L’epica paesana di Gian Piero Nani

di Carlo Prosperi, 23 marzo 2022

Vorrei premettere a questo scritto di Carlo Prosperi qualche riga di spiegazione. Non che siano necessarie delucidazioni sul testo, che più chiaro ed esauriente di così non potrebbe essere, come accade sempre per le cose scritte da Carlo: semplicemente volevo giustificare il fatto, effettivamente un po’ inusuale, che anziché proporre un’opera se ne proponga direttamente la recensione. Mi accorgo però che anche questa giustificazione non è necessaria, e leggendo il testo capirete il perché. Carlo si “giustifica” egregiamente da solo. Ogni riga aggiunta non potrebbe che essere di troppo. Mi limito allora a segnalare che il principale motivo per il quale questo scritto ha guadagnato tutta la mia attenzione è legato al modo in cui tratta il tema della “nostalgia”: ci sto girando attorno da un pezzo, alla solita maniera confusa, e credo che questo pezzo mi abbia finalmente dato il coraggio di affrontarlo a breve con un po’ di sistematicità. Spero che lo stesso effetto possa avere su qualche altro frequentatore o collaboratore del nostro sito: nel frattempo, affido queste pagine alla vostra riflessione e al vostro piacere.

Quanto all’opera cui il testo si riferisce, le poesie dialettali di Gian Piero Nani, certamente meritano di essere conosciute. Il fatto è che ne esiste una sola privatissima versione scritta, quella appunto curata da Carlo stesso e praticamente introvabile. Per gli appassionati, comunque, il titolo del libretto nel quale stono state raccolte, accanto ad altre poesie di Arturo Vercellino, è Maniman (Castello Bormida, 2012).

(Paolo Repetto)

In principio c’è la piccola patria, il villaggio: un mondo al di fuori del tempo o, meglio, immerso in un tempo ciclico che asseconda il ritmo naturale delle stagioni. La ripetizione, il ritorno dell’identico è la regola che lo governa e, come nella liturgia, i riti – sempre quelli – ne (di)segnano la scansione, con rassicurante cadenza. La civiltà contadina che fa da sfondo e ne è, in realtà, l’anima ha radici che affondano nella notte dei tempi. E sembra avere i connotati dell’eternità, la fissità di un mondo senza storia, dove le novità e le variazioni sembrano meri accidenti, arabeschi che ne corrugano a volte la superficie, ma non ne toccano e non ne intaccano l’immobilità di fondo. Siamo quindi ai margini della modernità, dove è la natura a dettare i tempi della vita – siano quelli del lavoro, siano quelli della festa – e dove è la tradizione a orientare la mentalità dei singoli e della comunità. La famiglia e, appunto, la comunità sono i due poli di riferimento che forgiano e assicurano l’identità dei “paesani”, dalla culla alla tomba. Sappiamo tutti che cosa significa far parte di una comunità: lo ha ricordato in maniera particolarmente incisiva Cesare Pavese: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

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Questo non vuol dire che la comunità sia un’isola, giacché essa è da sempre a contatto con altre comunità, non solo limitrofe, con le quali vige un continuo interscambio di merci, di idee, di persone (grazie soprattutto ai matrimoni), anche se questi rapporti non cancellano, ma se mai sottolineano le differenze (economiche, di carattere, di mentalità, di costume) e, anzi, talora attizzano rivalità e conflittualità di campanile. Le fiere annuali e i mercati settimanali sono le occasioni privilegiate per alimentare i traffici, non solo commerciali, tra i paesi: una variopinta umanità si dà convegno ora in questa ora in quella località, per lo più durante le sagre, e così un tocco di esotico scompiglia piacevolmente le carte della quotidianità, porta una ventata d’aria nuova, suscita un’inedita e curiosa animazione. Un’eccitazione febbrile trascorre per le vie e per le piazze del borgo, dove s’inseguono voci e richiami diversi dal solito, dove inconsuete cadenze dialettali s’intrecciano con quelle domestiche. La festa accende di colori e di suoni la stinta alacrità della vita ordinaria, ma è un’eccezione: il giorno dopo, chiusa la parentesi, la comunità ritorna ai suoi ritmi naturali, come se nulla fosse (stato).

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A questo punto va detto che il quadro or ora disegnato non esiste più. Almeno nella sua integrità. Tutt’al più ne (r)esistono qua e là radi scampoli o anemici residui. Del resto, il quadro stesso, se non si vuol ridurre a oleografia, va preso con beneficio d’inventario, nel senso che la vita comunitaria non è affatto così paradisiaca come a tutta prima potrebbe sembrare. Valori e livori vi coesistono, l’armonia apparente non deve dissimulare talune grettezze ed anche una diffusa conflittualità. La solidarietà che unisce il paese si spiega anche con la necessità di far fronte a scompensi, inconvenienti, problemi che rischiano di comprometterne l’ordine, la stabilità, talora anche la sussistenza. Insomma, l’idillio non ha ragion d’essere, anche se è indubbio che la vita comunitaria, radicata in uno spazio geografico circoscritto e in una solida tradizione, era più a misura d’uomo, più attenta a preservare le differenze, le specificità individuali, di quanto non lo sia la società urbana o di quanto consenta la globalizzazione. La prima, infatti, favorisce o incrementa l’alienazione, la seconda l’omologazione e la standardizzazione. I loro ritmi esistenziali sono “altri”, dettati dal tempo lineare, scanditi dall’orologio meccanico. Mille miglia lontani da quelli naturali della terra e delle stagioni.

