Il mondo nelle mani degli stolti

di Paolo Repetto, 30 giugno 2017

Conversazione tenuta presso il CUP (Centro Universitario del Ponente), nell’aprile 2017, nell’ambito del corso di Storia delle Idee

Il mondo purtroppo è in mano agli stolti.
(Talmud)

Il mondo nelle mani degli stolti copertina“Il mondo è nelle mani degli imbecilli. Ce ne siamo accorti, ma non c’è ragione di allarmarsi”. È scritto nella quarta di copertina di un libro di Pino Aprile, “Elogio dell’imbecille”, e mi lascia un po’ interdetto, perché io penso invece che il fatto sia allarmante. Compro comunque il libro, anche se mi disturba il dubbio che lo scopo dell’autore non fosse solo quello di vendere, ma di dimostrare in questo modo la fondatezza della sua tesi.

Invece non è così. Il libro mi intriga e, compatibilmente con i contenuti, mi diverte. L’occhiello di copertina trae spunto probabilmente da una massima del Talmud, non citata da Aprile, che suona però diversamente, perché al centro ha un “purtroppo” (gli ebrei si allarmavano eccome – e col senno di poi dobbiamo ammettere che ne avevano motivo). La rassicurazione nasce invece da un ragionamento bizzarro ma non privo di una sua logica, che mi ha spinto a scendere un po’ più in profondità nell’argomento.

In realtà ci pensavo da un pezzo, ma ero sempre stato frenato dal sospetto che un primo sintomo di imbecillità, o quantomeno di arroganza, ciò che non fa molta differenza, potrebbe essere proprio il mettersi a parlare degli imbecilli. E poi, mi dicevo, uno che fuma da cinquantacinque anni, che diritto ha di discettare della stupidità altrui?

Perché è chiaro che di quella si va a parlare. A dispetto di ogni professione di tolleranza e di disponibilità al dialogo, sotto sotto ciascuno considera un imbecille chi non la pensa come lui. Non ci capacitiamo del fatto che altri non arrivino a comprendere ciò che a noi appare addirittura ovvio. Io almeno in questo un po’ mi distinguo, perché considero degli imbecilli anche molti che la pensano come me. Certe consonanze mi danno più fastidio delle dissonanze, quando non le ritengo ben fondate: mi fanno dubitare di ciò in cui credo, senza offrirmi l’opportunità di rafforzarlo attraverso il confronto o indicarmi delle alternative.

Il fatto è che la stupidità ci fa paura. Più della follia. Più ancora della malvagità. Perché è più subdola, bassa e avvilente, i suoi confini sono incerti, e temiamo ci tocchi da vicino. Robert Musil nel Discorso sulla stupidità dice che molti non l’affrontano per paura di essere confusi con l’argomento.

È vero. Abbiamo paura della stupidità altrui e più ancora della nostra. Nessuno vuole essere stupido. O meglio, nessuno vuole sembrarlo (perché lo stupido ha dalla sua che non sa di esserlo, e quindi non si pone il problema). Ci può essere grandezza anche nel male, ma non nella stupidità.

E con questo ho messo le mani avanti. Ciò che andrò a dire è frutto di una consapevole e forse colpevole presunzione: ma nasce anche da un senso di responsabilità. Non si può aver sempre paura di contaminarsi ed evitare di mettere il dito sulla piaga. Qualcuno deve sacrificarsi. Tutto sommato, lo faccio volentieri.

Torno dunque all’incipit. “Il mondo è nelle mani degli imbecilli.” Direi che è difficile non essere d’accordo. Ma le cose stanno davvero così, o siamo tratti in inganno da un’accresciuta visibilità della categoria? E se fosse vero, è sempre andata in questo modo (come attesterebbe la citazione dal Talmud) o si tratta di un fenomeno recente?

Proprio perché scivoloso il tema va affrontato seriamente (mi riferisco al metodo, non al tono), e dal momento che condizione preliminare della serietà di ogni discorso è la chiarezza lessicale (tanto più in questo caso, visto che l’istupidimento collettivo passa in primo luogo proprio per la perdita di senso del linguaggio) sarà opportuno aver chiaro innanzitutto il significato da attribuire ad alcune parole chiave.

Per definire una persona, ma anche un ragionamento o un gesto che ci paiono del tutto insensati e/o nocivi, usiamo in genere indifferentemente vari termini: scemo, cretino, stupido, idiota, imbecille, deficiente. Se siamo un po’ più raffinati sciocco o stolto; se raffinati ma molto arrabbiati mentecatto o ebete. Per adeguarci al politicamente corretto, o se semplicemente siamo ammiratori del governatore De Luca, possiamo usare “nullatenente neuronale” o “indigente cerebrale”. Se invece siamo decisamente grezzi e ci omologhiamo alla deriva linguistica finiamo per scadere nella coprolalia, che conosce però una gamma di applicazioni ormai talmente indifferenziata e gratuita da non significare più nulla.

I francesi hanno l’equivalente di ognuno di questi vocaboli, più uno che li riassume efficacemente in blocco: la bêtise. Tutti esprimono lo stesso concetto spregiativo, ma in realtà hanno storie e valenze originarie diverse. Su alcuni si fonda una copiosa letteratura medica, altri hanno dato origine ad interessanti controversie filosofiche. Per questo dicevo che in un discorso con pretese “scientifiche” sarebbe opportuno badare ad un uso il più possibile differenziato e appropriato dei termini. Non è però il nostro caso. Mi limiterò a una breve ricognizione preliminare di quelli più comuni, dopodiché tornerò tranquillamente ad usare come sinonimi i vari epiteti che designano una condizione di stupidità, perché comunque il risultato è lo stesso. Tuttavia, anche esplorare le diverse sfumature linguistiche può riuscire interessante.

Partiamo da cretino. Gode di una consolidata dignità scientifica. Il cretinismo è una vera e propria patologia, quella identificata nella percezione popolare con il gozzo, originata da un cattivo funzionamento dell’ipofisi (per carenze ormonali, congenite o da dieta). Dare del cretino a qualcuno implicherebbe dunque a rigor di termini ritenere che la sua sia una deficienza di origine biologica, ciò che può costituire da un lato una parziale scusante dei suoi comportamenti, dall’altro una constatazione di irrimediabilità: “che ci vuoi fare, è un cretino”. Per inciso, è singolare l’etimologia: deriva infatti dal francese chrétien, cristiano.

Lo stupido è invece etimologicamente “chi si stupisce” (da stupor), che di per sé non sarebbe una condizione negativa, ma lo diventa quando lo stupor riguarda cose ovvie, che dovrebbero essere comprese alla prima. La svolta verso un’accezione totalmente negativa si ha con il mondo moderno, con la rivoluzione scientifica, e quindi col diverso atteggiamento assunto nei confronti della natura. Nell’antichità stupirsi non era una colpa (Aristotele dice che la filosofia nasce dallo stupore, dalla meraviglia). Lo stupore era l’unica reazione possibile di fronte a fenomeni che non si era in grado di giustificare razionalmente. Da ciò nascevano interpretazioni e rassicurazioni superstiziose e religiose. Ma in un mondo nel quale la scienza fornisce spiegazioni logiche questo non è più possibile, non è più considerato lecito.

Lo stupido dovrebbe godere di una considerazione diversa da quella riservata al cretino, perché la sua condizione potrebbe essere anche momentanea, e comunque di origine non naturale, ma culturale, e come tale spesso volontaria: infatti diciamo “non fare lo stupido”. Col tempo tuttavia la sfumatura originaria di significato ha lasciato il posto ad un uso indiscriminato.

Lo scemo (dal latino semis, metà) è colui cui manca qualcosa. L’idea di fondo è quella di una persona dimidiata, non completa, meritevole quasi più di compassione che di disprezzo: “è un povero scemo”. Denota più l’insulsaggine che la negatività. La sua è una condizione, sia essa congenita o indotta (“scemo di guerra”), della quale non lo si ritiene responsabile.

Idiótes indicava invece nella polis greca il ‘privato cittadino’, in contrapposizione all’uomo pubblico: quindi colui che si fa gli affari propri e non partecipa della vita comune, politica, per cui è incompetente, e per estensione del concetto incolto e incapace di ragionare. In Grecia l’idiozia era dunque misurata su un parametro sociale, denotava una valenza “pubblica” negativa. Nel linguaggio moderno il termine è stato cooptato nel lessico medico con un significato di grave insufficienza mentale (un po’ come il cretinismo)

L’imbecille (da in baculum, senza bastone d’appoggio) è colui che appare fragile, senza basi. Non per una deficienza o per una malformazione fisica, ma per somma di carenze attitudinali e culturali. A differenza dell’idiota greco non si sottrae alla vita pubblica, anzi, tende a partecipare, ma senza averne alcuna capacità. Proprio in questo senso il termine viene usato, come vedremo, da Aprile. È anche quello preferito da chi vuole demolire con un pizzico di eleganza un competitore.

Questi i vocaboli più comuni. Gli altri sono sinonimi, che come abbiamo visto dicono di più su chi li usa che su chi ne è tacciato.

Perché questa premessa lessicale? Non certo per vantare specifiche competenze. Con una veloce puntata su Wikipedia trovereste più o meno le stesse cose, spiegate meglio. No, era invece per introdurre un piccolo excursus comparativo. Vorrei infatti prendere in considerazione alcuni testi che si occupano dell’argomento e verificare se l’uso dei termini con i quali si denomina lo stupido è casuale o mirato, e in questo secondo caso, cosa ci rivela.

