccava davvero dava l’impressione di sentirci benissimo. Amava il vino, non però al punto di abbrutirsi: l’ho visto qualche volta barcollare, ma mai dare fuori o incattivirsi, e meno che mai naturalmente parlare a vanvera.

Lavorando al suo fianco ho imparato presto a capire cosa voleva senza bisogno che lo chiedesse: normalmente era la cosa più logica da farsi, anche quando a me non sembrava tale e avrei voluto introdurre una certa modernizzazione. Le volte che l’ho fatto ho dovuto alla fine ricredermi, e ammettere che il suo buon senso spicciolo valeva più di qualsiasi mia pretesa innovativa.

Del tempo trascorso assieme (troppo poco, purtroppo) rimpiango soprattutto le rare soste nel bel mezzo di uno scasso, o di una vendemmia, quando sedeva a cavallo di un fossato e si arrotolava una sigaretta. Negli ultimissimi anni ero io ad arrotolargliele, perché gli tremavano le mani; è lì che ho cominciato a rollarle anche per me, e non ho più smesso. Fumavamo assieme, in assoluto silenzio, io guardando al lavoro ancora da farsi, lui a quello già fatto. Una volta, proprio durante una pausa dell’impalatura, volgendomi di colpo l’ho sorpreso a fissarmi, e mi è parso di cogliere un lampo di compiacimento nei suoi occhi, prima che li distogliesse: credo che pochi abbiano ricevuto nella vita una gratificazione pari a quella.

Quando in una tarda serata di novembre andai a cercarlo nel suo vigneto lo trovai seduto, appoggiato ad uno dei pali che avevamo piantato assieme, con la cicca spenta ancora tra le dita. Avevo diciott’anni e quell’immagine, malgrado tutto il dolore del momento, mi ha riconciliato per sempre con l’idea della morte. Due giorni prima si era recato in Ovada a piedi, come sempre, per la fiera di sant’Andrea, e ne era tornato con un fascio di lisca per impagliare. Quel fascio lo conservo ancora, dopo mezzo secolo, assieme ai suoi ferri da falegname, anche se ormai è quasi solo polvere.

Ecco, ero partito con l’intento di parlare di crisi delle utopie e ho finito invece per ricordare mio nonno. Ma c’è un nesso: in effetti, credo che le utopie potessero avere dimora solo in un mondo abitato da gente come lui, e che la loro crisi odierna sia dovuta alla coscienza che abbiamo di non poter più tornare indietro, e conoscere ancora quella condizione.

Non sto parlando naturalmente della condizione sociale. Il mondo in cui ha vissuto mio nonno era tutt’altro che un eden, ingiusto e duro ancor più di quello attuale. Non ho di queste nostalgie. Ne ho invece per uomini che possedevano un innato senso della dignità e del dovere, e lo conservavano a dispetto di quella realtà. Anche di loro ho già parlato, raccontando di anarchici, di viaggiatori, di eretici e di scienziati, o più semplicemente di “quasi adatti”. Ebbene, mio nonno, sia pure a modo suo, rientra nella categoria. Evidentemente quelli come lui sono sempre stati una minoranza, vessata e sfruttata, ma c’erano. Magari disponevano di poche conoscenze, ma quelle poche erano solide: e di ciò di cui non sapevano preferivano non parlare.

In questa minoranza Paulin figurava tra gli ultimi, tra quelli che almeno in apparenza non avevano mai avuto l’ardire o la forza di ribellarsi. In realtà, come Bartleby lo scrivano, opponeva una forma particolare di resistenza passiva. Aveva dovuto guadagnarsi il diritto di stare al mondo sin da bambino, con le sue braccia, un giorno dopo l’altro: lo avevano poi strappato a una magra affittanza e a una famiglia appena costruita per spedirlo a combattere sull’Isonzo, una carneficina lunga quattro anni, contro gente di cui sapeva nulla e per una patria che si era fatta viva solo al momento di mettergli in mano un fucile, promettendogli un pezzo di terra: ma al ritorno si era ritrovato con una manciata di medaglie di bronzo e la mezzadria affidata ad altri. La stessa promessa gli era stata fatta trent’anni dopo dai partigiani, e non era cambiato nulla. Arrivò a possedere un fazzoletto di terra solo a settant’anni, e solo perché glielo acquistò mio padre. E tuttavia non l’ho mai udito lamentarsi, recriminare, rivendicare qualcosa.

Ho capito dopo, quando ho provato a ricostruire la sua storia, senza che lui vi avesse mai fatto cenno, che il silenzio non era frutto della sordità, ma della dignità: si rendeva conto che tutti coloro che gli facevano promesse lo stavano semplicemente usando, e non avendo alcuno strumento culturale per difendersi aveva scelto di isolarsi, di evitare almeno di farsi prendere in giro. Ho ancora viva un’altra immagine: lui appoggiato ad un muro nella piazza del castello, con le cartine e la scatola del tabacco in mano, e dal lato opposto un comiziante, forse democristiano, tutto infervorato, che nell’assenza totale di altri uditori gli si rivolgeva direttamente. Mentre risalivamo verso casa gli chiesi un po’ maliziosamente di cosa parlasse quel tizio, e mi rispose nel suo dialetto secco: “Us vendeiva (Si vendeva)”. Aveva capito tutto senza udire niente.

Per questo mi è tornato subito in mente: perché malgrado io gli strumenti culturali bene o male li possegga (o forse proprio in ragione di questo), e ci senta ancora discretamente, sta crescendo in me una gran voglia di imitarlo. Arrivato all’età che mio nonno aveva quando ho cominciato davvero a conoscerlo, mi sento altrettanto a disagio. Credo di averne motivo. Vivo in un mondo nel quale tutto, dalla televisione allo sport, dalle reti “sociali” alla pubblicità, ha congiurato ad abbattere le mura che ancora cinquant’anni fa contenevano gli idioti, e questi dilagano e sono legioni, ed esibiscono un’arroganza spudorata, direttamente proporzionale all’ignoranza. È chiaro che su questa mia sensazione pesa anche la componente anagrafica, una naturale e giustificata intolleranza prodotta dall’età: ma non penso che tutto lo sconfortante spettacolo di miserie intellettuali e morali cui sono costretto ad assistere sia solo una fantasima generata dalla ipersensibilità senile. La trionfale ascesa di incompetenti che non si limitano più a parlare di calcio, il moltiplicarsi di “antagonisti” che non hanno la minima idea di cosa sia il dovere, nei confronti di se stessi e degli altri (e si riempiono quindi la bocca solo di malintesi diritti), l’esibizionismo becero dei reality e dei forum pomeridiani, sono purtroppo tutte realtà oggettive, un termometro agghiacciante dell’istupidimento di massa. E se fossero necessarie ulteriori conferme, è sufficiente fare una passeggiata e considerare lo stato dei bordi delle strade, dei luoghi pubblici, dei muri e dei monumenti. Badando anche, naturalmente, a non farsi falciare da un automobilista nervoso o ubriaco. Che utopie si possono ancora concepire, con un simile materiale umano?

(per saperlo dovete sorbirvi anche l’appendice. Ma potete anche non farlo)