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Questa lunga premessa è necessaria per capire la poesia di Gian Piero Nani, che è strettamente e diremmo visceralmente legata alla tradizione comunitaria, al mondo rusticano di Montechiaro – il suo paese – anch’esso travolto e stravolto, a dispetto delle apparenze, dai marosi della modernità e del progresso. Quel mondo è andato in gran parte sommerso, ma nei versi di Nani continua a vivere e sussistere come se fosse tuttora vegeto, come se il cordone ombelicale che ad esso lo congiunge non fosse mai stato rescisso. Non c’è nostalgia nei suoi versi, perché il trauma del distacco o della perdita non si è mai consumato. O almeno così sembra. Per questo il poeta, come un antico rapsodo, può permettersi di rappresentare la vita paesana nella sua imperturbata, inconcussa attualità, con sguardo fermo e oggettivo. Nessuna lacrima gli fa velo, nessun rimpianto lo tormenta. La rassegna è quasi distaccata: uomini e cose sfilano integri nella loro perfetta identità, scolpiti da nomi, soprannomi e parole come figure di bassorilievo, colti nella loro infungibile individualità. Il dettato è perentorio. Il poeta sembra davvero Adamo che dà il nome alle cose e, così facendo, le trae dall’indifferenziato, le carica di senso.

Si capisce che egli non parla da estraneo: la sua voce proviene dall’interno di quel mondo che va rappresentando. Ed anche il suo sguardo, per taluni aspetti, è connivente, allineato alla prospettiva dei personaggi, calato nella loro realtà. Se si concede qualche scarto, tra bonomia e ironia, non è mai eccessivo, perché in fondo vibra di compartecipazione, di simpatia. Si tratta, in altri termini, di uno sguardo al tempo stesso divertito e compiaciuto. Il poeta, mentre affabula, strizza l’occhio al suo pubblico, ne cerca la complicità, ma senza mai sovrapporsi, con falso moralismo, ai suoi personaggi, che, anzi, rispetta nella loro specificità, fino a riprodurne i tic, gli idiomatismi, la gestualità e finanche – se vi sono – le eccentricità. In qualche caso egli, con avvertita regressione, s’immedesima in loro, dà loro la parola, così da farne emergere, quasi teatralmente, senza interferenze autoriali, la personalità e la sensibilità. Scambi di battute, metafore equivoche, sottintesi maliziosi: il dialetto si dimostra in questi casi particolarmente versatile e malleabile, tanto da adattarsi senza esitazioni alle varie circostanze, ora alludendo ora ammiccando, dimostrando in ogni caso straordinarie capacità mimetiche e performative.

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È un’epica paesana quella che alla fine si squaderna sotto i nostri occhi. Come se, per qualche prodigioso incanto o sortilegio, il tempo si fosse fermato. Come se il mondo rappresentato non fosse stato scalfito dalla modernità, dissanguato dagli esodi e minato a morte dai cambiamenti epocali nel frattempo intervenuti. Vien da chiedersi come sia possibile tutto ciò. La risposta che sorge spontanea è che Nani ha saputo serbare e salvaguardare lo sguardo ammirato del puer ed è probabilmente guardando dentro di sé che riesce pertanto a rimettere in moto il film del suo piccolo mondo antico. Egli in questo è rimasto un uomo d’altri tempi, fedele alla terra, alle radici: legato più alla natura che alla storia, la quale magari non sarà “la devastante ruspa che si dice” (Montale), ma intanto fa danni. Né “la fine della storia” preannunciata da Fukuyama sembra, in questo senso, promettere di meglio. Tra le poesie di Nani ce n’è una – Da là da ’na piànca – che ci sembra particolarmente significativa, non solo perché la riteniamo un piccolo capolavoro, sì anche perché costituisce una specie di “carta d’identità” del poeta, che in essa ci rivela alcuni “segreti del mestiere”, consentendoci così di meglio comprenderne e definirne la poetica. Ebbene, qui Nani ci presenta la cascéin-na dove è nato e dove ha trascorso la sua infanzia a contatto con la natura. È indubbiamente l’occhio meravigliato del fanciullo (della masnò) a travisare la realtà di quella cascina in quella di un castello (in casté). L’epos nasce, non troppo diversamente, da un’analoga alterazione della realtà: da una meraviglia che ingrandisce e abbellisce le cose, trasferendole in una dimensione mitica. Ma fatalmente viene poi il momento del disincanto, ed è un vero e proprio risveglio. Per il poeta questo momento coincide con la fine dell’infanzia, quando l’innata e istintiva spontaneità cede il posto alle convenzioni sociali. Quando dalla natura si passa alla società, con i suoi obblighi, i suoi vincoli e i suoi divieti. La libertà viene così ingessata. E dal mito si trapassa alla storia.