La letteratura sulla stupidità è infinita (come è giusto sia, dal momento che riflette una infinita stupidità. Einstein diceva: Due sole cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo il primo ho ancora qualche dubbio) e magari sarebbe anche istruttivo e divertente vedere se e come l’idea e la percezione della stupidità siano cambiate dai Greci ad oggi. Ma sarà per un’altra volta. Per un primo approfondimento c’è comunque solo da scegliere: Aristofane o Plauto tra i classici antichi, Shakespeare e Cervantes tra i moderni, Flaubert, Oscar Wilde e Musil tra quelli più vicini a noi. Volendo, ci sono anche un paio di studi recentissimi che trattano l’argomento in chiavi molto particolari. Uno è un corposo volume dal titolo onnicomprensivo, Stupidity, della filosofa statunitense Avital Ronell, che propone un approccio letterario e psicoanalitico, l’altro, Il paradosso della stupidità, di Mats Alvesson si cimenta in una lettura “aziendalistica” del fenomeno.

Oggi invece ci accontentiamo di tre titoli recenti che contengono tre dei termini summenzionati. Sono, appunto, “Elogio dell’imbecille”, di Pino Aprile, “Le leggi fondamentali della stupidità umana”, di Carlo Maria Cipolla, e “La prevalenza del cretino” (poi raccolto assieme ad altri due testi ne “Il cretino in sintesi”), di Fruttero e Lucentini. A mio giudizio le scelte dei differenti sinonimi usati nelle titolazioni non sono casuali. Indicano tre diverse concezioni del fenomeno, e in sostanza ne riassumono tutte le possibili accezioni e interpretazioni.

Vediamo allora i testi in ordine di comparsa.

Il piccolo saggio intitolato Le leggi fondamentali della stupidità umana cominciò a circolare dattiloscritto a Berkeley, dove Cipolla insegnava Storia economica, nei primi anni ’70. Raccolto poi in un libricino (Allegro ma non troppo) assieme a un paio d’altri scritti, è diventato col tempo un long-seller, pubblicato in tutte le lingue. Accanto a quelle gravitazionali e a quelle della relatività, le leggi di Cipolla si sono ormai iscritte nel breviario essenziale per capire il mondo, passato presente e futuro.

Provo a riassumerle, anche se in realtà è impossibile essere più asciutti e stringati di Cipolla, e ad accompagnarle con le mie osservazioni.

La prima legge di Cipolla asserisce che Sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione. Non è possibile ipotizzare un valore percentuale del numero delle persone stupide rispetto al totale della popolazione: qualsiasi stima risulterebbe errata per difetto. Può sembrare una banale esagerazione, dice Cipolla, ma fate un po’ mente locale e considerate quanto sia facile imbattersi in qualcuno che ci complica stupidamente la vita. Oppure, aggiungo io, per venire a clamorosi esempi recenti, considerate come nessuno mettesse in conto fino a sei mesi fa l’eventualità di una vittoria di Trump negli Stati Uniti e della Brexit in Inghilterra.

Ora, io credo che la sottovalutazione valga in realtà solo per le persone non stupide (a chi si riferisce Cipolla quando dice “ognuno di noi”?), mentre non tocca quelle stupide, che hanno invece la tendenza a considerare stupidi tutti gli altri, e quindi non sottovalutano il problema. È comunque vero che anche persone che reputavamo intelligenti spesso ci sorprendono, rivelandosi stupidamente meschine, mentre assai più raro è il caso contrario.

La seconda legge dice che La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona. Ovvero, per tenerci a un ambiente che conosco e del quale posso parlare con cognizione, la percentuale degli stupidi è identica tra i bidelli, gli impiegati, gli studenti, gli insegnanti e i dirigenti. Cipolla, che frequentava altri ambienti, assicura che è così anche per i docenti universitari e i premi Nobel. Non parliamo poi della classe politica, che costituisce addirittura un caso a parte, con percentuali che si impennano, forse per le modalità con cui viene selezionata. Non sono comunque né l’estrazione sociale, né il livello culturale, né il tipo di occupazione a determinare una condizione di stupidità, e neppure naturalmente l’appartenenza etnica. Così come non è significativa, con buona pace delle femministe, quella di genere.

La terza chiarisce esplicitamente che: Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita. Questa la rivedremo, perché è centrale nella disamina di Cipolla.

La quarta legge afferma invece che: Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. È in fondo un’estensione della prima: non solo si sottovaluta il numero complessivo, ma si sottovaluta anche l’impatto devastante che può avere ogni singolo individuo stupido. Ciò eleva le dimensioni del problema all’ennesima potenza.

Perché, recita la quinta legge, la persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista. Questa legge ha anche un corollario: Lo stupido è più pericoloso del bandito. In sostanza, la sua pericolosità è data dal fatto che, al contrario di chi è malintenzionato ma intelligente, lo stupido è assolutamente imprevedibile. Non ci sono armi per combatterlo, vaccini per immunizzarsi: non si sa mai da che parte e in che modo arriverà l’attacco.

Questo però mi impone di corredare la sintesi con la cosa forse più intrigante del saggio di Cipolla, il diagramma dei comportamenti sociali umani. Provo a sommariamente a tracciarlo.

Il mondo nelle mani degli stolti 02

Nei quadranti sono indicate le quattro grandi tipologie entro le quali possono essere raggruppati gli umani in base alle conseguenze dei loro comportamenti. Partendo da quello in alto a destra e procedendo in senso antiorario troviamo gli Intelligenti (I), gli Sprovveduti (S), gli Stupidi (St) e i Banditi (B). I primi, gli Intelligenti, con il loro agire creano dei vantaggi tanto per sé che per gli altri. Gli Sprovveduti sono invece coloro che creano danno per sé, ma vantaggio per gli altri, e gli Stupidi quelli che determinano solo svantaggi per sé e per gli altri. I Banditi sono infine coloro che creano vantaggi per sé e danno per gli altri.

L’asse delle ascisse (X) misura i vantaggi o gli svantaggi che ciascuno consegue per sé dalle proprie azioni. Quello delle ordinate (Y) misura vantaggi o svantaggi che l’individuo causa ad altri con le proprie azioni. La diagonale viola separa l’area a bilancio globale positivo (a destra, +) da quella a bilancio globale negativo (a sinistra, -), dove per bilancio globale si intende la somma dei risultati (utili o negativi) per l’individuo e di quelli per gli altri.

Di qui si può partire per valutare, in ciascun punto all’interno del diagramma, se il comportamento indicato da quel punto migliora il bilancio totale del sistema o lo peggiora. Come si può notare, la diagonale è trasversale a due quadranti, e determina delle sotto-tipologie. Così, ad esempio, se qualcuno rompe il vetro della mia auto procurandomi un danno di cinquecento euro per sottrarre un cd che ne vale cinque, si iscrive tra i BSt, i banditi stupidi, e allo stesso modo chi con un sacrificio personale di modesta entità determina per gli altri un grosso vantaggio sarà inseribile tra gli Sprovveduti tendenti all’intelligenza (SI). Per gli Intelligenti e per gli Stupidi Cipolla non contempla invece sottoaree: non sta parlando di qualità, di cause, di sfumature, ma di effetti.

Penso che questo diagramma dovrebbe campeggiare sulle pareti di tutte le aule scolastiche, degli uffici pubblici, di ogni tipo di ritrovo. È importante che ciascuno sappia qual è davvero il suo posto nel mondo, anche se le speranze che uno stupido sappia interpretarlo (e soprattutto, individuare la propria localizzazione) sono scarse.

Ma in sostanza, come viene considerata da Cipolla la stupidità? Intanto è trattata con un approccio scientifico. Già il fatto di parlare di leggi rimanda a quell’ambito. Nella filosofia e nelle scienze umane si esprimono delle ipotesi e delle opinioni, mentre è la scienza a cercare le leggi. E le leggi debbono essere il più universalmente possibile valide, e quindi per forza di cose altrettanto generiche.

In secondo luogo, la stupidità è valutata in relazione all’impatto sociale, con un metro squisitamente “economico”. Non si analizza la “condizione” dello stupido, ma il suo apporto negativo all’equilibrio del sistema. Non si parla di buoni o cattivi, di azioni giuste o ingiuste. Si prescinde quindi dai parametri etici o morali, fondati sui Valori, per applicarne invece uno tarato sulla accezione economicistica di “valore”. Nulla di più lontano, almeno in apparenza, dall’etica kantiana. Ma forse quello adottato da Cipolla è l’unico metro “scientifico” possibile.

Infine, la stupidità è intesa da Cipolla come una costante comportamentale collettiva, trasversale ad ogni epoca e cultura: e in certo qual modo, sia pure in termini di una approssimazione alquanto relativa e a dispetto di quanto affermato dalla prima legge, è persino quantitativamente valutabile. Sappiamo almeno che gli stupidi sono sempre di più di quanti riusciamo a pensare.

L’uso del termine “stupido” sembra dunque correlato proprio a quel significato “moderno” cui accennavo sopra. Non denota una valutazione morale, assoluta, ma una considerazione quantitativa e relativistica. Non si è stupidi costituzionalmente, ma in relazione a qualcosa. Sembrerà paradossale, ma io la interpreto come una concezione ottimistica: se è vero che ogni epoca e ogni società hanno la loro percentuale di stupidi, e che questa percentuale è sempre maggiore di quel che si riesca a immaginare, il fatto stesso che l’umanità continui ad esistere dimostrerebbe che è comunque uno scotto sopportabile.

Non sono della stessa idea Fruttero e Lucentini. “La prevalenza del cretino” uscì nel 1985. Suscitò un certo interesse, ma non la reazione che forse i due si auguravano, perché il divertimento dei lettori (e dei critici, prima ancora) non era a riconoscersi, ma a riconoscere i loro conoscenti. Il titolo mi conquistò subito: riassumeva perfettamente quella che già da un pezzo era la mia percezione (cfr. Darwin disperso sulla Colma).