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Paradossalmente, però, comincia a questo punto il tempo della poesia. E nasce proprio dallo sguardo e dal cuore di quel fanciullo che, nonostante le escoriazioni della storia e le costrizioni della società, è in qualche modo sopravvissuto a se stesso ed ha saputo mantenerli vivi e reattivi. Non esistono paradisi che non siano perduti, ma il poeta-puer, con la sua vis immaginativa e con l’icastica potenza del suo linguaggio nutrito di umori naturali, impastato di terra e di sangue, riesce ad evocarli, a renderli accessibili e credibili. Riesce, in altre parole, ad attingerli al di là della storia e delle sue nefande dissacrazioni. E a riproporceli tali e quali. D’altra parte, nelle liriche più soggettive, dove il poeta dà voce ai propri sentimenti, si avverte che davvero l’antico fanciullo innamorato (alla lettera) della natura non è mai morto del tutto in lui, ed anzi torna all’abbraccio fidente e sensuale della terra con rinnovato trasporto. Fino ad annullarsi in lei, nel suo intatto stupore. Il sogno è, insomma, quello di regredire al grembo materno e di ritrovare, là accovacciato in posizione fetale, l’armonia perduta.

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Il salto dalla beata (e dotta) ignoranza dell’età infantile alla (triste) cultura della scuola, dalla libertà naturale ai condizionamenti sociali, ricorda per certi versi il passaggio dall’oralità alla scrittura. Già Platone nel Fedro disapprovava la scrittura per tutta una serie di ragioni: perché pretende di ricreare fuori della mente quello che solo all’interno di questa può esistere; perché finisce per distruggere la memoria; perché infine i testi scritti non sanno rispondere alle domande che essi suscitano o sollecitano. Diverso è il caso di Nani: la sua poesia nasce per essere recitata e per questo ama interpellare direttamente un pubblico di uditori. Il poeta sa cioè adeguarsi alle situazioni, adattare di volta in volta, in maniera estemporanea, i suoi testi alle esigenze o alle aspettative degli ascoltatori, improvvisando sul momento variazioni o aggiunte ad hoc. Il contesto ambientale assume in tal modo – come ha ben rilevato l’antropologo Walter J. Ong – un’importanza singolare nel determinare il senso del discorso, proprio mentre l’accorto dosaggio della mimica e della gestualità, per non parlare del tono o dell’inflessione della voce (decisivi ai fini di quello che don Gonella di Villadeati – riconosciuto maestro del nostro – chiamava “il gheddu”, cioè il brio e la forza icastica dell’espressione), consentono al récit orale scorciatoie o forme di sintesi inimmaginabili in uno scritto. L’immediatezza dell’oralità, tutta concentrata sull’hic et nunc, ha che fare con il tempo reale, continuo e ininterrotto, laddove la scrittura, spazializzando il tempo, ne elude la puntualità e la processualità, e proprio per questo può permettersi, attraverso l’ipotassi, d’imprimere una maggiore organizzazione al discorso. L’oralità, mettendo al centro l’azione umana, è più spedita e più pragmatica. La paratassi le è quindi più congeniale.

Tra l’altro un poeta eminentemente orale come Nani è anche un attore e, nel recitare le sue composizioni, può far sentire la forza dirompente del ritmo e della rima, che con estrema varietà ne guidano e ne governano il discorso. I suoi versi non assecondano alcuna apparente regolarità metrica, ma le rime disseminate qua e là con grande disinvoltura disegnano dei percorsi imprevedibili, fungono da stelle polari o – come nel caso delle briciole di Pollicino – tracciano d’istinto dei sentieri che basta seguire per arrivare allo scopo. E non a caso abbiamo ricordato Pollicino, poiché è indubbio che il modello privilegiato dal poeta è quello delle filastrocche infantili, delle tiritere o delle folette (listórie) popolari, con le loro “cantilene dondolanti” e i loro “ritmi bilanciati” (Marcel Jousse). Anche per Nani – come per Jousse – il linguaggio è anzitutto mimaggio ed è indubbio che nella trascrizione delle sue liriche molto vada perduto, a cominciare dalla spontaneità, ma se non altro la scrittura permette di conservare la parola nel tempo, mentre “i suoni, la voce fatta d’aria che li articola, sono effimeri” (E. Lledò). Si tratta quindi di un sacrificio, ma è un sacrificio necessario.

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Essere obiettivo

di Fabrizio Rinaldi, 30 aprile 2018

In fotografia la creazione è un breve istante, un tiro, una risposta, quella di portare l’apparecchio lungo la linea di mira dell’occhio, catturare quello che ci aveva sorpresi nella piccola scatola a buon mercato afferrandolo al volo, senza artifici e senza sbavature. Si fa della pittura ogni volta che si prende una fotografia.
HENRI CARTIER-BRESSON, L’immaginario dal vero, Abscondita 2005

Il racconto nell’album fotografico

C’era sempre una presenza discreta nelle gite, nelle feste e nelle ricorrenze: una macchina fotografica al collo di mio padre. Negli anni Settanta lo ricordo sempre con quella reflex mentre scattava foto ai familiari.
Autodidatta, come me, aveva una vera passione per quella piccola scatoletta: inquadrava, scattava e portava a svilupparne il rullino dal fotografo. …

Fotografia e utopia (di Paolo Repetto)

Il pezzo di Fabrizio sulla fotografia ha casualmente incrociato lungo il mio percorso di letture un breve saggio di Pietro Bellasi comparso trentacinque anni fa su Prometeo (rivista che ancora esiste, o almeno esisteva sino ad un paio d’anni fa) …

La fotografia immemore

Dobbiamo muoverci e pensare ad una velocità sempre maggiore: questo ci chiedono i ritmi imposti dalla modernità. In realtà la nostra mente non è evolutivamente preparata alla brusca accelerazione impressa negli ultimi cento anni, pochissimi se paragonati all’intero arco della storia antropica …

Che i digitali diventino analogici

I bambini ospitati a turni settimanali nella struttura educativa dove lavoro vivono un altro modo di fare scuola. Sperimentano attività e fanno esperienze (le escursioni naturalistiche, ad esempio) che non sono previste nel contesto scolastico abituale …

Riconosciute assenze

L’applicazione della tecnologia digitale alle macchine fotografiche e l’uso diffuso di software di fotoritocco hanno semplificato il gesto del fotografare fino a generare una polluzione incontrollata di immagini, per lo più ordinarie, che ci sorbiamo nostro malgrado e che rispondono a un artificioso bisogno indotto dalla modernità: quello della “spettacolarizzazione di sé” e della condivisione in rete della propria squallida quotidianità…

Il racconto nell’album fotografico

di Fabrizio Rinaldi, 19 gennaio 2018

C’era sempre una presenza discreta nelle gite, nelle feste e nelle ricorrenze: una macchina fotografica al collo di mio padre. Negli anni Settanta lo ricordo sempre con quella reflex mentre scattava foto ai familiari.

Autodidatta, come me, aveva una vera passione per quella piccola scatoletta: inquadrava, scattava e portava a svilupparne il rullino dal fotografo. L’occasione diventava ancor più piacevole in quanto poteva imparare qualche trucco in più da un ex collega che, dopo un passato in fabbrica, si era improvvisato a stampare foto.

Gli scatti erano vincolati dal numero di foto che un rullino poteva contenere: prima 12, poi 24 ed infine 36. Era un numero finito, e ogni operazione costava, sia in termini di tempo, dalla carica della macchina all’attesa della stampa, sia economicamente: quindi si usava lo strumento con parsimonia. Di un evento (come ad esempio una comunione) si portava a sviluppare al massimo un rullino, 36 foto.

Il ritiro del materiale sviluppato avveniva giorni dopo. Nel frattempo si vivevano altre esperienze, che smorzavano gli entusiasmi dell’attimo dello scatto. La valutazione delle immagini era di conseguenza più fredda, meno viziata da sentimentalismi, a volte addirittura caustica. A casa si procedeva poi alla selezione delle immagini migliori (o di quelle meno peggio), alla datazione e la sistemazione negli album fotografici.

Quegli album, prima dell’era digitale, hanno narrato lo scorrere degli anni della mia famiglia: una storia semplice, senza fronzoli e senza traumi particolari, sicuramente concreta; insomma, come molte altre.

Il piacere – anche tattile – che c’è nello sfogliare quei raccoglitori con foto che ingialliscono non lo si ritrova quando si fanno scorrere le immagini su uno schermo, dove si riconoscono solo volti invecchiati.

Si fissavano in quelle pagine degli istanti, magari non essenziali (battesimi, compleanni, gite, matrimoni, momenti sereni insomma): ma almeno quelli erano fermati in una modalità materiale e non su un supporto aleatorio come può essere una cartella informatica. Quelle immagini concrete raccontavano storie personali e intime, il cui senso era ristretto alla cerchia familiare. Non ne avrebbero avuto alcuno se fossero diventate di pubblico dominio.

Sedersi sul divano, o attorno ad un tavolo, a guardare e riguardare le foto di noi bambini, dei genitori giovani o delle gite al fiume e al mare, e rievocare aneddoti e personaggi, era un vero e proprio rito, esclusivamente familiare. Si evitava di tirare fuori gli album quando c’erano ospiti, per non incorrere nell’imbarazzo di vedere volti annoiati di persone per le quali quelle immagini non significavano nulla. A casa mia non vi sarebbe accaduto di imbattervi in quei “protagonisti dell’assoluto” che propinano le loro raccolte di foto, adeguandole via via alle diverse modalità, prima l’album cartaceo, poi la sequenza di diapositive, oggi la visualizzazione virtuale. Non avreste desiderato cominciare a starnutire violentemente per indurre il torturatore a richiudere terrorizzato gli album. Non avreste visto nemmeno le copertine.