Mentre quella di Cipolla è un’analisi “economicistica”, mirata alla determinazione di costi e ricavi, sostanzialmente astorica, quindi molto “scientificamente” asettica, quella di Fruttero e Lucentini è invece circoscritta ad una realtà sociale, antropologica, culturale e politica che ha precise coordinate storiche e geografiche: quella italiana. Gli autori non ignorano che il fenomeno di cui parlano si sta verificando su scala mondiale, ma vogliono metterne in luce gli esiti particolarmente nefasti nel nostro paese.

Partono comunque da una considerazione generale: “Poco interessanti catene di cause ed effetti terapeutici, dietetici, sociali, politici, tecnologici spiegano l’esponenziale proliferazione della bêtise. Figlia del progresso, dell’idea di progresso, essa non poteva che espandersi in tutte le direzioni, contagiare tutte le classi, prendere il sopravvento in tutti i rami dell’umana attività. È stato grazie al progresso che il contenibile stolto dell’antichità si è tramutato nel prevalente cretino contemporaneo, personaggio a mortalità bassissima la cui forza è dunque in primo luogo brutalmente numerica; ma una società ch’egli si compiace di chiamare ‘molto complessa’ gli ha aperto infiniti interstizi, crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra, gli ha procurato innumeri poltrone, sedie, sgabelli, telefoni, gli ha messo a disposizione clamorose tribune, inaudite moltitudini di seguaci e molto denaro. Gli ha insomma moltiplicato prodigiosamente le occasioni per agire, intervenire, parlare, esprimersi, manifestarsi, in una parola (a lui cara) per realizzarsi”.

F&L intendono per “progresso” sia tutto lo strumentario tecnologico che costituisce la ricaduta concreta dell’avanzamento scientifico, sia, e prima ancora, quella sedicente “etica dell’autorealizzazione individuale” che a partire dagli anni Sessanta ha rottamato ogni preesistente valore, facendone un unico mucchio. Dietro il trionfo del cretinismo c’è dunque una radice di natura ideologica, la confusione della libertà con il “liberi tutti”. In realtà, però, più che dell’idea di progresso la bêtise di cui parlano è figlia dell’idea di superamento del progresso, di quel calderone post-moderno nel quale sono confluite, si sono mescolate e in genere si sono snaturate le istanze “liberatorie” provenienti un po’ da ogni dove, dalla filosofia, dalla politica, dalla psichiatria, il tutto condito col sale della spettacolarizzazione (paradossalmente, questo avveniva nel momento stesso in cui si denunciava l’avvento della “società dello spettacolo”). Per decenni psicanalisti freudiani e anti-freudiani, psichiatri e magistrati democratici, filosofi de-costruttivisti e artisti più o meno concettuali hanno smontato pezzo per pezzo i meccanismi sociali e culturali della modernità, per mostrare di che lacrime grondassero e di che sangue: salvo lasciarsi poi alle spalle ingranaggi e viti sparsi un po’ dovunque, e un giocattolo non funzionante. Ciò che è rimasto, all’atto pratico, è solo il prodotto di risulta: l’omologazione dei comportamenti idioti, la giustificazione di ogni demenza o devianza, l’appiattimento su un unico standard di ogni espressione culturale. La de-costruzione tradotta in etica ha trasformato lo stolto classico, che un tempo era bene o male tenuto a margine, viveva nelle riserve come gli indiani (il bar dello sport, la bottega del parrucchiere, ecc..), nel cretino attuale, che deborda e invade tutti gli spazi. Si è verificato ciò nei cui confronti la quarta legge di Cipolla metteva in guardia: ha prevalso la presunzione di confrontarsi con la stupidità, di giocarci, senza metterne in conto la pericolosità e la forza dirompente. Marcuse, Foucault e Umberto Eco da un lato, Corrado con la Corrida e Costanzo con Bontà loro dall’altro, hanno fatto, a livelli diversi, le stesse cose. Hanno scherzato col fuoco e ne sono rimasti ustionati: i vincenti sono Franti e Pierino.

E qui non ce la faccio, non posso non aprire una parentesi proprio su Eco (che peraltro sul tema della stupidità ha scritto pagine molto divertenti, ad esempio ne Il pendolo di Foucault). In uno dei suoi ultimi interventi pubblici Eco ha affermato: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Né più né meno quello che come molti altri penso da un sacco di tempo, che ho scritto ancora dieci righe sopra e che Fruttero e Lucentini avevano preannunciato trent’anni fa. Eco non ha rivelato alcuna verità sconvolgente, ha detto cosa risapute e ovvie come quelle ripetute ogni domenica dal papa e ad ogni cerimonia da Mattarella, e se la sua dichiarazione ha avuto tanta risonanza è perché si prestava ad imbastirci su un bel teatrino mediatico, come infatti puntualmente è accaduto. Nulla di male comunque, a parte la tristezza di un “dibattito culturale” che si anima solo in occasione di Grandi Eventi e in presenza di “grandi nomi”.

A questa dichiarazione manca però un’appendice importante, che sinceramente mi sarei atteso. Manca il minimo accenno al mea culpa che lo stesso Eco avrebbe dovuto recitare, perché il primo lasciapassare ai cretini, la prima manifestazione di garantismo intellettuale nei loro confronti sono venuti cinquantacinque anni fa proprio dalla sua penna, col famigerato Elogio di Franti. Certo, so benissimo che anche in quell’occasione, come sempre, Eco giocava col paradosso, gigioneggiava al riparo del suo consueto “ironico distacco”: ma questo distacco suonava già allora, almeno per quei quindicenni che come me avevano apprezzato da ragazzini Garrone, perché prendeva comunque le parti dei più deboli, e che non erano diventati dei fascisti o dei leccaculo per essersi commossi leggendo “Cuore”, come una insultante supponenza. La stessa che avrebbero ritrovato pochi anni dopo nei leader borghesi delle rivolte studentesche, figli di papà che ti spiegavano cosa significa, e quanto è bello, essere proletari.

Ho riletto, prima di affrontare questo argomento, l’Elogio di Franti: sono tornato anche sulla ripresa scritta in occasione dell’anniversario decennale (ne Il costume di casa), dove ho trovato che Franti ora occupa le assemblee e impone la sua presenza … a purificare la scuola ci penserà il numero chiuso, e l’aula non più sorda e grigia sarà ora abitata solo da Derossi, Enrico e Nobis, Franti ora è fuori dalla scuola. Non è morto, studia sui fogli della controinformazione”. L’ironico distacco ho dovuto stavolta adottarlo io, e mi sono detto che magari essere coerenti non significa necessariamente essere intelligenti, ma usare l’intelligenza per trincerarsi ipocritamente contro l’assunzione delle proprie responsabilità è forse peggio che essere stupidi. Tra l’altro, ho anche pensato che Cipolla, a proposito del superiore diritto di parola dei Nobel, avrebbe invece visto nel caso Dario Fo una conferma eclatante della sua seconda legge.

Tutto questo ci riporta a Fruttero e Lucentini. La specificità italiana, quella che rende da noi il fenomeno assolutamente devastante, ha infatti per essi una radice storico-antropologica nella totale allergia del nostro popolo al dovere (e alle responsabilità). “Tranne forse gli animali delle favole di La Fontaine, nessuno è mai stato bravo come gl’italiani nell’arte d’inventare nobili pretesti per eludere i propri doveri e fare i propri comodi”. È questa la chiave per leggere il cretinismo indigeno. Il nostro paese ha scoperto tardi i diritti, senza che nessuno gli ricordasse che essi sono giustificati solo dal preventivo assolvimento dei doveri (in realtà qualcuno ci ha provato, Mazzini ad esempio, o gli anarchici più seri, come Berneri, e certo, lo stesso De Amicis: ma evidentemente con scarsi risultati). E nessun politico, nessun giornalista, nessun sociologo o semiologo si azzarda oggi a mettere in chiaro la questione, per paura di essere lapidato o trombato o perché dovrebbe meditare sulla propria autobiografia.

Sembra allora non esserci alcuna speranza di contrastare il fenomeno: “Sconfiggerlo (il cretino) è ovviamente impossibile. Odiarlo è inutile. Dileggio, sarcasmo, ironia non scalfiscono le sue cotte d’inconsapevolezza, le sue impavide autoassoluzioni”. Anche perché, appunto, continua ad essere titillato da una classe intellettuale che ha perso per prima il senso delle distanze: “Adesso che tutti sono diventati amici dell’effimero, fidanzati del frivolo, sposi del fatuo e del superfluo, ci sentiremo dire che Shirley Temple fu più importante di Virgina Woolf […]”. Basti pensare alle patenti di genialità generosamente distribuite a specialisti dell’incarto e a rapper, alla beatificazione postuma di Fabrizio de André e a quella in vita di Vasco Rossi, agli epitaffi seriali che occupano per settimane le prime pagine cartacee e televisive per la dipartita di un qualsiasi saltimbanco, da Dario Fo a Gianni Boncompagni (si paventano con giustificata ansia quelle di Arbore e di Mogol). Non ricordo di aver letto nulla di paragonabile in occasione della scomparsa, per citare uno degli sconosciuti più illustri, di Isahia Berlin.

F&L colgono perfettamente anche l’effetto moltiplicatore del cretinismo creato dalla trasformazione della cultura in merce: “Mille turisti in un chiostro significano in pratica l’annullamento del chiostro. Cento turisti davanti a un Caravaggio equivalgono alla soppressione del Caravaggio. […]. È un test durissimo per chi si crede tollerante, democratico.” Tanto da indurre quella tentazione che prima o poi tutti conosciamo (ma che nei cretini è congenita): “AL GULAG, AL GULAG! A volte ci tenta l’idea della maniera forte … Ci scoraggia il pensiero che già dopo un mese sarebbe tutto un gulag, dalle Alpi alla Sicilia”. Tangentopoli sarebbe esplosa pochi anni dopo, in contemporanea con la sparizione dei gulag là dove già c’erano, e gli esiti di entrambe le vicende hanno fatto tramontare anche questa allettante ipotesi. In compenso, proprio a partire di lì il rigurgito giustizialista avrebbe mostrato il volto più ipocrita del cretinismo italiano. Via i ladri, largo a Berlusconi e a Bossi, e tramontati questi, a Grillo e ai cinque stelle. Con tanto di deliri nei blog, spazzatura sulle reti sociali, cori di “onestà, onestà” e applausi ai funerali.