Mio padre continua ancora oggi a scattare, utilizzando una scatoletta digitale, con la stessa passione di un tempo nell’immortalare le gite con mamma, nel fissare i paesaggi e ciò che lo emoziona – magari le nipoti –; quello che non fa più è mandare in stampa le foto e sistemarle negli album. Come lui, tutti noi rimandiamo la stampa e l’organizzazione delle immagini a quando avremo tempo, cioè a mai più, salvando gli scatti fatti in cartelle digitali, sul computer o sul cellulare, e scordandocene fino a che finiranno per essere cancellati o per diventare illeggibili.

Ma cosa va messo in un album?

L’archetipo del fotografare è congelare l’istante intrinsecamente connesso all’epoca in cui l’immagine è stata fatta, quindi nel soggetto fotografato è riconoscibile anche lo scorrere del tempo stesso.

Susan Sontag in Sotto il segno di Saturno scriveva: “ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della mutabilità e della vulnerabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo”.

Stampare una fotografia significa darle un futuro che prescinderà da altri supporti tecnologici: quando è stampata la foto rimane, e salvo eventi catastrofici (incendi, alluvioni, eredi indifferenti, ecc …) si conserva per parecchio. Solo così i pronipoti potranno sapere che volti avevano i loro avi.

Personalmente, grazie a scatole da scarpe piene di vecchie fotografie dei nonni, sono riuscito ad associare ai nomi i volti dei membri della mia famiglia, a partire dalla fine dell’Ottocento. La cosa non interesserà il popolo digitale: infatti non mi sogno minimamente di condividere quegli scatti (tranne quelli che corredano questo articolo), se non con parenti stretti. Interessa invece a me, come semplice ricerca personale. Non credo che la stessa cosa sarebbe possibile ai miei pronipoti, se le foto che scatto venissero conservate solo in formato digitale. Vi sarà già capitato di ritrovare immagini in “pcx”, un formato che già oggi è praticamente illeggibile, oppure di ingrandire fotografie scattate alcuni anni fa che risultano sgranate e non stampabili. Per questo non me la sento di affidare gli scatti a me più cari al “cloud”, a chiavette o a dischi rigidi, rischiando di perdere intere generazioni di foto.

In Blade Runner (quello del 1982) i replicanti avevano ricordi di altri fissati in fotografie. Conservavano quei supporti fisici come simulacri, perché rappresentavano il legame con un passato, con una storia personale che, anche se non era la loro, dava in qualche modo un valore alla loro stessa esistenza: la coscienza di sé passa attraverso un processo di osservazione dell’altro.

Oggi le nostre piccole storie non sono quasi mai documentate fisicamente, ma solo digitalmente, con algoritmi che tra qualche anno non saranno più interpretabili. Come i replicanti, anche noi saremo senza una storia e senza un passato. Faremo nostre le fotografie e le storie di altri?

La mia non è nostalgia per un retaggio del passato, ma la constatazione che stiamo affidando la memoria visiva a macchine che invecchiano più velocemente del prodotto che creano.  Se l’intento è l’oblio, siamo sulla buona strada, ma se volessimo preservare almeno una parte dei ricordi, sarà necessario dar loro una concretezza fisica. Il software non basta, è necessario l’hardware.

Quando la foto racconta?

La fotografia ha sempre due protagonisti, non uno: c’è il soggetto fotografato, che sia un volto, un paesaggio o un oggetto, e c’è chi sta dietro la macchina fotografica, e vuol dare all’immagine un senso e spera che quel senso rimanga impresso nel risultato finale.

Per prima cosa quindi chi fotografa deve scegliere di “vedere”: decidere cioè cosa inquadrare nell’obiettivo. Deve individuare un soggetto e scegliere da quale angolazione, in quale prospettiva coglierlo. Può farlo sulla scorta di un progetto, di un’idea che ha in mente, oppure l’idea può essergli suggerita direttamente da qualcosa che attrae il suo occhio e la sua attenzione. Così facendo già ha in mente, sia pure a volte in maniera confusa, cosa e come vuole fotografare. Questa consapevolezza è in genere ciò che fa la differenza fra uno scatto insignificante ed uno che resta nel tempo. Tutto lì.

A volte però il progetto nasce a posteriori, a cose già fatte, davanti a foto che accostate sembrano suggerire un percorso. In questo caso a valere è la capacità di cogliere la suggestione evocata da certe immagini: questa rappresenta lo spartiacque tra il mettere assieme una mera accozzaglia di scatti – per lo più selfie narcisisti – e il raccontare una piccola storia.

Il risultato “tecnico” della foto può dare certamente soddisfazione, ma ai fini della “narrazione” a volte è poco rilevante. Una fotografia è riconosciuta come “artistica” non per la perfezione degli aspetti formali, ma in relazione alla sua attualità sociale: non conosco esempi di foto che, per quanto belle, siano state avvalorate come “opere d’arte” anni dopo la loro realizzazione. Forse c’è solo il caso di Vivian Maier, ma credo ci sia dietro una grossa operazione di mercato. È difficile che possa accadere ciò che è invece avvenuto per molti pittori, come Van Gogh, che sono entrati nel pantheon degli artisti riconosciuti solamente anni dopo l’effettiva realizzazione dei quadri, addirittura dopo la morte. La fotografia è forse l’unica espressione artistica strettamente connessa al momento dello scatto, alla realtà che documenta e alle attrezzature per realizzarla.

Il supporto digitale ci sta però disabituando alla fatica di attribuire senso alle cose, nello specifico alle foto che realizziamo. Non siamo più abituati ad attendere, o creare, l’occasione per lo scatto; stiamo perdendo la capacità di scegliere tra le centinaia di scatti quelli davvero significativi da mandare in stampa.

Questo perché in una frazione di secondo possiamo scattare una raffica di foto. Ho usato il termine “raffica”, ed è ciò che facciamo: spariamo fotografie non con un archibugio ad avancarica (quindi facendo attenzione a non sprecare colpi) come faceva mio padre con la sua macchina analogica, ma con un revolver automatico, senza riflettere su ciò che inquadriamo. Fatta una foto, o meglio una serie, si passa a quelle successive, senza soffermarci su quale senso abbiamo dato alle immagini scattate.

È opportuno interrogarci anche sul tipo di immagini che immagazziniamo come ricordi della nostra vita. Siamo nell’epoca del sorriso: se inquadrati da un congegno fotografico (reflex, smarthphone o altro), tutti sorridono, scordando che quel ghigno quasi mai autentico è destinato a rimanere così congelato per l’eternità. La modernità è destinata a essere ricordata sempre sorridente? I greci e i romani avranno riso pure loro, ma le testimonianze iconiche che sono arrivate fino a noi, per lo più, non li rappresentano così. Ve li immaginate i bronzi di Riace immortalati mentre sorridenti si fanno un selfie?

Quale condivisione è sincera?

Sembra che ogni evento, o l’esistenza stessa, siano accreditati come reali solamente quando risultano fissati in immagini o in parole scritte, e questa raffigurazione deve essere anche condivisa con altri, altrimenti semplicemente il fatto non avviene o la persona non esiste. Per confermare una circostanza è imprescindibile comunicarla, anche se ai destinanti non dovrebbe importare molto di un fenomeno strettamente personale quali sono, nella fattispecie, le fotografie familiari.

Invece sono in moltissimi coloro che pubblicano su Facebook o altri social le foto di feste di compleanno, le pietanze che stanno per essere divorate, i volti dei figli o i musi di cani e gatti. In realtà non “raccontano” nulla, ma anche quel nulla ha da essere avvalorato attraverso la visione, l’approvazione e la condivisione di persone che stanno per lo più al di fuori della cerchia familiare. L’immagine deve ricevere dei “like” per soddisfare il nostro bisogno di lasciar traccia, al di là del senso che ha: non importa ciò che dico e sono, solo che per un attimo si sappia che esisto.

L’etimologia della parola “condividere” indica una propensione a “spartire, dividere insieme con altri” un bene proprio. E allora quella parola va cancellata dal dizionario del web. Quali “beni” si condividono, quando si documenta ogni stupidaggine? E qual è il confine di “altri”: la famiglia, gli amici, la popolazione terrestre? L’opportunità di far visionare immagini private a perfetti sconosciuti è addirittura un controsenso, quando non si traduce in un rischio. Non può essere una soluzione sperare che la sovrabbondanza di immagini crei alla lunga assuefazione, disinteresse o addirittura rigetto. È opportuno chiederci per tempo se è davvero questo che vogliamo.

Condividere significa anche dividere: ma cosa si fraziona con gli altri, che cosa sottraiamo a noi stessi? Susan Sontag scriveva in Sulla fotografia: “Una società capitalistica esige una cultura basata sulle immagini. Ha bisogno di fornire quantità enormi di svago per stimolare gli acquisti e anestetizzare le ferite di classe, di razza e di sesso. E ha bisogno di raccogliere quantità illimitate d’informazioni, per meglio sfruttare le risorse naturali, aumentare la produttività, mantenere l’ordine, fare la guerra e dar lavoro ai burocrati”. Ciò che condividiamo sono la nostra personalissima vita privata, i ricordi più intimi e le nostre convinzioni sociali e politiche. In pratica: siamo merce in mano a sciacalli.

Possibile che a nessuno venga da starnutire, nel vedere l’ennesima foto di un bambino sorridente?

Collezione di licheni bottone

Introduzione a “Fenomenologia”

di Paolo Repetto, 2016

La Fenomenologia dello spirito lermese raccoglie piccoli tasselli di quella ininterrotta storia di me che ho cominciato a scrivere già sessant’anni fa, nei primi componimenti delle elementari. Considerazioni, racconti, aneddoti, ritratti di amici vivi o scomparsi, prendono lo spunto da vicende e persone reali, ma tendono sempre a trasfigurarsi, nella luce ovattata del ricordo, in immagini cinematografiche. È la vita che ho vissuto, raccontata probabilmente come avrei voluto viverla.