Il vocabolo usato da F&L mi sembra dunque più che pertinente al tenore della loro analisi. Penso che la scelta sia stata suggerita dal suono raschiante, che imprime all’epiteto una forza rabbiosa. In effetti cretino, nella scala delle invettive in uso, tocca il tono più alto e più aspro. Forse c’è anche una voluta reminiscenza del linguaggio da avanspettacolo (il “vieni avanti, cretino!” dei fratelli De Rege, che dai blogger è stato naturalmente interpretato come “fatti avanti, cretino!), perfettamente in sintonia con l’atmosfera che regna nel paese.

Sul cretinismo specifico del nostro paese i trent’anni trascorsi dall’uscita del libro di Fruttero e Lucentini imporrebbero un corposo aggiornamento. Non si tratta solo dell’aumento esponenziale del fenomeno, ma delle sue inedite manifestazioni. Su un terreno di coltura come quello italiano era inevitabile che ogni nuova potenzialità di sviluppo della stupidità attecchisse rapidamente e con straordinario successo. Prendiamo ad esempio il caso dei telefonini, che all’epoca dell’uscita de “La prevalenza del cretino” non erano ancora comparsi. Siamo il paese al mondo con la più alta percentuale di cellulari pro capite, quasi due a testa, compresi i neonati. Il traffico d’onde è così intenso che se avesse una pur minima consistenza visiva vivremmo in una notte boreale costante. E cosa viaggia su queste onde? Qualche giorno fa, mentre rientravo a casa, ho udito un condomino comunicare alla moglie, tre piani sopra: “Sono nell’ingresso”. Salendo a piedi sarebbe arrivato davanti alla porta del suo appartamento in meno di un minuto. Mentre abbozzavamo un mezzo sorriso silenzioso in ascensore non ho potuto fare a meno di chiedermi il perché di quell’annuncio. Per dare il via a buttare la pasta era un po’ tardi. Forse era necessario disattivare un complicato sistema d’allarme? O evitare alla consorte lo shock di sentire all’improvviso introdurre una chiave nella toppa?

Badate, questo esempio è meno banale e innocuo di quanto sembri. Spingendo un po’ oltre le considerazioni (io salivo al settimo piano) ho provato a immaginare ciò che verosimilmente accade durante gli spostamenti del tizio in auto: cosa fa, segnala in uscita le distanze chilometriche percorse, eventuali code o incidenti sulla corsia opposta, le variazioni meteorologiche, i borboglii dell’intestino, e riceve in ingresso aggiornamenti in tempo reale sui votacci rimediati dai figli a scuola, sulle telefonate ricevute nel frattempo dalla suocera e da tutto il parentado, sull’inappetenza dell’ultimogenito? Non ho nulla contro l’armonia familiare, soprattutto in un’epoca nella quale si lamenta l’assenza di comunicazione, ma qui il problema è: anche supponendo il più avanzato sistema di telefonia da cruscotto, quella che consente almeno di tenere entrambe le mani sul volante, quale sarà il suo livello di attenzione alla guida? E quindi di rischio, per sé ma prima ancora per gli altri?

Ecco come un comportamento che nasce innocentemente stupido può diventare colpevolmente cretino.

Idiota è invece il termine che adotterei per qualificare la pervicace insistenza dei nostri politici, amministratori, faccendieri e mafiosi a raccontarsi via etere i fatti loro, sapendo perfettamente che i loro telefoni sono intercettati. Non posso fare a meno di immaginare che mentre parlano di mazzette e appalti e favori coprano con la mano la bocca e il display. Credo che in questo caso entrino in gioco ancora altre componenti della stupidità, del tutto contradditorie, come si conviene a ciò che è stupido: da un lato la convinzione di essere sempre un po’ più furbi degli altri, e quindi di non essere rintracciabili attivando accorgimenti elementari, dall’altro la vanità, direi quasi la speranza, di essere ascoltati, a riprova della “rilevanza” del proprio ruolo, e nella presunzione (questa in effetti abbastanza fondata) comunque dell’impunità. Non si può spiegare altrimenti.

Ma arriviamo finalmente al libro dal quale ha preso le mosse questo scritto. L’Elogio dell’imbecille (2006) conferma la diagnosi di un rimbambimento collettivo, ma ne ribalta completamente la lettura. L’impressione è che Aprile lo avesse concepito inizialmente come un divertissement alla Cipolla, da giocarsi tutto sul filo del paradosso, e che nel procedere abbia poi finito per convincersi egli stesso della plausibilità della sua tesi.

Che è questa: dopo essersi in buona parte affrancato dalle leggi dell’evoluzione naturale, affermandosi nella lotta per sopravvivere in virtù della sua intelligenza, oggi l’uomo può fare a meno proprio di quest’ultima. L’evoluzione culturale lo ha infatti provvisto di una dotazione di strumenti, materiali o immateriali, che possono essere usati da qualsiasi idiota. E questo sta modificando i meccanismi della selezione. L’intelligente non è più necessariamente il più adatto.

A partire dall’ominazione, argomenta Aprile, il cervello umano ha continuato a svilupparsi, nel senso letterale del peso e del volume e in quello figurato delle competenze e della diversificazione delle risposte, alla ricerca dapprima di soluzioni ai problemi più immediati ed elementari di sopravvivenza, e in seguito a quelli dettati dalla crescente complessità delle soluzioni stesse. Teoricamente questa crescita parrebbe dover essere infinita, ma nella realtà lo sviluppo cerebrale si è fermato già da un pezzo. Il volume del nostro cervello è rimasto simile a quello del sapiens di trentamila anni fa, mentre le dimensioni corporee sono da allora notevolmente aumentate. Da studi recenti si evincerebbe anzi che il cervello umano si è addirittura rimpicciolito, e non solo in termini relativi.

Questa discrepanza ha una prima spiegazione fisiologica. La nostra testa ha raggiunto un limite di crescita. Un ulteriore sviluppo delle dimensioni del cervello, e quindi del cranio, renderebbe il parto rischiosissimo, mettendo a repentaglio per il futuro la continuità della specie (secondo l’autore è proprio una vicenda del genere ad aver provocato l’estinzione dei nostri parenti neandertaliani). Ora, non esiste una relazione diretta tra il volume assoluto del cervello e le capacità intellettuali (altrimenti gli elefanti e le balene dominerebbero il pianeta), ma è assodato che gli animali che possiedono un cervello più grande in rapporto alla massa corporea hanno sviluppato doti cognitive superiori, anche se negli umani la vera differenza la fa poi il numero dei neuroni e delle sinapsi. La mancata ulteriore crescita dimensionale può dunque essere stata in parte compensata da un aumento della complessità funzionale, ma di fatto la nostra specie negli ultimi trentamila anni ha vissuto di rendita sulle abilità e sulle conoscenze maturate in precedenza, che hanno fatto volano per lo sviluppo della nostra cultura materiale, e non solo. La cultura però non è l’intelligenza: ne è un prodotto.

Il tetto naturale alla crescita biologica è dunque paradossalmente garantito proprio da quella culturale. La disponibilità di uno strumentario che facilita la vita, infatti, non solo non accresce lo stimolo allo sviluppo intellettuale, ma anzi, lo frena. Un esempio potrebbe essere quello del calcolo: la disponibilità di calcolatrici di tutti i formati comporta l’acquisizione di una competenza semplice, quella di premere un tasto e attivare una funzione, ma ne atrofizza una complessa, quella di calcolo.

La stessa cosa vale in ogni ambito, compreso quello politico. Di pari passo con l’aumento della cooperazione e delle interrelazioni sociali, nonché della conflittualità, sono diventati sempre più complessi i rapporti e i meccanismi di esercizio del potere. Soprattutto negli ultimi cinquecento anni la coscienza della natura contrattualistica di quest’ultimo, la necessità di creare equilibri e forme di controllo distribuendolo su varie istituzioni, l’avvento della cultura del diritto individuale, hanno fatto crescere questa complessità in maniera esponenziale. Tutto questo in teoria avrebbe dovuto indurre un adeguamento, ovvero una crescita anche volumetrica, delle aree cerebrali interessate ai modi della socialità: ma in pratica, oltre un certo livello, ha comportato invece una deprivazione e deresponsabilizzazione decisionale. La gran parte degli elettori oggi non ha la minima conoscenza della natura e del funzionamento delle istituzioni per le quali è chiamata a votare, ma esercita comunque, almeno in teoria, un potere. Quando questo diritto non lo aveva, e lo rivendicava, sapeva invece per cosa si stava battendo.

Credo che proprio in questa ultima accezione si spieghi e si giustifichi perfettamente la scelta linguistica (a dire il vero non so quanto consapevole): imbecille, come abbiamo visto, è colui che non ha le basi per capire, ma occupa un ruolo o esercita un diritto che gli consentono di decidere. Con le ovvie conseguenze.

La provocazione di Aprile consiste appunto nell’affermare che l’involuzione provocata dal rallentamento o addirittura dall’arretramento dello sviluppo dell’intelligenza è da considerarsi provvidenziale per la nostra specie. La natura avrebbe provveduto ad arrestare la crescita cerebrale selezionando in pratica cervelli meno capaci, e ponendo un freno in questo modo alla corsa dell’umanità verso l’estinzione. Messa nella necessità di scegliere, dice Aprile, l’evoluzione preferisce un imbecille vivo ad un genio morto.