Questa seconda edizione, che arriva a quasi vent’anni dalla prima, appare molto rimaneggiata rispetto alla precedente: sono stati inclusi pezzi di recente composizione e ne sono stati esclusi altri, migrati nel frattempo in raccolte diverse. Spero solo che in questi due decenni non sia mutato troppo lo spirito che motivava la scrittura, e che l’assieme non faccia a pugni.

 

Mal di terra

di Gianni Repetto, da Sottotiro review n. 7, settembre 1997

Una pergola folta, che fa una bella frescura. Il tavolo di un’osteria. Due uomini seduti davanti a un fiasco di vino. Uno biondo, slavato, con una camicia di flanella appoggiata sulle spalle e la canottiera. L’altro piccolo, nero, con un giacchetto di velluto abbottonato fino al collo. Due sguardi persi nel vuoto.

– T’è capìu ? – dice il biondo all’improvviso con un leggero mugolio di sottofondo.

L’altro lo guarda un istante, un solo istante. – Eeeh ! – risponde scuotendo la testa lentamente. Poi è di nuovo silenzio.

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Qui non arriva il rumore del mare, manco l’odore. Poi, da quando hanno costruito quei condomini là sotto, non si riesce neanche più a vederlo. Ma tanto, per quello che c’abbiamo a che fare noi con il mare…A volte passano anche dei mesi senza che lo vediamo. E dire che in linea d’aria ci saranno sì e no cinquecento metri…Quando eravamo bambini era tutto diverso perché, a parte che certi giorni si vedeva come se fosse proprio qui sotto, ci andavamo sempre a pescare e alla stagione buona ci facevamo anche il bagno. Poi hanno cominciato ad arrivare i villeggianti e allora per qualcuno è andata bene, ci ha fatto fortuna. Ma il paese non è stato più lo stesso, anzi, non è neanche più un paese. Una volta era un piacere andare giù sul lungomare, ci si conosceva tutti e si discorreva di questo e di quello. Ora invece sono tutti foresti e se non stai attento va a finire che ti mettono sotto con le macchine da quante ce ne sono. Io è tanto che non ci vado, ma mi ricordo che, l’ultima volta che ci sono stato con i miei cugini del Piemonte che non l’avevano mai visto, abbiamo dovuto scappare subito perché dopo cinque minuti ci girava già la testa…Per fortuna il lavoro io ce l’ho qui vicino, e così non ho dovuto neanche comprarla la macchina, ché, a dire la verità, c’avrei paura a portarla giù in quella confusione. I miei amici che ce l’hanno insistono perché vada con loro, ma io non ci monto, aah, non ci monto. Loro mi dicono: – Ma allora che cosa ne sai del mondo? –. E io rispondo che mi va bene così e che se il mondo è quello posso anche farne a meno…

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Non c’è aria stasera, non muove foglia. Un alone di sudore bagna le ascelle.

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Un tempo qui ci si fermavano i carri, perché era un po’ come un punto di ritrovo per i carradori che andavano dalla Liguria al Piemonte. Questa strada porta nella valle di Ceva e dicono che è una delle più antiche, almeno, così dicono. Ma non l’hanno mai curata, non si sa perché, così pian piano non c’è più passato nessuno. Poi, da quando hanno fatto l’autostrada, l’hanno proprio lasciata andare e per un bel pezzo su in alto è franata che bisogna marciarci uno alla volta. Ma di qui intanto non ci passa più nessuno e se capita che qualcuno ci arrivi è solo per sbaglio. Capita magari agli stranieri, che non sanno leggere i cartelli e allora si fermano a chiedere dov’è che li porta. Per lo più rigirano subito, ma qualcuno ogni tanto viene a sedersi qui, sotto la pergola, e ordina pane e salame e un fiasco di vino. Certo che loro non c’hanno proprio riguardo per nessuno: ne scendono diversi che c’hanno appena le braghette indosso e alle donne gli si vede tutto. Noi ci guardiamo e ci monta il nervoso, perché in fin dei conti siamo uomini anche noi e cose del genere non le abbiamo viste neanche al casino. Ma già che son tempi…Una volta sono arrivati dei tedeschi, saranno stati una ventina, e hanno cominciato a bere in modo esagerato. Dopo neanche mezz’ora ci sarà stata almeno una dozzina di fiaschi sui tavolini e quelli continuavano a ordinarne. Poi, tutt’assieme, hanno cominciato a bisticciare e allora è successo il quarantotto: hanno spaccato sedie e tavolini e Angiolina ha dovuto chiamare i carabinieri per mandarli via… Ora, io mi domando se è mai possibile che quella gente lì venga qui in Italia a fare i suoi comodi, se non gli è bastato che cosa c’hanno fatto durante la guerra, quando ci bruciavano le case e c’ammazzavano come cani. E allora, ogni volta che ne vedo uno, mi prende un brivido giù per la schiena e avrei tanta voglia di saltargli addosso…

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I gomiti appoggiati sul tavolo, le mani grosse. Con uno schiocco di lingua sugge il liquido nero.