Va comunque ricordato che la visione di fondo non è affatto originale. Già Robert Ardrey scriveva che l’uomo è l’errore più tragico dell’evoluzione, e di una svista commessa dalla natura milioni di anni fa parlano un sacco di biologi, di genetisti e di antropologi. Non è necessario essere Leopardi o Cioran e avere una patente di pessimismo per pensarla in questo modo. D’altro canto tutta la mitologia classica, e non solo quella occidentale, ci racconta questa storia. Aprile stesso cita il mito di Prometeo, e trova l’archetipo perfetto della sua tesi in quello di Dedalo e Icaro. L’intelligenza di Dedalo è chiamata a imprigionare il Minotauro, l’uomo-bestia governato solo dall’istinto. Ma Dedalo viola poi il suo mandato, e per questo viene punito. Supera anche il nuovo ostacolo, riesce a fuggire dal labirinto che lui stesso aveva ideato e nel quale è stato confinato: ma il nuovo strumento che ha creato riesce fatale se messo a disposizione di chi non sa usarlo con cognizione. Oltre un certo limite l’intelligenza umana si ritorce contro chi ne abusa. Porta all’autodistruzione.

Parlare di un errore o di una svista della natura sembra sottintendere qualcosa che compromette, altera o arresta il corso naturale, e a ciò si potrebbe obiettare che il corso naturale non è in fondo altro che quello che la natura compie, e quindi comprende anche l’uomo con la sua apparente anomalia. Ma la cosa è più sottile. Entrano in gioco infatti due distinti processi. Uno è quello raccontato dalla Fisica, che con le leggi sull’entropia ci dice che nel nostro mondo alla fine sarà il disordine a prevalere sull’ordine e sulla vita. Quello raccontato dalla biologia parla invece di una materia vivente che si è organizzata e ordinata secondo forme sempre più complesse, dando luogo ad un effetto reversivo. Per riuscire a farli convivere, questi due processi, dobbiamo considerarli su piani completamente diversi: ma dato che noi apparteniamo al secondo, e ne siamo il risultato più eclatante, riusciamo a immaginarci solo all’interno di esso.

Aprile tiene conto invece di entrambi, e sostiene che anche la complessità ha un limite, oltre il quale si produce il collasso. Per questo l’evoluzione ha adottato la strategia di privilegiare la continuità della specie rispetto alla crescita intellettiva individuale: in questo modo il ritorno al caos viene posticipato il più possibile.

Mi rendo conto che è difficile non tanto capire dove l’autore va a parare, ciò che è chiarissimo, quanto accettarlo e condividerlo. Provo allora a dirlo in altre parole. Noi, intendo la specie umana, siamo qui per un caso. Non importa se esso sia determinato da una fortuita combinazione chimico-biologica o nasca da una serie di “tentativi” (che è poi comunque la stessa cosa). Ogni forma di vita è frutto di costanti tentativi di adattamento all’ambiente. Nel nostro caso, però, la stessa inadeguatezza fisica ha stimolato la specie a escogitare strategie complesse per aggrapparsi alla sopravvivenza. La faccenda ha funzionato sin troppo bene, tanto che dall’adattarci all’ambiente è passati direttamente ad adattare l’ambiente a noi. Non solo, il successo è stato tale che ha consentito di eliminare, di controllare o di soggiogare tutte le altre specie, e di mettere a repentaglio il sistema complesso che le ospita. È qui che interviene “l’intelligenza” naturale, quella dell’evoluzione, fermando lo sviluppo di quella “culturale” umana.

Come si può constatare, la tesi di Aprile (ogni volta che lo scrivo mi torna in mente Lenin), a prima vista bizzarra, poco a poco si normalizza, diventa seducente. E terrificante. Non ho potuto fare a meno, ad esempio, di applicarla all’odio per gli ebrei e al loro sterminio, tra l’altro anticipato cinque secoli prima dalla cacciata dalla Spagna, dai ghetti, e prima ancora dalle crociate. In qualche modo, per la loro particolare attitudine nei confronti del mondo (cfr. Sottolineature) gli ebrei sono stati (e si sono) identificati come i “pellegrini del possibile”, a rappresentare un’intelligenza sempre protesa al di là del presente, sempre aperta a ogni percorso innovativo, artistico, politico o scientifico che fosse. Ecco allora perché nei loro confronti è scattata l’operazione di feroce potatura “suggerita” all’evoluzione culturale dal sistema naturale. Ciò che era di volta in volta solo parzialmente spiegabile nei termini di una contrapposizione religiosa, o economica, o sociale, diventerebbe chiaro se letto in questa chiave evoluzionistica. Chiaro ma, appunto, terrificante.

Ma anche un’altra cosa mi viene in mente. Non sarà che stiamo ragionando un po’ come l’islandese del dialogo leopardiano? Che attribuiamo all’operato di una intelligenza “naturale” quello che è semplicemente frutto di una perdita di misura, di una presunzione, e quindi, più semplicemente, della stupidità, umana? Voglio dire, se il rimedio per ritardare l’autodistruzione dell’umanità sono personaggi come Hitler, e oggi Trump e Kim Jong-un, o l’ISIS, o i negazionisti dell’effetto serra, forse conveniva davvero continuare a rischiare con lo sviluppo culturale.

Ora, anche prescindendo dalla fondatezza o meno del sostrato “scientifico” sul quale si basa la tesi di Aprile, il problema è dunque come andrebbero letti i dati risultanti. All’atto pratico, insomma, ammettendo possa non essere del tutto sballata, tutto questo dove ci porterebbe? Dovremmo salutare con un sospiro di sollievo il fatto che visibilmente e velocemente gli imbecilli stanno prendendo possesso della terra?

Il ragionamento di Aprile non arriva a tanto. Si ferma davanti al bivio tra ciò che sappiamo essere e ciò che vorremmo fosse. “Forse troppa intelligenza (specie se usata a sproposito) è un fatto negativo. Ma è tutto quello che abbiamo. Rimane e rimarrà la nostra ricchezza, – dice il suo immaginario interlocutore – quello che ci salva”. Dove quel “ci salva” non va interpretato come la speranza in un futuro riscatto dalla deriva nell’imbecillità, ma come l’attribuzione di un senso al presente della nostra esistenza.

In realtà la spiegazione data da Aprile regge solo se accettiamo di considerare completamente deterministica la natura dell’uomo: ovvero se prescindiamo dalla sfera morale. La distinzione è fondamentale. Se anche la morale è un espediente evoluzionistico, ovvero se riteniamo che ogni nostro comportamento sia, direttamente o indirettamente, finalizzato alla pura sopravvivenza della specie, allora tutto, anche ciò che percepiamo come negativo, ha una sua giustificata collocazione. Se invece si ritiene che la morale non sia un portato della cultura, ma della coscienza, che sta a monte di quest’ultima e tuttavia non si esaurisce in essa, allora il discorso cambia. La coscienza comporta la possibilità di scelta, quindi anche quella di decidere dell’uso della cultura. Una morale, o meglio ancora, un’attitudine etica, esistono solo a questa condizione. La coscienza è dunque responsabilità. Siamo responsabili perché disponiamo di qualcosa che ci rende speciali, ma che può anche diventare un’arma letale. Sta a noi non lasciare che accada.

Ecco allora che forse si apre uno spiraglio per inquadrare il problema dell’imbecillità, e segnatamente di quella contemporanea. L’imbecille è colui che non si assume la responsabilità di scegliere con la propria testa, e quindi il rischio di dissentire e di opporsi quando non è d’accordo; colui che si accoda alle opinioni altrui, possibilmente maggioritarie e semplicistiche, e che concorre all’opinione pubblica solo col suo peso, con la sua presenza materiale: e che quindi è assolutamente inaffidabile, ancorché in una certa misura prevedibile, nei comportamenti privati.

In quest’ottica anche l’idea stessa di male va riconsiderata. Non sta tutto da una parte: l’imbecillità è feroce, ma anche l’intelligenza è pericolosa, se mette a disposizione degli imbecilli un potere immenso. Non so quanto si possa fare per evitare questo pericolo, ma almeno dobbiamo cercare di riconoscerlo. E dare finalmente una risposta chiara a domande retoriche e ricattatorie come quella che sempre più spesso ricorre nei dibattiti televisivi: “Dieci milioni di persone hanno votato il tal partito: saranno tutti cretini?” Si.

A questo punto non vorrei ci si attendesse da me una rilettura originale del fenomeno della stupidità, comprensiva di indicazioni per la profilassi. Non ci penso affatto. Non ho la presunzione di tentare la “grande sintesi”. Credo che della stupidità si possa dire quello che Agostino diceva del tempo: So che cos’è, ma se me lo chiedono non so come spiegarlo. E si capisce: quella della stupidità è una delle poche esperienze di prossimità con l’infinito che ci sono concesse, ed esperienze del genere non tollerano di essere inquadrate e compresse in definizioni o schemi logici. Del resto non lo fa nemmeno Cipolla, a dispetto dell’apparenza, perché in effetti non descrive il fenomeno, ma ne sintetizza gli esiti quantitativi e gli aspetti statistici. Forse l’unico che davvero prova a costruirne una tassonomia è Umberto Eco, che ne Il pendolo di Foucault fa dire a Belbo: “Chiunque, a ben vedere, partecipa di una di queste categorie. Ciascuno di noi ogni tanto è cretino, imbecille, stupido o matto. Diciamo che una persona normale è quella che mescola in misura ragionevole tutte queste componenti, questi tipi ideali.” Ma le tipizzazioni che poi ne vengono fuori, per quanto divertenti (“il cretino entra nella porta girevole per il verso opposto… l’imbecille è molto richiesto, specie nelle occasioni mondane … lo stupido può anche dire la cosa giusta, ma per ragioni sbagliate, ecc…), rimangono al livello salottiero della conversazione arguta.

E quindi? Quindi, per continuare con il gioco delle citazioni, la metterei come Derzu Uzala, quando al militare un po’ stupido che per prenderlo in giro gli chiede “cos’è il sole?” risponde: “Tu non sa cosa è sole? Tu aspetta, tu guarda, lui passa.” Nel nostro caso, tra l’altro, non c’è nemmeno da aspettare molto. Quella della stupidità è un’esperienza tanto reale e continuativa quanto universale, che coinvolge tutti (qualcuno potrebbe ritenere di farla proprio in questo momento, leggendo queste righe), a prescindere dai modi, dalle occasioni e dall’intensità della percezione, e anche dalle reazioni che suscita. La si dovrebbe vivere comunque come una esperienza problematica, nel senso che per quanto possibile va smascherata e combattuta, e non trattata con irridente sufficienza: senza pretendere però di darne una interpretazione sistematica, o di scovare ricette per debellarla. La stupidità non si sconfigge, e nemmeno la si fronteggia, perché malgrado gli stupidi siano legioni non si muove come un esercito, ma agisce come un gas: al più da essa si può cercare di difendersi, imparando a riconoscerla sotto i suoi infiniti travestimenti.

Non azzardo quindi una nuova teoria, o un modello inedito di lettura del fenomeno: mi limito ad alcune considerazioni buttale lì a ruota libera, come credo si convenga all’argomento.

La prima è questa. Tutte le interpretazioni che ho passato in rassegna sembrano dare per scontata l’esistenza in buona parte degli umani di una disposizione genetica alla stupidità. Varia semmai il peso equilibratore che in ciascuna viene attribuito all’azione della cultura: tendente a zero per Cipolla, rilevante, sia in positivo che in negativo, per F&L, alto ma in ultima analisi ininfluente (o se vogliamo, influente a rovescio) per Aprile. Questo aspetto meriterebbe di essere approfondito. Sotto il profilo scientifico pare infatti ormai assodata, se non una vera e propria determinazione genetica, almeno l’esistenza di un’alta percentuale di rischio di stupidità per alcune (moltissime?) persone. Voglio dire che anche se non esiste il gene della stupidità, così come non esistono quello dell’altruismo o del coraggio, agisce comunque una combinazione di attitudini, l’essere ad esempio più o meno egoisti, o impulsivi anziché razionali, che produce da ultimo comportamenti stupidi. Se questa combinazione è costantemente attiva non avremo atteggiamenti occasionalmente stupidi, ma persone stupide in permanenza.

Ora, può sembrare la scoperta dell’acqua calda, perché ce n’eravamo già accorti da un pezzo, molto prima che fossero avviati gli studi genetici: ma credo che alla certificazione scientifica si debba dare invece un grosso peso. Dovrebbe infatti indurci a rimettere in discussione tutto il sistema delle relazioni sociali e delle istituzioni politiche, almeno sul piano teorico, e aiutarci a comprendere i fallimenti delle idealità utopiche, nonché i rischi di un loro eventuale successo. Le utopie non contemplano la presenza di imbecilli: né quando rimangono sulla carta, perché si fondano sul presupposto che tutti condividano davvero quel progetto e siano pronti a sostenerlo, né quando cercano di tradursi in realtà, perché scoprono che così non è e tendono a sbarazzarsi immediatamente, in un modo o nell’altro, di coloro che non corrispondono all’idea di umanità sulla quale si fondano.

Ciò dovrebbe insegnarci che anche un ipotetico sistema perfetto, disegnato da Dio stesso, sarebbe destinato a scontrarsi con il potenziale ostante della stupidità, e a uscirne sconfitto o stravolto. E che quindi anche il meno peggio dei sistemi possibili (la democrazia?) andrebbe salvaguardato e difeso.

Comunque, che la percentuale di imbecilli sia un portato biologico più o meno costante come sostiene Cipolla, o sia in aumento, come argomenta Aprile, essa è determinata anche dal contesto storico-culturale, (come denunciano F&L), e a sua volta lo condiziona. Questo ci porta direttamente all’oggi.

Esiste in effetti nella società post-moderna una formidabile pulsione a dare (e a lasciare) libero corso all’imbecillità; una pulsione la cui matrice è tutta culturale, nel senso che è legata da un lato alla disponibilità di strumenti di autorappresentazione e di interferenza alla portata di tutti, dall’altro alla crisi dei valori “forti” e al vuoto provocato dalla loro messa sotto accusa. In sostanza, gli stupidi non solo sembrano molti di più perché sono molto più visibili, si esibiscono e sono esibiti, mentre prima bene o male si tenevano (o erano tenuti) in disparte, ma sono anche cresciuti percentualmente di numero proprio perché l’allettamento della visibilità crea un effetto volano. Quindi, per rispondere a una delle domande che ponevo all’inizio, gli stupidi sembrano di più perché escono maggiormente allo scoperto, ma l‘anelito alla visibilità è anche un forte propellente, e perciò sono davvero di più. Del resto, lo possiamo constatare in qualsiasi settore della vita sociale.

La stupidità politica, ad esempio, è sempre esistita, e già la stigmatizzavano i classici, da Esiodo ad Aristofane. Ma oggi è enfatizzata da strategie di persuasione che si avvalgono di uno strumentario sofisticato e che snaturano completamente le regole e il senso della democrazia. Quest’ultima non ha mai funzionato perfettamente, proprio perché ostaggio del ricatto degli idioti, ma ha costituito comunque, almeno per l’età moderna, un traguardo ideale verso il quale muoversi, pur nella coscienza del suo difetto d’origine. Oggi non rappresenta più nemmeno quello, proprio perché per ragioni ideologiche al difetto d’origine non sono stati opposti dei correttivi. Il risultato è che masse enormi si spostano al guinzaglio di sempre nuovi cialtroni, e il disordine e i rifiuti prodotti dai loro spostamenti ricadono su tutta la comunità.

Queste masse hanno inoltre trovato, come diceva Eco, e come già prevedevano F&L, nel web lo strumento ideale per sentirsi protagoniste al riparo di quello che è comunque, anche per chi si firma con nome e cognome, un anonimato di fatto. Il che è l’esatto contrario della responsabilizzazione individuale, cosciente e consapevole, sulla quale dovrebbe fondarsi ogni partecipazione “politica”.

Quando diventa concreta, poi, la partecipazione così come oggi è intesa dà origine ad un’altra forma particolarmente odiosa di cretinismo, alimentata anch’essa da una ricerca di visibilità totalmente “irresponsabile”: è quella impersonata ad esempio dai famigerati “centri sociali”, dagli “antagonisti”, dagli “black bloc”, da quei gruppi nomadi di sballati che millantano oltretutto una appartenenza anarchica, senza conoscere alcunché della storia e delle idealità dell’anarchismo. Chi incendia i cassonetti dell’immondizia e divelle la segnaletica stradale per manifestare la sua opposizione allo stato non è un anarchico, ma un demente: oltretutto, in genere, quando anche si degni di dare un senso ai propri comportamenti demenziali, manifesta paradossalmente per chiedere un maggiore intervento dello stato (il reddito di cittadinanza!), legittimandone in sostanza l’azione d’ordine.

Nel diagramma di Cipolla si potrebbe riscontrare una migrazione di massa dal quadrante degli sprovveduti in quello degli stupidi, fermo restando l’affollamento in quello dei banditi.

Per quanto concerne la seconda domanda, se è sempre stato così, se il mondo è stato sempre nelle mani degli idioti o si sta invece verificando una situazione inedita, la risposta mi sembra implicita nella prima e in tutto ciò che ho scritto sopra. La quantità, oltre una certa misura, diventa qualità. E qui bisogna dare atto ad Aprile di aver centrato se non la diagnosi almeno l’anamnesi. Non è l’eccesso di cultura ad aver trasferito potere nelle mani degli stupidi, semmai si dovrebbe dire il contrario, ma lo è comunque l’uso puramente “strumentale” che se ne è fatto: vale a dire che all’avanzamento tecnologico non ha corrisposto una adeguata crescita etica, ovvero la capacità di gestire gli strumenti anziché esserne gestiti, di scegliere anziché esserne condizionati. Ciò vale, soprattutto nell’ultimissimo periodo, quello preso in considerazione nelle analisi di cui ho parlato e da queste note, per gli strumenti di rappresentazione e ricreazione virtuale dell’esistente.

Si ricade sempre nello stesso discorso. La nostra storia, intendo quella dell’umanità, è senz’altro anche una storia della stupidità, delle sue degenerazioni e delle sue tragiche conseguenze. Bilanciate comunque da una sufficiente dose salvifica di realismo, che imponeva alla fine, di volta in volta, soluzioni di buon senso. Oggi il realismo indotto dalla necessità pare scomparso, senza peraltro che sia scomparsa la necessità. È stato sostituito da una costante stupefazione artificiale, che azzera le distanze, appiattisce il tempo su l solo presente, annulla ogni profondità delle sensazioni e dei rapporti. La realtà è soppiantata dalla sua rappresentazione, quindi dalle infinite possibilità di una sua manipolazione. E quando la distinzione tra i due piani viene meno, la stupefazione si traduce in istupidimento. Ovvero, in una forma inedita di idolatria che non si volge solo all’esterno, ma ha come destinatario ultimo il soggetto stesso.