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C’è sempre stata rivalità tra noi qui di Pian dei Z. e quelli giù di V. . Fino a qualche anno fa loro non ci mettevano piede qui, ché lo sapevano che tirava una brutta aria. E anche noi, se volevamo andare giù al mare, ci andavamo in un bel gruppo casomai ci fosse il bisogno di difendersi. Mi ricordo una volta che ero andato a farmi i capelli, eravamo io e Driin, uno che poi è andato a star via. Stavamo camminando per il corso quando abbiamo incontrato cinque ragazzi della N., una frazione vicino alla foce del L., e abbiamo capito subito che volevano attaccare briga. Allora siamo scappati su per i carrugi con quelli dietro che cercavano di acchiapparci. Driin era forte, spaccava pietre tutto il giorno nella cava. Ad un certo punto s’è fermato ed ha cominciato a far andare le braccia che sembrava un mulinello. Due di loro sono finiti lunghi per terra e allora gli altri sono scappati via spaventati. Noi non stavamo più nella pelle e c’abbiamo riso fino su a casa e quando l’abbiamo raccontata qui all’osteria ci sono venuti tutti in giro a sentirla… Ora invece è tutto diverso: la gente non si riconosce più e ce ne sono tanti di V. che sono venuti ad abitare qui da noi. Ma fanno vita a parte e stanno tra di loro, che quasi neanche riusciamo a vederli. Qualcuno ci si è fatto anche la villa, e magari la piscina, e non c’ha nemmeno più bisogno di andare giù al mare per bagnarsi. Ed è come se fosse un paese nel paese, che cresce sempre di più e mangia quello di prima, e noi pian piano non siamo neanche più padroni a casa nostra…

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Braccia forti, legnose, così scavate da contarci i nervi. Ogni tanto i muscoli tradiscono una contrazione.

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Qui sono appena due anni che hanno messo la televisione, se no prima era davvero tutto come una volta. Giocavamo a carte, d’estate anche alle bocce, e si discorreva tanto che era un piacere. Parlavamo di tutto, sì, anche di donne, ma in un modo che era sano e naturale. Chi c’aveva la fidanzata le portava rispetto e gli altri, se proprio ne sentivano il bisogno, c’era una di qui che faceva il mestiere e con poche lire ti dava soddisfazione. Ma da quando hanno messo quella brutta bestia lì la compagnia s’è sfatta ed è diventato difficile anche trovare un compagno per fare una partita alle carte. E poi bisogna stare zitti, non si può neanche più rattellare, ché se no si disturba chi vuole sentire. Se poi c’è quelli che giocano al fulba, allora è come se passasse la processione con il santissimo e c’è quasi da tenere il fiato. Ma io non la sopporto, e appena l’accendono vengo a sedermi qui fuori anche d’inverno. Almeno mi pare che sia ancora tutto come una volta e se non c’è nessuno per parlare mi faccio venire in mente i tempi quando stavamo a sentire i vecchi che raccontavano le fore. Ce n’erano certi che le raccontavano così bene che veniva gente anche dai paesi vicini per sentirle. Allora, quando uno tornava a casa sua, c’aveva la testa piena di fantasie e, anche se la vita era dura, stava bene per il resto della settimana…

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Capelli lunghi sul collo, un po’ unti. Il pettine bagnato lascia solchi lucenti.

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A me il mondo d’oggi mi pare tutto cambiato e che abbia perso il cervello. Senti dire di malattie che prima non c’erano e la delinquenza pare che comandi anche su chi governa. Una volta era diverso e chi era un delinquente, ma ce n’erano pochi, lo conoscevano tutti e veniva quasi scartato dagli altri. E poi le cose si facevano con calma, con il tempo dovuto, e nessuno pensava che si potesse fare diversamente. Oggi invece uno non le ha neanche iniziate che vorrebbe già averle finite e magari farne delle altre e poi delle altre ancora. Ma così è impossibile farle bene e c’è sempre il rischio di sbagliare. Io credo che sia dovuto tutto ai soldi, al fatto che la gente oggi pensa solo a guadagnare e più ne ha più ne vuole. Che cosa se ne fa io non riesco proprio a capirlo perché quando uno ce n’ha abbastanza per mangiare e per vestirsi da cristiano mi pare che dovrebbero bastargli. Sento parlare di gente che ha i miliardi nelle banche e io mi chiedo se per loro la pastasciutta è più condita e il vino più gustoso. Perché una volta che uno s’è mangiato una bella pastasciutta e c’ha bevuto sopra due o tre bicchieri di quello buono che cosa vuole di più dalla vita? Ma già, forse io sono un po’ troppo all’antica.

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Gli occhi brillano, persi in chissà quali pensieri. O forse è soltanto l’effetto del vino. Il dorso di una mano struscia sui baffi, uno sputo. Sulla terra battuta fa presto a rapprendersi.

– T’è capìu ? – ripete il biondo all’improvviso con un leggero mugolìo di sottofondo.

L’altro lo guarda esattamente come prima, un solo istante.

– Eeeh ! – risponde scuotendo la testa lentamente. Poi è di nuovo silenzio.