Quasi tutte le nuove fenomenologie della stupidità sono infatti legate alla seduzione dell’immagine. Soprattutto della propria. Quella che definirei una stupidità “di genere” si esprime ad esempio in comportamenti che nascono da aspirazioni più che legittime di emergere alla luce del sole per gli omosessuali, di sottrarsi ad una sudditanza millenaria per le donne, di godere di pari diritti e opportunità per gli uni e per le altre ma che queste aspirazioni poi le snaturano, in nome del conseguimento di una visibilità fino ad oggi negata, finendo per diventare puri pretesti alla gratuita esibizione di sé.

Allo stesso modo, la nuova frontiera della stupidità si manifesta in pratiche totalmente demenziali, come la caccia al rischio gratuito ed insensato. Tramontata l’epoca di coloro che cercavano la performance per motivi ideali (alpinisti, navigatori, esploratori, …; lasciamo perdere ciò che poteva esserci alle loro spalle), oggi per la maggioranza il mettersi a rischio (sport estremi, balconing e cretinate simili), o mettere a rischio anche gli altri, non è nemmeno più un espediente per sentirsi vivi, ma solo un pretesto per “immortalarsi” sul web.

In questa categoria rientrano in pieno anche le forme di stupidità impropriamente definite “sportive”, quelle di gruppo delle tifoserie e quelle individuali (i mentecatti che affiancano e infastidiscono i ciclisti nelle salite, magari nudi in mezzo a tormente di neve o infagottati in enormi peluches nel caldo torrido dei Pirenei, quelli che scandiscono slogan, espongono striscioni, creano coreografie negli stadi, disinteressandosi completamente dell’evento sportivo e cercando solo l’occhio delle telecamere).

Tutte queste manifestazioni ci confermano che è stato il mezzo televisivo ad abbattere le mura di Gog e Magog, a liberare le orde degli scemi che vivevano là dietro, spendendo le loro vite giustamente dimenticate a tessere piccole trame di stupidità domestica o di cortile. Fruttero e Lucentini erano già testimoni delle prime crepe, ma non potevano certo immaginare che il crollo sarebbe stato così repentino e totale. L’avvento della televisione commerciale ha scardinato le ultime porte e da allora gli ostacoli frapposti dal buon senso, dall’educazione, ma persino dal bigottismo o da una vituperata censura sono stati abbattuti con un’accelerazione vorticosa. Un vero tsunami di imbecillità ha travolto il globo intero, portando a galla naturalmente i cervelli dal peso specifico minore.

Oggi li ritroviamo intruppati nelle trasmissioni-verità, a vomitarsi addosso l’un l’altro le storie più squallide e gli insulti peggiori, col pubblico che tifa come nelle arene romane, altrettanto stupido e crudele, altrettanto avido di un effimero passaggio televisivo. Dilagano nelle rubriche di commento politico, impegnati a zittirsi vicendevolmente, sovrapponendo le voci in una gara che mira solo ad azzerare il contradditorio, e aizzati da conduttori che fanno domande stupide senza poi prestare alcuna attenzione alle risposte altrettanto idiote. E quelli che non trovano spazio lì, le masse di postulanti frustrate nel loro sogno del minuto di celebrità di cui parlava Andy Warhol, hanno ora a disposizione le praterie sterminate del web e colonizzano la rete.

Dalla demenzialità spettacolarizzata del Drive-in allo spettacolo della quotidianità demenziale, il passo è stato rapidissimo. L’ignoranza è rivendicata come qualità distintiva proprio mentre, purtroppo, non lo è più, in quanto generalizzata.

Potrei andare avanti con le esemplificazioni per pagine e pagine, ma non farei che ribadire cose che sono sotto gli occhi di tutti. E soprattutto alla fine non avrei alcuna proposta, alcun rimedio, alcun freno da proporre: d’altro canto, cosa si può fare? abolire la televisione e il web? sterilizzare gli imbecilli – ciò che se non altro concorrerebbe a risolvere immediatamente e drasticamente il problema demografico? Né l’una né l’altra soluzione, al di là dell’auspicabilità, sono praticabili. E comunque, anche fosse, non intaccherebbero affatto il potenziale bellico della stupidità, che è proteiforme e troverebbe subito altri canali di sfondamento. L’unico comportamento realistico nei suoi confronti è dunque imparare a coabitarci rifiutando però di conviverci. Ovvero, visto che dal dominio dei banditi siamo passati a quello degli imbecilli, adeguare alla nuova situazione gli strumenti di difesa e tenere coi denti ogni caposaldo.

È difficile? Certamente. Ma pur non essendo un ottimista inveterato continuo a credere che la resistenza abbia un senso, al di là della. sua valenza intrinseca, morale. Che possa insomma sperare in un successo, almeno parziale. Il perché di questa speranza è un po’ complicato da spiegare, e preferisco allora farlo con una riflessione estemporanea che riprende appunti buttati giù almeno vent’anni fa. Con qualche aggiornamento, mi sembra ancora valida.

Ogni mattina, appena sveglio, premo un interruttore. Si accende la luce. Mi alzo ed entro in bagno, apro un rubinetto e faccio scorrere acqua, calda o fredda, a piacimento, e pulita. Passo poi in cucina, schiaccio un pulsante, si avvia la fiammella del gas sotto la caffettiera. Tutti questi gesti li compio in automatico, ancora annebbiato dal sonno, ma qualche volta mi accade anche di sorprendermi. Se davvero siamo una società di imbecilli, mi chiedo, com’è possibile che l’interruttore della luce e l’erogatore del gas continuino a funzionare? Magari subito dopo vado a sedere sul terrazzino, per fumare la prima sigaretta, in attesa del gorgoglio della caffettiera; oppure, specie in inverno, mi capita di attivare il telecomando per conoscere i risultati sportivi del giorno precedente, o per aggiornarmi sugli ultimi scandali politici: e allora scatta una contro-riflessione, di segno diametralmente opposto. Ma la sostanza della domanda rimane. E la risposta non può essere che una: ci saranno senz’altro molti imbecilli, e i monopoli di stato li assecondano, o la televisione te li porta direttamente in casa, ma è evidente che ci sono anche molti che con il loro contributo, piccolo o grande che sia, fanno funzionare il mondo in un certo modo.

L’esistenza di gente che sa fare il proprio lavoro, e che lo fa bene, è sufficiente garanzia contro la stupidità? No, certamente, altrimenti Eichmann e tutti gli efficienti burocrati dello sterminio sarebbero da proporre come esempi. Io parlo di chi fa il proprio lavoro con coscienza, e questo non significa solo far funzionare bene i meccanismi, ma sapere a quale scopo funzionano, e sentirsi parte di questo funzionamento, mantenendo intatta la propria autonomia critica. Il discrimine è senz’altro molto vago, perché si può anche essere convinti di agire per il bene comune e combinare disastri: ma la coscienza è anche capacità di conoscere i limiti delle proprie competenze, e a non averla si ricade comunque nella stupidità.

So anche che la mia è una visione parziale del problema. Che per buona parte dell’umanità il risveglio è meno soft, non hanno la luce e il gas e nemmeno la caffettiera, e comunque non avrebbero l’acqua per riempirla. Non parliamo poi del caffè e della televisione. Ma devo considerare che una condizione del genere era comune anche ai nostri antenati: l’ha conosciuta ancora mio nonno. Non solo: ai suoi tempi, anche in tutto il mondo occidentale la gente moriva di tubercolosi e un’epidemia conosciuta come “spagnola” mieteva decine di milioni di vittime. Ai miei, all’epoca della mia infanzia, la poliomielite colpiva un bambino su dieci, e in Cina la carestia uccideva almeno trenta milioni di persone.

E allora? Nell’equilibrio generale del sistema, come direbbe Cipolla, e anche Aprile, chi ha prevalso?

Alle leggi fondamentali della stupidità io farei una chiosa. È indubbio che il numero degli stupidi sia sempre più grande di quanto noi immaginiamo, ma questo in realtà ha senso solo in un rapporto relativo: voglio dire che noi siamo in grado di immaginare sì dei grandi numeri, ma non dei grandi numeri di persone. Ad esempio, quattro milioni è una cifra neutra, riesco a immaginarli in euro, anche se non li ho mai visti e dubito che mai li vedrò, o di leucociti, anche se vale la stessa cosa, perché moltiplico semplicemente una cosa per enne volte. Ma mi riesce già impossibile, al di là dell’agghiacciante effetto quantitativo, pensare a quattro milioni di morti nei campi di sterminio, se non cercando di immaginarli a gruppi, a colonne, a mucchi di cadaveri. Non ce la faccio, è materialmente (e psicologicamente) insostenibile cercare di metterli a fuoco uno ad uno. Lo stesso vale per gli stupidi. Per quanto vaste siano le nostre relazioni, noi conosciamo per forza di cose un numero relativamente limitato di stupidi, e siamo naturalmente passibili di conoscerne sempre di nuovi. Ciò che ci porta a generalizzare in termini di percentuali il fenomeno.

La stessa considerazione deve valere però, a questo punto, per le persone intelligenti. Magari ne conosciamo poche, ma ogni giorno possiamo incontrarne sempre di nuove. E soprattutto, siamo in condizione di supporne l’esistenza, anche quando non arriveremo mai a conoscerle, attraverso la fiammella del gas o l’acqua che scorre.

Tra me e chi mi fornisce l’energia e l’acqua ci sono indubbiamente uno stuolo di scocciatori telefonici, di profittatori, di banditi che sfruttano il terzo mondo, e probabilmente un sacco di stupidi, ma ci sono anche tecnici che sanno fare il loro lavoro, e se il gas mi arriva ogni mattina significa che lo fanno con coscienza. Non li conosco, ma devo necessariamente pensare che ci siano. Più sopra parlavo, a proposito della percentuale degli imbecilli, di un ambiente che mi è familiare, quello della scuola. Sono il primo ad affermare che nella scuola ho incontrato un sacco di persone stupide o incapaci, tra i docenti come tra gli allievi e i genitori, ma devo anche convenire che la scuola bene o male sta in piedi, malgrado tutti gli idioti che remano contro, perché è comunque piena di gente di buona volontà.

Tutto questo è ovvio: ma quando ci si infila in un discorso sulla stupidità si finisce appunto per darlo per scontato e dimenticarlo. Lo faccio adesso, anche a rischio di sembrare un po’ stupido, perché ho l’impressione che tutte e tre le interpretazioni che ho proposto presentino delle aporie, e rischino di avallare, a dispetto degli intenti e dell’intelligenza di chi le ha avanzate, proprio quell’atteggiamento qualunquistico, irridente e presuntuoso che in fondo è la cifra più tipica della stupidità.

Sulla teoria di Cipolla ho già espresso le mie osservazioni. È molto divertente, è fondata, ma sul nostro rapporto quotidiano con la stupidità, che è quello che ci tocca e sul quale dobbiamo parametrare la nostra reazione, in realtà dice poco.

Anche quella di Aprile va presa con una punta di ironia, ma si presta molto al gioco al massacro di chi cerca alibi per non assumersi responsabilità. Al netto di tutto il discorso, infatti, non rimane che la constatazione che lottare contro la stupidità è impresa donchisciottesca, non solo destinata al fallimento, ma insensata già in partenza.

Più complessa mi sembra la posizione di Fruttero e Lucentini: da un lato denunciano dei sintomi non più trascurabili e inequivocabili, dall’altro rischiano di cascare, quando formulano la diagnosi e cercano gli agenti patogeni, nell’errore dell’ammucchiata, finendo per dire talvolta le stesse cose che appartengono proprio a coloro che della stupidità “emancipata” sono stati i vessilliferi.

La mia mattinata però non è finita. Scendendo in strada con le borse dei rifiuti, diligentemente differenziati, e trovando al solito i cassonetti completamente intasati, non posso fare a meno di ripensare a come si viveva a casa mia fino a sessant’anni fa. L’organico non costituiva un problema, per maiali e galline era una vera festa, e comunque si buttava davvero poco, nessun prodotto ha mai avuto il tempo di scadere (la scadenza non era segnata sull’involucro, ma segnalata al massimo dall’odore). La plastica non c’era, così come le lattine e i contenitori in alluminio, la carta era preziosissima per accendere la stufa. Il vetro era a rendere, quello del latte (ma a casa mia neppure quello) o a riutilizzare, quello di fiaschi e bottiglie. Non esisteva neppure il problema degli ingombranti: non c’era mobilio da buttare, per male in arnese che fosse era comunque di legno, e si trasformava direttamente in calore: lavatrici e frigoriferi e televisori erano di là da venire, le biciclette passavano di padre in figlio, ogni pezzo di ferro trovava un suo utilizzo, magari il più impensato ed ingegnoso. Lo stesso valeva per l’indifferenziato: vestiario e calzature. All’erba del giardino provvedevano i conigli.

Ci risiamo. Ho appena finito di pensare che in fondo le cose non sono andate ultimamente così male, e che quindi la stupidità non ha affatto trionfato, e già tornano i dubbi. Ora, non si tratta di fare l’elogio del tempo che fu, ma forse una relazione tra la polluzione attuale e l’aumento esponenziale dell’imbecillità esiste. Forse davvero ci siamo spinti troppo avanti, e non siamo già più in grado di governare gli effetti delle nostre innovazioni. E allora la tesi di Aprile tanto peregrina magari non è: l’umanità, almeno come specie, almeno sul piano della sopravvivenza biologica, forse possono salvarla solo gli imbecilli. O forse, e anche questo non è così improbabile, la cancelleranno una volta per tutte e chiuderanno l’anomalia creatasi quattro o cinque milioni di anni fa.

Nell’uno e nell’altro caso, è consolante sapere che non ci saremo.

 

Un’appendice bibliografica….

In questo scritto si è parlato di:

Pino Aprile – Elogio dell’imbecille – Piemme, 1997

Carlo Maria Cipolla – Allegro ma non troppo– Il Mulino, 1980

Umberto Eco – Il pendolo di Foucault – Bompiani, 1988

Umbero Eco – Diario minimo – Mondadori, 1963

  1. Fruttero – F. Lucentini – La prevalenza del cretino – Mondadori, 1985

Ma si è anche accennato a:

Mats Alvesson – Il paradosso della stupidità – R. Cortina, 2017

Robert Ardrey – L’istinto di uccidere: le origini e la natura animali dell’uomo, Feltrinelli, 1968

Gustave Flaubert – Bouvard e Pécuchet – Mondadori, 1993

Robert Musil – Sulla stupidità e altri scritti, Mondadori, 1986

Avital Ronell, – Stupidity – UTET, 2009

Trattazioni non specifiche ma interessanti si possono trovare in:

Michel Foucault – Storia della follia nell’età classica – Rizzoli 1963

Gottfried W. Leibniz – Nuovi saggi sull’intelletto umano – Laterza 1988

Immanuel Kant – Critica del giudizio – Laterza 1997

Infine, si può risalire alle fonti letterarie con:

Aristofane – Commedie – UTET, 2007

Miguel de Cervantes – Don Chisciotte della Mancia – Bompiani, 2012

Fëdor Dostoevskij – L’idiota – Mondadori, 1995

Erasmo da Rotterdam – Stulticiae laus (Elogio della follia) – Einaudi 1997

Plauto – Commedie – Einaudi 1975

William Shakespeare – Come vi piace – Rizzoli 1983

Oscar Wilde – Saggi – Mondadori 1981

 

 

…e un’ultima riflessione

Dopo aver chiuso questo scritto (con molta insoddisfazione, lo confesso, perché l’argomento si è dimostrato ancor più sfuggente del previsto, e mi rendo conto di non aver trovato veri punti d’appoggio, non dico per proporre cose memorabili, ma neppure per tentare un approccio sensato) mi è rimasta addosso la voglia di verificare quale fosse lo stato dell’arte sul tema. Sembra capiti sempre così, che persino chi scrive di serial killers maturi una fascinazione per l’oggetto del suo racconto. E già questo è un indizio della nostra estrema fragilità. Comunque, l’ho fatto tramite internet e ho naturalmente constatato che avrei dovuto farlo prima, perché il web mi riservava una vera sorpresa. Musil oggi rimarrebbe di stucco e sarebbe comunque sconfessato, perché c’è davvero un sacco di gente che si confronta con la stupidità. Anche prescindendo dalle raccolte di aforismi, sterminate, ho trovato almeno un’altra decina di titoli molto recenti che affrontano la questione da diversi punti di vista, sia pure senza abbandonare la sicura postazione nella camera stagna dell’ironia. Giudicate voi: mi limito a citare quelli indigeni o tradotti in italiano comparsi nel nuovo millennio:

Piero Paolicchi – Il fattore I. Per una teoria generale dell’imbecillità – Edizioni Felici, 2006

Giancarlo LivraghiIl potere della stupidità – Monti&Ambrosini 2007

José Antonio Marina – Il fallimento dell’intelligenza: teoria e pratica della stupidità – Longanesi, 2006

Francesco Betti – Le strategie della stupidità. Perché siamo stupidi. Perché siamo geniali – ETAS, 2006

Fausto Manara – Il sale in zucca. Vivere con la testa e con il cuore per difenderci dalla stupidità – Sperling & Kupfer, 2003

Carl Aderhold – La strage degli imbecilli – Fazi Editore, 2009

Eleonora de Conciliis – Pensami, Stupido! La filosofia come terapia dell’idiozia – Mimesis, 2008

Battistelli, P., Cattini, C., Melotti, G. (2003) – Stupidità. L’altra faccia dell’homo sapiens. In “Psicologia contemporanea,”, vol. 180

Paolo LegrenziNon occorre essere stupidi per fare sciocchezzeil Mulino, 2010

Ferrando Mantovani – Stupidi si nasce o si diventa? Compendio di stupidologia – ETS, 2015

Ora, la cosa divertente è che in tutti quelli che sono riuscito frettolosamente a sbirciare si lamenta in apertura la scarsa attenzione prestata al tema. Del resto l’ho fatto anch’io, prendendo evidentemente una grossa cantonata. A quanto pare di stupidità si parla invece parecchio, e questo può significare due cose: o davvero la sua visibilità è diventata tale da creare un serio allarme, e allora giustamente da più parti si cerca di intervenire in qualche modo a mettere in guardia; oppure, e ho la sensazione sia più probabile, si tratta solo di una manifestazione ulteriore di quella corsa all’affabulazione a ruota libera su qualsiasi tema che costituisce una delle manifestazioni più ambigue e subdole della stupidità stessa, quella che brucia ogni argomento impedendogli in pratica di essere affrontato seriamente.

Sul mio giudizio pesa sicuramente la sindrome dell’assedio che da un po’ di tempo a questa parte mi tormenta, quando vedo tutti gli argomenti che avevo gelosamente coltivato per oltre sessant’anni arrembati dai cacciatori di terre incognite, tanto che mi ritrovo nella condizione raccontata dal Capo Ramazza Bromden, l’amico di Mc Murphy in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, la cui tribù aveva la sventura di attendarsi ogni volta su un terreno petrolifero, e di esserne sistematicamente cacciata, fino al punto da essere preceduta, in ogni direzione possibile, dai trivellatori. Io mi sento così: ho quasi paura di pensare a qualcosa, nella certezza che c’è già qualcuno che si organizza per sottrarmela.

Probabilmente anche questa sindrome è un effetto della consuetudine con l’argomento della stupidità. Come temevo, qualcosa ti rimane addosso: anche perché l’attitudine di cui parlo nel testo è comune a tutti, solo distribuita in percentuali diverse. Non vorrei che la natura fosse stata nei miei confronti sin troppo generosa.

Il mondo nelle mani degli stolti 03